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FIDAF ASSOCIAZIONE MANLIO ROSSI-DORIA ARDAF Federazione Italiana Associazione Romana Dottori in Agraria e Forestali Dottori in Agraria e Forestali
Giulio Leone
sede FIDAF
Agronomi protagonisti
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Giulio Leone Agronomi protagonisti Atti dell’incontro per la commemorazione di Giulio Leone Roma, 28 febbraio 2011
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Indice FIDAF www.fidaf.it fidaf@tin.it
ASSOCIAZIONE MANLIO ROSSI-DORIA http://host.uniroma3.it/associazioni/rossidoria info@rossidoria.it
ARDAF www.ardaf.it info@ardaf.it
Luigi Rossi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 7 Introduzione Carlo Aiello. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 11 Giulio Leone: l’impegno nella Cassa per il Mezzogiorno Luigi Cavazza.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 15 Giulio Leone: l’impegno per l’agricoltura Anna Maria Martuccelli. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 19 Il pensiero di Giulio Leone per la gestione delle acque irrigue
Via Livenza, 6 - 00198 Roma tel. 06.841.60.36 - 06.890.87.583 - fax 06.884.59.60
Tommaso Maggiore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 23 Giulio Leone: scritti e memorie Silvano Marsella. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 31 Giulio Leone: il Suo impegno per la FIDAF Michele De Benedictis. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 33 Giulio Leone: l’ultimo dei bonificatori Franco Ravelli. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 37 La sperimentazione irrigua della Cassa per il Mezzogiorno Nicola Santoro. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 43 Giulio Leone: esempio di etica e onestà Francesco Menafra. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 45 Giulio Leone: un maestro di vita
Roma, luglio 2012
Giuseppe Murolo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 49 Giulio Leone: un amico dell’agricoltura campana
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Massimo Iannetta.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 51 Giulio Leone, ineguagliabile per professionalità ed umanità Edoardo Corbucci. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 55 Giulio Leone: vanto dell’Ordine di Roma Alfonso Pascale. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 57 Giulio Leone e la modernizzazione non governata Fabrizio De Filippis. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 63 Giulio Leone, uomo antico e moderno
“Senza memoria il progetto sarebbe utopia, senza progetto la memoria sarebbe rimpianto, senza coscienza dell’ora presente, memoria e progetto sarebbero evasione, vuoto esercizio della ragione” (Bruno Forte)
Memorie di Giulio Leone. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 67 Giulio Leone – Principali Pubblicazioni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 123
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Agronomi protagonisti
Introduzione Luigi Rossi * L’incontro per la commemorazione di Giulio Leone – organizzato da FIDAF, Associazione Manlio Rossi-Doria e Associazione Romana Dottori in Scienze Agrarie e Forestali – nasce dalla unanime volontà di ricordare un Amico, un Collega, della cui intelligente, generosa collaborazione ci siamo giovati non soltanto noi, ma anche Istituzioni e operatori soprattutto dei settori agricoli, della bonifica e della irrigazione. Desidero, innanzitutto, rivolgere un caro saluto ai Suoi familiari e ringraziarli per la gentilezza, la disponibilità e l’accuratezza, con cui hanno arricchito la documentazione e le pubblicazioni – tante e tutte assai interessanti – che Egli ha elargito. Un sentito ringraziamento a quanti hanno accolto prontamente il nostro invito per portare la loro personale testimonianza. Alcuni hanno lavorato e vissuto a fianco di Giulio e ci aiutano a comprendere meglio quegli aspetti professionali e umani che lo hanno caratterizzato. Carlo Aiello lo ricorda nel suo “periodo di maggiore e prolungato impegno professionale nel ruolo di Capo del Servizio Bonifiche e poi di Vice Direttore Generale della Cassa per il Mezzogiorno”. Luigi Cavazza ne ricorda l’impegno per l’agricoltura e sottolinea l’attività di Ricerca e sperimentazione del Gruppo di Consulenti per l’Irrigazione, voluto da Leone presso il Servizio Bonifiche. Anna Maria Martuccelli racconta la ventennale collaborazione con l’ANBI, “in un clima di leale collaborazione e di costante impegno volto ad approfondire, secondo le rispettive competenze, i diversi problemi che la gestione delle acque ha posto al nostro Paese e l’evolversi della legislazione”. Tommaso Maggiore presenta le pubblicazioni e le memorie professionali di Giulio Leone, raccolte scrupolosamente e con grande affetto dalle figlie. Silvano Marsella, Presidente onorario della FIDAF, ricorda “il Collega che per la Sua lunga ed elevata attività professionale si identificava con la Federazione di cui sosteneva tutti i fini istituzionali dando ad essa completa adesione”. *Luigi Rossi, Presidente FIDAF.
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Agronomi protagonisti
Introduzione
Agronomi protagonisti
Introduzione
Michele De Benedictis, ricordandolo come ultimo dei bonificatori, riconosce che “Giulio Leone è stato un uomo di grandi qualità, umane e professionali: con la sua scomparsa si chiude quella generazione di grandi “tecnici” alla cui competenza e impegno possiamo ascrivere l’ingresso dell’agricoltura meridionale nella modernità”. Franco Ravelli ricorda le scelte di Leone per promuovere le strutture e le attività di ricerca sperimentale in materia di irrigazione, nonché la relativa assistenza tecnica. Nicola Santoro sottolinea l’impegno dei Tecnici e degli Amministratori “i quali si cimentavano nella difficile sfida della realizzazione di opere straordinarie, indispensabili per cogliere i frutti dei radicali, indifferibili processi di trasformazione delle attività agricole tutte” e quanto Giulio Leone ci ha insegnato con l’esempio che “ogni iniziativa, anche nel campo professionale, deve essere sorretta da etica e onestà”. Francesco Menafra ricorda in particolare la costante presenza di Giulio nella vita della Associazione Romana Dottori in Scienze Agrarie e Forestali in cui ha sempre svolto, fino agli anni più recenti, un ruolo determinante nel promuovere, insieme con la FIDAF, nuove attività e studi, quali il pregevole volumetto su “L’uso dell’acqua in agricoltura” pubblicato nel 2007 e “Agronomi protagonisti” del 2009. “I suoi contributi di idee e di proposte, sempre coerenti con la profonda conoscenza delle problematiche del Mezzogiorno, la sua perseverante attenzione allo sviluppo del territorio, hanno rappresentato una guida irrinunciabile per capire quanto avveniva intorno a noi”. Massimo Iannetta, impossibilitato a partecipare, in un breve messaggio lo ricorda come referente nel recente Progetto ENEA, RIADE – Ricerca Integrata per l’applicazione di tecnologie e processi innovativi per la lotta alla desertificazione; MIUR – 2000-2006, sottolineando la sua “ineguagliabile professionalità e umanità”. Edoardo Corbucci conserva presso l’Ordine dei Dottori agronomi e Dottori forestali di Roma il Certificato di Laurea in Scienze Agrarie, ottenuto a pieni voti e con lode, a soli 21 anni, nonché quello di Abilitazione; dichiarando che Egli è sicuramente annoverato tra coloro che hanno contribuito a creare l’attuale agricoltura.
Alfonso Pascale, considera Leone nell’ambito di “quel nucleo di grandi tecnici che, in aderenza alle direttive fissate in sede politico-istituzionale e con una forte impronta tecnico-scientifica sia personale che di gruppo, attuarono gli interventi che dettero uno scossone all’economia e alla società italiana, determinandone la modernizzazione”. Fabrizio De Filippis, infine, avendo sposato la figlia Laura, ci porta una testimonianza speciale, da familiare: “Giulio Leone era un uomo antico e moderno nello stesso tempo ….”, e, da Economista agrario: “… nella mia esperienza professionale mi è capitato di frequentare luoghi dove Giulio aveva operato e dove era viva e presente la scia di stima, affetto e ammirazione che sempre lasciava: il Centro di Portici, la SIDEA (Società Italiana di Economia Agraria), l’INEA (Istituto Nazionale di Economia Agraria), l’Associazione Manlio Rossi-Doria e, molto più recentemente, l’ANBI (Associazione Nazionale delle Bonifiche)”. Per me è difficile esprimere in un ricordo i pensieri e i sentimenti che mi hanno legato a Giulio. Lo conobbi nell’Associazione Romana e subito mi colpì per l’attenzione con cui ascoltava noi giovani e ci incoraggiava ad esprimere le nostre idee. Divenne ben presto un riferimento importante e quando invitavo i neo laureati a frequentare l’Associazione per incontrare persone esperte e preziose per “orientare al lavoro”, immancabilmente pensavo a Lui. Sul piano professionale Egli era animato da una straordinaria curiosità di conoscere le ultime conquiste della scienza e le opportunità offerte dalle nuove tecnologie. Non credo per motivazioni puramente accademiche, ma per studiarne le possibili applicazioni alla luce della Sua straordinaria esperienza. Si interessava della genetica delle piante agrarie (mia materia scientifica) e si aggiornava continuamente. Mi colpiva per la diligenza e il rigore con cui leggeva tante pubblicazioni e per domande sempre puntuali e aggiornate. I Suoi interessi spaziavano su tutto il sistema agro-alimentare. Anche per Giulio, l’agricoltura era un insieme inscindibile costituito da alimenti, ambiente, energia e salute. Lo era sempre stato! Da bravo Direttore di grandi Aziende agrarie, conosceva bene tutti i fattori della produzione e il valore delle risorse umane e professionali. Riconosceva il ruolo centrale dell’agricoltura nella società e la forza
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Agronomi protagonisti
Introduzione
straordinaria dell’innovazione. Aveva vissuto direttamente la grande rivoluzione produttiva dovuta al miglioramento genetico, alla chimica e alla meccanica. Era stato un protagonista della bonifica, “l’ultimo dei bonificatori”. Non solo aveva accolto l’innovazione con interesse, ma ne era stato forte propugnatore. Mi ricordava la saggezza di mia nonna che, nel suo dialetto romagnolo, usava dire: “... sono nata troppo presto!” Ricordo un Suo approfondimento sulla necessità di far convergere le Scienze verso la soluzione di problemi complessi. L’intensificazione tecnologica può risolvere alcuni problemi importanti e di grande interesse economico, ma può sollevarne altri come dimostrato dall’agricoltura intensiva. Le nuove varietà di grano altamente produttive (quelle di Nazareno Strampelli, ad esempio) avevano risolto in Italia e in tanti altri Paesi il gravissimo problema della fame, ma erano state indirettamente la causa della perdita di biodiversità genetica, per l’abbandono delle varietà non competitive. La intensificazione tecnologica da sola non basta, bisogna privilegiare la conoscenza; anzi: l’insieme delle conoscenze, in funzione di obiettivi validi e duraturi. Non è un bell’esempio per il nostro Paese così fortemente a rischio di dissesto idrogeologico, né che la prima Carta geologica sia stata realizzata a Caltanissetta, essenzialmente per l’interesse che lo zolfo suscitava negli anni 1860-1870, né che il completamento della Carta Geologica debba aspettare, presumibilmente, ancora cinquant’anni! Giulio Leone a novant’anni continuava ad essere affascinato dai fondamenti della Società della Conoscenza e intimamente aderiva ad essi. Gli era ben chiaro che la società moderna deve fondare sviluppo e competitività su sapere, ricerca e innovazione; nel rispetto della dignità dell’uomo, dei suoi valori e della sua capacità operosa. Insieme a Voi, serberò il più commosso e grato ricordo di Giulio, al quale continuerò a fare riferimento, soprattutto nei momenti difficili, per trarre sostegno dai consigli, dagli insegnamenti, dai contributi di eccezionale esperienza e saggezza che Lui ha sempre generosamente elargito.
Agronomi protagonisti
Giulio Leone: l’impegno nella Cassa per il Mezzogiorno Carlo Aiello * E’ con non poca tristezza che mi accingo a ricordare, con la stima e l’affetto di sempre, Giulio Leone nel suo periodo di maggiore e prolungato impegno professionale nel ruolo di Capo del Servizio Bonifiche e poi di Vice Direttore Generale della Cassa per il Mezzogiorno. Dopo l’esperienza di Direttore dell’Opera Sila e poi di Direttore del Consorzio di Bonifica del Volturno, arricchita da impegni professionali in Italia e all’estero, egli fu chiamato dalla Presidenza e dal C.d.A. dell’Istituto a coprire l’alto incarico intorno al 1963. Era il momento in cui l’intervento straordinario affrontava con maggiore organicità la realizzazione dei grandi sistemi idrici del Mezzogiorno (con dighe – circa 100 – canali e opere complesse di approvvigionamento idrico ad uso plurimo), l’ampliamento, e messa in efficienza, delle reti idriche nella pianura meridionale, il finanziamento diffuso sul territorio di trasformazioni radicali delle strutture produttive delle aziende agricole (400 mila progetti di miglioramento fondiario) la gran parte ad integrale complemento delle opere pubbliche nelle aree di bonifica, ma anche nei territori interni di bonifica. Programmazione, progettazione e gestione di tali interventi presupponevano lungimiranza gestionale, impegno tecnico, e sforzo comune dell’intero Servizio a lui affidato nonché corretta e rigorosa cura delle relazioni burocratiche e umane al centro e in periferia. Tali compiti egli seppe assolvere, fin dal primo momento, con scrupolo professionale, onestà intellettuale, coinvolgendo al massimo il personale e i dirigenti del Servizio a lui sottoposti. A tutti egli offrì il suo convincente esempio di rettitudine e di impegno costante per raggiungere i risultati, possibili solo attraverso il rispetto reciproco e la semplicità dei rapporti. Lavorare con lui era un piacere perché si sapeva di avere una guida sicura e lungimirante. Nell’impegno già gravoso dell’assolvimento dei compiti istituzionali (v. gestione oculata della notevole mole di finanziamenti, per opere di bonifica e miglioramenti fondiari), il suo grande merito fu di allargare la sua sensibilità *Prof. Carlo Aiello, Università La Sapienza, Roma.
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Agronomi protagonisti
Carlo Aiello
Agronomi protagonisti
Carlo Aiello
di tecnico e di dirigente illuminato a tutta la vasta gamma di strumenti e di tipologie di interventi volti allo sviluppo organico ed alla qualificazione dell’agricoltura del Mezzogiorno: delle aree portate dall’irrigazione alle più intense trasformazioni delle aree ad agricoltura specializzata mediterranea, o dei territori ad agricoltura mista e estensiva. Poco dopo il suo insediamento mi chiamò al suo fianco (essendogli nota la mia esperienza decennale nel Centro Studi, con particolare riferimento alle metodologie di valutazione economica dei grandi progetti) e mi affidò un compito particolare: il controllo economico dei progetti di investimento sotto l’aspetto della redditività assoluta e comparata degli stessi e della scelta fra soluzioni alternative, fino a predisporre le analisi dei grandi progetti ai fini dei prestiti di Banche internazionali (BIRD-BEI). Il ricorso al prestito estero, consentito dalla Legge, a carico del Tesoro, consentiva di ampliare la capacità finanziaria dei programmi e di velocizzarne l’esecuzione. La gestione di questo flusso di finanziamenti aggiuntivi impose un rigoroso sforzo operativo, al centro e in periferia, in cui Giulio Leone dimostrò tutte le sue capacità manageriali, coinvolgendo sul piano morale e professionale noi tutti per perseguire gli obiettivi pur nel rigoroso rispetto delle prerogative decisionali del Consiglio di Amministrazione, del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e degli organi di controllo. L’esame economico dei progetti, dopo l’esperienza dei prestiti esteri, fu esteso anche agli altri progetti quando essi avevano rilevanza economica e difficoltà di scelta. In questo Giulio Leone dimostrò lungimiranza, se si pensa che successivamente tali metodi furono poi adottati dal Ministero del Bilancio per i progetti FIO in quanto parzialmente finanziati con prestiti esteri. Un secondo aspetto in cui Giulio Leone dimostrò grande apertura e intuizione fu quello della sperimentazione agricola, dell’assistenza tecnica e della formazione professionale a tutti i livelli nelle aree di bonifica del Sud. Ne sono prova in quegli anni la creazione dei campi sperimentali in aree irrigue (per l’utilizzo di tecnologie più idonee nella pratica irrigua), dei nuclei di assistenza tecnica (circa 250) presso i Consorzi di Bonifica, volti ad accelerare e razionalizzare l’uso dell’acqua e diffondere il progresso tecnologico nella campagna, oltre che a riqualificare i quadri di tecnici e agronomi
presenti nel territorio. Progresso tecnologico e fattore umano ebbero così l’attenzione e l’impegno finanziario che meritavano in quanto complemento essenziale dello sviluppo integrale del potenziale agricolo del Mezzogiorno. Con gli anni ‘70 iniziò una nuova stagione che qualificò ancor di più l’intervento straordinario nel Mezzogiorno. E Giulio Leone ne fu un promotore, pianificatore e gestore impareggiabile. Mi riferisco ai “Progetti speciali”, riguardanti complessi organici di opere infrastrutturali, azioni aventi circoscritti obiettivi, nonché tempi certi di esecuzione e finanziamenti assicurati: mi riferisco ai grandi schemi idrici, alla riqualificazione di specifici territori, al superamento di handicap infrastrutturali esistenti nel Mezzogiorno, alla ricerca tecnologica finalizzata per progetti, alla valorizzazione di risorse agro-forestali, al progetto per la zootecnia da carne nel Sud, alla razionalizzazione e completamento delle reti irrigue, al rimboschimento a fini produttivi nelle aree interne estensivizzate e abbandonate, alla riconversione del patrimonio agrumicolo nel Sud ad integrazione di interventi già parzialmente regolamentati da finanziamenti europei. Essi furono approvati dal CIPE nel 1972 e divennero operativi a tempi brevi sotto la sua guida per espressa delega del Consiglio di Amministrazione. Iniziò in quegli anni ‘70 un proficuo e difficile lavoro di collaborazione con le Regioni, recentemente costituite. Egli guidò con saggezza, e rispetto dei reciproci ruoli, il rapporto con gli Assessorati preposti, rapporto non facile essendosi ampliato il potere – programmatico ed esecutivo – delegato dalle Leggi alle Regioni, pur restando alla Cassa la responsabilità progettuale e la gestione finanziaria dei singoli interventi. Egli seppe gestire, da par suo, questo difficile passaggio senza traumi e guadagnando rispetto all’Istituto e ai suoi quadri dirigenziali. Questa sua opera gli guadagnò la nomina a Vice Direttore della “Cassa”. Ma il cambiamento ai vertici, che il nuovo corso generò nell’Istituto, gli consigliarono di lasciare il suo prestigioso incarico e alla fine del 1978 lasciò la Cassa senza clamori, nel più sereno e dignitoso stile che gli era proprio. Poco dopo il Ministro per il Mezzogiorno dell’epoca e quelli che seguirono lo vollero come fidato consulente presso il Comitato dei Ministri in Via Boncompagni. La sua esperienza e la sua apertura mentale ne fecero un
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Carlo Aiello
prezioso filtro delle decisioni programmatiche che il susseguirsi di Leggi e Decreti comportarono per l’azione nel Mezzogiorno in quel tormentato periodo degli anni ‘80, quando mutarono nuovamente i criteri programmatici e i contenuti dell’intervento straordinario. L’organo centrale veniva spogliato delle primitive caratteristiche che avevano creato con il suo modello – concepito negli anni ‘50 – un felice ed efficace strumento della Pubblica Amministrazione. Nel 1979, non pochi, tra cui chi vi parla, seguimmo l’esempio di Giulio Leone e lasciammo, per destinazioni diverse, il nostro amato Istituto in cui ormai non ci riconoscevamo più. Chi è rimasto e chi è andato via hanno tutti conservato il ricordo e la nostalgia di quel felice quindicennio (65/80) di impegno operoso, specie quelli che hanno avuto la fortuna di conoscere Giulio e di lavorare al suo fianco traendone insegnamento di stile e di esperienza dirigenziale.
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Giulio Leone: l’impegno per l’agricoltura Luigi Cavazza * Ho accettato l’incarico di commemorare il Dott. Giulio Leone perché ho avuto occasione di conoscerlo e collaborare con lui. Nel 1970 la Cassa per il Mezzogiorno nominò, per la gestione dei campi irrigui, una commissione di consulenti costituita dai Direttori delle Facoltà di Agraria più impegnati nell’irrigazione in Italia (Ballatore, Barbieri, Cavazza, Tournon, Crocioni e Milella) e a me fu affidato il compito di analizzare ed elaborare i risultati ottenuti fino al 1970. Dopo il completamento dell’opera del “Fortore”, Giulio Leone mi incaricò di studiare le varie possibilità di distribuzione dell’acqua. Riporto in sintesi alcune date dell’attività di Giulio Leone. Il Dott. Giulio Leone nacque in una distinta famiglia di Rocchetta Sant’Antonio dell’Irpinia. Il nonno, Emanuele De Cillis, fu docente di Agronomia Meridionale a Portici e il padre, Giuseppe Leone, operò in Cirenaica per lunghi anni presso la Stazione Sperimentale di Sidi Mesri. Giulio Leone si iscrisse alla Facoltà di Agraria di Portici nel 1932 e si laureò nel 1936. Subito dopo operò in Sicilia presso “l’Ufficio Bonifica della Confederazione fascista dei lavoratori” con il compito di trasformare il Demanio civico di S. Pietro di Caltagirone. In Sicilia per Giulio Leone la direzione dell’azienda “Duca di Bronte”, espropriata al proprietario inglese e avente l’estensione di 5700 ettari (dava lavoro a oltre 500 famiglie), fu molto formativa sul piano dell’esperienza di campagna e di gestione dei non facili rapporti sociali. Nel 1943 lo sbarco degli alleati in Sicilia pose fine a quella esperienza. Rientrò nel continente e assunse la direzione dell’azienda agraria Licola dell’opera nazionale combattenti; in questo periodo iniziarono i primi contatti con Manlio Rossi-Doria. Nel 1951 fu Direttore del Consorzio di Bonifica del Basso Volturno e nel 1962 assunse, su invito di Gabriele Pescatore, la Direzione del Servizio di Bonifiche della Cassa del Mezzogiorno, dove si interessò soprattutto degli *Prof. Luigi Cavazza, già Presidente dell’Accademia Nazionale di Agricoltura.
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Agronomi protagonisti
Luigi Cavazza
aspetti idraulici e di trasformazione fondiaria. Il quindicennio 1960-1975 corrisponde a un balzo in avanti dell’agricoltura irrigua meridionale. Nel 1971, dopo l’attuazione delle Regioni, il comitato dei Ministri affidò alla Cassa del Mezzogiorno l’elaborazione dei Progetti Speciali di interesse Regionale e Intersettoriale; Giulio Leone diresse e coordinò l’attuazione dei progetti e dei gruppi di lavoro. La partecipazione di Giulio Leone alla Cassa del Mezzogiorno si protrasse fino al 1978; nell’ultimo periodo ricoprì la carica di Vice Direttore Generale. In questi anni gli furono affidate numerose missioni di indagini e consulenze all’estero (Belucistan, Egitto e Tunisia). Negli anni 1980 Giulio Leone presiedette per sei mesi la società ITALTRADE per la commercializzazione dei prodotti meridionali all’estero. Successivamente fu consigliere di Amministrazione della FINAM (Società finanziaria dell’agricoltura meridionale) fino alla sua chiusura. Partecipò intensamente alla vita di istituzioni meridionalistiche varie (SVIMEZ e ANIMI). Giulio Leone, inoltre, svolse con competenza e continuità la preziosa opera di consulente, presso “l’Associazione nazionale Bonifiche, Irrigazioni e Trasformazioni fondiarie”; a tempo pieno finché le forze glielo consentirono. A quanto detto posso aggiungere alcune riflessioni. Nel complesso la vita di Giulio Leone può essere articolata in tre periodi: un primo prebellico, un secondo di transizione ed un terzo presso l’ANBI. Nel primo si fece le ossa come tecnico aziendale in Sicilia; nel secondo maturò la sua personalità di bonificatore e nel terzo passò all’azione nelle Bonifiche e consolidò le sue idee. Cosa possiamo dire dell’evoluzione del suo pensiero? Nel primo periodo definì compiti, doveri e possibilità; nel secondo fissò obiettivi e rilevamenti e nel terzo puntò sulla produttività e le rotazioni dei terreni in funzione delle caratteristiche dei suoli e dell’ambiente, dei cicli idrologici naturali e delle condizioni sociali. Nel 1980 presentò all’Accademia Nazionale di Agricoltura il testo di un corso di lezioni sull’irrigazione nelle zone di Bonifiche italiane in cui sono trattati con grande competenza i problemi della produttività dell’irrigazione e quelli della trasformazione dell’acqua da parte delle colture nelle varie
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Luigi Cavazza
situazioni agrarie italiane. A conclusione di questa commemorazione, desidero esprimere alla memoria di Giulio Leone un pensiero di gratitudine: il Suo prolungato sforzo di miglioramento della produttività agricola del territorio Italiano è stato di particolare interesse per evidenziare gli oneri connessi alla distribuzione delle agricolture regionali. Riferimenti bibliografici Cavazza, L. “Bonifica Mezzogiorno ed Europa”. XXII Congresso Nazionale della Bonifica. Bari 2630 maggio. Ed. Laterza. Pag. 325. 1965 Buonopane, A. “In ricordo di Giulio Leone”. L’Acqua, Vol, 6, pag. 83, 2010 De Benedictis, M. Giulio Leone: l’ultimo dei bonificatori. ANIMI, 2010 Programma Coordinato di Sperimentazione irrigua per il Mezzogiorno. 1972. Relazioni alle giornate di studio della Commissione Internazionale di Genio Rurale. (Firenze 12-16 Settembre 1972). Quaderno no. 52. Tipolitografie “il torchio”. Firenze. Pag. 467. Ravelli, F. e Rota, P. Research on crop requirements and water production functions in the context of the Irrigation Programme of the Southern Italy Development Found, 2011. (Cassa per lo sviluppo del Mezzogiorno:1950-1980). Trans-national Workshop; May 24-25; Telese Terme. Ed. A.P. Leone e A. Basile. Wikipedia, Battaglia del grano, 2011
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Il pensiero di Giulio Leone per la gestione delle acque irrigue Anna Maria Martuccelli * Ho accolto con molto piacere l’invito rivoltomi dalla Federazione Italiana Dottori in Agraria e Forestali, che ringrazio, di partecipare, con una testimonianza personale, alla odierna cerimonia in ricordo di Giulio Leone. La Sua scomparsa ha suscitato in me profondo rimpianto nel ricordo di un comune ventennale lavoro, svolto in un clima di leale collaborazione e con un reciproco, costante impegno, unitariamente rivolto ad approfondire, secondo le rispettive competenze, i diversi problemi che la gestione delle acque ha posto al nostro Paese, nell’evolversi della legislazione e delle realtà economico-sociali. Giulio Leone fu infatti consulente dell’ANBI sin dal 1986 quando, chiamata io alla Direzione generale, mi resi conto della necessità di arricchire l’organizzazione nel settore tecnico, rimasto privo della collaborazione di Euclide Giuliani. Avevo conosciuto Giulio Leone allorquando unitamente a Gabriele Pescatore, allora Presidente della Cassa per il Mezzogiorno, vollero incontrarmi per i problemi che si erano posti alla Cassa nella disciplina dei rapporti di lavoro degli operai forestali addetti a realizzare opere finanziate dalla Cassa. Trovai una soluzione che contemperava i diversi interessi e tracciava una via per la disciplina futura, che venne ritenuta valida. In tale occasione maturò la prima conoscenza con Giulio Leone. Pertanto, nominata Direttore generale dell’ANBI, nel momento in cui ho dovuto provvedere alla organizzazione degli uffici, tra le varie esigenze prospettate a Giuseppe Medici, all’epoca Presidente dell’ANBI, vi era anche quella relativa al settore tecnico. All’unisono convenimmo, insieme a Massimo Cordero di Montezemolo, che bisognava convincere Giulio Leone ad una collaborazione costante con l’ANBI. Nacque un sodalizio importante Medici, Leone, Montezemolo, Martuccelli. Durante tale collaborazione si sviluppò nel nostro Paese un intenso dibattito sia sui problemi dell’irrigazione che della bonifica idraulica. Ricordo gli incontri sul tema delle produzioni eccedentarie con riferimento *Anna Maria Martuccelli, Direttore generale dell’ANBI.
