Ragioni e sentimenti nella Sicilia del vino

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Siciliani che dipingono il vino

Paolo Longo Marsala, 2010 olio su tela, cm. 100x100


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Alla mia famiglia d’origine. A quella che con Linda ho costruito. E a quelle che ne conseguiranno.

Un pensiero speciale per Giuseppe e per Emanuele


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7 Prefazione

Incomincio questo breve scritto – di introduzione al libro che vi accingete a leggere – con un paradosso: non saprei come definirne il genere. Mi spiego: se, poniamo, dovessi collocarlo in uno scaffale di libreria, dove lo inserirei? Tra i volumi di storia locale o tra quelli di viaggio? Tra i saggi dedicati alla Sicilia (a proposito: non so più dove metterli!) o tra quelli che elencano le specialità siciliane da gustare (arancine, cannoli, pasta-a-forno) assieme alla produzione vinicola? Non ho, lo confesso, un angolo della mia libreria dedicato ai volumi che parlano di vino. E tuttavia, se lo avessi, questo di Diego Maggio non vi troverebbe collocazione. E perché è qualcosa d’altro rispetto a un libro sui vini della Sicilia e su quelli del territorio marsalese in particolare. Ed è questo qualcosa d’altro che mi ha appassionato nella lettura e mi ha fatto capire alcune cose che riguardano sì, l’attività vitivinicola, ma anche tutto quello che gira attorno ad essa: e cioè la storia, la politica, l’economia, il paesaggio, l’arte, la comunicazione. Nello scrivere questo trattato breve Diego Maggio si è imposto l’ottimismo: stato d’animo, chiamiamolo così, indispensabile per chi scrive e vuole essere letto con un qualche risultato. E l’ottimismo lo ha portato a cercare le giuste leve e i varchi più adatti per impostare un progetto di sensata e concreta valorizzazione di una delle materie prime più diffuse e caratteristiche della Sicilia: il frutto della vite. Se è vero che oggi nei paesi più progrediti il vino è lo status symbol per eccellenza, è altrettanto vero che quello siciliano si colloca allo stesso livello dei vini prodotti a Bordeaux e nella Borgogna, nel Midì e sulle rive della Mosella. Diego Maggio lo dimostra “raccontando” la Sicilia (storia, geografia e arte) e non spulciando nelle fatturazioni delle case vinicole. Ecco, è un racconto, il suo. Il racconto di un siciliano che ama la propria terra e tenta di spiegarne i misteri per trarla fuori dai luoghi comuni che la vogliono condannata alla simpatia che spetta alle canaglie. Proprio così – una simpatica canaglia – appare la Sicilia a coloro che nascono e vivono nel nord Italia. So quel che dico, perché vivo in Lombardia da più di trent’anni. E questo micidiale giudizio non lo si deve soltanto alla cattiva letteratura similsiciliana, ma ai fallimenti nel campo delle imprese mai nate o costrette a navigare in acque perigliose. Per i motivi che in questo libro Diego Maggio, lucidamente e con la semplicità del narratore vero, elenca e spiega. Matteo Collura


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9 Estrapolazioni preventive I … E magari leggeranno parole simili a quelle che Matteo Collura, nel suo Il Maestro di Regalpetra, ha registrato da Leonardo Sciascia nei suoi ultimi giorni: “Ho vissuto semplicemente… senza perseguire alcun vantaggio personale: chi non ha voluto accorgersene, chi si è sentito ferito dalle cose vere che ho detto e ha fanaticamente reagito, non sarà mai in grado di ravvedersene”.


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Secondo un altro lucido scrittore siciliano contemporaneo, Domenico Seminerio, gli uomini si dividono in tre categorie: ci sono i corruttibili, poi i ricattabili e, infine, le persone normali; quelle di cui (zittendole o ignorandole) è piĂš facile sbarazzarsi‌


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Ritrovo, su un quotidiano del Nord, una perla tratta da La luna e i falò di un Cesare Pavese che più non frequento fin dalle mie letture giovanili: “Non c’è niente di più bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il suo respiro e il suo sudore”. Parole che forse non dicono niente a chi ama vivere in città, ma che fanno invece arrizzare li carni1 a chi, come me, viene dalla campagna.

Foto Milazzo

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Accapponare la pelle.


