LA RINASCITA
Dalla resistenza alla costituzione
Come finisce un regime
Da decenni gli storici s’interrogano sul segreto di quel ristrettissimo giro di anni – solo trentasei mesi: dal 25 aprile 1945 al 18 aprile 1948 – in cui l’Italia devastata dalla guerra e da vent’anni di dittatura fascista, appena liberata, seppe rimettersi in piedi e ricostruire le basi istituzionali, economiche e civili della sua rapidissima rinascita. Tuttavia, come sempre nella storia, nulla nasce dal vuoto. Non si comincia mai veramente dall’inizio. Non esistono «anni zero». Così, per capire la nuova epoca che si apre in quel 25 aprile, bisogna ricominciare dal 25 luglio di due anni prima, dalla caduta di Benito Mussolini e dalla difficile fase di interregno che si apre tra la fine del regime fascista e la Liberazione. Una partenza, peraltro, niente affatto incoraggiante. Alla caduta del regime, infatti, il maresciallo Pietro Badoglio assume la guida del governo e avvia quasi subito trattative con gli Alleati per giungere all’armistizio dell’8 settembre, e lo fa con quelle che lo storico Alberto Leoni, nel suo libro Il paradiso devastato. Storia militare della campagna d’Italia 1943-1945 (Ares), ha definito «annotazioni demenziali», fatte pervenire, tramite il generale Giuseppe Castellano, al comando alleato a Cassibile.
«Non possiamo dichiarare l’accettazione di armistizio se non a sbarchi avvenuti di almeno quindici divisioni, la maggior parte di esse fra Civitavecchia e la Spezia» intima per esempio agli angloamericani, che ovviamente non ci fanno neanche caso e in settembre sbarcano a Salerno con cinque divisioni.
Più inquieto, e a tratti inquietante, è il tono con cui quei giorni sono raccontati nel diario dell’ufficiale d’ordinanza di Umberto di Savoia, Francesco di Campello. Definisce «bestiale» che il padre del suo assistito, Vittorio Emanuele III, abbia destituito Mussolini «in maniera poliziesca».
E «una vergogna» aver fatto arrestare il Duce all’uscita da Villa Savoia.
Dopodiché, secondo Campello, il sovrano avrebbe dovuto abdicare all’istante. Riferisce come Umberto sia stato colto di sorpresa dalla notizia dell’armistizio, l’8 settembre: «Salgo precipitosamente dal Principe e, non trovandolo nel suo studio, entro in camera sua e poi in camera da bagno, dove lo trovo a torso nudo che sta insaponandosi la barba. Così gli dico dell’armistizio. Rimane col pennello a mezz’aria e mi guarda, un attimo, con gli occhi sbarrati».
La fuga da Roma – dice Campello – sembra a Umberto «una vera pazzia» ma il principe obbedisce al padre che lo vuole con sé a Brindisi. Nei confronti di Badoglio ha parole sprezzanti. Carlo Sforza (già ministro degli
Esteri nel 1920-21 con Giovanni Giolitti e futuro ministro, sempre agli Esteri, dal 1947 al 1951, con Alcide De Gasperi) è definito «un ignobile cialtrone» o «un losco individuo»: quando Enrico De Nicola suggerisce di inserire Sforza in una combinazione di governo, Campello si domanda come sia «possibile che un uomo intelligente come De Nicola non capisca che un simile bubbone malefico infetterebbe qualsiasi onesta soluzione».
Lo storico Adolfo Omodeo – per aver conferito una laurea honoris causa al generale statunitense Mark Clark, non già «in nome di Sua Maestà» bensì «in nome del popolo» – viene considerato da Campello «una sporca figura»; il generale Mason MacFarlane è descritto «in tenuta volutamente trasandata, sporco, faccia decisamente antipatica»; il generale Smith «un villano». I leader dei partiti antifascisti a Bari gli appaiono, a fine gennaio del 1944, «quattro cialtroni politicanti, capeggiati da Croce, Sforza e compagni».
Colpisce la durezza di tali giudizi da parte dell’aiutante di campo di quello che, di lì a due anni, nei panni di «re di maggio», verrà presentato come il volto nuovo di casa Savoia.
