GERARDO MANCA ARCHITETTO / LA CITTA’ POSSIBILE
Bari, 2014
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LA CITTA’ POSSIBILE Il metodo salverà il mondo, il capriccio lo distruggerà.
Gerardo Manca architetto / Bari, 2014
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K. si avviò verso la scala per raggiungere la sala delle udienze, ma si fermò di nuovo perché vide nel cortile, oltre a questa scala, altri tre ingressi di altrettante scale, e inoltre un piccolo ingresso sul fondo sembrava condurre su un secondo cortile. Si infastidì perche non gli avevano indicato con maggiore precisione dove si trovava la sala: lo trattavano con una strana indifferenza o negligenza, aveva intenzione di dirlo forte. Alla fine cominciò a salire la scala, giocando con il ricordo di quello che aveva detto la guardia Willen, che il tribunale era attirato dalla colpa, e da questo seguiva che la sala delle udienze doveva trovarsi sulla scala che avrebbe scelto a caso. (Franz Kafka / Il processo)
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Prologo Il Moplen, la Fiat cinquecento, la minigonna, i basettoni e i baffi, i movimenti di liberazione delle donne e l’incanto dei jukebox davanti ai bar, tra le opposte atmosfere di Tintarella di luna e Yesterday, sono le icone del cosiddetto boom economico italiano, del cinquanta e sessanta. Gli anni del dopoguerra con le immagini dell’atavica povertà delle regioni del sud sembravano essersi dissolti, cancellati dalle nuove speranze, dai desideri di riscatto per un nuovo mondo, una nuova vita, un lavoro dignitoso, una nuova era democratica e ricca. Le campagne d’Italia ancora custodivano i segni delle antiche sofferenze, dei soprusi e dell’atavica fame, mentre l’industria, le ciminiere fumanti e le tute blu incominciavano ad essere i simboli rassicuranti di un benessere insperato che bisognava a tutti costi inseguire. La tronfia retorica dei cinegiornali, della settimana INCOM, rendeva ogni fatto stupefacente, tra gli sguardi degli adolescenti, dei giovani, dei nonni con le coppole di panno sdrucite, nel buio delle sale cinematografiche che odoravano di vecchi legni, immerse nelle nebbie delle Nazionali senza filtro. La sensualità di Anita Ekberg piroettava con i desideri dei ragazzi, affascinati dalla città, storditi dall’adrenalina beffarda dei sogni che apparivano finalmente possibili. Le campagne intanto sprofondavano nel silenzio, nella quiete dell’abbandono. Altre storie incominciavano, altri materiali sostituivano quelli antichi, mutando i vecchi mestieri. “Ma Signora badi ben, che sia fatto di Moplen! “ recitava Gino Bramieri nei siparietti di Carosello. L’invenzione del polipropilene isotattico regalò a Giulio Natta una fama mondiale. Fu un’invenzione straordinaria, premiata con il Nobel, ma nessuno avrebbe potuto prevedere l’impatto del Moplen sull’ambiente, sull’economia e sulle nostre abitudini. Avremmo forse potuto tenerci i secchi zincati e le olle di argilla che potevano essere riutilizzate anche quando si lesionavano, grazie alle suture degli artigiani girovaghi, ma abbiamo preferito scegliere altri orizzonti. E mo…e mo…mostriamo ciò che oggi siamo diventati!
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Discorso intorno al metodo
“Senza “caos” non c’è conoscenza. Senza una frequente rinuncia alla ragione non c’è progresso. Idee che oggi formano la base stessa della scienza esistono solo perché ci furono cose come il pregiudizio, l’opinione, la passione; perché queste cose si opposero alla ragione; e perché fu loro permesso di operare a modo loro. Dobbiamo quindi concludere che, anche all’interno della scienza, la ragione non può e non dovrebbe dominare tutto e che spesso deve essere sconfitta, o eliminata, a favore di altre istanze”. (P. K. Feyerabend, Contro il metodo) Il pensiero filosofico di Paul Karl Feyerabend (I) intende dimostrare che il progresso scientifico si sia sviluppato senza metodo, o quasi. Feyerabend era fautore dell’ idea che il concetto metodico sia nella sostanza una mera prescrizione impositiva, tale da limitare le intuizioni degli scienziati, ovvero frenando nei fatti il progresso della scienza. Meglio dunque, egli sosteneva, una tendenza “all’anarchismo epistemologico”, alla polverizzazione degli assunti teoretici: condizione favorevole, più umana, che non produrrà, né imporrà, statuti rigidi. A supporto delle sue idee Feyerabend usò l’esempio della rivoluzione copernicana, concetto inaudito per gli assunti teoretici tolemaici. I nuovi concetti sarebbero stati non formulabili se Copernico avesse pedissequamente avvalorato, seguendone i dettami, le precedenti teorie astronomiche. Tali circostanze, dirà Feyerabend, si sono ripetute nel corso della storia in varie occasioni. Come si evince la posizione del filosofo ha una natura estrema. Essa potrebbe indurre, se non fosse osservata con una buona dose di equilibrio, a deduzioni generiche, fuorvianti, implicando tra l’altro la conclusione (errata) che nessun metodo possa avere approcci plausibili per discernere (con metodo, appunto) le teorizzazioni false, mitiche, rispetto a quelle scientifiche (ovvero metodologicamente dimostrabili). Karl Popper con il suo Razionalismo critico, dirà che il metodo induttivo, baconiano, correntemente usato dalla scienza empirica moderna, fondato sul concetto di pars destruens (la parte che distrugge) e pars costruens (quella che costruisce), ovvero l’idea della verificabilità sia nella sostanza soltanto un mito neo-positivista. La verificabilità, infatti, non è di per sé una condizione oggettiva poiché la stessa potrebbe essere condizionata e relazionata al tempo (storico), alla misurazione strumentale, o ad una specifica (più o meno limitata) conoscenza. Popper si orienterà, invece, a favore della falsificabilità, intesa come condizione favorevole per la controllabilità di una teoria. Da ciò deriverà che la scienza si configura come teoria confutabile, pensiero ragionevole e razionalmente critico, al contrario della metafisica che è percepibile soltanto dentro statuti inconfutabili e inderogabili. La ragione dovrà essere utilizzata, dunque, per criticare le teorie prese ad esame e non per legittimarle come verità incontrovertibili. Thomas Kuhn dirà, a tale proposito, che l’avvicendarsi delle teorie scientifiche non è caratterizzato da un andamento lineare e rigoroso, ovvero una progressione tra le regole correnti. Sarà invece la radicalizzazione dei paradigmi delle diverse comunità scientifiche ad imprimere le condizioni per le nuove conoscenze. Imre Lakatos, percependo la storia della scienza come campo di confronto e competizione tra ipotesi e programmi di ricerca, giudicherà limitanti le tesi dell’abbandono della ragione e dell’irrazionalità degli scienziati,
