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Your love is something I cannot remember
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Prologo - Helena 1. Quando mi accorsi che la busta accartocciata nella cassetta della posta non era la pubblicità della finanziaria provai un tuffo al cuore. Iniziai a tastarmi febbrilmente le tasche per trovare le chiavi, e quando sollevai il coperchio di latta prestai un'attenzione certosina nell'estrarre la lettera intatta, a dispetto dell'operato del postino che l'aveva conficcata lì dentro con tutta la sua forza. Il cielo era viola e prometteva di rovesciare secchiate d'acqua che presto si sarebbero infiltrate nell'apertura della cassetta, trasformando il malloppo di carta in una poltiglia sbavata di inchiostro nero e blu. Che culo, pensai, e senza nemmeno guardarla la misi sotto braccio e mi infilai dentro casa. Un secondo dopo, con le spalle appoggiate alla porta, la stringevo fra le mani soppesandone il contenuto. In alto a destra c'era il timbro dell'Università. Era pesante, alta almeno mezzo centimetro e aveva un aspetto rassicurante. Rimasi così per un po', poi pensai che nessuno si prenderebbe la briga di spedire una busta così per dirti di no. Con le mani che tremavano, iniziai lentamente ad aprirla. 2. Due settimane dopo, con un volo low cost da Cracovia, arrivò Helena. Mi presentai all'areoporto con un mazzo di fiori gigantesco che mi ero fatto preparare da mia madre. Avrei preferito qualcosa di più contenuto, ma la fiorista, presa dall'entusiasmo, si era scatenata in una composizione che sarebbe andata meglio per una cerimonia di nozze. I colori erano freschi ed anche se il mazzo continuava a gocciolarmi acqua sui pantaloni, ero ragionevolmente convinto che Helena avrebbe apprezzato. Fortunatamente la giornata era torrida, e già prima di arrivare al gate ogni macchia ambigua si era completamente asciugata. Appoggiai il mazzo su un tavolino e risposi imbarazzato ai sorrisi di alcune donne che evidentemente avevano intuito la situazione. Mi sentivo vagamente imbecille. Le porte si aprirono ed un gruppo di turisti inglesi sciamò fuori dal recupero bagagli come un nugolo di api. Li potevi riconoscere per le facce da cavallo o per i vestiti dai colori improbabili, più spesso per una combinazione dei due fattori. Si bloccarono pochi metri più avanti, intralciando la strada con le loro borse ingombranti su cui altri turisti continuavano ad inciampare. Ero nervoso. Mi alzai sulle punte dei piedi cercando di vedere Helena, che arrivò pacifica pochi attimi dopo. Dondolava dolcemente la testa cercando da dietro enormi occhiali da sole un volto conosciuto. Mi spostai sulla sinistra superando il grumo inglese e le sbucai fuori davanti, cullando goffamente il grosso mazzo di fiori come se avessi fra le mani un neonato. Lei si sciolse in un sorriso e disse «Hello!». «It's the first time you buy me flowers», sussurrò ridendo dopo avermi baciato sulla guancia. «Not true», risposi, pensando al San Valentino precedente, mi ero presentato in casa alle otto di mattina con un una rosa rossa su un vassoio colmo di crossaint. Uscimmo dall'aeroporto discorrendo del viaggio - che era andato come avrebbe dovuto e ci avviammo verso la Toyota che avevo parcheggiato il più vicino possibile, perché Helena aveva questa fissazione di ottimizzare la distanza fra il luogo in cui si trovava e l'auto.
