© INFORMAT CINEMA prima edizione: agosto 2014 Stampa: Grafica Bis Roma ISBN: 978-88-6027-108-2
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ANTONIO FERRARO
…MA IL CINEMA RISOLVE
Contributi di Steve Della Casa Giampaolo Sodano Enrico Menduni
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Grazie a Beppe Attene, Stefano Balassone, Cristiano Bortone, Fabrizio Crespi, Valter Croce, Steve Della Casa, Anna Di Francisca, Enzo Giulioli, Michele Lo Foco, Citto Maselli, Mario Mazzarotto, Enrico Menduni, Giovanni Minoli, Gualtiero Peirce, Paolo Perna, Gianfranco Rinaldi, Giampaolo Sodano, Paolo Taviani, Vittorio Taviani, Maria Giuseppina Troccoli. Ea My movies, Coming soon, Imdb, Associazione Corviale domani (corviale.com), Artisan Post (artisanpost.it), Medaglie d’oro (medaglied-oro.it) Un grazie speciale a due veri maestri Claudio G. Fava e Luciano Martino.
A Olga, Andrea e Valentina
«Io sono troppo serio per essere un dilettante, ma non abbastanza per diventare un professionista». Steiner ne La Dolce vita «Questo è l’unico posto dove non mi faccio male». The Wrestler «È stupefacente questa facoltà di far battere i cuori tutte le sere alla stessa ora». Les Amants Du Paradis «… ma il cinema risolve!» Christian de Sica
Perché Helzapoppin?
In copertina: Helzapoppin (1941) di H.C. Potter Helzapoppin è per me un titolo di culto; a tutti quelli che si occupano di cinema è capitato di sentirsi chiedere quali sono per loro i film più importanti. Ovviamente, per ciascuno le risposte cambiano col tempo ma, per quanto mi riguarda, il film di Potter (insieme a Les enfants du paradis di Marcel Carnè) è sempre nella mia personale top ten. Certo è un musical molto divertente, Ole Olsen e Chic Jones sono perfetti nel passaggio da Broadway a Hollywood, Martha Raye, Misha Auer, Hugh “Woo-Woo” Wilson ed Elisha Cook jr. sono dei caratteristi geniali ma, in realtà, Helzapoppin è il cinema allo stato puro: ti conduce, come il tassista dell’inizio del film, in un sogno di evidente cartapesta, si monta, si smonta e si rimonta da solo in un susseguirsi di dentro e fuori dal plot con una magia che nessun testo, anche il più celebrato, del Teatro dell’Assurdo è mai riuscito a creare. E tutto questo, con materiali terra-terra (come gli attrezzi di scena che i due protagonisti fanno a pezzi) come accade sempre con il grande cinema: è la piccola, illusoria felicità dietro l’angolo, è il sogno − magari un po’ taroccato − a buon mercato: è il Cinema.
Istruzioni per l’uso … Ma il Cinema Risolve è un libro navigabile. Un libro in prima visione e una rassegna di fonti, che ci propone più di quattrocento link corrispondenti a filmati, fotografie e documenti in originale. Lo fa grazie ai QR Code i codici a barre di seconda generazione, che rendono il libro una vera piattaforma multimediale. Inquadrando il tipico quadratino a scacchi con il vostro smartphone, dopo aver scaricato gratuitamente l’app sul vostro device, potete subito godervi lo spettacolo: pagina per pagina, link per link, video per video. Tutto questo è possibile anche perché il nostro libro è stato pensato e costruito all’interno di un sito della rete internet:
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Nel caso di … Ma il Cinema Risolve i QR Code ci permettono di passare dal libro stampato alle pagine web per una lettura ipertestuale e un migliore approfondimento infatti ogni recensione si prolungherà nella rete con ulteriori contributi e un forum che verrà aggiornato congiuntamente dai lettori, dagli autori e dall’editore. Caro lettore attendiamo quindi il tuo contributo sui temi di base del nostro testo multimediale. Questo libro si prolungherà così all’infinito raccogliendo i contributi di tutti. Un laboratorio nel laboratorio. Buona lettura e buona visione.
