La voce incomparabile del silenzio

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LA VOCE INCOMPARABILE DEL SILENZIO

ANDREA EMO
taccuini
dai

Andrea Emo è un pensatore solitario che ha scritto senza tregua dagli Anni Venti ai primi Anni Ottanta del Novecento. Che ha scritto e ragionato su tutti i temi che hanno reso “grande” la cultura occidentale; ma soprattutto ha scritto e ragionato sulla scrittura e sul suo stesso scrivere, come mostra per la prima volta questo volume in cui sono raccolte le sue più preziose e intime riflessioni sull’argomento, rese con la grazia della poesia e la forza dell’aforisma. Emo non concepiva la scrittura come rivolta al pubblico; ma la viveva, piuttosto, come un vero e proprio corpo a corpo con la necessità che sentiva guidarlo pagina dopo pagina, impedendogli qualsivoglia distrazione. Una scrittura, insomma, concepita come autentico esercizio di vita, la sua. Si tratta di “un’esperienza assoluta dell’assoluto”, trascritta con l’eleganza e la fantasia del grande scrittore, ma anche il rigore del metafisico. Queste pagine potranno essere lette liberamente: dall’inizio alla fine, oppure dalla fine all’inizio… Sono pagine da distillare comunque con parsimonia, che rimarranno sicuramente e indelebilmente impresse nella memoria, dopo aver guidato il lettore (per altro non voluto) in un viaggio attraverso le sfere più pure della coscienza e le pieghe meno visibili della realtà.

Massimo

Andrea Emo

La voce incomparabile del silenzio

dello stesso autore: Verso la notte e le sue ignote costellazioni

ISBN 979-12-221-0017-3

Prima edizione luglio 2013

Nuova edizione luglio 2023

ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2027 2026 2025 2024 2023

© 2013 Carlo Gallucci editore srl - Roma

Un caloroso grazie a Marina Emo per la preziosa collaborazione

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Andrea Emo

La voce incomparabile del silenzio

A cura di Massimo Donà e Raffaella Toffolo

Indice Nota introduttiva 5 Autore 9 Scrittura 17 Parola 55 Linguaggio e letteratura 95 Biblioteca 135 Libro 139 Poesia e prosa 153 Miscellanea 185 Postfazioni Massimo Cacciari 197 Giulio Giorello 203 Massimo Donà 207 Raffaella Toffolo 219

Nota introduttiva

Andrea Emo ha scritto per tutta la vita, senza cercare confronti e senza mai rivolgersi a un possibile pubblico di lettori.

Gli bastavano poche, ma “stellari” amicizie (con Cristina Campo e con Alberto Savinio, ad esempio) e una famiglia cui teneva moltissimo.

La sua ricerca filosofica, pur inizialmente influenzata da Giovanni Gentile, è ben presto diventata una perla preziosa e originalissima. Un vero e proprio diamante incastonato nel greve brusio della modernità, fieramente estraneo nonché indifferente ai tic e alle idiosincrasie del tempo cui gli era capitato di appartenere.

Scriveva per “pensare”, il nostro filosofo; intento ad approfondire e svolgere senza tregua le proprie ossessioni speculative, sempre in perfetta solitudine.

Infatti in vita non ha mai pubblicato nulla. Ma ha scritto costantemente, riempiendo centinaia di quaderni con una scrittura fitta e regolare, caratterizzata da pochissime correzioni. Ha affrontato i temi più disparati, con un occhio di riguardo per le tematiche squisitamente metafisiche. Aveva particolarmente a cuore anche le questioni dell’estetica; non a caso avrebbe insistentemente riflettuto sui “grandi” della letteratura e dell’arte del passato. Ama-

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va anche elaborare e svolgere i temi chiamati in causa dalla politica del proprio tempo. Pensava e ripensava in continuazione le pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento, nonché le narrazioni della grande mitologia greca. Indagava con grande interesse il rapporto tra scienza e filosofia. Insomma, viveva “pensando” la vita e riflettendo in continuazione sul destino suo e degli umani in generale.

Per questa pubblicazione abbiamo estrapolato, dall’immensa mole dei quaderni (circa quattrocento), alcune tra le sue riflessioni più significative intorno al tema della “scrittura”; concepito, comunque, in senso lato. Una questione che avrebbe costretto Andrea a fare i conti con il senso stesso della propria esistenza; dedicata per gran parte, appunto, alla scrittura di questi straordinari quaderni.