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Diverse volte avevo cercato di spiegarle che in Italia ci sono da considerare un paio di fattori aggiuntivi, come la possibilità di essere fottuti dai vigili per un minuto di scarto o l'eventualità che il parcheggio più vicino comportasse manovre di assestamento al di là del bene e del male, ma senza grandi risultati. Capii tuttavia che le cose non stavano partendo con il piede giusto quando lei, appena dopo la doccia, mi chiese di andare a Venezia per cercare una stanza. La storia della stanza mi tormentava fin da Berlino, dove ci eravamo visti in marzo e dove avevamo passato il weekend chiusi nei bar bevendo cocktails e facendo il punto sulla relazione, che no, non stava funzionando splendidamente. Ad un certo punto, fra una birra e un piatto di nachos, un po' brillo le avevo detto: «Se vivessimo insieme, non credo che ti sopporterei per molto». E lei, guardandomi con quegli imperscrutabili occhi nocciola incorniciati da occhiaie troppo marcate, aveva semplicemente risposto «Finalmente ci sei arrivato». Così, nei giorni precedenti il suo arrivo, avevamo cercato di trovare un compromesso. Lei avrebbe affittato una stanza a Venezia, vicina alla sede del corso di italiano che intendeva frequentare, e ci saremmo visti alla sera, quando sarei stato libero dal lavoro. Anche se all'inizio quell'idea di non poter - davvero - vivere sotto lo stesso tetto mi era sembrata stupida - anche solo da un punto di vista economico - lentamente mi ero convinto che sarebbe stata la soluzione migliore. Ci saremmo incontrati il giusto per non stancarci in fretta l'uno dell'altra, e in fondo, pensavo, dopo tutti questi mesi passati lontano, forse era meglio iniziare per gradi. Così alcune settimane prima avevo cominciato ad indagare sui posti disponibili, ma trovare una stanza economica conto terzi senza sentirmi dire «ti faremo sapere» era risultato essere più complesso del previsto. L'idea a cui eravamo giunti dopo l'ultimo «mi dispiace ma abbiamo già trovato qualcuno» era quella che sarebbe stata lei in persona a cercarsi la stanza, in modo da farsi vedere direttamente dagli ipotetici futuri coinquilini. Nel mentre, avrebbe sempre avuto come base di appoggio il mio piccolo appartamento di Preganziol. Quello che in questo momento non andava - non andava del tutto - era che invece di dedicarmi il resto della giornata come era lecito aspettarsi dopo tre mesi che non ci vedevamo, Helena aveva deciso di cominciare immediatamente la ricerca della casa. Con un po' di imbarazzo nella voce - lei mi aveva chiesto «Avevi altri programmi?» - risposi che «No, ovviamente possiamo iniziare anche subito, solo pensavo fossi stanca e volessi andarci domani», poi cercai di sembrare il più normale possibile e mi preparai ad uscire con una sensazione sgradevole in pancia. 3. Passammo i primi tre giorni a vedere stanze che erano libere ma c'è altra gente che deve vederle e vi farò sapere entro qualche giorno. Ovviamente nessuno richiamava, e quelli che erano così gentili da sprecare un sms si scusavano dicendo di aver assegnato il posto a qualcun'altro. I motivi delle resistenze erano molteplici: prima di tutto Helena era una straniera che non parlava bene l'italiano - anche se a dire il vero ero estremamente sorpreso di quanto avanzata fosse la sua comprensione - il che comunque era bastato a far sollevare il sopracciglio a qualcuno, e secondariamente era una persona che non dava garanzie di rimanere per l'anno accademico, come in genere gli studenti facevano. Se non trovava un lavoro in fretta, difficilmente si sarebbe trattenuta oltre l'estate. Una stanza a dire il vero alla fine era saltata fuori, perfino bella, ma era vicino ai Giardini di Sant'Elena, praticamente dall'altra parte di Venezia rispetto a dove avrebbe avuto il corso. Non che fosse un problema insormontabile - in fondo avrebbe potuto cercare dei con-
