la storia del milan in 50 ritratti

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LA STORIA DEL MILAN

© 2020 Centauria srl – Milano

Publisher

Balthazar Pagani

Fact checking

Massimo Perrone

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PEPE nymi

Proprietà artistica letteraria riservata per tutti i Paesi.

Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata.

Prima edizione settembre 2020

Isbn 9788869214516

Ringrazio Paolo Condò per l’idea, per la fiducia, per la generosità.

Ringrazio i ragazzi di ComunqueMilan, a cominciare da Paolo Madeddu, per la persistenza di questi otto anni.

E poi naturalmente ringrazio

Marco van Basten, Paolo Maldini, George Weah e Ricardo Izecson dos Santos Leite.

Milan. Una storia d’amore

SOMMARIO

LA STORIA

MILAN

Una storia d’amore

Il Milan è innanzitutto una storia d’amore. Più di ogni altra squadra italiana, specialmente se restringiamo il campo alle cosiddette «grandi», ha sempre dichiarato la necessità di perseguire il risultato e la vittoria attraverso la bellezza sia estetica sia sostanziale, come dimostra il lato sentimentale di molte scelte e strade imboccate nel corso degli anni. Ragionando nel lunghissimo periodo, non c’è dubbio che la cosa abbia pagato: le sette coppe dei Campioni fanno dei rossoneri il secondo club più vincente in Europa dopo il Real Madrid. I conti tornano anche sul piano dei puri numeri, che sottolineano il feeling tra i rossoneri e l’Europa: sette Champions per diciotto scudetti, un rapporto di una coppa ogni 2,57 campionati vinti, nettamente meglio di Inter (6,00) e Juventus (17,50). Come abbia fatto ad arrivare tanto in alto, e come sia stato capace di splendere così a lungo e così forte, è una storia tutta da raccontare.

Il Milan Foot-Ball & Cricket Club vede la luce nella seconda decade dell’ultimo mese del 1899, in un giorno che oscilla tra il 13 e il 16 dicembre (molte fonti, tutte qualificate, sostengono tesi discordanti). Nessun dubbio, invece, sui nomi dei fondatori, a cominciare da quello dell’inglese Herbert

Kilpin, un giovane uomo proveniente da Nottingham e come molti suoi connazionali ardente del sacro fuoco del pallone. La prima casa è il Trotter, in piazza Doria, in una zona oggi occupata dalla Stazione Centrale: un campo senza ingresso, senza tribune e senza reti, con le righe del terreno di gioco delimitate da approssimative pennellate di calce. L’avventura può iniziare: la prima partita si svolge l’11 marzo 1900 contro la Società Educazione Fisica Mediolanum, in due tempi da quaranta minuti, e finisce 2-0 con le reti di Allison e Kilpin. Nel giro di pochi mesi arriva anche il primo «scudetto», nel 1901, battendo il quotato Genoa in trasferta, ovvero sul campo genovese di Ponte Carrega, con un sonante 3-0 di cui sono noti solo due marcatori su tre: un gol di Kilpin, un’autorete genoana, poi chissà.

La Milano e l’Inghilterra di inizio Novecento hanno in comune tante cose, compresa la fitta nebbia da brughiera o da campagna lombarda che avvolge interamente i primi decenni del football italiano, ricchi di episodi frammentari e contraddittori, competizioni estemporanee che durano solo pochi anni, con nomi come «Medaglia del Re» o «Palla Dapples». Il Milan vince altri due campionati, nel 1906 – prevalendo in finale sulla Juventus, che non si presenta al secondo spareggio per protesta contro la sede designata, il campo di via Comasina a Milano – e nel 1907 aggiudicandosi il gironcino finale a tre con Torino e Andrea Doria. Poi, l’oblio: il quarto scudetto verrà festeggiato ben quarantaquattro anni dopo, un lunghissimo salto nel tempo di almeno due generazioni e un paio di guerre mondiali.

Cugini e Cugini

Nel frattempo, però, qualcosa succede. Intanto, una frattura che avrà conseguenze storiche per l’intero calcio italiano: il 9 marzo 1908, al ristorante Orologio in piazza Duomo, un gruppo di quarantaquattro soci del Milan, in disaccordo con la volontà societaria di impedire il tesseramento di giocatori stranieri, decide di abbandonare i colori rossoneri per fondare una nuova società, chiamandola programmaticamente «Internazionale». Milano ha dunque il suo «derby»: il primo Milan-Inter della storia va in scena

il 18 ottobre 1908 come match di cartello della coppa Chiasso, dura cinquanta minuti (due tempi da 25') e se lo aggiudicano i rossoneri per 2-1.

Altri fatti notevoli: il cambio di presidenza che nel 1909 porta alla guida della società il ventottenne imprenditore Piero Pirelli; l’arrivo nel 1910 del primo grande campione internazionale, il belga Louis van Hege, che nei suoi sette anni al Milan manterrà una media abbondantemente superiore al gol a partita; la contestuale esplosione del primo piscinìn della storia rossonera, l’adolescente Renzo De Vecchi, terzino sinistro accompagnato per sempre dal sobrio appellativo di Figlio di Dio. Nel 1919 la denominazione sociale perde per strada il trascurabile cricket, mai attecchito a Milano, e si trasforma in Milan Football Club. Nel 1926 Pirelli finanzia la costruzione di un nuovo grande stadio accanto all’ippodromo del trotto di San Siro: la creazione porta la firma dell’ingegner Alberto Cugini e dell’architetto Ulisse Stacchini e viene inaugurata il 19 settembre 1926 in un derby vinto 6-3 dall’Inter (anche se il primo gol è rossonero: lo realizza l’ala Giuseppe Santagostino). «San Siro» rimarrà di proprietà rossonera fino al 1935, quando verrà acquistato dal Comune di Milano, interessato allo sviluppo urbanistico del quartiere.

Come si vede, le novità più succulente provengono quasi tutte dall’extracampo, tra vorticosi giri di sedi e cambi di nome imposti dal regime fascista (nel 1939 il Milan si italianizza in «Milano») perché i risultati sportivi tra le due guerre non sono entusiasmanti. I piazzamenti languiscono, non andando oltre due episodici terzi posti nel 1938 e nel 1941. La marginalità del Milan nel calcio italiano dell’epoca si nota scorrendo l’elenco dei campioni del mondo del 1934 e del 1938: un solo rossonero, l’ala destra Pietro Arcari, peraltro mai impiegato da Vittorio Pozzo. Il Milan è decisamente la seconda squadra della città, dove i grandi giocatori vanno se sono troppo giovani o troppo vecchi: emblematico l’arrivo nel 1940 di un declinante Peppìn Meazza, scaricato dopo tredici anni dall’Inter (o Ambrosiana, come si dice allora), ombra del fuoriclasse del decennio precedente, ma comunque in grado di togliersi la soddisfazione di un celebre gol nel derby. Anche se il giocatore simbolo è probabilmente un altro: il centravanti Aldo Boffi, tre volte capocannoniere del campionato nel 1939, 1940 e 1942, tuttora – con 131 gol – il quinto miglior marcatore della storia rossonera. A pro -

posito di personaggi a cavallo tra le due guerre, merita poi qualche riga la triste storia del centrocampista Abdon Sgarbi, capitano rossonero e risorsa anche per la nazionale, morto improvvisamente di tifo il 18 agosto 1929, nel giro di appena sei giorni, proprio all’alba del primo campionato di serie A a girone unico. Poi, mentre in città come in tutta Italia spirano venti di guerra, il Milan cambia padrone. Non è uno dei nomi più conosciuti dal tifoso di oggi, ma sarà decisivo per il futuro del Milan: l’imprenditore tessile Umberto Trabattoni.