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Agronomi protagonisti
Anna Maria Martuccelli
Agronomi protagonisti
Anna Maria Martuccelli
all’irrigazione il cui sviluppo in sede europea incontrava forti ostacoli sì da voler impedire il finanziamento comunitario per la realizzazione di opere irrigue. Medici e Leone furono convinti assertori dell’assoluta erroneità di tale orientamento e si impegnarono in più sedi per diffondere la conoscenza puntuale della funzione dell’irrigazione nel nostro Paese, che non era quella di aumentare le produzioni bensì di garantire produzioni di qualità e quindi consentire all’agricoltura italiana di competere sui mercati internazionali. Giulio Leone, consapevole della grande validità dell’istituto consortile per la gestione delle acque, sostenne con profonda convinzione, al momento della Riforma della gestione delle risorse idriche, che era indispensabile per l’uso irriguo garantirne la gestione in comune attraverso l’istituto consortile di cui Giulio Leone conosceva profondamente compiti, poteri, funzionamento, avendo ricoperto la carica di Direttore generale del Consorzio del bacino inferiore del Volturno dal 1952 al 1960 e avendo avuto una lunga esperienza di rapporti con i Consorzi meridionali come coordinatore dei progetti speciali della Cassa per il Mezzogiorno e come Vice Direttore generale della stessa Cassa. E’ testimonianza della sua profonda conoscenza dell’irrigazione in Italia e in molti altri paesi d’Europa il volume edito nel 1992 dall’ANBI “L’uso irriguo delle acque” il cui testo si deve soprattutto all’opera di Giulio Leone. La premessa di tale volume esprime il Suo pensiero. Si trascrive il testo: “L’associazione Nazionale delle Bonifiche, delle Irrigazioni e dei Miglioramenti Fondiari intende illustrare, con la presente pubblicazione, il fondamentale ruolo che l’irrigazione svolge per assicurare all’agricoltura italiana un livello di produttività, che regga la concorrenza dei partners europei, e le consenta l’elasticità richiesta dalle mutevoli esigenze dei mercati”. “Con un efficiente sviluppo ed ammodernamento dei sistemi irrigui si possono, inoltre, conservare gli equilibri ambientali e paesaggistici di molte contrade, altrimenti destinate a ritornare allo stato misero delle origini”. “La sensazione che su tale complesso ruolo la pubblica opinione sia poco informata è andata rafforzandosi negli ultimi anni, caratterizzati dal ripetersi di stagioni siccitose e dalla mancanza di idonee iniziative intese a
razionalizzare l’uso delle risorse, nonché a sopperire a strutturali carenze di esse nella parte meridionale ed insulare del Paese”. “L’ANBI si propone, quindi, di porre in evidenza la centralità di una politica per l’irrigazione, di cui si indicano le linee fondamentali”. In occasione dell’elaborazione di tale volume la mia collaborazione con Medici e Leone fu particolarmente intensa in quanto entrambi vollero che fossi io l’autore del capitolo dedicato ai Consorzi. Leone compì un lavoro organico e puntuale su tutti gli aspetti tecnici dell’irrigazione: dall’approvvigionamento al trasporto, alla distribuzione, al risparmio di acqua, al reperimento di nuove risorse idriche, all’uso irriguo di acque reflue, ai costi dell’irrigazione. Il volume raccoglie anche un’appendice sulle irrigazioni in atto nel Nord, nel Centro e nel Sud del nostro Paese nonché nei Paesi mediterranei. Ancora oggi a distanza di anni tale pubblicazione costituisce una validissima fonte di esame e di studio per chi vuole approfondire i temi dell’irrigazione. Un impegno straordinario fu quello di Giulio Leone durante la presidenza dell’ANBI di Arcangelo Lobianco che affidò a Leone il compito dell’elaborazione di un volume dal titolo: “La verità su un territorio bonificato: l’Italia. Ciò che si è fatto e che si deve conservare”. Arcangelo Lobianco, nel presentare il volume, concludeva: “Dobbiamo essere grati a Giulio Leone per essersi impegnato ad offrirci una “fotografia dinamica” di quanto è stato fatto e di quanto si deve fare per conservare il grande patrimonio della bonifica”. Il volume descrive la situazione di ben 183 comprensori consortili per ciascuno dei quali indica le azioni manutentorie e di adattamento necessarie sia per la difesa idraulica che per l’uso irriguo, della cui integrazione fu convinto assertore. Nel 2002 Leone si impegnò nuovamente ad aggiornare le monografie per ambiti territoriali con l’elaborazione del volume “L’azione della bonifica e dell’irrigazione in Italia”. Tale nuova edizione, oltre ad un aggiornamento dei dati sulle strutture idrauliche ed irrigue, espone le caratteristiche della distribuzione fondiaria e degli ordinamenti colturali per i quali quelle strutture sono finalizzate e operano.
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Leone sottolinea che “attraverso un risanamento destinato all’agricoltura, si è conseguita una sicurezza idraulica e si è arricchito di acque il territorio, contribuendo così a favorire gli insediamenti civili ed industriali insistenti su di esso”. L’opera di Leone prosegue nel 2004 con la pubblicazione da parte dell’ANBI della “Indagine sull’irrigazione nei comprensori di bonifica e di irrigazione”, che testimonia un lavoro di enorme interesse perché l’indagine ha anche lo scopo di approfondire la conoscenza delle gestioni irrigue per trarne conseguenti deduzioni sulle necessità di ammodernamento degli impianti, di eventuale conversione dei metodi di distribuzione e somministrazione al campo, di applicazione di tecniche colturali finalizzate alla migliore utilizzazione dell’acqua ed al suo risparmio. Nel 2005 Leone si dedica ad una delicata indagine sulle dighe di sbarramento alimentanti comprensori irrigui, intesa a rilevare le condizioni di funzionalità e lo stato di manutenzione degli invasi che alimentano direttamente o indirettamente comprensori irrigui di pianura. Si tratta di un lavoro unico nel suo genere e di grande interesse con riferimento specifico alle esigenze di messa in sicurezza delle dighe. Concludo ricordando l’opera che Giulio Leone ha realizzato con grande gioia e singolare impegno, nel 2002, costituita dalla raccolta degli scritti di Giuseppe Medici. Nella premessa alla raccolta Giulio Leone sottolinea che “Scegliere fra gli scritti di Medici non è facile”. Se si esaminano, però, gli scritti raccolti, traspare l’elevata professionalità e conoscenza di chi ha effettuato la scelta. Dalle radici territoriali, alla ricerca e alla didattica, ai temi di approfondimento su acque e bonifica, su ambiente e collina, sulla politica e l’Amministrazione il volume offre un quadro completo ed esemplare di Medici Uomo e studioso, ricercatore, accademico, politico. Giulio Leone ha dimostrato ancora una volta conoscenza, professionalità, passione per i problemi del territorio e delle acque. Lascia un esemplare insegnamento e testimonianze importanti per tutti coloro che sono impegnati e che si impegneranno nel settore della bonifica e dell’irrigazione.
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Giulio Leone: scritti e memorie Tommaso Maggiore * Le memorie lasciate alle figlie e che le stesse ci hanno trasmesso, riguardano essenzialmente l’ambito professionale. Esse sono riportate in ordine cronologico, anche se sono state scritte in momenti diversi. Nello stile asciutto e rigoroso si riconosce l’uomo sempre “positivo” che abbiamo conosciuto. Dagli inizi della carriera alla Riforma agraria Le memorie hanno inizio con l’attività lavorativa, subito dopo aver concluso gli esami di Stato a Bologna. La prima attività lavorativa è stata quella di assistente straordinario presso L’Istituto Sperimentale di Chimica Agraria di Roma (Direttore il Prof. Tomasi e Vice Direttore il Prof. Marimpietri), con l’incarico di occuparsi delle analisi del fosforo. In questa occasione, per prelevare i campioni di terreno visita in largo e in lungo l’Agro Pontino, che era stato appena bonificato. Si fermò in Istituto pochi mesi anche perché, allora come ora, lo stipendio non era elevato e il Prof. Franco Angelini (che era succeduto al nonno nella cattedra di Agronomia e Coltivazioni Erbacee presso la Facoltà di Agraria di Portici, ma che era anche il Presidente della Confederazione Fascista dei Lavoratori Agricoli) gli offrì un posto meglio remunerato presso la Confederazione e più in particolare presso l’Ufficio Bonifiche. Come funzionario di questa Organizzazione visitò quasi tutte le provincie italiane, ma soprattutto fu occupato a dirigere i lavori di trasformazione del Demanio Civico di San. Pietro di Caltagirone, dove furono costruite 27 case coloniche (senza acqua potabile sicché i WC divennero recipienti per salare le olive). Dopo il matrimonio avvenuto nei primi giorni di gennaio del 1940, viene trasferito dalla Confederazione a Palermo. Alla fine dell’anno il Prof. Mazzocchi Alemanni (Presidente dell’Ente per la Colonizzazione del Latifondo Siciliano) lo mandò a dirigere la Ducea di Bronte, sequestrata alla famiglia inglese Nelson, e, come Direttore di una grande azienda, non andò in guerra. *Prof. Tommaso Maggiore, Università degli Studi di Milano.
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Nel secondo capitolo delle memorie descrive la Ducea di Bronte e il castello di Maniace, ma soprattutto l’Azienda agricola (5.700 ha cui si aggiunsero dopo altri 1.300 ha) dono di Ferdinando IV di Borbone a Nelson, per averlo ricondotto a Napoli nel 1799. Alcune descrizioni sono veramente poetiche. Il castello controlla il guado del fiume: “Il fiume in quel tratto col nome di Saracena, che più a valle diventa Simeto, scorre con piene invernali e fluenze estive, veloce e libero nel proprio alveo, che si è scavato tra le lave discendenti dall’Etna e le colline argillose dei Nebrodi, lasciandosi attorno ampie zone piane alluvionali”. Ed ancora: “l’Azienda era costituita in tre corpi. Quello centrale, in piccola parte al di qua del Saracena, dove era il Castello, e per la massima parte al di la della riva settentrionale del fiume; un secondo e un terzo corpo, vicini tra loro, erano sotto l’abitato di Bronte, sulla riva sinistra del Saracena, divenuto Simeto, al limite delle lave, su una striscia alluvionale del fiume: una quarantina di ettari, tutti impiantati ad agrumeto ed altri a pistacchieto ottenuto con innesti dagli arbusti selvatici”. Ricorda con affetto e stima il Fattore (Mario Carastro, ma soprattutto Direttore dell’Ente per la Colonizzazione del Latifondo), l’agronomo Dott. Alfio Nicolosi, Direttore degli agrumeti; il capo dei campieri (Lo Castro) e i suoi collaboratori; lo stalliere (Leanza); il geom. Ianniccelli che curava i lavori, manutentivi e anche nuovi, edili, stradali e idraulici. Ricorda anche i liberi professionisti che lo coadiuvavano: gli agronomi catanesi Sardo e Barbagallo. Ricorda, infine, il Prof. Emilio Zanini, professore di Agronomia generale e coltivazioni erbacee presso la Facoltà di Agraria di Palermo. L’organizzazione dell’azienda era varia, complessivamente erano presenti 500 famiglie di coltivatori divisi in: - affittuari grandi con alle dipendenze metanieri e gabelloti; - affittuari piccoli. I canoni erano tutti pagati in natura, prevalentemente con frumento duro, fave e frumento tenero (cv. Timilia). In più erano previsti i “carnaggi” (capretti, agnelli, polli, uova, frutta di stagione) che andavano alla mensa ducale o a quella degli impiegati. Gabbelloti, metanieri e coltivatori in genere abitavano case in pietra a secco con copertura di paglia e pavimento in terra battuta. Nessun arredo
degno di tale parola. Rifugio estivo e invernale di adulti e bambini. A Bronte vediamo il nostro Direttore attento a migliorare anzitutto le condizioni di vita dei lavoratori (nuove case, manutenzione delle vecchie masserie, Laboratorio medico) e ad acquistare trattori e distribuire bestiame bovino (razza Modicana) per conseguire miglioramenti delle prestazioni (buoi) e delle produzioni (latte e carne). Purtroppo venne a mancare il rispetto dei boschi. “Non riuscii, invece, a salvare le belle e secolari querce in un’area incolta vicino al Boschetto Vigne. E subii la vendetta. Una mattina mentre ero lì a cavallo con Zanini, al quale avevo ceduto la mia Nina ed io montavo Polifemo, una mina adoperata per spaccare un tronco, scoppiò. I cavalli si imbizzarrirono, Zanini fu disarcionato, ma rimase impigliato con un piede in una staffa; io scesi da cavallo presi le briglie di Nina e liberai Zanini. Con l’altra mano tenevo le briglie di Polifemo, che mi scivolarono dalla mano, tanto da consentirgli di girarsi e di tirarmi un calcio. Mi prese sulla fronte di striscio, ma non mi evitò una commozione celebrale; stetti qualche giorno all’ospedale di Bronte, ben assistito e visitato anche dal Primario chirurgo di Catania, il poi famoso Prof. Dogliotti”. A Bronte ricorda anche la visita dello zio Ugo De Cillis e del suo assistente Stanganelli (ingegnere di laurea, ma in realtà fisico del suolo).
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L’Opera Nazionale Combattenti Il terzo capitolo delle memorie tratta del periodo 1944-1950. L’inizio del capitolo vede la famiglia presso il Tondo Gioeni a Catania, in prossimità della sede della Stazione Sperimentale di Granicoltura per la Sicilia, presso la quale abitava lo zio Ugo De Cillis. Descrive la moglie e la fa vedere a piedi con le provviste alimentari lungo l’interminabile salita della Via Etnea. A Catania rappresenta l’Ente per la Colonizzazione del Latifondo Siciliano ed è trattato male dai grandi proprietari terrieri che erano stati espropriati. Nella memoria si cita anche il Duca di Misterbianco che per andare a visitare un’azienda lo relegò nello strapuntino di una cinquecento. Molto emozionante la descrizione di un viaggio Catania - Napoli e
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ritorno agli inizi del 1944. A Catania attraverso Stanganelli conosce anche Vitaliano Brancati. Nell’aprile del 1944 gli viene offerta la direzione dell’Azienda agraria Licola in Campania, dell’Opera Nazionale Combattenti, di 700 ha e il primo maggio ne assume la direzione. La famiglia si sposta a Napoli tra mille peripezie e soprattutto deve fare la guerra alle pulci. Nell’Azienda erano presenti 27 mezzadrie per metà gestite da Veneti e per la restante parte da Napoletani e un Marchigiano, certo Goretti, fratello della Santa. L’acqua in eccesso avrebbe dovuto essere eliminata da una idrovora che, però, minata dai tedeschi, non funzionava e ciò aveva fatto riformare il lago, dove si faceva per diletto la caccia in botte. Ricostruisce un bosco di cerri, carpini, pioppi e macchia mediterranea a copertura della fascia dunale antistante il litorale, distrutta dalla permanenza dei militari. Già un anno dopo ebbe dall’Opera, non solo la conferma della direzione di Licola, ma anche la direzione di Vicina (2.500 ha nel Basso Volturno). Poi, nel 1945, fu nominato anche Ispettore e quindi supervisore di altre 2 aziende del basso Volturno di altri complessivi 8.500 ha. E’ in questo periodo che fa ritorno a Portici Manlio Rossi-Doria, con il quale avviò lunghe frequentazioni. Nel 1949 aiutò Rossi-Doria a preparare la Riforma Agraria in Calabria dove istituirono un piccolo ufficio nell’albergo Reale a Crotone. In Calabria prende il Tifo. In quell’epoca il padre dirigeva l’Ispettorato compartimentale della Campania e Segni, Ministro dell’Agricoltura, volle che Giulio assumesse la direzione dell’Opera di Valorizzazione della Sila. Lasciò l’Opera Nazionale Combattenti e si trasferì, senza la famiglia, negli alberghi di Crotone, Catanzaro e Cosenza. Con grande efficacia si descrive la guerra alle mafie locali e in particolare a quelle di Casal di Principe.
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Dalla Riforma agraria alla direzione del Consorzio di bonifica Gruppo di lavoro: Manlio Rossi-Doria, Vincenzo Caglioti (Presidente dell’Opera per la Valorizzazione della Sila) Silvio Florenzano e Giulio Leone. Furono condotti studi di base per conoscere la distribuzione della proprietà fondiaria, le condizioni di reddito e di vita dei contadini. Fu Rossi-Doria a scrivere gli schemi di indagine e a interpretare le informazioni ricevute e i dati. Si arrivò ad espropriare ben 76.000 ha di terre arabili e già nel secondo semestre del 1950 a effettuare le assegnazioni, eseguite in base a rigidi criteri. Le liti e i dispiaceri furono molti anche perché la politica cercava fortemente di introdursi e si crearono molte tensioni. La problematica delle Case Coloniche Fanfani le pensava distanziate fra loro e Leone raggruppate. Fu adottata la soluzione Fanfani, ma questo fu un errore: le case non vennero mai continuativamente abitate e soprattutto non vi si trasferirono le famiglie. Lasciata l’Opera di Valorizzazione della Sila fu chiamato alla Direzione del Nuovo grande Consorzio di Bonifica (ne unificava 4 precedenti ed in più l’Opera nazionale Combattenti) del Bacino Inferiore del Volturno. Qui resta, con alcune parentesi all’estero, fino al 1961. Alla Cassa per il Mezzogiorno Nell’autunno di quell’anno al Cairo incontra Gabriele Pescatore, Presidente della Cassa per il Mezzogiorno, che lo convince (a forzare fu anche l’insistenza della moglie Adriana), a prendere la Direzione del più importante Servizio della Cassa, quello delle Bonifiche, dal quale dipendevano ben sette uffici: Difesa idraulica; Irrigazione; Conservazione del Suolo e Forestazione; Piani e Programmi; Legge speciale Calabria, Miglioramenti fondiari, Amministrativi. Il lavoro qui svolto è documentato non tanto dalle relazioni annuali della Cassa, quanto dalle opere che fino al 1978 si crearono e che hanno sovvertito in positivo l’agricoltura e il paesaggio delle Regioni Meridionali. Nel 1967 fu incaricato del coordinamento dei progetti speciali (Depurazione del Golfo di Napoli; Sistema idrico Lucano-Pugliese, Area - 27 -
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industriale di Siracusa; Porto canale di Cagliari e altri ancora). Nel 1973 viene nominato anche Vice Direttore generale della Cassa. Gli ultimi anni trascorsi alla Cassa non furono felici soprattutto per colpa delle subentrate “inette e autoritarie” Amministrazioni regionali. Lasciata la Cassa e fino al 1987 fu consulente di 6 o 7 Ministri al Ministero per il Mezzogiorno. Dopo ha continuato ad occuparsi di bonifica e di acqua come consulente dell’Associazione Nazionale delle Bonifiche, ma anche raccogliendo e compilando monografie e libri. La bonifica idraulico-agraria, si può dire, l’aveva nel sangue. Ecco cosa scrive nelle memorie intorno alla malaria: “Mio padre originario delle colline daune del sud che si affacciano sulla valle dell’Otranto aveva un innato timore della malaria, che indeboliva le persone e nelle frequenti forme di “perniciosa” le portava spesso alla morte. Ricordo che in uno dei viaggi dalla Tripolitania a Napoli, avendo lasciato il piroscafo a Siracusa o a Messina e risalendo la linea ionica a causa dell’interruzione di quella tirrenica, in pieno mese di luglio, chiuse i finestrini dello scompartimento ferroviario durante la traversata della piana di Metaponto. Malgrado tutto, non so dove e non so come, io subii la malaria. Dai sette anni in poi fui infastidito e deperito da febbri irregolari che, perché tali, nascondevano la natura del male. Fu mia zia Maria, biologa, ma direttrice della clinica del marito a Tripoli, ad avere un sospetto: il vetrino rivelò il plasmodio e, per anni mi sottoposi e resistetti eccellentemente alla cura del chinino. Eppure nelle aride steppe della Tripolitania non c’era certo l’anofele, né tra la popolazione indigena vi erano malarici”.
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La figlia Laura ci ha fornito l’elenco ordinato delle pubblicazioni, che vanno dal 1962 al 2009. In totale sono 49, ma di tre non si hanno sufficienti riferimenti per poterli rintracciare. In realtà il numero dei lavori pubblicati è superiore, infatti in un libro scritto con Casarini se ne trovano 4: - L’assistenza tecnica in agricoltura e l’agronomo; - L’azione dei nuclei di assistenza nel Mezzogiorno; - Esperienze di assistenza tecnica e di iniziative associate nel settore zootecnico nel Mezzogiorno;
- Obiettivi dell’assistenza tecnica agricola nel Mezzogiorno. Le 46 pubblicazioni che abbiamo trovato e letto si possono suddividere per argomenti: n° 8 su Assistenza tecnica in agricoltura; n° 12 su Agricoltura nel Mezzogiorno; problematiche generali; n° 12 su Bonifica idraulico-agraria; n° 11 su Irrigazione; n° 5, in ricordo di Vincenzo Caglioti, Manlio Rossi-Doria, Giuseppe Medici (2), Francesco Curato. Non solo per ricordare il pensiero di Giulio Leone su questi argomenti, ma anche per recuperare informazioni utili ai fini storici io proporrei di ripubblicare, per ognuno dei 4 argomenti sui quali ha scritto, almeno un lavoro particolarmente significativo. Relativamente all’Assistenza tecnica, che anche Giulio come me preferirebbe chiamare Consulenza specialistica all’azienda agricola, alcuni concetti nelle agricolture sviluppate possono considerarsi superati, ma sicuramente sono da riprendere tali e quali nei Paesi con agricolture arretrate. Ecco perché uno dei suoi scritti – “Nutrire il mondo. Energia per la Vita” – lo riproporrei ben tradotto per l’Expò Milanese del 2015, destinandolo ai Paesi in via di sviluppo. Giulio era convinto della necessità della assistenza tecnica per accompagnare gli interventi di miglioramento fondiario intrapresi nel Mezzogiorno e per questo lamentava spesso la mancanza di veri specialisti anche se non disdegnava il lavoro dei “generalisti” che come Cassa per il Mezzogiorno aveva assegnato ai Consorzi di Bonifica. Il lavoro proposto per la ripubblicazione è del 1962: L’Assistenza tecnica in agricoltura e l’Agronomo, nel quale fa anche una storia dell’Assistenza tecnica in Italia partendo dalle Cattedre Ambulanti. Relativamente all’agricoltura del Mezzogiorno un bel lavoro mi pare quello pubblicato sulla Rivista di Economia Agraria nel 1978: Riflessioni sull’intervento straordinario in agricoltura nel Mezzogiorno, che andrebbe letto dopo un lavoro pubblicato nel 1965 dal titolo L’agricoltura nel Mezzogiorno oggi e domani. Di grande attualità è anche uno scritto del 1977: Sviluppo
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Le pubblicazioni
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dell’Agricoltura e industrializzazione: le compatibilità territoriali. Per quanto riguarda la Bonifica il lavoro che sicuramente è da ristampare è la relazione tenuta al XXVII Convegno Nazionale dell’Associazione Nazionale delle Bonifiche tenuto a Rovigo nel 1980 dal titolo La bonifica idraulica. Un altro lavoro di grande interesse dal punto di vista storico e di indirizzo, pubblicato sulla Rivista L’Acqua nel 2001, ha per titolo Bonifiche e irrigazione in Italia alla fine del XX secolo. Relativamente all’irrigazione, interessante dal punto di vista didattico, il lavoro pubblicato sull’Italia Agricola nel 1981 dal titolo Nascita dei comprensori irrigui, problemi di origine e di sviluppo. Sempre per l’irrigazione molto valido appare l’approccio dal punto di vista metodologico sulle stime delle risorse idriche impiegate e la determinazione dell’irrigazione in Italia, pubblicato nel 1997 sempre sulla Rivista L’Acqua. Infine voglio far menzione del ricordo di Giulio su Francesco Curato: “Lo conobbi nella Facoltà di Agraria di Portici nel 1932/33. Di lui sin d’allora può dirsi che era “figlio d’arte”. Il padre infatti, ingegnere, oltre a dedicarsi alla attenta cura della proprietà terriera familiare, aveva promosso e attuato la fusione di piccoli consorzi di difesa idraulica della Capitanata nel grande e articolato Consorzio Generale di Bonifica, il più esteso del nostro paese con oltre 400.000 ha e con sede a Foggia”. Riprendo il concetto di figlio d’arte o quello del DNA ritrovato in uno scritto su Leone di De Benedictis e lo applico a Giulio: suo nonno Emanuele De Cillis, uno dei padri nobili dell’Agronomia Italiana; suo zio Ugo, Direttore prima della Stazione sperimentale di Granicoltura per la Sicilia di Catania, poi dell’Istituto sperimentale per la cerealicoltura N. Strampelli, di Roma, trasformato infine, a seguito della Riforma, in Istituto sperimentale per la Cerealicoltura di Roma; suo padre Direttore della Stazione sperimentale agraria della Cirenaica e poi capo dell’Ispettorato Compartimentale per la Campania. Giulio Leone seguì i suoi avi e ne fu veramente degno.
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Giulio Leone: il Suo impegno per la FIDAF Silvano Marsella * Con la dipartita di Giulio Leone scompare, dopo Gian Giacomo Dell’Angelo, Francesco Curato e Vittorio Ciarrocca, l’ultimo di quelli che io, insieme a tutti i colleghi, abbiamo sempre considerato i Senatori della nostra Federazione. Sono tutti stati per tanti anni gli amici cui ci rivolgevamo quando, per qualsiasi evento, convegno, incontro, tavola rotonda, corso di aggiornamento, avevamo bisogno del contributo di colleghi che per competenza non disgiunta ad una certa autorevolezza potevano elevare il tono dell’evento intero. In particolare Giulio, e qui rivolgo un caro saluto a tutti i parenti oggi presenti, era un collega che per la sua lunga ed elevata attività professionale si identificava con la Federazione di cui sosteneva tutti i suoi fini istituzionali dando ad essa completa adesione. Quando da Napoli si trasferì a Roma volle rimanere iscritto all’Associazione di Napoli ma contemporaneamente si iscrisse a quella di Roma. Era orgoglioso di provenire da una famiglia di agronomi tra cui vantava il nonno meridionalista Prof. De Cillis ed il padre che per tanti anni rappresentò il Ministero dell’Agricoltura in Campania. Della sua poliedrica vita professionale, in cui ha raggiunto importantissime cariche quale Vice Direttore generale della Cassa per il Mezzogiorno, ci teneva in modo particolare a porre in evidenza la direzione della famosa Tenuta di Bronte in Sicilia e la direzione della Bonifica del Basso Volturno in Campania. Infatti poneva giustamente sempre in risalto che la nostra Laurea è stata concepita essenzialmente per formare dei bravi direttori o conduttori di aziende agricole. In Federazione è stato sempre vicino ai presidenti che via via si sono succeduti dopo la iniziale presidenza Medici-De Marzi, Giovanni Visco, Silvano Marsella che oggi vi parla, Gian Tommaso Scarascia Mugnozza e *Silvano Marsella, Presidente onorario della FIDAF.
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Silvano Marsella
l’attuale Luigi Rossi. Per ricordare meglio il contributo che Giulio ha sempre dato all’attività della Federazione sono andato a rivedermi la raccolta della rivista “Il dottore in Scienze agrarie e forestali”. Ho potuto quindi constatare che quasi in ogni numero mensile compare un articolo e un commento di Giulio Leone. Particolare risalto giustamente è dato alla sua relazione di base per il Convegno del ’68 a Napoli quando si affrontò il tema del futuro dell’agricoltura meridionale e per il quale lui pose in grande evidenza il notevole contributo che avrebbe potuto dare la figura del dottore in Scienze agrarie. Grande risalto dette, con un suo intervento nel Convegno di Perugia dedicato all’assistenza tecnica in agricoltura, alla figura dell’agronomo unico erede della grande esperienza fatta in Italia con le “Cattedre ambulanti”. Infine, a dimostrazione dell’immenso attaccamento che lui ha sempre avuto per la Federazione, posso testimoniare che negli ultimi tempi, quando cominciava a far fatica a camminare, continuava a non mancare agli inviti per incontri tra colleghi che Rossi ha continuato a inviargli. Caro Giulio con te perdiamo insieme ad un Collega di cui siamo stati sempre orgogliosi anche un carissimo amico e quindi ti abbracciamo tutti insieme ai tuoi familiari come se fossi ancora con noi.