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tatti per lavorare all'imminente Biennale - ma nel pacchetto era compreso anche il dover dividere la stanza con un ragazzo. Eravamo lì a vedere questa stanza, molto carina, ben accessoriata, con internet, la lavatrice, quattro televisioni - praticamente una tv a testa - e poi la ragazza che avevamo contattato, Chiara, fra una frase e l'altra, aprendo la porta della stanza da letto, aveva deciso di dare l'annuncio: «...questa è la mia stanza. Lì dormo io» indicando un letto rosa nell'angolo, sovrastato da uno specchio gotico attorcigliato su se stesso. Un pc portatile grigio appoggiato ai piedi del letto tagliava a metà la stanza ed il cavo di rete usciva dalla porta finendo in salotto. «...e qui dorme Ugo», concluse. Ugo era un tizio con i capelli lunghi, dalla faccia sembrava un metallaro, che avevamo incontrato all'entrata. Uno che sorrideva molto. Troppo per i miei gusti, quando il sospetto che fosse così contento perché pregustava di dividere la stanza con Helena iniziò a sfrigolarmi in testa. «Io me ne vado alla fine del mese», disse Chiara, «Quindi se lei vuole subentrare...». Carcando di sembrare il più normale possibile risposi «Sì, è bello qui. Poi avete internet» «Fastweb» puntualizzò la ragazza. «Sì, Fastweb», mi corressi, ma non era importante. «Ah, non vi ho mostrato il bagno!» Helena, sullo stipite della porta, in un italiano stentato disse: «C'è tutto quello che serve...sembra». «Sì, beh, è un bagno» rispose l'altra. Ci guardammo un attimo negli occhi. «Allora?», chiesi. «È bella», disse lei, ma senza sorridere. «È ok? Va bene?» «Ci pensiamo», disse, e quasi mi si piegarono le gambe. Mi girai verso gli altri, che attendevano di sapere il da farsi, e mettendomi le mani ai fianchi diedi un'ultima occhiata intorno: «Sì è bella. Sembra proprio un bel quartiere. Magari adesso ne parliamo un attimo fra noi e vi facciamo sapere per domani sera. Può andar bene?» Qualcosa negli occhi di Chiara mulinò un istante, poi appoggiata alla sedia di Ugo, che continuava a sorridere: «Può andar bene. Abbiamo altra gente che la deve visitare, quando sapete qualcosa chiamate». «Senz'altro», le dissi, già avviato verso l'uscita. Quando fummo soli nella calle, ricca dei colori pastello dei muri e degli abiti stesi ad asciugare, rimanemmo qualche attimo in silenzio e poi le parlai piano: «La puoi prendere se vuoi. È ok per me» «Sì, ma devo dormire con un ragazzo. Non è che la cosa mi faccia sentire completamente a mio agio e se poi per te è un problema...» «Non lo sarà. Senti, dai, è vicino alla Biennale. Puoi cercare lavoro qui. Tanto il corso dura solo due settimane». «Non lo so, continuiamo a cercare. Magari troviamo qualcos'altro», chiuse lei, e sul battello di ritorno non ne parlammo più. La notte del giovedì, distesi a letto, con le luci spente, le parlai. Avevo cercato di trasformare il bacio della buonanotte in qualcosa di meglio, ma lei mi aveva detto solo «Matteo...» trascinando la "o" così a lungo che avevo capito che non era serata e avevo spento la luce. Lei mi dava le spalle ma potevo benissimo indovinare che
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se ne stava con gli occhi aperti a fissare la porta semichiusa da cui sarebbe dovuta entrare aria fresca e da cui invece entravano solo zanzare. «Senti, lo puoi prendere l'appartamento...» iniziai, ma senza essere molto convinto che fosse per quello. «No», rispose Helena senza girarsi. «Perché sei così triste?», la incalzai. Helena respirava piano, vedevo il suo corpo muoversi abbassandosi lento e ne ascoltavo il rumore. Rimasi così per un po', senza ottenere risposta. Ad un certo punto mi girai su un lato, riprendendomi le coperte che lei aveva rubato, sforzandomi di dormire. Pensavo che avremmo dovuto risolvere questa cosa dell'appartamento in fretta, o le cose si sarebbero guastate. La vedevo imbronciata e scontrosa, e pur sapendo che non era solo la stanza a preoccuparla, mi ero convinto che una volta sistemato quello, il resto si sarebbe messo a posto da sé. Lei era nella seconda settimana del corso d'italiano, e anche se uno dei due insegnanti che le avevano affibbiato era poco più di un novellino, sembrava che frequentare riuscisse a svagarla a sufficienza. La mattinata libera dal lavoro era l'occasione perfetta per farle trovare quello che cercava e chiudere il discorso prima che fosse troppo tardi. Mi preparai un caffè, e con la tazza nera in mano passai le successive due ore a setacciare ogni possibile anfratto del web alla ricerca di qualche annuncio che non fosse scaduto da tre mesi. Trovai quello che cercavo verso le 11, chiamai per conferma ed ottenni un appuntamento per la sera stessa. Le mandai un messaggio nella speranza di