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quali condizioni favorevoli per le fondamentali conoscenze della modernità. Molti ricercatori, infatti, operano anche in relazione ad una prospettiva di sviluppo di un programma o di una teoria. La razionalità della scienza è comunque l’assunto di base da cui sembrano muoversi i tre filosofi: Popper, Kuhn e Lakatos. Tale assunto sarà messo radicalmente in discussione dall’epistemologo post-popperiano Paul Feyerabend. La falsificabilità, ad esempio, la riterrà un’argomentazione ingenua poiché essa sembra partire da un presupposto non condivisibile, giudicando confutabile con conoscenze note ciò che non è noto. Egli sul filo dell’ironia porrà alcuni esempi a sostegno del suo pensiero. Parlando della meccanica quantistica dirà: "Questo procedimento consiste nel cassare i risultati di certi calcoli e nel sostituirli con una descrizione di ciò che si osserva realmente. Si finisce così con l'ammettere implicitamente che la teoria è in difficoltà, mentre la si formula in modo da suggerire che sia stato scoperto un nuovo principio". L'argomento della torre era l’obiezione ricorrente alla teoria della rotazione della Terra. Gli aristotelici pensavano che l’immobilità della terra fosse univocamente dimostrata attraverso la verticalità di caduta di una pietra lasciata cadere da una torre. L’obliquità avrebbe, a loro dire, dimostrato il contrario. Quest’esempio rileva, secondo Feyerabend, la relatività della dimostrazione teorica. La teoria dell’impulso e del moto relativo sconfessava in effetti la teoria copernicana, dimostrata solo successivamente da Galilei attraverso le opportune osservazioni astronomiche. Per giungere a comprendere i nuovi scenari Galileo dovette riformulare la natura dell'impulso e del moto relativo. Il pensiero filosofico-politico di Feyerabend sarà favorevole all’ assoggettabilità della scienza al volere e al controllo democratico del popolo. Le tesi epistemologiche di Feyerabend implicano alcune implicite osservazioni. Nella storia della scienza, l’assunzione di un altro punto di vista, capace di sgretolare con altre logiche il pensiero dominante è una condizione probabilmente favorevole, ma non sufficiente, ovvero non indispensabile per l’evoluzione della conoscenza. L’anarchia copernicana per molti versi non è una prassi replicabile in ogni caso, la sua eccezionalità dimostra soprattutto la sua irripetibilità. Ne discende che non può essere considerata, comunemente, come favorevole condizione di ricerca. Le evidenti relazioni tra Copernico e Aristarco di Samo (310/230 a.c.) descrivono semmai un pensiero metodico, inteso come studio delle fonti storiche. In tale accezione i suoi studi potrebbero essere interpretati anche come ricerca non anarchica, rispetto alla conoscenza coeva, ma piuttosto configurabili in un contesto di approfondimento, filologicamente sostenuto. La storia evolutiva della scienza interseca nelle sue fasi, oltre alla libertà anarchica, non assoggettata al pensiero dominante, anche la casualità, la sequenzialità della ricerca e la capacità (metodica) di mettere in relazione per altro scopo, conoscenze diverse. All’ Università di Würzburg , ad esempio, Wilhelm Röntgen scoprì casualmente i raggi X (1895) mentre studiava il passaggio dell’elettricità all’interno dei gas. La stessa cosa capitò a Becquerel (1896) quando accidentalmente s’imbatté nella radioattività (in seguito confermata con un approccio metodico da Marie Curie) mentre studiava il fenomeno di fosforescenza dei sali di uranio. Casuale fu anche la scoperta del farmaco per la disfunzione erettile (Sildenafil), comunemente conosciuto come Viagra (brevetto 1996/1998). I ricercatori lavorando su una molecola per la cura dell’ipertensione e delle malattie cardiache osservarono per i pazienti altri benefici. Bizzarra e del tutto fortuita fu anche la scoperta della penicillina, dovuta al batteriologo Alexander Fleming che lavorava al Saint
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Mary’s Hospital Medical School di Londra. I pochi esempi citati possono indicarci incontrovertibilmente che la serendipità , ovvero la casualità delle scoperte, sia stata nella storia della scienza una condizione coscientemente preferibile, oltreché avversa al pensiero metodologico? Possiamo far derivare dagli esempi suggeriti un’epistemologia fondante, applicabile nel campo della ricerca in contrapposizione al metodo? L’intuizione inspiegabile degli scienziati, l’ anarchia metodologica, la casualità e perfino la loro coscienza creativa sono sicuramente processi importanti per l’evoluzione del pensiero. Tali condizioni però non possono essere percepite come contrapposizione sterile, inutilmente avverse all’epistemologia metodologica della scienza. Le scoperte scientifiche, pur ascrivibili, alcune volte, in quell’anarchia metodologica di cui parla Paul Karl Feyerabend, s’intersecheranno sempre, dopo il loro esordio, con le processualità metodologiche che ne spiegheranno scientificamente le ragioni.