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Giulio Leone: l’ultimo dei bonificatori Michele De Benedictis * “Non è […] senza un profondo significato generale se i momenti di crescita, di espansione, di potenza di popoli, Stati, Regioni all’interno della nostra penisola, abbiano coinciso con le fasi storiche di grandi opere di bonificamento del territorio, con la conquista all’agricoltura e agli insediamenti dei terreni paludosi, con il controllo tecnico sulla forza e il disordine delle acque. Così che ogni civiltà, ogni grande esperienza di vita statale e di organizzazione sociale, ha lasciato la sua impronta sul territorio, le tracce dei suoi sforzi, spesso giganteschi, di modificazione dei dati avversi entro cui si trovava ad operare”. Così esordivano Piero Bevilacqua e Manlio Rossi-Doria (1984, p.5) nel mirabile saggio introduttivo al volume antologico dedicato alla storia delle bonifiche in Italia dal XVIII al XX secolo. La principale conclusione di questo excursus, che sostanzialmente arriva alla fine del Novecento, è che – sul terreno dell’azione di bonifica – gli accadimenti succedutisi soprattutto a partire dagli anni ’50, abbiano segnato un determinante momento di svolta sotto molti riguardi. In primo luogo per aver dimostrato, come mai in precedenza, la elevata e durevole redditività degli investimenti pubblici e privati richiesti dall’azione di bonifica. In secondo luogo, per il notevole riequilibrio territoriale che in questo stesso periodo è stato realizzato. In terzo luogo, e con particolare accentuazione nei comprensori del Centro-Sud, la modifica profonda nel rapporto tra risanamento idraulico e irrigazione, tendenza che ha contribuito, in maniera determinante, al sostenuto innalzamento dei tassi di crescita della produzione agricola meridionale. Come ha giustamente osservato Lea D’Antone (1990), l’azione bonificatrice, se vista appunto in una prospettiva di lungo periodo e di continuità, va inquadrata in una ben precisa visione di “governo del territorio” da parte dello Stato. Più specificamente, “[…] l’importanza delle politiche territoriali nell’azione statale e, pertanto, di progetti tecnici in tali politiche, ha reso in Italia peculiare il rapporto tra una sezione rilevante della cultura, quella *Michele De Benedictis, Presidente Associazione Manlio Rossi-Doria.
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Michele De Benedictis
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Michele De Benedictis
tecnico-professionale, e la politica. [In questa chiave] è possibile osservare non solo l’aderenza dei progetti alle direttive fissate in sede politico-istituzionale, ma anche una notevole caratterizzazione dell’opera di progettazione, ossia la “personalità” del lavoro tecnico-scientifico, personalità sia individuale che del gruppo nel suo complesso. […] Ciò fa, tra l’altro, pensare ad una notevole capacità dello Stato di coinvolgere gli “esperti” nelle sue “politiche” (pp.127-128). La condivisibile affermazione di D’Antone sul connubio tra volontà politica e competenze professionali, richiama subito alla mente, per citare solo alcuni “esperti”, le figure di Francesco Curato, Eliseo Jandolo, Nello Mazzocchi Alemanni, Manlio Rossi-Doria. Ad essi, e alla loro opera, va certamente associato Giulio Leone, scomparso di recente all’età di 95 anni, che alla trasformazione dell’agricoltura meridionale e in particolare alla bonifica, ha dedicato, in una molteplicità di ruoli, la sua intera ed intensa attività professionale. Non è da escludere che, sin dagli esordi, essa sia stata influenzata, per così dire, da un significativo DNA-tecnico di origine familiare. Leone era infatti nipote, dal lato materno, di Emanuele De Cillis, figura di primissimo piano – come docente e come ricercatore – dell’agronomia meridionale nel periodo tra le due guerre. Dal canto suo, il padre, Giuseppe Leone, aveva operato lunghi anni in Cirenaica, nella direzione della stazione agraria sperimentale di Sidi Mesri. Per il giovane Giulio l’iscrizione, nel 1932, alla Facoltà di Agraria di Portici, dove appunto insegnava il nonno De Cillis, dovette pertanto apparire come una scelta naturale. Alla laurea, conseguita nel 1936, seguì l’immediata presa di servizio in Sicilia presso l’Ufficio Bonifica della Confederazione Fascista dei Lavoratori, con il compito di sovrintendere ai lavori di trasformazione del Demanio Civico di San Pietro di Caltagirone, sotto la supervisione di Nello Mazzocchi Alemanni, allora Direttore dell’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano. Sempre in Sicilia, particolarmente formativa sul piano dell’esperienza di campagna e di gestione dei non facili rapporti sociali ad essa associati, fu la direzione dell’azienda Ducea di Bronte, espropriata al proprietario inglese col sopraggiungere della guerra. L’azienda aveva un’estensione complessiva di oltre 5700 ettari e vi lavoravano oltre
cinquecento famiglie, con contratti di affitto e di metateria. La traccia profonda lasciata da questa esperienza nella personalità di Leone è testimoniata da quanto da lui stesso scritto nelle inedite memorie, destinate alle figlie, che contengono una quanto mai efficace descrizione di quella esperienza professionale, nonché della vita quotidiana nel Castello di Maniace, sede direzionale dell’azienda: “(…) Non ho costruito né casa né terra. Ho operato sì per mantenere me e la mia famiglia, ma sempre in vista di un fine, di un traguardo, di una realizzazione che accomunasse più uomini. Finché ho vissuto in campagna, ho trepidato e pregato per gli uomini che stavano al mio fianco: lavoratori e contadini, dei quali conoscevo intenti ed ansie. Quando si è allargato il ventaglio della mia azione ho pensato, con riferimento costante, a quelle comunità attraverso le quali ero passato ed ho confrontato, idealmente, le reazioni che in esse avrei provocato”. Nel 1943 lo sbarco degli alleati in Sicilia pose fine, non senza difficoltà di varia natura, anche materiali, a quella esperienza. Rientrato sul continente, Giulio Leone assume la direzione dell’azienda agraria di Licola dell’Opera Nazionale Combattenti. Risalgono a questo periodo i primi contatti con Manlio Rossi-Doria: Leone faceva infatti parte del gruppo di colleghi, amici e allievi che, intorno alla metà degli anni quaranta, prendeva parte ai seminari di fine settimana a Positano1. Sul piano strettamente professionale il rapporto con Rossi-Doria si intensificherà durante le varie fasi dell’intervento di Riforma fondiaria in Calabria, dalle rilevazioni preliminari fino alle assegnazioni dei terreni espropriati2. Nell’ambito, progettuale ed operativo, dell’intervento di bonifica, la sua ormai consolidata e generalmente riconosciuta professionalità fu profusa, a partire dal 1951, nel ruolo di Direttore del Consorzio di bonifica del Basso Volturno, per poi assumere – su invito di Gabriele Pescatore – la direzione del Servizio delle Bonifiche della Cassa per il Mezzogiorno nel 1962. Ed è qui opportuno ricordare che, come è noto, il quindicennio 1960-75
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1 Su questo e sulla successiva esperienza calabrese si veda la testimonianza di Giulio Leone al Convegno tenutosi nella ricorrenza del decennale della scomparsa di Manlio Rossi-Doria. 2 A questo lavoro, fortemente innovativo nell’ambito delle politiche fondiarie, partecipò anche un gruppo di allora giovani tecnici: Paolo Buri, Umberto Facca, Gualtiero Fiori, i cui legami di amicizia con Leone si protrarranno negli anni.
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si identifica con il sostenuto “balzo in avanti” dell’agricoltura irrigua meridionale, associato alla prima fase dell’intervento straordinario3. La sua partecipazione all’attività della Cassa si protrarrà fino al 1978, dopo aver ricoperto, nell’ultimo periodo, la carica di Vice Direttore Generale. E certamente alla sua riconosciuta competenza professionale si deve il coinvolgimento di Leone in molteplici missioni di indagine e di consulenza all’estero, prima in Belucistan4, poi in Egitto e Tunisia, per ricordarne le principali. Il pensionamento non significò certo l’interruzione dell’attività professionale: la sua preziosa consulenza all’Associazione Nazionale delle Bonifiche di fatto si materializzò in un impegno a tempo pieno, protrattosi fino a che le forze glielo consentirono. Lungo questi ultimi decenni parimenti intensa fu la partecipazione alla vita di istituzioni meridionalistiche: la Svimez e l’ANIMI, della quale, sotto la presidenza Rossi-Doria fu consigliere e Vice Presidente. A metà degli anni novanta, quando in un gruppo di amici si ventilava l’idea di dar vita ad un’associazione che ricordasse l’opera di Rossi-Doria, la sua adesione fu entusiastica e volle figurare tra coloro che ne sancirono la nascita in sede notarile. Giulio Leone è stato un uomo di grandi qualità, umane e professionali: con la sua scomparsa si chiude quella generazione di grandi “tecnici” alla cui competenza e impegno possiamo ascrivere l’ingresso dell’agricoltura meridionale nella modernità. 3 Per una sintetica ma efficace ricostruzione dell’intervento di bonifica da parte della Cassa, si veda il discorso pronunciato da Rossi-Doria in Senato il 7 luglio 1971 in occasione della discussione sul disegno di legge per il rinnovo della Cassa per il Mezzogiorno per il quinquennio 1971–75. Il testo è riportato in M. Rossi-Doria, Cinquant’anni di bonifica, a cura di Gian Giacomo Dell’Angelo. 4 Alla missione, condotta sotto l’egida dell’Italconsult, parteciparono, tra gli altri, Giuseppe De Rita, Rocco Mazzarone, Gilberto Marselli.
Riferimenti bibliografici Bevilacqua, P. e M. Rossi-Doria, Le bonifiche in Italia dal ‘700 a oggi, Editori Laterza, 1984. D’Antone, L. “Tecnici e progetti. Il governo del territorio”, Meridiana, n.10, 1990. Leone, G. “Testimonianza” in M. De Benedictis e F. De Filippis (a cura di ) Manlio Rossi-Doria e le trasformazioni del Mezzogiorno d’Italia, Piero Lacaita Editore, Mandria, 1999. Rossi-Doria, M. “La bonifica in vent’anni di Cassa per il Mezzogiorno (1971) in M. Rossi-Doria, Cinquant’anni di bonifica, a cura di Gian Giacomo Dell’Angelo, Laterza, 1989.
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In memoria di Giulio Leone. Ricordi dal Programma di Sperimentazione Irrigua della Cassa per il Mezzogiorno Franco Ravelli * Gli interventi in commemorazione di Giulio Leone che ho appena ascoltato ed altri che avevo già avuto occasione di leggere sulla stampa e in internet, così ricchi di ricordi e di parole di incondizionato apprezzamento per una persona di grandi qualità umane e professionali, mi avvertono del serio rischio di ripetere quanto detto da chi mi ha preceduto. Considerati anche i pochi minuti a disposizione, ritengo possa comunque risultare di un certo interesse il racconto di due incontri con Lui, dai quali uscii con il convincimento, confermato nel successivo lungo rapporto di lavoro, che si trattasse di una personalità più attratta dalle certezze del fare, piuttosto che dai rischi del teorizzare. Il primo incontro, del tutto casuale, risale a qualche tempo prima dell’arrivo di Leone alla Cassa del Mezzogiorno dove, da alcuni anni, mi occupavo, presso il Servizio Bonifiche, della istruttoria agronomica dei progetti di impianti pubblici di distribuzione irrigua. Era il 1961, mezzo secolo fa, ma il ricordo è tuttora vivo: percorrevo uno dei lunghi, monumentali corridoi della sede della Cassa all’EUR in Roma quando, attraverso la porta spalancata dell’ufficio di Innocenzo Fiore, intravidi la figura di Tommaso Del Pelo Pardi, figlio di Giulio, inventore dell’omonimo metodo di sistemazione idraulica del terreno. Avevo conosciuto Tommaso ad un corso sulla tecnica della bonifica da lui tenuto presso la allora Stazione Sperimentale di Chimica Agraria di Roma dove, appena laureato, stavo facendo praticantato di laboratorio con Luigi Marimpietri ed Enrico Romano. Entrai così nella stanza per uno scambio di saluti. Il fatto era che il rapporto tra me e Tommaso Del Pelo Pardi si era raffreddato dopo che, una volta entrato a far parte del nucleo di agronomi costituenti il gruppo di studio di Archeologia Agraria fondato dal padre Giulio, avevo espresso seri dubbi sulla interpretazione, da questi e dalla archeologia ufficiale sostenuta, dei cunicoli laziali come grande opera di bonifica idraulico-agraria realizzata dagli etruschi e non, come da me ritenuto, di una più *Franco Ravelli, collaboratore di Giulio Leone alla Cassa per il Mezzogiorno.
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semplice opera di captazione sorgentizia ai fini potabili, come era ed è ancora oggi il caso di analoghe opere scavate nei territori di medio-bassa latitudine di tutto il mondo caratterizzati da condizioni geo-idrologiche in qualche modo paragonabili a quelle dell’Etruria. Non ci volle molto perché tra me e Tommaso Del Pelo Pardi, sotto il malizioso incitamento di Fiore, si riaccendesse la polemica sulla funzione dei cunicoli. La discussione aveva assunto toni piuttosto vivaci quando entrò nell’ufficio Giulio Leone, che non conoscevo personalmente, il quale aveva evidentemente appuntamento con Fiore e Del Pelo Pardi. Leone mi guardò come per chiedere una presentazione cui provvide Fiore: “Ravelli; si occupa da noi della istruttoria agronomica dei progetti di irrigazione consortile; … non crede che i cunicoli etruschi siano una antica opera di bonifica”. Del Pelo Pardi, abile affabulatore, aveva ripreso la sua arringa, con Leone defilato sul bordo della stanza, taciturno ma attento, così almeno mi sembrò, pronto ad intervenire. Il che, di fatto avvenne nel giro di pochi istanti: “Quando vi sarete messi d’accordo sui vostri cunicoli venite da me. Vi aspetto da …”. Ed uscì, serio, senza aggiungere altro. Forse mi sarei presto dimenticato dell’accaduto se, dopo pochi mesi, non si fosse verificato quanto borbottato da Fiore all’uscita di Leone dall’ufficio: “Ragazzi, facciamo attenzione che circola la voce di un suo prossimo arrivo qui alla Cassa …”. Di fatto il suo arrivo avvenne nel 1962 come Capo del Servizio Bonifiche, ma l’impressione avuta in questo casuale primo incontro fu quella di un uomo piuttosto schivo e di poche parole; impressione poi consolidatasi nei frequenti incontri di lavoro succedutisi negli anni successivi, anche dopo la sua nomina a Vice Direttore Generale. Un altro incontro che ricordo con particolare dovizia di particolari avvenne nel 1965. Al compito già assegnatomi della istruttoria agronomica dei progetti di irrigazione consortile, si erano nel tempo aggiunte alcune saltuarie collaborazioni con Benigno Fagotti responsabile del Programma di Sperimentazione Irrigua avviato, sin dai primi anni di attività della Cassa, in una rete di Campi Sperimentali appositamente attrezzati, nonché le lezioni ai corsi di aggiornamento sulla tecnica della irrigazione tenute ai giovani della Assistenza Tecnica il cui Ufficio era diretto da Giuliano Cesarini. Fagotti proveniva dall’Opera Nazionale Combattenti e la sua esperienza era quella
aziendale dei colonizzatori dell’Agro Pontino, cosicché i Campi Cassa erano di fatto partiti con una impostazione ed una finalità miste tra lo sperimentale ed il dimostrativo. Ebbene; mi telefona una mattina Leone in persona, convocandomi per il pomeriggio per parlarmi dei soliti problemi vari d’ufficio, ma in particolare per avere alcuni chiarimenti sulle voci contrastanti giunte da più parti al suo orecchio riguardo la coerenza tra: 1) il contenuto delle lezioni che tenevo ai giovani della Assistenza Tecnica di Cesarini e al corso di Agrometeorologia attivato dalla Facoltà di Agraria della Università di Portici, ambiente quest’ultimo ben conosciuto da Leone; 2) la impostazione delle prove condotte nei Campi Sperimentali di Fagotti e 3) i criteri seguiti nella istruttoria agronomica dei progetti di irrigazione (va ricordato che l’operato della Cassa in materia irrigua, si allargava ben oltre le reti di distribuzione irrigua di competenza pubblica, finanziando “a monte” un programma di dighe e traverse di derivazione fluviale, nonché, “a valle”, l’impiantistica aziendale come opera di miglioramento fondiario). Avevo poche ore a disposizione per prepararmi ad illustrare in pochi minuti l’approccio concettuale seguito nelle mie lezioni, nella istruttoria dei progetti ed in quale modo e misura il tutto concordasse o meno con i risultati della sperimentazione condotta nei Campi Sperimentali di Fagotti. Bella impresa, se si pensa che l’interlocutore al quale mi rivolgevo, pur navigato esperto di bonifica e trasformazioni irrigue, non era certo addentro agli aspetti più sottilmente scientifici dei rapporti che legano la disponibilità di acqua all’accrescimento dei vegetali ed alla loro produzione, oggetto principale della ricerca irrigua e base essenziale per fondate scelte di ordine economico. Cominciai così a chiarire, diciamo propedeuticamente, gli aspetti positivi e i limiti dei tre classici approcci pedologico, fisiologico e meteorologico adottati in campo internazionale nella ricerca del rapporto esistente tra dotazione irrigua e produzione vegetale e del perché in Italia (in particolare, dalla Cassa, ma anche dagli Istituti universitari, del Ministero dell’Agricoltura e del Consiglio Nazionale delle Ricerche, nonché da alcuni più solerti Enti e Consorzi irrigui) si fosse preferito un approccio agronomico che, con la sua empirica semplificazione, potesse fornire in tempi più ristretti possibile i dati essenziali alla definizione dei costituendi comprensori irrigui e delle più
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convenienti modalità di gestione delle acque che si andavano rapidamente rendendo disponibili non solo nel Mezzogiorno. L’approccio agronomico adottato (che oggi forse, con il senno del poi, sarebbe più prudente definire più semplicemente agricolo) consisteva sostanzialmente nell’accertare la resa produttiva delle colture al variare del volume stagionale di irrigazione, mantenendo fisse (ma con eccezioni ove necessario, come turni, adacquamenti, concimazioni, ecc.) tutte le altre variabili indipendenti in un insieme caratteristico delle buone norme colturali delle aziende di consolidata tradizione irrigua e di elevata produttività colturale come le agrumicole siciliane, le viticole pugliesi, le orticole campane, le foraggicole padane, ecc. Un approccio dunque, quello agronomico, che, se da un lato poteva considerarsi temporaneamente sufficiente a definire sollecitamente il regime irriguo da adottare in sede progettuale, non poteva però valere come base scientifica per una ricerca di più ampio respiro e per la impostazione delle lezioni che tenevo ai corsi di aggiornamento dei giovani laureati della Assistenza Tecnica e al corso universitario di Agrometeorologia. Leone, personalità istintivamente portata, come già detto, verso il rapido concretizzare, aveva cominciato a dare larvatamente segno di impazienza alzando la mano destra aperta come in segno di difesa: “Va bene, va bene … ma allora?”. Colsi così al volo l’occasione per proporre l’idea, da tempo coltivata, della costituzione di una rete di Centri di Rilevamento Agrometeorologico5 come supporto didattico dei corsi di aggiornamento, da attivarsi nell’ambito dei più vasti comprensori irrigui, eventualmente anche nel perimetro degli stessi Campi Sperimentali presenti in territori oramai resi irrigui dall’avanzato intervento della Cassa. In tali Centri si sarebbe dovuto adottare lo stesso approccio agronomico dei Campi, ma con una maggiore attenzione agli aspetti agrometeorologici che si andavano sempre più affermando in campo internazionale come applicazione irrigua delle nuove conoscenze in fatto di meccanica evapotraspirativa. In pratica, si sarebbe dovuto procedere alla redazione continua dei bilanci idrico ed energetico di un ristretto numero di colture in parcelle di dimensioni tali da controllare il più possibile gli effetti sperimentalmente negativi degli instabili trasporti termici 5 Nome che poi – non ricordo bene perché – cambiai in Centri di Rilevamento Pedoirriguo, ma forse per un freudiano ricordo del mio giovanile periodo di apprendistato presso la Stazione Sperimentale di Chimica Agraria di Roma; istituto allora particolarmente impegnato in studi riguardanti i rapporti tra il terreno e le colture.
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di origine macro e micro-avvettiva. Aspetto questo che influiva negativamente sulla significatività delle prove, specie quando queste erano condotte in territori anche solo stagionalmente aridi non ancora estesamente irrigati e negli affollati piccoli parcellamenti randomizzati richiesti dal dilagare, in quei giorni, della metodologia statistica nella sperimentazione irrigua. A Leone, alquanto preoccupato della complessità del quadro, prospettai anche la opportunità di coinvolgere nella attività dei Campi e dei Centri un Gruppo di Consulenza da costituirsi con i Direttori degli Istituti Universitari di Agronomia e di Ingegneria6 impegnati in materia di irrigazione, tra i quali, alcuni più amici che colleghi d’Università che non sono più tra noi: Ballatore, Barbieri, Celestre, Romano, il cui caro ricordo mi accompagna nel tempo che passa. Il risultato fu il via immediato alla costituzione del Gruppo di Consulenti e della rete dei Centri alla direzione dei quali mi venne aggiunta, sul finire degli anni ’70, la direzione dei Campi di Fagotti con un programma di completamento a chiusura delle prove sino allora condotte dall’anziano collega oramai pensionato; prove nel frattempo tematicamente estese a numerose altre variabili anche di interesse non direttamente idrologico (specie e varietà, densità di investimento, concimazione, ecc.), ma di particolare valore colturale per le centinaia di migliaia di ettari oramai resi irrigui dall’intervento della Cassa. Sui risultati delle ricerche venne riferito con numerose pubblicazioni apparse sulle riviste specializzate e negli atti dei molti congressi sulla irrigazione e sulla relativa sperimentazione ed alla stesura di alcune delle quali lo stesso Leone aveva contribuito come coautore7 . Questo è quanto mi son sentito di rammentare nel grato ricordo di una persona, Giulio Leone, che ha così proficuamente segnato tante vicende della mia oramai lontana avventura professionale. 6 Componenti del Gruppo di Consulenza: Giulio P. Ballatore di Palermo, R. Barbieri di Napoli, P. Celestre di Pisa, L. Cavazza di Bari, E. Romano di Roma, Giulio Tournon di Torino e, per un periodo iniziale, A. Crocioni di Torino e A. Milella di Sassari. 7 Due esempi del personale coinvolgimento di Giulio Leone nella stesura e nella presentazione di risultati delle indagini condotte nell'attività di ricerca della Cassa per il Mezzogiorno: – Leone, G., F. Ravelli, A. Sbraccia: “Protection of the environment in the development of irrigation, drainage and flood. Defences schemes”, in Water and its conservation in agricultural areas. International Commission on Irrigation and Drainage (ICID), Special Session, Moscow, 1975.
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Franco Ravelli
– Ravelli, F., T. Napoli, F. Floris: Relazione della Commissione incaricata della revisione dei parametri irrigui previsti per il Comprensorio in Sinistra Ofanto (Foggia) (28 giugno 1966). Prefazione di Giulio Leone; Quaderno n. 45, Cassa per il Mezzogiorno, 1968. La relazione conteneva la prima utilizzazione delle ricerche condotte dai Centri di Rilevamento Pedoirriguo da poco attivati.
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Giulio Leone: esempio di etica e onestà Nicola Santoro * Da “esterno”, esprimo convinto apprezzamento per le iniziative della Federazione finalizzate a onorare la memoria dei Colleghi che costituiscono motivo di vanto e di orgoglio per la Categoria. La commemorazione di Giulio Leone mi offre l’occasione per ricordare gli esempi, gli insegnamenti, i contributi di tecnica e di cultura della bonifica da Lui offerti. Io ho avuto il piacere di conoscerLo nei lontani anni ’60, a Foggia, quando lavoravo presso la locale Unione Agricoltori, presieduta da un imprenditore assai stimato – il Dott. Francesco Petrilli – il quale era anche Amministratore del Consorzio di Bonifica della Capitanata. I miei rapporti con il Dott. Leone si intensificarono quando il Dott. Petrilli fu eletto Presidente del Consorzio e io – divenuto frattanto Direttore dell’Unione – venni chiamato a presiedere il Collegio Sindacale. Ritengo opportuno precisare che il Consorzio di Bonifica della Capitanata – frutto della fusione dei preesistenti 12 Consorzi – era ed è il più esteso d’Italia, coprendo un’area di oltre 440.000 ettari. E ritengo di aggiungere che se in Capitanata venne realizzata, nel dopoguerra, una seconda epocale trasformazione, il merito va attribuito soprattutto agli Amministratori del Consorzio, i quali seppero procurarsi il solidale sostegno di tutte le Organizzazioni Professionali e giovarsi degli eccezionali contributi progettuali e di idee che offrivano tecnici del valore di Giulio Leone. Il Tavoliere pugliese era stato trasformato in un unico campo di grano duro dalla “rivoluzione colturale” favorita da Giuseppe Bonaparte, che aveva smantellato, di fatto, il secolare abbinamento dei pascoli estivi abruzzesi (oggi molisani) con quelli invernali, che connotavano i due terzi della estesa pianura foggiana. Chi non ricorda i tratturi celebrati da D’Annunzio, autentiche autostrade verdi, che favorivano la lenta, dura transumanza di centinaia di migliaia di ovini? *Nicola Santoro, già Dirigente Confagricoltura.
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Nicola Santoro
Nell’ultimo dopoguerra, in Capitanata, si ebbe una seconda, più incisiva rivoluzione nel settore primario – e, ovviamente, in quelli a esso connessi – per la diffusa, rapida meccanizzazione; la incisiva Riforma agraria; la bonifica di vaste aree paludose; la costruzione della diga sul Fortore, che è la più grande, in Italia, in terra battuta; il trasferimento dell’acqua così invasata in area collinare fino alla lontana pianura; la costruzione di centinaia di chilometri di canali, nonché della relativa ramificata rete di distribuzione controllata; una diffusa, indispensabile realizzazione di strade rurali. Queste opere di eccezionale rilevanza hanno fatto sì che il Tavoliere – pur rimanendo un’area assai vocata per la coltivazione del grano duro – offra ora opportunità non ordinarie per tutte le colture irrigue e per la frutticoltura; opportunità che potrebbero essere meglio sfruttate dagli imprenditori locali, se essi non scontassero la carenza di efficaci filiere di raccordo con i trasformatori e i distributori dei loro prodotti. Il miracolo della rivoluzione agricola della Capitanata si deve anche a personalità quale Giulio Leone, le quali vollero e seppero assistere gli avveduti Amministratori del Consorzio di Bonifica che si cimentavano nella difficile sfida della realizzazione di opere straordinarie, indispensabili per cogliere i frutti dei radicali, indifferibili processi di trasformazione delle attività agricole tutte. Giulio Leone va ricordato per ciò che ha fatto e per i Suoi sempre apprezzati suggerimenti e consigli. Egli ha contribuito come pochi a far lievitare in me il convincimento che non si può stare fermi e vivere di rendita, gestendo il presente; ma che bisogna immaginare, programmare, costruire il futuro. Mi ha insegnato, soprattutto, che ogni iniziativa, anche nel campo professionale, deve essere sorretta da etica e onestà.
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Giulio Leone: un maestro di vita Francesco Menafra * Giulio Leone l’ho incontrato, la prima volta, a Roma nel gennaio del 1974, nel Palazzo dell’INPS dell’EUR, sede storica della “Cassa per il Mezzogiorno” fin dagli anni ’50, nella veste di Presidente della Commissione esaminatrice istituita dalla “Cassa” per l’assegnazione di 10 borse di studio a giovani agronomi. La “Cassa per il Mezzogiorno” aveva messo a punto nuovi strumenti operativi, i cosiddetti “Progetti Speciali”, con i quali si doveva dare nuovo impulso all’economia delle aree del Mezzogiorno, anche con l’introduzione di tecniche innovative che dovevano stimolare la produttività e la crescita complessiva di vasti territori del Sud oramai dotati delle infrastrutture primarie realizzate con l’intervento straordinario. Con la creazione delle Regioni ed il trasferimento delle competenze a questi nuovi Organismi si ponevano le condizioni per raggiungere obiettivi di forte espansione in tempi limitati. Questa nuova mission era stata programmata anche con la selezione di nuove risorse umane di giovani laureati o diplomati (agronomi, ingegneri, avvocati, geometri, ragionieri, periti tecnici, etc.), che avevano conseguito il titolo di studio richiesto con il massimo dei voti e maturato un’esperienza professionale ovvero universitaria almeno biennale. Tali requisiti, uniti ad un tirocinio di sei - dodici mesi presso le strutture operative dell’Ente ed una successiva verifica concorsuale, consentivano una rapida integrazione dei giovani professionisti nelle strutture tecnico-amministrative esistenti ed un avvio immediato dei nuovi obiettivi istituzionali. In quel periodo i contatti con il Dott. Leone furono solo indiretti attraverso le numerose riunioni ed incontri che il Dirigente della Divisione Prof. Carlo Aiello, a cui era stato affidato il ruolo di coordinatore del “Progetto Speciale Zootecnia”, ci illustrava negli incontri periodici di rodaggio dei nuovi strumenti di programmazione. L’attività operativa del “Progetto Speciale” era articolata su base regionale ed ogni sezione era affidata a valenti colleghi agronomi, ma l’impronta del Dirigente della Divisione e di Giulio Leone era palpabile in ogni atto di *Francesco Menafra, Presidente dell’ARDAF, Associazione Romana Dottori in Agraria e Forestali.
