l'italia di mussolini in 50 ritratti

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di in MUssOLINI

© 2020 Centauria Editore srl – Milano

Publisher

Balthazar Pagani

Per i testi

© Paolo Mieli

© Francesco Cundari

Per le illustrazioni

© Ivan Canu

Graphic design

PEPE nymi

Proprietà artistica letteraria riservata per tutti i Paesi.

Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata.

Prima edizione giugno 2020

Isbn 9788869214455

PAOLO MIELI FRANCESCO CUNDARI

Illustrazioni di

IVAN CANU

Massimo Bontempelli

Giuseppe Bottai

Edda Ciano

Galeazzo Ciano

Gabriele d’Annunzio

Emilio De Bono

Alberto De Stefani

Cesare Maria De Vecchi

Amerigo Dumini

Doris Duranti

Roberto Farinacci

Luigi Federzoni

Luisa Ferida

Giovanni Gentile

Dino Grandi

SOMMARIO

Rodolfo Graziani

Telesio Interlandi

Mino Maccari

Curzio Malaparte

Filippo Tommaso Marinetti

Benito Mussolini

Rachele Mussolini

Ettore Muti

Alessandro Pavolini

Claretta Petacci

Marcello Piacentini

Luigi Pirandello

Giuseppe Prezzolini

Alfredo Rocco

Cesare Rossi

Edmondo Rossoni

Margherita Sarfatti

Dino Segre

Mario Sironi

Achille Starace

Arturo Toscanini

Giuseppe Ungaretti

Vittorio Emanuele III

Giuseppe Volpi

Ruggero Zangrandi

Indice dei nomi

INTRODUZIONE

IL VENTENNIO

Ascesa e caduta del fascismo

Mussolini e d’Annunzio

Per farsi un’idea del contesto in cui maturò l’affermazione del fascismo in Italia bisogna guardare all’impresa di Fiume, che fu una delle avventure più straordinarie del primo dopoguerra. Dal settembre 1919 al dicembre 1920, infatti, i «legionari» di Gabriele d’Annunzio che occuparono la città diedero vita a una sorta di anticipazione del Sessantotto.

Come è facile immaginare, in seguito all’impresa fiumana, il prestigio del poeta era altissimo, in particolare negli ambienti nazionalisti. Il generale Emilio De Bono, capo della polizia, nel dicembre 1922 invitò i prefetti a «controllare e reprimere tutte le organizzazioni legate al suo nome».

Nell’aprile 1923 la Federazione nazionale dei legionari fiumani, i sindacati di ispirazione dannunziana e l’Associazione nazionale arditi d’Italia si misero assieme nell’Unione spirituale dannunziana, che aveva l’obiettivo dichiarato di resistere al fascismo e di fondare una costituente sindacale ispirata a quella costituzione utopistica che aveva preso il nome di carta del Carnaro. Nel corso della crisi successiva all’uccisione di Matteotti, il gruppo si unì all’opposizione dell’Aventino e tra l’8 e il 10 settembre convocò a Milano un consiglio nazionale. Qui i reduci dell’impresa fiumana

non confluiti nel fascismo, vista la volontà del comandante di appartarsi dalla politica, dichiararono di ispirarsi al pensiero e non alla persona di d’Annunzio, e trasformarono l’unione spirituale in un’associazione clandestina a tutti gli effetti, con l’obiettivo di combattere il regime. Ma era tardi. Le «leggi fascistissime» del 1925 la spazzarono via sul nascere, senza che d’Annunzio desse il minimo segno di volersi ribellare alla svolta autoritaria. Non per niente, tra aprile e maggio 1925 Mussolini promosse la trasformazione del Vittoriale in monumento nazionale. La generosità del duce, s’intende, aveva un secondo fine. Come ha scritto Giordano Bruno Guerri in un libro dedicato all’impresa dannunziana ( Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920, Mondadori), pagare per il Vittoriale «era come ipotecarne l’abitante, che sarebbe divenuto “suo”». È dunque in questo clima di «circospetta vicinanza» che maturò «una delle decisioni più controverse del Vate», che accettò di firmare il Manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Giovanni Gentile e sottoscritto, tra gli altri, da Filippo Tommaso Marinetti, Curzio Malaparte, Luigi Pirandello, Giuseppe Ungaretti.