incuriosirla («Quando torni c'è una sorpresa») e spensi il pc, convinto di aver fatto un buon lavoro. Verso le 20.30 lei rientrò. Stavo preparando unʼinsalata di pomodori e la salutai con un semplice «Ciao Helena!». Lei poggiò la borsa, si tolse la felpa e avvicinandosi al lavello disse in italiano: «Ciao Matteo. Che cosa stai facendo?». Aveva un modo buffo di parlare, molto dolce, e ne ridevo spesso. Avevo scoperto poi che per questa cosa lei si era un po' risentita, tanto che mi aveva rinfacciato «Non vedo l'ora che tu possa dire qualcosa in polacco per prenderti in giro», ma la realtà era che ridevo perché ero felice di sentirla parlare così, non per l'accento che aveva. «Faccio un'insalata» «Ah-a» La guardai sorridendo. «Perché non ti vesti? Andiamo a vedere un appartamento» Lei rimase un attimo interdetta, poi chiese: «Dove?» «A Mestre. Fatti la doccia, ne parliamo dopo» Le si allargò un sorriso in faccia. Saltellò su se stessa dicendo solo «Yupiiiii», e a piccoli balzi si trasferì in bagno. Arrivammo in questa stradina che era subito davanti all'ospedale. Se mai esisteva un poste decente a Mestre, era quello. Vicino al centro, vicino alla fermata dei bus, facilmente raggiungibile in auto...insomma, difficile trovare di meglio, anche se io avevo quell'avversione tutta tipica dei trevigiani per la città. Che di suo, comunque, faceva poco per sembrare bella. Ci avvicinammo alla palazzina marrone, cercando la porta di ingresso che trovammo poi sul lato opposto di quello da cui eravamo arrivati. Suonammo il campanello rimanendo in attesa. Rispose una voce femminile e anziana: «Chi é?» «Signora siamo qui per l'appartamento, ho parlato con suo figlio oggi».
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«Scendo», rispose dopo alcuni attimi di silenzio. Ci eravamo vestiti tutti e due elegantemente per fare bella figura, ma la donna che ci raggiunse pochi minuti dopo camminava a testa bassa e a malapena ci degnò di un'occhiata. «Da questa parte», si limitò a dire. Perplessi la seguimmo senza fare storie ulteriori. L'appartamento era nel lato che avevamo ispezionato inizialmente, quindi girammo intorno alla casa e dopo due rampe di scale arrivammo al pianerottolo fatidico. La porta era aperta e un ragazza in pigiama estivo ci attendeva. «Ciao», disse. «Lei è Paula», aggiunse la donna «è rumena». Entrammo nel corridoio e poi subito nella stanza che Helena avrebbe potuto affittare. «Qui a sinistra c'è la cucina e lì vivono i due ragazzi», comunicò sbrigativamente la donna «Questa è invece la stanza per lei, che deve dividere con Paula». In effetti la stanza di Paula era grande, e sul lato destro presentava un secondo letto con sopra solo il materasso. «Le lenzuola dovete portarvele voi». «Non credo sia un problema», dissi. «Che te ne pare?», rivolto a Helena. «Mi sembra ok...posso conoscere i due ragazzi che vivono qua?», chiese alla donna. «Roberto è al lavoro...giusto Paula?». La ragazza fece un cenno affermativo. «...e Stefano mi sa che torna domani». «Ah...», sussurrò lei «...e tu che cosa fai?» domandò girandosi verso Paula. «Io lavoro, ho un lavoro in centro». «Ho capito...c'è internet?». «No, ce l'ha solo Stefano, ma è suo». «Capisco...non è un grosso problema». Per sapere come muovermi, cercai il suo sguardo per avere una conferma che il posto andava bene. «È ok. Lo prendiamo» «Ottimo» dissi. «Signora, parliamo dei dettagli» Il giorno dopo stavo lavorando al computer e il cellulare iniziò a vibrarmi in tasca. In genere Helena non chiamava se non c'erano problemi, quindi mi defilai velocemente dall'ufficio per raggiungere il magazzino dove i colleghi di solito si chiudevano a fumare. La chiamata persa era la sua, così richiamai per sapere se era tutto a posto. «Ciao Matteo» «Ciao, hai già finito con il corso?» «A dire il vero non ci sono andata» Un accazzo mi si raggelò in bocca. Quando faceva cose del genere potevano essere solo guai in arrivo. «...come mai? Va tutto bene?» «Sì, più o meno...senti, dobbiamo parlare» Ecco, lo sapevo. Di cosa dobbiamo parlare? - pensai - di che stracazzo dobbiamo parlare se adesso il problema sembrava risolto!? Mi guardai un attimo attorno. Non è che potessi assentarmi così dall'ufficio per più di cinque minuti alla volta. «Dimmi, dobbiamo parlane adesso?» «Ti devo chiedere una cosa» «Ok dimmi» «Senti...»
