L'ombra del Golem

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Ai miei figli, Capucine ed Ethan, «noi studiamo, leggiamo, pensiamo. Non facciamo altro». É. A. A mia madre che m’insegnò chi era il Golem e soprattutto cosa rappresentava, nella speranza che nessun popolo abbia mai più bisogno di un Golem per proteggersi. B. L.

A Valerie Sherman e Christophe Jankovic, che ci hanno riuniti intorno al Golem. Senza di voi, questo libro non esisterebbe. É. A. & B. L.

Éliette Abécassis L’ombra del Golem disegni di Benjamin Lacombe traduzione di Camilla Diez progetto grafico e realizzazione di Benjamin Lacombe e Studio Flammarion Jeunesse ISBN 978-88-9348-084-0 Prima edizione italiana aprile 2017 In contemporanea con l’uscita francese ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 anno 2022 2021 2020 2019 2018 2017 © 2017 Carlo Gallucci editore srl – Roma Titolo dell’edizione originale francese: L’Ombre du Golem © 2017 Flammarion

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ÉLIETTE ABÉCASSIS

disegni di

BENJAMIN LACOMBE traduzione di Camilla Diez



Miei cari nipotini, è per voi che stasera ho deciso di prendere carta e penna. Fuori fa freddo, ho ravvivato il fuoco per avere un po’ di calore perché le mie dita intorpidite hanno bisogno di scaldarsi. Scrivo a penna, non ho computer né telefono cellulare. E non uso nemmeno Google: nonostante l’età e il tempo trascorso, mi servo soltanto della mia ottima memoria. La mia mente è vivida e non ho dimenticato nulla di quanto ho imparato. Ormai ho una certa età, ma non ho mai raccontato a nessuno questa storia; sono stata costretta a mantenerla segreta per ragioni che capirete più in là. Ora vorrei condividerla con voi, cercando di narrarvela nel miglior modo possibile, anche se a volte vi sembrerà folle o priva di senso. È giunta l’ora di testimoniare ciò che ho visto, e di rivelarvi lo strano segreto che ha sconvolto per sempre la mia vita – e quella dell’intera umanità. All’epoca non ero vecchia come mi vedete oggi, con i capelli bianchi, gli occhi grinzosi, le rughe profonde e le mani piene di macchie a causa dell’età. So bene che a volte posso fare paura, con il mio cappotto nero e sempre vestita di scuro, so bene che mi prendono per una strega quando preparo le mie pozioni magiche con bava di

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rospo, polvere di cristallo e pietre di bezoar, note per le loro virtù contro i veleni. O quando rimesto le mie misture alchemiche finché raggiungono lo stadio essenziale, o quando osservo i cibi che marciscono per poi cercare di tramutarli in oro con l’aiuto dello sputo di luna, un’alga gelatinosa e nauseabonda. Da sempre vivo nella casetta in via degli Alchimisti. Qui le abitazioni sono tutte strette l’una contro l’altra, come se cercassero di farsi caldo a vicenda. La mia è minuscola e piena zeppa di alambicchi; spesso ne escono vapori rossi, gialli o verdi, turchesi o violacei, che provengono dai miei intrugli. Sono un’alchimista, come lo erano prima di me mio padre e mia madre: insieme facevamo esperimenti e dosaggi, elaboravamo pozioni, tentavamo di trasformare il piombo in oro e, più di ogni altra cosa, cercavamo il segreto dell’immortalità. Bisognava conoscere bene la medicina e le piante, oltre a tutti i libri che spiegano come combinarle perché rivelino i loro poteri sull’organismo e sul mondo. Avevamo ogni sorta di clienti. Persone malate in cerca di rimedi, gente strana che voleva fare esperimenti. Avevamo anche principi e imperatori che cercavano di accrescere il loro potere. Ma tutto ciò avveniva in un’altra vita, molto più antica di questa. Vi state chiedendo di quale vita parlo? Ho raggiunto un’età in cui gli anni non si contano più. Ma saprete ogni cosa, ve lo prometto.

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PROLOGO

Tutto cominciò in una notte molto particolare. Una notte che ricorderò per sempre. Come potrei dimenticarla? Da quel momento in poi, per me niente è stato più come prima.

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Primo incontro con il Maharal



ra inverno, a Praga faceva freddo. Il fiume era mosso e la nebbia avvolgeva in un manto di fumo le cento torri che dominano la città. Quella sera la foschia era così fitta che non si riusciva a distinguere né la torre Bianca né la torre Nera, né la torre Daliborka e ancor meno la torre del Ponte, quella delle Polveri e quelle di tutte le chiese della città. Di notte, quando il cielo è sereno, Praga si riempie delle loro ombre. Le torri custodiscono strani segreti. Alcune, un tempo, erano prigioni. Una leggenda narra che il prigioniero di una di queste torri avesse imparato a suonare il violino, e ogni volta che suonava la gente gli mandava su un cesto di cose da mangiare. Ma stranamente il suono dello strumento riecheggiava tra le mura anche dopo la sua esecuzione… Su un’altura che domina la città si può scorgere il castello, dove vivevano l’imperatore e la sua Corte. Quel castello tetro e gigantesco nasconde molti misteri. Chi avrebbe mai immaginato che un giorno sarei stata rinchiusa lì dentro? L’imperatore Rodolfo ii, principe della casa d’Asburgo, si era stabilito lì. La sua Corte ospitava gli eruditi, i pittori e gli artisti più grandi del mondo! Al castello si potevano incontrare, tra gli altri, il pittore Arcimboldo, che componeva i volti con gli ortaggi, l’alchimista John Dee, che elaborava le sue pozioni, l’astronomo Tycho Brahe, che conosceva tutto del cielo e delle stelle, e molti altri artisti e scienziati. Rodolfo amava circondarsi di persone che potessero distoglierlo dal suo male, la malinconia.