Ciò nonostante, secondo Guerri, d’Annunzio non fu mai fascista, come dimostrerebbe il fatto che «fra gli oltre ventimila oggetti della sua casa non si trova un solo fascio o elemento che richiami il regime, se non relegato tra i doni che riponeva nel solaio». Parlava, il vate, di «camicie sordide», invece che di camicie nere, disprezzava i gerarchi e giudicava Mussolini un uomo a lui inferiore, tenuto a rendergli omaggio. E se molti legionari aderirono al fascismo, altri furono antifascisti, persino martiri dell’antifascismo o morti in esilio come Alceste De Ambris.

Da Fiume emersero caratteristiche che avrebbero dominato la scena un secolo dopo: la spettacolarizzazione della politica, la distorsione della realtà tramite la propaganda, la ribellione generazionale, l’avanguardia e la festa come mezzi di contestazione, la rivolta contro la finanza internazionale, il conflitto tra nazionalismi, i volontari che lasciano Paesi d’origine per combattere guerre globali, la libertà sessuale e di abbigliamento, il ribellismo e la trasgressione.

Mussolini ne riprese anzitutto la liturgia della politica di massa: i discorsi dal balcone, il culto per i caduti e le bandiere, il «me ne frego», l’«a noi!», le cami-

cie nere e i fez degli arditi. E dall’occupazione di Fiume, evidentemente, trasse ispirazione per la marcia su Roma. Ma non fu il solo a cogliere la portata dell’impresa. Lenin, ad esempio, notò subito il carattere «rivoluzionario» dell’iniziativa. E Antonio Gramsci, dopo l’evacuazione di Fiume, non risparmiò gli sforzi per coinvolgere d’Annunzio e i suoi reduci in un fronte contro le camicie nere. Ma senza successo.

Gli antifascisti in carcere

Se a Gramsci non riuscì di insinuarsi tra d’Annunzio e Mussolini, per utilizzare il poeta contro i fascisti, molti anni dopo fu invece Mussolini ad accorgersi per primo che tra il leader comunista e il gruppo dirigente del suo partito era accaduto qualcosa di anomalo, e a sfruttare al meglio l’occasione. Un articolo non firmato, dal titolo Altarini, uscì sul «Popolo d’Italia» il 31 dicembre 1937, otto mesi dopo la morte di Gramsci, con lo scoperto obiettivo di dare massimo risalto alle indiscrezioni su quei dissidi interni. Indiscrezioni di cui aveva scritto pochi giorni prima Ezio Taddei sull’«Adunata dei refrattari», un settimanale anarchico stampato a New York, enfatizzando i privilegi di cui Gramsci avrebbe goduto in prigione (gli sarebbe stato concesso di «sgranocchiare gli amaretti che gli piacevano tanto» e di nutrirsi «di pasticcini» mentre gli altri reclusi «crepavano di fame»), e rivelando, soprattutto, l’ostilità nei suoi confronti da parte degli altri detenuti comunisti. Per giunta, Taddei aveva parlato anche del risentimento che il leader sardo nutriva verso Ruggero Grieco, in quel momento alla guida del partito. La ragione sarebbe emersa oltre trent’anni dopo, e cioè una lettera che Grieco aveva inviato a Gramsci, in carcere, nel febbraio 1928, incredibilmente esplicita nell’indicare in lui il capo dei comunisti italiani, e perciò considerata dal fondatore dell’«Unità» come un modo per

compromettere la sua posizione processuale. Ma perché Grieco avrebbe dovuto fare una cosa del genere?