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Francesco Menafra
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Francesco Menafra
particolare rilevanza. Dopo solo quattro anni, però, il Dott. Leone lasciò la “Cassa per il Mezzogiorno” per altri importanti incarichi, che il Prof. Aiello, in particolare, e tutti gli altri relatori, hanno già illustrato compiutamente, nei precedenti interventi. Negli anni successivi ho avuto modo di incontrare Giulio Leone in numerose manifestazioni e di ascoltarlo in tanti convegni, ma qui voglio ricordare in particolare la costante presenza di Giulio nella vita associativa, negli anni più recenti, in cui ho svolto anche un ruolo più diretto nel promuovere le attività dell’Associazione. I suoi contributi di idee e di proposte, sempre coerenti con la profonda conoscenza delle problematiche del Mezzogiorno, la sua perseverante attenzione allo sviluppo del territorio, hanno rappresentato una guida irrinunciabile a capire quanto avveniva intorno a noi. Tutti sappiamo della sua grande esperienza, professionalità e direi “passione” per la valorizzazione dell’acqua, come risorsa principe di uno Stato, sia in agricoltura che negli altri usi di rilevanza economica. L’Avvocato Martuccelli ci ha illustrato, in maniera mirabile, il ruolo di Giulio Leone nella gestione delle acque irrigue e della proficua collaborazione con l’ANBI. Debbo ricordare che tale “passione” lo ha accompagnato sempre, tant’è che anche fuori dei suoi impegni professionali, nell’ambito delle attività promosse dalla FIDAF in collaborazione con l’Associazione Romana, si fece promotore ed animatore di un gruppo di lavoro (costituito da: Carlo Aiello, Enrico Calamita, Claudio Cesaretti, Giovanni Guerrieri, Roberto Jodice, Giulio Leone, Antonio Picchi, Luigi Rossi) sulla “risorsa acqua” che concluse le proprie attività di studio con un pregevole volumetto, pubblicato nel 2007, su L’uso dell’acqua in agricoltura in cui è stato analizzato lo stato delle irrigazioni in Italia, le possibili razionalizzazioni e le prospettive di natura economica e di sviluppo territoriale. Corre l’obbligo anche di evidenziare la pregevole prefazione al volumetto curata da Luigi Rossi e Massimo Iannetta sulle interazioni tra clima ed ambiente che continua ad essere un’interessante sintesi su un argomento così attuale e complesso. L’ultimo ricordo che mi affiora alla memoria è la tenacia ed il forte
impegno promanato, anche a fronte delle piccole difficoltà economiche dell’Associazione, a voler la pubblicazione degli atti, raccolti nel volumetto dal titolo “Agronomi protagonisti”, della “Giornata di commemorazione” del 6 maggio 2009, a ricordo di Francesco Curato e di tanti altri Agronomi che hanno dato nel tempo la loro efficace e fattiva collaborazione alla FIDAF ed all’ARDAF. Anche questo piccolo contributo ha rappresentato un momento di riflessione sull’agricoltura italiana negli ultimi cinquanta anni attraverso l’impegno ed il contributo professionale di tante “straordinarie figure” che si sono particolarmente distinte nei vari settori di attività. Le nostre radici, come mi piace ripetere, sono i tanti “Agronomi protagonisti” , le tante e diverse figure professionali, le loro vite, le loro esperienze che arricchiscono ogni giorno, anche la vita associativa con il loro vissuto quotidiano. Giulio certamente era tra questi, il suo rigore morale che si sposava con la sua grande intelligenza ci aiutava con la sua presenza e con il suo contributo a crescere ed a poter scegliere la soluzione migliore tra tanti possibili percorsi formativi e rappresentava uno stimolo continuo a fare sempre meglio. Concludo questo breve saluto con un “GRAZIE Giulio” perché è il ringraziamento che dobbiamo a tutti i colleghi che hanno dato così tanto, oltre che all’attività professionale e alla famiglia, anche all’attività dell’Associazione Romana Dottori in Scienze Agrarie e Forestali.
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Giulio Leone: un amico dell’agricoltura campana Giuseppe Murolo * Lo conobbi allorquando, studente a Portici, sostenni con il padre l’esame di agricoltura tropicale; lo rividi poco dopo mentre appena laureato, seguivo una lezione del famoso geologo De Lorenzo in un corso organizzato dalla Cassa per il Mezzogiorno. In tale occasione ci fu uno scambio di pareri su talune situazioni dell’agricoltura salernitana. Diventammo amici a seguito della frequenza sia della nostra Federazione, ai tempi di Giovanni Visco, sia alle riunioni della Società Economica della Provincia di Salerno, di cui eravamo entrambi soci. Amalgamante dei nostri successivi rapporti fu il Prof. Luigi Postiglione che, in occasione del buon esito del concorso alla cattedra di Agronomia di Portici, invitò gli amici più vicini ad una cena in un rinomato ristorante napoletano. Parlavamo dei problemi delle bonifiche salernitane negli incontri della “Vecchia Portici”, ai quali Giulio teneva moltissimo e che insisteva ad organizzare con le sue signorili capacità, facendo rivivere, a soggetti di diverse età, gli aspetti connessi di una indimenticabile giovinezza. Seguiva con attenzione i problemi salernitani attraverso “Il Picentino”, periodico della citata Società Economica. Allorché pubblicai una nota su Eliseo Iandolo mi telefonò con grande entusiasmo, per la commemorazione di colui che era stato un suo indimenticabile Maestro. Nei Convegni sia della Federazione che dell’Ordine nazionale, ed in particolare in quelli svoltisi a Firenze, Bologna ed a Viterbo, si univa al gruppo degli agronomi salernitani – Giuseppe Leone, L. Postiglione, N. Lettieri, A. Guariglia, A. Clarizia, M. Mellone e lo scrivente – parlando dei suoi interventi di bonificatore, soprattutto nelle zone a sud di Salerno. In tantissime occasioni la sua grande esperienza gli consentiva di individuare le più logiche soluzioni pratiche, senza ricorrere a sfoggi di cultura, di cui era provvedutissimo, legando sempre i fatti agli uomini che li avevano determinati. * Giuseppe Murolo, Presidente di Europea Italia.
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Giuseppe Murolo
Ed è stato tale ultimo aspetto a rendere feconda ed intensa la nostra amicizia, cementata dalle frequenti discussioni sull’opera di grandi maestri che avevano onorato la Facoltà di Portici ed, in parte, la Scuola enologica di Avellino: i Bordiga, i Silvestri, i Trotter, i Peglion, i Briganti, i De Dominicis, Emanuele de Cillis, di cui era nipote. Era convinto, dopo tantissime esperienze di agronomo e di bonificatore, che tutti gli insegnamenti, e soprattutto quelli accademici dovessero, per il nostro particolare settore, riferirsi costantemente a problemi concreti. Anche le discipline scientifiche di base dovevano far riferimento alle dirette applicazioni, altrimenti quel rilevante numero di esami, 30-32 in quattro anni, veniva ad assomigliare ad una selva intricata di conoscenze difficilmente districabili da parte dei giovani agronomi. La formazione di questi ultimi rappresentava il suo leit-motiv. E ciò lo rese simpatico a tutte le generazioni che lo conobbero.
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Giulio Leone, ineguagliabile per professionalità ed umanità Massimo Iannetta * Il ricordo più vivo e caro che mi lega a Giulio Leone si riferisce al prezioso contributo fornito nell’ambito del progetto RIADE, in qualità di referente del Comitato Tecnico-Scientifico. Nei quattro anni di progetto mi ha supportato, come era sua abitudine, con grande discrezione e contestuale autorevolezza, indirizzando sapientemente le linee di ricerca, al fine di raggiungere in modo coerente gli obiettivi previsti. Ha sempre preso parte alle riunioni con grande spirito collaborativo, dando ascolto a tutti per poi elaborare sintesi di unica chiarezza. I risultati conseguiti nel corso del progetto devono buona parte della loro originalità alla sua ineguagliabile professionalità ed umanità. Desidero riportare uno dei verbali del Comitato Scientifico del Progetto RIADE, in cui appare un intervento significativo di Giulio Leone. Verbale del Comitato Scientifico Progetto RIADE “Lunedì 19 dicembre 2005 alle ore 10,00 presso la sede ENEA di Via Lungotevere Grande Ammiraglio Thaon di Revel n. 76 - 00196 Roma, si è tenuta la 3^ riunione del Comitato Scientifico del progetto RIADE. Gli argomenti all’ordine del giorno sono stati i seguenti: - illustrazione delle attività svolte nel corso del 3° anno di progetto; - descrizione delle attività previste per il 4° anno di progetto; - sviluppi della formazione. Ha introdotto i lavori il responsabile del progetto Dott. Massimo Iannetta di ENEA BIOTEC, che ha sottolineato gli importanti progressi realizzati nel corso del 2005, con la chiusura di tutte le attività di rilevamento e monitoraggio effettuate nelle diverse aree di studio delle Regioni Basilicata, Puglia, Sardegna e Sicilia. Si sono succeduti gli interventi dei responsabili dei diversi pacchetti di lavoro, molto apprezzati dai membri del Comitato Scientifico, che hanno sottolineato l’eccellenza dei risultati conseguiti e la necessità di una immediata diffusione presso la comunità scientifica. Tra gli interventi da sottolineare si riporta in particolare quello del Dott. Giulio Leone, sintetizzato nella seguente nota. *Massimo Iannetta, Direttore UTAGRI Centro Ricerche Casaccia, ENEA.
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Massimo Iannetta
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Massimo Iannetta
“Il crescente squilibrio tra fabbisogni e disponibilità di acqua dolce richiede una pianificazione integrata delle risorse idriche a livello di bacino idrografico. Il governo e la gestione delle risorse idriche devono perseguire l’unitario obiettivo della garanzia di idoneo contemperamento degli interessi economici e sociali all’utilizzazione delle acque con l’interesse pubblico generale della salvaguardia delle stesse. Secondo il principio fondamentale, legislativamente sancito dalla legge 36/94, gli usi delle acque non possono prescindere dal tener conto dell’esigenza del risparmio e del rinnovo delle risorse per non pregiudicare il patrimonio idrico, la vivibilità dell’ambiente, l’agricoltura, la fauna e la flora acquatiche, i processi geomorfologici e gli equilibri idrogeologici. Conseguentemente, il fine di non pregiudicare l’agricoltura viene considerato alla pari delle altre finalità pubbliche di interesse generale da tutelare. Gli Organi di governo delle acque, ed in particolare le Autorità di bacino, secondo le norme sancite dalla legge 36/94, nel definire e aggiornare periodicamente il bilancio idrico, diretto ad assicurare l’equilibrio tra le disponibilità di risorse e i fabbisogni per i diversi usi, devono tener conto anche dell’esigenza di non pregiudicare l’agricoltura. Per quanto riguarda gli usi delle acque, la legge 36/94 garantisce, dopo il consumo umano, priorità all’uso agricolo. La stessa legge 36/94 sancisce il principio che l’uso dell’acqua sia attuato “secondo criteri di solidarietà ed indirizzato al risparmio” e che la gestione sia “efficiente, efficace ed economica”. L’uso e la gestione delle acque per l’irrigazione devono essere realizzati nel rispetto di tali principi che rendono prioritario il sistema di irrigazione collettiva in ambiti comprensoriali unitariamente gestiti e, quindi, attraverso i Consorzi di bonifica e di irrigazione cui per legge è affidata la gestione dei sistemi irrigui collettivi. Emerge di conseguenza l’esigenza che anche le risorse idriche aziendali siano gestite ove possibile in coordinamento con la gestione del sistema irriguo collettivo. Si ritiene pertanto che, attraverso il progetto RIADE, si possa svolgere un’azione di sensibilizzazione per: - facilitare ed incentivare i sistemi irrigui collettivi attraverso il riordino dei comprensori ed il riordino delle utenze irrigue; - migliorare l’efficienza dei sistemi irrigui collettivi attraverso azioni di ammodernamento e adeguamento degli impianti e delle reti irrigue, volti a contenere le inevitabili perdite del sistema e a rendere meno
onerosa la manutenzione; - completare gli schemi idrici collettivi assicurando in alcune realtà meridionali il trasferimento delle acque dalle regioni più ricche a quelle più povere di risorse idriche; - facilitare gli usi plurimi delle acque irrigue così come legislativamente previsto nonché il riuso delle acque reflue depurate; - assicurare la piena efficienza degli invasi con il conseguente recupero del volume dei serbatoi esistenti; - nelle regioni meridionali ed insulari, previe puntuali analisi socioeconomiche ed ambientali condotte con grande impegno tecnico e scientifico, valutare la possibilità di realizzare alcuni nuovi e previsti invasi e ciò allo scopo di raccogliere tutte le acque dolci disponibili ed utilizzabili”. Ha concluso i lavori il Dott. Francesco Mauro, referente scientifico per il MIUR del progetto RIADE che, nel manifestare tutto il suo vivo apprezzamento per il modo in cui sta andando avanti l’attività, si è soffermato sulla necessità di dare continuità al lavoro svolto, attraverso una adeguata promozione presso i Ministeri competenti”.
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Giulio Leone: vanto dell’Ordine di Roma Edoardo Corbucci * Ringrazio, innanzitutto, per il gratificante invito ad intervenire alla commemorazione del compianto Collega Dott. Giulio Leone, e nel porgere i miei saluti ai presenti, mi sento di sottolineare il privilegio che ho nel presiedere l’Ordine dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali di Roma, che ha visto nel tempo fra gli iscritti una serie di Colleghi che hanno fatto, nel vero senso della parola, la storia recente dell’agricoltura italiana. Certamente il Dott. Leone, che non ho avuto l’onore di conoscere ma di cui oggi ho potuto apprendere i numerosi successi professionali e gli importanti incarichi assolti, è da annoverare fra questi; uomini e tecnici che hanno contribuito con la loro opera professionale a far progredire il nostro territorio rurale grazie al bagaglio di conoscenze, competenze ed esperienze, unito ad una forte dose di entusiasmo ed impegno. Il valore e l’impegno del Collega Dott. Leone poi, ritengo che sia individuabile anche attraverso i documenti che lo riguardano e che il nostro Ordine conserva; non ultimo il suo Certificato di Laurea e quello di Abilitazione che mostrano come a soli 21 anni, nel 1936, abbia ottenuto a pieni voti e con lode, il titolo di Dottore in Sc. Agrarie ed immediatamente dopo, l’abilitazione all’esercizio della professione. A questi colleghi, e quindi anche al Dott. Leone, dobbiamo guardare con stima e gratitudine, perché con la loro azione volta a stimolare il progresso tecnico nel settore agricolo, hanno contribuito a stimolarne anche quello produttivo e, ancora più, quello sociale.
*Edoardo Corbucci, Presidente Ordine dei Dottori Agronomi e Dottori Forestali della Provincia di Roma.
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Giulio Leone e la modernizzazione non governata Alfonso Pascale * Giulio Leone, scomparso recentemente all’età di 95 anni, ha dedicato la sua intensa attività di agronomo alla trasformazione agraria del Mezzogiorno e in particolare alla bonifica. Dopo aver contribuito alla realizzazione della Riforma agraria in Calabria nei primi anni Cinquanta, tra il 1962 e il 1978 Giulio Leone fu impegnato presso la Cassa per il Mezzogiorno, prima alla direzione del servizio delle bonifiche e successivamente come Vice Direttore generale. Una figura d’alto profilo tecnico-scientifico, ma schivo, per natura, ad esporre il proprio punto di vista e sempre pronto, nelle discussioni e nei casi della vita, a comporre conflitti e divaricazioni che apparivano insanabili. Egli appartenne, dunque, a quel nucleo di grandi tecnici che, in aderenza alle direttive fissate in sede politico-istituzionale e con una forte impronta tecnico-scientifica sia personale che di gruppo, attuarono gli interventi che dettero uno scossone all’economia e alla società italiana, determinandone la modernizzazione. Il colpo d’ariete I titoli del programma agricolo per la ricostruzione del Paese dalle macerie della guerra erano stati fissati nell’art. 44 della Costituzione: a) imporre obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata; b) promuovere la bonifica delle terre, c) trasformare il latifondo; d) aiutare la piccola e media proprietà; e) favorire la montagna. Il tutto si sarebbe dovuto finalizzare, in base al dettato dei padri costituenti, alla razionale utilizzazione del territorio e al conseguimento della giustizia sociale, i due fari di cui servirsi per illuminare la strada da percorrere. E così nel 1948 si istituì la Cassa per la formazione della proprietà contadina e nel 1950 si vararono la Riforma agraria e la Cassa per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno. Il programma di Riforma agraria per mettere fine al latifondo riguardò il Molise, la Puglia, la Basilicata, la Calabria, la Sicilia, la Sardegna e alcune *Alfonso Pascale, già Vice Presidente dell’ANBI.
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Alfonso Pascale
province di altre regioni: il Delta padano, la Maremma e il Fucino. Le proprietà superiori ai 300 ettari vennero espropriate. Furono indennizzati 2.800 proprietari e i 700 mila ettari espropriati costituirono la massa delle terre assegnate poi in poderi ai contadini. Tra il 1950 e il 1960, quando già il grosso delle operazioni di assegnazione era esaurito, oltre 417 mila ettari di terra passarono in mano a contadini e braccianti poveri. Un trasferimento di beni fondiari di notevole ampiezza decisa e governata direttamente dall’autorità pubblica. Ad esso va aggiunto un fenomeno di accesso spontaneo alla terra favorito dalla Cassa per la proprietà contadina e dalle agevolazioni fiscali poste in essere dallo Stato. In virtù di tali misure – tra il 1948 e il 1968 – passarono nelle mani dei contadini altri 1.600.000 ettari. In un lasso di tempo non lungo la proprietà coltivatrice si diffuse su quasi due milioni di ettari. Contemporaneamente, a seguito delle opere pubbliche realizzate dalla Cassa per il Mezzogiorno, si debellò completamente la malaria, si ruppe l’isolamento di tanti sperduti centri rurali, si elevò il tono della vita civile nelle campagne, fu completata la bonifica, si estese l’irrigazione su oltre 500.000 ettari. Il tutto avveniva mentre 3 milioni di persone spostavano la residenza dal Mezzogiorno in un comune settentrionale. Il complesso di tali interventi costituì il colpo d’ariete che avrebbe avviato l’industrializzazione del Paese e l’innesto sulla proprietà diffusa della terra di un’agricoltura moderna, come due facce della stessa medaglia. Una trasformazione sociale ed economica enorme, avvenuta da noi in tempi molto più rapidi rispetto agli altri Paesi dell’Europa occidentale. Solo nel 1958 gli occupati in agricoltura avevano, infatti, ceduto il primato nelle statistiche ai lavoratori dell’industria e già nel 1963 si ebbe il “boom economico”. Furono cinque anni di ferro e fuoco in cui l’agricoltura si modernizzò completamente, l’industria crebbe, la scuola assunse dimensioni di massa, i consumi si espansero e i tradizionali modelli familiari e religiosi vennero messi definitivamente in discussione.
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Alfonso Pascale
Ma già nella seconda metà degli anni Sessanta qualcosa incominciava a scricchiolare. Non a caso il profondo disagio che si espresse nei moti del ’68
serpeggiò profondamente anche nelle campagne. Nelle pieghe più intime della società italiana montò la ribellione verso una classe dirigente che era riuscita a creare per bene le premesse per la grande trasformazione dell’Italia da Paese prevalentemente agricolo a Paese prevalentemente industriale, ma poi, una volta che il processo si era rapidamente concluso, non sapeva più leggere quanto era avvenuto, non ne capiva le dinamiche più profonde e s’intestardiva ad attuare forme di intervento pubblico in continuità con quelle precedenti, senza per nulla adeguare la cultura politica alle novità che si erano nel frattempo affacciate. Era soprattutto carente un’analisi delle modificazioni culturali, economiche, sociali avvenute nelle campagne; e ciò impediva di cogliere le interrelazioni tra i diversi settori produttivi, le esigenze delle imprese agricole che producevano per il mercato, le potenzialità dell’agroalimentare nel promuovere lo sviluppo dei sistemi territoriali, i nuovi rapporti tra città e campagna che i fenomeni migratori avevano prodotto. Non si seppero leggere alcuni dati fondamentali della nuova agricoltura che da noi si manifestavano in modo difforme rispetto alla media europea: una percentuale più consistente di agricoltori rispetto all’insieme degli occupati e una quota più elevata di aziende di dimensioni più ridotte. Si ritenne che i due fenomeni fossero l’esito di una modernizzazione incompiuta, mentre costituivano in realtà un elemento fondante della nuova organizzazione sociale ed economica delle campagne italiane. La sua caratteristica principale era stata in passato ed era rimasta anche dopo la modernizzazione, la molteplicità dei sistemi agricoli territoriali. Le diversità di tali sistemi si erano venuti ad articolare tra due tipologie estreme: un’agricoltura che remunerava le risorse ad un livello comparabile a quello degli altri settori e che era inserita nei circuiti di mercato; e un’agricoltura che impiegava le risorse ad un basso livello di produttività e di remunerazione e che era sostanzialmente esclusa dai circuiti commerciali. La prima svolgeva una funzione produttiva tale da metterla sullo stesso piano degli altri settori e venne considerata la vera agricoltura. La seconda fu ritenuta marginale perché secondo il modello industrialista era priva di quelle economie di scala, di quella specializzazione e standardizzazione necessarie per stare sul mercato. In realtà, anche questa agricoltura, attraverso le economie di scopo, la valorizzazione del capita
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Le false letture della modernizzazione
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le umano e sociale e l’interazione con le risorse ambientali e paesaggistiche, si è poi mantenuta vivida negli anni nell’ambito di economie locali a rete. Il contributo potenziale della cultura agricola alla modernità Nessuno s’accorse che la cultura agricola, nel trasfondersi nella modernità, aveva inciso in modo significativo nel processo di individualizzazione della società: l’aspirazione profonda all’autonomia e alla libertà dell’individuo, che è propria del ceto contadino, era confluita nel moderno individualismo di massa e lo permeava di sé. Ma nella società tradizionale, il profondo senso della coscienza individuale si coniugava con una marcata dimensione comunitaria fatta di pratiche solidali, mutuo aiuto, reciprocità nelle relazioni umane. La storia delle campagne è tappezzata di queste pratiche: i riti di ospitalità nei confronti soprattutto dei più indigenti; il vegliare nelle serate invernali per educarsi alla socialità e permettere agli anziani di trasmettere ai giovani la memoria e i valori essenziali per dare un senso alla vita; lo scambio di mano d’opera tra le famiglie nei momenti di punta dei lavori aziendali; i sistemi di regolazione del possesso aventi un’implicita tendenza verso la distribuzione egualitaria delle risorse, a partire dagli usi civici delle popolazioni locali sui terreni di proprietà collettiva. La reputazione delle diverse comunità rurali si alimentava della capacità di dare valore e dignità alle persone portatrici di singolari particolarità; e costituiva senso comune l’idea che ogni individuo dovesse avere accesso ad una quantità di risorse sufficiente a metterlo in grado di assolvere i suoi obblighi verso la comunità, nella lotta per la sopravvivenza. Le forme consortili per la difesa idraulica affondavano le radici nel medioevo come espressione spontanea del civismo rurale; e le prime cooperative sono sorte, alla fine dell’Ottocento, proprio nei territori rurali come strumenti di difesa dei ceti più deboli. La grande capacità di integrazione posseduta dalle campagne italiane si poteva, inoltre, scorgere nelle ramificate radici della cultura rurale che spesso non ci appartenevano perché erano nate altrove; e la stessa nostra identità alimentare era stata sempre frutto di una forte propensione degli esperti locali a fare interagire i propri saperi contestuali coi nuovi traguardi della conoscenza scientifica. - 60 -
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La dispersione del patrimonio ideale e storico-culturale del mondo rurale Nel processo di modernizzazione della società questo enorme patrimonio relazionale si è in gran parte disperso. E tale erosione ha condizionato enormemente la società e l’economia, accentuandone i caratteri utilitaristici e individualistici. La conseguenza è stata l’affermarsi di una visione dei diritti individuali come accumulo continuo di garanzie da preservare in un contesto deprivato del senso di responsabilità da parte dei singoli cittadini o dei gruppi d’interesse nei confronti della collettività e dei beni comuni. E tale visione ha permeato la politica e i rapporti tra lo Stato e le forze sociali organizzate, che hanno smesso di guardare a valori e obiettivi di interesse generale e hanno ridotto le proprie funzioni, a volte, ad un mero esercizio di mediazione al ribasso tra interessi particolaristici e, spesso, ad una continua domanda e offerta di sostegni, favori e privilegi in cambio di consenso elettorale. Ancora una volta, come sovente è accaduto nella storia del nostro Paese, una grande conquista, in questo caso l’agricoltura moderna, è stata resa precaria dall’esilità dei gruppi dirigenti dal punto di vista sociologico non meno che di quello della loro cultura politica, mettendo a rischio l’acquisizione stessa del risultato. E’ come se ad un certo punto la classe dirigente abbia innanzitutto smesso di svolgere quella funzione educativa della coscienza collettiva e del senso democratico dello Stato e delle sue regole, su cui si era esercitata lodevolmente nella precedente fase della ricostruzione. Una disamina, da questo versante, andrebbe compiuta a partire dall’opera dei ministri che si sono avvicendati a Via XX Settembre dal secondo dopoguerra in poi, da Fausto Gullo fino a Giovanni Marcora, che chiude il ciclo delle grandi personalità politiche che hanno diretto la fase più acuta della modernizzazione dell’agricoltura italiana. E andrebbe completata con un esame dell’azione svolta dalle organizzazioni agricole e dai loro leader carismatici, da Paolo Bonomi a Giuseppe Avolio, Alfredo Diana e Arcangelo Lobianco per valutarne gli innegabili meriti ma anche gli immancabili limiti. Le eventuali responsabilità dell’élite tecnico-scientifica Non pare fuori luogo porci, a questo punto, una domanda: ci potrebbe essere stata anche una responsabilità dei tecnici, degli studiosi e dei ricercatori operanti nella sfera pubblica che non hanno saputo o voluto leggere la - 61 -
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realtà, anche parzialmente, per non mettere in discussione le proprie convinzioni più profonde, e non hanno suggerito ai politici soluzioni diverse ai problemi che si presentavano o non si sono opposti all’attuazione di indizi contrastanti con le reali esigenze che la situazione poneva? Con Giulio Leone scompare l’ultimo dei grandi tecnici di cui lo Stato si è servito per portare l’agricoltura nella modernità. Egli era tra coloro che hanno creato i presupposti per l’innovazione ma hanno poi condiviso l’intero processo di modernizzazione. E’ dunque giunto il momento per riflettere su una siffatta questione, indagando sulle vicende di una fase storica importante delle nostre campagne, le cui propaggini arrivano fino ai giorni nostri. E’ indubbio che si trattava di un’élite tecnico-scientifica fortemente pervasa dall’idea di uno sviluppo senza fine e da una profonda fiducia nel progresso tecnico. Ma non sta qui il limite, poiché senza questa grande apertura mentale non ci sarebbero state innovazioni. L’errore sembra essere stato piuttosto quello di non aver compreso che la potenza della tecnica fosse pari alla sua pericolosità, e le sue prestazioni non minori dei suoi rischi. E si è sopravvalutata la capacità auto regolativa dei processi che si erano innescati, una volta abbandonati alla loro spontaneità incontrollata. Pare fuor di dubbio l’insufficiente attenzione alla perdita di beni relazionali e di capitale sociale delle campagne che il progresso tecnico portava con sé ma non in modo inevitabile; un’attenzione che si poteva ottenere mediante un approccio interdisciplinare e un dialogo intenso e permanente tra economisti, agronomi, sociologi, antropologi, storici e urbanisti. Separatezze autoreferenziali, conflitti e incomprensioni che provenivano da lontano e che andrebbero indagati non permisero quel confronto. Una carenza delle èlites culturali che non attenua le responsabilità della politica, ma ci può aiutare a capire quanto è avvenuto effettivamente alle nostre spalle e a guardare con maggiore fiducia al futuro, col necessario spirito critico e senza chiusure mentali.
