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Il mostro del supermercato

Beba ebbe un giramento di testa.

Artigliò il carrello con una mano, chiudendo gli occhi per non dover guardare troppo a lungo quell’orrore.

«Che succede?» le chiese la mamma.

«Niente» rispose lei con un finto sorriso. «Lascia, lo porto io».

La mamma la osservò sospettosa, prima di lasciarle il posto. «Vado a cercare gli spaghetti. Tu prendi una barretta di cioccolata, che sono in offerta»

«Devo proprio?»

La mamma si allontanò. «Scegline una con le nocciole, come piace a tuo fratello».

Beba la guardò inoltrarsi tra gli scaffali e svoltare l’angolo, diretta al settore della pasta e dei sughi.

Spinse il carrello verso il cesto dove i commessi del supermercato avevano ammucchiato le barrette, cercando di tenere basso lo sguardo. San Valentino era passato da quasi un mese, pretendendo come ogni anno sacrifici di cioccolata e cuoricini. Ma le scorte dovevano essere ancora abbondanti e, per la gioia della mamma, ormai le confezioni di dolciumi tematizzate erano in svendita. Ovviamente, le aveva concesso l’acquisto di una sola barretta, perché in casa loro gli sfizi non erano ben accetti. E, ancora più ovvio, l’unica barretta doveva essere quella che piaceva a Renato. Povero cucciolo, cocco di mamma. Ma a quelle preferenze era abituata.

Il “mostro” la bloccò prima di arrivare a destinazione, costringendola a rialzare la testa. Dominava l’incrocio dei corridoi svettando verso il soffitto, osservandola dall’alto come se fosse pronto ad abbattersi su di lei.

“Piantala, Beba” cercò di rassicurarsi. “Non è nemmeno così alto”.

“Ma è così… perfetto” rispose un’altra parte del suo cervello.

Chissà quale genio del marketing aveva deciso che il prodotto di punta della primavera in arrivo sarebbe stata una tazza di metallo lucente con sopra stampato il nome di chi l’avrebbe utilizzata. In preda a una folle velleità artistica, i commessi avevano impilato decine di quelle tazze a formare una colonna con base ottagonale alta un paio di metri. Non solo, la sfumatura dei colori saliva a spirale riflettendo le luci al neon. Quasi nere come la notte, in basso, per poi virare verso il viola dalla seconda fila, e, in successione, arrivavano il blu, il celeste, il verde, e poi il giallo, l’arancione, il rosso e quindi di nuovo il viola e il nero, sulla cima, come a voler ricominciare quella sequenza infernale. E poi tutti quei nomi, dai più comuni ai più assurdi (chi poteva chiamare il proprio figlio Anacleto?), a riempirle la testa.

Non erano i nomi a infastidirla. Era l’impeccabilità della torre a farla star male, la precisione con cui le tazze erano disposte con angoli dalla perfezione goniometrica. 135° l’uno, come geometria comanda.

Beba odiava la geometria e la matematica tutta, così ordinata e precisa. E poi la insegnava la professoressa Lapetti, l’emblema dell’antipatia. Molto meglio le lezioni di artistica del professor Bondi, durante le quali poteva sfogare l’amore per il disordine mascherandolo dietro l’intenzione di esprimere il suo “stile”. Odiava la matematica, eppure la conosceva meglio di chiunque altro a scuola.

Dannati commessi, perché non avevano disposto le tazze sugli scaffali o, ancora meglio, in un cestone, alla rinfusa, come avevano fatto per le barrette di cioccolato avanzate? Il caos era la forza primordiale che governava l’universo, cosa spingeva a comprimerlo in un ordine tanto rigido?

Si guardò intorno con fare furtivo. Doveva essere rapida e precisa. Naturale, soprattutto. Si mosse in avanti sorridendo. Quando fu accanto alla torre fece un oh di stupore, prima di chinarsi a far finta di allacciare una scarpa. Un gesto veloce, una mano che si avvicinava alla base di una tazza appoggiata sul pavimento e la spingeva leggermente in avanti. Giusto pochi centimetri, quanto bastava per far sporgere nel vuoto il baricentro della tazza che si trovava sopra.

Soddisfatta, Beba tornò a spingere il carrello verso i cesti delle barrette. Ne prese una al cioccolato bianco, quello che piaceva a lei. Magari la mamma non se ne sarebbe accorta, nella fretta di tornare a casa. Quella sera si sarebbe sorbita le proteste di Renato sul fatto che il cioccolato bianco non era davvero cioccolato, ma a lei non interessava. Avrebbe ascoltato le sue elucubrazioni sulla differenza tra cacao e burro di cacao sgranocchiando la barretta.

Sentì sua madre che la chiamava. Non si voltò, perché sapeva che il momento era giunto.

«Tre…» mormorò «due…» sospirò «uno…»

Il fragore della torre che crollava tra le grida dei clienti le risalì lungo il petto e si concentrò in un sorriso. L’intero supermercato fu invaso da lamenti metallici che echeggiarono tra gli scaffali, rimbalzarono sui soffitti e precipitarono ad aggredire le povere orecchie degli spettatori di quel trionfo di suoni disarticolati.

Beba attese che l’ultima tazza terminasse di saltare sulle mattonelle. Il caso volle che si bloccasse contro la scarpa che aveva finto di allacciare, come un tributo al vincitore. Solo allora ruotò su se stessa, resistendo alla tentazione di saltellare sul posto. Il pavimento era ricoperto da tazze di tutti i colori, sparse ovunque senza uno schema preciso. Ci sarebbero volute ore per rimettere tutto a posto e molte sarebbero rimaste ammaccate. Beba respirò a pieni polmoni, soddisfatta del caos che aveva ripristinato. La primavera era alle porte e il suo profumo si sentiva già nell’aria.

LuCa Di GiAlLeOnArDo (1977) vive a Roma. Autore di romanzi storici e di gialli, scrive anche libri per ragazzi, storie fantasy e di fantascienza e si diletta nel game design di giochi da tavolo. Con Gallucci ha pubblicato la prima storia dei Fuoriposto: La mummia scomparsa.

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In copertina

Illustrazioni: Betti Greco

Art director: Stefano Rossetti

Graphic designer: PEPE nymi

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