Nel suo importante saggio Gramsci in carcere e il fascismo (Salerno), Luciano Canfora riprende le confidenze fatte da un dirigente comunista dell’epoca, Giuseppe Berti, a Dante Corneli e da questi riferite nel suo Lo stalinismo in Italia e nell’emigrazione antifascista (Tipografia Ferrante, Tivoli). In sostanza, il sospetto era che Grieco potesse essere una «spia fascista». Lo stesso dubbio manifestato, tempo prima, da Pietro Secchia, il quale aveva accusato Grieco di aver fallito nel compito di portare in salvo Gramsci, affidando la missione a Luca Osteria (poi rivelatosi una spia dell’Ovra). Canfora fa anche notare che la posizione giudiziaria di Grieco fu sbrigativamente stralciata dai giudici romani al termine dell’istruttoria, dieci giorni dopo la famigerata lettera. E che gli fu comminata una pena inferiore alle attese.

Successore di Palmiro Togliatti alla guida del Pci tra il 1935 e il 1937, Grieco ha un ruolo importante nella storia del partito per il clamoroso Appello ai fratelli in camicia nera pubblicato sullo «Stato operaio» nell’agosto 1936 con la firma apocrifa di Togliatti e di tutti i principali dirigenti comunisti, in cui si esaltava il valore e l’eroismo con cui gli italiani avevano combattuto nella guerra d’Etiopia e si esortavano i militanti del Pci a un fronte comune con i fascisti. Rivolgendosi ai «fascisti della vecchia guardia, giovani fascisti», i promotori arrivavano a scrivere: «Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi e a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919». Ma Grieco non fu il solo artefice dell’ardita operazione. Nel corso di una riunione del Pci a Parigi in quello stesso agosto 1936, un altro importante dirigente del partito, Mario Montagnana, cognato di Togliatti, fu ancora più esplicito: «Noi dobbiamo avere il coraggio di dire che non ci proponiamo di abbattere il fascismo… vogliamo oggi migliorare il fascismo perché non possiamo fare di più». Giuseppe Di Vittorio, poi, scrisse una pubblica Lettera ad un gerarca sindacale fascista per domandargli: «Fra comunisti e fascisti in buona fede, esistono delle possibilità di lavoro comune, per il benessere del popolo italiano e per la marcia progressiva del nostro Paese?». Da quel momento la parola d’ordine «Via Mussolini!» fu sostituita dai comunisti italiani con «Via i pescicani!»;

come nemici, al posto dei fascisti, vennero identificati Donegani, Pirelli, Morpurgo, Agnelli, Giacinto Motta, Volpi, Orsi, Rebaudengo, Parisi, Borletti; fu redatto un programma che prevedeva un prelievo straordinario sui patrimoni eccedenti il milione di lire, la confisca di tutti gli utili superiori al 6 per cento, l’obbligo ai personaggi di cui si è detto di «restituire il denaro rubato sulle sofferenze del popolo»; si proponeva che «i miliardi tolti ai pescicani» fossero usati per «dare pane e lavoro ai disoccupati» e per «pagare le indennità ai combattenti d’Africa». In quei mesi nessun dirigente comunista si dissociò pubblicamente da quelle parole. Ma, anni dopo, Berti riferì che, in privato, Togliatti aveva definito quel manifesto «una coglioneria». Il collettivo dei comunisti confinati a Ventotene fece pervenire al partito proteste e critiche. E Pietro Secchia ne parlò, in seguito, come di un’«assurdità inaudita».

Difficile dargli torto, con il senno del poi. Ma forse allora l’iniziativa poteva apparire meno assurda di quello che sembra a noi oggi, tenuto conto delle molte e contrastanti spinte che venivano non solo dalle diverse correnti interne al fascismo, ma anche dal mondo degli affari, dalla burocrazia e dalle istituzioni. A cominciare, naturalmente, dalla corona.