PRESENTAZIONI di Steve Della Casa Viviamo in un’epoca frenetica. Non sono il primo a dirlo, non sarò certo l’ultimo. Ma questa frenesia io la riscontro soprattutto nel mio lavoro, che in teoria è uno dei più belli del mondo: vedere i film e parlarne. La durata media di un film, la sua vita sociale è ormai fortemente ridotta. Si consuma di fatto entro un mese, con qualche prologo (le notizie dal set) e qualche raro epilogo (una ripresa dovuta a premi importanti o, più di frequente, alla sua programmazione televisiva). Questa frenesia ha modificato radicalmente il lavoro di chi, per l’appunto, vede i film e ne parla. L’interesse per quanto tu scrivi o dici in radio e in televisione dura ancora di meno. I riflettori dei media volteggiano su un film per un periodo che è spesso inferiore a una settimana. Dopo cambiano direzione e si occupano delle uscite successive. Appartengo alla generazione che, sei-sette mesi dopo l’uscita di un film, leggeva con avidità lo spazio che a quel film veniva dedicato dalle riviste di cinema. E che, con lo stesso entusiasmo, notava con attenzione quando sui numeri successivi si apriva un dibattito, piccolo o grande che fosse. Ma soprattutto ero tra quelli che non si perdeva un solo annuario tra quelli che venivano pubblicati, fossero tecnici (tipo quello dell’Anica) o critici (e in questo caso per me erano insuperabili le raccolte di recensioni che periodicamente Pietrino Bianchi pubblicava). Non ho mai conosciuto Pietro Bianchi, ma lo considero a tutt’oggi come una sorta di fratello maggiore. E quei libretti che consentivano di ripercorrere diacronicamente la stagione, a volte, li ricordo quasi a memoria. Come abbiamo detto, tutto questo non esiste più. Ed è quindi con particolare piacere che ho letto la raccolta di recensioni propostami dal mio amico Antonio Ferraro. Ferraro è una di quelle persone che, quando parla di un film, sa tratteggiare soprattutto le possibilità commerciali del film stesso, la sua capacità di intercettare il pubblico cui è rivolto. Lo fa con semplicità e con acume, raramente sbaglia. Devo dire che in un primo tempo pensavo che l’interesse per quanto scrive fosse un interesse (diciamo così) vintage, una spruzzata di passato in un presente che non posso dire di adorare. Ma poi mi sono reso conto che c’è qualcosa in più. In una critica che è stata a lungo sospesa tra Croce e Lukacs, e che ha privilegiato lo schieramento ai contenuti, l’idea di raccontare il film come un’occasione riuscita (o non riuscita) di un incontro con il pubblico mi sembra davvero l’uovo di Colombo. Da tempo non mi considero più un critico, non dò quasi mai giudizi sui film, preferisco raccontarli e dare informazioni su di essi. Lo faccio in radio, lo faccio nelle occasioni (libri, riviste) in cui mi trovo a scrivere. Ecco, i testi di Ferraro mi hanno dato l’impressione che forse un criterio di giudizio ci può ancora essere: è riuscito il tale film a raggiungere il suo pubblico? Non ci è riuscito? E perché? La lettura di queste pagine è semplice, lineare, accattivante. Non ne resterete delusi. Steve Della Casa Giornalista, scrittore, critico cinematografico, direttore di Festival
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di Giampaolo Sodano La prima volta che incontrai Antonio, se la memoria non mi tradisce, fu nella grande sala della sezione socialista di via Tagliamento, a Roma. Si teneva un’assemblea di militanti del nuovo partito Psi-Psdi e parlammo in rappresentanza delle due correnti contrapposte. Passò del tempo, il partito unificato era tornato a dividersi, ma il caso volle che ci incontrassimo di nuovo: questa volta in casa di un dirigente politico di cui avevo grande stima, Antonello Frajese, un intellettuale (era stato uno dei più giovani e brillanti tra gli allievi di Benedetto Croce) tanto lucido quanto umile che, per quelle strane congetture del tempo, era passato direttamente dalla cattedra a un assessorato del Comune di Roma. Per me fu una sorpresa: che ci faceva un giovanissimo socialdemocratico − che in quella sezione mi aveva sconfitto grazie a una torma di persone che al momento del voto aveva fatto irruzione nella sala prendendo d’assalto le urne – al fianco di un uomo della statura di Frajese? Me lo presentò come suo collaboratore e suo brillantissimo allievo facendosi comun denominatore e garante di un’amicizia che dura da allora. Scoprimmo di coltivare le stesse passioni, il cinema e la politica. Erano gli anni della contestazione giovanile. I partiti erano stati fino ad allora il canale di trasmissione dell’opinione pubblica, lo strumento di partecipazione dei cittadini alla vita politica ma soprattutto, usciti dalla guerra civile, avevano svolto un ruolo essenziale nella crescita economica e civile