Alta Definizione Gallucci
Andrea Emo
Verso la notte e le sue ignote costellazioni Scritti sulla Politica e la Storia A cura di Massimo DonĂ e Raffaella Toffolo
Andrea Emo Verso la notte e le sue ignote costellazioni ISBN 978-88-6145-745-4 Prima edizione ottobre 2014
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anno 2014 2015 2016 2017 2018
© 2014 Carlo Gallucci editore srl - Roma Un caloroso grazie a Marina Emo per la preziosa collaborazione
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Introduzione Emanuele Severino
Andrea Emo e la filosofia italiana del XX secolo
Mi si invita amabilmente a scrivere di un pensatore, Andrea Emo, che non volle pubblicare nemmeno una riga di quello che scrisse, e non volle anche perché era convinto dell’“oscenità del lettore”. Ma accetto l’invito perché non credo che chi ha incominciato a pubblicare i quaderni di Emo sia convinto anche lui di quell’“oscenità”. Credo comunque che sia molto difficile dire qualcosa degli scritti di un uomo che, scrivendo per sé, non si preoccupava in alcun modo di farsi capire. Emo è stato studente di Giovanni Gentile. Lo si sente. Continua a parlare di “atto” e di “attualità” – senza peraltro nominare il filosofo. Però scrive: “Essere l’unico lettore del proprio unico libro, della propria unica vita, del proprio unico assoluto. Avere e conservare questo privilegio. Unico abitatore dell’unico assoluto (quale altro assoluto se non il nostro?) […] Ogni uomo è un ultimo e un primo, perché ogni uomo è un assoluto”1. Qui, l’assolutezza dell’“atto” (Io) trascendentale gentiliano viene 1 Andrea Emo, La voce incomparabile del silenzio, Gallucci, Roma 2013, pp. 135-136.
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trasformata nell’assolutezza dello star rinchiuso in sé da parte di ogni io empirico. L’assoluto si moltiplica. È cioè un finito. E infatti anni dopo conferma: “Noi sappiamo di essere l’assoluto. Che cosa vi è fuori di noi?”2 Ma aggiunge: “Sembra quindi naturale che si voglia in ogni modo pervenire all’assoluto. E questo appunto ci è vietato […] Come per gli antichi il pervenire direttamente alla divinità […] perché, se pervenissimo a possedere l’assolutezza che siamo, saremmo immediatamente fulminati”3. Sembra che dica: fuori di noi non c’è nulla, fuorché la nostra stessa assolutezza: noi stessi siamo per noi stessi l’enigma, perché l’assoluto è incarnato nel finito, e il finito non può vedere l’assoluto senza annullarsi come finito. Sì, ma che cosa ci fa “sapere” di essere l’assoluto? E d’altra parte che cosa ci fa sapere che “esiste” un Inattingibile e che esso è noi stessi? Perché non è sufficiente dire che esiste il finito e il suo divenire? È inevitabile che anche Emo concepisca il divenire così come è concepito dall’ambiente culturale in cui egli vive; e che tale ambiente concepisca il divenire come è concepito dall’intera cultura europea, a partire dal pensiero greco, ossia come un incominciare a essere e un ritornare nel nulla da 2 3
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Ibidem, p. 157. Ibidem.