Mussolini e Vittorio Emanuele III

L’Italia fascista è stato l’unico Paese totalitario in regime di sostanziale diarchia. Un caso di tirannide molto anomalo dove uno dei due diarchi, il re, è stato in grado di portare a compimento una congiura a danno dell’altro, il dittatore, facendolo arrestare, il 25 luglio 1943, dopo la «sfiducia» ricevuta da Mussolini nella riunione del Gran consiglio, e lo rimpiazza con Pietro Badoglio. È evidente che se la corona riuscì a individuare lo spazio in cui ordire quella trama fu per l’andamento della guerra (gli Alleati erano appena

sbarcati in Sicilia). Ma è altrettanto evidente che uno spazio del genere non si crea da un giorno all’altro e che, dunque, negli anni che intercorsero tra la marcia su Roma (28 ottobre 1922) e la caduta del fascismo (25 luglio 1943) la monarchia si mosse in una qualche autonomia dal regime. Due sono i volumi indispensabili per conoscere le opposte versioni di questa storia: quello dell’aiutante di campo del re, Paolo Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III (il Mulino) e quello dello stesso Benito Mussolini, Storia di un anno. Il tempo del bastone e della carota nell’opera omnia mussoliniana pubblicata da La Fenice tra il 1951 e il 1963. Ma il primo libro dedicato per intero a quella strana diarchia è uscito soltanto nel 2010, ed è La monarchia fascista. 1922-1940 (il Mulino) di Paolo Colombo. Libro che non sottace, riguardo all’ascesa del fascismo nel ’22, le responsabilità del re, preoccupato di una sua eventuale detronizzazione a vantaggio del cugino Emanuele Filiberto duca d’Aosta (che si era fatto vedere in compagnia del futuro duce ed era stato persino in visita agli squadristi a Merano, Perugia e Spoleto). Ma mette in risalto come fossero in molti, compreso lo stesso presidente del Consiglio Luigi Facta, a giocare su più tavoli.

Sta di fatto che fu il re ad aprire le porte di palazzo Chigi al capo del fascismo. Ma se è vero che «già Vittorio Emanuele incarna una istituzione ricca di sfaccettature, pure Mussolini è uno e trino; è capo del governo, appunto, ma è anche duce e segretario del Partito fascista». Il che fa pensare – anche senza allargare il ragionamento a Chiesa, finanza e industria – a «un regime che non riesce a essere appieno totalitario perché incontra limiti che ne escludono l’onnicomprensività».

Le prime tensioni tra Vittorio Emanuele e il capo del fascismo si ebbero quasi subito, a seguito della decisione di istituire il Gran consiglio, presa in una riunione informale tenuta la sera del 15 dicembre 1922 nell’appartamento di Mussolini al Grand Hotel di Roma. Da quel momento, fino alla «costituzionalizzazione» del Gran consiglio stesso alla fine del 1928, il re mostrerà di non gradire affatto la creazione di quell’organo supremo che coordinava e integrava tutte le attività del regime, dal quale il monarca era escluso e che si riuniva (sempre meno in quei vent’anni) in seduta segreta sotto il diretto controllo del capo del governo. Tanto più che quel nuovo organismo per statuto si intrometteva in alcuni campi di prerogativa regia, tra cui le attività

del Senato, considerato una roccaforte monarchica. Un rapporto della polizia politica, datato 11 settembre 1935, riferisce di una fronda senatoriale contro la politica coloniale di Mussolini: ne farebbero parte «Federzoni, Casati, Caviglia, Badoglio ed altri, notoriamente fedeli alla Monarchia, di cui non ci si è voluto dire i nomi», i quali mediterebbero di premere sul re affinché distolga il duce dai suoi propositi di guerra africana e, qualora se ne dia l’occasione, tolga a Mussolini «il timone dello Stato, per passarlo ad un uomo che goda le simpatie straniere».

Vittorio Emanuele è effettivamente contrario alla guerra d’Etiopia. Già nel febbraio del 1934 il re si mostra «impressionato per il pericolo di guerra con l’Abissinia»; sei mesi dopo, in luglio, scrive a Mussolini che «non è contento» dell’annunciata impresa; a fine anno dichiara al governatore in Somalia, Maurizio Rava, che quell’imminente guerra non è «di suo gusto»; Nino d’Aroma (direttore dell’Istituto Luce) riceve da Mussolini una confidenza secondo la quale il monarca teme di «impantanarsi» in «deserti ed avventure africane». La maggiore preoccupazione del «re soldato» sta nelle possibili ricadute negative in termini di relazioni con il resto d’Europa e lo scrive a Mussolini ancora il 7 agosto 1935; testimonia il figlio Umberto che, per quel che riguarda la conquista dell’Etiopia, suo padre «non riteneva che ne valesse la pena».