Il secondo dopoguerra

In Italia il faticoso ritorno alla normalità avviene nel segno di una squadra indimenticabile, il Grande Torino, che vince cinque campionati consecutivi a cavallo della guerra. Pur non riuscendo mai davvero a impensierire i granata (al massimo diventando «campione d’inverno» nel 1947-48), il Milan occupa sempre le prime file, raggiungendo come miglior risultato un secondo posto nel 1948. L’incidente di Superga del 4 maggio 1949 cambia tragicamente lo scenario ed è opportuno ricordare come proprio i giocatori del Milan fossero stati gli ultimi a incontrare «dal vivo» i granata, pranzando insieme a loro all’aeroporto di Barcellona prima di ripartire per le rispettive destinazioni: il Torino in Italia, il Milan verso Madrid (dove avrebbe appreso della sciagura) per un’amichevole contro il Real. Al ritorno, sotto shock, i giocatori preferiscono viaggiare in treno. Dopo esserne stato commissario straordinario dal 1940 al 1944, nel 1945 Trabattoni diventa presidente del Milan, che torna di colpo protagonista alla fine del decennio. Sono anni in cui il nostro calcio, umiliato dai Paesi scandinavi alle Olimpiadi del 1948, «saccheggia» spesso e volentieri il Nord Europa, portando in Italia i migliori danesi e svedesi del momento, tutti attirati dal professionismo. Il primo in ordine d’apparizione rossonera è il centravanti di Hörnefors Gunnar Nordahl, che approda al Milan in circostanze singolari, come beau geste della Juventus in risarcimento dello «scippo» di Johannes Pløger, un danese che lungo il tragitto in treno da Copenaghen a Milano era stato intercettato dal connazionale John

Hansen, attaccante bianconero che l’aveva convinto a cambiare idea. Va da sé che Pløger alla Juve non avrà grande fortuna (eufemismo), mentre

Nordahl diventerà il miglior marcatore della storia del club… Gli altri due svedesi arrivano l’estate successiva e si chiamano Nils Liedholm e Gunnar Gren, uomini d’ordine e di pensiero in mezzo al campo: tutti e tre formano il Gre-No-Li, acronimo tanto piacevole all’udito quanto micidiale in campo. I fuochi d’artificio partono fin da subito, stagione 1949-50, in cui i rossoneri si piazzano secondi dietro la Juventus (pur battendola a domicilio con un clamoroso 7-1) con Nordahl che straccia tutti i record di prolificità, fissando l’asticella a quota trentacinque gol (una barriera che reggerà per sessantasei anni, prima di essere infranta da Gonzalo Higuaín nel 2015-16). E l’anno successivo arriva finalmente quello scudetto tanto atteso per quarantaquattro anni, col pacioso ungherese Lajos Czeizler in panchina e il Gre-No-Li a fiammeggiare in campo, con 107 gol in trentotto partite e un punto di vantaggio sull’Inter seconda. Oltre allo scudetto arriva anche la coppa Latina, un torneo Fifa non ufficiale tra squadre italiane, francesi, spagnole e portoghesi.

Gli anni Cinquanta sono un decennio di importanza capitale per il Milan, che abbandona la nicchia dell’anonimato e acquista dignità, forza e simpatia a livello nazionale e anche internazionale. Dopo tre podi consecutivi dal 1952 al 1954, il quinto scudetto vinto nel 1955 dà ai rossoneri il diritto a partecipare alla prima edizione di una competizione Uefa di cui avrete sentito parlare. Lo storico esordio in coppa dei Campioni avviene a San Siro il 1° novembre 1955 contro una squadra singolare, il Saarbrücken, rappresentante di un Paese (il Protettorato della Saar) che di fatto non esiste più già da una settimana: il 23 ottobre 1955, infatti, un referendum ne ha sancito il rifiuto all’indipendenza, gettando le basi per la futura annessione alla Germania Ovest a partire dal 1957. I neotedeschi sorprendono il Milan a San Siro vincendo 4-3, ma cedono di schianto 4-1 in casa; i rossoneri proseguono la corsa sbarazzandosi ai quarti del Rapid Vienna, ma devono arrendersi in semifinale al grande Real Madrid di Di Stéfano e Gento, all’inizio del suo quinquennio di splendore.

Questa è già la seconda stagione dell’era Andrea Rizzoli, figlio quarantenne del grande editore Angelo, che comanderà la società per un decennio di

crescente splendore e porterà in rossonero fuoriclasse di prima grandezza: in campo – Schiaffino, Cesare Maldini, Altafini e Gianni Rivera, solo per dirne quattro – e fuori. A cominciare da Giuseppe Viani detto Gipo, direttore tecnico di scatti vulcanici e intuizioni geniali, che firma lo scudetto del 1957 e la prima finale di coppa Campioni del club, datata 1958, a Bruxelles contro il solito Real Madrid. Anche se diventerà una rivalità intramontabile, questa sarà l’unica volta che il Milan contenderà direttamente la coppa agli spagnoli, con i rossoneri due volte in vantaggio con Schiaffino e Grillo ma puntualmente raggiunti da Di Stéfano e compagni, che mettono la freccia ai supplementari con il definitivo 3-2 di Gento. La coppa si trasforma nella piccola ossessione di Rizzoli, determinato a diventare il primo presidente italiano a vincerla, e il puzzle prende lentamente forma: nel 1959 arrivano il settimo scudetto e l’acquisto in comproprietà del sedicenne alessandrino Gianni Rivera, «un ragazzino di cui sconosco persino il nome» secondo la definizione del presidente. Dopo le gestioni tecniche di Luigi Bonizzoni e Paolo Todeschini, entrambi di fatto messi in ombra dallo strapotente «sceriffo» Viani, nel 1961 approda al Milan un allenatore di provincia destinato a fare la storia: è il corpulento Nereo Rocco, che nella grande città porta in dote risultati eccellenti alla guida del piccolo Padova. Il suo primo Milan parte balbettando e qualcuno gli profetizza vita breve prima dello scatto decisivo a metà novembre, quando il Paròn scarica l’ingovernabile attaccante inglese Jimmy Greaves per rinforzare il centrocampo con la classe di Dino Sani, fattezze da ragioniere catastale, piedi da regista brasiliano. A primavera arriva un magnifico scudetto, seguito nel 1962-63 dall’esaltante trionfo in coppa dei Campioni. Nonostante le frizioni ormai insanabili tra Viani e Rocco, che porteranno all’addio di quest’ultimo a fine stagione, il Milan raggiunge la finale di Wembley contro il favoritissimo Benfica di Eusébio, bicampione uscente. In una partita leggendaria, celebrata anni dopo anche da Lucio Dalla in un verso della sua Milano, i rossoneri (in maglia bianca) ribaltano il gol di Eusébio con una doppietta di Altafini, esattamente il tredicesimo e il quattordicesimo della sua competizione (un record che verrà battuto da Cristiano Ronaldo nel 2014). È un raggiante Cesare Maldini a scalare i trentanove gradini che collegano il campo e la tribuna dello stadio londi -

nese per diventare il primo capitano italiano ad alzare la coppa, fiancheggiato da Rivera e Dino Sani che, essendosi liberati delle proprie magliette, indossano due improbabili trench da impiegati della City: altri tempi, altre premiazioni…

