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© 2020 Centauria srl – Milano
Publisher
Balthazar Pagani
Factchecking
Massimo Perrone
Graphicdesign
PEPE nymi
Proprietà artistica letteraria riservata per tutti i Paesi.
Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata.
Prima edizione settembre 2020
Isbn 9788869214509
A quella mano che tenne stretta la nostra, la prima volta che salimmo i gradoni di uno stadio.
JUVENTUS. Una squadra, una storia, un popolo
Una squadra, una storia, un popolo
La Juventus è il rumore di fondo del calcio. È il primo pensiero di milioni di tifosi, è il secondo pensiero degli altri. Come tutte le forze dominanti, è una presenza necessaria per chi è stato battezzato con questi colori estremi e senza tinta e anche per chi lotta e si organizza in strategie per rovesciarne il potere.
Una panchina, un po’ di ragazzi
«Sai, comunque è una cosa semplice.»
«Ma si gioca con i piedi: già questo mi pare assai complicato.»
«Si gioca con tutto: la testa, i muscoli, serve tecnica e serve coraggio. Hai visto, no? I signorini al Valentino quanto sbuffano: se riesce a loro, saremo meno ricchi, ma non penserai che siamo meno dotati…»
«Loro hanno il parco.»
«Ma ogni spazio può d iventare campo d i sfida: u n pezzo d i terra, a nche u no scorcio di strada. La palla, poi… Un po’ di stracci ammucchiati e tenuti insieme, in forma tondeggiante – meglio anche del cuoio, che ferisce le teste impavide, con quelle cuciture pronunciate. Per giocare poi bastano i vestiti di
tutti giorni, le scarpe per chi ne ha un paio da consumare, ma si gioca anche scalzi, le regole sono minime, anzi, tutto è riducibile a uno schema: bisogna fare gol, e impedire agli altri di farlo senza usare la forza.»
La panchina di corso Re Umberto, di fronte alla pasticceria Platti, a ridosso di via Parini dove ha sede il liceo classico Massimo d’Azeglio, si popola di studenti già allenati da altri sport (podismo, ciclismo, tamburello, ginnastica: questo si faceva) e incuriositi da esibizioni di calcio nel parco del Valentino e da altre meno composte nella vecchia piazza d’Armi. Discutono, prevedono di organizzarsi, si interrogano intanto sulla comprensione del gioco. Si avvicinano a nche due f ratelli proprietari d i u n’officina nella stessa v ia, e ha ragione il più grande di loro, Enrico Canfari: questo pacifico g ioco d i sopraffazione si diffonde per la sua semplicità. A Torino, le prime mosse furono proprio esibizioni al parco del Valentino fra la nobiltà cittadina (più dinamica di altre edizioni storiche, a perditempo) e la borghesia produttiva, l’una radunata attorno al Duca degli Abruzzi e l’altra convocata da Edoardo Brosio (dipendente torinese di una ditta di Nottingham), che si narra aver portato in Italia il primo pallone di cuoio, nel 1887. Lui, di rientro in patria, s’impegnò nella fondazione di un Foot Ball and Cricket Club, sul modello imparato in Inghilterra: d’estate, i soci lasciavano la pesante palla per armare gli scafi del canottaggio. Quattro a nni dopo gli a ristocratici tentativi, e dopo molte sfide delle quali mancano le cronache, i nobili e i borghesi si unirono nell’Internazionale Torino Fc: nel 1891 nasce così la prima società totalmente dedicata al calcio. Insieme a Genova, la città è in vantaggio sulle altre: sempre a Torino (nel 1898) nacque la Fif (Federazione italiana football) che undici anni dopo si tradurrà nell’attuale Figc (Federazione italiana giuoco calcio). Cittadine erano anche tre delle sette a ffiliate: oltre a l Torino Fc c’era la Torinese Fc e la sezione calcistica della Reale Società Ginnastica. A Torino, il Genoa vincerà il primo campionato (quello dalle 9 alle 17 dell’8 maggio 1898).
Quella panchina, intanto, era ormai occupata: chi a sedere, chi dirimpetto, chi in andirivieni continuo con i caffè vicini. Erano una quindicina, il più grande fra gli studenti aveva diciassette anni, quasi tutti gli altri quattordici, qualcuno anche meno, solo i Canfari erano appena più grandi. Adesso erano divorati dalla voglia di fare, intuivano di poter essere ancora nel tempo corag -
gioso e fatato del pionierismo. La chiacchierata su quella panchina, la pietra scolpita, il monte Rushmore dello Stato sovrano bianconero, chiede adesso un posto protetto, che s’addica alle fondazioni e alle confabulazioni, a pochi passi c’è la soluzione, sempre a corso Re Umberto, a l civico 42, nell’officina dei fratelli Canfari (Eugenio ed Enrico, saranno i primi due presidenti della Juventus).