Quale strada dovrà essere perseguita dall’urbanistica e dall’architettura nel prossimo futuro? Stabilita l’inderogabile necessità della trasformazione urbana, pena la caoticità estrema dei sistemi, quali percorsi sarà meglio utilizzare per giungere a configurare scenari possibili? L’immaginazione è una condizione potente per le soluzioni degli assetti futuri, ma sarebbe utile che non si trasformasse genericamente in una sterile fantasia. Per Bruno Munari la creatività (progettuale) è una condizione favorevole per vedere le cose in un altro modo. Ciò implica una capacità di discernimento degli oggetti che pervadono il nostro quotidiano, avviando un approccio libero e stimolante al fine di predisporre altre configurazioni possibili, poco prima impensabili. La fantasia, invece, vivrà soltanto nel pathos degli artisti, pregni della divina ispirazione. La creatività implica un modello innovativo, mentre la fantasia è il più delle volte una elucubrazione soggettiva. Le innovazioni (linguistiche, spaziali, funzionali), però, non potranno essere pensate come mere strumentazioni, atte allo scardinamento, senza utilità alcuna, degli assetti precedenti. Le innovazioni che non tengano conto dei sistemi o dei substrati nei quali si incardinano non sono modelli accettabili, condivisibili. La storia dell’architettura, tra l’altro, suggerendo il racconto dello spazio costruito attraverso i pretestuosi paradigmi evolutivi, utili a spiegare e giustificare il nostro presente, non aiuta la comprensione puntuale dei fenomeni spaziali. Molte volte, infatti, trascurando i significati di permanenza tipomorfologica delle opere, si dimenticano le necessità e le ragioni della continuità linguistica attraverso il tempo, la correlazione tra edificio e tessuto circostante, eccetera. La sequenzialità storiografica, in tale contesto, è spesso artificiosa, inducendo tra l’altro il lettore ad assegnare un punteggio di merito alle epoche e ai soggetti operanti: artisti, architetti, mecenati, committenti, eccetera. Una diversa scrittura storica, magari imperniata sugli aspetti socio-economici delle realtà urbane, porterebbe a mio parere ad altre conclusioni. Nel nostro mondo, dove primeggia il consumo, l’innovazione, la ricerca architettonica interseca, sempre più, l’immaginario fantasmagorico del Broadway theater, dove ha valore soltanto la notorietà mediatica.
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Introduzione alle politiche urbane prossime venture. Dialogo sulla città futura. 1/1 La città ibernata
John Forester (Pianificazione di fronte al potere / California, 1989) ha dimostrato il peso fondamentale che “l’informazione sistematicamente distorta” (Jürgen Habermas /1970), ha nelle scelte di pianificazione delle città. La città contemporanea, in tale accezione, configura spesso uno spazio urbano mediato, contrattato, inefficiente e contraddittorio.
Nel clima dell’international style la bellezza, in architettura e urbanistica, era soprattutto
una inalienabile metafisica rappresentativa delle funzioni biologiche: muoversi, mangiare, dormire. In seguito tutto naufragò tra le effimere illusioni della città Post-Modern. Deposto, forse per sempre, il pensiero metafisico, fondato sugli statuti forti e conclusa la retorica retrò della filosofia postmodernista che ha però avuto, probabilmente, il merito di far riscoprire agli architetti, ai progettisti che colmavano le valli e spianavano le montagne, la specificità dei luoghi, il genius loci, le questioni fondamentali e strutturali delle città restano ancora irrisolte, mentre il quadro urbano continua a configurare, processualmente, altri scenari, ancora più complessi, dopo la crisi del modello industriale fordista. Il progetto delle smart cities, la sostenibilità energetica, l’informatizzazione della comunicazione, la riorganizzazione dei mercati in un continuo processo di globalizzazione economica, la ridefinizione della mobilità metropolitana, la rimodulazione delle reti tecnologiche e produttive, non sono altro che aree di conoscenza specialistica che per un verso e per l’altro intersecheranno e condizioneranno la forma dello spazio urbano. L’attuale città, intesa come luogo di consumo e depauperamento di risorse energetiche ed ambientali, sarà obbligata nel prossimo futuro a riprogettare l’attuale condizione urbana (II) La posta in gioco è la sua stessa sopravvivenza. La futura città sarà estremamente differente dalla struttura urbana attuale, ereditata dalla disfatta dell’ideologia modernista. La riformulazione consapevole e strategica del suo assetto dovrà, necessariamente, intersecare i criteri produttivi che conosciamo, ridefinendo da un lato i sistemi della mobilità metropolitana e dall’altro le relazioni, tangibili ed intangibili, della vecchia città industriale. Tali azioni, incidendo fortemente sul quadro morfologico, urbano ed extraurbano, dello spazio abitato, dovranno necessariamente coniugare i processi di valorizzazione economica dei territori con un’intelligente salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio, beni in ogni caso inalienabili. La città odierna, intanto, continua ad essere il luogo della finzione, delle maldestre raffigurazioni rappresentate all’ombra di un passato remoto, di ciò che era una volta: residuo rugginoso di dismesse ragioni. Le apparenti funzioni superstiti sono perlopiù gesti simbolici, evocativi, di una goffa teatralità urbana per far sembrare verosimile ciò che è ormai definitivamente morto (III). Possiamo immaginare la nuova città, senza alcun imbarazzo, con gli strumenti