Abbiamo quindi ritenuto opportuno suddividere il volume in diversi capitoli; specificamente dedicati ad alcuni dei tanti volti che caratterizzano l’esperienza della scrittura: poesia, prosa, biblioteca, libro, parola, letteratura, eccetera.

I frammenti del corpus emiano pubblicati in questa occasione sono stati ordinati in ordine rigorosamente cronologico, per rispettare il più possibile l’effettivo svolgimento della sua riflessione.

Ringraziamo infine la figlia Marina per averci gentilmente consentito di realizzare questo nuovo volume, che ci auguriamo contribuisca a riportare al centro della discussione filosofica contemporanea una delle sue voci più intense e sicuramente originali.

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Massimo Donà e Raffaella Toffolo

La voce incomparabile del silenzio

Note caratteristiche: Andrea Emo, persona di poco fondamento, inetto a qualunque cosa, con qualche vena di pazzia. Con tutto ciò, qual è la cosa che io amo di più al mondo? Me stesso.

(Quaderno 9, 1929)

Io scrivo sussultariamente, come un uomo ammalato o convalescente. L’intelligenza è fallita? Ha essa chiesto un concordato ai suoi creditori perpetui, i rappresentanti della vita, cioè l’azione, la fede, l’economia, l’amore? Ma può essa fallire? Non lo posso affermare. In essa io vissi e vivo come in una crisalide, come in un sogno, un sogno bello, profondo e iridescente, ma che sempre teme le dure scorze del reale, che lo facciano fuggire e nel risveglio misurare quella paura senza fine e quel terrore dell’esistere puro, senza attributi, senza relazioni, senza sogni e senza intelligenza, il senso dell’unica e semplice realtà. Non è questa la forza stessa dell’amore? Questa forza tanto terribile, questo senso della sua irriducibilità all’intelletto, alla conoscenza, alla ragione. L’amore che considera l’intelligenza come un suo ornamento o un suo riflesso: ma che cosa è ancora l’intelligenza se essa non è tutto? Non è allora dannata e con essa

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Autore

tutta la nostra vita? Essa deve essere tutto; ma intanto non lo può e non lo vuole: poiché ove essa fosse tutto, quale sarebbe ancora il suo oggetto?

(Quaderno 9, 1929)

Io vi parlo e agisco non per conoscere o possedere le anime vostre, ma solo per conoscere e possedere la mia. È questo il modo di evocare tutte le altre anime incuriosite di poterne vedere un’altra, e disposte a seguirla appunto perché tale.

(Quaderno 22, 1934)

Quando io sarò finalmente morto, dove saranno allora la mia coscienza, la mia esperienza, la mia cultura, la mia memoria, la mia personalità e individualità, il futuro di cui vivo e che respiro in ogni istante presente? Nulla di tutto questo sarà sopravvissuto. E che cosa può sostituire questa coscienza e conoscenza? Che cos’è un’eternità o immortalità senza conoscenza o coscienza?

Che rimane di noi, della nostra anima, se ci togliamo coscienza, conoscenza, nozione, memoria e via dicendo? E qual è la forza che crea coscienza, nozione, ecc., restando ad esse inferiore?

E che valore hanno tutte queste qualità, se non hanno il carattere dell’immortalità?

Noi continuiamo ad essere, noi saremo ciò che ora siamo, cioè la negazione assoluta di ciò che siamo.

(Quaderno 188, 1957)

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Vi sono alcune idee stravaganti che appaiono le prime volte danzando sulle cime della fantasia. Non le prendiamo sul serio, nemmeno se ne siamo gli autori; ma col tempo ci accorgiamo che queste bizzarre danzatrici imprimono il loro ritmo alla mente, alla vita…

(Quaderno 221, 1960)

Dialogo d’amore: rendimi a me stesso affinché tu possa renderti a te stessa; se tu vorrai restare estranea a te stessa, anche io dovrò restare estraneo a me. Inseguirò te e me inutilmente.

(Quaderno 229, 1960)

Si odono nelle vaste stanze delle case campestri, rumori e voci rare, isolate e semplici, che sembrano nate per generazione spontanea dal silenzio, figlie del silenzio, che si limitano a sottolineare e commentare il silenzio, senza turbarlo e dandogli una voce misteriosa, cioè affine al silenzio stesso. Così vi sono idee e pensieri che nascono dalla meditazione del nulla, pensieri che commentano il nostro nulla, pensieri che nascono puri ed eterni. Figli di una meditazione negatrice che è la nostra migliore preghiera.