«Dobbiamo mantenere una vocazione sportiva ampia, come è del resto varia la nostra pratica. Non possiamo spaventare chi vive di abitudini. Lasceremo che i l calcio si a llarghi fi no a d ilagare, ma sentite come suona bene, sereno, promettente questo articolo 1: “La società ha per iscopo lo sviluppo di ogni ramo dello sport”. Siete d’accordo?»
«Sì», e l ’officina trasformò la curiosità e il sentimento pionieristico in uno statuto.
Incrociando varie fonti si possono fissare a lcuni nomi: i f ratelli padroni d i casa, il cassiere Molinatti, poi Botto, Crea, Donna, Favale, Ferrero, Gibezzi, Malvano, Rocca, Rolandi, Savoja, Secondi, Varetti. Presidente fu Eugenio Canfari e fu anche il modo di accollare ai fratelli le prime spese. Per non perdere subito la metà degli associati, la quota annua fu dimezzata dall’idea originaria: non più una lira al mese, ma sei lire l’anno.
«Il nome, adesso.»
«Augusta Taurinorum?»
«Magnifico, forse t roppo. E poi è u n nome celebrativo, da conquista d i u n valore che dobbiamo ancora dimostrare…»
«Vigor et Labora?»
«Questo è uno slogan, non un nome… ed è poco gioioso.»
«Delectando Faticamur, allora.»
«Stai scherzando? Un tentativo fantasioso, ma arriva lezioso. Ma davvero vi affascina il latino? Non è meglio qualcosa di più sobrio, che ci difenda nelle prime esibizioni complicate… qualcosa di didascalico, Società Sportiva M. d’Azeglio, Società Via Fort…»
«Ma dai! Non banalizziamo troppo la sacra ora. La toponomastica invecchia in fretta. E poi, sì, il latino: siamo liceali.»
«Juventus. Sporting Club Juventus.»
Chissà chi f u dei quindici a r iassumere smorfie da studenti e usi e costumi del
tempo, intercettando anche il valore costitutivo (la gioventù del gruppo) in quel nome.
Di sicuro, un calzolaio del corso cucì (debolmente) gli avanzi del cuoio da suola: una pelle di durezza indelebile sulla fronte dei colpitori di testa. Servirono dodici lire (cioè due quote annue intere) per comprare il primo pallone. Ne servirono sei a l mese per l ’affitto della prima sede, perché le cose si fecero subito più serie in una stalla in via Montevecchio nemmeno in asse (pendeva), una piccola stanza per la presidenza, una tettoia. I podisti e i ciclisti si allontanarono in fretta, intuendo una dilagante e irreversibile passione per il calcio. L’espansione fu anche territoriale: dal giardino della Cittadella avvenne il trasferimento alla vicina piazza d’Armi. Il campo fu conquistato recintando con una corda a mezz’aria u no spazio sufficiente, i due pali f urono pezzi d i legno interrati e la traversa una tela tesa fra l’uno e l’altro. Nel giro di sei anni, la piazza si arricchì di tre terreni e piccole tribune di legno. Gli studenti, intanto, si fecero uomini, esplorando le loro passioni. Alcuni di loro erano impiegati e calciatori, altri piccoli industriali e si limitavano a restare associati. I due più agiati, i fratelli Canfari, riassunsero perfettamente le anime cittadine. Eugenio nel 1902 fondò assieme all’ingegnere Francesco Darbesio e all’avvocato Giuseppe Alby la fabbrica di automobili Taurinia (ebbe vita breve), negli anni (1899 e 1906) in cui nacquero anche la Fiat e la Lancia.
Il fratello Enrico faceva il meccanico, come sempre, s’incalliva le mani – poi fu anche insegnante di chimica e si avviò alla carriera militare (era capitano allo scoppio della guerra). Morirà nella cosiddetta terza battaglia dell’Isonzo, sul monte San Michele, nell’ottobre del 1915. Nel suo necrologio si leggeva di «una somma di operosità, cultura, tenacia. I Canfari volevano diventare costruttori, che la macchina fosse però un prodotto genuino del loro studio e del loro lavoro, delle loro mani. Fondevano due fattori che nell’industria sono sempre divisi: l’ingegnere e l’operaio».