urbani (tipologici e morfologici) della cultura tardo barocca? I boulevard, la passeggiata sul sedime delle antiche mura, i giardini pubblici, capisaldi tematici di una datata tecnica urbana della città costruita, hanno avuto le loro origini, pressappoco, tra gli sconvolgimenti socio-economici della prima rivoluzione industriale (secoli XVIII e XIX). Le città incominciarono allora ad essere luoghi di massa, distretti produttivi di merci varie, luoghi del mercato, concentrazione di potere, occasione per l’accumulo di ricchezze a favore delle classi borghesi ( ciò coincise con l’indotta povertà di altri strati sociali, subalterni alle classi dominanti). Da quella città prese avvio il lento processo di disarticolazione degli atavici equilibri tra l’habitat urbano e l’ambiente circostante (foresta o campagna). Perse le antiche relazioni, la città incominciò a essere un luogo del mercato e del consumo. Tutto ciò, come si sa, implicava l’abbandono e il lento degrado delle campagne. Limitando
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l’analisi nell’arco temporale definito tra la fine del XVIII secolo ad oggi, l’evoluzione sistematica dello spazio moderno, del progetto urbano, è pressoché nulla, attestata su valori minimi, malgrado le modificazioni morfologiche succedutesi nel tempo e l’ideologica polverizzazione della città compatta. Le nostre società, sostanzialmente, hanno riprodotto negli ultimi duecento anni la medesima città. Pur in un processo di evoluzione (risibile sul versante della variazione di sistema), i criteri di progetto degli organismi urbani non sono riusciti a modificare la macro-tipologia configurativa di base della città. Il risultato è stato quindi, sostanzialmente, la ricorrente rappresentazione urbana omologata (sovrapponibile) nel corso di due secoli: la strada (corridoio o asse-arteria), l’isolato, chiuso o aperto, la torre, la costruzione a blocco, la stecca isolata o la composizione razionale di unità condominiali, il boulevard, il giardino o il parco, l’aiuola più o meno fiorita, la piazza-nodo, la quinta (lineare o in curva) o il margine edificato, eccetera. La costruzione condivisa della città futura implicherà: 1) Analisi tipo-morfologica della geografia urbana; 2) Condivisione degli obiettivi da raggiungere sulla base di una percezione comune dei ruoli e dei significati urbani, identitari, simbolici, eccetera, dello spazio costruito. La frammentazione lessicale dei significati e delle interpretazioni delle parole, spesso contrapposte, genera di per sé inopportuni fraintendimenti sui significati propri delle componenti spaziali della città. Indispensabile è dunque una comprensione e condivisione contrattata, tra tutti gli Stakeholders, dei significati percettivi e semantici del lessico urbano. La piazza, la strada, la casa, le aree produttive o ludiche, le reti infrastrutturali, i luoghi pubblici a prescindere dal loro status giuridico (proprietà pubbliche o private) dovranno essere elementi comuni, oggettivamente determinati, di un sistema complesso da riprogettare e governare. Spesso però i preconcetti e le ideologie diffuse rallentano i processi di trasformazione delle città, lasciandole nel caos ereditato dalla disfatta della pianificazione modernista del XX secolo. La drammaticità e la complessità delle questioni urbane imporranno però, ineluttabilmente, processi di revisione (probabilmente faticosi) delle città. Dobbiamo sperare che essi siano Piani lungimiranti, capaci di elaborare visioni condivise del “bene stare in città”. Nell’immediato futuro avremo l’obbligo di predisporre meccanismi urbani basati su un’adeguata razionalizzazione della città esistente, ovvero sarà indispensabile riorganizzare l’attuale e inefficiente sistema urbano basato sul consumo (spesso immotivato) delle risorse naturali. Indispensabile sarà predisporre reti strategiche (su ferro) della mobilità pubblica, all’interno di una visione di città densa e compatta. Ciò implicherà, com’è ormai noto, l’azzeramento processuale del consumo di suolo e la salvaguardia della ruralità produttiva. La bellezza dei territori o di una loro parte non potrà più, però, coincidere con il concetto di banale conservazione paesaggistica, residuale o marginale, sottratta all’economia di una comunità. La convenzione europea del paesaggio sottoscritta anche dell’Italia, infatti, percepisce (e spiega) il paesaggio come componente di un sistema articolato, abbandonando definitivamente la vecchia accezione di singola e particolare porzione di territorio (quale frame suggestivo da immortalare soltanto nelle foto ricordo). I piani di marketing urbano, capaci di sviluppare e attrarre flussi turistici, dovranno essere nell’immediato futuro cardini di supporto per il benessere e lo sviluppo economico delle regioni. Una città metropolitana efficiente dovrà predisporre piani adeguati per un uso più razionale delle risorse idriche. Grande attenzione dovrà essere posta “all’audit territoriale”, all’ascolto dell’ambiente in cui tutti noi viviamo, al contenimento della diffusione in atmosfera dei gas serra, funzionale all’abbassamento del tasso di surriscaldamento del globo terrestre, e infine al monitoraggio dei fenomeni entropici delle città, correlati al dissipamento dell’energia. Tali ineludibili obiettivi determineranno, nell’immediato futuro, sia un diverso sistema organizzativo della forma e dei tempi della città e sia l’introduzione nel campo urbano di quote sempre maggiori d’impianti (sistemici) per la produzione di energia elettrica derivata da fonti rinnovabili.