Ma c’erano posti in cui quello che stava accadendo si intravedeva (e, in un certo senso, si preparava) meglio e di più. Straordinarie per capire quegli anni sono le pagine del diario di Vito Guarrasi pubblicate da Castelvecchi nel libro, a cura di Marianna Bartoccelli e Francesco D’Ayala, L’avvocato dei misteri. Storia segreta di Vito Guarrasi, l’uomo dei consigli indispensabili che ha condizionato il potere italiano. Guarrasi (all’epoca capitano), assieme all’amico Galvano Lanza di Trabia, fu a fianco del generale Castellano nel preparare, tra Algeri (quartier generale di Eisenhower) e Cassibile, la svolta dell’8 settembre 1943. Guarrasi annota tutto, anche dettagli minori; parla con humour di Lanza (che «ingerisce dodici salsicce e non credo abbia competitori nella missione italiana») e di sé («la sera mangio poco perché il menù è tipicamente americano e prendo con esso confidenza molto lentamente […], appena levato riesco però comodamente a mangiare due uova al piatto, della salsiccia, toast con burro e marmellata e una piccola tazza di caffè e latte […], il generale sempre molto parco e schizzinoso, mi guarda con aria fra la sorpresa e il disprezzo, ma ciò non diminuisce il mio appetito, tanto più che ad Algeri comincia a far fresco»).
Le chiacchiere da breakfast con Eisenhower gli consentono di intendere, prima di altri, qualcosa di fondamentale. Già il 25 ottobre 1943 sa che, dopo la presa di Roma, il destino di Badoglio sarà segnato; che Dino Grandi non avrà alcun futuro «perché ha troppo collaborato col partito fascista»; e che l’appoggio degli Alleati al conte Sforza «non deve essere interpretato come un segno che questi lo vedrebbero volentieri come capo del governo». Lì, tra americani e siciliani, si capisce con grande anticipo quel che stava per accadere in Italia. Probabilmente, scrivono Bartoccelli e D’Ayala, cominciò in quelle settimane ad Algeri e senza che nessuno allora se ne rendesse conto, la «lenta marcia» definita da Leonardo Sciascia «la linea di avanzata della palma o del caffè ristretto verso i centri del potere politico ed economico nazionale».
Un uomo che capisce bene quel che c’è da capire a quei tempi è il non an -
cora trentenne Roberto Ducci, destinato a diventare, nel dopoguerra, uno dei più importanti ambasciatori italiani. Scrive Benedetto Croce in una pagina di diario dell’11 dicembre 1943: «Ho conversato con un funzionario del ministero degli Esteri, venuto da Brindisi e figlio di un ammiraglio, che Elena conosceva e mi ha presentato; il quale è venuto a dirmi che colà si tiene che io sia stato convertito dallo Sforza alla repubblica e che la reggenza è per noi un trucco per liberarci della monarchia […]. Mi ha ripetuto la solita cantilena: che il re, tanto, non se ne vuole andare e che noi facciamo un buco nell’acqua, e perciò ci conviene transigere». Quel giovane presentato a Croce dalla figlia Elena era, appunto, Ducci che, assieme all’amico Antonio Venturini, ai primi di ottobre del ’43 aveva passato le linee tedesche e aveva raggiunto Brindisi, dove già da settembre si erano rifugiati il re e Badoglio. Lì si era messo a disposizione di Renato Prunas che, da segretario generale, aveva nei fatti il ruolo di ministro degli Esteri. Per conto del re, Ducci svolse missioni delicate come quella da Croce, al cui cospetto comprese quanto le menti erano poco sgombre dalle diffidenze che si erano andate creando negli anni precedenti. C’è un «appunto per il maresciallo Badoglio», scritto il 15 ottobre 1943 e firmato da Ducci e Venturini, in cui si avverte il capo del governo che a Roma «l’opinione pubblica, mentre si infiammava rapidamente contro gli ex alleati (i tedeschi) che apparivano ormai nella loro vera veste di padroni e di oppressori, rivolgeva accuse gravissime alla Corona, al governo e ai capi militari […]. Si imputava al governo di avere concluso l’armistizio al solo scopo di avere salvato la Corona, mettendola sotto la protezione delle armi angloamericane che la avrebbero ricondotta a Roma al loro seguito […]. Si accusavano i capi militari di impreparazione, inefficienza e vigliaccheria; si diceva dei partiti estremi che vi erano state formali promesse di armare le popolazioni civili e che esse non erano state mantenute per il timore che le armi concesse al popolo fossero conservate per essere utilizzate in un secondo tempo per fini politici».