Gli anni Sessanta

Nereo Rocco ha una sola parola e la promessa al Torino, data ben prima di Wembley, viene mantenuta. Sempre con la regia di Viani inizia un tourbillon di allenatori lungo un quadriennio, che porta anche all’esordio in panchina di Liedholm, senza risultati troppo brillanti. Il Milan si evolve, diventa moderno e seducente, lancia il magazine ufficiale «Forza Milan!» e inaugura il magnifico centro sportivo di Milanello, ultimo lascito della gestione Rizzoli prima della breve e infelice esperienza di Felicino Riva.

Dopo la vittoria a San Siro nella gara d’andata, la prima Intercontinentale si risolve nel lungo incubo di due battaglie ravvicinate al Maracanã di Rio de Janeiro contro il Santos privo della stella Pelé: i brasiliani prevalgono alla «bella», pesantemente indirizzata dal casalingo arbitro argentino Brozzi.

Segue un triennio amarognolo, segnato dall’amara beffa subita in volata dall’Inter nella stagione 1964-65, quando si consuma il definitivo strappo tra il Milan e il «coniglio» Altafini: in polemica con Viani e la società, José non torna a Milano fino a febbraio, rimettendo piede in campo a corto di condizione in coincidenza con il crollo primaverile dei rossoneri, superati in tromba dai nerazzurri di Herrera. Altrettanto malinconica la stagione 1965-66 (la prima senza Viani dopo nove anni), in cui le speranze di titolo sono frustrate a dicembre dal gravissimo infortunio a Bruno Mora, ala destra anche della nazionale, in uno scontro con il portiere del Bologna Spalazzi. L’annata sciagurata si chiude in bruttezza con la malattia di Liedholm, che rischia grosso a causa di una brutta epatite virale e viene sostituito negli ultimi tre mesi da Giovanni Cattozzo.

L’unica luce è la prima vittoria in coppa Italia, nel 1967, in finale contro il Padova. Un avversario che forse è un segno del destino, visto che per

tornare ai fasti di inizio decennio il Milan – passato nelle mani della famiglia Carraro, prima Luigi poi il figlio Franco – decide di richiamare il Paròn, ora ricevuto nella nuova sede di via Turati. La stagione 1967-68 è un’inaspettata marcia trionfale, in cui i «vecchi» della prima gestione Rocco ( Rivera e Trapattoni), raggiunti nel frattempo da campioni come Schnellinger, Rosato, Lodetti e Sormani, vengono affiancati da acquisti maturi come Cudicini, Malatrasi e Hamrin: il finisseur è il ventunenne

Pierino Prati, semiesordiente in serie A e subito capocannoniere con quindici gol. È un Milan pronto a vincere immediatamente e così avviene, in un campionato dominato e vinto aritmeticamente già a fine marzo e concluso con nove punti di distacco sul Napoli secondo. A maggio arriva anche il bel successo in coppa delle Coppe, eliminando il Bayern in semifinale e battendo 2-0 l’Amburgo in finale a Rotterdam con una doppietta del trentatreenne Hamrin, universalmente ritenuto un rottame e rigenerato da Rocco. Una squadra ancora più pronta, la stagione successiva, per tornare a caccia della coppa «dalle grandi orecchie» che proprio dal 1969 si presenta al pubblico nel suo formato più iconico, con i due manici molto più ampi e voluttuosi. Il Milan la onora con una cavalcata straordinaria, contro avversari molto più duri che sei anni prima: il fortissimo Celtic Glasgow superato ai quarti, i detentori del Manchester United eliminati in semifinale e l’Ajax di Cruijff «venuto dal futuro» – sarà vincitore delle tre edizioni dal 1971 al 1973 – ma annichilito 4-1 nell’ultimo atto a Madrid, nell’unica delle sette finali vinte dal Milan indossando la maglia rossonera. Il mattatore è Prati, tuttora l’unico italiano capace di segnare tre gol in una finale di Champions/coppa Campioni, ma il direttore d’orchestra è un Rivera delizioso, visionario fino ai confini del lisergico (siamo pur sempre nel 1969…). A fine anno «France Football» lo premierà col Pallone d’oro, per la prima volta vinto da un giocatore nato in Italia. I simbolici titoli di coda del decennio scorrono su una delle avventure più cruente e controverse dell’intera storia rossonera. Dopo aver vinto 3-0 l’andata a San Siro, il Milan vola a Buenos Aires per la gara di ritorno della finale di Intercontinentale contro l’Estudiantes, massimo esponente di una scuola argentina estremamente «sporca» e cinica. In un clima che va ben oltre l’intimidazione, in cui i giocatori rossoneri vengono bersagliati

da sputi e lanci di caffè bollente dalle tribune della Bombonera, il Milan vince la coppa perdendo «solo» 2-1, ma i suoi giocatori cadono vittima di ripetuti agguati da parte di molti argentini (tra i più efferati il portiere Poletti e i difensori Manera e Aguirre Suárez, tutti colpiti da lunghissime squalifiche e puniti con trenta giorni di prigione a testa). Il trattamento peggiore spetta al francoargentino Nestor Combin, picchiato selvaggiamente in campo e a fine partita preso in consegna dalla polizia che lo accusa di renitenza alla leva: per liberarlo è necessario l’intervento dell’ambasciata che spalleggia il presidente Carraro e il vicepresidente Sordillo, mentre tutta la squadra è bloccata sulla pista di decollo dell’aeroporto di Ezeiza. Al rientro in Italia, ospite della Domenica Sportiva con tutta la squadra, un tumefatto Combin verrà bonariamente preso in giro dal conduttore Enzo Tortora: «Devo darle una brutta notizia: abbiamo fatto una veloce inchiesta ed è risultato che lei non è in regola con il canone d’abbonamento».