Mussolini è molto arrabbiato per queste resistenze e, pur cercando di evitare incidenti istituzionali, fa conoscere la sua irritazione. E dopo il successo dell’impresa non dimentica quelle divergenze. Su sollecitazione fascista, il «Corriere della Sera» del 10 maggio 1936 titola a caratteri cubitali Il Duce fonda l’impero e sotto, in caratteri minuscoli, riferisce che «il Re assume il titolo di Imperatore d’Etiopia». Nell’articolo di fondo, intitolato Impero, Vittorio Emanuele non è neppure menzionato. Al momento del decreto in cui il re è dichiarato imperatore, nella prima versione non si fa alcun cenno ai suoi successori. Il sottosegretario alla presidenza, Giacomo Medici del Vascello, segnala il fatto al monarca, il quale, a seguito di «vivaci rimostranze», ottiene la correzione del testo.

Nuovi attriti si hanno per la duplice attribuzione (al re e al duce) del grado di primo maresciallo dell’impero. Il monarca non gradisce. Mussolini risolve il problema a modo suo e in un discorso del 30 marzo 1938 afferma: «Nell’Ita -

lia fascista il problema del comando unico – che tormenta altri Paesi – è risolto, le direttive politico-strategiche della guerra vengono stabilite agli ordini del Re da uno solo, da chi vi parla». Quasi ogni partecipazione dei due diarchi a una manifestazione pubblica è occasione di incomprensioni. Il 4 novembre 1938, durante le celebrazioni della vittoria nella Grande guerra, il re rimarca la mancata esecuzione della marcia reale. Mussolini gli dice che è un caso. Vittorio Emanuele ribatte che in otto secoli non era mai accaduto. Il duce replica stizzito che «questo stato di cose» deve finire. Nel 1939 un nuovo scontro ha per oggetto la guerra con l’Albania. Il re fa sapere al ministro degli Esteri Galeazzo Ciano di non essere d’accordo e di non ritenere opportuno rischiare un’avventura per «prendere quattro sassi». Mussolini si spazientisce contro quella «testa di c… del re che fa resistenza». E quando a Bologna un battaglione di bersaglieri mobilitato per l’Albania intona il canto «vogliamo la pace e non la guerra», senza che gli ufficiali presenti dicano alcunché, Mussolini si arrabbia con l’esercito e accusa i militari di essere «dominio della monarchia». Il re stabilisce un rapporto con Ciano che darà i suoi frutti nel luglio del ’43, allorché il genero del duce parteciperà alla congiura contro il suocero. Mussolini è sempre più insofferente nei confronti della corona; gli scappa detto che bisognerebbe «farla finita con Casa Savoia» e il suo giudizio su Vittorio Emanuele è sempre più aspro: «Un piccolo uomo, acido e infido». I poliziotti di Mussolini rivelano presto il sospetto che a corte vi sia una corrente contro il duce.

L’erede di Vittorio Emanuele, Umberto, è tenuto d’occhio in modo particolare fin dall’estate del 1926, quando all’Arena di Verona «il Principe si era alzato al suono della Marcia Reale e si era invece ostentatamente seduto alle prime battute di Giovinezza». Nelle carte di polizia sono contenute insinuazioni circa una sua presunta omosessualità (ma anche, talvolta, sul suo dongiovannismo). Viene descritto come «depravato», «cocainomane», «già gravemente colpito da alcolismo». La sua posizione è poi aggravata, agli occhi del regime, dal matrimonio con Maria José, subito individuata, non a torto, come nemica della Germania hitleriana e dell’Italia di Mussolini.