dell’Italia assolvendo anche a una funzione pedagogica che consentì di radicare la nuova cultura democratica. La rivolta studentesca del ’68 fece emergere un fenomeno nuovo: un pezzo della società, in particolare i giovani e le donne, manifestava un dissenso che, partendo dalla scuola e dalla famiglia, metteva in discussione valori e stili di vita che fino a quel momento erano apparsi come certezze in un Paese cresciuto più di quanto la sua stessa classe dirigente poteva immaginare. Dovranno passare molti anni prima che i partiti prendano coscienza di quanto era avvenuto nel profondo della società italiana: l’impetuosa domanda di democrazia diretta e l’irruzione sulla scena politica di nuovi soggetti che rivendicavano spazi di libertà, non trovarono risposte adeguate, determinando la prima frattura fra partiti e società civile. Intanto cresceva una domanda di cambiamento. Bettino Craxi, conquistata la leadership del suo partito, aveva rimesso a nuovo l’immagine dei socialisti aprendo una stagione di profondo rinnovamento: il recupero delle tradizioni autonome e il legame con le socialdemocrazie europee, un progetto riformista e la sfida ai comunisti, la lotta all’egemonia democristiana e una forte spinta libertaria. Non potevamo mancare all’appuntamento: ci buttammo a capofitto nella nuova stagione. Ancora una volta Antonio e io ci trovammo fianco a fianco, dalla stessa parte: c’erano tutte le ragioni di una battaglia delle idee e, fondando il Club Rosselli cercammo di progettare la trasformazione, di immaginare il futuro. Coltivammo l’ambizione di spingere i socialisti ad andare oltre se stessi, verso nuove esperienze. Sentivamo che la gente non ne poteva più dei partiti così come erano, e che esisteva una questione morale. La risposta doveva essere la “grande riforma” e la riforma dei partiti, la lotta contro il malgoverno negli enti locali e contro lo spreco delle risorse. Con queste idee facemmo una battaglia politica culturale contro quella diffusa complicità nella gestione del potere che stava minando alla base la fiducia dei cittadini. Alla fine degli anni Ottanta ero stato nominato direttore di Raidue e avevo chiesto ad Antonio di lavorare insieme. Avevo bisogno della sua esperienza culturale, della sua particolare conoscenza che aveva del mondo del cinema, del suo istinto nell’individuare (spesso precedere) i gusti di orientamento del pubblico ma soprattutto della sua amicizia per affrontare un compito tutto nuovo: cambiare il progetto editoriale di un canale televisivo del servizio pubblico per 10
promuovere una televisione pluralista, non solo espressione della identità culturale dei laici e dei socialisti ma anche rispettosa e partecipata da quelle culture, a partire dalla tradizione cattolica, determinanti per un comune processo di rinnovamento civile. Una televisione che ci doveva raccontare nei nostri sentimenti, ma anche negli ideali, fiction e informazione, una televisione austera ma non noiosa, una televisione capace di usare la sua forza per raccontare il mondo ma anche per interpretarlo, una televisione capace di fare cultura in quanto capace di armonizzare generi e prodotti, da Mixer del lunedì ai tvmovie del sabato sera, una televisione dialettica, che non aveva bisogno di santoni né di imbonitori ma di manager con la patente, come diceva Popper. E dimostrammo che la patente l’avevamo. Ma al tempo stesso era emerso il potere di chi, moderno alchimista, possedeva il segreto della pietra filosofale, di quel linguaggio televisivo che aveva formato una nuova generazione. E quella nuova generazione andò alle urne: fu l’apoteosi del pifferaio magico. A noi sembrò aprirsi una nuova inedita possibilità, quella di rinunciare alla propria parte di eredità nell’antico casato per fuggire, con un vascello di pragmatici corsari, nel continente nuovo e dai nuovi lidi fare quello che non ci era più consentito di fare a Viale Mazzini. Mediaset fu una illusione, un’imperdonabile errore. Tuttavia abbiamo continuato a pensare che fare televisione, produrre cinema, lavorare per il pubblico, mettersi al servizio dei cittadini, in modo coerente con i propri valori, non vuol dire dettare regole o costruire modelli ma più semplicemente assolvere al proprio compito con senso di responsabilità civile. Trasmettere valori in TV non significa essere il Minculpop, così come scrivere di cinema non vuol dire dettare a chi gira come e cosa deve fare ma certamente fare cultura. Questo è stato il segno e il significato del lavoro di Antonio – le cui intuizioni hanno radicalmente innovato l’offerta televisiva, creando modelli ripresi da network europei – prima a Raidue, poi in Sacis, in Mediaset e nella TV satellitare e infine come produttore, mentre io mi dedicavo alla distribuzione