Ma Ducci si sarebbe anche accorto per tempo di quanto gli angloamericani fossero irritati per l’iniziativa di Prunas, il quale portò a termine la trattativa con il russo Andrej Vyšinskij per il riconoscimento sovietico del Regno del Sud. Trattativa che ebbe i suoi effetti sul segretario del Pci, Pal -
miro Togliatti, il quale, appena rientrato dall’esilio, annunciò, a Salerno, la «svolta», cioè l’apertura a Vittorio Emanuele III; operazione che, da quel momento, rese gli inglesi e gli americani oltremodo diffidenti nei confronti del sovrano e del suo governo.
Eppure persino nei lunghi anni del regime, nonostante l’alleanza con Hitler e l’autarchia, il legame con gli Stati Uniti aveva mantenuto solide basi, economiche e non solo. Un rapporto che passava per figure di spicco come il conte Giuseppe Volpi, che al mercato americano si era rivolto per sviluppare le proprie iniziative; come Amedeo Giannini e Achille Olcese, fondatore (all’indomani della Prima guerra mondiale) e amministratore (alla vigilia della Seconda) della Banca d’America e d’Italia, che gestiva le rimesse degli emigranti; come il figlio di Luigi Einaudi, Mario, che insegnava alla Cornell University nello Stato di New York; senza dimenticare personalità dell’emigrazione antifascista quali Gaetano Salvemini e Carlo Sforza; e poi ancora Giovanni Agnelli, Vittorio Valletta, Alberto Pirelli, l’amministratore delegato della Banca commerciale italiana Giuseppe Toeplitz. Lo stesso Mussolini fu quantomeno ambivalente nei confronti degli Stati Uniti. Fino alla primavera del 1940, cioè poche settimane prima dell’ingresso dell’Italia in guerra, restò sul tappeto l’ipotesi di un suo incontro con il presidente americano Franklin Delano Roosevelt e, ancora all’inizio del ’42, dopo che l’Italia aveva dichiarato guerra agli Stati Uniti, il capo del fascismo diceva al capo della polizia Carmine Senise: «Non vi meravigliate se un giorno mi sentirete fare un discorso alla radio in onore di Roosevelt». Grande attenzione fu riservata dagli americani anche agli ambienti antifascisti milanesi che si muovevano attorno all’ufficio studi della Banca commerciale italiana (Ugo La Malfa, Adolfo e Sinibaldo Tino, Ferruccio Parri).
Un loro documento programmatico fu inviato a Washington su iniziativa di Rino de’ Nobili, un diplomatico italiano rifugiato in Svizzera dopo che aveva lasciato la carriera per avversione al fascismo. E un secondo documento fu inviato nel giugno del 1942 tramite Enrico Cuccia, allora semplice funzionario della Banca commerciale che sotto la copertura di una missione bancaria riuscì a raggiungere Lisbona e a contattare George F. Kennan, in quel momento addetto all’ambasciata americana in Portogallo. Altra figura importante fu Myron C. Taylor, rappresentante personale di
Roosevelt presso Pio XII a cui il regime fascista concesse di atterrare a Ciampino e raggiungere il Vaticano passando per le strade di Roma, nonostante fosse la capitale di un Paese in guerra con gli Stati Uniti.
Il problema è che quando, dopo il 25 luglio, è Badoglio a riprendere la trama del rapporto con gli americani, sia pure con le già ricordate ingenuità, la pregiudiziale antimonarchica (cioè la richiesta da parte delle formazioni antifasciste di abdicazione del re Vittorio Emanuele III) tiene bloccato il suo governo.
«L’impedimento che urge rimuovere» dichiara Benedetto Croce a un quotidiano inglese «è la persona del re, Vittorio Emanuele III, che ha aperto le porte al fascismo, lo ha favorito, sostenuto, servito per oltre vent’anni, lo ha seguito in tutte le sue azioni e persecuzioni più contrarie alla moralità… Pretendere che l’Italia conservi il presente re, è come pretendere che un redivivo resti abbracciato con un cadavere.» Tesi ribadita con decisione nel congresso dei partiti antifascisti riuniti a Bari il 28 e 29 gennaio 1944. E riaffermata senza tentennamenti dai comunisti Velio Spano e Eugenio
Reale in un incontro con Badoglio che chiedeva loro di entrare al governo.
Finché a fine marzo del 1944 il leader comunista Togliatti, rientrato in Italia dall’Unione Sovietica, sbloccò la situazione con la svolta di Salerno, accantonando la pregiudiziale.