La tensione è talmente forte che nel maggio 1938 Vittorio Emanuele avverte l’esigenza di un clamoroso gesto di distensione e va in visita alla casa natale del fondatore del fascismo, rendendo per di più omaggio alla tomba dei geni-

tori di Mussolini. Ma i rapporti tra Vittorio Emanuele e Mussolini non sono destinati a migliorare. Si chiede Giuseppe Bottai, in una pagina di diario del 1938: «Il problema dei rapporti tra il Re e il Duce sembra risolto da una cordiale intesa tra i due uomini, nonostante la difficoltà di far convivere nel rapporto le funzioni di Re e di Duce. La duttilità giuridica degli italiani può andare oltre la normalizzazione empirica del binomio, traendone nuovi valori e significati?». La risposta a questa domanda verrà tra il 24 e il 25 luglio 1943 quando, complice Bottai, un diarca verrà messo in difficoltà dai suoi sottoposti e l’altro ne approfitterà per assestargli un colpo esiziale.

Mussolini e i ras

A complicare il gioco degli equilibri di potere all’interno del regime non c’era però solo il dualismo con la corona. Infatti, come già accennato, ciascuno dei due poli – il fascismo e la monarchia – era a sua volta un organismo composito. Come emergerà platealmente il 25 luglio 1943, quando Benito Mussolini sarà sfiduciato dal Gran consiglio.

Ma c’è anche un altro 25 luglio nella vita del duce, anch’esso piuttosto importante per capire la natura di quell’instabile aggregato di personalità che fu il partito fascista. È il 25 luglio 1934, quando fu Mussolini a decidere di mettere agli arresti (il giorno successivo) un’illustre personalità del regime: Leandro Arpinati, fascista della prim’ora, padrone del partito a Bologna e successivamente potentissimo sottosegretario all’Interno.

Un anno prima, precisamente il 27 aprile 1933, Mussolini lo aveva ricevuto per comunicargli seccamente che il segretario del Partito nazionale fascista, Achille Starace, ne aveva abbastanza di lui e per rinfacciargli di aver sparlato della sua famiglia. Arpinati aveva immediatamente scritto a Starace: «Se avessi avuto bisogno di un elemento per giudicare della bassezza degli uomini, tu

me l’hai offerto; sei un mentitore e un vile». A evitare che la questione venisse risolta in un duello fu lo stesso Mussolini, che scrisse a sua volta ad Arpinati: «Si è determinata una situazione per cui ti prego di rassegnare le tue dimissioni dalla carica di sottosegretario». Arpinati obbedì. Finiva quel giorno un sodalizio più che ventennale. Arpinati aveva seguito Mussolini passo passo sin dal 1910, quando ancora diciottenne aveva incontrato il futuro duce, che di anni ne aveva ventisette, ed era all’epoca segretario della sezione socialista di Forlì. Sempre seguendo le sue orme era divenuto, da socialista, uno dei più importanti leader interventisti (anche se poi non prese parte attiva alla guerra essendo «reclutato», tra il 1915 e il 1918, come ferroviere elettricista alla stazione di Bologna). «L’interventista non intervenuto», lo avrebbe definito il suo avversario Giorgio Pini, precisando che negli anni di guerra la sua missione speciale era stata quella di accendere le luci la sera e spegnerle la mattina dopo. In compenso, fu il principale organizzatore dello squadrismo in Emilia-Romagna, distinguendosi, il 21 novembre 1920, nell’assalto a palazzo d’Accursio, il municipio di Bologna in mano alle sinistre: la spedizione lasciò sul selciato dieci morti (tutti socialisti) e una sessantina di feriti. Innumerevoli furono nei mesi successivi le aggressioni a parlamentari socialisti prima e comunisti poi, case del popolo, sedi di partito, capilega, treni che trasportavano operai, singoli militanti. Quando Mussolini siglò il «patto di pacificazione» con i socialisti, Arpinati si oppose e continuò a fare di testa sua, e per questo, verso la fine del ’21, fu allontanato dalla guida del partito. Ma già agli inizi del ’22 Mussolini lo richiamò al suo posto e gli consentì di portare il suo «stile» anche in parlamento, dove il 9 agosto Arpinati fu fermato mentre era sul punto di sparare con la rivoltella al deputato comunista Luigi Repossi. Fu poi a fianco di Mussolini senza tentennamenti nella crisi successiva all’uccisione di Giacomo Matteotti e in prima fila nella battaglia interna contro l’ala sindacalista del Pnf. In tutti questi anni, Arpinati aveva mantenuto un profondo rapporto di amicizia con un avvocato socialista, Torquato Nanni, che, pur senza aderire mai al partito fascista, era stato anche lui amico di Mussolini, interventista e redattore del «Popolo d’Italia». Circostanze che però non attenuavano l’odio nei suoi confronti da parte dei mussoliniani scalmanati. Nanni era bersaglio fisso di molti fascisti del luogo. Ma Arpinati non si lascerà intimidire e anzi,