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Dai, Helena, spara. «Tu credi che...insomma...pensi che potrei rimanere a casa tua?» Cosa? «Cosa?», ripetei al ricevitore. «Pagando le bollette, si intende» Ero rimasto senza parole. «Ma ovvio che sì, insomma...te l'avevo detto fin dall'inizio». Ed era vero. Era stata la prima cosa che le avevo proposto prima che arrivasse. Vieni da me, ti trovi un lavoro, metti da parte qualcosa e poi ce ne andiamo insieme. Ma niente, a Berlino sembrava che lei avesse deciso diversamente e quella frase che mi ero ritrovato a dire sotto l'influsso di troppe birre aveva sancito un accordo ufficiale. Invece adesso...adesso cambiava idea. Le gambe mi si sciolsero come burro quando la tensione iniziò ad andarsene. «Dai, senti», le dissi «Appena torno a casa chiamo la signora, ok?» «Ok, grazie» «Ci vediamo dopo?» «Ci vediamo dopo». Sorridendo, misi il cellulare in tasca a tornai al mio lavoro noioso. 4. Di quello che accadde quel pomeriggio ho un ricordo confuso. Tornando a casa in macchina dal lavoro pensavo che sarebbe stato un giorno grandioso, che finalmente saremmo stati insieme e che da quel momento in poi le cose non avrebbero potuto far altro che migliorare. La trovai al tavolo della cucina, che leggeva alcune fotocopie. Credo roba del corso di lingua. «Ciao bella», dissi. «Ciao bello», rispose lei, e sorrise. Ma di lì a poco scoprii che da sorridere non cʼera proprio un cazzo. Avevo appena messo la mano sulla maniglia della dispensa per preparare del cibo quando da dietro iniziò a parlare. «...se rimango qui prima dobbiamo fare un discorso» «Va bene,» risposi girandomi, perplesso dal tono di voce che aveva usato. Ormai la conoscevo e sapevo quando aspettarmi problemi «Vai pure». Fece un respiro, aveva lo sguardo inclinato, come se mi guardasse dal basso verso lʼalto, ed era un poʼ pallida. Quandʼera così le occhiaie risaltavano di più, gli occhi nocciola diventavano quasi neri, sprofondando nelle orbite, e la piccola vena che aveva sulla tempia sinistra si poteva notare anche ad alcuni metri di distanza. Mi era sempre piaciuta quella vena, ce lʼaveva solo lei. «Ci sono molte cose di te che non sopporto» Silenzio. Ah. «Ok...vai avanti». E a quel punto di fame non ne avevo proprio più. I dettagli li ho dimenticati. So solo che ad un certo punto mi disse che ero un debole, e che lei cercava un altro tipo di uomo. Io, che un debole lo sono sempre stato, iniziai a frignare quasi subito, cadendo velocemente in pezzi quando ad un certo punto se ne venne fuori con lʼidea forse è meglio se torno a casa. Praticamente mi buttai ai suoi piedi urlando «No, no, per favore no!». Iniziò a dire cose cattive.