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Giulio Leone, uomo antico e moderno Fabrizio De Filippis * Nel concludere questa bella giornata in memoria di Giulio Leone e nel ringraziare di cuore Luigi Rossi, l’Associazione degli Agronomi, l’Associazione Rossi-Doria e tutti quelli che hanno affettuosamente contribuito alla sua riuscita, mi permetto di aggiungere una mia testimonianza. E’ una testimonianza di tipo privato, sia perché della carriera e del lavoro di Giulio Leone tanti hanno qui parlato, sia perché ciò che mi lega a lui è il fatto di avere sposato Laura, una delle sue tre figlie. Parlo, dunque, da familiare, ricordando come l’ho conosciuto tra le mura domestiche, anche se nella mia esperienza professionale mi è capitato di frequentare luoghi dove Giulio aveva operato e dove era viva e presente la scia di stima, affetto e ammirazione che sempre lasciava: il Centro di Portici, la SIDEA (Società italiana di Economia Agraria), l’INEA (Istituto Nazionale di Economia Agraria), l’Associazione Manlio Rossi-Doria e, molto più recentemente, l’ANBI (Associazione Nazionale delle Bonifiche). Giulio Leone era un uomo antico e moderno nello stesso tempo. Forse non a caso, visto che ha iniziato a lavorare alla fine degli anni trenta del secolo scorso, girando a cavallo per la Ducea di Bronte, e ha smesso una sessantina di anni dopo, quando l’era di internet era già iniziata. Antichi erano la sua signorilità, la sua educazione, la sua delicatezza, il suo decoro, il suo linguaggio, i suoi biglietti di ringraziamento, il suo incrollabile rispetto per le tradizioni e per le istituzioni. Moderna era la sua inesauribile curiosità per le cose nuove, il suo meticoloso impegno nell’essere informato, il suo interesse per i giovani e le loro scelte e, soprattutto, la sua fiducia nel progresso della tecnologia. Giulio, a differenza di tante persone della sua generazione, non ha mai diffidato del progresso tecnico; anche quando era molto avanti con gli anni, non lo ha mai considerato un fenomeno produttore di inutili o pericolose diavolerie. Nella sua formazione di tecnico illuminato c’era ben saldo tutto l’ottimismo positivista di chi è convinto che la tecnologia sia utile e dominabile dall’uomo. *Fabrizio De Filippis, Direttore del Dipartimento di Economia, Università degli Studi Roma Tre.
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Fabrizio De Filippis
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Fabrizio De Filippis
Nel sottolineare questa caratteristica di Giulio, provo molta tenerezza nel ricordare come il suo approccio aperto verso il progresso tecnico conviveva con la sua profonda, irrimediabile negazione manuale e, dunque, con la sua totale incapacità materiale di gestire i prodotti della tecnologia, anche quelli non particolarmente avanzati, quali radio, televisione, automobili, impianti di allarme. Giulio era in grado di fare danni seri anche solo maneggiando un telecomando, poteva ferirsi gravemente avvitando una lampadina o rischiava di far saltare la corrente di un intero quartiere infilando una spina. Eppure, tenacemente, come in tutte le sue cose, non demordeva e non si sentiva per nulla subalterno o “impedito”: impunemente, usava telecomandi, avvitava lampadine e infilava spine, seminando il terrore tra i familiari. Nemmeno il computer lo metteva in soggezione; magari lo chiamava “calcolatore elettronico”, ma non ne aveva alcuna paura; molto prima di tante persone più giovani di lui, certamente molto prima delle sue figlie, che pure oggi navigano disinvoltamente su internet, Giulio aveva capito che non si trattava di un oggetto pericoloso ma di qualcosa di molto simile a un potente elettrodomestico di cui servirsi. Purtroppo, Giulio il computer non lo ha mai usato direttamente: scriveva molto – dalle sue memorie private a numerose lettere per avvocati o amministratori di condominio – ma lo faceva con una gloriosa Olivetti Lettera 32, della quale era diventato difficile trovare i nastri. E mi preme ricordarlo anche per liberarmi di un senso di colpa e di un rimpianto, perché sono stato io a tenere lontano Giulio dai computer. Quando, infatti, intorno ai novant’anni, Giulio mi comunicò la sua volontà di informatizzarsi e di acquistare un computer, io lo disincentivai, perché pensai che la sua poca vista e la sua scarsa manualità per la manovra del mouse avrebbero potuto avvilirlo: forse sopravvalutai le difficoltà che avrebbe incontrato e certamente sottovalutai la tenacia con cui avrebbe affrontato l’impresa; dunque, pur avendo agito per proteggerlo, probabilmente ho contribuito a farlo sentire più vecchio. Chiudo dicendo che mi consola il fatto che negli ultimi anni della sua vita Giulio abbia potuto utilizzare indirettamente il computer e almeno parte delle sue potenzialità per mano di sua figlia Laura: che gli scaricava foto, immagini o informazioni per rispondere ai tanti quesiti o curiosità stimolati da un film, un libro, una discussione, un ricordo.
Così, mentre nella sua libreria custodiva gelosamente un’antica e amatissima edizione della enciclopedia Treccani, per tenersi aggiornato Giulio non disdegnava la consultazione di Wikipedia.
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Memorie di Giulio Leone
Gli inizi del Lavoro, gennaio 1937 - novembre 1940 La Ducea di Bronte – Maniace, 1940 - 1943 L’O.N.C. – Licola e il Basso Volturno, 1944 - 1950 I primi tempi della Riforma Agraria, 1949 - 1952 La Malaria e la Cassa per il Mezzogiorno
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Per le mie figlie
GLI INIZI DEL LAVORO (gennaio 1937 - novembre 1940)
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Gli inizi del lavoro
Tornato dagli esami di stato di Bologna poco prima di Natale 1936, ebbi dal nonno de Cillis comunicazione di poter lavorare come assistente straordinario presso l’istituto di Chimica Agraria di Roma. L’Istituto, oggi divenuto “Istituto della Nutrizione Vegetale”, era ospitato allora nell’ultimo piano della Società Geografica Italiana, al centro di villa Celimontana, con l’ingresso, ancora attuale, dalla bellissima piazza della Navicella al Celio. Non era stato ancora costruito nella stessa villa il grande edificio che, oggi proprio dell’Istituto, riunisce laboratori, uffici ed abitazione del Direttore. Questa carica era coperta dal Prof. Tomassi, calabrese, ideatore di una teoria sulla funzione del fosforo nel terreno, che aveva allora una qualche eco. Il genio dell’Istituto era Luigi Marimpietri, chimico, profondo conoscitore dei meccanismi nutrizionali delle piante e del terreno, dotato di una grande facoltà di comunicazione e di istruzione, carico, oltre tutto, di una umanità e di uno spirito di amicizia ammirevoli. Marimpietri è scomparso immaturamente negli anni cinquanta, se non ricordo male, ma la sua memoria è incancellabile in chi l’ha conosciuto. Con Lui mi legai fortemente e mi arricchii della Sua scienza. Fui addetto alla determinazione, in laboratorio, delle quantità di fosforo nel terreno, lavoro ripetitivo, non certo costruttivo, che mi dette solo la gradita occasione di visitare l’Agro Pontino, allora appena bonificato e colonizzato dall’O.N.C. per il prelevamento di campioni di terreno. Andavo in treno fino a Littoria (oggi Latina) e dalla stazione con una bicicletta prelevavo i campioni e, qualche volta, sostavo nel Centro o nei Borghi Rurali. Il lavoro all’Istituto durò pochi mesi, perché Angelini che aveva sostituito il nonno nella cattedra di Agronomia e Coltivazioni Erbacee della Facoltà di Portici e che era nel contempo Presidente della Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Agricoltura, mi volle nella sua grande Organizzazione. Mi assegnò all’Ufficio Bonifica, diretto dal Dott. Potenza, ed alla sua Segreteria, diretta da Marco Castellacci e frequentata da Nino Falchi, con i quali strinsi una salda amicizia. La Confederazione aveva allora sede al largo di S. Susanna, abbellito dalla fontana del Mosé, in pieno centro di Roma. Di lì, nel giugno del ’37, se non sbaglio, assistetti alla visita di Hitler a Roma ed alla sfilata del corteo. Presto, alla fine del ’37 o nel ’38, fu costruita la bella sede di Corso d’Italia, dove ora è la C.G.I.L., e dove ebbi una stanza al terzo piano per la - 71 -
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Gli inizi del lavoro
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Gli inizi del lavoro
bonifica ed un tavolo nella Segreteria di Angelini. Mi interessavo, attraverso le novanta e più Unioni Provinciali allora esistenti, delle opere di bonifica e di colonizzazione che interessavano i lavoratori agricoli e, dotato di un permanente in I classe valido per tutta la rete ferroviaria, visitai molti comprensori di bonifica del Nord e più ancora del Sud, interpretandone gli sviluppi e le necessità sociali. Il lavoro mi portò in Sicilia a dirigere i lavori di trasformazione del Demanio Civico di S. Pietro di Caltagirone, dove andavo qindicinalmente per qualche giorno. A Catania era segretario dell’Unione Provinciale Diano Brocchi, figura di umanista e di uomo di cultura, prestato al fascismo, del quale non era certo interprete fedele. Qualche volta nei viaggi andavo col mio Capo Ufficio, Potenza, e fu in una certa occasione in cui l’addetto agrario dell’Unione, Montemagno, che gli aveva inviato una cassetta di arance senza riceverne ringraziamento, gli chiese come erano le arance e si sentì rispondere, incomprensibilmente ed inaspettatamente un “pessime”, che ci gelò tutti. A Santo Pietro di Caltagirone furono costruite 27 case coloniche, furono innestati migliaia di olivastri, furono piantati piccoli appezzamenti di vigneti, ma non si potette fornire di acqua corrente le case: i vasi dei w.c. divennero, così, in alcuni casi, i recipienti per salare le olive. Non sono più tornato, pur negli anni in cui sono vissuto in Sicilia, a Santo Pietro, ma ho saputo che quel magnifico terrazzo dal quale si vede il mare di Gela è fiorente di attività e di lavoro. Trascorsero così gli anni ’38 e ’39. Il 29 dicembre, di ritorno da Santo Pietro a Catania, per riprendere le vacanze di fine d’anno e prepararmi per il matrimonio con Adriana l’8 gennaio, mi sentii influenzato; sul treno chiesi ed ottenni una cabina letto. La mattina del 30 dicembre il treno entrò velocemente nella stazione di Torre Annunziata; il macchinista non aveva visto il segnale di arresto. La locomotiva e le vetture che seguivano, tra le quali la carrozza letto dove ero io, si schiantarono e penetrarono in molti vagoni di una tradotta militare e civile che sostava sul binario di corsa. Fu una strage; la vettura letto oscillò, uscì dai binari, si inclinò ma non si fracassò, anzi, purtroppo, fece da tampone alle altre. Sotto il mio finestrino, tra i rottami della vettura postale della tradotta, bloccato con le gambe dalla struttura ferrea del
vagone, giaceva agonizzante l’ufficiale postale e sussurrava: “salvate le assicurate”. I morti furono più di cento, centinaia i feriti. Mi detti anche da fare per aiutare le vittime. Riuscii a telefonare a Portici a zia Maria che mi venne a prendere con la sua “ cinquecento” e mi portò innanzi tutto a ringraziare la Madonna a Pompei. Nove giorni dopo si celebrò il matrimonio con Adriana. Finì la mia vita di scapolo ma anche la mia residenza a Roma. Vi avevo vissuto all’inizio in camera ammobiliata, poi in via dei Banchi Vecchi, di fronte Ponte S. Angelo, in una vastissima camera con due letti, bagno proprio ed uso del soggiorno, locatami da un amico di Castellacci, Romanini, poco più grande di me, anche egli solo, assistito da una buona governante, che provvide anche a me. I pasti li presi sempre fuori, quando ero a Villa Celimontana ed al Largo di S. Susanna in un ristorante all’angolo di via Piemonte sottostante di pochi gradini la strada; quando ero poi a Corso d’Italia da “Andrea” in via Sardegna, quasi all’angolo di via Veneto. I due ristoranti esistono ancora. Prezzi di allora per un pasto: rispettivamente L. sei e L. otto! In una splendida giornata invernale, calma e soleggiata, l’8 gennaio vi fu l’attesissimo matrimonio; era il primo che si celebrava fuori casa Pensa e costò molta opera di convinzione ad Adriana. Prima in Chiesa all’Ascensione, poi al Grand Hotel che era allora dove è adesso il Consolato degli Stati Uniti: fronte mare col sole che ci inondava. Vennero il nonno, Angelini, i più stretti parenti Pensa; Renato arrivò all’Ascensione vestito da soldato con le fasce. Unica omissione le fotografie. Tutto fu familiare, affettuoso, allegro. Pochi passi e fummo al vaporetto per Capri: isola deserta , perciò ancora più piacevole. Ci ospitò l’hotel Tiberio; a cena eravamo l’unica coppia, contornati da uno stuolo di camerieri. Il soggiorno fu bellissimo, sempre con buon tempo e sole. Matermania, il salto di Tiberio, Anacapri, la casa di Axel Munthe furono, con altre più note, le nostre mete. Poi venne il viaggio in vettura letto per Cortina: anche lì buon tempo e molta bella neve. C’era una certa emulazione sciistica tra me ed Adriana, ma lei poverina prese una storta al terzo giorno e non poté gareggiare con me. Questo non ci evitò, però, di fare un po’di mondanità notturna e la prima sera Adriana si impigliò nell’abito da sera ed entrò in sala scivolando sugli ultimi gradini. L’albergo era “Il Cristallo”, uno dei migliori.
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Agronomi protagonisti
Gli inizi del lavoro
Al ritorno a Roma, dove avevamo già affittato una casa in via di Priscilla, di proprietà di un amico di famiglia che volle una cauzione di L.4000 (di allora) mai restituite, trovai la lettera del mio trasferimento a Palermo. Angelini era stato sostituito da un certo Lai, il quale aveva creduto opportuno spostarmi. Presi servizio presso l’ufficio di Coordinamento delle Unioni Provinciali Lavoratori, diretto da Borghesi, settentrionale, sindacalista vecchio stampo e bravissima persona, il quale mi affidò un compito di rilevazioni e di studi. A Palermo fummo ospiti per più di un mese di Irma ed Ettore, affettuosissimi, come sempre. Poi prendemmo casa in un palazzo nuovo di via Libertà, di fronte a villa Pottino, famiglia con la quale Adriana strinse rapporti di amicizia. Lì il 4 novembre del ’40 nacque Franca ed, in quella occasione, venne da Napoli, ad assistere Adriana, zia Maria. Della mia … inabilità di cuciniere, quando Adriana non si sentiva bene, si raccontano molti episodi comici, come quello delle seppioline che volavano dalla graticola sulle pareti della cucina. Favole?! Rividi a Palermo molti compagni di Università: Memmo Inglese, aristocratico locale, Luigi Scialabba, attivo agricoltore con proprietà verso Termini Imerese, Accardo ed altri amici. Non facemmo in tempo ad arredare completamente la casa – avevamo comprato una stanza da pranzo stile ‘400 da Memmo ed avevamo fatto costruire alcuni mobili male impellicciati da un falegname che si chiamava Cocilovo, quando Mazzocchi Alemanni mi chiamò per mandarmi a Bronte. Per un mese circa Adriana e la piccola Franca rimasero a Palermo: poi chiudemmo casa e mettemmo in magazzino i nostri mobili. Il 10 giugno era intanto cominciata la guerra: il giorno dopo due piccoli aerei francesi spezzonarono Palermo. Maniace era anche un rifugio. Io fui richiamato dal distretto di Adrano, ma rilasciato perché Direttore di una grande azienda.
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Agronomi protagonisti
Per le mie figlie
LA DUCEA DI BRONTE – MANIACE (1940 - 1943)
“Breve, felice, strana parentesi” Nunzio Galati: “Maniace, l’ex Ducea di Nelson”
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La Ducea di Bronte – Maniace
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Dal novembre 1940 al luglio 1943 ebbi l’incarico dall’Ente di colonizzazione del Latifondo Siciliano di dirigere l’Azienda Ducea di Bronte, occupata per legge di guerra dal Banco di Sicilia ed espropriata, come azienda dimostrativa, ai sensi della propria legge, dall’Ente. Il Castello di Maniace Il nome della località deriva da quello del generale che, inviato dall’imperatore bizantino di Costantinopoli, sbarcò a Messina e sconfisse, nelle piane circostanti l’attuale Castello, l’esercito arabo, nell’estate del 1040, ritirandosi quindi, per sopravvenute difficoltà della Corte, a Bisanzio. Il Castello, che prende il nome, non domina da alcuna altura, ma controlla il guado del fiume, dove in epoca recente è stato costruito un ponte in legno; questo è il passaggio obbligato per chi vuole dalla strada statale soprastante 120 accedere al territorio della Ducea. Il fiume in quel tratto, col nome di Saracena, che più a valle diventa Simeto, scorre con piene invernali e consistenti fluenze estive, veloce e libero nel proprio alveo, che si è scavato tra le lave discendenti dall’Etna e le colline argillose dei Nebrodi, lasciandosi attorno ampie zone piane alluvionali. Arrivai al Castello in una sera autunnale, brumosa e fredda, provenendo, con un lungo viaggio, da Palermo, attraverso le strade interne di quella parte dell’Isola. Il grande portone del Castello era chiuso e si aprì ai colpi ripetuti di clacson. Intravidi, illuminato da lampade a petrolio, il portico di ingresso, sostenuto da un colonnato, ed oltre di esso il cortile. Nel portico, a destra, erano allineati una ventina di “campieri”, in divisa verde e cappello alpino con piuma, che sollevarono in segno di saluto. Sulla sinistra sostava un piccolo gruppo di impiegati della Azienda e, con pantaloni alla zuava e calzettoni, il fattore. Una guida rossa conduceva al portone in noce di accesso alla scala che saliva all’appartamento ducale, anch’essa coperta da una guida rossa. Lungo i gradini della scala era schierato il personale di servizio alla casa ducale: l’anziano maggiordomo in tenuta blu, capelli bianchi e lunghe basette; il cameriere, la cameriera, il primo in giacca e la seconda con grembiule inamidato; il cuoco, il Vice cuoco e l’inserviente addetto, in particolare, ai camini - 77 -
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La Ducea di Bronte – Maniace
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La Ducea di Bronte – Maniace
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dell’appartamento. Tutti erano siciliani, anzi brontesi, qualcuno dei vicini comuni di Maletto o Randazzo. Nessuno, compreso il fattore, l’autista, il maggiordomo, i campieri ed il personale tutto, molti provenienti dalle famiglie contadine, masticava una sola parola di inglese. Per me l’ambientamento fu facile: avevo venticinque anni ed avevo già lavorato in Sicilia nel Demanio Civico di S. Pietro di Caltagirone. Conoscevo e tentavo di parlare il dialetto. La sera si cenò, con i miei accompagnatori del Banco di Sicilia, Dott. Ribaudo, Direttore della filiale di Catania e Dott. Tocco, nell’appartamento di servizio; quello ducale era sotto inventario e desideravamo tenerlo riservato. Al lato destro, entrando nel portico, di fronte alla porta di accesso alla scala dell’appartamento ducale, dietro la stanza di portineria, si scendevano pochi scalini e ci si trovava dinanzi al portale della Chiesa, sorretto dall’arco in pietra cesellata, risalente al X secolo. La Chiesa, grande, alta, disadorna, era coperta da un soffitto sostenuto da robuste travate di quercia. Sulla facciata del Castello si sviluppava l’appartamento di servizio, che fu quello abitato da noi, che preferimmo non utilizzare l’appartamento ducale, lasciato nelle condizioni in cui si trovava. Di esso furono usate la stanza di soggiorno, col grande camino e la sala da pranzo in stile gotico, rivestita in legno, in occasione di visite di personalità di riguardo. Solo in un secondo tempo, l’ultima parte dell’appartamento, che era in comunicazione con gli uffici, fu adibita ad abitazione del Direttore dell’Azienda e, quindi, separata dal resto del corridoio e delle stanze da letto alle quali esso dava accesso. Il primo cortile del Castello era, dal lato occidentale, dominato, appunto, dall’appartamento ducale; in fronte al cortile vi era la palazzina ad un piano, adibita agli uffici, che fu da noi ammodernata. Dietro di essa correva un corridoio scoperto, a picco sul fiume, che si guardava da feritoie assieme col ponte. Nel centro del cortile si ergeva la croce, in pietra lavica, con le braccia raccordate da un cerchio, ai piedi della quale, su di un ceppo, anch’esso lavico, era scolpita la scritta “Heroi Immortali Nili”. L’altro lato del cortile accoglieva magazzini minori ed il frantoio
oleario. A metà si apriva l’accesso carrabile al secondo cortile, il lato orientale del quale era tutto occupato dal grande magazzino delle granaglie, capace di molte migliaia di q.li di grano e di legumi, provenienti dalle gabelle e dalle metaterie che corrispondevano i loro fitti in natura o li dividevano sull’aia, trasportandoli poi al magazzino … Nel secondo cortile si aprivano anche le scuderie dei cavalli e dei muli, alcuni locali per il maniscalco ed il fabbro (fuori il Castello e nelle adiacenze di esso vi era la falegnameria); da un andito a cielo aperto si accedeva al magazzino di cognac, distillato dai vini della Ducea.
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L’Azienda Agricola L’Azienda aveva una estensione complessiva di cinquemila e settecento ettari ed era, all’epoca, tra le più grandi se non la più grande di quelle esistenti in Italia. Se ne era tentata, poiché di proprietà inglese e così appartata, di farne dichiarare la extra territorialità, ma non la si era mai ottenuta. Era costituita in tre corpi. Quello centrale, in piccola parte al di qua del Saracena, dove era il Castello e la massima parte al di là della riva settentrionale del fiume; un secondo ed un terzo corpo, vicini tra di loro, erano sotto l’abitato di Bronte, sulla riva sinistra del Saracena, divenuto Simeto, al limite delle lave, su una striscia alluvionale del fiume: una quarantina di ettari, tutti impiantati ad agrumeto a Ricchiscia e a Marotta, e a Marotta anche a pistacchieto con innesti dagli arbusti selvatici. Ricchiscia e Marotta, una volta l’anno, all’epoca della vendita delle arance, in genere sull’albero, costituivano una delle consistenti ricchezze della Ducea. Il corpo centrale dell’Azienda faceva capo a masserie isolate ed a raggruppamenti di povere capanne, ricovero dei contadini coltivatori. Ne ricordo solo alcuni: Fondaco, Porticelle Sottano, Balzi, Balzitti, le più vicine al Castello; Porticelle Soprano, S. Andrea, Semantule, Biviere, Petrassino Grappida, le più lontane. Nella pianura in destra del fiume, a valle del Castello, sorgeva l’agglomerato di Boschetto Vigne, dove era installata, ai margini di circa quaranta ettari di vigneto, la grande cantina, comprendente i tini di vinificazione ed un complesso di una ventina di grandi botte di rovere, capaci di conservare alcune centinaia di ettolitri del buon vino, parte invecchiato, parte venduto o consumato nell’anno. Su di una collina
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La Ducea di Bronte – Maniace
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dominante Boschetto sorgeva una palazzina, abitazione dell’addetto enologico. Nelle vicinanze del Castello, sulla riva sinistra del fiume sorgeva l’oliveto, costituito da molte centinaia di giovani piante, già in piena produzione. A circa mille metri di quota, tre - quattrocento sopra la parte pianeggiante, sorgeva Otaiti, una graziosa palazzina ad un piano, residenza estiva della famiglia del Direttore, perché non infestata dalle zanzare malariche. Dietro di essa, a qualche centinaia di metri, c’era un’altra palazzina a solo pianterreno, che, nel periodo della guerra, ospitava la anziana mamma di Lorenzino Huges, Vice amministratore dell’Azienda, in quel periodo confinato nel campo di concentramento. La Signora Hughes, non confinata, ma affidata alla mia sorveglianza e protezione, ostentava nel suo ingresso una bella fotografia di Re Giorgio V. Vi era, sul versante opposto, a monte della strada statale 120, un altro corpo della Ducea, al quale non si dava alcuna importanza, perché costituito dalle lave improduttive dell’Etna, e che a monte confinava con la Strada Statale circum-etnea e con la omonima ferrovia, nel tratto tra Maletto e Randazzo. Nella sua parte orientale estrema, verso Randazzo, sboccava e si disperdeva tra le lave un torrente proveniente dai Nebrodi, che d’inverno formava un lago di una decina di ettari, asciutto d’estate e formato da profonde fertilissime alluvioni, nelle quali per la prima volta feci coltivare, seminando girasole, che produssero calatidi enormi, che non ho mai più viste tali. La località si chiamava “La Gurrida” e non vi era neppure un casolare. D’inverno tutta quella zona lavica era brumosa ed, una volta – ero solo – persi l’orientamento nella nebbia fitta e per ritornare mi affidai all’orientamento del cavallo, lasciandogli le briglie sciolte. Questo, a grandi linee, approssimate ormai da un sessantennale ricordo, era il territorio della Ducea, dono di Ferdinando IV di Borbone a Nelson, che lo ricondusse a Napoli, dopo la repressione della Repubblica Partenopea, nel 1799. Il feudo era appartenuto all’Ospedale Maggiore di Palermo, che se lo vide espropriato. Nelson non vi andò mai; vi andò invece una nipote, figlia del fratello di Nelson, che aveva ereditato dallo Ammiraglio. Questa nipote, Charlotte, aveva sposato un Hooh, visconte di Bridport, il cui nome si unì a quello di Nelson per indicare il titolo nobiliare proveniente dalla Ducea. Negli anni di gestione dell’Ente fu acquistato, a monte della Ducea, in
montagna, un altro tenimento di circa 1.300 ettari, con un vecchio decadente casolare ed adibito solo a pascolo: si chiamava Mangalavite e Botti. Esso fu unito nella gestione a quella della Ducea, che superò, quindi i settemila ettari e rimase, fin dopo la guerra, in proprietà dell’Ente. Per raggiungerlo ci volevano circa tre ore di cavallo dalla Ducea e quattro da Bronte. Andandoci, una volta, dopo aver lasciato la Ducea, in una brumosa alba di autunno, persi un mulo, precipitato dalla trazzera a picco lungo la pendice.
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Il personale Delle persone, o per meglio dire, del personale dell’Azienda, sarà bene distinguere quello proprio già in servizio alla Ducea, che lasciammo inalterato e quello proveniente o distaccato dall’Ente del Latifondo. Tra i primi non si può iniziare se non da una persona, anzi per la propria forte marcazione di carattere, volontà ed attività, da un personaggio: il fattore. Mario Carastro era l’anima della Azienda. Viveva a Maletto ed arrivava al Castello poco dopo l’aurora. Conosceva a menadito masserie, terreni, gabelloti, contadini. Sapeva la storia di tutti: duchi, amministratori, impiegati, campieri, questi ultimi, tutti, passati per le sue mani. Rispondeva in prima persona di ogni cosa. Le sue mansioni si estendevano ai magazzini, alla cantina, all’impianto oleario. Lo accusavano, come magazziniere, di far pesare la bascula un attimo prima della fine dell’operazione e di guadagnare qualche chilo di più per l’amministrazione. La sua abilità non era solo questa, del resto modesta: sapeva trattare la gente, negoziare, prevedere le necessità, farvi fronte anche durante quel difficile periodo della guerra. Ci fu amico e devoto, pur mantenendo – credo – qualche contatto con gli ex avvocati catanesi della Ducea. Anche la sua figura era tipica: vestito quasi sempre con la zuava, agile e saltellante, buon cavallerizzo e sobrio di abitudini. La sua funzione ed il suo lavoro ci furono utilissimi. Per anni, dopo il mio allontanamento, tenne rapporti con me, fino alla sua morte. Mario non estendeva, almeno in apparenza, i suoi poteri agli agrumeti – Ricchiscia e Marotta – che erano diretti da un agronomo, il Dott. Alfio Nicolosi, nativo di un paese del versante orientale dell’Etna e che risiedeva a Bronte. Era un esperto e con lui le piantagioni non soffrirono, pur private, a
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causa della guerra, dei necessari fitofarmaci. Vi era poi la schiera dei campieri, ciascuno sorvegliante di una o più masserie. Ne era a capo Lo Castro, ed in collaborazione, con lui agivano Bianca, Serravalle Germanà ed altri dei quali non ricordo più i nomi. Tutti vestivano la divisa verde scuro, tutti si coprivano col cappello all’alpina. Tutti, compreso qualche impiegato di ufficio ed il personale di casa, dovevano radersi ogni giorno e presentarsi sempre in ordine e con decoro. Del personale di casa si è già detto; spiccava tra di esso la figura del maggiordomo anglo - brontese, il quale ci serviva anche a tavola. Prestava servizio come autista, ma era anche un bravo meccanico, Luigi, il fratello del fattore Mario, persona di grande bontà e capacità, sempre pronto a rendersi utile. Tra il personale addetto alle scuderie, non si può non ricordare lo stalliere-capo, Nicola Leanza, straordinario cavallerizzo, e di lui bisogna ancora ricostruire la coraggiosa sottrazione ai soldati tedeschi, che l’avevano sequestrata e portata lontano in montagna, della cavalla Nina, la migliore e quella che io usavo ordinariamente: ne identificò il ricovero, vi penetrò di notte, eludendo la sorveglianza dei tedeschi, la sciolse, vi montò a pelo, la ricondusse galoppando fino al Castello e, poi la nascose. Nicola Leanza si trasferì, dopo il pensionamento a Torino presso parenti immigrati e lì è morto una decina di anni fa. Fino all’ultimo mi ha scritto ed io gli ho risposto. Io ero stato assunto dall’Ente ed avevo lasciato l’incarico di funzionario tecnico della Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Agricoltura e subito inviato a dirigere la Ducea. Tra i dipendenti dell’Ente, come me, spiccava per l’altezza e la corporatura, oltre che per la capacità professionale, il ragioniere La Monica, vicino o poco oltre l’età della pensione; era il capo della contabilità dell’Azienda e veniva coadiuvato, in questa funzione da un ragioniere, palermitano come lui, che aveva preso alloggio con la giovane, bella moglie, nella palazzina di Boschetto Vigne. Un altro impiegato della Ducea lavorava in ufficio come diretto collaboratore, il signor Visalli, che mi seguì, poi nel ’44, a Licola, dopo essersi sposato non più giovanissimo. Avevo, inoltre, un giovanissimo segretario personale, l’attivissimo Irrera, di una famiglia di Taormina. Curava i lavori edili, stradali ed idraulici della Azienda il geom. Jannicelli, che abitava con la famiglia in un fabbricato vicino al Castello;
questa famiglia ospitò la piccola nostra Franca, due anni, quando nacque Marinella. Negli ultimi tempi mi era stato assegnato anche un Vice Direttore, Turi Caliri, un dottore in agraria di Catania. Prestavano, inoltre, la loro consulenza all’Ente e, quindi anche a me, per la sistemazione dei terreni i Dott. Agronomi Sardo e Barbagallo, entrambi liberi professionisti di Catania. Le loro visite erano saltuarie e non facili erano i corsi che essi tenevano ai contadini. Infine, il Prof. Emilio Zanini, veneto, e ordinario di agronomia nella Università di Palermo, dava la propria personale consulenza e veniva qualche volta in Azienda, trattenendosi alcuni giorni. Nell’ambulatorio, che istituimmo, operava il giovane ed attivissimo medico, il Dott. Pappalardo, anch’egli di un paese etneo ed una brava, non bella levatrice siciliana, che rividi, anni dopo, quando lavoravo all’O.N.C. nel Basso Volturno. Nei pressi del castello era installata una caserma dei Carabinieri, con pochi militi al comando di un brigadiere. Avevamo aumentato il numero delle scuole elementari, distaccando alcune prime classi presso le masserie più lontane ed avevamo, quindi, un nucleo di maestre che andavano e venivano da Bronte.