(Quaderno 252, 1962)

Noi dobbiamo ridurci al nulla e al silenzio; questa riduzione è un movimento infinito, anzi è l’infinito essa stessa: non deve però proporsi alcuna intenzione, alcun vantaggio. Deve essere proseguita per puro eroismo.

(Quaderno 252, 1962)

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Che cosa possiamo pubblicare se non ciò che è privato e intimo, cioè più universale, perché proprio a ciascuno, che gli universali astratti? Ma come pubblicare ciò che è sacro e bello finché resta privato e occulto, e diviene osceno, come ogni nudità, non appena si manifesta? Come evitare questa metamorfosi del medesimo, come salvare la castità di ciò che è intimo e privato e appunto perciò vuole conoscersi, cioè esprimersi, divenire altro (cioè pubblico e formale) restando se stesso? Qual è il miracolo di una forma che è trasformazione?

(Quaderno 256, 1963)

La gloria, cioè il consenso pubblico ci raggiunge, o meglio ci insegue, né mai ci raggiunge, quando dimostriamo di non avere bisogno del pubblico per la nostra salvezza, per essere; quando disprezziamo il pubblico, come disprezziamo tutto ciò di cui non abbiamo bisogno, questo è il sintomo da cui il pubblico si accorge di avere bisogno di noi; altrimenti come lo saprebbe? Il pubblico disprezza e deride chi ha bisogno di lui, chi gli fa la corte, chi lo invoca per la propria salvezza o per essere. Chi cerca nel pubblico la propria celebrità e nella celebrità la propria salvezza, il fondamento della propria universalità e perciò della propria individualità, otterrà alla lunga l’universale disprezzo, la sua sola universalità; universalità la cui espressione, in questo caso, è il silenzio e l’oblio. La più singolare ed efficace espressione.

Ma come possiamo fare a meno del pubblico, cioè dell’universale? Come possiamo non associare il pubblico alle nostre vicende private, se vogliamo che esse abbiano

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una realtà e passino alla vita della loro gloria come puramente singolari?

Come può il privato diventare pubblico restando privato, intimo, singolo? E se non è più privato, il singolo dilegua nel pubblico che non lo apprezza più. Il pubblico si interessa al privato, vuole che diventi pubblico e universale, ma che resti privato.

In realtà la sola universalità è quella del singolo e dell’individuo. Non esiste un’universalità in sé che non sia individuale; un “pubblico” non sarà mai universale; il pubblico, il popolo deve diventare nazione, cioè individualità, per trovare un’universalità (l’universale, l’eterno, è anche nella relatività del tempo); oppure cercarla nelle grandi individualità singole.

(Quaderno 256, 1963)

L’occasione è un pensiero grave, un’universalità, una perpetua fedeltà, un assoluto, incarnati in una farfalla, simbolo dell’inconsistenza, dell’irrazionale. Eppure l’assoluto, per “vivere”, per divenire eterno ed immortale in un’opera d’arte, deve incarnarsi in una farfalla, in una irrazionale, casuale, incostante occasione. Così l’assoluto scopre la sua fedeltà a se stesso.

(Quaderno 256, 1963)

La nostra giornata è una triste commedia recitata da diversi personaggi, da diversi attori e figure sceniche in ciascuna delle quali riconosciamo lo stesso personaggio, cioè noi. Ma ciascuno di questi noi ha assunto una convinzione

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irriducibile, abita una sfera impenetrabile che non può avere con le altre, come in una strana dissonanza e disarmonia prestabilita, alcun rapporto. Come passiamo da un personaggio all’altro, come assicuriamo la nostra continuità o la nostra discontinuità? Come avvengono queste trasmutazioni alchemiche, il nostro viaggio attraverso regioni e mondi tanto diversi? Forse siamo soltanto numeri che appaiono e dispaiono sul comune denominatore dell’incoscienza? E testimoniano, alla fine, di essa soltanto? Come potremmo sopravvivere se fossimo un unico personaggio, se realmente fossimo?

(Quaderno 256, 1963)

Il filosofo è un triste personaggio che scopre difficoltà insormontabili là dove soltanto l’ignoranza di esse può consentire il progresso della scienza, l’agire e l’operare della vita. La moderna “scienza” cominciò a progredire quando eliminò la filosofia, cioè la scienza dei principi primi e dei fondamenti ultimi (cioè la contemplazione della morte), cominciò a progredire quando accettò l’ignoranza, la vera ignoranza, l’ignoranza di ciò che sarebbe importante sapere e che nessuno ha mai saputo o saprà; cominciò a progredire quando si arrese all’umano destino, alla volontà divina, quando rinunciò a sapere. Allora cominciò il destino della scienza.