Dallo stallo alla Stella

In anni torridi sia per la società italiana sia per il mondo del tifo, segnati dalla nascita nel 1968 della Fossa dei Leoni (il primo gruppo ultras italiano) e nel 1975 delle Brigate Rossonere, sul campo il Milan è costretto a ingoiare più di un boccone amaro e non riesce a schiodarsi da quel maledetto nove alla voce scudetti. Più volte lotta per il titolo, regala pomeriggi di grande spettacolo alla faccia della nomea da catenacciaro del Paròn (memorabile il 9-3 inflitto all’Atalanta il 15 ottobre 1972, record di gol totali, dodici, in una singola partita della storia della serie A), ma alla fine viene sempre sopraffatto: dall’outsider Inter di Giovanni Invernizzi nel 1970-71 e dalla Juventus nei due campionati successivi, entrambi passati alla storia per violente polemiche arbitrali che inquinano le fasi decisive del torneo. La chiosa ideale la appone Gianni Rivera che, interrogato in diretta Rai sul campionato 1972-73, commenta amaramente: «Diciamo pure che la palla è rotonda, ma rotola sempre dalla stessa parte». Una frase pronunciata in coda a una delle giornate più traumatiche della storia rossonera: il 20 mag -

gio 1973. Quattro giorni prima il Milan aveva vinto la sua seconda coppa delle Coppe battendo 1-0 il Leeds in una contestatissima finale a Salonicco, difendendo a oltranza il gol di Chiarugi arrivato al terzo minuto. Ora, per vincere l’agognata Stella, ai ragazzi di Rocco basta fare il loro dovere e battere un avversario già abbondantemente salvo. Ma al Bentegodi i fantasmi rossoneri subiscono senza colpo ferire la furia dell’insospettabile Verona, squadra modesta che quell’anno in casa è riuscita a segnare più di un gol solo in un’occasione. Ebbene, quel giorno l’Hellas ne fa cinque tutti insieme e compone la tragedia epocale della «fatal Verona», mentre contemporaneamente la Juve vince in casa della Roma a tre minuti dalla fine confezionando il più beffardo dei sorpassi. Due coppe Italia (1972, in finale contro il Napoli, e 1973, la «rivincita» ai rigori contro la Juve) non bastano a lenire il dolore: segue un’annata di transizione che passa alla storia soprattutto per la ripassata (6-0) subita dall’Ajax nella finale di ritorno di supercoppa europea. Il ciclo finisce nell’anonimato di una finale di coppa delle Coppe persa contro il misconosciuto Magdeburgo, nel deserto del De Kuip di Rotterdam (meno di 5000 spettatori): il Milan di Rocco è definitivamente passato di moda, ma anche quelli successivi faticano terribilmente a tenere la barra dritta. L’erede del Paròn, già sostituito la precedente stagione da Cesare Maldini e dal debuttante Trapattoni, è il sardo Gustavo Giagnoni: «l’allenatore col colbacco», che finisce in mezzo alla querelle tra Rivera e il presidente Albino Buticchi, che ne ventila pubblicamente la cessione (al Torino in cambio di Claudio Sala) facendo infuriare il clan del Golden Boy. Tanto che nell’estate 1975 si perfeziona il clamoroso colpo di mano di Rivera, che diventa di fatto il padrone della società esautorando Buticchi, affidando la presidenza al suo finanziatore Vittorio Duina (un anziano industriale metallurgico soprannominato, non senza ironia, il Re del tubo) e richiamando in panchina il vecchio Rocco, spalleggiato dall’emergente Trapattoni. Sono stagioni contraddittorie e rapsodiche, in cui si passa dall’ottimo terzo posto del 1976 al serio rischio di retrocessione dell’anno successivo, quando il giovane tecnico Pippo Marchioro viene esonerato a metà stagione dopo un Milan-Cesena 0-0 da incubo, in cui sugli spalti compare uno striscione eloquente: «Siamo disperati». A due giornate dalla fine il Milan è terzul -

timo, ha vinto solo tre partite e all’orizzonte si staglia lo scontro salvezza contro il Catanzaro di Palanca: San Siro si stringe attorno al povero Diavolo e ne esce un 3-2 decisivo, bissato la domenica seguente da una vittoria a Cesena che vale la faticosa salvezza. Una stagione da incubo viene parzialmente raddrizzata con la più romantica delle coppe Italia in bacheca, quella vinta a San Siro nella finale derby contro l’Inter il 3 luglio 1977, in una notte di caldo asfissiante in cui i gol di Maldera e Braglia rovinano l’ultima partita della carriera di Sandrino Mazzola. E il vecchio Rocco, richiamato all’ovile per salvare la baracca, può salutare da vincitore.

L’inadeguato Duina, passato alla storia per le numerose gaffe a danno dei suoi stessi giocatori (valga per tutte la frase «Scemo e bidone!» rivolta a Fabio Capello durante un Bologna-Milan), cede le azioni all’industriale brianzolo Felice Colombo. Dopo un riposante quarto posto nel 1977-78, il decennio si chiude a sorpresa con la Stella conquistata finalmente nel 1979 sotto la guida di Nils Liedholm, che nobilita una carriera da allenatore fin lì di medio cabotaggio con una lunga serie di geniali invenzioni, dal terzino goleador Maldera all’incursore Bigon capace di ben dodici reti, passando per il lancio di un libero diciottenne di belle speranze, Franchino (all’anagrafe) Baresi. Il Milan è campione d’Italia pur senza una punta degna di questo nome, dacché il modesto Chiodi segna un solo gol su azione. Il titolo arriva dopo un Milan-Bologna che passa alla storia per l’ultimo monologo di Rivera, che a bordo campo – in un istante premonitore della sua futura carriera da politico – impugna il microfono per chiedere di sgombrare il secondo anello, pericolante da inizio stagione, e consentire il regolare svolgimento della partita della Stella.

All’inferno e ritorno

Il Barone Liedholm si congeda in direzione Roma e al suo posto arriva Massimo Giacomini, reduce da una promozione in A con l’Udinese, una sola presenza con il Milan da giocatore nel 1967-68, quanto bastava per potersi dichiarare anche lui campione d’Italia. Iniziata con la mesta eliminazione al primo turno di coppa Campioni per mano del Porto, la stagione