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I Contadini Lavoravano la terra oltre cinquecento famiglie. Eccettuati pochi brontesi, coloni di piccoli appezzamenti a Ricchiscia e Marotta o, in pianura, negli immediati dintorni del Castello, ed alcuni di Maletto sulle “sciare”, tutti gli altri provenivano dalla montagna dei Nebrodi, prevalentemente da Tortorici, meno da Ucria: due paesi arroccati su pendici, ed allora inaccessibili per mancanza di strade rotabili, sforniti di acquedotto e di qualsiasi altro servizio civile. Il loro mezzo di trasporto era la “cavalcatura”, asino o mulo, per i più agiati il cavallo. Si distinguevano affittuari che avevano alle dipendenze piccoli affittuari o “metatéri” – ed erano i “gabellotti”, e piccoli affittuari o metatéri che avevano in concessione i terreni direttamente dall’Amministrazione della Ducea. I contratti di affitto prevedevano tutti la corresponsione del canone in natura, grano per lo più, ma anche segale, fave e talora, ma in piccola parte, la “trimilia”, frumento tenero con farina bianchissima, adatta per i dolci. I gabellotti, ma anche qualche “terraggere” con superficie più
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rilevante, erano tenuti a corrispondere, in più del fitto in natura, i “carnaggi”: qualche agnello o capretto, polli, ceci o lenticchie di buona cottura, talora frutta di stagione. I carnaggi andavano alla cucina ducale o a quella degli impiegati. Riducemmo, più volte, nei casi estremi ed in una annata particolarmente sfavorevole, i canoni di affitto, ma era un principio rischioso per gli equilibri fra i coltivatori e per quegli stessi della amministrazione. A fianco al contratto di affitto, era istituito, per i terreni più buoni, il contratto di metateria: la divisione a metà del prodotto ottenuto, sull’aia, con carico di trasporto al magazzino aziendale; non era prevista per i metatéri alcuna anticipazione di sementi o concimi; tuttavia noi la demmo e, con pagamento anche differito al raccolto; la estendemmo anche ai gabellotti ed ai terrageri. Nei paesi di provenienza, dagli inverni freddi, i contadini avevano case in pietra, molto povere; i più poveri, tra di loro, baracche o capanne di argilla, coperte da paglia. Queste ultime erano l’abituale ricovero nella Ducea. Di dimensioni ridotte a pochi metri quadrati, circolari, con pavimento in terra battuta; spesso la struttura era in pietra, anziché in argilla, con fessure dalle quali proveniva il vento. Erano tutte senza alcun arredo, se non qualche trespolo in legno e qualche pentola, senza letti. Costituivano il rifugio estivo ed invernale di adulti e bambini: segno di una povertà e di un livello di vita non uguali, anche in quell’epoca in Italia. Quando riunivano nelle masserie e negli agglomerati di capanne questa povera gente la vedevamo rassegnata, uomini e donne coperti da vestiti laceri, scalzi o con le ciocie fatte di pezza di copertoni d’auto. Il contatto col mondo civile era, per gli uomini, il servizio militare e vi erano molti sotto le armi a causa della guerra; per le donne era l’ospedale o il servizio in città; per i bambini non certo la scuola. L’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano L’Ente fu istituito con D. L. del 2 gennaio 1940, n°1, alla vigilia, quindi della guerra. Suo compito era procedere all’appoderamento ed alla valorizzazione dei latifondi dell’Isola, sulla scia di quanto contemporaneamente faceva l’Opera Nazionale per i Combattenti (O.N.C.) nel Tavoliere di Puglia e nel - 84 -
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Basso Volturno. Poteva imporre obblighi alla proprietà e, in caso di inadempienza, poteva espropriarla per compiervi le opere, così come poteva espropriare e compiere le opere in aziende particolarmente dimostrative: era quest’ultimo il caso della Ducea, con il quale in verità si mascherava una espropriazione di un bene appartenente a suddito nemico. Ne fu messo a capo un tecnico di gran valore, che aveva già diretto la bonifica e la valorizzazione dell’Agro Pontino: Nello Mazzocchi Alemanni, uomo di grande cultura umanistica. Era nato a Todi e, nei suoi primi anni di lavoro, aveva seguito mio nonno, Emanuele de Cillis, in Tripolitania ed in Cirenaica ed era stato, in quella colonia, collega anche di mio padre. Era un Uomo che credeva fermamente nella propria missione; troppo idealista, forse, per agire in un ambiente, come era quello dei grandi proprietari dell’epoca. Come ho detto, io lavoravo già in Sicilia, dove, tra l’altro, ero stato Direttore dei lavori di trasformazione del Demanio Civico di S. Pietro di Caltagirone. Fui arruolato, congedato dal servizio militare ed inviato a dirigere la Ducea che, in quel momento, aveva un ruolo di rifornitrice alimentare dell’esercito e della popolazione civile. Con Mazzocchi vi era Innocenzo Fiori, anch’egli reduce dall’Agro Pontino ed erano inquadrati nell’Ente dirigenti di valore, tra i quali come Capo del Servizio Tecnico l’ingegnere Pasquini e, come Capo del Servizio Amministrativo, il Dott. Cardinale. Con essi i rapporti non furono sempre idilliaci; io ero esposto dinanzi a una comunità e con responsabilità operative, che non potevano attendere i tempi burocratici. In una occasione, a causa delle indecisioni e dei ritardi nella fornitura delle molte migliaia di q.li di perfosfato, necessario alle semine autunnali, arrivai alle dimissioni, rientrate poi per l’intercessione di amici. Nelle azioni amministrative, contrattuali e legali ero assistito da un avvocato di Catania, Nicola Spadaccini, buon conoscitore dell’ambiente imprenditoriale e commerciale della Sicilia Orientale. L’azione dell’Ente. I cambiamenti nella gestione L’indirizzo, anche per la Ducea, era la stabilizzazione dei contadini-coltivatori e l’instaurazione di contratti più sostenibili da parte di essi, che - 85 -
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avrebbero potuto favorire la trasformazione dei terreni ed il miglioramento della produzione. Ciò doveva ottenersi, in primo luogo, con l’appoderamento e la costruzione di case coloniche sui poderi. Il mio primo compito fu quello di conoscere l’Azienda e mi ci volle qualche settimana, uscendo di buon mattino, a cavallo, assieme col fattore, e ritornando nelle ore meridiane – era pieno inverno – per dedicarmi al lavoro di ufficio. Io montavo la cavalla Nina, robusta, veloce e dal piede sicuro; il fattore montava il più nevrilico Polifemo, o un baio più tranquillo. Dopo le ricognizioni e dopo le riunioni coi contadini, ai quali si comunicarono le nostre intenzioni, accolte con l’indifferenza atavica e lo scetticismo dovuti alla lunga sofferenza, ci impegnammo nella ubicazione di un primo lotto di case coloniche, subito appaltate dall’Ente e realizzate in quegli anni. Una seconda preoccupazione furono – assoluta novità – le anticipazioni: sementi, fertilizzanti, anticrittogamici e, in un secondo tempo, bestiame: le rustiche e produttive vacche modicane, acquistate nella zona sud-orientale dell’isola. Ne distribuimmo alcune centinaia. Comprammo inoltre alcuni trattori di media potenza con i quali dissodammo alcuni terreni incolti ed aiutammo i contadini per le arature. Venne poi la modifica, in senso meno gravoso, dei contratti di terraggeria (fitto) e di metateria e, in ultimo, per valorizzare la zona lavica, a monte della statale, ricca di conche di terra fertile, l’istituzione di un contratto di enfiteusi con facoltà di riscatto, che anche oggi mi sembra un esempio di un rapporto utile e felice. Curammo, inoltre, il miglioramento della vita civile: scuole o prime classi elementari, aperte anche agli adulti – l’analfabetismo era la condizione comune – ambulatorio medico, ostetrica residente, servizio veterinario. Larga attività fu dedicata alle manutenzioni delle masserie, dei fabbricati di servizio e delle poche strade rotabili. Eravamo spronati nel nostro lavoro dalle frequenti visite di Mazzocchi Alemanni, che la sera cenava con noi o con la mia famiglia, al lume delle lampade a petrolio o all’acetilene. Agimmo con la prospettiva di una continuità futura, senza preoccuparci delle sorti della guerra, che pure incombeva col passaggio degli aerei; una
volta uno scontro tra caccia finì col precipitare di un apparecchio alleato e con la morte del pilota, al quale demmo pietosa sepoltura. La disfatta in guerra ci colpì e fu l’epilogo.
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L’epilogo Il 10 luglio del ’43 gli Alleati sbarcarono, pressoché incontrastati, sulla costa meridionale dell’Isola, tra Gela e Licata. Lo stesso giorno Randazzo, che era considerato un importante nodo stradale sulla via del Continente, fu bombardata più volte; nei giorni seguenti venne ridotta ad un ammasso di macerie non più alte di qualche metro e disseminato di cadaveri abbandonati di bestiame e di uomini. Nelle prime ore di quel giorno dovetti andare lì in banca e mi salvai per miracolo. Eravamo in piena trebbiatura ed i militari premevano per aver grano ed altri alimenti. L’avanzata alleata fu rapida e fu fermata solo dalla Divisione Tedesca Sicilien alle falde ed attorno l’Etna: dalla Piana alle porte di Catania, lungo il Simeto, fino a Cesarò, sulla strada Cesarò S. Agata di Militello. Contribuì al temporaneo arresto dell’avanzata, nella Piana, un’epidemia malarica, forse imprevista. L’anno prima, previdentemente, i tedeschi avevano inviato in Sicilia un gruppo militarizzato di biologi e di medici, che si erano fermati alcuni giorni proprio alla Ducea, consumando, tra l’altro, le nostre non abbondanti provviste di cibi freschi. In quei giorni, oltre l’artiglieria che sparava da Cesarò, la Ducea fu oggetto dei bombardamenti e dei mitragliamenti degli aerei alleati; fu risparmiato il Castello, forse per cognizione della sua proprietà; non furono risparmiate, invece alcune masserie, come S. Andrea, nella quale perdette l’intera famiglia Bianca, il campiere. Avemmo in totale quattordici - quindici morti, l’ultimo un ragazzo saltato su di una mina tedesca, al mio fianco, mentre tentavamo rientrare al Castello, lasciato dalle truppe germaniche che lo avevano occupato, impedendoci del tutto l’ingresso. Di giorno e di notte si lavorava con le trebbie; di notte venivano i camion dell’esercito a ritirare il grano. I micidiali lightining, a doppia coda, spazzavano e mitragliavano le strade. Arrestavano il mitragliamento a cento metri dalla trebbia e lo riprendevano cento metri dopo. Omaggio, forse, alla fame
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del popolo. I bombardamenti, anche quelli aerei, si intensificarono. Ritenemmo, allora, prudente ricoverarci tra i boschi in un vecchio caseggiato, nel quale si sistemarono, su stuoie o su materassi, i circa quattordici ospiti di Catania e di Taormina. Per noi i carbonai costruirono una capanna di rami d’albero e fascine, ricoperta, per impermeabilizzarla dalla pioggia, di sterco di vacca. Marinella soffriva molto di crosta lattea ed Adriana ne era afflitta. Io uscivo all’alba per scendere a cavallo in Azienda e ne ritornavo a sera avanzata. Una notte fui svegliato da rumori nel vicino fabbricato. Spadaccini, l’avvocato, che soffriva di una disarticolazione del braccio, aveva subito una fuoriuscita dell’arto e non riusciva a rimetterlo a posto con grande dolore fisico. Sellai la cavalla e scesi al Castello, occupato dai tedeschi. Trovai un giovane ufficiale medico austriaco che salì a cavallo con me e mise a posto il braccio a Spadaccini. Qualche sera ci allietavamo cantando, spesso con nenie siciliane. Una notte di plenilunio, verso la fine di luglio, una libellula, monoala da ricognizione alleata, mi dette la caccia. Correvo con la mia 500 e mi nascondevo in una zona di ombra, sotto gli alberi. Quella girava attorno, aspettava, poi riprendeva il mitragliamento. Sulla strada per Otaiti scoperta, abbandonai la macchina e procedetti in salita a piedi. Allora se ne andò. Adriana, mia moglie, dal parapetto di Otaiti seguiva, atterrita, la scena. Ai primi di agosto arrivarono, finalmente, gli alleati: erano americani, allegri ed amichevoli; si infilarono nel Castello e scoprirono il magazzino del cognac. Finì in un battibaleno. Ad essi cercai di spiegare che l’Azienda era inglese e che avrebbero fatto bene a riprendersela. Non gliene importava niente. Convissero, felicemente per loro, con noi più di una settimana. Salvo l’asportazione prima del cognac, poi del vino, non ci dettero alcun fastidio. Il brutto venne dopo. Un pomeriggio entrò nel cortile una jeep, con due alti ufficiali inglesi; non ho mai capito se uno di essi era proprio il generale Alexander, Town-major anche di Catania. Ci presentammo, io, il Vice Direttore Turi Caliri e l’Avv. Spadaccini. Fummo investiti da una foga di contestazioni e di ordini. Ci fecero salire sulla jeep e ci portarono al carcere di Bronte. L’accusa era di essere fascisti e la prospettiva era di essere spediti nei campi di concentramento in Algeria.
Il carceriere ci conosceva e gli sembrò impossibile metterci in cella. Aveva comprato allora una camera matrimoniale; il letto era ancora avvolto nel cellofan. Ci sistemò lì e non chiuse nemmeno la porta. Dormimmo in tre nel letto matrimoniale. La mattina fummo chiamati alla sede dell’AMGOT. Un gruppo di contadini, guidati da Maria, una cameriera che parlava l’inglese perché era stata in America, era venuta a testimoniare in nostro favore: non fascisti ma persone per bene, anzi benefattori. L’ordine fu: liberi, ma abbandonare subito l’Azienda e non rimetterci piede. Tornammo a Maniace: Mario aveva già provveduto a mettere in viaggio le nostre famiglie e gli ospiti che avevamo. I carretti erano già sulla strada di Taormina. A noi furono forniti i cavalli. A metà giornata raggiungemmo la teoria dei carretti, che procedevano assieme coi mezzi alleati verso la costa orientale. Non fu facile entrare a Taormina: la città è contornata da mura e – mi pare – vi siano soltanto due porte; quella orientale, che guarda la costa era come l’altra – chiusa e presidiata di militari inglesi, che ne impedivano l’ingresso. Vi era, tuttavia, una porticina privata, attraverso la quale raggiungemmo, coi numerosi ospiti, la casa del Dott. Ribaudo. Ci fermammo lì qualche giorno e poi ci trasferimmo in una villetta fuori l’abitato, affittata dalla famiglia dell’Avv. Spadaccini. Parcheggiammo in questa poco più di un mese, in una difficile ospitalità per entrambi i nuclei familiari, a causa delle difficoltà alimentari e del poco spazio. Poi ci trasferimmo a Catania in una casetta monofamiliare, piccola, in prossimità del tondo Gioeni. Il prefetto di Catania aveva, intanto non so con quali poteri e con quali motivazioni, provveduto ad annullare il decreto di espropriazione a favore dell’Ente ed a restituire la Ducea ai legittimi proprietari.
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Quel che non avremmo dovuto fare A metà del ’42 – se non ricordo male – ebbi l’ordine, provocato da qualche zelante pseudo patriota, di togliere dal cortile la croce dedicata a Nelson e di spezzarla. La rimossi soltanto e la adagiai lungo una parete del cortile, dove è rimasta intatta, fino alla sua ricollocazione. Mi pesarono molto i disboscamenti ordinati dalla Forestale. Non vi erano carburanti e legna e carbone erano molto richiesti. Il buon Mineo,
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attivo e intelligente boscaiolo, risparmiò, per mia raccomandazione, molti esemplari di roveri e di faggi più belli e molte matricine. Non riuscii, invece, a salvare le belle secolari querce in un’area incolta vicino a Boschetto Vigne. E subii la vendetta. Una mattina, mentre ero lì a cavallo con Zanini, al quale avevo ceduto la mia Nina ed io montavo Polifemo, una mina, adoperata per spaccare un tronco, scoppiò. I cavalli si imbizzarrirono; Zanini fu disarcionato ma rimase impigliato con un piede nella staffa; io scesi da cavallo, presi le briglie di Nina e liberai Zanini. Con l’altra mano tenevo le briglie di Polifemo, che mi scivolarono dalla mano, tanto da consentirgli di girarsi e di tirarmi un calcio. Mi prese sulla fronte di striscio, ma non mi evitò una commozione cerebrale; stetti qualche giorno nell’Ospedale di Bronte, ben assistito e visitato anche dal primario chirurgo di Catania il poi famoso Prof. Dogliotti. Non ho altri rimorsi, ma solo ragioni di amicizia e nostalgia. Nel 1942, fu deciso, in alto, di erigere un borgo rurale, dotato di tutti i servizi civili, nelle immediate prossimità del Castello e di intitolarlo a Francesco Caracciolo. Quando, nell’agosto ’43 lasciai l’azienda, la costruzione era a buon punto nelle strutture murarie in pietra lavica, grazie alla sollecitudine di una grande impresa: la “Castelli”. Gli inglesi non hanno tollerato questa offesa alla memoria di Nelson. Le murature sono state demolite, ma, solide come erano, ne sono rimaste le tracce. La famiglia – Gli ospiti Adriana, mia moglie, venne a Maniace poco prima del Natale del ’40: avevamo Franca, la primogenita, di non ancora due mesi. Due anni e quattro mesi dopo nacque Marinella; nell’imminenza del parto Adriana si trasferì a Catania, presso gli amici Stanganelli; ma, pochi giorni dopo, vi fu, sulla città, il primo terrificante bombardamento delle fortezze volanti. Appena ne ebbi notizia, a Maniace, cercai di andarla a prendere con l’auto guidata da me e da Luigi. Non fu facile; le strade erano invase da una folla atterrita che scappava dalla città. Come Dio volle, anche noi riprendemmo la via del ritorno ed Adriana fu ricoverata all’Ospedale di Bronte, nella stessa stanza dove ero stato io qualche tempo prima. Lì nacque Marinella, la sera - 90 -
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del 23 aprile, mentre io, tra la sofferenza di Adriana, leggevo “Tsushima”: ero arrivato alla battaglia finale tra russi e giapponesi, vinta da questi ultimi. Quindici giorni dopo Adriana fu nuovamente ricoverata nella stessa stanza e salvata da una emorragia grave, grazie al Dott. Grisley, figlio di un ex amministratore della Ducea. L’importanza della Azienda e la curiosità per la sopravvivenza di un enclave feudale richiamavano molti ospiti, che, malgrado le difficoltà delle strade, ci raggiungevano, fermandosi per lo più a colazione. Li ricevevamo, per l’occasione, nelle stanze di soggiorno e nella sala da pranzo dell’appartamento ducale. Vi furono molti tecnici, un geologo accademico d’Italia, personalità del mondo economico, giornalisti. Un settimanale dell’epoca, forse “Oggi”, pubblicò un servizio illustrato da fotografie. Tra gli ospiti famigliari ci furono Anna Maria, sorella, che era ancora bambina, ed Irma, la sorella di Adriana con i suoi bambini, Luciano e Fiammetta. Tra gli ospiti, ma questo rifugiatosi da noi con la famiglia, vi fu Nicola Stevens, parente del Colonnello che da Londra, la sera alle otto, ci dava per radio le proibitissime notizie sulla guerra, delizia di mio zio Ugo de Cillis e del suo collaboratore, Mario Stanganelli. Quando essi salivano a cavallo fino al ceppo, che segnava in montagna il limite nord dell’Azienda, eseguivano il “saluto al Duca”, sbeffeggiando il duce. A Nicola, a sua moglie ed alla sua bambina assegnammo una vecchia casa colonica, che Mimmi rese graziosa ed accogliente e che Nicola, utilizzò, col forno, per offrirci, qualche volta, le pizze. Il proprietario Ho avuto il piacere di conoscere, verso la fine degli anni ’40, in occasione di un sopralluogo della Commissione per i danni di guerra, il duca di Bridport. Era, forse è, un signore alto, che aveva fatta la guerra in marina nel Pacifico e che, per l’affondamento della propria nave e l’incendio delle acque coperte di carburante aveva riportato la bruciatura totale del cuoio capelluto. Era, quindi calvo; con me fu cortese ed affabile. Ebbe, da una seconda moglie, un figlio, che – credo – lavora in banca. Negli anni sessanta, tutti i terreni della Ducea vennero venduti ai - 91 -
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contadini e buona parte subirono l’espropriazione per le leggi di Riforma agraria. Il Castello fu ceduto alla Regione Siciliana, che lo ha affidato al Comune di Bronte
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Per le mie figlie
L’O.N.C. – LICOLA E IL BASSO VOLTURNO (1944 - 1950)
“La Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendogli di mano gli anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna e li schiera di nuovo in battaglia.” Dal vecchio manoscritto di Manzoni
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L’O.N.C. - Licola e il Basso Volturno
Questa “Historia” è scritta dopo circa sessant’anni, nel giugno del 2001, senza l’aiuto, che sarebbe stato provvidenziale, di Mamma, che non c’è più. La casa del Tondo Gioeni, a Catania, ci ospitò dal settembre del ’43 a metà aprile del ’44; il mite autunno-inverno della Sicilia ci consentiva di aggiungere alle due stanze interne, un piacevole soggiorno sulla terrazzina antistante l’ingresso, sopra i pochi scalini di accesso. Furono però mesi difficili per la scarsezza di viveri e per le difficoltà finanziarie. Salvo il pesce e gli agrumi, che abbondavano al mercato, non vi erano pane, pasta, grassi e tutto ciò che poteva costituire un’alimentazione regolare. Da Maniace mi mandarono un po’di farina con la quale confezionavamo una specie di pane, che poi cuocevamo con mezzi di fortuna, ed una ridotta pasta di casa. Mamma, come sempre, fu bravissima anche in questi frangenti e non ci fece pesare le difficoltà. Andava al mercato nel centro di Catania e si portava da sé la roba trovata, a piedi lungo l’interminabile salita, poiché la linea tranviaria, bombardata, non funzionava. Marinella migliorò con la crosta lattea che l’affliggeva nei primi mesi e Franca, la bambina “teorica”, cresceva tranquilla. Io rappresentavo l’Ente del Latifondo a Catania, ma il mio ufficio era più che mai deserto. I rapporti coi grandi proprietari terrieri, che erano stati obbligati dalla legge del Latifondo a costruire le case coloniche, rimaste poi inabitate, erano pessimi. Ricordo una mortificazione alla quale fui sottoposto da uno di essi, un cero Misterbianco – mi pare – che mi invitò ad un sopralluogo per non so quale constatazione in quel di Lentini: vi andammo con una scassatissima “500” nella quale negli unici due posti anteriori si collocarono lui e il figlio, racchiudendo me rannicchiato nel cassoncino posteriore. L’immutato stipendio, che a Maniace mi sovrabbondava quasi tutto, si era ridotto come potere d’acquisto a causa della galoppante continua inflazione. I pochi risparmi che avevo investito in buoni del tesoro, a parte l’impossibilità di averli disponibili, perché trasferiti in Alta Italia, si erano ridotti ad un valore reale pressoché uguale a zero: di fatto li ho del tutto perduti. Anche per queste esigenze, ma soprattutto per vedere i miei, intraprendemmo con Luigi Pironti, assistente di mio zio Ugo de Cillis, un viaggio a Napoli. Era gennaio o febbraio, ed ancora le linee ferroviarie erano per lunghi tratti interrotte. Da Catania si arrivava a Messina con mezzi di fortuna: - 95 -
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L’O.N.C. - Licola e il Basso Volturno
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traballanti camioncini, qualche scassatissima automobile. Si attraversava lo stretto con piccoli ferry-boat o “carrette” di mare, si proseguiva in treno, spesso ammucchiati sulle predelle esterne, fino a Gioia Tauro; si attraversava a piedi il fiume Petrace e si riprendeva il treno, nelle stesse condizioni o anche peggiori, a causa della invasione di contrabbandieri di alimentari, fino alle porte di Salerno. Lunga nottata, poi alle prime luci dell’alba, si cercava un posto sui soliti mezzi di fortuna e si arrivava, dopo qualche interruzione dovuta ai guasti dei mezzi, a metà giornata a Napoli. Trovai in buone condizioni i miei ed i genitori di Adriana, che furono tutti, lietissimi di rivedermi e di avere dirette notizie. In quei giorni vi fu un bombardamento tedesco su Napoli; l’unico; crollò un palazzo in cima a via Bausan. Tornammo a Catania con una valigia di medicine, che ci fruttò per entrambi – se non ricordo male – circa quarantamila lire. A Catania ci furono affettuosamente vicini Giovanna e Mario Stanganelli, anche egli assistente di mio zio, che avevano le loro tre bambine affidate alla nonna Lo Faro a Villa S. Giovanni. Essi ci introdussero nel cerchio dei loro simpatici amici, due o tre coppie tra cui i Guzzardi, e Vitaliano Brancati, allora credo ancora trentenne, collaboratore di un giornale satirico locale, non ancora lanciato, come dopo qualche anno avvenne, nel campo letterario. In quei mesi, avendo trascorso qualche giorno a Borgo Lupo, con Tonino Bazzucchi che, reduce dalla Libia, avevo fatto assumere all’Ente del Latifondo, come Direttore d’azienda, mi ammalai di tifo “murino”, una non frequente malattia trasmessa dalle pulci dei topi e fui ben curato dai clinici di Catania, che descrissero poi il caso. Mamma fu anche in quell’occasione accuratissima, isolandomi – se non ricordo male – in casa di zio Ugo, nella camera appartata degli ospiti, per non mettere in pericolo le bambine. Arrivammo così ad aprile, quando mio padre, che aveva ricevuto stima dagli ufficiali inglesi ed americani dell’AMGOT, mi comunicò che avrei potuto assumere la direzione dell’Azienda Agraria di Licola, settecento ettari di proprietà dell’Opera Nazionale per i Combattenti, commissariata ed affidata all’ex Provveditore alle O.O.P.P. della Campania, ingegnere Cuomo. Comunicai la decisione di lasciare l’Ente al Prof. Prestianni, un economista di grande competenza e conoscitore quant’altri mai dell’agricoltura isolana
che era stato investito della responsabilità di Commissario dell’Ente. Prestianni se ne dispiacque molto e fece di tutto per trattenermi, fino a promettermi la direzione dell’Ente. Ma l’avvenire non era chiaro, il lavoro non soddisfacente e la decisione di tornare “in patria” era ormai presa. Organizzammo così il viaggio per Napoli: da Catania a Messina in auto, se non ricordo male, procuratami da Irrera di Taormina. L’attraversamento dello stretto fu drammatico: il mare passava sopra la coperta del ferry-boat e dovemmo mettere in salvo almeno le bambine e le valigie. Sbarcammo a Reggio Calabria, dove avevamo appuntamento con una macchina inviataci da papà. Pernottammo in una camera ammobiliata, poiché non vi erano alberghi; appena messe a letto le bambine ci accorgemmo di una invasione di cimici. Legammo i quattro lembi del lenzuolo a quattro sedie e vi mettemmo le piccole; noi passammo la notte seduti. Intraprendemmo il viaggio in auto per Napoli; ma le strade erano tali che in una giornata si arrivava a mala pena a Castrovillari. Qui si ripeté, a causa delle cimici, la stessa Vicenda di Reggio. Come Dio volle arrivammo a Napoli alla fine della seconda giornata di viaggio e fummo ospitati a casa dei miei, nella quale, a quell’epoca, vi erano ancora i ragazzi, Annamaria, Alfonso ed Emanuele. Il primo maggio del ’44 assunsi la direzione dell’Azienda Agraria di Licola. L’abitazione del Direttore era ancora occupata – e lo fu fino all’autunno – dal Direttore uscente, Dott. Crostarosa che andava in pensione. Trovammo, quindi – era estate – un’abitazione sul corso principale di Bacoli, all’inizio di una stradina che scendeva rapidamente alla spiaggia. Avevamo fatto amicizia con Anna ed Ettore Marzano, proprietari nel basso giulianese. Vivevano in una bella casa a Giuliano e villeggiavano anche loro a Bacoli. Avevano dei bambini dell’età delle nostre figlie; con uno di loro, Presidente di una grande organizzazione di produttori ortofrutticoli, ho anche oggi rapporti. Anna ed Adriana passavano coi bambini lunghe ore alla spiaggia ed erano lì corteggiate da un nucleo di ufficiali francesi, delle truppe di colore stanziate nella zona, invero molto corretti ed educati. Io venivo prelevato, nelle primissime ore del mattino, da un carrozzino proveniente da Licola e guidato da Biagio Insignito, che fu il mio conduttore in quegli anni.