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(I) P. K. Feyerabend La scienza in una società libera, Milano, Feltrinelli 1981; P. K. Feyerabend, Addio alla ragione, Roma, Armando Editore, 2004.P; K. Feyerabend, Ammazzando il tempo. Un’autobiografia, Roma, Editori Laterza, 1994; P. K. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Milano, Feltrinelli, 2009. P. K. Feyerabend, Dialogo sul metodo, Roma, Editori Laterza, 1989. (II) Roberto Camagni, Economia e pianificazione della città sostenibile, Bologna 1996 (III) “La città generica”, Rem Koolhaas.
1/2 Il vero viaggio di scoperta non consiste nel conquistare nuove terre ma nell’avere nuovi occhi. (Marcel Proust)
Il futuro dei sistemi costruiti va immaginato con le idee, con la creatività, con i progetti
strategici e “rivoluzionari”, sapientemente colti. Le città devono ritrovare quella specifica identità urbana, condivisa, meditata, andata in frantumi e dissolta nelle ideologie del secolo scorso. La città, come si sa, è la configurazione costruita di un processo conflittuale, contraddittorio e intrusivo. La strategia di sistema di cui si ha assoluta necessità è l’elaborazione di un progetto innovativo sia per il governo delle innumerevoli reti di città e sia per le istanze partecipative, bottom-up, in relazione ai saperi artistici e scientifici, ai sistemi della formazione, a quelli della ricerca, dell’ambiente, dei processi di restauro e bonifica territoriale, dell’identità urbana, della comunicazione, del mercato e infine della mobilità intra ed extraurbana. Indispensabile è, in questo quadro, il dialogo, il confronto, la partecipazione informata e la sintesi condivisa per i criteri di scelta dei processi di trasformazione dei sistemi urbani. Le politiche urbane di molte città italiane sono ancora caratterizzate dal consumo immotivato di suolo pubblico, dal depauperamento di risorse ambientali e dall’eccessivo consumo di fonti energetiche non allocate in sito. Queste città, in massima parte, possono essere immaginate alla stregua di un pachiderma alla fine di un ciclo vitale, gravato da un eccessivo peso e dunque quasi incapace di muoversi nel recinto maleodorante di uno zoo. Molte di queste città, nel corso del tempo, hanno ormai perso il loro originario significato, assomigliando sempre più a un aggregato di anonime spazialità urbane. Negli sporadici processi di restauro urbano, le stesse città, spesso diventano il campo della teatralità, della pura rappresentazione, delle evocazioni, della retorica progettuale, delle citazioni di antiche funzioni. Diverso è il quadro di molte città europee che hanno saputo nel corso degli ultimi decenni aggiornare e implementare con inusitata puntualità, prassi pressoché sconosciute alla nostra latitudine, i numerosi e accorti interventi di riqualificazione urbana (Barcellona, Lyon, München, London, eccetera). In Italia, complice una diffusa cultura della conservazione tout court (assunto ideologico, sventolato con orgoglio, delle soprintendenze provinciali ai beni ambientali e culturali), i centri storici sono aree off limits, in cui oggettivamente risulta difficile intervenire con processi di restauro, innovativi e complessi, ampiamente condivisi nel resto d’Europa. Le cause principali vanno ascritte in quella nostra particolare consuetudine, volta alle elaborazioni legislative criptiche, capziose, ridondanti. Il progetto di restauro di una vasta area urbana, realizzato su suolo italiano, più esteso ed efficace che si ricordi, elaborato in un altro clima culturale, sembra essere ancora quello elaborato, tra gli anni settanta e ottanta, per centro storico di Bologna. Quale ipotesi è possibile immaginare per il futuro dei modelli urbani ereditati dal passato? Accettare lo status quo e limitarsi, in funzione di tale scelta, a operazioni d’imbellettamento, di restyling morfologico dell’esistente; oppure progettare l’immaginazione e la visione oculata per un diverso assetto strutturale dell’intera macchina urbana? Le operazioni di trasformazione, oppure di semplice imbellettamento, quand’esse siano di un discreto livello progettuale, stimolano variazioni dei processi d’uso del suolo urbano,
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determinando da un lato un affollamento di utilizzo delle aree oggetto d’intervento e dall’altro, in funzione di ciò che si definisce esternalità positiva, trasferendo quantità di rendita di posizione fra le diverse parti di città. In tale scenario, indispensabile e prioritario dovrà essere il ruolo programmatico dell’analisi economica, strutturata in funzione degli assetti strategici futuri. In una realtà culturale come la nostra la conoscenza e la competenza sono state da sempre considerate condizioni non essenziali, perfino limitanti, per l’elaborazione di progetti di trasformazione urbana. D’altro tipo e ben più oscure sembrano essere state, nei decenni trascorsi, le priorità urbanistiche poste in campo. Sappiamo tutti come siano andate le cose e quali siano state le scelte urbane degli ultimi quarant’anni; quale sia stata insomma l’idea prevalente per il cosiddetto sviluppo delle città. E’ fuor di dubbio che l’espansione immotivata abbia avuto nel corso del tempo una doppia valenza, ovvero quella che se da un lato consentiva ai soliti soggetti l’accumulo di ricchezza, dall’altro poneva le condizioni, i presupposti per la marginalità urbana, per il degrado dei sistemi consolidati. Immotivato, come sappiamo, è stato il consumo del suolo agricolo che ha innescato la folle dissipazione delle molte