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13 Secondo me… leggetelo così di G. Aldo Ruggieri Ho letto e riletto questo libro di Diego Maggio per trovare un motivo, un solo motivo che mi facesse desistere dal prefarlo, in attesa di rileggerlo stampato, illustrato, definito. So la sua travagliata stesura fatta di puntuali espressioni, frasi, concetti, ridisegnati di volta in volta, alla ricerca di una soddisfazione interiore: che è, anche e in fondo, il segno più compiuto che motiva questo lavoro forte, consistente, di raccolta, di rivisitazioni, di interpretazioni, di riflessioni che costruiscono una delle possibili “fotografie” della nostra Sicilia. Come da un lievito profumato, infatti, dalle parole che narrano le zolle, che ascoltano e trasmettono il sussulto della vite (che freme nell’attesa della trasformazione del suo esistere in un nettare che nasce sì dalla terra, ma vola e fa volare verso il cielo), una dopo l’altra sono prodotte queste pagine. E anche le illustrazioni, le splendide fotografie, sono parte integrante di questo “racconto” di luminosa speranza nella forza che quest’isola ha di far storia e di vivere nella storia. E le narrazioni, e le convinzioni partecipate, e le codificazioni di un pensiero (che è quello e altro non potrebbe essere) vigoroso, stringato e pregnante. E le notizie, e i profili, e i patrimoni descritti, e “gli altri” che si presentano in un contesto unitario eppur composito, nel solco del generoso prodotto del passato e del presente siciliano. Tutto ciò si dipana con l’ineludibilità che è il filo conduttore di quest’opera che racchiude un itinerario di vita vissuta, quanto mai spontaneamente comunicato per quel che esso afferma e produce: amore vero, non retorico, sanguigno per questa terra, i suoi valori e i suoi disvalori, per la sua gente che sa piangere e gioire, che lavora e tramanda il sudore della fronte e del cuore ai figli e ai nipoti. Il tutto, con una dignità che è il segno distintivo, in fondo, di quella moltitudine silenziosa che io amo e che partorisce, ogni giorno, l’altra meravigliosa realtà siciliana lunga di secoli, di storia e di civiltà mediterranea, Leggiamolo, dunque, questo libro come un canto d’amore incorrotto, durato per lunghi anni e mai concluso. Leggiamolo come un itinerario esistenziale nel quale tutti gli eventi della vita dell’autore, i suoi incontri, i suoi interessi, si intrecciano nel sentimento del tempo con la terra, il “suo” vino, gli uomini, i suoi sogni, le speranze, i suoi successi. E i progetti di un uomo che è stato e resta un tutt’uno con il mondo che l’ha fatto nascere e che con lui è cresciuto. In una sintesi elettiva che il lettore troverà in ogni pagina, in ogni riga di questa passionale testimonianza di un’anima candida. Perché quanto Diego racconta è la sua vita: l’ineluttabilità della sua vita. E, forse, anche della nostra.


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Inter… citazione di pensiero … buono, pulito e giusto Confondere l’efficienza con la frenesia è anche confondere la crescita con lo sviluppo, l’economia del prodotto interno lordo con quella della felicità interna lorda, il denaro con la ricchezza, il costo con il valore… abbiamo capito che nel nostro futuro non saremo più ricchi se avremo più cose: saremo più ricchi se avremo più tempo per goderci le cose che abbiamo. Il lento e prolungato godimento non può essere praticato se non impariamo a vivere meglio con meno. Non è altro che la decrescita felice di Serge Latouche, ma anche l’austerità edonistica di cui parla Wolfgang Sachs: uno dei messaggi più geniali e rivoluzionari per il nostro futuro.

da Slow Food 43 Dicembre 2009

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15 prologo

Sogno di un pomeriggio di fine estate Era quasi settembre – un sabato che avevo fatto tardi a pranzo – e camminavo tra i filari di grecanico, nel piccolo vigneto di contrada Kelbi che mio nonno (di cui porto il nome) comprò nel ’46 col ricavato di quel buon raccolto: il primo dopo la

giorno di possibile inizio. Non faceva molto caldo, annata davvero anomala. Respiravo a pieni polmoni e guardavo con gli occhi lucidi l’oceano verde di quella dàgala9: lo stesso scenario dei miei pantaloni corti.

guerra che lo aveva visto richiamato, adulto, lui che da ragazzo del ’99 aveva fatto la Prima sul Monte Grappa. C’erano una volta vigne di inzòlia2 e di grillo su quel timponèllo3: basse, ad alberello. Ce ne stavano ottocento in un tùmmino4, col sesto antico, in coltura promiscua con gli alberi di olivo. E l’uva era dolcissima, la buccia degli acini arrossata dal sole tardo-estivo. Papà me ne portava a riciòppi5, insegnandomi a mangiarla – insieme al tumàzzo6 oleoso e pepato – col pane di casa che sua madre faceva con la stessa impareggiabile maestrìa con cui (alla marsalìsa) sapeva ‘ncucciàri7, grosso, il cuscus. Pensavo a quei sapori irripetibili, a quegli orizzonti non pretenziosi della mia infanzia, mentre ero intento a scostare le pàmpine8 per individuare i peduncoli, per scoprire i grappoli e destinare così il

Solo i casotti, purtroppo, erano più diroccati, a causa dell’abbandono subìto: dal tetto di qualcuno ora mancavano pure le ciaramìre10. Ma la magia del sito era rimasta intatta, medesimo l’ineffabile rumore del silenzio. Sì – pensavo – c’è la spalliera adesso, col fil di ferro e i pali in cemento. Le cartedde11 sono di plastica ora, non più di canne e vimini. Ma la terra – notavo – ha lo stesso intenso color vinaccia. E il sole sta andando a dormire sempre dietro al gelso… Il trillo del telefonino mi sorprese mentre ero assorto, sospeso in quella irreale dimensione spazio-tempo: fra il ricordo vivo dell’età innocente e l’immersione totale in un paesaggio che sentivo mio habitat perenne. Mi parve quasi una profana-




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