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La direzione dell’azienda mi impegnò molto ed ebbi piena ed utile collaborazione dal fattore Ernegeno Mattei, dal contabile Mazzitelli, dal “capoccia” (sorveglianza del bestiame in consegna ai mezzadri). La struttura era per dimensione ben diversa da quella di Maniace, ma la conduzione delle ventisette mezzadrie, per di più con le rivendicazioni di quell’epoca, nella quale si inserì, subito dopo la liberazione di Roma, il “lodo De Gasperi” che modificò i riparti ed introdusse nuovi obblighi per la proprietà, era molto onerosa. I mezzadri erano per metà veneti (Marchetti, la famiglia di Lina, Barison, Bondesan, Creuso) e per metà napoletani (Coppola, Di Francia). Vi era anche un marchigiano, Goretti, il fratello della ragazza della quale si procedeva in quegli anni alla beatificazione ed alla quale è stata intitolata la Chiesa sorta anni dopo nel Borgo di Licola. Sopravvenne, dalla prigionia di guerra, mesi dopo, il ragioniere Tartaglia che aveva a Licola la mamma e la sorella Wanda ed a Napoli l’altra sorella Bianca, sposata con Armando Canape, genitori di due bambine, Loredana e Giovannella, che vissero la loro infanzia con le mie e che ancora sono oggi amiche di Marinella. Quando nell’autunno ci trasferimmo finalmente nella casa di Licola, avemmo l’aiuto di un nucleo di bravissime e belle ragazze venete: Lina, Armida, che poi andò da Laura Giordano, Gemma, Oneglia, la più graziosa di tutte. Le famiglie coloniche, che non potevano, come noi, rifornirsi di viveri e di altri generi di prima necessità a Pozzuoli o a Napoli, facevano la loro spesa in una modesta baracca, parte in muratura e parte in legno, che Salvatore Trinchillo, di Qualiano, aveva dall’inizio della bonifica impiantata nel centro di Licola. Salvatore era un gran lavoratore ed aveva, oltre la moglie attivissima che lo aiutava, quattro figli maschi, allora ragazzi, ed una figlia femmina, Carmelina. I coloni non apprezzavano affatto il suo ruolo di monopolista delle loro forniture, ma bisognava riconoscere che egli soddisfaceva tutte le loro esigenze. Per migliorare le sue condizioni di lavoro, ottenni dall’Opera che gli si vendesse l’area della baracca ed un pezzo di terra circostante. Col tempo sono sorti una decorosa bottega, un ristorante ed un piccolo albergo ed i figli, o solo alcuni di essi, hanno continuato l’attività del padre. Quell’inverno del ’44-’45 l’idrovora, minata dai tedeschi, era ancora in
ricostruzione ed ai lavori presiedeva l’ingegnere Aiudi, che aveva il proprio ufficio a S.Maria C.V. ed aveva sul posto un proprio geometra, che – richiamato per il proprio scarso lavoro – dichiarava che egli prestava la sua opera in proporzione al suo scarso stipendio. In tutta la zona settentrionale dell’Azienda si era riformato il lago e a mala pena si accedeva alle case coloniche, poste lungo la strada di bonifica, che è poi diventata la Domiziana. La parte, dal centro di Licola verso Cuma, sabbiosa e molto meno fertile dell’altra era l’unica coltivata, pur con difficoltà di sgrondo delle acque, il cui collettore versava a mare sottopassando in galleria il cordone dunale. Nel lago impiantammo alcune botti per la caccia alle anatre. Ci si andava prima dell’alba, infilandoci dentro le botti col cane e sfidando il gelo – l’acqua aveva straterelli di ghiaccio in superficie – con una bottiglietta di cognac. Ponevamo gli “stampi” o addirittura le anatre catturate vive come richiami. Quando si sparava il cane saltava fuori della botte e riportava a nuoto la preda. Chiesero di unirsi a noi, la domenica, alcuni ufficiali di marina della base di Napoli, che poi venivano a rifocillarsi a casa, bagnandoci con le loro tute inzuppate, tutti i pavimenti. Ma Adriana era contenta di vedere un po’di gente ed era sempre ospitale. Rimontano a quell’inverno, e poi all’estate seguente, le visite dei nostri parenti ed amici di Napoli: Laura, Bianca entrambe nel fiore degli anni, con il rispettivo marito o fidanzato ancora prigionieri in Germania, Renato, ancora scapolo, Elena e Marcello. Li mandavo a prendere alla stazione della Cumana al Fusaro con una piccola diligenza che era stata un’ambulanza militare, trainata da un cavallo o da un mulo e guidata da Giuseppe, l’uomo che si incaricava giornalmente della spesa a Pozzuoli. Più tardi disponemmo di un mezzo inglese per il trasporto di soldati, comprato dall’ARAR, col pianale e la guida molto alti, ai quali si accedeva con alcuni scalini. Gli ospiti erano sempre piacevoli ed allegri: primeggiava, naturalmente, Renato, pieno di spirito ed ancora più umorista ed allegro quando beveva. I pranzi, grazie ad Adriana, erano luculliani, dopo si dormiva in casa o sulla spiaggia fino all’ora del ritorno in città. Adriana non era soltanto l’attrazione degli ospiti. La sua comunicativa,
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la sua grazia, la sua facilità di stringere con chiunque ed in ogni strato sociale rapporti, le procuravano simpatia ed amicizia in tutte le famiglie dei coloni e degli impiegati. Organizzava riunioni, giochi come le corse nei sacchi, o l’albero della cuccagna, balli all’aperto. La domenica suonava il piccolo organo della cappelletta nella quale si svolgeva la messa. Tutti la cercavano e l’amavano: era veramente la regina di Licola. Le bambine, intanto, crescevano in piena libertà: non andavano ancora a scuola; Franca, se non ricordo male, ci andrà l’anno dopo ’45-’46, anticipando di un anno l’età prescritta; Marinella ci andrà qualche anno successivo. La maestra era la brava Teresa Schisa il cui ricordo ci ha seguito per decenni. A metà giugno 2001 la Schisa ha compiuto 100 anni. Marinella, è noto, si era specializzata nell’acchiappare con in cappio di loglio le lucertole, che poi conservava in vasetti di argilla capovolti nel grande atrio della scala che portava alla nostra casa del primo piano. Franca imparava da mamma tante graziose poesie. Con Egidio Garbuccio, figlio di un colono veneto, assunto come meccanico-autista, avevamo trasformato una vecchia “1100” a carbonella in un’auto prima a gas poi a benzina. Alla vigilia del Natale del”44, dal mio primo e provvisorio ufficio, avevo sentito, dietro una porta che mi separava dalla loro abitazione, i gemiti di Antonietta che dava alla luce la primogenita Natalia, ed i suoi primi vagiti. Nella ricostruzione post guerra una particolare attività fu svolta per la ricostruzione del bosco di cerri, carpini, pioppi e macchia mediterranea che copriva la fascia dunale antistante il litorale, completamente distrutta dalla lunga permanenza in essa delle truppe e dei mezzi alleati. I lavori (riceppatura, pulizia del materiale degradato, piantagione di giovani essenze) furono affidati a Biagio Lubrano, da Monte di Procida, instancabile ed accurato imprenditore, che operò anche parzialmente nel bosco di Astroni, anch’esso diretto da me e che era stato a lungo accampamento alleato. Lubrano negli anni successivi al ’50 sposò Wanda, sorella di Tartaglia, e divenne membro della comunità di Licola. Dopo lo sfondamento di Cassino ci eravamo congiunti con Roma e l’O.N.C., della quale era commissario il patriota Mira, amico e compagno di azione di Parri, riprese possesso, non senza alcune difficoltà create dal
Governo Alleato, delle sue grandi proprietà, tra le quali Licola. Si distinguevano allora le Aziende patrimoniali, quelle donate alla fine della prima Guerra Mondiale dalla Corona ed appartenute, a suo tempo, alle case regnanti – i Lorena, i Borbone, i Parma, la Curia Romana e gli stessi Savoia, per acquisizioni dagli Asburgo, e quelle in concessione dallo Stato per la costituzione di proprietà contadine: alla prime appartenevano appunto Licola, col vicino cratere boschivo di Astroni, l’Alberese nel grossetano, che fu diretta da Tonino Bazzucchi, da me accreditato presso l’O.N.C. e che per i suoi cinquemila ettari era la più grande di tutte, Coltano, in provincia di Pisa, Stornara e Tara i via di dismissione e varie altre più piccole. Alle seconde appartenevano, allora, i complessi del Tavoliere (20.000 ettari circa) e del Basso Volturno (11.000 ettari). Entrare in una Organizzazione di così grandi tradizioni non era certo facile e, agli inizi, infatti, notai una certa diffidenza. Ma il buon andamento di Licola convinse subito Mira, il Direttore generale Di Pietro, il capo del personale Bertoncini e tutta la vecchia guardia che si poteva contare su di me. Non solo ebbi la conferma della direzione di Licola, ma qualche mese dopo, mi affidarono anche la direzione del Vicana (circa 2.500 ettari) del complesso in concessione del Basso Volturno. Ci andavo ogni mattina in calesse guidato da Biagio Insignito. D’inverno, mal coperti con un plaid, eravamo tormentati dal freddo. Nella strada provinciale vi erano buche tali che in un pomeriggio vi si infilò il cavallo che ci trainava. L’altro accesso era dalla foce del lago Patria, lungo il litorale, su quella che poi è diventata la Domitiana. Tutto il litorale era però chiuso ed occupato da truppe alleate. Ci accorgemmo che, ciò malgrado, si poteva passare regalando un fiasco di vino alla sentinella, in genere un soldato negro americano. Alla Vicana vi erano molti assegnatari di poderi romagnoli: brava gente, laboriosa ed in stato di difesa dai locali, che avevano in parte ripreso possesso dei loro appezzamenti di terra espropriati e non pagati. Da una famiglia romagnola antistante l’ufficio prendevo il pasto di Mezzogiorno; una delle loro figlie, Isolina, venne poi ad aiutarci a casa a Licola. Qualche mese dopo fui promosso Ispettore ed incaricato della supervisione delle altre due aziende del Basso Volturno: la Sinistra, dove era
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Direttore Petz, e la Destra, diretta da Renato Salvadori, per un complesso di circa 8.500 ettari. A Licola, dove mi ero portato come segretario Visalli, che era stato con me a Maniace e che intanto si era sposato ed aveva un bambino, Totuccio, mi inviarono in aiuto Oliviero Petz, dalmata di Zara, con moglie e sei magnifici ragazzi che divennero amici delle mie bambine: Larry, Maia, Minna, Cicci, Federico e Bobo. Fu quella l’epoca delle poesie che meglio di ogni altro racconto ricordano la nostra vita di Licola: “Zia Lori”, la sorella di Petz, “La casa della marina” ed altre. Mi assegnarono anche tre “tirocinanti”: due dottori in agraria, Baldelli ed Ingravalle, ed un perito agrario molisano. Nella primavera del ’44 fu ripristinata l’idrovora; il lago fu nuovamente prosciugato ed i mezzadri ripresero la loro attività nella zona migliore dell’Azienda. I vomeri degli aratri trainati dal trattore tagliavano le anguille che si erano introdotte nel lago. Cominciarono anche in quegli anni di fine decennio ’40 i lavori della nuova strada Domitiana, che ci rese più facile le comunicazioni con Napoli. Utilizzando una linea telefonica che terminava alla Casa della Marina sul litorale, riuscimmo ad avere perfino un collegamento telefonico in ufficio; ed ottenemmo anche l’uso della Casa della Marina, nella quale a pian terreno collocammo il guardiano Tosolini, ed al primo piano Mazzitelli con la sua famiglia. Avevamo anche fuori dell’azienda alcune buone amicizie, tra le quali quella del Comandante Micillo e quella delle sorelle Strigari, appartenenti alla migliore borghesia napoletana e conduttrici, come Micillo, di bellissimi frutteti a Monterusciello (dove oggi, purtroppo, esiste quell’orribile borgo eretto per gli sfollati di Pozzuoli). Andavamo spesso a colazione dalle Strigari ed esse venivano da noi. Alcuni proprietari vicini, ma non residenti, passavano da Licola e si fermavano con me: tra essi, i compianti Mario Chiaiese e Calvanese, il papà di Loretta. Votammo due volte: nel ’46 per la Costituente e nel ’48 per la Repubblica. La prima volta sapemmo che se avessero vinto i comunisti, gli operai delle officine ferroviarie di Pozzuoli avrebbero invaso Licola, ritenuta reazionaria, e ci avrebbero fatto fuori. La seconda volta votammo, a larga maggioranza nel nostro seggio della scuola elementare, per la Monarchia.
Le bambine cominciarono a frequentare la scuola: Franca, credo, per quattro anni, Marinella, mi pare, per uno solo. Con il ritorno a Portici di Manlio Rossi-Doria, cominciai a frequentare le sue riunioni, molto prima che si stabilizzassero i seminari periodici e si costituisse il Centro di Ricerche economiche, che sorse ufficialmente, se non sbaglio, nel ’57, quando io ero al Consorzio di bonifica del Basso Volturno. Nell’estate del ’49 Manlio Rossi-Doria mi invitò ad aiutarlo a preparare la Riforma Agraria. Passai alcuni mesi con lui nel modestissimo Albergo Reale di Crotone a preparare gli elenchi delle grandi proprietà fondiarie, in Calabria e fuori, su dati che ci forniva l’ufficio tecnico-erariale di Roma. Contrassi, a causa delle mosche che impazzavano tra le toilettes ed il ristorante di fronte nell’albergo Bologna dove prendevamo i pasti, questa volta un vero tifo. Tornai a Napoli e fui curato amorevolmente in casa dei miei, da mia madre e da Angelo, mio fratello, che mi praticò la chemiocetina, appena allora disponibile. Guarii e tornai in Calabria. Il mio compito era ormai segnato: l’Opera Valorizzazione Sila si preparava ad attuare la Riforma Agraria in Calabria. Fui invitato da Segni, Ministro dell’Agricoltura, ad assumerne la direzione. Esitai, ma due telegrammi di Segni a mio padre, che dirigeva l’Ispettorato agrario compartimentale della Campania, mi convinsero che non era possibile non aderire all’invito. Lasciai l’O.N.C. senza liquidazione, poiché allora non era concessa ai dimissionari, e mi trasferii, senza la famiglia, negli alberghi di Crotone, di Catanzaro e di Cosenza. Adriana e le figliolette si distribuirono tra la sua casa paterna, Franca con Adriana a via Bausan, Marinella con i miei al Vomero.
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La sicurezza nel basso Volturno Si dice che, sin dai tempi di Roma antica, il territorio, periferico come era, era infestato dal brigantaggio e Roma vi avesse destinato, per reprimerlo, una Centuria. Quando, nella primavera del’45, acquistata dall’ARAR e messa in funzione una jeep americana, andavo con questo mezzo e da solo da Licola alla Vicana, i Carabinieri de “La Riccia”, nel comune di Cancello-Arnone, mi dettero di loro iniziativa, una mitraglietta che avrebbe dovuto difendermi da aggressioni, se mai avessi avuto il tempo di estrarla dal sedile della jeep.
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Quell’autunno-inverno quasi tutte le case coloniche, dove veneti e romagnoli, inviati improvvidamente nella zona dal Commissariato per le Migrazioni interne del Regime Fascista, conservavano ancora fedelmente il bestiame, dato loro in consegna dall’Opera, erano state assaltate e depredate degli animali. Oltre trecento capi erano stati, così, asportati e tre o quattro coloni avevano perso, negli assalti, la vita. Con una tecnica efficiente e ripetuta, tre lati della casa colonica erano assediati dal fuoco delle armi; il lato della stalla era risparmiato, per aprire la porta, far uscire gli animali e caricarli mediante uno scivolo sul truck dei banditi. Questi erano locali ed avevano assunto la denominazione delle Armate Alleate: la V Armata a Casal di Principe, l’VIII Armata a Grazzanise. I mezzi e la logistica erano offerti dai militari americani, disertori temporanei dei reparti. La situazione era tale che sfuggiva completamente alle possibilità repressive delle forze dell’ordine: i C.C. de “La Riccia”, tre più il sottufficiale, avevano l’ordine di non uscire dalla casermetta prima dell’alba e di rientrarvi al tramonto. In una riunione col Prefetto di Napoli, espressione ancora del C.N.L., il buon Selvaggi, si concluse che ci si doveva difendere da noi. Ne riferii all’O.N.C. di Roma ed ebbi l’autorizzazione ad agire come meglio avessi ritrenuto. Venni allora in contatto col capo della V Armata, D.B., che mi parve animato delle migliori intenzioni. Venimmo ad un accordo secondo il quale l’O.N.C. avrebbe pagato mensilmente una somma per la prestazione di una decina di guardiani avventizi straordinari, che, naturalmente, io non ebbi mai la possibilità di conoscere, contro un pagamento di L. 300.000 mensili. A me, personalmente, fu attribuita la guardiania di Paolo D.B., fratello del capo: un uomo di ottima indole, grande e grosso, attivo e servizievole, che sorvegliava le adiacenze dell’ufficio e dei magazzini. L’accordo dovette essere sancito da un pranzo, al quale parteciparono una ventina di esponenti del clan, durante il quale si celebrò il rito della “iassatella”: un capo comandava di bere e si doveva farlo, pena l’epiteto di
traditore; qualcuno, in aura di non obbedienza, era saltato nell’ordine di bere ed era guardato con diffidenza dai convitati. La pace durò poco più di un anno; l’VIII Armata reagiva ma, soprattutto a Villa Literno, comune nel quale eravamo, non sopportavano di essere stati estromessi da quelli di Casal di Principe. Una bella mattina il mio successore nella direzione della Vicana, il Dott. Giulio Martire – che guarda il caso era nipote del grande espropriato Visocchi – quando io ero divenuto Ispettore di tutte le Aziende, mi telefonò per dirmi che Paolo D.B. era stato freddato da un colpo di revolver mentre era davanti l’ufficio. L’autore, lo si seppe dopo, era stato un liternese, pseudo partigiano, ampiamente pregiudicato. La guerra riprese ma, per fortuna, ne furono risparmiati i coloni. Io cominciai le mie periodiche peregrinazioni alla Corte di Assise di S. Maria C.V. Intanto i Carabinieri si erano rafforzati e, soprattutto, la Stazione dell’O.N.C. a “La Riccia” era comandata da un maresciallo che atterriva i delinquenti con le botte che sapeva dare senza lasciarne evidenti i segni. Unica efficace cura!
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I piccoli di Licola a zia Lori8 Ardeva il camino nel buio illuminava la nonna e il bambino; ed ella cantava le storie di nani di maghi e di fate. Il fuso girava… Bambini ascoltate: Coro di bambini: No, no! Non vogliamo il mondo con streghe Vogliamo stivali da far sette leghe Di corsa, semmai! E al pieno del sole Tuffarci nel mare con sei capriole. Per questo zia Lori, moderna nonnina, dei bimbi di Licola paziente regina, le folte chiocciate riunisce e trattiene e tutti le vogliono un monte di bene. E quando spossate dal moto e dall’onde Sul ciglio del mare con ella di fronte Sedete, o bambine, perché la guardate Così come anch’Ella dal mondo di fate Venisse? O che forse ritorna la storia invecchiata ma eterna di nonna? Ma tutte le cose sì belle finiscono. Le rose più fresche in breve avvizziscono E un lupo di mare, malgrado i rimandi, Lorette riportava nel mondo dei grandi.
Per le mie figlie
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Zia Lori, sorella di Oliviero Petz, sposata con un capitano di lungo corso (il “lupo di mare”). Risiedevano a Venezia
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Fu nell’estate del ’49 che Manlio Rossi-Doria, in uno dei ricorrenti seminari di Portici, mi propose di dargli una mano per studiare le basi di una Riforma agraria in Calabria. Il primo incontro col piccolissimo nucleo che, accanto al Prof. Vincenzo Caglioti, Presidente dell’Opera per la Valorizzazione della Sila, era impegnato in questa rassegna di propositi, avvenne a Catanzaro: anima di questo gruppo era Silvio Florenzano, un giovane avvocato di grande ingegno e di grande preparazione, calabrese e parente di Caglioti, che in breve si legò a Manlio e al nostro gruppo. La Calabria era squassata dalle occupazioni delle terre. Se non vi fossero stati altri indizi sullo stato della popolazione agricola e sulla patologia della proprietà fondiaria, bastava assistere al divampare di quel fenomeno per rendersi conto di come la situazione non fosse contenibile. Poiché la legge, dovuta al Ministro cosentino, Gullo, aveva cercato di ricondurre in un alveo controllabile le occupazioni, creando commissioni provinciali per la concessione delle terre e per la loro assegnazione alle cooperative, qualcuno di noi aveva cercato di rendersi conto della manovrabilità dello strumento, ma aveva tratto la convinzione della precarietà e della insufficienza di esso. Di Riforma agraria non si parlava se non in termini di genericità, più spesso e nella sinistra di minaccia alla proprietà agricola, senza nessuna enunciazione di mezzi operativi e di programmi. Eppure il dibattito degli anni precedenti, promosso quasi sempre da Manlio ed il manifesto e deciso atteggiamento del Ministro Segni, avevano già dato una traccia. Con Manlio, animato sempre dall’innata necessità del conoscere e del misurare, convenimmo che bisognava procedere su binari razionali di rilevazione della entità e della distribuzione della proprietà fondiaria, da un lato, di determinazione delle condizioni di reddito e di vita dei contadini e del numero di quelli senza terra, dall’altro. Il grande territorio di intervento era il versante jonico, da Trebisacce a Punta Staletti; in esso era manifesta la dominanza di una dimensione e di una economia latifondistica arretrata di un secolo. Si esaltava questa condizione, neppure più economicamente sorretta, nel Marchesato di Crotone, tra pianure fertili e altopiani aridi, tra colline sconfinate e lunghi alvei contorti di fiumare.
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I primi tempi della riforma agraria
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I primi tempi della riforma agraria
Ma l’O.V.S. (era questa la sigla dell’ente) non aveva in quel versante ed in quei centri alcuna sede ed alcun recapito. Lo apprestammo alla meglio in due stanze dell’albergo Reale di Crotone, allora poco più che una locanda. Le altre stanze erano il nostro alloggio. Un altro piccolo ufficio istituimmo a Catanzaro. Bisognava quindi dare un metodo di lavoro; i dati disponibili localmente, ammesso che fossero per noi accessibili, non ci avrebbero dato – quanto alla prima indagine – l’entità della proprietà fondiaria complessiva, comprendente quella fuori dal Comune e dalla Regione. Occorreva acquisire un dato globale per ogni ditta catastale e questo non poteva essere ottenuto se non attraverso la Direzione generale del Catasto. Ne fu interessato il ministro Antonio Segni, che era l’animatore ed il sostenitore di un ideale programma. Non c’erano allora i tabulati elettronici, ma il materiale che pervenne dal Catasto fu ordinato, omogeneo e completo e la disponibilità a fornire chiarimenti ed integrazioni fu eccezionale. Prima dell’inverno avevamo il quadro della proprietà fondiaria in quella fascia della Calabria dalla dimensione massima dei 17.000 ha, ai 3.000 ha, limite al di sotto del quale si addensava la più gran parte della proprietà. L’altra indagine, quella sul livello di vita dei lavoratori, non poteva essere condotta altro che direttamente; e ad essa si dedicò un gruppo di giovani tecnici – agronomi ed economisti – che operò direttamente tra le comunità contadine. Ricordo di essi alcuni, legati successivamente all’opera di trasformazione fondiaria: Berto Facca, Paolo Buri, Gualtiero Fiori, Francesco Feraco. Ben presto ci si rese conto che qualsiasi meccanismo di una legge avrebbe portato a valutare non solo l’estensione, ma lo stato dei terreni che sarebbero stati oggetto della Riforma; all’analisi sociologica ed economica si aggiunse, quindi, quella della situazione fondiaria e agraria, che integrò bene la prima sul piano della conoscenza diretta dell’ambiente fisico ed umano per il quale si doveva intervenire. Di questa fase Manlio fu il protagonista: la consapevolezza, maturata dalla pluriennale osservazione delle Vicende agricole nelle zone più povere del Mezzogiorno, che occorresse un cambiamento radicale, lo portò a tradurre in sistematico lavoro quello che egli aveva pensato e studiato per
anni. Da lui, che sosteneva in ogni decisione Caglioti, derivarono gli schemi di indagine, l’interpretazione, fatta sempre insieme ai collaboratori, delle informazioni e dei dati, lo stimolo ad organizzarsi. Seguirono alcuni mesi tra l’autunno e l’inverno, nei quali egli dovette allontanarsi. I dolorosi fatti di Melissa (ottobre 1949) accelerarono le decisioni governative e l’O.V.S. fu individuata come lo strumento operativo della Riforma. Si cominciò a preparare il disegno di legge e Segni volle Manlio, assieme con Caglioti e Florenzano, accanto a sé. Ricordo che si riunivano nello studio dell’edificio del Ministero dell’Agricoltura che era retrostante l’ufficio del Ministro, i cui mobili – si diceva – erano appartenuti al Gabinetto di Cavour. Il Ministro lasciava ogni tanto la propria stanza e, specialmente di sera, affrontava il testo legislativo, verificava coi suoi interlocutori le formulazioni definitive, poneva i propri quesiti e le proprie preoccupazioni. Entro la fine dell’anno il testo fu completato, approvato dal Consiglio dei Ministri e presentato al Senato. Tornavo a Crotone dopo un mese e mezzo di assenza per un tifo che mi aveva colpito. Trovai due grosse novità: l’ufficializzazione del nostro compito, che non era più possibile dissimulare e che portava, come primo atto, alle espropriazioni; un assetto stabile di uffici a Crotone e a Catanzaro. Ebbi la sensazione, ma la ebbe anche Manlio, che il periodo dell’impegno inventivo fosse finito e che cominciava una fase di organizzato lavoro, nella quale noi che non eravamo “funzionari” non ci saremmo sentiti, come prima, a nostro agio. In attesa della legge, che impiegò per l’approvazione circa cinque mesi, si cominciarono a preparare, appunto, i piani di espropriazione. Il nostro isolamento, nell’ambiente agricolo ed in quello burocratico, divenne più palese e gravoso. Si aggiunse l’avversione politica delle sinistre che osteggiavano quella legge, in una incandescenza sociale che si esasperava sempre più, e la tiepidezza del centro, che si rendeva conto della decisione senza ritorno presa nei confronti di una parte tradizionale dell’elettorato. Tra l’altro Manlio, che era stato comunista, e che aveva pagata cara questa sua fede, non lo era più, e i suoi vecchi compagni, tra i quali eccellevano persone di grande cultura e capacità, esponenti locali del Partito e parlamentari, non lo amavano certo e non perdevano occasione per
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dimostrarlo. Mantenevamo rapporti con amici di studi e di lavoro: più che rapporti erano occasioni di battute sulla nostra posizione difficile. Spesso, per fortuna, fummo al centro di episodi comici, nei quali mal si celava la perplessità degli animi. Ricordo la colazione a casa di un caro indimenticato amico, che aveva un ruolo di attività interferente con la nostra, ma che aveva la chiara percezione di dover essere espropriato. Ci eravamo tutti: Caglioti, Manlio, Florenzano, io. In una pausa della conversazione, la vocina di una bimba, la più grande o la più piccola, sedute a tavola con noi, si levò e chiese al padre se gli ospiti erano quelli stessi di cui in casa si parlava spesso con timore. Fu una risata generale che sanò, quel giorno e dopo, quella riserva mentale di cui tutti eravamo, a torto o a ragione, prigionieri. Il 12 maggio, la legge che portò il n° 230 fu approvata e pubblicata il 20 sulla Gazzetta Ufficiale. Il 30 maggio, essendo stato già predisposto nell’attesa dell’entrata in vigore della legge il primo dei piani di espropriazione, esso fu pubblicato sul Foglio Annunzi Legali della provincia di Catanzaro: comprendeva 16.400 ettari divisi in sei grosse proprietà. Seguirono sollecitamente gli altri piani, fino ad un totale di 76.000 ettari di terre arabili. Cominciarono subito le operazioni della presa di possesso dei fondi espropriati. Il compito era facilitato dalla circostanza che, per la legge empirica, ma saggia, non si potevano espropriare terreni già trasformati e boschi. Era espropriabile solo e tutto il terreno nudo, eccedente i 300 ettari di terre nude. Non avevamo quindi le dolorose incertezze di dover espropriare, quando vi erano altre terre nude, gli oliveti, i vigneti o, addirittura, gli agrumeti, come ebbero talvolta i colleghi degli altri enti di Riforma nelle regioni meridionali e nella Maremma in forza della legge cosiddetta “stralcio”. In piccolo qualche difficoltà di questo tipo avemmo nelle espropriazioni nel territorio di Caulonia che furono compiute poco dopo applicando la legge stralcio, ma la circostanza fu del tutto marginale. Rapide quindi le prese di possesso, ma i pochi tecnici che avevamo (io ero stato intanto, e mio malgrado, dirottato dall’Opera Combattenti a dirigere l’Opera Sila e, quindi, la Riforma) erano allo stremo delle loro forze. Uno di essi, il compianto Balestrieri, impegnato dalle prime luci dell’alba fino a tarda sera a stendere le braccia, dichiarando dinanzi a testimoni o a notai la
formula studiata e dovuta: “prendo possesso dei terreni di in nome dell’Opera Valorizzazione Sila, ecc.”; si addormentava nel nostro alberghetto con questo ritmo nella testa e lo ripeteva nel sonno di notte. Alle acquisizioni dei terreni seguirono nel secondo semestre del ’50 – eravamo in autunno ancora caldo – le prime assegnazioni ai contadini. Vi fu in ottobre S.Severina, e in novembre Melissa. La determinazione delle quote era fatta attraverso una classifica della fertilità dei terreni, che equiparava le singole unità fondiarie. Seguivano le operazioni topografiche, le delimitazioni, il tracciamento delle stradelle di accesso. Il compito più delicato fu quello della preparazione degli elenchi degli aventi diritto alle assegnazioni, eseguita in base a rigidi criteri verificati poi nell’applicazione, dal contributo di commissioni locali, costituite nell’ambito del Comune, con la larga partecipazione degli stessi aspiranti alle terre. Fu anche questa una fase nella quale si concentrò la nostra attenzione sulla massima razionalizzazione delle tecniche di valutazione e sul più rigoroso rispetto dell’equità della distribuzione della terra. Non si poteva del resto non essere impressionati dall’atteggiamento riservato e forse scettico dei contadini dinanzi a questo incredibile ed improvviso mutamento che si voleva dare alle loro condizioni. A Melissa, mentre si procedeva nella piazza principale del paese alle assegnazioni, dinanzi ad una folla di berretti e di scialli silenziosi, sulla cresta della collina di fronte passarono, come ombre contro il cielo, in fila indiana, uomini e donne che nello stesso momento andavano a portare fiori sulla alla stele apposta sul luogo dell’eccidio dell’anno prima. Il palco delle autorità, sul quale, come al solito, tutti si affollavano per mettersi in mostra, istantaneamente si ruppe e molti, senza danno, caddero fra le tavole. Sembrava quasi un segnale di ricordo e di avviso. Nelle stesse circostanze e nella stessa atmosfera incerta e solenne, si era rotto il palco a S.Severina. Colpa della folla o dei carpentieri? Ma oltre alle assegnazioni definitive, che attestavano la coerenza e l’immediatezza dell’azione politica, occorreva provvedere alla gestione della gran massa di terreni che erano venuti in possesso dell’O.V.S. e che alla fine di quell’anno assommavano a circa 30.000 ettari. Si era sotto il periodo delle semine e non c’era tempo di perdere.