e pregevoli risorse ambientali. In questo scenario l’attuale struttura urbana barese che ci pervade, quella radicata sulla rendita differenziale, si offre oggi con i suoi goffi segni, con le sue maldestre funzioni, incapaci ancora di offrire condizioni accettabili di efficienza. Tentativi, va detto, sono sati fatti per arginare sia le ingiustificate spinte speculative, tutte orientate solamente all’ottimizzazione delle cospicue rendite immobiliari e sia per la riorganizzazione della struttura urbana, ormai avviata ad un’identità metropolitana. A Bari Ludovico Quaroni, infatti, durante quegli anni ancora segnati da quella straordinaria identità culturale dell’international style, tracciò, illudendosi, una città colta, definita sui due grandi assi Nord/Sud ed Est/ovest: un cardo e un decumano incrociati là dove immaginava, a forma di circolo, il nuovo foro di città. Una città modernista quella di Quaroni, ancora fondata sull’inoppugnabilità ideologica del futuro, sull’estetica dei mega sistemi (una grandeur spaziale fin troppo ostentata), sul rigore funzionalista della macchina urbana. In questo quadro il Piano Quaroni è sicuramente uno strumento inadeguato per la risoluzione delle urgenti questioni urbane oggi poste in gioco. Utile, però, è ricordare alcuni punti strategici della sua definizione strutturale: la visione territoriale a vocazione metropolitana e il tentativo di fondare una città policentrica, in cui evidente è il sotteso scopo di sottrarre quote di rendita connaturate al modello di città monocentrico. In questa visione è utile ricordare sia l’ipotesi (pervicacemente osteggiata dalla lobbie dei commercianti dell’area murattiana) del riassetto del nodo ferroviario che avrebbe portato allo spostamento della stazione ferroviaria (da passante sarebbe diventata di testa) e sia la sensibilità ambientale, ante litteram, percepibile nella perimetrazione di salvaguardia di alcuni consolidati e pregevoli tessuti urbani di levante, prospicienti il mare. Di quel Piano nel corso del tempo sono state implementate soltanto le sue sovradimensionate valenze espansive che hanno configurato una città generica, così come l’ha efficacemente definita Rem Koolhaas: intrusiva, sparsa nell’ex campagna degli orti e degli uliveti. 1/3 Economia e paesaggio. Un dialogo da guidare.
I paesaggi che abbiamo ereditato dalla storia passata non sono il risultato di azioni etiche, ma la configurazione tipo-morfologica di processi economici, dunque non avulsi dalla geografia antropica di un territorio. Fusco Girard in un suo saggio (Risorse architettoniche e culturali: valutazioni e strategie di conservazione, Milano 1990) analizza con astuzia un originale approccio laico (fondato sulle dinamiche di domande e offerta) per la proficua conservazione dell’ambiente. Percepire l’ambiente e il paesaggio alla stregua di merci da scambiare potrà sembrare, di primo acchito, un’idea stramba e deleteria. Successivamente,
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però, tralasciando ogni pregiudizio, la struttura economica (con le sue leggi) è l’unica capace di garantire il reperimento delle risorse finanziare per il restauro urbano, per le bonifiche, per le riqualificazioni ambientali, eccetera. L’approccio etico per la salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio ha le sue radici nell’ottocento (attraverserà il neoclassicismo e il romanticismo). Henry David Thoreau (il filosofo ecologista, sostenitore della disobbedienza civile) è, in tale ambito, un autorevole antesignano. Da ricordare anche Jacob Burckhardt (storico svizzero, Basilea 1818 -1897), aspro critico delle condizioni della società industriale di allora e autore de La civiltà del Rinascimento in Italia (1860). Egli vedrà in Petrarca un precursore dell’estetica del paesaggio. Con Burckhardt prenderà avvio, nella cultura storico-filosofica, quel processo teorico sulla nozione di paesaggio, in cui essenziali saranno i contributi di molteplici filosofi (Joachim Ritter, Rosario Assunto e altri). In tale contesto il paesaggio sarà inteso quale fenomeno della coscienza in cui far vivere la condizione di sentimento, di bellezza e di gusto. Va detto che tale nozione implica, come sopra è stato ricordato, un’accezione etica del paesaggio. Percezione, però, attualmente contraddetta dalla nostra contemporanea visione laica del paesaggio. La Convenzione Europea del Paesaggio, infatti, nel documento sottoscritto il 19 luglio 2000 (salone dei Cinquecento / Palazzo Vecchio a Firenze) dal Comitato dei Ministri della Cultura e dell'Ambiente del Consiglio d'Europa, stigmatizza un diverso approccio percettivo. Il documento, firmato dai ventisette Stati della Comunità Europea, è stato ratificato però soltanto da dieci, tra cui l'Italia nell’anno 2006. Nel primo capitolo, articolo 1 / lettera a, si afferma, infatti, che il “ Paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. 1/4 Processi della trasformazione urbana