1979-80 non sarebbe particolarmente memorabile, ma passa purtroppo alla storia per ciò che succede il giorno dell’Epifania, quando il Milan batte la Lazio 2-1. Il gol a tempo scaduto di Bruno Giordano, con un destro che passa sotto le gambe di Albertosi, scivolerebbe inosservato se due mesi dopo l’oste Alvaro Trinca e il fruttivendolo Massimo Cruciani non denunciassero ai magistrati romani una combine in grado di squassare fino alle fondamenta il già malaticcio calcio italiano. Milan-Lazio è stata truccata con successo per infimi scopi di Totonero, e a questo punto è solo questione di settimane: alla fine di Milan-Torino del 23 marzo 1980 le volanti della Guardia di Finanza portano via il portiere Albertosi, il centrocampista Giorgio Morini e il presidente Colombo. Lo shock è enorme. Le sentenze della giustizia sportiva porteranno alla squalifica di Albertosi (quattro anni), Morini (dieci mesi) e Chiodi (sei mesi), nonché all’inibizione a vita per il presidente Felice Colombo e al verdetto più amaro: il terzo posto diventa ultimo ed equivale alla prima dolorosa retrocessione in serie B in ottant’anni di storia rossonera. La rosa che solo un anno prima aveva vinto lo scudetto si disperde in mille rivoli: tra i pochi che decidono di rimanere Aldo Maldera e Franco Baresi, che inizia a gettare le basi del mito che verrà. Nel 1981 il Milan ritorna agilmente in serie A sempre con Giacomini al timone e il primo straniero dalla riapertura delle frontiere, il centravanti scozzese Joe Jordan detto lo Squalo per l’assenza degli incisivi superiori, persi in uno scontro di gioco. A suo agio nel clima britannico da battaglia permanente, Jordan rivela polveri piuttosto bagnate dalle nostre parti: ma questa è solo una delle tante note stonate della stagione da incubo 1981-82, che un Milan ambizioso affronta con l’esperto Gigi Radice in panchina prima di scoprire che va tutto storto. Baresi è costretto a uno stop di quattro mesi per una malattia del sangue, Radice salta a metà stagione, la classifica precipita fino al drammatico pomeriggio di Como, quando Fulvio Collovati – eletto a capro espiatorio – viene colpito da un sasso lanciato dall’imbufalito settore ospiti. La sinistra vittoria della trascurabile Mitropa Cup, competizione ormai riservata alle squadre campioni della serie B, precede di quattro giorni l’orrendo pomeriggio del 16 maggio 1982, zampillante di speranze ed emozioni forti e poi tremende: il Milan si produce in una clamorosa rimonta da 0-2 a 3-2 a Cesena,

solo per veder sfumare la salvezza negli ultimi minuti di Napoli-Genoa, quando un inspiegabile errore del portiere campano Luciano Castellini regala ai liguri il punto che vale la permanenza in A.

Anche la seconda stagione in serie B è una passerella sotto la gestione di Giuseppe «Giussy» Farina (subentrato all’avvocato Gaetano Morazzoni) e la guida di Ilario Castagner, ma anche il seguente ritorno in serie A (198384) si rivela molto faticoso: ancora una volta il Milan sbaglia gli acquisti stranieri, puntando in difesa sul decadente belga Gerets e affidando l’attacco all’inglese Luther Blissett che ci metterà poco per entrare nella piccola mitologia del calcio italiano – ma dalla parte sbagliata. Molto più brillante la stagione seguente che vede il secondo ritorno in panchina di Nils Liedholm alla guida di una rosa profondamente rinnovata, con elementi d’esperienza come il portiere Terraneo, il regista Di Bartolomei, la punta

Virdis e una nuova coppia di stranieri finalmente azzeccata, gli inglesi Ray Wilkins e Mark Hateley. Quest’ultimo conquista per sempre i cuori milanisti con un leggendario colpo di testa in anticipo sul detestato ex Collovati, un gol che dà al Milan la vittoria nel derby dopo sei lunghi anni e due retrocessioni nel mezzo. Un anticipo della gloria futura, di cui un secondo trailer è l’esordio in prima squadra del sedicenne Paolo Maldini il 20 gennaio 1985 a Udine. Ma la fine del tunnel dista ancora qualche chilometro, perché nel frattempo la società di Farina non è così solida come sembra e i nodi vengono drammaticamente al pettine nell’autunno 1985, dove la crisi di risultati (il cui punto più basso è l’eliminazione in coppa Uefa per mano dei belgi del Waregem, con violentissima contestazione a San Siro) si abbina a quella economica. Con l’anno nuovo vengono allo scoperto i conti drammatici della società, che non ha neanche versato i quattro miliardi di contributi Irpef e ritarda a pagare ai giocatori gli stipendi di dicembre: Farina si è dimesso ed è fuggito in Sudafrica, serve denaro fresco per ripianare i debiti e garantire la sopravvivenza della società. L’acquirente più deciso è l’imprenditore televisivo e immobiliare Silvio Berlusconi, che conduce la trattativa in posizione di forza, sia economica sia di popolarità presso i tifosi: la fumata bianca arriva tra febbraio e marzo. Il Milan finisce la stagione in un sostanziale anonimato, ma Berlusconi ha già iniziato a lavorare: il biglietto da visita è l’acquisto della stella Donadoni dall’Atalanta,

una società che per oltre un decennio aveva sempre tenuto da parte i suoi frutti migliori per la Juventus.

Gli elicotteri, e altre storie

Tutti i grandi kolossal partono con un prologo di fortissimo impatto, per mettere subito le cose in chiaro nelle retine dello spettatore. Il Milan di Berlusconi ambienta la propria ouverture all’Arena di Milano, dove il 18 luglio 1986 atterrano tre elicotteri da cui scende per acclamazione l’intera rosa, compresi i cinque nuovi acquisti: oltre a Donadoni, anche Giovanni Galli, Dario Bonetti, Daniele Massaro e Giuseppe Galderisi. Nel calcio italiano dell’epoca Berlusconi è una specie di Ufo, guardato con scetticismo, e sarcasmo da una stampa paludata e diffidente, sempre un po’ refrattaria alla novità: girano grandi ironie sulla scenata del presidente quando ha scoperto sulla tavola dei giocatori una crostata, proclamando di voler assumere un dietologo. Il Cavaliere lega poco con Liedholm, da cui lo separa una profonda incompatibilità: dopo due sconfitte in primavera contro Sampdoria e Avellino, lo svedese viene esonerato e il timone è affidato a Fabio Capello, che traghetta la squadra verso una qualificazione Uefa ottenuta allo spareggio. Berlusconi però ha già scelto l’allenatore di domani, pescandolo in serie B dal Parma che ha battuto due volte i rossoneri in coppa Italia. È un uomo di quarantun anni, orgoglioso e combattivo come tutti i romagnoli, senza alcun pedigree nemmeno da giocatore: Arrigo Sacchi, ex rappresentante di calzature che da un decennio sta ottenendo buoni risultati nelle categorie minori. Berlusconi gli mette a disposizione una rosa di cui in pochi immaginano ancora il valore, impreziosita da due acquisti olandesi di livello assoluto: dal Psv Eindhoven Ruud Gullit, Pallone d’oro in pectore, dall’Ajax Marco van Basten. Sacchi chiede e ottiene alcuni giocatori dal suo ex Parma, di cui tenta di replicare la rigorosa linea difensiva (sempiterno l’aneddoto, tra realtà e leggenda, di Arrigo che consegna a Franco Baresi una carrettata di Vhs con i movimenti del libero Gianluca Signorini); molto più decisivo, proprio l’ultimo giorno di mercato, è l’acquisto dalla Roma del mediano Carlo Ancelotti, apparentemente logoro e imbolsito. I primi risul -

tati sono balbettanti, e lo scarso appeal di Sacchi induce i critici meno lungimiranti a vaticinarne l’addio prima del panettone. La svolta arriva dopo la sconfitta in Uefa per mano dell’Espanyol e prima della partita spartiacque di Verona, alla vigilia della quale Berlusconi, davanti alla squadra, prende ufficialmente le difese del tecnico: «Lui resta, voi non so». E il Milan non perde più, a eccezione della sconfitta a tavolino contro la Roma a causa di un petardo esploso a pochi metri dal portiere giallorosso Tancredi. Il girone di ritorno è una cavalcata impetuosa e spettacolare in cui la squadra macina gol e gioco e rimonta il Napoli di Maradona, arrivato cotto a primavera, sorpassandolo il 1° maggio 1988 nello scontro diretto al San Paolo: il 3-2, firmato da una doppietta di Virdis e da un gol del redivivo Van Basten, tornato in forma dopo un lungo infortunio, è l’anticipo della festa che scoppierà due settimane dopo a Como, nel piccolo stadio Sinigaglia invaso da centinaia di bandiere rossonere.