Il gruppo aveva coraggio studentesco, e sapeva raccontarla. Delle batoste nelle prime sfide con la Torinese appuntano «la buona figura per il palleggio individuale». Cambiarono molte volte sede, per risparmiare sull’affitto, a nche se era sempre più f requente i ncontrare i soci negli splendidi caffè cittadini. Cambiavano quasi ogni anno il presidente, e cambiarono an -
che le maglie, dopo le prime esibizioni in tenuta da passeggio, camicia bianca, pantalone scuro: dal 1899 rosa con richiami neri (il cravattino, per alcuni più stilistici anche la cintura): i colori del liceo d’Azeglio. Dal 1903 il bianconero, per intuizione di John Savage, primo calciatore straniero della storia juventina. Lui in verità si limitò a consigliare una divisa a strisce – anche rosa e nere, per rispettare i colori del liceo – e spedì alla fabbrica di Nottingham, per farsi restituire un kit completo, quello che restava di una casacca molto «provata» da ripetuti usi e lavaggi. In Inghilterra non pensarono a un rosa scolorito ma a un bianco che avesse subito qualche contaminazione nei risciacqui. E avendo in città il Notts County, e in fabbrica una produzione avviata di divise bianconere, furono convinti di assecondare le volontà torinesi, consegnando le maglie a strisce verticali, bianche e nere. Così, fu ancora una volta una perfetta e successiva narrazione che vide simboleggiare nei due colori i valori, in campo e fuori, di purezza e autorità in modo da incutere timore e rispetto negli avversari.
Più tenace fu la lotta del toro – simbolo cittadino – contro la zebra, elegante quadrupede intonato alla divisa. Servirono decenni e ripensamenti, poi s’impose la zebra, nobilmente rivolta verso occidente. Apparve da subito – in una ricchezza ampollosa – una frase del I secolo (ovviamente in lingua latina…), attribuita al teologo cristiano Paolo di Tarso: Noncoronabiturnisiquilegitime certaverit e cioè «Non riceve la corona se non chi ha combattuto secondo le regole». Negli anni Venti il marchio fu reso meno ricco di elementi, il motto ebbe meno precauzioni, riducendosi infine al «conta solo vincere».
Ma cominciò così.
La Juventus è un filo invisibile, eppure robusto. La continuità della proprietà e il ripetersi di alcuni uomini in diversi ruoli di questa grande storia (calciatori, allenatori, dirigenti, presidenti) hanno creato una specie di cerchio, e il filo i nvisibile potrebbe esserne proprio i l perimetro: così, quello che v i entra diventa juventino più in fretta. Anche verso i bordi di questo cerchio si distingue il carattere. Chi – per forza di gravità, per dimostrazione di appartenenza e di rispetto e subalternità al marchio – è attratto verso il centro, non esce più. Essendo questa la geometria della Juventus, è impossibile ormai distinguere la cima della corda. Ma c’è.
famiglia, la fabbrica
Veniva dal lago d’Orta, nel Cusio. Nel primo dopoguerra si era spostato in città: per giocare a calcio e per lavorare nella grande fabbrica di automobili. Allora, poi, la residenza nella città del club di appartenenza era necessaria, infatti i calciatori erano spesso dipendenti, operai, impiegati nelle aziende dei vari soci. Antonio Bruna era operaio Fiat quando ancora non esistevano sovrapposizioni fra le proprietà, ed era terzino marcatore (speculare a Novo) nella Juventus degli anni Venti. Bel fisico, più slanciato che muscolare, il portiere Durante – che faceva il pittore – lo ritrasse per i volantini di propaganda bianconera. L a figura a itante nascose qualche problema che ne abbreviò la carriera, ma fece in tempo a giocare novantaquattro partite con la Juventus e alcune con la nazionale. Soprattutto, ebbe un’idea per trarsi da una morsa con qualche vantaggio: il superiore in fabbrica Sandro Zambelli, peraltro consigliere della Juventus, aveva maggior bisogno di manodopera che terzini. Si era appena inaugurata alla presenza del re e poi visitata dal Duce la fabbrica del Lingotto: adesso, si trattava di farla andare al massimo. Bruna era uno dei tanti allineati negli assi longitudinali di produzione, dov’erano state trasferite t utte le piccole officine sparse per la città. I l caporeparto cominciò dunque a sindacare sui giorni di allenamento dell’operaio.