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Quando ero piccola passeggiavo spesso per le strade di Praga. Verso il crepuscolo mi fermavo ad ascoltare le voci e le musiche che provenivano dalle chiese. Mi piaceva l’eco delle taverne, tra il ticchettio delle forchette, gli scoppi di risa, le zuffe tra i clienti che avevano alzato troppo il gomito. Mi piacevano i quartieri con le vie strette e sinuose, che facevano sembrare la mia città come avvolta su se stessa. Tastavo la pietra dura, assaporavo il freddo acuto, buio, che disegnava nella notte forme talvolta inquietanti, spazzate via dalle correnti d’aria. Ammiravo le curve della città, i ponti, i meli in fiore a primavera, e naturalmente il fiume, del quale seguivo i meandri fino alle colline. Quando salivo fin lassù potevo vedere i tetti e le scale, e osservavo in silenzio Praga che si addormentava nella penombra delle chiese. La nostra casa in via degli Alchimisti era così angusta che me ne stavo volentieri in giro. Non mi perdevo mai. Sapevo che non dovevo parlare a nessuno. Avevo un fratello e una sorella. Eravamo poveri e non ricevevamo alcuna istruzione. Ma bisognava pur fare qualcosa, durante il giorno. A volte accompagnavo mio padre quando raggiungeva gli amici alla bisca o sbrigava qualche affare. Da quando il monaco Thaddeus era diventato consigliere di re Rodolfo e aveva deciso di far la guerra agli alchimisti, questi non erano più i benvenuti a Corte. Si mormorava che avesse fatto giustiziare l’alchimista Edward Kelley, che a volte veniva a casa nostra per mostrarci una polvere capace di trasformare il rame in oro o, altre volte, invocava gli angeli per poterci parlare. Istigato dal monaco Thaddeus, l’imperatore l’aveva fatto imprigionare per costringerlo a trasformare il piombo in oro: l’alchimista era scomparso e non avevamo più avuto sue notizie. Da allora vivevamo nel terrore che un giorno

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l’uomo con la barba lunga e lo sguardo profondo, indicò loro la direzione da seguire. Gli uomini si avviarono in fondo alla strada, e io gli andai dietro di nascosto. Arrivarono in processione fino al cimitero ed entrarono uno dopo l’altro. Fu allora che assistetti allo spettacolo più strano e spaventoso della mia vita. Una fitta nebbia avvolgeva le pietre tombali, centinaia di lapidi tutte strette l’una contro l’altra. Nella penombra si distinguevano le iscrizioni e i simboli incisi sulle tombe. Su una di esse, un violino indicava che lì giaceva un musicista. Più in là, sulla sepoltura di uno stampatore, avevano scolpito un libro, e su quella di uno speziale un mortaio e un pestello. Al buio intravedevo le forme degli stemmi delle varie famiglie: su alcune tombe erano dipinti dei cervi, su altre leoni con le zampe divaricate. Su altre ancora fiorivano rose di pietra, e altrove le lapidi erano decorate di grappoli d’uva. Una scena del Paradiso indicava il luogo dove giaceva una Eva dormiente. Rabbrividii. Avevo paura. Gli alberi agitavano i tronchi e le fronde, simili a scheletri, sopra le tombe in disordine. Comparve la sagoma dell’uomo dagli occhi scintillanti, che si stagliava nel buio affiancata da quelle di due discepoli. Facevano gesti stravaganti. Udii alcune persone salutarlo, chiamandolo «Maharal! Maharal!» Il più grande rabbino di Praga – come venni a sapere più tardi – cominciò a pregare intensamente, dondolandosi avanti e indietro. Poi emise un profondo respiro.