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Poteva essere perfida, ma lo sapevo, lʼaveva già fatto. E glielo rinfacciai. Le dissi che se voleva poteva andare e trovare un altro pirla e vedere se anche lui avrebbe cercato di tenersela stretta dopo averla conosciuta bene. Le dissi che non ero io quello che lʼaveva mollata per una storiella qualsiasi, e che se ero così debole come cazzo avevo fatto a riprendermela indietro? Al momento non mi sfiorò neppure lʼidea che forse lʼavevo rivoluta proprio per quello. Poi ci calmammo un poʼ. Lei andò in camera da letto e pianse. Io rimasi in cucina a frignare. Ancora piangevamo tutti e due quando alle due e mezza mi infilai di nuovo quel merdoso maglione verde da impiegato e mi apprestai a tornare al lavoro. Le chiesi: «Vedi di esserci quando torno» Lei non rispose niente, mugolò qualcosa e io mi chiusi la porta alla spalle. Non mi sarei sorpreso di non trovarla più al rientro. Era stata una brutta litigata, partita per una cazzata ma che aveva fatto tornare a galla un sacco di rogne che speravo ci fossimo lasciati alle spalle. Ma lei cʼera. Quando tornai alle otto passate, lei cʼera, e aveva sistemato i suoi vestiti nellʼarmadio. I primi giorni dopo la litigata andarono bene. Credo volessimo provarci di nuovo tutti e due. Un weekend andammo in Slovenia. La giornata era splendida, il paesaggio favoloso. Ci fermammo a Ljubljana a metà pomeriggio, prendemmo una birra in un bar distante dal centro ma delizioso e tranquillo. La ragazza del bar ci offrì delle sigarette, così noi prendemmo unʼaltra birra o forse due. Sembravamo felici, e credo che quel giorno lo fossimo davvero. Lei improvvisamente sembrava tornata quella che avevo imparato ad amare di nuovo nel viaggio in Croazia che avevamo fatto lʼanno prima dopo il cosiddetto periodo di pausa. Era stato fantastico e senza dubbio ci aveva fatto innamorare ancora lʼuno dellʼaltra. Era andato talmente bene che alla fine, al posto di accompagnarla all'aeroporto di Bologna e tornarmene a casa, saltai con lei sullʼaereo e passammo altri tre o quattro giorni insieme a Cracovia. Roba che non puoi dimenticare. Ecco, quel pomeriggio a Ljubljana era così. La città era scintillante, tanto che decidemmo di rimanere. Io ero un poʼ brillo, il cielo prometteva temporale e in macchina avevo una mezza tenda. Lʼaltra mezza lʼavevo lasciata a casa, perché non credevo saremmo rimasti. Ma, si poteva fare, cʼerano coperte e la parte principale della tenda, cʼera il materassino e soprattutto cʼeravamo noi. Se pioveva, eravamo fottuti, ma in quel momento non ce ne importava un fico secco. A nord del centro cʼera un campeggio. Alla reception ci prestarono una tenda rotta e aggiungendoci quello che avevo nel bagagliaio arrivammo ad avere un giaciglio vagamente accettabile. Forse per la birra, forse perché prima o poi sarebbe venuto a galla comunque, alla sera, sul bordo di una piscina vuota, iniziammo a parlare di femminismo. Era una cosa in cui era sempre stata interessata, ma ultimamente ne stava diventando ossessionata. Alla frase «...e guarda che di casalinghe che non fanno un cazzo dalla mattina alla sera io ne conosco» andò fuori di testa. La verità è che quelle casalinghe potevo mostrargliele, sedute al bar del centro di Zero Branco, con i figli allʼasilo e i mariti impiegati in banca, ogni giorno a bersi il caffè accompagnato da brioche e ansiose di andar via solo allʼapprossimarsi di Beautiful. Ma niente, sembrava che avessi detto tutte le donne sono puttane, e improvvisamente divenni uno sciovinista lurido e meschino. E così quello che poteva essere la vacanza della rinascita tornò a sbattermi in faccia la squallida realtà di un rapporto che non si reggeva più sullo scambio di idee, comʼera stato in passato - per quello lʼavevo amata, senza dubbio - ma più sullʼevitare, gentilmente, argomenti sgraditi ad uno dei due.