«Monsù, bisogna dìal padron che vada a compré la Juventus.» «Che?»
«Già. Mi segua: se Agnelli si prende la società, può usare la fabbrica per age -
volare i trasferimenti. Noi saremo tutelati nella necessità di allenarsi e lei avrà a disposizione operai di ruolo e di mestiere su cui contare: sarà interesse del padrone far funzionare al meglio entrambe le aziende…»
Nella piccola stanza di Zambelli, ancora in preparazione, monsù si prese una pausa scenica. In fondo, l’incontro fra Giovanni Agnelli e la Juventus era l’approdo logico dell’evoluzione societaria e di quella stagione economica e politica. Osservò Bruna, e gli parve ancora più alto e armonioso del solito, un atleta all’apparenza perfetto.
«Andiamo dal senatore. Non finirà come l’altra volta.»
L’altra volta fu Alfredo Dick, amministratore dell’omonima azienda di pellami. E f u i l primo tentativo d i i rrobustimento fi nanziario e a mministrativo della società, anno 1905. Intanto prese carta e penna e scrisse al sindaco: siamo con i l borsellino v uoto, a iutateci. Così f u a ffittato u n campo sull’erbetta del velodromo Umberto I e fu aperta una scuola calcio per reclutare gli adolescenti. La mancetta proseguì (adeguandosi) per tre lustri. Dick a ffiancò agli studenti, ormai artigiani e meccanici, esponenti di settori industriali nascenti (come il tessile, rappresentato da Giovanni Mazzonis, figura decisiva per decenni), e reclutando i primi calciatori stranieri, alcuni di loro già dipendenti della ditta di Dick. Bastava poco per spostare molto: Durante (il pittore), Armano, Mazzia, Walty, Goccione, Diment, Barberis, Varetti, Forlano, Squair, Donna vinsero il primo campionato e almeno un’altra ventina di impiegati, ingegneri, avvocati, operai si aggiunsero – prima e dopo (fra loro Ernesto Borel, padre di Felice, e Federico Dick, figlio del presidente).
L’impronta studentesca restava, ma la mano industriale pressava: Dick non sopportava le feste e la baldoria giovanile, e per questo fu osteggiato, «era troppo serio» per i g usti dei fondatori. Forse, ci f urono a nche conflitti territoriali, l’orgoglio torinese verso l’invasione svizzerotedesca. Scavalcato nel rinnovo della carica di presidente da quel Varetti che già fu nella panchina di corso Re Umberto, Dick si d imise, portando con sé i l contratto d i a ffitto del velodromo (a lui intestato) ma anche i giocatori suoi dipendenti. «Perdemmo così il campo, la squadra, l’egemonia sportiva ma non la fede e il buonumore» scrisse Canfari nelle sue memorie così utili ai ricercatori.
Dick fondò insieme al presidente della Torinese Franz Josef Schönbrod, anch’egli svizzero, il Torino. La città ebbe il suo derby perdurante, Dick tre anni
più tardi si sparò, dopo aver alterato i bilanci della sua azienda, portandola alla rovina.
La Juventus tornò a giocare in piazza d’Armi, poi in altri campi alla meglio, «lavandosi alle fontanelle e mangiando l’insalata che cresceva nell’area di rigore». Furono anni sportivamente deludenti: spesso la Juventus non riusciva a giocare in undici. Economicamente, furono penosi. Nel 1913 poteva già finire t utto, la retrocessione sul campo sembrò la chiusura d i u na breve storia. Si rimediò un’iscrizione al girone lombardo, da un’intuizione di Malvano (anche lui fra quelli del monte Rushmore). Fu provvidenziale la presidenza di Pino Hess, torinese figlio di tedeschi, alto, già calciatore juventino, avvocato, attaccato all’idea originaria ma con vocazioni manageriali più solide degli ex studenti, e soprattutto r icco, l ’azienda paterna commerciava fi lati e i n casa «aveva ben cinque persone di servizio». Quei ragazzi della panchina di corso Re Umberto ormai erano allarmati dalla vita adulta, dal rischio di fallimento, e fecero un passo avanti rispetto all’idealismo iniziale. Questo aprì la società a possibilità maggiori.