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PRIMO INCONTRO CON IL MAHARAL

Fu allora che vidi sollevarsi delle zolle di terra: il suolo si aprì e gracili ombre si alzarono dalle fosse. Il mio cuore si mise a battere all’impazzata. Volevo gridare, scappare via, ma ero come paralizzata e nessun suono riuscì a uscire dalla mia bocca socchiusa. Erano bambini! Bambini con i volti pallidi, i capelli biondi, scuri o rossi, e con sorrisi d’angelo. Bambini morti che uscivano dalle loro tombe. Si misero a correre, saltare e ballare per tutto il cimitero, avvolti in bianchi lenzuoli, come se volessero approfittare pienamente di quei pochi istanti di libertà. Sembravano allegri. Giocavano a nascondino tra le tombe, mentre gli uomini in nero li guardavano felici. In mezzo a loro, il Maharal li guidava, come se fosse il coreografo di quello strano balletto. Quei bambini io li conoscevo. Erano le vittime dei massacri perpetrati nel quartiere ebraico, per odio e per disprezzo. Ma quella notte avevano sguardi pieni di gioia. Ballavano, giocavano, ridevano. Per un attimo il Maharal aveva ridato loro la vita. Quella vita che gli era stata tolta ancora prima che avessero l’età per capire. Allora scappai via correndo. Corsi più veloce che potei per tornare da mio padre. Però non gli raccontai la misteriosa scena che avevo appena visto al chiaro di luna. Per paura, o per disperazione, preferii tenerla per me.

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Primo incontro con il Golem



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non si muoveva. Rimaneva immobile. Se ne stava lì seduto al mio fianco, come in attesa dell’ordine che lo avrebbe animato. Il resto del tempo era inattivo. Era incapace di agire di sua iniziativa. Più lo vedevo e meno lo trovavo spaventoso. Forse esisteva un modo per entrare in contatto con lui: cosa accadeva sotto quel casco di capelli di argilla, in quel cranio squadrato, dietro quello sguardo quasi sempre vuoto o smarrito, talvolta furioso come quello di un uomo? Non era umano, certo. Ma forse avrebbe potuto parlare? Mi chinai su di lui e gli chiesi, come facevo con mia sorella, di pronunciare la lettera A. Ma invece di un grazioso balbettio, non ne uscì nulla. Il Golem rimaneva tranquillo a guardare davanti a sé, come se niente fosse. Il Maharal, che mi osservava già da un po’, mi disse con aria pensosa: «Naturalmente, se potesse parlare sarebbe diverso» «Ma non può parlare, vero, Maharal?» «Per come è stato concepito, è impossibile» «In che modo potrebbe avere il dono della parola?» chiesi. «La parola è molto, ma non basta. Riflettendoci, forse potrei, ispirato dalla Torah e con l’aiuto di alcuni calcoli, renderlo più… intelligente»

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ALLA CORTE DELL’IMPERATORE RODOLFO

«Bene…» disse l’imperatore. «Dalibor… Volevo vedervi. Per favore, vi prego, trovate qualcosa che possa guarirmi… Non voglio morire…» «So io cosa ci vuole per voi» disse mio padre. «Che cosa?» «Un elisir capace di rimettervi in forze, Maestà. E grazie a queste forze, ritroverete la vita!» Mio padre gli fece prendere il nostro sciroppo più efficace e temibile, quello a base di bava di rospo, succo lunare e pelle di serpente. «Puah» disse Rodolfo inghiottendone un cucchiaio. «Ma è atroce! Ahimè… Non ci riuscirò mai… È troppo cattivo…» Rodolfo si sedette, tutt’a un tratto molto malinconico. «Non mi sento bene… Ho ancora l’impressione di soffocare… di morire… La vostra pozione non funziona! Fate venire il mio astrologo!» Dopo qualche istante un uomo di alta statura entrò nella stanza. Aveva il naso d’oro: era il grande erudito Tycho Brahe. Elegante, curato, aveva occhi chiari, baffi e barba a corolla, e un mantello di corte che lasciava intravedere un raffinato farsetto sul quale brillavano varie file di catene e una grossa medaglia rotonda. Aveva un aspetto imponente e il suo sguardo scintillava d’intelligenza.

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L’OMBRA DEL GOLEM

Accanto a lui c’era un nano gobbo dai capelli rossi che saltellava strillando: era Jepp, il suo fedele servitore. «Tycho Brahe! Venite, amico caro! Voi che consacrate tutto il vostro tempo a studiare gli astri, di certo li conoscete abbastanza da potermi predire il futuro. Dicono che durante le vostre osservazioni astrologiche guardate il sole per ore e ore senza che vi brucino gli occhi… Cosa avete notato nei cieli, ultimamente? Nuove stelle? Come gira il mondo? Mi piacerebbe sapere cosa mi succederà…» «Ebbene, Maestà… le mie ultime scoperte nel campo sono piuttosto… sorprendenti, e non so se posso comunicarvele del tutto» «Di che si tratta, Brahe? Cosa ci nascondete?» «Maestà… ho fatto una scoperta incredibile» «Tycho Brahe» intervenne il monaco Thaddeus «sono contento che sosteniate la Chiesa in questi tempi difficili in cui dobbiamo lottare contro gli scienziati e contro i protestanti… i peggiori, ovviamente, sono gli scienziati protestanti. Come il vostro amico Keplero, giusto?» «Tacete e lasciatelo parlare!» disse Rodolfo. «Siete sicuramente molto dotto in teologia, ma non sapete nulla di astrologia! Ditemi, Tycho, scamperò alla peste? Non risparmia nemmeno i re… Ditemi, cosa annuncia il cielo per me?» «Non è la peste che dovreste temere, Maestà»

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Stampato in Lettonia






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