Ottenuto da Berlusconi il placet per l’acquisto del terzo olandese Rijkaard dopo un lungo braccio di ferro (il presidente avrebbe preferito l’argentino Borghi), il Milan esporta la sua rivoluzione in tutta Europa: i migliori solisti in circolazione si mettono al servizio di un’utopia che prende miracolosamente forma sul campo. I momenti più alti della Sacchi Band arrivano in coincidenza delle tre partite più importanti dell’anno, ma prima è doveroso ricordare il colpo di fortuna occorso a Belgrado ai primi di novembre, quando solo un’inaudita nebbia fuori stagione salva il Diavolo dall’eliminazione agli ottavi sotto i colpi della Stella Rossa. Sospesa a inizio ripresa, la partita ricomincia da capo il pomeriggio successivo e i rossoneri la spuntano ai rigori, nonostante un drammatico infortunio a Donadoni. Il Milan esplode a primavera con un leggendario doppio confronto in semifinale in cui umilia il Real Madrid, che riesce a strappare l’1-1 al Bernabéu prima di essere travolto a San Siro con un 5-0 che farà epoca. I rossoneri completano l’opera demolendo 4-0 la tenera Steaua Bucarest in finale, disputata in un Camp Nou riempito da 90.000 tifosi milanisti: due gol di Gullit e due gol di Van Basten, i primi violini al servizio della più grande orchestra si sia mai vista su un campo da calcio dai tempi dell’Ajax di Cruijff.

La stagione 1989-90 riesce altrettanto trionfale, anche se avvelenata da una controversa volata scudetto in cui il Napoli di Maradona prevale anche

grazie al discutibile arbitraggio di Lo Bello junior in Verona-Milan della penultima giornata. Berlusconi si consola con l’en plein internazionale: supercoppa europea (contro il Barcellona), Intercontinentale (a Tokyo contro il Nacional Medelliín, in un’estenuante finale di 120 minuti risolta quasi allo scadere da una furbata di Chicco Evani su punizione) e la seconda coppa Campioni di fila, eliminando ossi durissimi come Real Madrid, Malines e Bayern Monaco, prima di un epilogo molto più tattico contro il Benfica, piegato a metà ripresa da una combinazione tra Van Basten e Rijkaard. Il Milan è padrone del mondo, monopolizza per due anni consecutivi l’intero podio del Pallone d’oro, a fine 1990 vince ancora supercoppa europea (contro la Sampdoria) e Intercontinentale (uno show contro i paraguayani dell’Olimpia Asunción), ma il logorante ciclo sacchiano è a fine corsa: pilastri come Baresi e Van Basten perdono la sintonia con l’allenatore, le campane a martello suonano in una notte triste e buia a Marsiglia, quando un calo di tensione di un riflettore del Vélodrome è preso a pretesto da Adriano Galliani per ritirare la squadra dal campo, a pochi minuti dall’eliminazione nei quarti di finale di coppa Campioni. La punizione dell’Uefa è severissima: 3-0 a tavolino e un anno di squalifica dall’Europa. In un certo senso, il momento ideale per tirare una riga e aprire un nuovo capitolo.

Gli Invincibili

La scelta di Berlusconi coglie tutti di sorpresa: Fabio Capello, un tecnico di fatto esordiente in serie A (appena sei partite con il Milan 1986-87), un recente passato da manager della Polisportiva Mediolanum, nella migliore delle ipotesi un aziendalista che farà la volontà del Cavaliere. Invece nei suoi primi cinque anni in rossonero Capello progetta un Milan persino più solido e vincente del precedente, che si specchia nella mostruosa striscia di cinquantotto partite di campionato senza sconfitte dal 1991 al 1993 e inizia lentamente a cambiare pelle, per esempio sostituendo il vecchio Ancelotti con il nuovo regista Albertini. La versione più spettacolare è quella del 1992, che senza le coppe tiranneggia la serie A non perdendo neanche una partita. Con la decisiva collaborazione di un Van Basten al di là del

bene e del male, infila risultati da luna park: 8-2 a Foggia, 5-4 a Pescara, 7-3 a Firenze, 5-1 a Napoli… La rosa progettata da Berlusconi soffre forse di gigantismo, anche perché la regola dei tre stranieri costringe spesso ai margini fuoriclasse come Papin, Boban e Savićević, ma in aiuto di Capello arriva la drastica svolta dell’estate 1993, successiva alla bruciante sconfitta in finale di coppa Campioni contro l’Olympique Marsiglia: in un colpo solo partono Gullit e Rijkaard e si congeda di fatto anche il Cigno Van Basten, costretto a smettere di giocare a soli ventott’anni per insormontabili problemi alla caviglia destra.

Capello ridisegna il Milan attorno al suo formidabile quartetto difensivo, Baresi e Costacurta centrali, Maldini a sinistra e Tassotti (o Panucci) a destra, una linea talmente rigorosa e implacabile da far passare lunghi pomeriggi di noia al portiere Sebastiano Rossi, che nel corso del campionato arriverà anche a 929 minuti di imbattibilità (record che verrà battuto da Buffon nel 2016). A novembre la squadra diventa ancora più inespugnabile grazie a una grande trovata del tecnico, che avanza a centrocampo il roccioso centrale Marcel Desailly, appena acquistato dal Marsiglia. Normale che sia proprio lui a mettere il punto esclamativo sul clamoroso 4-0 in finale contro lo spocchioso Barcellona di Johan Cruijff, che alla vigilia aveva ironizzato sull’arretratezza del calcio praticato dai rossoneri: una doppietta di Massaro mette la partita in discesa già nei primi 45', un magnifico pallonetto di Savićević appaga gli esteti, il destro a giro di Desailly fa partire la festa con mezz’ora d’anticipo. Mentre le telecamere indugiano sul volto terreo di Cruijff, alle prese con la sua peggior notte da allenatore, Capello esulta a mascella serrata, sguardo basso verso la pista d’atletica dell’Olimpico di Atene, senza mai dare la sensazione di rilassarsi. Alle tantissime vittorie interne (oltre agli scudetti, da ricordare anche le tre supercoppe italiane, una nuova competizione nata negli anni Ottanta sul modello del Charity Shield inglese) non corrisponde la stessa sorte all’estero: il trionfo del 1994 è una delle poche gioie internazionali, a fronte di due finali di Champions perse per 1-0 – la seconda nel 1995 contro l’Ajax dell’ex Rijkaard e di tanti altri futuri milanisti dalle alterne fortune come Seedorf, Davids, Reiziger e Kluivert. Nonostante la supercoppa europea vinta contro l’Arsenal (1994-95), vanno male anche i due viaggi in

