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Nota introduttiva

Il libro che state per leggere è uno dei più famosi di tutti i tempi. Il suo autore, il francese Antoine de SaintExupéry, l’ha scritto nel 1943, in un momento molto drammatico della sua vita: era infatti in corso la Seconda guerra mondiale, la Francia era stata sconfitta e occupata dalla Germania.

Saint-Exupéry era uno scrittore famoso, ma di mestiere faceva il pilota di aerei e partecipava alla guerra. Pochi mesi dopo l’uscita del Piccolo Principe, durante una missione in mare aperto, il suo aereo venne colpito da un caccia tedesco e precipitò. Dello scrittore non si seppe più nulla. Il Piccolo Principe è dunque l’ultimo libro da lui scritto, oltre che il più famoso.

Ma che cos’è questo libro – una fiaba per bambini o un romanzo per adulti? È un’opera di fantasia o nasconde un messaggio più profondo? Forse tutto questo, e altro ancora. E perché è diventato così famoso e così amato in tutto il mondo?

Non resta che leggerlo, per scoprirlo.

A Léon Werth

Chiedo perdono ai bambini per aver dedicato questo libro a un adulto. Ho una scusa seria: questo adulto è il miglior amico che io abbia al mondo. Ho un’altra scusa: questo adulto è in grado di capire tutto, anche i libri per bambini. Ho una terza scusa: questo adulto vive in Francia, dove soffre la fame e il freddo. Ha bisogno di essere consolato. Se tutte queste scuse non bastano, voglio dedicare questo libro al bambino che questo adulto è stato un tempo. Tutti gli adulti all’inizio sono stati bambini. (Ma pochi di loro se ne ricordano). Correggo dunque la mia dedica:

A Léon Werth quand’era piccolo

Capitolo I

Quando avevo sei anni una volta ho visto una magnifica immagine in un libro sulla Foresta Vergine che si intitolava “Storie Vere”. Rappresentava un serpente boa che ingoiava un animale. Ecco la copia del disegno.

Nel libro si diceva: “I serpenti boa ingoiano la preda tutta intera, senza masticarla. Poi non possono muoversi e dormono durante i sei mesi della digestione”.

A quel tempo ho riflettuto molto sulle avventure nella giungla e a mia volta sono riuscito, con una matita colora- ta, a tracciare il mio primo disegno. Il mio disegno numero 1. Era così:

Ho mostrato il mio capolavoro agli adulti e ho chiesto se il mio disegno gli faceva paura.

Mi hanno risposto: – Perché un cappello dovrebbe fare paura?

Il mio disegno non rappresentava un cappello. Rappresentava un serpente boa che digeriva un elefante. Allora ho disegnato l’interno del serpente boa, perché gli adulti potessero capire. Gli adulti hanno sempre bisogno di spiegazioni. Il mio disegno numero 2 era così:

Allora gli adulti mi hanno consigliato di lasciar perdere i serpenti boa disegnati da dentro o da fuori e di dedicarmi piuttosto alla geografia, alla storia, al calcolo e alla grammatica. È così che, all’età di sei anni, ho rinunciato a una splendida carriera di pittore. Ero rimasto scoraggiato dall’insuccesso sia del mio disegno numero 1 sia del mio disegno numero 2. Gli adulti non capiscono mai niente da soli ed è faticoso, per i bambini, dare sempre spiegazioni.

Ho dovuto quindi scegliere un altro mestiere e ho imparato a pilotare gli aerei. Ho volato un po’ dappertutto nel mondo. E la geografia, è vero, mi è servita molto. Saper riconoscere a colpo d’occhio la Cina o l’Arizona è utile, se ci si perde di notte.

Ho così avuto, nel corso della mia vita, un sacco di contatti con un sacco di persone serie. Ho vissuto molto con gli adulti. Li ho visti da molto vicino. Questo non ha migliorato gran che la mia opinione su di loro.

Quando ne incontravo uno che mi sembrava abbastanza intelligente, facevo con lui l’esperimento del disegno numero 1, che ho sempre conservato. Volevo sapere se era davvero capace di comprensione. Ma sempre mi rispondeva: – È un cappello.