I primitivi si distinsero per il fatto che essi volevano sapere, conoscere non soltanto tutte le cose, ma il tutto in sé. Volevano conoscere la vita e il destino e non ebbero la forza o l’umiltà di rinunciare alla conoscenza del destino, cioè alla speranza di dominarlo. Pertanto non poterono

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mai cominciare a conoscere. Appunto, la ricerca del principio dell’essere o della vita non permetteva ad essi di cominciare a conoscere o a vivere. Così oggi il melanconico filosofo, vero tipo di superstite, superstite di un mondo perduto, è tuttora arroccato sui principi, che possiamo conoscere “sperimentalmente” come inconoscibili, si pasce e si bea della constatazione dell’inconoscibilità di ciò che tenta invano di conoscere, e, attaccato ai principi, non riesce mai a cominciare; né a cominciare a conoscere, né a cominciare a vivere. La sua missione è di vedere, cioè di creare le difficoltà, gli ostacoli, gli abissi, i misteri. Forse in alcuni momenti della vita può essere dolce pensare che non sappiamo nulla, che i misteri esistono. Il filosofo è l’uomo dell’indefinito regresso verso i principi irraggiungibili, le origini nascoste, in un mondo dedito al progresso. Ridotto in umili condizioni dal suo sovrumano orgoglio, si trova ora in dimesso atteggiamento di fronte a coloro cui l’originaria umiltà delle origini ha dato successo e potenza. Ciò non toglie che la sua ostinazione, il suo regredire, il suo aderire al passato, ne faccia ancora un essere pericoloso e abitualmente apocalittico. Umile ed alto, più che creativo.

(Quaderno 256, 1963)

Noi forse scriviamo per una minoranza – per una piccola e misteriosa associazione consapevole della sua minoranza – di eletti; ma non democraticamente, perché eletti dall’alto, e dall’altro. Non dai loro simili, come prevedono le nostre costituzioni democratiche, appunto perché essi non hanno dei simili. E questa consorteria dove regnerà

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il presente che noi siamo e preconizziamo è futura; è una consorteria di uomini non ancora nati, una consorteria di nascituri; che dovranno riconoscere in noi un riflesso dell’eterna Presenza.

(Quaderno 344, 1971)

Ho ben poche frecce per il mio arco. Frecce e dardi che partono per l’illusoria destinazione dell’infinito, ma poi ritornano subito ai miei piedi. Sono sempre i medesimi dardi per il medesimo spazio? I dardi dovrebbero inventare essi stessi lo spazio che li sostiene.

(Quaderno 372, 1975)

La scrittura è la voce incomparabile del silenzio. La sua sonorità è l’eco di tutti i silenzi; un silenzio di cui niente interrompe la loquacità. Un discorso in cui la vista si è sostituita al suono, e l’astrazione si è sostituita alla rappresentazione visiva.

(Quaderno 372, 1975)

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Stampato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso Rotomail Italia spa (Vignate, MI) nel mese di giugno 2023

ANDREA EMO (Battaglia Terme, Padova, 1901 -Roma 1983). Nobile veneziano, discendente di dogi, filosofo allievo di Giovanni Gentile, ha scritto centinaia di taccuini, ma in vita non ha mai pubblicato nulla. Ad avviare la sistemazione del suo sterminato corpus sono stati Massimo Donà e Romano Gasparotti, guidati prima da Massimo Cacciari e poi da Giulio Giorello. Tale materiale ha fatto scoprire una delle più grandi personalità della filosofia italiana del Ventesimo secolo, di cui Gallucci ha pubblicato anche Verso la notte e le sue ignote costellazioni.

In copertina: Alberto Savinio, Ulysse (1928) per gentile concessione di Farsettiarte, Prato

LE RIFLESSIONI E GLI AFORISMI

SULLA SCRITTURA ANNOTATI NEI DECENNI DA UNO DEI PIÙ GRANDI (E APPARTATI)

FILOSOFI ITALIANI DEL NOVECENTO.

UN TESORO COMPOSTO A MANO E RESO FINALMENTE DISPONIBILE A CHI AMA “PENSARE E COMPORRE COME ESPERIENZA DI ASSOLUTA LIBERTÀ”.

“In Emo, il pensare concresce al linguaggio, si chiarisce e approfondisce nella ricerca della parola, nella nettezza dell’espressione”

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