Giappone per due Intercontinentali perse contro San Paolo (1993) e Vélez (1994), che servono ad alimentare lo stereotipo di un Capello allenatore più da campionati che da finali secche. E in effetti Capello fa centro anche nel 1995-96, con un Milan rigenerato in attacco dalla classe di Roberto Baggio e George Weah, Pallone d’oro anche grazie ai suoi primi tre magnifici mesi in rossonero. Al quarto scudetto in cinque anni, Capello saluta commosso per un’altra grande avventura al Real Madrid. Seguono due anni tremendi in cui il Milan sembra smarrirsi e perdere la sua aura: sbagliata la scelta dell’uruguaiano Tabárez (subito battezzato da Berlusconi: «Chi è, un cantante di Sanremo?»), sciagurato il ritorno al passato da un Sacchi logorato dallo stress e da cinque anni di nazionale, con pagine nere come l’1-6 incassato a San Siro dalla Juventus (la sconfitta casalinga in serie A più pesante nella storia del club) o malinconiche come l’addio di Franco Baresi: in suo onore – prima squadra italiana – il Milan ritira la maglia numero 6. Da buttare anche la «minestra riscaldata» di Capello, che ha la cattiva idea di prendere in mano una rosa di mezze tacche che si perderà nel pantano della metà classifica. Tutto da rifare, insomma, e in soccorso del Diavolo arriva un altro romagnolo che con Sacchi condivide persino la data di nascita (1° aprile): Alberto Zaccheroni, anche lui capace di centrare lo scudetto al primo colpo. È un Milan minore, rinforzato in attacco dallo spilungone Bierhoff che è tra i migliori colpitori di testa della storia del calcio, ma probabilmente inferiore alla Lazio cui contende il titolo fino alla fine. Il campionato svolta improvvisamente nelle ultime sette giornate, grazie a una mossa tattica la cui paternità verrà a lungo contesa tra l’allenatore e il presidente: sta di fatto che il 3-4-3 vagamente integralista di Zac muta in un 3-4-1-2 in cui l’anello della bilancia è Zorro Boban, che gioca i migliori due mesi della sua carriera milanista. È la rivincita della vecchia guardia data per «bollita», i Maldini, i Costacurta, gli Albertini, che trovano nuove leve a cui insegnare il verbo: per esempio il biondo Ambrosini, rivelazione della stagione, o il suo compare Gattuso che arriverà al Milan l’estate successiva, per andare via solo tredici anni dopo. Ma il grande fuoriclasse che manca al Milan da un decennio arriva da est come il sole che annuncia la primavera: si chiama Andriy Shevchenko e marchierà a fuoco la storia del Diavolo.

Ventiquattro gol alla prima stagione (capocannoniere), ventiquattro alla seconda: Sheva certo non soffre di problemi d’ambientamento. Zaccheroni resiste un anno e mezzo alle punzecchiature di Berlusconi, poi salta dopo un’eliminazione in Champions League: gli subentra il duumvirato Tassotti-Cesare Maldini che scrive l’incredibile pagina del 6-0 all’Inter l’11 maggio 2001, due giorni prima della seconda vittoria elettorale di Silvio Berlusconi. Il neopremier si disinteressa sempre più della gestione quotidiana del club, delegando tutto al fido Adriano Galliani. Nell’autunno 2001, dopo un mercato faraonico che porta a Milanello stelle come Rui Costa, Inzaghi e l’inespresso Pirlo, è proprio Galliani a cogliere l’attimo e sostituire il turco Terim con Ancelotti, poche ore prima che vada a firmare con il Parma. Il ritorno a casa di Carletto non inizia in modo incoraggiante, ma la qualificazione Champions acciuffata all’ultima giornata (il famoso 5 maggio 2002, data funesta per l’altra squadra di Milano) apre l’ennesimo periodo di magia.

Il Milan di Ancelotti

La squadra dei Meravigliosi (copyright di Galliani) si perfeziona con una sessione di calciomercato tra le più felici della storia rossonera. All’ex interista Pirlo, giunto nel 2001 e reinventato regista dall’allenatore riprendendo una vecchia intuizione di Mazzone, si affianca Seedorf, ai margini dell’ambiente nerazzurro. Dal Barcellona sbarca Rivaldo, fresco campione del mondo con il Brasile (sarà una delusione), ma soprattutto nelle ultime ore di mercato arriva dalla Lazio Alessandro Nesta, simbolo della ramificazione del potere economico e anche politico di Berlusconi e Galliani. Questo Milan è uno squadrone, anche se in campionato cede alla distanza alla collaudata Juventus; ma la casa del Diavolo è da sempre l’Europa e gli dèi del calcio si divertono a tracciare un tabellone da sogno. Ai quarti di finale l’Ajax viene piegato al 91' da un guizzo di Inzaghi (corretto in rete dal danese Tomasson); in semifinale hanno la meglio sull’Inter in un doppio derby da cardiopalma che si risolve con due pareggi, grazie alla regola dei gol in trasferta; nella finale di Manchester, infine, la spuntano ai rigori contro

la Juventus, favorita ma priva dello squalificato Nedvěd. L’eroe è Dida, che ipnotizza tre juventini su cinque, ma l’ultimo pallone lo tocca Shevchenko, con un destro perfetto che spiazza Buffon. La sesta Champions League consente a Paolo Maldini di mettersi all’altezza di suo padre Cesare, che l’aveva alzata in un altro cielo inglese quarant’anni prima. Ad agosto arriverà anche la supercoppa europea, ancora firmata Shevchenko, a segno contro il Porto del rampante Mourinho.

È l’alba dell’ultimo grande Milan, romantico e indimenticabile come il migliore dei tramonti. Nell’agosto 2003 sbarca il brasiliano Kaká, il tassello mancante per collegare il centrocampo Gattuso- Pirlo- Seedorf a Inzaghi e Shevchenko. Il ragazzo viaggia a velocità doppia rispetto al resto del campionato 2003-04, dominato da Natale in avanti grazie al passaggio al sistema «ad albero di Natale» inventato da Ancelotti per far convivere i due trequartisti Kaká e Rui Costa. Il Milan diventa una squadra forse leggera in difesa e pigra nelle partite «facili», ma macchina da spettacolo nelle notti europee. Eppure, nel quadriennio successivo arriverà soltanto un’altra Champions: colpa dell’inspiegabile black-out di La Coruña 2004, che trasforma un 4-1 all’andata in un disastroso 0-4 al Riazor, oppure della congiura astrale che disegna un oroscopo crudele nella notte di Istanbul, 25 maggio 2005, da 3-0 a 3-3 nel giro di sei minuti contro il Liverpool del clownesco portiere Dudek, incubo di molte notti a venire. Dopo Istanbul il Milan vacilla, ma dopo due anni ritrova la forza di una grande last dance come quella che si conclude ad Atene per l’attesa rivincita contro i Reds, un 2-1 interamente firmato Inzaghi che porta a sette il conto delle coppe dei Campioni del club, più di tutte le altre squadre italiane messe insieme. Il lieto fine dopo mesi polemici e avvelenati dalla bufera di Calciopoli che ha stravolto il calcio italiano, ha mandato in serie B la Juventus ed è costata anche al Milan, penalizzato di otto punti nel 2006-07 e costretto a partire dai preliminari di Champions, nella stagione che si concluderà con il trionfo di Atene.