La svolta di Salerno, però, è anche l’occasione in cui Roosevelt si rende conto che le divisioni tra Stati Uniti e Gran Bretagna offrono a Stalin l’occasione per incunearsi più del previsto. E da questo momento il presidente americano si mostra molto più risoluto nei confronti di Churchill.
Nel giugno del 1944 le truppe alleate entrano a Roma e in un batter d’occhio Badoglio viene sostituito alla guida del governo da Ivanoe Bonomi.
Churchill scrive al presidente americano: «La sostituzione di Badoglio con questo gruppo di vecchi e famelici politicanti è, credo, un grande disastro; dal momento in cui, sfidando il nemico, Badoglio ci ha consegnata sana e salva la flotta, egli è stato per noi un utile strumento. Era inteso, credo, che egli sarebbe dovuto rimanere al suo posto…».
Stalin prova ad appoggiare le rimostranze di Churchill, ma Roosevelt tira dritto. Da questo momento, per chi sa osservare i movimenti delle cose, gli Stati Uniti sono la nuova stella polare della politica italiana.
Uno degli effetti della svolta di Salerno, paradossalmente, era stato dunque risvegliare gli Stati Uniti e far nascere oltre Atlantico una politica per l’Italia che nel secondo dopoguerra avrebbe fatto da cardine alla ricostruzione del nostro Paese.
Il confine orientale, Trieste, le foibe
Per quanto, vista retrospettivamente, la rapidità e l’efficacia degli sforzi profusi da tutto il Paese tendano a restituircene, nella retorica ufficiale, una visione irenica e idilliaca, la situazione che si presentava alle nuove classi dirigenti dell’Italia appena liberata era non solo drammatica, ma anche estremamente complessa, per le pesanti eredità della guerra e del fascismo, e per l’intreccio di problemi interni e internazionali che rendevano arduo ogni movimento.
Tra le molte questioni aperte una delle più spinose è senz’altro la questione del confine orientale. Un lembo d’Italia che alla fine della Seconda guerra mondiale subì uno sconvolgimento tale da essere ancor oggi al centro di un dibattito storiografico avvelenato.
Polemiche di fuoco ha suscitato, per esempio, il volume Foibe. Una storia italiana, nel quale Jože Pirjevec definisce «marginale» l’eccidio di Porzûs, attribuisce la responsabilità dell’esodo – che spinse trecentomila giuliani, istriani, fiumani e dalmati ad abbandonare le loro terre – ai fuggiaschi, «indottrinati dal nazionalismo e dal fascismo a sentirsi razza eletta», e sposa in buona sostanza la versione comunista e slava di quella lontana vicenda storica.
Viene da domandarsi: ma ci si può occupare di quei fatti remoti senza far propria in partenza né la vulgata comunista e slava, né quella di segno contrario? C’è uno storico, Raoul Pupo, che ci ha provato con Trieste ’45 (Laterza). Pupo, autore dello straordinario Il lungo esodo, ebbe già il merito di occuparsi di foibe prima della metà degli anni Novanta, cioè quando ancora i manuali di storia non avevano scoperto, per così dire, quelle fosse carsiche in cui i partigiani comunisti jugoslavi avevano gettato una gran quantità mai del tutto contabilizzata di ex fascisti e di «altri». Sì, perché nelle foibe finirono ex fascisti, certo, ma anche persone che con il regime non avevano avuto niente a che spartire e, in molti casi, addirittura stimati antifascisti.
«In cima all’Adriatico,» scrive Pupo «la politica del regime fascista si è distinta per la radicalità dei propositi, consistenti nella “bonifica nazionale” delle terre appena redente, cioè nella distruzione dell’identità nazionale slovena e croata.» L’impegno «in tal senso del fascismo, che ne ha menato gran vanto, è stato notevole e le popolazioni hanno per la prima volta sperimentato che cosa significhi la forza di uno Stato moderno le cui istituzioni vengono mobilitate su richiesta di una delle componenti nazionali in conflitto per distruggere l’altra». Ciò che, inevitabilmente, provocò una reazione.