cinematografica. Abbiamo vissuto l’epoca del monopolio della RAI e quella della concorrenza della tv commerciale, abbiamo visto nascere il satellite e il digitale, siamo passati dalla prima repubblica a una seconda mai fondata, abbiamo maturato idee nuove e diverse ma su una cosa siamo sicuramente d’accordo: oggi più di ieri ci sarebbe bisogno di aziende editoriali, pubbliche o private, capaci di assumere la responsabilità di una produzione conforme alla funzione di servizio e al ruolo culturale a fronte di un panorama digitale che promuove la distribuzione di prodotti audiovisivi pensati, realizzati e diffusi casualmente. Forse, di fronte a questa televisione, ha proprio ragione Antonio, c’è il cinema che risolve. E così abbiamo attraversato il novecento lasciandoci alle spalle vittorie e sconfitte, il sorriso degli amici e il ghigno degli invidiosi. Insieme abbiamo fatto un bel tratto di strada piena di politica e televisione, di cinema e cultura, di gioia di vivere. E per questa strada siamo arrivati, ancora una volta, davanti a una sala cinematografica, anzi a una multisala. Dobbiamo scegliere e siamo indecisi, vedere un promettente cartone animato della migliore qualità holliwoodiana o una commedia all’italiana rinnovata nella forma e nel linguaggio dall’ultimo nuovo talento. Non potevamo che scegliere la commedia. Ma sullo schermo non c’è ne Sordi ne Tognazzi, e nemmeno Manfredi e Gassman, non abbiamo ritrovato quel genere amato e studiato, in cui l’eroe, pur facendoci sorridere, non appariva affatto rassicurante, poiché con toni amari raccontava un Paese pieno di drammi e problemi, etici e morali. Ma la cultura dell’epoca non ha tentato di occultare o di contrapporsi a quelle storie che attingevano dal nostro difficile quotidiano. Ci raccontavano per quello che eravamo, attingendo ai nostri valori e alla nostra 11
identità. Non era una notte prima degli esami e nemmeno un Natale passato chissà dove. La verità, caro Antonio, è che la commedia del nostro tempo più che al cinema si rappresenta sul palcoscenico della politica. E ci fa ridere quando il leader ha il volto di Crozza nel Paese delle Meraviglie. Ma non è questa commedia che volevamo vedere, e non è di questa commedia che abbiamo bisogno. «Per essere giusta, per avere la sua ragione d’essere, la critica deve essere parziale, appassionata, politica, ossia fatta da un punto di vista esclusivo, da un punto di vista che apra insieme più gran numero di orizzonti». Credo anch’io, come Baudelaire «che la migliore critica sia divertente e poetica», come quella che sta nelle pagine di questo libro. Critica, critica, critica. Non è materia per specialisti. È fare politica, perchè in ultima analisi indaga, analizza, studia e infine mette a profitto il capitale umano che c’è sempre in un’opera. Ed è cultura perché della politica è il pezzo più pregiato. C’è quindi bisogno di critica, perché c’è bisogno di più cultura e di più politica, di pensiero e di idee. Tutto il resto è noia, recita una bella canzone. Giampaolo Sodano, giornalista, scrittore, ex direttore Rai2 e Canale 5, ex deputato
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INTRODUZIONE Non esistono cinefili (o cinofili, come diceva un mio amico, peraltro brillante e di grande successo) che non abbiano una qualche angoscia da lenire attraverso l’immersione in storie che, comunque (anche nel caso di film duramente realistici), raccontano un mondo parallelo e, per il solo fatto di essere di fantasia, consolatorio. Il titolo … ma il cinema risolve di questa raccolta di miei articoli dedicati a film usciti tra il 2009 e il 2014 è ispirato da una frase detta da Christian De Sica a Fabio Fazio; in realtà, lui si riferiva a un episodio nel quale un pullman di comparse vestite da cardinali aveva, grazie all’abito talare, respinto dei minacciosi manifestanti che rischiavano di far saltare le riprese di un film e quindi la loro paga. Anche nei momenti più difficili la fantasia, diciamo pure la finzione (a proposito quando e chi ha deciso che il termine fiction indentificasse solo il prodotto di fantasia televisivo?) può darti una chiave inaspettata per uscirne. Per sua natura questo libro non ha una preordinata organicità: i film dei quali tratta sono stati da me scelti, di volta in volta, per soddisfare le richieste di un paio di blog che avevano chiesto la mia amichevole collaborazione; spesso ho puntato l’attenzione su titoli noti – i blog non erano specialistici – ma, all’occasione, ho anche scelto film che ritenevo rilevanti (è, ad esempio, il caso di Holy motors di Leos Carax, film e regista che amo molto e che ho recensito pur consapevole della sua ineluttabile insignificanza nel box office). Una cosa, però, spero traspaia dalle pagine del libro: la mia convinzione che l’unico criterio consentito per dare giudizi sui film sia l’efficacia del prodotto: un film (ma credo valga per qualunque opera della creatività) può essere piacevole, profondo, divertente, emozionante, può far paura, può far ridere, può far piangere (non so voi ma io piango come un vitello di fronte a qualunque stimolo emotivo mi venga dallo schermo), può essere addirittura ideologico ma il giudizio che se ne dà deve, ne sono convinto, riguardare solo l’efficacia nel raggiungere questi risultati. Il giudizio del pubblico è, perciò, decisivo. Ciò non significa che gli incassi siano il metro unico di valutazione ma il riconoscibile sforzo degli autori di trovare e raggiungere un proprio pubblico, sia pure di nicchia, questo sì. La mia convinzione si è rafforzata attraverso l’esperienza televisiva. L’indice di ascolto, ancorchè imperfetto, è un grande parametro di valutazione del lavoro svolto. Insisto, l’indice di ascolto non quello di gradimento, che per sua natura è insincero: gli esperti in sondaggi sanno che, nonostante la garanzia di anonimato, di fronte alle domande cerchiamo di far bella figura . Gli appassionati del vecchio programma di Smaila Colpo grosso, tendenzialmente sarebbero stati prontissimi a dichiarare al sondaggista di preferire serissimi programmi di approfondimento culturale. “Ma – obiettano in molti – il pubblico va educato” . Considero questa una delle affermazioni più dissonanti nel settore della creatività che dovrebbe essere, per assoluta definizione, il regno della totale libertà sia di ideazione che di fruizione (a meno di non rinverdire le logiche aberranti del Minculpop o del centralismo comunista). Il cinema di impegno ha una tradizione importante e nobilissima: La corazzata Potemkin, Tempeste sull’Asia, molto cinema di Ken Loach e, in Italia, di Citto Maselli o dei fratelli Taviani sono esempi di opere di valore che trovano la propria linfa ispiratrice nella profonda convinzione politica dei loro autori (ovviamente questo vale anche per Olympia di Leni Riefenstahl e per L’assedio dell’Alcazar di Augusto Genina) e io, quando ho potuto, ho avuto e ho attenzione fattiva 13
per qualunque opera d’autore. Il rischio però in Italia è quello del “madonnaro”: uso questo termine non per definire la nobile figura, cantata anche da Jannacci, dell’artista di strada che disegna – spesso benissimo − coi gessetti colorati Santi e Madonne sull’asfalto per attirare elemosine ma l’artista di corte (o di chiostro) che piega all’agiografia la propria ispirazione. Trasferita al cinema, l’espressione mantiene tutta la sua validità: molto nostro cinema nasce – e viene giudicato – non per i suoi valori intrinseci ma per meriti politici (d’altronde da noi fu Mussolini a sviluppare il cinema, sottolineandone l’efficacia propagandistica e, nel dopoguerra, la sinistra ha operato nella stessa direzione; tutto legittimo – e, come ho detto, in qualche caso anche foriero di ottimi film – purché non sia, come talora appare, l’unico metro di valutazione). Chi leggerà le pagine seguenti vedrà che ho dedicato una particolare attenzione alle commedie italiane e ai cartoni animati; non solo per venire incontro ai fruitori dei blog di cui parlavo sopra ma anche perché li considero due generi molto importanti. Per quanto riguarda i cartoni animati credo che le nuove tecniche, da un lato, e il ringiovanimento del pubblico delle sale, dall’altro, abbiano consentito di sviluppare storie e soluzioni narrative di eccezionale efficacia come nessun prodotto tradizionale può dare. Penso a titoli come Up, Monstres & co o Cattivissimo me, che raccontano, attraverso mille, geniali chiavi di lettura, di noi con le nostre paure e le nostre pulsioni più di qualunque grande, paludatissimo capolavoro. Una riflessione a parte, a proposito di cinema fatto con grande sapienza per il pubblico giovanile, meriterebbero i film tratti da fumetti o da videogame − e spesso le due fonti si fondono in opere mirabili, vedi il recente The Avengers. La commedia nostrana, infine: Checco Zalone, Alfredo Siani, Fausto Brizzi, Fulvio Lucisano e Aurelio De Laurentis sono, nei loro rispettivi ruoli di autori e di produttori, i continuatori dell’unico genere di racconto che ha fatto grande e rispettata la cultura italiana all’estero: la commedia dell’arte. Noi, quando non siamo stati servilmente “madonnari”, siamo stati grandi e celebratissimi per come abbiamo insegnato al mondo (l’opera di Shakespeare lo testimonia) l’Arte della Commedia (titolo anche di una commedia del tradottissimo e studiatissimo Eduardo, comico per nascita). Ecco, parafrasando il geniale Longanesi di Ci salveranno le vecchie zie?, spesso penso che, almeno cinematograficamente, ci potranno salvare solo i comici.