La squadra si risollevò, ma la guerra bussava e affascinò la meglio gioventù di un continente intero. La Juventus mandò al fronte più di cento fra giocatori presenti e passati. Finito i l conflitto, f urono programmate scelte espansive verso l’alto (attraendo i nuovi industriali della Torino produttiva) e verso il basso: su «Hurrà!» – rivista delle cose e dei fatti juventini che avrà un valore narrativo, sentimentale e testamentario notevole – si leggono le nuove regole di a ffiliazione: si può essere soci promotori (contributo d i cento l ire a nnue), effettivi, associati semplici, boys (quote decrescenti) e anche dame, con posto riservato nella tribuna dello stadio, per ottanta lire l’anno. Il gioco, intanto, si fa serio e sempre la rivista si preoccupa di pubblicare consigli eterni, ed eternamente disattesi. Intanto, si premura di spiegare le tre regole controverse che i nfiammavano i t ifosi (il f uorigioco, i l calcio d i r igore, i l g ioco brutale) e raccomandava i comportante adeguati: r ispetto e fiducia nell’arbitro, applaudire il bel gioco di qualunque fazione, incoraggiare i calciatori invece di eccitarli.
Intorno tutto si muoveva un po’ spontaneamente e la Figc si barcamenava fra scissioni idealiste e spinte di potere più elitario (culminate nel doppio campionato del 1922, l’uno vinto dalla Novese, l’altro dalla Pro Vercelli): la ve -
rità, letta a tanti anni di distanza, è che la diffusione di questo sport aveva sostanzialmente avvalorato entrambe le esigenze, quella di una base dilettantistica e quella di un vertice che ormai guardava all’evoluzione professionistica inglese.
La Juventus era una squadra competitiva, pronta. Come succederà quasi un secolo dopo, si può datare l’inizio di quello che di buono accadrà con la scelta di costruire uno stadio di proprietà, da 20.000 posti: costò un milione di lire che fu raccolto spronando i soci e raccogliendo i capitali attraverso una società dedicata (Società spettacoli sportivi): l’acquisto di quote riguardò tutta la borghesia professionale e industriale della città, e – dai cognomi – anche la seconda generazione degli imprenditori svizzeri e tedeschi che avevano avuto una parte nel decollo industriale di Torino. Attorno all’avventura si stava costruendo un sentimento sociale, culturale, forse di origine trasversale ma dinamismo e curiosità erano fatti quei giorni, e l’approdo fu comune. Per riempirlo, lo stadio, e per saldare quel sentimento, serviva una squadra competitiva, divertente, vincente.
Lo stadio fu progettato dall’architetto Lavini, edificato i n cemento a rmato a corso Marsiglia, periferia sud della città, isolato da un muro di cinta lungo settecento metri. Il pubblico era disposto su tre lati del campo. Davanti alla tribuna una lapide ricordava i giocatori bianconeri caduti nella Grande Guerra. Quel tratto di stadio era coperto in ferro-eternit e protesse i circa mille spettatori della prima partita, che fu Juventus-Modena, il 22 ottobre 1922: finì 4 -0, i n u n pomeriggio d i vento e pioggia. In questo contesto, cominciò l’era degli Agnelli.
Si racconta che il colloquio fra il consigliere bianconero Zambelli e il senatore e cofondatore della Fiat Giovanni Agnelli durò molto meno del previsto. Che Giovanni sapesse già molto della Juventus, che forse avesse già in testa un imminente ingresso nel calcio. Pochi giorni dopo, «La Stampa» comunicava che all’assemblea della Juventus del 24 luglio l’avvocato Edoardo Agnelli era stato eletto per a cclamazione presidente del club. Unico fi glio maschio di Giovanni, Edoardo aveva trentun anni, e il suo avvento era l’esito logico dell’evoluzione che la società e il mondo juventino avevano vissuto negli anni postbellici. La raccolta di risorse aveva avuto nella costruzione dello stadio il suo culmine e il suo esaurimento. Per competere, servivano
mecenati. Piero Pirelli fu il presidente del Milan nel periodo, e fece costruire a sue spese San Siro. Senatore Borletti acquisì l’Inter. L’anno dopo Agnelli, Enrico Marone Cinzano, titolare della nota ditta di spumanti, divenne proprietario del Torino.
Come già Dick (ma non fi nì a llo stesso modo) Edoardo r iorganizzò i l club.