La prima si ebbe all’indomani dell’8 settembre 1943, quando per quasi un mese nella gran parte dell’Istria si insediò un’amministrazione partigiana jugoslava: «Fra le 500 e le 700 persone – soprattutto dirigenti del Pnf o loro familiari, rappresentanti dello Stato, possidenti terrieri e dirigenti d’azienda, figure eminenti delle comunità italiane – furono arrestate, qualche volta uccise senza altre formalità, in genere sottoposte a giudizi sommari, fucilate in massa e fatte sparire nelle cavità naturali e nelle gallerie minerarie che traforano il roccioso suolo istriano». Poi tornarono i tedeschi. E se a Monfalcone alcuni operai imbracciarono le armi per unirsi ai partigiani sloveni, a Gorizia molti italiani «accolsero i soldati germanici con visibile sollievo e lo stesso accadde in numerose località dell’Istria interna, dove la violenza dell’attacco [nazista] interruppe quella delle foibe». Che cosa fecero gli uomini di Hitler per guadagnare quei consensi? In primis si smarcarono da tutto ciò che aveva avuto a che fare con Mussolini. In quell’autunno del ’43 i nazisti giocarono astutamente la «carta
asburgica», contrapposero cioè alla «gestione rovinosa» (parole loro) che dell’area aveva fatto l’Italia fascista, quella virtuosa – a cui si richiamarono – della precedente amministrazione austriaca. A sloveni e croati fu concesso di riaprire scuole, stampare giornali, essere rappresentati nel personale amministrativo, anche di alto livello (per esempio il prefetto di Lubiana, i viceprefetti di Fiume e di Pola).
Appena conquistate le terre del confine nordorientale, i nazisti tedeschi presero dunque le distanze dai fascisti italiani. Già alla fine del 1943, nel verbale di una riunione tra segretari e commissari saloini si legge di «comportamenti tedeschi» che hanno come effetto la «minorità del fascismo repubblicano». Nel giugno del ’44 a Capodistria i nazisti fanno demolire il monumento a Nazario Sauro, il patriota impiccato nel 1916 dagli austriaci. E quando nel gennaio del ’45 Alessandro Pavolini si recherà in visita a Trieste, gli uomini di Hitler faranno il vuoto attorno a lui.
Quanto agli jugoslavi, lo storico dimostra come già dal ’41 le organizzazioni resistenziali slovene e croate incitavano il loro popolo non solo a liberare i territori annessi dallo Stato fascista, per esempio la provincia di Lubiana e la Dalmazia, ma anche quelli «sottratti» agli sloveni e croati dal Regno d’Italia dopo la Prima guerra mondiale, come Trieste e l’Istria. E racconta altresì in dettaglio come i comunisti italiani furono stritolati in una, quasi sempre irrealizzabile, doppia fedeltà: al Cln ma soprattutto ai loro compagni jugoslavi. E mentre non si registrano casi di militanti del Pci passati per le armi da connazionali riconducibili al Cln, ce ne sono non pochi di comunisti italiani uccisi dagli slavi, magari con l’accusa di essere agenti trotzkisti o addirittura fascisti, per aver obbedito al partito e al Comitato di liberazione nazionale del loro Paese.
Tanto che il Pci in questa parte d’Italia dovrà a un certo punto chiamarsi fuori dal Cln. Di più. Tra l’autunno del ’44 e l’inverno del ’45 il Pci, scrive Pupo, «si è industriato a favorire l’occupazione della Venezia Giulia da parte delle truppe jugoslave […] collaborando – non da ultimo – attivamente alla criminalizzazione del Cln di Trieste».
Un asso nella manica degli slavi è il dirigente del Pci Vincenzo Bianco, finito nei guai per amore di una staffetta ventenne, Mariuccia Laurenti, che, arrestata e torturata dai tedeschi, si presta a collaborare con loro. Do -
podiché la ragazza non regge al peso del doppio gioco e confessa tutto ai dirigenti sloveni che immediatamente la fucilano.