Sui paradossi della democrazia parleremo più avanti. Più importante è chiedersi ora se le trasformazioni di una città possano avvenire attraverso la compulsiva ragione del popolo. Chiarisco subito per non creare fraintendimenti che l’informazione e la condivisione delle decisioni (qualsiasi esse siano) sono una condizione essenziale per la nostra democrazia. Pur tuttavia alcuni dubbi mi appaiano legittimi: il progetto urbano che prelude ad una trasformazione fondamentale della città è una condizione banale, un atto transitorio (labile) da discutere in piazza, magari attorno al fuoco della tribù metropolitane? Diffuso è un pensiero sotteso, in cui la scienza urbana sembra essere percepita come disciplina discutibile, dunque priva di gnosi, di conoscenze fondamentali, non generiche, utili alla costruzione dello spazio collettivo. Alla fine di questo pensiero c’è sempre l’idea (democratica) che gli immani problemi della città si risolvano sempre con un albero in più, con uno spazio lastricato di verde, con qualche giostrina colorata da disseminare ovunque. Mi chiedo se quel ricorrente frasario, tra i neologismi orecchiati e le genericità mediatiche: democrazia partecipata, condivisione, laboratorio urbano, eccetera, possa assomigliare ad una sorta di canovaccio, verso una teatralità democratica. Tutte le cognizioni scientifiche, tecnologiche, filosofiche e artistiche che configurano il nostro tempo sono state frutto di ricerche individuali, di team ristretti, di gruppi minoritari, testardi e visionari. Nella storia degli uomini non vi è traccia di un’invenzione tecnologica, oggi correntemente usata dagli abitanti di una città o dai cittadini una nazione, resa possibile per volontà del popolo. La Polis greca si adagiava sul pensiero di Platone e dei suoi seguaci e persino la paternità della Rivoluzione francese non è completamente ascrivibile al popolo perché essa si è configurata attraverso i pensieri solitari e lungimiranti di Voltaire, Jean-Jacques Rousseau, Montesquieu ed altri. Di questo
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passo potremmo fare infiniti esempi per scoprire (ahimè!) che il benessere collettivo (diffuso) che tutti abbiamo o desideriamo non implica la democrazia, ovvero il popolo (démos) e il potere (cràtos). L’asserzione è pericolosa perché potrebbe indurre a conclusioni errate o quantomeno fuorvianti. La democrazia è essenziale per la vita organizzata di un popolo, ciò è fuor di dubbio. Poco utile è però mitizzarla per quello che non è, senza cercare di svelarne i reconditi significati, ma sopratutto il limite. Nella polis greca governa chi sa filosofeggiare, rendendo chiare le regole del mondo. La democrazia pura, tra l’altro, secondo Georg Simmel, è possibile soltanto nei piccoli gruppi. In quelli grandi invece (ad esempio all’interno delle nostre complesse aree metropolitane) la democrazia ha un altro aspetto, si configura attraverso un sistema di forme e organi. È sostanzialmente quella che si chiama democrazia rappresentativa: tutt’altra cosa rispetto a quella pura. In quest’ambito, ci ricorda ancora Simmel, l’individuo è annientato, ovvero quasi il preludio all’alienazione. Chiediamoci ora se può essere verosimile quel ricorrente frasario della cosiddetta democrazia partecipata: formulazione popolare dei bisogni sociali, quadro formale della condivisione come preludio al consenso, oppure se è soltanto una pratica formale di inclusione (una mera azione di tokenism). La formulazione di un bisogno (di per sé univocamente non determinabile) implica un grado di conoscenza. Ciò significa che i bisogni dipendono dalla capacità individuali di riconoscerli come tali, inquadrandoli in un sistema coordinato e logico. Infatti, ciò che è fondamentale per A potrà non esserlo per B. Possiamo aggiungere che i bisogni hanno una natura transcalare che si espande tra due poli estremi: piccoli e grandi bisogni. 1/5 I paradossi della democrazia
Economisti e matematici (studiosi dei sistemi logici) sul concetto di democrazia la pensano allo stesso modo. È la democrazia un sistema credibile, perfettamente funzionante e univocamente definito? La risposta è no! La democrazia, infatti, è un concetto imperfetto. All’interno del sistema vi sono paradossi e contraddizioni ricorrenti. Un primo paradosso è quello di avallare, ad esempio, incondizionatamente, i desideri generici anche se gli stessi risultassero, sulla base delle conoscenze analitiche, insostenibili se non assurdi per la stessa sopravvivenza della società organizzata. Il popolo ad esempio potrebbe desiderare cose inspiegabili ed indefinite che in massima parte dipendono dal grado di istruzione degli individui, dalle indotte e malsane abitudini, dal “principio di non sazietà” che implicano la depredazione, immotivata, delle risorse (ambientali) preziose da tramandare alle prossime generazioni. In quest’ambito dovremmo chiederci: dobbiamo per questa ragione, democratica, seguirne il volere? A proposito degli stabilimenti inquinanti o obsoleti è legittimo ragionare sulle opportune convenienze collettive? Qual è la scelta più saggia tra chiusura (o trasformazione) degli impianti inquinanti e conservazione tout court dei posti di lavoro? Applicare il concetto di democrazia, integralmente, all’interno delle assemblee di fabbrica porterebbe probabilmente al mantenimento del sistema industriale meno efficiente. D’altro canto avallare la conoscenza, imponendo i radicali cambiamenti, potrebbe essere per la stessa assemblea di lavoratori una decisione antidemocratica. A Bari per l’area Rossani, ad esempio, circolano idee di utilizzo, sostenute da varie associazioni di cittadini, che collidono palesemente con altre funzioni (spiegabili) di rango superiore. Il paradosso non è nella differenza di visione o di futuro utilizzo dell’ex caserma, ma nel credere che uno sparuto numero di cittadini possa “imporre” scelte urbanistiche al resto della comunità metropolitana che di quell’area sa poco o nulla. Per quello che si sa il contendere si muove tra lo status quo (ovvero lasciare tutto così com’è o com’era) e la possibilità (spiegabile) della modificazione (informata e partecipata). Mantenere il quadro dell’esistente (lavorando su un vago restyling) o trasformare con scienza e competenza un’area urbana non implica, come populisticamente si crede, la sterile contesa tra apollineo e dionisiaco, in altre parole tra parco o bosco urbano e immotivata introduzione