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Gli ultimi giorni insieme li passammo dai miei parenti. Mia nonna voleva conoscerla a tutti costi, farle un caffè - con la grappa, mi raccomando, portarla in giro dai vicini. Sapevo che era una pessima idea, già era stato un elemento di instabilità mesi prima, e riuscii almeno ad evitare il giro panoramico dei parenti nei paraggi, nemmeno fosse una mucca nuova di cui vantarsi. Con i miei aveva un bel rapporto, specie con mio padre. Mia mamma cercava di mascherare la cosa, ma sapevo che non le piaceva più da quando mi aveva lasciato in tronco, a disperarmi come un imbecille con un biglietto di aereo già fra le mani. Non le avevo dato motivo di credere che lʼavrebbe rifatto, ma probabilmente fra donne si capiscono al volo e vedevo che non le accordava più la fiducia che le aveva dato in precedenza. Ma andava bene così, quando ancora speravo che le cose si potessero sistemare pensavo che con il tempo tutte e due si sarebbero reciprocamente accettate. Per di più, i genitori di Helena mi piacevano molto, e speravo intensamente che lei potesse sentirsi ugualmente a suo agio a casa nostra. La nostra storia finì quasi senza che facessimo niente. Da alcuni giorni dormivamo nello stesso letto ma lei, semplicemente, mi dava la schiena per tutta la notte. Stava male, e si vedeva nel suo sguardo alla mattina, ma non ne sapevo il motivo preciso, né tanto meno se ci fosse ancora un modo di risolvere la questione. Era più uno scazzo generale, un malessere evidente ed inevitabile. Non feci in tempo ad elaborare nessuna strategia di riconquista. Nel giro di ventiquattro ore passammo da una cena di cortesia a casa dei miei a lei che mi diceva che sarebbe rimasta fino al fine settimana, e poi se ne sarebbe andata. A quel punto non cʼera più molto da discutere, e la situazione mi metteva così terribilmente a disagio che lʼunica ipotesi accettabile era che partisse senza voltarsi. Non ci fu bisogno di aspettare sabato: mercoledì mattina le telefonarono dalla Biennale, dove aveva lasciato alcuni curriculum. Un teatro le offriva un posto di traduttrice itinerante per un gruppo di artisti cubani, diretti prima in Germania e poi in Polonia. Disse semplicemente: «Vado». Allʼalba del giorno successivo la aiutai a portare giù la valigia. La abbracciai e la baciai. Piangevo come un cane bastonato, una vicina di casa uscì anche a vedere e cercai di nascondere il volto sfigurato voltandomi da unʼaltra parte. «Non piangere, sarai molto più felice senza di me», mi disse. E sapevo che era vero. Ma in quel momento mi sentivo spaccato dentro. Avevo combattuto così tanto per far funzionare quella relazione che non poteva, semplicemente non poteva, finire così. Non era giusto, né buono. Ma forse era saggio. «Allora ciao», disse baciandomi. «Ciao... ci vedremo ancora», fu tutto quello che risposi, poi mi si incasinò la voce e rimasi a guardarla camminare via, in ritardo per il lavoro, singhiozzando come un bambino nel vialetto di accesso del mio condominio. 5. A quel tempo partecipavo come webmaster ad un progetto cinematografico basato su un videogioco piuttosto famoso. Negli ultimi tempi mi ero messo un poʼ in disparte e sentivo che era venuto il momento di salutare. Rimasi con un attimo con le dita sulla tastiera, poi feci un bel respiro e scrissi senza mai fermarmi.
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«Allora eccoci qua, giovani amici. Ho uppato sul server tutti i file del sito. Prendetene visione e datemi l'ok sul funzionamento. Quello che ho riguardo al film è lì, chiunque lo prenda in mano lo tenga presente. Alcune cose vecchie forse si trovano ancora sparse per le cartelle del sito, nel caso fateci un giro. Io faccio log out, come annunciato. Per me sono giorni di grandi cambiamenti, non tutti piacevoli. La settimana scorsa io e la mia ragazza ci siamo lasciati - quando finalmente avevamo iniziato a convivere - dopo anni di tira e molla e di una storia vissuta prevalentemente a distanza. Che volete, la gente cambia e a volte ti rendi conto che le cose semplicemente non si incastrano più. Fra due settimane darò le dimissioni dal lavoro, in maniera da essere libero per la fine di agosto, e sicuramente mi aspetta un mese di fuoco con il mio capo, che farà l'offeso spaccandomi le palle dalla mattina alla sera. A breve chiuderò la mia esperienza come recensore di Republic, se si degnano di darmi un