Registrò al tribunale una società anonima a capitale interamente privato, la Juventus Organizzazione Sportiva Anonima (Osa). Nel consiglio direttivo entrò Mazzonis, già giocatore: lui rilanciava, difendeva, rappresentava il tratto iniziale, studentesco che si fondeva con le nuove esigenze (abitava a cento metri dal l iceo d ’Azeglio, veniva da quel g ruppo d i pionieri, ma era figlio d i industriali del tessile).
Inevitabilmente, si scivolava verso i l professionismo, e la Juventus ne codificò l’irruzione con l’acquisto di Virginio Rosetta. Non fu certo il primo passaggio di un giocatore contro assegno ma fu la prima volta che tutto risuonò amplificato dalla sopraffazione del sentimento popolare – nel caso, dei t ifosi vercellesi che avevano in Rosetta la loro bandiera. Nell’estate del 1923 Rosetta chiese di essere ceduto, al pari del compagno Gustavo Gay che certificò l ’assunzione a lla R ichard Ginori, sede d i M ilano, per vestire rossonero. La Juventus fa lo stesso con Rosetta: ragioniere nella ditta torinese dei fratelli Ajmone Marsan, con uno stipendio di settecento lire, e aggiunse un premio di ingaggio di 45.000 lire.
La Figc avallò, il Coni (sobillato dalla Lega delle società calcistiche del nord, a t razione lombarda) si m ise i n mezzo, soffiando sui desideri dei vercellesi. I l consiglio della Figc si dimise in blocco, il direttivo straordinario che lo sostituì annullò il trasferimento di Rosetta, si distinse per protervia il dirigente del Milan Ulisse Baruffini (lo stesso che aveva tesserato Gay…), che per questo fu apostrofato come «faccia di bronzo» dal vicepresidente della Juventus, Enrico Craveri. Seguì perfino u na promessa d i sfida a duello per fortuna mai consumata.
In sostanza, tre vittorie della Juventus con Rosetta in campo furono invertite in t re sconfitte a t avolino, la squadra f u così estromessa dalla lotta per i l t itolo, ma Rosetta fu juventino (si rifarà) e il professionismo trovò una sua controversa legittimazione che diverrà istituzionale nella carta di Viareggio del 1926, dove si a mmetteva u fficialmente la figura del «non d ilettante» e si legalizza -
vano i trasferimenti dei calciatori da una società all’altra. Quello, il 1926, fu l’anno del secondo titolo bianconero, in una squadra che riassumeva i primi tre decenni di storia: Combi e Rosetta erano ragionieri, Allemandi era studente, a ltri erano figli d i operai Fiat e operai loro stessi. I l centravanti, Pietro Pastore, faceva l’attore. Gli stranieri erano l’ungherese Hirzer e i l fiumano
Vojak, originario dei territori austroungarici dove il calcio aveva avuto uno sviluppo più concettuale, che Jenő Károly aveva trasferito alla squadra: con Rosetta, il tecnico ungherese fu la prima scelta «forte» di Agnelli presidente. Il suo calcio evoluto necessitava di interpreti tecnicamente validi, perché la palla fi nalmente cominciava a g irare, l ’azione si faceva i rruenta, i l vantaggio andava poi difeso con un assetto tattico credibile e non solo arrangiato in ammucchiate. Morì d’infarto a tre partite dal titolo, dopo Agnelli e Rosetta (e le implicazioni raccontate) fu il terzo mattone di questa scarna, essenziale, necessaria costruzione bianconera.
L’anno dopo t utto fi nì male per la tentata corruzione d i Allemandi da parte del Torino. Vicenda mai chiarita ma al Toro fu revocato lo scudetto, Allemandi f u squalificato a v ita (provvedimento poi a nnullato: i l d ifensore sarà f ra i campioni del mondo del 1934), i due suoi compagni di squadra Munerati e Pastore si tennero le due casse di vini e liquori Cinzano arrivate dal proprietario dei rivali. Secondo arrivò il Bologna, che non ebbe comunque quel titolo (ancora lo rivendica, con qualche ragione) nonostante fosse la squadra del cuore del presidente della Figc, il gerarca fascista Leandro Arpinati.
Intanto alla Juventus arrivavano un po’ alla volta i giocatori che costruirono la prima squadra mitica della serie A: Caligaris dal Casale, Varglien dalla Pro Patria, Vecchina dal Padova, Raimundo Orsi da lontano, e a rimorchio Renato Cesarini, di rientro dopo la migrazione dei suoi. E qui la storia cambia.