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I primi tempi della riforma agraria
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I primi tempi della riforma agraria
Dove era possibile venne confermato il possesso per un altro anno ai coltivatori diretti e, per la parte che sfruttava la fertilità dei rinnovi (fave, prati annuali, maggese lavorato), anche ai conduttori a qualsiasi titolo. Su vaste estensioni, prevalentemente di pianura (circa 3.000 ha), inutilmente tenute a pascolo, e visto che anche il bestiame esistente era stato allontanato, si dette luogo ad assegnazioni provvisorie per sopperire alle richieste dei contadini; in questo caso le terre furono lavorate da un parco trattori e furono fornite anticipazioni di sementi e concimi. L’inizio dell’annata agraria ’50-’51 concluse la fase più difficile del primo impatto della Riforma. Cominciarono altri tempi dedicati all’organizzazione, alla trasformazione dei terreni, alle progressive e rapide assegnazioni definitive; e, purtroppo, alle lotte dall’esterno nelle quali fu coinvolta la giovane struttura dell’ente. Certamente il malcontento serpeggiava e l’agitazione montava tra ampie fasce di cittadini che erano state danneggiate dalla Riforma, perché private dei privilegi e dei benefici che derivavano loro dalla gestione dei latifondi; non certo tra i proprietari, poche centinaia e di scarso seguito, alcuni dimoranti fuori dal territorio; ma tra gli innumerevoli conduttori dei terreni a vario titolo, affittuari, mezzadri, e coloro che contribuivano alla gestione dei fondi: fattori, impiegati, commercianti, fornitori, avvocati. In tutti costoro non vi poteva essere che insofferenza e, talora, ingiustificato rancore. Si aggiungeva a questi stati d’animo la sensazione che l’Ente subisse una involuzione politica ed entrasse nell’orbita dei poteri del partito dominante: la D.C. In verità, proprio agli inizi del mio incarico vi era stato un tentativo di supervisione dell’Ente da parte di quel Partito. Un giovane deputato, il più giovane fra gli eletti, si era presentato, non si capiva bene se per mandato o per propria iniziativa, come inaspettato consigliere politico; aveva chiesto una stanza nell’ufficio della direzione, che non gli era stata data e, ciò malgrado, frequentava assiduamente gli uffici, si informava così di ogni questione e pretendeva di avanzare suggerimenti. Più che Caglioti, che stava a Roma, ero io il destinatario delle sue interferenze. Queste andarono avanti per circa un mese, fin quando si arrivò alla predisposizione del bilancio preventivo; egli era stato uno dei relatori del bilancio dello Stato alla Camera e, perciò, si riteneva un esperto. Sulle sue tesi vi era una forte divergenza e, purtroppo, essa
scoppiò in una accesa discussione durante una colazione all’Albergo Bologna di Crotone. Alla mia ferma posizione, l’Onorevole disse che sarebbe andato a Roma e non sarebbe tornato in Calabria se io non fossi stato rimosso. Infatti non tornò perché Segni, Ministro, glielo impedì. Le difficoltà, tuttavia, non diminuirono: tutto il Consiglio di Amministrazione era composto, salvo un insigne avvocato cosentino repubblicano, da democristiani, compreso fra essi il segretario regionale di quel partito. La presa di possesso dei terreni era la più ostacolata: prima di noi arrivavano ad occuparli le Cooperative rosse, fomentate dal P.C.I. Per comporre in qualche modo la questione il Prefetto di Cosenza, un gentiluomo napoletano, Marfisa, prese l’iniziativa di convocare gli esponenti politici e l’O.V.S., per la quale partecipai io: si venne ad un compromesso per il quale se gli occupanti abusivi avessero proceduto a lavori del terreno, ed a maggior ragione a semine, avrebbero ottenuto il raccolto e noi avremmo atteso quei mesi per introdurci legittimamente e procedere alle assegnazioni. Appena si seppe dell’intesa, tutta la D.C. vi si scagliò contro, accusandoci di tradimento col nemico. I consiglieri democristiani, quindi tutti, salvo il Presidente Caglioti, che condivideva con me la linea di condotta che gli avevo preventivamente sottoposta, ed il repubblicano, si dimisero e cominciò una lunga crisi di poteri. Per azione svolta dall’alto le dimissioni furono ritirate dopo qualche mese, ma era chiaro che si era entrati in un clima di esasperata tensione. Il nostro lavoro, intanto, procedeva intenso; avevamo una nuova e bella sede a Cosenza, ma non eravamo più di 30-35 persone: tra essi cari amici, come Lao Musenga, Gualtiero Fiori, ma anche, tra i bravissimi funzionari, qualche militante comunista, proveniente dalla vecchia O.V.S. Ma ciascuno stava al suo posto e non dava alcun fastidio. Furono intraprese molte iniziative, sia nei riguardi degli assegnatari che ebbero scorte ed anticipazioni in natura, sia nei riguardi dei braccianti, nei centri investiti dalla Riforma, per i quali si istituirono lavori di assetto dei terreni, di rimboschimento e di piantagioni. Anche i compiti di valorizzazione dell’Altopiano Silano, per i quali l’Opera era stata istituita, proseguirono e, nell’inverno ’51-52, grazie a due
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I primi tempi della riforma agraria
spazzaneve di fabbricazione tedesca, subito adoperati ottimamente da conduttori calabresi, si tenne aperto per la prima volta l’accesso all’Altipiano da tutti e due i versanti. Si incentivarono l’apertura di un albergo a Camigliatello e di altri locali di utilità pubblica e si aprirono piste per gli sci. La mia famiglia aveva lasciato Licola e si era trasferita a Napoli, in un attico interno al palazzo di Piazza Amedeo, con l’ingresso dall’ultimo portone di via V. Colonna. Nell’estate del ’51 Adriana con le bambine, Elena e Laura Persico vennero per un mese a Camigliatello. Adriana e le bambine ci restarono fino all’apertura delle scuole e tornarono poi a Napoli. Io continuai per due anni ancora la mia vita di albergo: Cosenza, Catanzaro, Crotone. Spostamenti notturni, d’inverno con una nebbia fitta sulla vecchia strada tutta curve tra Catanzaro e Cosenza. Dopo il relativo rasserenamento della situazione interna al Consiglio, decisi che avrei potuto lasciare. Lo dissi a Caglioti che ne fu molto addolorato. A Segni era subentrato come Ministro dell’agricoltura Fanfani, che era venuto qualche volta da noi e che aveva, non so quanto opportunamente, insistito per la costituzione di poderi con case coloniche distanziate, e non raggruppate come noi pensavamo. Soluzione erronea che, tuttavia, fu adottata. Le case non vennero mai continuamente abitate e, soprattutto, non vi si trasferirono le famiglie. Presto vennero asportate porte, finestre, tegole. Ma i terreni vennero, ciò malgrado, ben coltivati e valorizzati, soprattutto dove, come sul pianoro di Capo Rizzuto, lungo il Neto, a Sibari, arrivò anni dopo l’irrigazione. Io tornai a Napoli senza una destinazione di lavoro. Mi raggiunse là l’offerta del Ministero – Direttore Bottalico – che mi propose la direzione del nuovo grande Consorzio di Bonifica unificato, dai quattro precedenti, più l’O.N.C., del Bacino Inferiore del Volturno.
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Per le mie figlie
La Malaria e la Cassa per il Mezzogiorno
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La Malaria Mio padre, originario delle colline daune del sud che si affacciano sulla valle dell’Ofanto, aveva un innato timore della malaria, che indeboliva le persone e, nelle frequenti forme di “perniciosa”, le portava spesso alla morte. Ricordo che in uno dei viaggi dalla Tripolitania a Napoli, avendo lasciato il piroscafo a Siracusa o a Messina e risalendo la linea ionica a causa dell’interruzione di quella tirrenica, in pieno mese di Luglio, chiuse i finestrini dello scompartimento ferroviario durante la traversata della Piana di Metaponto. Malgrado tutto, non so dove e non so come, io subii la malaria. Dai sette anni in poi fui infastidito e deperito da febbri irregolari che, perché tali, nascondevano la natura del male. Fu mia zia Maria, allora biologa ma direttrice della clinica del marito a Tripoli, ad avere un sospetto: il vetrino rivelò il plasmodio e, per anni mi sottoposi e resistetti eccellentemente alla cura del chinino. Eppure nelle aride steppe della Tripolitania non c’era certo l’anofele, né tra la popolazione indigena vi erano malarici. La Cassa per il Mezzogiorno Fu nell’autunno del ’61, l’anno in cui rimasi più lungamente al Cairo, che una mattina, all’ingresso dello Scheaferds, incontrai Gabriele Pescatore, che, da Presidente della Cassa per il Mezzogiorno, era venuto per qualche giorno in Egitto, a riposare dopo un’operazione all’occhio. Pescatore mi conosceva come ex-Direttore dell’opera Sila per la Riforma Agraria e come Direttore, lo ero ancora, del Consorzio di Bonifica del Basso Volturno. L’ingegnere Nai, a ragione dell’età, doveva lasciare la direzione del Servizio Bonifica, il più importante della Cassa, e se ne cercava il successore. Le sue parole furono: “ma che ci fai qui? Vienitene con noi”. Io esitai ad accettare, ma, in occasione di un mio ritorno in Italia, Adriana seppe dell’offerta e, stanca dei miei continui viaggi, volle assolutamente che aderissi. Nei primi del ’62 emigrai alla Cassa ed attesi per circa due mesi che si procedesse all’assunzione dell’incarico. Questo avvenne e percepii qualche malumore tra aspiranti interni, che tacquero persino gli auguri. Cominciò un periodo di straordinario impegno e di piena immersione nel lavoro. Vivevo solo a Roma, in uno dei primi “residence”, se così si poteva
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La Malaria e la Cassa per il Mezzogiorno
chiamare quello di via Ticino 2, abbastanza confortevole, ma usato solo per dormirvi. Il solerte ed affettuoso segretario, Mariani, dovette cambiare molte delle sue abitudini, a cominciare dalle firme delle cosiddette “pizze”, delle quali si vedeva solo il margine inferiore per la firma, ma non il testo. Ma non fu certo solo questa l’innovazione: furono invece molti e frequenti nel giorno i contatti con i collaboratori dei sette uffici dipendenti (Difesa Idraulica, Irrigazione, Conservazione del Suolo e Forestazione, Piani e Programmi, Legge Speciale Calabria, Miglioramenti Fondiari Amministrativi tutti retti da professionisti di gran valore e di provata fiducia. La mancanza di questa fu all’origine di una sola dimissione. Tra i collaboratori ricordo, attivi ed ideatori gli ingegneri Terenzio, poi sostituito alle opere idrauliche da Piccolo ed a quelle irrigue da Iamalio, l’ingegnere Stevanella, l’ingegnere Sodini, sostituito poi da Sferrazzo, l’ingegnere Conforti, sostituito poi dall’ingegnere Sbreccia, il Dott. Carlo Russo, l’amministrativo Dott. Caso. Entravo in ufficio alle 8,30-9 del mattino ed, interrompendo per una sommaria e breve colazione meridiana, ne uscivo non prima delle 21 della sera, portandomi a casa un borsone di carte da leggere o da firmare. Il lavoro è documentato dalle relazioni ai bilanci annuali, ma visibile, indelebile e ricordato da tutti i protagonisti periferici per le opere che fino al ’78 si crearono e che hanno sovvertito l’aspetto delle regioni meridionali. Non era affatto un lavoro di solo tavolo, perché settimanalmente o, al massimo, quindicinalmente, si andava sui luoghi dove la realtà balzava molto evidente, più che dalle carte e dai progetti e, dove, aiutato dall’appoggio di Pescatore e del Consiglio di Amministrazione, si decideva all’istante od in un arco brevissimo di tempo9. Così passarono diciassette anni, ma dopo sei o sette fui incaricato dal coordinamento dei Progetti Speciali che derivarono da una legge della fine degli anni 60 e che concentrarono le attività sulla depurazione del Golfo di Napoli, sulle acque del Biferno, sul sistema idrico Lucano-Pugliese, sullo sviluppo della Calabria, sull’area industriale di Siracusa e sulle acque della Sicilia, sul porto canale di Cagliari e sullo sviluppo di quest’ultima Isola.
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La Malaria e la Cassa per il Mezzogiorno
Per quattro o cinque anni finali, fui nominato Vice Direttore Generale (il Direttore Generale era il Dott. Coscia) e svolsi tutta la parte operativa. Gli ultimi anni non furono certo felici per l’efficienza dell’istituzione e per la contrapposizione, frequente, delle subentrate, inette ma autoritarie, Amministrazioni Regionali. La famiglia mi raggiunse a Roma dopo sette anni, in seguito al matrimonio di Franca ed alla laurea di Marinella (1967). Lasciata la Cassa, molto prima della pensione, sei o sette Ministri democristiani o socialisti, mi vollero come consulente del Ministero per il Mezzogiorno, fino all’anno 1987. Il resto è storia troppo recente ed attuale perché ne scriva. Ho continuato a dedicarmi alla Bonifica ed alle Acque, raccogliendo e compilando monografie e libri. Fino a quando? Forse la mia curiosità ed i miei interessi culturali si allontanano nell’avanzata maturità da quel che è stato il nocciolo del mio lavoro. Ma è bene che sia così o è l’inesausta ricerca di altre vie della mente? Che Dio me ne dia la continuità e la forza!
9 Il Consiglio era costituito, nei primi anni 60, dai Vicepresidenti Avv. Gullo (palermitano) ed On. Tavassi La Greca (avvocatura dello stato); da Altara (sardo e veterinario), da Cardone (avvocato e campano) da Ciarrocca (abruzzese ed economista agrario), da Cifarelli (barese e giurista), da Della Morte (campano ed imprenditore), da Damiani (barese e docente di diritto), da Froggio (calabrese ed avvocato), da Polcaro (lucano ed ingegnere), da Rubino (trapanese e docente di diritto), da Silva (laziale ed ingegnere).
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Giulio Leone – principali pubblicazioni Leone, G. “L’assistenza tecnica in agricoltura e l’agronomo”, Puglia Agricola, II, n. 9-10, 1962. Leone, G. “L’azione dei nuclei di assistenza nel Mezzogiorno”, La Bonifica Integrale, XVIII, n. 5, 1964. Leone, G. “L’agricoltura nel Mezzogiorno oggi e domani”, La trasformazione del mondo contadino, edizioni Del Veltro, Roma, 1965. Leone, G. “Prospettive di sviluppo agricolo ed interventi da realizzare”, Atti del Convegno su Le prospettive di sviluppo agricolo in alta Val d’Agri, Villa d’Agri, 26 giugno, 1966. Leone, G. “La protezione del suolo e la regolazione delle acque”, Atti del XXIII Congresso Nazionale delle Bonifiche, Società Editrice Il Mulino, Bologna, 1967. Leone, G. “L’impegno tecnico nello sviluppo del Mezzogiorno per un’agricoltura europea e mediterranea” in XXXIV Convegno Nazionale dei dottori in Scienze Agrarie, Napoli, 3 Marzo, 1968. Leone, G. “I consorzi di bonifica nel Mezzogiorno”, La Bonifica, n. 3-4, 1968. Leone, G. “Intervento al Dibattito sui Piani Zonali promosso dall’Istituto Nazionale di Sociologia Rurale”, Rivista di Economia Agraria, XXV, n. 4, 1970. Leone, G. “Intervento al XXIV Congresso Nazionale delle Bonifiche”, Per una politica del Territorio. Atti del XXIV Congresso Nazionale delle Bonifiche, Il Mulino, Bologna, 1971.
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Agronomi protagonisti
Giulio Leone - principali pubblicazioni
Agronomi protagonisti
Giulio Leone - principali pubblicazioni
Leone. G, “Agricoltura e Progetti Speciali”, Realtà del Mezzogiorno, XI, n. 4, 1971.
Leone, G. “Nascita dei Comprensori irrigui. Problemi di origine e di sviluppo”, L’Italia agricola, 118, n. 1, 1981.
Leone, G. e Cesarini, C. Assistenza Tecnica Agricola, Cassa per il Mezzogiorno, serie divulgazione: 15, 1974.
Leone, G. “Significato di un convegno: l’irrigazione nel Mezzogiorno”, Il dottore in Scienze Agrarie e Forestali, XXXII, n. 1, 1982.
Leone, G. “Più che di riconversione si dovrebbe parlare di progressiva evoluzione”, La riconversione dell’agricoltura meridionale, Quaderni di Nuovo Mezzogiorno, n. 22, 1976.
Leone, G. “Agricoltura: le risorse inespresse superano quelle manifeste. Rapporto Calabria ’80”, Nuovo Mezzogiorno, XXVI, n. 3-4, 1983.
Leone, G. Intervento alla tavola rotonda su “Problemi e prospettive della Bonifica nel Lazio”, Il dottore in Scienze Agrarie e Forestali, XXVII, n. 5, 1977. Leone, G. “Sviluppo dell’agricoltura e industrializzazione: le compatibilità territoriali”, Realtà del Mezzogiorno, XVII, n. 11, 1977. Leone, G. “Tendenze evolutive delle aree attive del Mezzogiorno”, Atti del Convegno di Taormina, CNR/Progetto finalizzato “Containers”, Trasportare & Distribuire in agricoltura per l’alimentazione, n. 4, 1977. Leone, G. “Riflessioni sull’intervento straordinario in agricoltura nel Mezzogiorno”, Rivista di Economia Agraria, XXXIII, n. 3, 1978. Leone, G. “Prospettive dell’azione straordinaria nell’agricoltura del Mezzogiorno”, Rassegna dell’Agricoltura Italiana, XXXV, n. 1, 1980. Leone, G. “La Bonifica Idraulica”, Relazione al XXVII Congresso Nazionale dell’Associazione Nazionale delle Bonifiche, Rovigo, 8 marzo, 1980. Leone, G. Intervista su “I ritardi, le incognite e i problemi dello sviluppo irriguo”, Città e Campagna, XIII, n°12, 1981.
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Leone, G. “Ricerca applicata e nuove tecnologie ausiliari per lo sviluppo meridionale e il riequilibrio territoriale delle regioni europee”, Delta, n. 8, 1984. Leone, G. “La diga Antonio Iamalio”, Rassegna dei lavori pubblici, XXXI, n.11, 1984. Leone, G. “Unitarietà: passaggio obbligato dei problemi Nord-Sud”, Il Mezzogiorno verso il duemila, Quaderni di Nuovo Mezzogiorno, n. 26, 1985. Leone, G. “Le irrigazioni in Italia. Sviluppi, realizzazioni, metodi”, Irrigazione e Bonifica in Italia, Ital-Icid e A.I.I., Casablanca (Marocco), settembre, 1987. Leone, G. “Promozione di iniziative nelle aree interne e collinari del Mezzogiorno”, Agricoltura, XXXVI, n. 183-184, 1988. Leone, G. “Il Sud fra lentezze e inadempienze”, Nuovo Mezzogiorno, XXXII, n. 1, 1989. Leone, G. “L’approvvigionamento idrico e le ipotesi di investimenti privati nel settore”, Sviluppo, n. 62, 1990. Leone, G. “I conflitti per le acque: il caso dell’Italia Meridionale”, Delta, n. 46-47, 1991. - 125 -
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Giulio Leone - principali pubblicazioni
Leone, G. “Trasferimenti di volumi idrici e compensi territoriali”, Idrotecnica, n. 4, 1993. Leone, G. “Il problema del rifornimento idrico nel Sud”, Nuovo Mezzogiorno, XXXVIII, n. 1-2, 1995. Leone, G. “La partecipazione del capitale privato per l’approvvigionamento idrico”, Rivista economica del Mezzogiorno, IX, n. 4, 1995. Leone, G. “Stato delle irrigazioni in Italia”, L’acqua, n. 5, 1997. Leone, G. “Vincenzo Caglioti, L’impegno civile”, Rivista economica del Mezzogiorno, XII, n. 4, 1998. Leone, G. “Manlio Rossi-Doria e la Riforma Agraria in Calabria”, Manlio Rossi-Doria e le trasformazioni del Mezzogiorno d’Italia, a cura di M. De Benedictis e F. De Filippis, Piero Lacaita Editore, Manduria, BariRoma, 1999. Leone, G. “Uomo della bonifica”, Ricordo di Giuseppe Medici, Federazione Italiana Dottori in Agraria e Forestali, Roma, 2001. Leone, G. “Bonifiche e irrigazioni in Italia alla fine del XX secolo”, L’acqua, n. 5, 2001.
Agronomi protagonisti
Giulio Leone - principali pubblicazioni
Leone, G. “Interventi per lo sviluppo irriguo”, Celebrazioni del 250° anniversario, supplemento a I Georgofili, Atti dell’Accademia dei Georgofili, VII serie, Vol. L., 2003. Leone, G. “A proposito di black out culturali”, AGRIculture, LX, n. 1, 2004. Leone, G. “Esigenze dei dati idrologici in agricoltura. Conferenza Nazionale”, Il Monitoraggio Idrologico in Italia, supplemento alla Rivista L’Acqua, n. 4, riportato in Bonifica, anno XXII, n. 1, 2007. Leone, G. et al. “L’uso dell’acqua in agricoltura, relazione della FIDAF sull’irrigazione: condizioni attuali, possibili razionalizzazioni, prospettive di natura economica e di sviluppo territoriale”. Volume a cura di FIDAF e ARDAF, 2007. Leone, G. “L’attività svolta in materia di acque e di bonifiche nel Mezzogiorno, negli anni dell’intervento straordinario e nel passaggio all’ordinario”, Rivista giuridica del Mezzogiorno, XXIII, n. 2, 2009. Leone, G. “Ricordo di Francesco Curato”, Agronomi protagonisti, Giornata di commemorazione organizzata dalla FIDAF e dall’ARDAF, Roma, 6 maggio. 2009. Senza riferimenti o data:
Leone, G. “Il governo delle acque con strutture consortili: stato attuale e prospettive”, L’acqua: una risorsa preziosa, Problematiche dell’Agricoltura italiana. Scenari Possibili, n. 2. Accademia nazionale di Agricoltura. Consiglio Nazionale delle Ricerche, Bologna, 2001. Leone, G. Scritti di Giuseppe Medici, Associazione Nazionale Bonifiche e Irrigazioni, Roma, 2002.
Leone, G. Il ruolo dei consorzi di bonifica per la valorizzazione dei territori di pianura e delle zone interne del Mezzogiorno, 12 giugno. 1984. Leone, G. “Tendenze evolutive delle aree agricole attive del Mezzogiorno”, Quadrante Sud.
Leone, G. “Le abissali differenze di disponibilità idriche nel nostro paese. Esiste una possibilità di compensazione?”, L’Acqua, n. 4, 2003.
Leone, G. “Esperienze di assistenza tecnica e di iniziative associate nel settore zootecnico nel Mezzogiorno”, La Zootecnia, Istituto Nazionale per l’Incremento della Produttività.
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Stampato dalla Tipografia Massimo ALBANESE Finito di stampare nel mese di luglio 2012
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FIDAF La Federazione Italiana Dottori in Agraria e Forestali, fondata a Roma il 17 novembre del 1944, è l’organizzazione di rappresentanza di tutti i laureati delle Facoltà di Agraria. La FIDAF è un libero organismo apartitico e non persegue fini di lucro; è socio fondatore del Comitato Europeo degli Agronomi (CEDIA). È costituita dalle Associazioni Provinciali e Regionali presenti sul territorio ed ha come scopi la tutela morale, professionale e sindacale della categoria e come compiti principali l’aggiornamento professionale e culturale, nonché la realizzazione di servizi per i soci. La Federazione svolge attività di promozione culturale, scientifica e tecnica a favore dell’agricoltura, anche mediante il sito internet www.fidaf.it. Alla FIDAF possono aderire i laureati delle Facoltà di Agraria - Lauree tradizionali in Scienze agrarie e Scienze forestali, e quelle attuali triennali e specialistiche - che abbiano o non abbiano sostenuto l’esame di stato, iscritti o non iscritti all’Ordine dei Dottori Agronomi e Dottori Forestali. Possono partecipare alle attività della Federazione anche i laureandi delle Facoltà di Agraria.