parte del finito. Ma ancora, e innanzitutto qui in Italia, non si comprende la potenza del pensiero di Gentile. Egli mostra la necessità che il divenire sia il divenire del pensiero in atto – che non è il pensiero quale è concepito dall’idealismo classico tedesco, ossia come qualcosa che, nonostante le intenzioni in senso contrario, si costituisce daccapo come una realtà esterna al pensiero attuale. L’attualismo mostra cioè che la necessità del superamento del presupposto realistico-naturalistico è insieme la necessità della negazione di ogni Essere immutabile. Ma la punta di diamante della filosofia attualistica è rimasta avvolta e occultata e infine dimenticata dalla nostalgia della trascendenza filosofico-religiosa. È accaduto perfino in chi, a vario titolo allievo di Gentile, più ha capito la potenza dell’attualismo. Mi riferisco a Ugo Spirito e a Gustavo Bontadini. Per Spirito, la forma più alta dell’“anti-intellettualismo” (ossia della negazione del presupposto naturalistico) viene a coincidere, nell’attualismo, con la forma più alta dell’“intellettualismo”, e questa antinomia fa sì che l’atto gentiliano, da soluzione e risposta, divenga problema, il problema della vita. Il problematicismo di Spirito si propone pertanto come “speranza” di uscire dal problema e di pervenire all’“Assoluto adialettico”, ossia alla Realtà immutabile. Per Bontadini, l’attualismo, lungi dal chiudere la porta all’Assoluto trascendente, è il punto di partenza che vi conduce. 11
Emo appartiene a questo clima e, naturalmente, la sintonia si avverte rispetto a Spirito. Che potrebbe aver scritto questo passo di Emo: “Sono occorsi millenni e millenni perché il pensiero umano potesse accorgersi che la risposta era un’illusione e che ciò che sussiste è l’interrogazione, che forme e colori e suoni e parole sono l’interrogazione stessa. L’attualità dell’interrogazione”4. Sì, il passo potrebbe riferirsi a Nietzsche, a Heidegger, a entrambi, al clima della filosofia del XIX-XX secolo. Ma, allora, perché quel parlare dell’“attualità dell’interrogazione”? Perché l’interrogazione come “atto”, cioè l’“atto” inteso come interrogazione? Per l’attualismo l’“atto” è la risposta nel senso che suscita tutti i problemi e tutte le soluzioni che ne vengono date e che a loro volta aprono nuovi problemi; per Spirito l’“atto” (e “atto” e “attualità”, si è osservato, sono parole ricorrenti nella bella prosa di Emo) non può più esser la soluzione, ma è il problema, cioè l’“interrogazione”. “Attualità dell’interrogazione”, appunto. Certo, negli scritti di Emo si sente anche l’influsso di altre prospettive, ma molte sono le pagine che si muovono nel clima di cui abbiamo detto. Indichiamo ad esempio quella che parla del linguaggio-pensiero che “è un labirinto che tenta di uscire
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Ibidem, p. 93.
da sé” e che si domanda (molte sono le domande e i “forse” che costellano il testo) che cosa vi sia “al di là del labirinto, al di là del labirinto del nostro pensiero”5. O la pagina – che, sebbene in modo più indiretto, esprime quel clima – sulla convinzione di ogni giudizio di essere un “giudizio universale” che giudica definitivamente, e che, avendo il carattere dell’“universalità e della libertà, cioè della soggettività”, è una “colpa” perché “dà, alla nostra singola individualità limitata, l’universalità suprema e la libertà incondizionata e arbitraria del divino”. Sì che “il giudizio assoluto deve essere una grazia, cioè quell’essere che è al di là del giudizio e che abolisce il giudizio”6 – dove l’essere che sta al di là del giudizio è l’essere che sta al di là del divenire, l’essere del quale si può “sperare” l’avvento.
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Ibidem, p. 147. Ibidem, p. 224. 13
Verso la notte e le sue ignote costellazioni
Politica
Tecnica e Politica. La tecnica non può derivare dall’entusiasmo; o per lo meno essa vuole i suoi cultori, entusiasti solo di lei. Non permette di essere il riflesso, il prodotto, la conseguenza di un altro entusiasmo diretto ad altro scopo (patria, partito, religione, vita superiore eccetera). (Quaderno 4, 1927)
I profeti non sono mai tecnici e non ne producono fra i loro seguaci. Coloro che si aspettano questo sono i credenti nel miracolo, cioè nella possibilità di agire con la pura volontà, o comunque con lo spirito, sul corso delle cose materiali. Magia. Il profeta prepara ai tecnici l’ambiente e la possibilità del loro sviluppo, ma deve poi servirsi di coloro che non credono alle sue profezie. Ma può nascere un partito di tecnici? Può nascere benissimo e sarà per solito socialista, ma non avrà lunga vita poiché l’uomo = tecnico + X. (Quaderno 4, 1927)