A questo punto Bianco, ricattato, diventa un burattino nelle mani degli uomini di Tito. E da marionetta si esprime pubblicamente in favore dell’annessione di Trieste alla Jugoslavia. La direzione del Pci è presa in contropiede e gli scrive chiedendogli se è impazzito: «Ma insomma non ti rendi conto per nulla che oltre alle difficoltà interne […] vi è un fatto assai importante, che il nostro partito è oggi un partito di governo? Abbiamo quattro ministri di cui tre membri della direzione del partito […] ti sei proprio messo in testa di creare a loro seri imbarazzi? Supponi il caso che qualcuno in possesso della tua circolare la pubblichi sulla stampa, in Italia o all’estero, o la metta sotto il naso a Ercoli [Palmiro Togliatti] chiedendo se è vero che il Partito comunista italiano ha già deciso il passaggio di Trieste alla Jugoslavia e chiedendogli se egli come vicepresidente del governo italiano e capo del Partito comunista ha preso o approva tale decisione…». Se ne evince, commenta Pupo, che «l’ambiguità è la struttura fondamentale della politica del Pci sul problema del confine orientale». I comunisti jugoslavi, per parte loro, sono inflessibili. Tra i partigiani di Tito l’elemento discriminante per distinguere gli alleati dai nemici, scrive l’autore, «non è l’aver combattuto contro i tedeschi, ma la disponibilità o meno a porsi agli ordini dell’esercito jugoslavo. E pertanto prendere autonomamente le armi contro i nazisti non è prova di antifascismo, ma conato di guerra civile […] Chi non milita nelle formazioni jugoslave, non riconosce le nuove autorità, non ne condivide il progetto politico, è un fascista e un nemico, a prescindere dalla divisa che indossa e da quel che ha fatto il giorno prima». Conseguentemente «bersaglieri del battaglione Mussolini, finanzieri, combattenti delle brigate partigiane del Corpo dei volontari per la libertà e financo soldati del Corpo italiano di liberazione arrivati singolarmente a Trieste a seguito degli alleati vengono trattati nello stesso modo: disarmati, arrestati, in alcuni casi eliminati subito, in genere avviati ai campi di prigionia dove condivideranno tutti la medesima sorte». E non è difficile immaginare quale.
Già alla fine del ’44, scrive Pupo, «lo scenario che si delinea è quello di un’Italia nordorientale dove i comunisti, sotto la protezione delle baio -
nette jugoslave, saranno liberi di prendere il potere e di difenderlo con le armi, battendosi magari contro gli stessi partigiani italiani anticomunisti, con conseguenze imprevedibili sul resto del Paese». Che cosa possa significare un’eventualità del genere «gli inglesi lo capiscono meglio durante il mese di dicembre quando – con loro grande sorpresa – si trovano coinvolti in una guerra civile, quella greca». Tra i comunisti italiani e slavi c’è un rapporto opaco. Il mistero avvolge persino episodi che sembrano chiari, come quando i nazifascisti catturano il segretario della federazione del Pci di Trieste, Luigi Frausin, uomo di grande prestigio che finirà i suoi giorni nella risiera di San Sabba.
Chi lo tradì? Nel dopoguerra, all’epoca dello scontro tra Stalin e Tito, i comunisti triestini accuseranno apertamente quelli titini di aver voluto la morte di Frausin e di essere stati loro a consegnarlo ai tedeschi. Tant’è che la motivazione della medaglia d’oro al valor militare conferita dallo Stato italiano alla memoria di Frausin parlerà esplicitamente di «delazione slava». Quanto al clero sloveno, pur mantenendo una certa diffidenza nei confronti dei comunisti, si è schierato, respingendo le indicazioni degli ordinari diocesani italiani, dalla parte del movimento di liberazione, «ottenendone in cambio promesse di rispetto per la Chiesa che il regime di Tito si guarderà bene dal mantenere».
A complicare questo quadro interviene, nell’autunno del ’44, uno strano tentativo di stabilire un accordo tra il Regno del Sud (al governo c’è Ivanoe Bonomi) e qualche settore della Repubblica sociale di Mussolini in vista di un’iniziativa «alla Darlan» (François Darlan, già numero due di Pétain nel regime collaborazionista francese di Vichy, al momento dello sbarco alleato in Algeria dove lui stesso si trova – siamo nel novembre del ’42 – apre un negoziato con gli americani: pagherà con la vita, ucciso il 24 dicembre di quello stesso anno dal giovane Fernand Bonnier de la Chapelle).
Il Darlan italiano dovrebbe essere l’ammiraglio Sparzani, sottosegretario alla Marina del governo di Salò, e una disponibilità a dare una mano all’operazione è mostrata dalla X Mas di Junio Valerio Borghese. Vicende molto complicate. «Nel momento in cui l’autore si ingegna a cogliere le linee di forza degli eventi, in modo da portarne alla luce i significati profondi» scrive Pupo in una delle pagine finali del libro, dedicata
alle foibe ma estendibile all’intera questione, «al lettore viene richiesto, alla fine della narrazione, di mescolare per bene le informazioni che ha ricevuto e di agitare forte».