nel 1927, suggerirà all’amico socialista Torquato Nanni di scrivere un libro su di lui e sul fascismo bolognese, libro che però, pur completato, non vedrà mai la luce per un intervento di Arnaldo Mussolini, buon amico di entrambi. In quel libro Nanni avrebbe dovuto spiegare il perché del successo di Arpinati, che nella seconda metà degli anni Venti appariva l’uomo più potente e osannato di Bologna: comproprietario e consigliere delegato del «Resto del Carlino»; fondatore del più grande stadio di calcio d’Italia (il Littoriale); padre della riforma tranviaria con il raddoppio della rete; artefice di un piano di costruzione di case popolari, edifici scolastici, pavimentazione della città e fognature; capace di dedicarsi inoltre a un nuovo piano di illuminazione delle strade, alla costituzione di una scuola superiore di commercio, all’avvio dei lavori per la funivia di San Luca, alla realizzazione dell’ospedale Pizzardi e della clinica psichiatrica, alla costruzione di un nuovo aeroporto militare e a una quantità di altre iniziative. Arpinati si sentiva amato dai suoi conterranei e perciò onnipotente. Il 31 gennaio 1927 il prefetto di Bologna inviò al ministro dell’Interno una relazione in cui si raccontava che, a un banchetto con Torquato Nanni, il ras gli offrì su un vassoio «quelle stesse manette colle quali nella giornata della marcia su Roma la squadra di azione fascista di Civitella ebbe a trarlo in arresto».

Anche sulla base di rapporti di questo tipo, Mussolini aveva iniziato a diffidare dello strapotere locale di Arpinati e nel settembre 1929 lo aveva chiamato a Roma come sottosegretario all’Interno. Ma a Roma Arpinati aveva legato con pochi, continuando ad avere la testa e il cuore nella sua Bologna. Prendeva atteggiamenti in aperta dissonanza con il regime: contro i patti lateranensi, contro Giovanni Gentile per la gestione della Treccani, a favore di provvedimenti di clemenza nei confronti di alcuni antifascisti. Da lui ispirato, Leo Longanesi, suo buon amico, sulle pagine dell’«Assalto» guidava una fronda anticoncordataria contro le pretese dell’Azione cattolica. La sua presenza a Bologna il 14 maggio 1931, allorché Arturo Toscanini fu aggredito da un gruppo di fascisti per essersi rifiutato di far suonare Giovinezza e la marcia reale, fu infine sfruttata per muovergli l’accusa di aver sottovalutato la portata degli eventi. Stavolta Longanesi, che aveva approvato lo schiaffo a Toscanini, fu costretto a dimettersi dall’«Assalto». Al che Arpinati, senza darsi per vinto, iniziò una battaglia per far promuovere un

altro giornalista amico, Mario Missiroli, alla direzione del «Resto del Carlino» costringendo il partito a rilasciargli la tessera. E fu questo il pretesto con il quale Starace mosse all’attacco contro di lui, ottenendone la testa da Mussolini.