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La tendenza di ogni organismo politico, anzi di ogni organizzazione comprendente sotto di sé un numero più o meno grande di individui, è la tendenza all’unità. L’idea sovrapposta agli individui; l’idea in cui gli individui comunicano è evidentemente un’unità; anzi, l’unità stessa, quell’unità la cui molteplicità sono gli individui. Ogni unità è affine, cioè corrispondente alla sua molteplicità. (Quaderno 25, 1934)
L’unità ideale (l’idea politica in senso largo, cioè quella che unifica gli uomini sul terreno politico) tende ad aver coscienza di sé, cioè a manifestarsi in una forma in cui l’unità è effettivamente manifestata, posta, incarnata in istituti reali. Così quell’unità che, non essendo posta, cioè non essendo cosciente di sé, era universale, per il fatto di essere posta, come tesi, come realtà concreta, pone anche l’antitesi, cioè delle opposizioni; viene oppugnata, d’altronde legittimamente, in quanto anch’essa, che, come idea, dovrebbe essere universale, per diventare cosciente di sé, deve trasformarsi in unità concreta, cioè individuale. Quest’opposizione conduce alla decadenza dell’idea, che è sempre idea di civiltà, e con questo alla decadenza della civiltà stessa. (Quaderno 25, 1934)
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Lavoro
La nostra particolarità è il lavoro. Solo attraverso il lavoro, noi raggiungiamo l’universale. Cioè noi non possiamo diventare universali di colpo. Il firmamento come infinita universalità delle infinite particolarità. (Quaderno 4, 1927)
La sola cosa che possa salvare l’uomo dalla sua tristezza naturale è il lavoro, appunto perché in esso si possono realizzare alcune delle nostre possibilità; e ciò appunto perché esse vengono limitate; limitate dall’ostacolo e dall’esperienza. E appunto, autolimitandosi, si realizzano: non limitate, le possibilità tendono all’infinito e distruggono l’umana natura che le porta. Il lavoro riconduce poi l’uomo alla sua tristezza originaria, quando si scopre la sua vanità, cioè la sua mancanza di scopo, il suo esser fine a se stesso. Ciò mediante cui l’uomo diviene fine a se stesso. È vano quello che non ha il suo fine fuori di sé; e che perciò, avendo il suo fine in sé, è condannato a rimanere sempre ciò che è. Nihil novi sub sole: è come dire: tutto è vano. (Quaderno 25, 1934) 357
Noi dobbiamo sempre scegliere tra il duro, cieco, e sordo lavoro e la pura trasparente angoscia. L’angoscia del tempo come tale, della vita come tale. Ogni mattina ci chiediamo: come affronteremo il peso e la durata di un’intera giornata e il modo con cui essa reagirà alla nostra presenza? Il lavoro, negandoci radicalmente, distrugge l’angoscia; la quale riappare da ogni dove non appena il lavoro cessi. La nostra morale vuole che si preferisca il lavoro e la sua pace attiva, rinunciando ad affrontare da soli, con la sola nostra presenza, la Gorgone dell’angoscia. La pura angoscia, infinitamente trasparente; solo attraverso l’angoscia possiamo intravedere l’infinito. La terribile Gorgone è forse semplicemente una trasparenza, cioè una vertigine. Gli uomini che scelgono di vivere con l’angoscia, che tentano di sedurre la Gorgone e di violarne i talami, sono i più immorali. Sono quelli che vogliono pervenire all’assoluto direttamente, senza rinnegarsi in alcun mondo, conservando la propria individualità. L’angoscia è l’occhio con cui l’assoluto ci guarda; è la moneta con cui paga la nostra fedeltà. Ma perché gli uomini concedono la gloria non a quelli che hanno scelto la moralità del lavoro, ma a quelli che hanno preferito l’immoralità dell’angoscia, che hanno insegnato a tutti nuove possibilità di soffrire? Forse perché non hanno tradito il destino dell’individuo? Forse perché gli danno l’illusione dell’assoluto? O forse perché l’angoscia è per 358
tutti l’intima Musa, la suprema ispiratrice, il passaggio all’eterno? (Quaderno 235, 1961)
Il lavoro stanca come l’ozio: occorre trovare un compromesso tra i due: il riposo. (Quaderno 261, 1963)
La redenzione della schiavitù non può essere nel suo trapasso nella dominazione, cioè in una nuova schiavitù, bensì nella coscienza della propria schiavitù, della propria inferiorità. La civiltà del lavoro manca di umiltà. Forse gli schiavi moderni non sarebbero più schiavi se avessero coscienza di esserlo. (Quaderno 267, 1964)
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