Allorché poi a fine aprile del ’45 la guerra si conclude, qui a Trieste praticamente ricomincia. E produrrà strascichi fino a quando, nel settembre del ’47, Gorizia, amputata del suo retroterra e della sua stessa periferia, tornerà nelle mani dell’amministrazione italiana; Trieste – «testa senza corpo, perché la provincia rimarrà oltre confine», sarà di nuovo italiana nell’ottobre del 1954; Zara, Fiume e l’Istria non torneranno più.
Adesso il Cln, definito ufficialmente dagli jugoslavi «criminale e famigerato», diviene «oggetto di persecuzione, e ciò tanto più dopo che il 5 maggio del ’45 riesce a dar vita a una manifestazione filoitaliana che sfila per le vie del centro città prima di venir dispersa con le armi da una pattuglia jugoslava». Cominciano gli arresti mirati tra i dirigenti e i quadri del Comitato di liberazione. A Trieste i caduti del Cln per mano jugoslava assommano a centosessanta! Vengono presi il socialista Carlo Schiffrer e l’azionista Michele Miani che miracolosamente riescono ad aver salva la vita; spariscono per sempre, invece, i democristiani Carlo Dell’Antonio e Romano Meneghello.
Augusto Bergera e Luigi Podestà restano due anni in campo di concentramento. A Gorizia scompaiono nel nulla l’azionista Augusto Sverzutti e il socialista Licurgo Olivi. A Fiume stessa sorte per alcuni importanti esponenti antifascisti: Giuseppe Sincich viene prelevato dalla sua casa e abbattuto a raffiche di mitra; Mario Blasich, invalido, viene strangolato nella sua abitazione; Nevio Skull viene trovato ucciso a colpi di pistola. E pensare che sono tutti uomini riconducibili alla Resistenza. Ma per gli jugoslavi sono «fascisti». Nel linguaggio dei comunisti di Tito, scrive Pupo, «il campo semantico del termine “fascismo” è assai più largo del corrispondente uso nella cultura politica italiana». Per le strade di Trieste si muovono parallele, «armi alla mano, due storie, ciascuna con la logica interna che le è propria, e che per il futuro prefigurano scenari completamente diversi».
Da una parte «la storia della guerra di liberazione jugoslava, che sul golfo adriatico cerca la conclusione trionfale della sua epopea, esprimendo
una concezione del conflitto europeo come duello mortale tra nazismo e bolscevismo»; dall’altra «la storia della resistenza italiana, in cui i poli dello scontro sono il fascismo e l’antifascismo, inteso quest’ultimo quale sinonimo di pluralismo e democrazia». Nella lotta finale contro i tedeschi «per una manciata di ore le due storie cammineranno assieme e assieme combatteranno». Poi «una divorerà l’altra».
A conflitto appena finito, l’aver combattuto dalla parte degli Alleati si trasformerà in «connivenza con gli inglesi e gli americani» e diventerà una colpa. Il libro di Pupo racconta la storia di Boris Furlan, brillante avvocato e allievo di Joyce, che nel 1929 è dovuto emigrare in Jugoslavia. Dopo l’aggressione italiana alla Jugoslavia del 1941, si è rifugiato negli Stati Uniti, poi in Gran Bretagna dov’è diventato ministro e quindi portavoce del governo reale in esilio. In questa veste ha lanciato una serie di appelli ai suoi compatrioti affinché si unissero alla lotta degli antifascisti contro i tedeschi. Nel dopoguerra rientra in Jugoslavia e chiede di poter tornare a Trieste. Ma le autorità del regime di Tito non si fidano di lui per via del suo soggiorno in Inghilterra e non glielo consentono. Peggio: nel 1947 lo gettano in carcere coinvolgendolo nel cosiddetto «processo Nagode» intentato contro trentuno ex «compagni di strada», tutti democratici e liberali, «allo scopo di togliere ogni equivoco in merito alla possibilità di dar vita in Jugoslavia a qualcosa di diverso rispetto a un regime stalinista». Furlan verrà accusato di essere massone, di aver avuto rapporti con i servizi segreti britannici e capo d’imputazione sarà addirittura l’aver tradotto in sloveno La fattoria degli animali di Orwell. Condannato a morte, riuscirà a far commutare la pena a vent’anni. Scarcerato per malattia, sopravvivrà a stento a un tentativo di linciaggio e morirà nel 1953 senza aver mai potuto rimetter piede a Trieste.