Allora non gli parlavo di serpenti boa, né di foreste vergini, né di stelle. Mi mettevo sul suo piano. Gli parlavo di bridge, di golf, di politica e di cravatte. E l’adulto era ben contento di aver conosciuto un tipo così ragionevole.

Capitolo II

Così ho vissuto solo, senza nessuno con cui parlare davvero, fino a un incidente nel deserto del Sahara, sei anni fa. Qualcosa si era rotto nel motore del mio aereo. E siccome non avevo con me né un meccanico, né dei passeggeri, mi preparai a tentare, da solo, una difficile riparazione. Era questione di vita o di morte, per me. Avevo acqua da bere appena per otto giorni.

La prima sera mi sono quindi addormentato sulla sabbia a mille miglia da qualsiasi territorio abitato. Ero molto più isolato di un naufrago su una zattera in mezzo all’oceano. Immaginatevi quindi la mia sorpresa quando, all’alba, una strana vocina mi ha risvegliato. Diceva:

– Per favore… disegnami una pecora.

– Eh?

– Disegnami una pecora…

Sono balzato in piedi come se mi avesse colpito un fulmine. Mi sono fregato ben bene gli occhi. Ho guardato ben bene. E ho visto un omino assolutamente straordinario che mi scrutava con serietà. Ecco il miglior ritratto che, più tardi, sono riuscito a fare di lui.

Ma il mio disegno, naturalmente, è assai meno affasci- nante del modello. Non è colpa mia. Nella mia carriera di pittore ero stato scoraggiato dagli adulti all’età di sei anni e non avevo imparato a disegnare altro che boa da fuori e boa da dentro.

Guardai dunque quell’apparizione con gli occhi sbarrati dalla sorpresa. Non dimenticate che mi trovavo a mille miglia da qualsiasi zona abitata. Eppure il mio ometto non mi sembrava né smarrito, né morto di fatica, né morto di fame, né morto di sete, né morto di paura. Non aveva per niente l’aria di un bambino perduto in mezzo al deserto, a mille miglia da qualsiasi zona abitata. Quando finalmente riuscii a parlare, gli dissi:

– Ma… cosa ci fai qui?

Lui mi ripeté allora, dolcemente, come se si trattasse di una cosa molto seria:

– Per favore… disegnami una pecora.

Quando il mistero è troppo impressionante, non si osa disubbidire. Per quanto assurdo mi sembrasse a mille miglia da qualsiasi luogo abitato e in pericolo di vita, tirai fuori di tasca un foglio di carta e una stilografica. Ma in quel momento mi ricordai che avevo studiato soprattutto la geografia, la storia, il calcolo e la grammatica e (un po’ di malumore) dissi all’ometto che non sapevo disegnare. Lui mi rispose: – Non importa. Disegnami una pecora.

Siccome non avevo mai disegnato una pecora, rifeci per lui uno degli unici due disegni che sapevo fare. Quello del boa da fuori. E rimasi stupefatto nel sentire l’ometto ribattere:

– No! No! Non voglio un elefante dentro a un boa. Un boa è molto pericoloso e un elefante è molto ingombrante. Da me è tutto piccolo. Ho bisogno di una pecora.

Disegnami una pecora.

Allora feci questo disegno:

Lui lo studiò con attenzione, poi disse:

– No! Questa è già molto malata. Fanne un’altra.

Feci un altro disegno:

Il mio amico sorrise gentilmente, con indulgenza:

– Vedi bene… questa non è una pecora, è un montone. Ha le corna…

Rifeci ancora una volta il mio disegno:

Ma venne rifiutato come i precedenti:

– Questa è troppo vecchia. Io voglio una pecora che viva a lungo.

Allora, persa la pazienza, poiché avevo fretta di incominciare a smontare il mio motore, scarabocchiai questo disegno:

E gli dissi:

– Questa è la cassetta. La pecora che vuoi è dentro.

Ma fui molto sorpreso nel vedere il volto del mio piccolo giudice che si illuminava:

– È proprio come la volevo! Credi che avrà bisogno di molta erba questa pecora?

– Perché?

– Perché da me è tutto piccolo.

– Basterà di sicuro. Ti ho fatto una pecora molto piccola.

Inclinò la testa verso il disegno:

– Non tanto piccola… To’! Si è addormentata… Così feci conoscenza con il Piccolo Principe.

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