segno sugli ultimi articoli. Il 29 agosto, poi, se non muoio prima, parto per Helsinki e chi si è visto si è visto. Cosa mi aspetta lì non so, spero qualcosa con cui ricominciare. Qui mi sto facendo terra bruciata attorno e non posso permettermi di arrivare lì e non essere contento :) Fa un po' paura, ma l'ho fortemente voluto e adesso non posso proprio fermarmi. Intanto tornerò ad essere studente per un paio di anni - se riesco a sopravvivere con i pochi soldi che ho - poi sinceramente spero di trovarmi bene e iniziare qualche bella esperienza nel campo dei media. Cosa non so, ma ho sicuramente un panorama migliore là che qua. A voi tutti dico grazie. So di aver fatto poco per il film. Avrei potuto fare di più, ma in un certo senso non era il mio destino. Ho fatto altre scelte e spero di non aver sbagliato. Da osservatore ormai esterno posso dire che state facendo un lavoro fantastico e non ho dubbi che con il film finito in mano il 90% di voi potrà farlo fruttare a livello professionale. Quello che mi auguro, però, è che BabylonAD prenda una forma legale definita e che possa diventare un "nucleo di rinascita" in un paese che secondo me è allo sbando. Sono un po' codardo, ma sinceramente l'Italia mi ha rotto i coglioni e di cambiare le cose non ho più voglia. Prima mi rinfrescherò le idee nella neve, poi magari torno e faccio il presidente. Si vedrà :) Ogni tanto scenderò a mangiare una pizza con della mozzarella vera. Mi piacerebbe promuovere il team lassù al nord - fosse anche per delle scene in una tormenta :) - ma sinceramente non saprei ancora come fare. Datemi un po' di tempo e vediamo :) Sicuramente vedrò alcuni di voi prima di partire, credo che farò una festa per i più intimi sul finire di agosto. Chi si sente chiamato in causa segni già nel calendario, probabile il weekend 25-26 ma vi farò sapere. Esco da questa mailing list perché a questo punto è giusto che segua il progetto da spettatore. Ho visto le foto delle riprese e devo dire che ormai siete un gruppo vero e proprio, e se non mollate ad un passo dalla fine, ormai è fatta. Rimango raggiungibile ai soliti recapiti. Se vi va di vedere la Finlandia fatemi un fischio. Grazie a tutti e see you soon, space cowboys!» Mi pareva andasse bene. La rilessi un paio di volte, in alcune parti faceva venire un po' il magone - sembra lo spiegone finale di un film, avrebbe scritto qualcuno più tardi - ma probabilmente era un buon segno. Spensi il portatile e mi vestii per andare a correre. Nell'iPod suonavano gli Explosions In The Sky. Raggiunsi il supermercato - della catena Lando - e lì attorno c'era un grosso parcheggio che al tramonto si svuotava ed era perfetto
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per allenarsi. Iniziai con energia, a scatti lunghi, cosa che di solito non riuscivo a fare perché quando finivo di lavorare ero sempre stanco morto. Una coppia stava passeggiando sul marciapiede di pietre rosse sbeccate portando a spasso un cane ed una bambina minuscola, che rideva ad ogni mio passaggio. Non riuscii a fare a meno di sorriderle, ma poi sul più bello la canzone - Catastrophe and the Cure mi esplose nelle orecchie, ed era così triste che anche se stavo ridendo mi venne da piangere, e per poco non lo feci davvero. Camminai per un po', riprendendo fiato sulla strada verso casa, e pensando alla sensazione strana che provavo. Di essere sul bordo di un grande buco, raccogliendo energie, perché il salto che stavo per spiccare non potevo sbagliarlo, no, o chissà dove sarei andato a finire. Tornai a casa dopo appena venti minuti e trovai due risposte al mio ultimo messaggio di addio. Gabriele diceva: «È stato un grandissimo piacere conoscerti, sono sicuro che troverai la tua strada. Magari un giorno ci si ribecca, al massimo ci si sente via internet. Un abbraccio e un grandissimo in culo alla balena per il tuo futuro.» Il secondo, di Silvia, era più personale: «Ciao Matteo! Non posso lasciarti andare via senza, a mia volta, ringraziarti. Se faccio parte di questo splendido staff è anche per merito tuo. Grazie mille anche per avermi dato la possibilità di lavorare con te ed Andrea nel corto. E, a proposito, fatti sentire che organizziamo una serata per vedere il lavoro prima che te ne vai. Un grande abbraccio e ricordati di noi se il freddo non sarà solo fuori dalla porta di casa...» Sorrisi e mi infilai in doccia.
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