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UN SALEMME IN STATO DI GRAZIA 10 REGOLE PER FARE INNAMORARE, di Cristiano Bortone, con Vincenzo Salemme, Guglielmo Scilla, Enrica Pintore, Giulio Berruti, Fatima Trotta, Pietro Masotti |ITALIA 2012 Marco (Scilla), giovane maestro d’asilo, si è innamorato di Stefania (Pintore), splendida ragazza, ricca e colta. L'unico problema è la convinzione di non poterla neanche avvicinare. I tre amici con i quali divide l’appartamento sono a loro volta certi dell’insuccesso del loro imbranato amico, ma l’arrivo a Roma di Renato (Vincenzo Salemme), il padre di Marco, determinerà una svolta: questi è un chirurgo plastico, donnaiolo ed effervescente che, dopo la separazione dalla madre di Marco, era quasi scomparso (non sa, ad esempio, che il figlio ha abbandonato gli studi di astrofisica); sarà lui, dall’alto di una vastissima esperienza, a dettare al figlio le infallibili regole della seduzione, aiutato dai tre ragazzi, in particolare da Mary (Trotta). Inutile dire che Marco farà una serie di disastri, ma che alla fine l’amore trionferà. Il regista Bortone aveva scritto qualche anno fa il film con Fausto Brizzi rielaborandolo poi con nuove tendenze: il protagonista è notissimo fra i ragazzi di Youtube come Willwoosh, ma al suo fianco c’è Salemme per ammiccare al pubblico dei padri; non mancano, poi, le facce televisive dal Trio Medusa, a Fatima di Made in sud e a Giorgio Verducci, il comico con la mazza da baseball di Zelig. Carino, fresco, merita una sbirciatina.
TRAILER http://bit.ly/1hlkXxi
FILMOGRAFIA http://bit.ly/1bifHv5
McQUEEN FIRMA IL SUO LAVORO PIÙ RIUSCITO 12 ANNI SCHIAVO (12 years a slave), di Steve McQueen, con Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Paul Giamatti | USA 2013 Solomon Northup (Ejiofor) è un violinista nero e vive libero nella città di Saratoga con la moglie cuoca Anne (Kelsey Scott) e i figli Margareth (Quvenzhané Wallis, la bambina di Re della terra selvaggia) e Alonzo (Cameron Zeigler); un giorno del 1841 Anne parte con i figli per un periodo di lavoro e Solomon accetta da due artisti di circo un ingaggio come musicista; i due lo fanno ubriacare e lo vendono al mercante di schiavi Theophilus Freeman (Giamatti). Giunto in Georgia, gli viene assegnato il nome Platts e viene venduto al proprietario terriero Ford (Cumberbatch); lui è, in fondo, un brav’uomo e lo tiene in considerazione ma il suo sorvegliante Tibeats (Dano), invidioso, prima cerca di impiccarlo e poi minaccia di ucciderlo. Il pavido Ford per non avere guai lo vende a Edwin Epps (Fassbender), padrone sadico e maniaco che usa spesso e con violenza la frusta e che ha una relazione morbosa con la schiava Patsey (Lupita Nyong’o). La moglie di Epps, Mary (Sarah Paulson) è gelosa e maltratta continuamente Patsey, la quale una notta supplica invano Solomon di ucciderla. Dopo un breve periodo con un padrone più umano, il giudice Turner (Bryan Batt), Solomon, tornato da Epps, cerca di far recapitare una lettera ai suoi amici di Saratoga ma l’ex sovrintendente Armsby (Garrett Dillahunt) a cui aveva chiesto di farlo lo denuncia e Solomon si salva per il rotto della cuffia dall’impiccagione. Solo il capomastro Bass (Brad Pitt), un canadese abolizionista, accetta di aiutarlo e, dopo 12 anni, Solomon può tornare dalla propria famiglia ma le leggi dell’epoca non gli consentivano di testimoniare contro i bianchi e i suoi aguzzini finirono impuniti. 15