La storia avrebbe anche potuto concludersi qui, nel 1933, se solo Arpinati si fosse dato per vinto. Ma lui non si rassegnò e conobbe una vita politica di altri dodici anni nel corso dei quali si allontanò sempre più dal regime mussoliniano e si avvicinò per gradi ai lidi dell’antifascismo. Passato qualche tempo, Mussolini decise che la misura era colma. Per l’arresto, come ha raccontato

Brunella Dalla Casa in un libro dedicato a lui ( Leandro Arpinati, il Mulino), si fece ricorso a «uno spiegamento di forze spropositato, difficilmente spiegabile con la facilità di un’operazione che, se opportunamente preventivata e controllata, avrebbe potuto essere eseguita con poche unità». Furono mobilitati un’ottantina di carabinieri e due torpedoni di agenti di pubblica sicurezza. La moglie disse agli agenti che lo arrestavano: «Non fategli fare la fine di Matteotti».

Ad Arpinati fu inflitta la pena (massima) di cinque anni di confino di polizia, dapprima nell’isola di Lipari, poi nella sua villa di Malacappa. Di qui, con l’aiuto di Torquato Nanni prese a tessere la tela dei rapporti, dapprincipio cauti poi sempre meno, con gli antifascisti. A mano a mano che si avvicinava la caduta del fascismo, cercò contatti con Bonomi, De Gasperi, Sforza e persino con il re che glielo rifiutò perché lo considerava «troppo notoriamente antifascista». Ivanoe Bonomi, invece, glielo accordò su intercessione del socialista Enrico Bassi, e gli rivelò i piani di cui era a conoscenza. In seguito ebbe relazioni con altri due congiurati del 25 luglio, Dino Grandi e Galeazzo Ciano. Quando giunse il giorno fatidico della caduta di Mussolini, si pronunciò contro l’incarico al maresciallo Badoglio e la prosecuzione della guerra a fianco dell’alleato tedesco. E si sorprese assai che le autorità postfasciste lo tenessero nel conto di un profittatore di regime e disponessero il sequestro dei suoi averi, a cominciare dalla villa di Malacappa. Ma non fecero in tempo. Arrivò l’8 settembre, l’armistizio, l’Italia si divise in due, Mussolini fu liberato dai tedeschi da Campo Imperatore e a Rocca delle Camminate, dove trovò rifugio, volle incontrare Arpinati per chiedergli di unirsi a lui. Arpinati rispose di no e, ancorché vivesse a Bologna, rifiutò

di schierarsi dalla parte della Repubblica sociale italiana. Qualche tempo dopo, conversando con un giornalista, Mussolini la mise così: «Per ciò che riguarda Arpinati, la colpa è mia. Se non ci fossimo incontrati, sarebbe probabilmente rimasto un buono e innocuo anarchico. Si era trasformato in un cattivo fascista ed ora è liberale, in ritardo di cinquant’anni. Mi dicono che treschi coi partigiani. Non so se spera in qualcosa; in tal caso non ha capito niente».

Quel «mi dicono» di Mussolini corrispondeva al vero. La villa di Malacappa si trasformò in una piccola centrale della Resistenza. Il giorno della liberazione – qui settantadue ore prima che a Milano – Nanni abbracciò Arpinati esultando: «Leandro, ce l’abbiamo fatta!». Errore. La mattina di quel 22 aprile 1945 si presentò alla villa un furgoncino dell’Unione nazionale di protezione antiaerea, da cui scesero quattro uomini e due donne. Chiesero di Arpinati e Nanni, che chiedeva loro di dire chi fossero, fu colpito alla testa con il calcio di un mitra. A quel punto Arpinati si fece avanti e fu ucciso su due piedi. Dopodiché, prima di lasciare in fretta la scena del delitto, anche Nanni fu ammazzato con un colpo dietro l’orecchio.

«Arpinati si illude, perché anche senza saperlo è imbarcato sulla nostra stessa barca, e quando affonderemo noi, verrà a fondo anche lui» aveva confidato

Benito Mussolini poco prima di essere ucciso.

Mussolini e l’economia

Che la barca del regime stesse per affondare sembrò a molti quasi certo già con la crisi Matteotti, nel 1924, ma forse ancor più dinanzi alle conseguenze della crisi economica del 1929. Per capire il modo in cui il fascismo affrontò le difficoltà ed elaborò una sua peculiare risposta alle sfide dell’economia mondiale niente è più istruttivo del singolarissimo percorso biografico di al-

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