E così invecchia anche il Milan di Ancelotti, pure in grado di alzare gli ultimi due trofei internazionali: la supercoppa europea a Montecarlo contro il Siviglia e il Mondiale per club a Yokohama, dove arriva l’ultima rivincita contro il Boca Juniors. La società indulge troppo nella conferma a oltran -

za dei suoi eroi, oppure attira in squadra giocatori a fine carriera (su tutti Ronaldinho e Beckham) ancora capaci di squarci abbaglianti, ma inaffidabili sul lungo periodo. In Italia domina l’Inter prima di Mancini e poi di Mourinho, mentre il Milan si limita a stagioni onorevoli ma un po’ ornamentali: quinto nel 2007-08, terzo nel 2008-09 (quando salutano tutti insieme Ancelotti, Kaká e Maldini, di cui il Milan ritirerà la maglia numero 3) e ancora terzo nel 2009-10, nell’unica stagione con Leonardo allenatore. L’ultimo grande lampo risale al 2010-11, quando Massimiliano Allegri ripete l’impresa di Sacchi e Zaccheroni centrando lo scudetto al primo colpo, con una squadra molto pratica e pragmatica che fa male di ripartenza, sfruttando la possanza atletica dei nuovi acquisti Ibrahimović e Boateng e i guizzi dei brasiliani Pato e Robinho, mentre a centrocampo brilla il fosforo del vecchio Van Bommel, utilissimo rinforzo di gennaio pescato da Galliani al Bayern Monaco. È il diciottesimo e ultimo scudetto che lancia la carriera del tecnico livornese, destinata a maggiori successi alla Juventus. Nel 2012, infatti, la proprietà decide brutalmente di «chiudere i rubinetti»: le difficoltà economiche della Fininvest costringono alla cessione al Paris Saint-Germain dei due pezzi più pregiati, Thiago Silva e Ibrahimović, mentre contestualmente lasciano tutti insieme molti vecchi draghi: Nesta, Gattuso, Pirlo, Inzaghi, lo stesso Van Bommel… è quella la stagione del famigerato «gol di Muntari» che indirizza lo scontro diretto contro la Juventus di Antonio Conte, destinata ad aprire un lunghissimo ciclo vincente. Ed è anche la stagione di uno dei turning point della storia recente rossonera, il mancato affare che a gennaio avrebbe portato Pato al Paris Saint-Germain e Tévez al Milan via Manchester City: una doppia trattativa che salta per il niet di Berlusconi e di sua figlia Barbara, in quel momento legata sentimentalmente all’attaccante brasiliano.

Gli ultimi fuochi

Avrete intuito che le acque hanno iniziato a incresparsi: plenipotenziario per venticinque anni, Galliani vede la sua leadership insidiata dalla rampante Barbara Berlusconi, che nel 2013 diventa addirittura amministratrice

delegata alla pari con Adriano, per uno strano «mostro a due teste» in cui i due dovrebbero dividersi la parte sportiva e la parte commerciale (nonché la realizzazione della nuova sede, Casa Milan, in zona Portello). La confusione regna sovrana in campo e fuori: nel 2014 ne fa le spese Allegri, giubilato dopo una sconfitta contro il Sassuolo e sostituito dall’acerbo Seedorf, candidato della sponda berlusconiana. Seedorf fallisce e il Milan finisce fuori dalle coppe; nel 2014-15 tocca a Pippo Inzaghi che si ritrova una rosa a costo zero in cui il miglior giocatore della rosa è l’estemporaneo Ménez. Decimo posto. Altro giro altra corsa: nel 2015-16 ci prova Mihajlović, che ha almeno il merito di qualificare la squadra in finale di coppa Italia, portare in rossonero il futuro capitano Romagnoli e lanciare il prodigioso portierino Donnarumma, ma anche Siniša entra in rotta di collisione con Berlusconi e viene esonerato ad aprile, sostituito con Brocchi che dura meno di due mesi (e perde la finale di coppa Italia). Il Milan è sul mercato, riceve timide avance da poco convinti magnati russi o arabi e finisce oggetto di una lunga e tortuosa trattativa «a scatole cinesi» con una misteriosa società orientale che complica non poco il lavoro di Vincenzo Montella. Il nuovo tecnico riesce quantomeno a portare in bacheca l’ultimo trofeo, la supercoppa italiana vinta il 23 dicembre 2016 a Doha nel segno di Donnarumma, strepitoso ai rigori finali su Dybala. Da qui in avanti, fino ai giorni nostri, è soprattutto improvvisazione, quando non vero e proprio caos. Il comune denominatore è il regolare fallimento dell’obiettivo stagionale, la qualificazione in Champions League che darebbe ossigeno a casse svuotate da costose e inutili campagne di rafforzamento, come quella condotta nell’estate 2017 dalla coppia Marco Fassone-Massimiliano Mirabelli: undici nuovi acquisti pomposamente annunciati dall’infelice slogan «passiamo alle cose formali» che non frutteranno più di un sesto posto. Emblematica la vicenda di Bonucci, che accetta di lasciare la Juventus per venire a «spostare gli equilibri» in rossonero, solo per fare marcia indietro un anno dopo. L’ennesimo cambio di proprietà (estate 2018) porta in sella il fondo americano Elliott e tre nuovi dirigenti (il brasiliano Leonardo e il monumento Paolo Maldini, che a cinquant’anni accetta di rimettersi in gioco, più Zorro Boban che arriva nel 2019) che presto o tardi entreranno in rotta di collisione con Ivan Gazidis, l’amministratore delegato di fiducia della proprietà. Nonostante mille ten -

sioni e fattori di disturbo, la squadra, ben diretta dall’encomiabile Gattuso, arriva quinta a un solo punto dalla zona Champions: ma l’estate successiva l’Uefa le cancella anche la qualificazione in Europa League, escludendola dalla coppa minore per violazioni delle norme del fair play finanziario. Segue un 2019-20 triste e dimenticabile, con la breve e disastrosa gestione di Marco Giampaolo che azzoppa già alla partenza una stagione solo in parte raddrizzata da Stefano Pioli (gli dà una mano il totem Ibrahimović, di ritorno a 38 anni). Il futuro è nebuloso e non è esclusa prima o poi un’ennesima rivoluzione tecnica e societaria. Il vecchio Diavolo soffre, ma si mantiene vivo sotto la cenere, aspettando che arrivi a svegliarlo l’ennesimo cavaliere rossonero (non per forza in senso letterale). In fondo, come abbiamo visto, in 120 anni è successo spesso.

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