McQueen nasce come videoartista e nei suoi precedenti film (Shame e Hunger) questa sua matrice è molto, forse troppo, presente: la tensione viene spesso come raggelata da rarefatte atmosfere che sono, talora, dispersive. Qui – forse anche per la partecipazione dell’afrobritannico regista alla vicenda tratta da un libro autobiografico – invece solo le sequenze dedicate alla splendida natura della Georgia sono intrise di una qualche, peraltro avvincente e pertinente, pittoricità. Per il resto McQueen firma il suo lavoro più completo e riuscito con un cast eccezionale e una capacità di sintesi, narrativa ed emotiva, notevolissima. Oltre a Brad Pitt, produce il mitico Arnon Milchan, cui dobbiamo, tra gli altri, Pretty Woman.
TRAILER http://bit.ly/1eRvCff
FILMOGRAFIA http://bit.ly/1k0vUH4
UNA BATTAGLIA FINALE DA ANTOLOGIA 13 ASSASSINI (Juusan-nin no shikaku), di Takashi Miike, con Koji Yakusho, Yusuke Iseya, Tsuyoshi Ihara, Takayuki Yamada, Sosuke Takaoka | GIAPPONE/G.B. 2010 Nel 1800, il potere nelle province giapponesi era gestito dagli shogun, capi supremi che avevano diritto di vita e di morte sui propri sudditi. Uno di questi, il folle e crudele Naristsugu (Iseya), si distingueva per nefandezza (stuprava, uccideva i bambini di chi gli aveva disobbedito, mutilava per gioco sadico). Il samurai Shimada (Yakusho) riceve l’ordine di ucciderlo: un compito non facile perché il tiranno è sempre protetto da guerrieri guidati dall’esperto samurai Hanbei (Ihara). Shimada mette insieme un manipolo di dodici uomini pronti a morire e con questi combatte contro un esercito feroce. Miike (noto al pubblico europeo quasi solo per il film Gozu, un noir presentato a Cannes nel 2003) è, per i cinefili, un autore di culto, geniale ed essenziale; ha diretto 44 film di vario genere e con 13 Assassini ha esaudito il proprio sogno di dirigere una pellicola sull’epopea samurai, realizzando il remake di un film del 1961 di Eiichi Kudo, regista al quale si è spesso ispirato. Il risultato è superbo e la lunga battaglia finale è da antologia dei capolavori.
TRAILER http://bit.ly/1ePTKAO
FILMOGRAFIA http://bit.ly/1fvMQzm
INCASSI STELLARI PER UNA PERFETTA MACCHINA DI DIVERTIMENTO 2012, di Roland Emmerich, con John Cusack, Chiwetel Ejiofor, Amanda Peet, Oliver Platt, Thandie Newton, Danny Glover | USA/CANADA 2009 Emmerich è il maestro indiscusso del cinema catastrofico americano che conosciamo (Stargate, Independence Day, L’alba del giorno dopo), abituato a grandi successi di botteghino (ma anche a flop storici, vedi il risibile Godzilla). Di origine tedesca, è il regista che meglio sa rappresentare la logica che, più di altre, è la chiave di ogni film avventuroso made in Usa: l’eroismo di gente comune che, messa di fronte a eventi straordinari, fronteggia e vince in nome della patria e, soprattutto, della famiglia. Questa pellicola non fa eccezione: un piccolo nucleo familiare, in partenza slabbrato e diviso, diviene centrale nell’affrontare l’emergenza di un eccessivo ravvicinamento del sole che rischia di causare la fine della Terra. Incassi stellari nel mondo 16