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di volumetrie architettoniche. Trasformare, infatti, non significa distruzione dell’esistente. Preziosa è invece, senza alcuna demagogia, la prassi delle analisi motivate, all’interno di un ampio quadro di relazioni territoriali. La democrazia è un concetto complesso, meglio dunque pensare come ci ricorda Alexis de Tocqueville al confronto del pensiero, alla sana polemica, a una pluralità d’idee (la verità possibile discende da Polemos / Tacito). 1/6 La città è uno spazio complesso
È indispensabile delineare, al più presto, quale città desideriamo nel prossimo futuro. Prima lo faremo, meglio sarà per tutti noi. La formulazione di un modello di pianificazione condiviso servirà a farci uscire dall’impasse decisionale, caratterizzato da uno stato di emergenza perenne, con il quale, ormai da troppo tempo, siamo costretti a convivere. Nel resto d’Europa, le decisioni dei modelli di Piano per la trasformazione degli sclerotici scenari urbani, sono state avviate nei decenni passati (eravamo nel secolo scorso). Quelle decisioni lungimiranti oggi incominciano a dare i loro frutti positivi. In Italia si preferisce invece percorrere, ancora, la strada dell’attesa, adducendo la scarsità delle risorse finanziarie, preferendo di più l’introduzione di vincoli normativi, come se essi fossero di per sé i modelli di garanzia per la salvaguardia o per l’efficienza strutturale dei territori, urbani ed extraurbani. Il dibattito sembra articolarsi tra due ragioni. Da una parte vi è l’idea di replicare o salvare, tout court, attraverso un processo coercitivo dichiarato, oppure con l’assunzione (forse inconsapevole) di alcuni ideologici assunti normativi, gli splendidi paesaggi della povertà e dall’altra la condivisione dell’idea di un processo progettuale dinamico, capace, di volta in volta, di intersecare l’opulenta e fastidiosa mercanzia del benessere. In sostanza il dibattito si muove tra i paesaggi urbani ordinati alla The Truman Show e quelli apocalittici di Blade Runner. Due film che descrivono bene le due opposte visioni della città. In The Truman Show, Seahaven Island, il nome della città del film, è uno spazio composto e perfetto, un Eden in cui nulla succede. Truman, il protagonista della storia, è l’Adamo di questo Eden, in cui la “malvagità” del mondo è tenuta rigorosamente fuori, salvo poi scoprire che si sta vivendo un paradossale reality show. In Blade Runner il caotico paesaggio urbano, una distopica (anti utopica, dunque drammaticamente vera) Los Angeles dell'anno 2019, è una Apocalisse, come quella forse avvenuta “…alle porte di Tannhäuser (un luogo, una città sperduta in una galassia, questo non si sa). E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire”, dirà il replicante che sta per uccidere Rick Deckard, il poliziotto che lo sta cercando. Metropolis di Fritz Lang è forse l’antesignano di Blade Runner. In entrambi i film il caos urbano sembra essere governato dalla metafora del potere: In Metropolis è la torre Stadtkrone, in Blade Runner è la sede della Tyrell Corporation. Nel 1791 Jeremy Bentham teorizzò e progetterà un modello di prigione che chiamerà Panopticon. Il suo schema, a struttura circolare, è imperniato su una torre di controllo, dove vi sarà un unico guardiano, capace di controllare tutti i prigionieri, senza che quest’ultimi possano avere normali relazioni umane. È insomma la genesi del concetto del potere-controllore. Qui il prigioniero (il controllato) metabolizza il suo ruolo di subalterno, incapace di sapere e decodificare le modalità dell’azione di controllo. Michel Foucault (1975), partendo dal Panopticon relazionerà tale modello carcerario allo spazio urbano, sempre più prossimo ad un sistema di “sorveglianza generalizzata” (Petti 2007). Lo scopo ultimo del Panopticon, dirà Jeremy Bentham, sarà quello di depotenziare la folla, sostituendola con individualità inermi, incapaci di rapporti semplici per il reciproco scambio di idee. Arma terribile, quest’ultima, capace di modificare le menti, intersecando subdolamente la psiche delle persone. Il risultato sarà la modificazione della struttura sociale delle comunità. L’obiettivo efficace per il benessere collettivo è l’urgente elaborazione di una strategia territoriale, fondata sulla costruzione di "reti urbane" efficienti, soprattutto coinvolgendo
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un ampio numero di stakeholders (IV). Il "paradigma reticolare" è da percepire quale base teorica per il mutuo rafforzamento competitivo dei nuclei urbani contigui, appartenenti ad uno specifico territorio. Il tutto dovrà avvenire attraverso una specifica integrazione condivisa per la costruzione di una filiera delle variegate attività locali, connesse a un modello di complementarità (sinergia fra sub sistemi, innovazione tecnologica, eccetera). Tale modello innovativo di gestione territoriale darà impulso alle nuove pratiche di pianificazione, offrendo da un lato vantaggi immediati, riconoscibili, alle specifiche comunità e favorendo, dall’altro, l’efficienza strategica dei sistemi urbani di rango superiore. Tale pratica, denominata Strategic Planning, di tipo processuale e con caratteri di flessibilità, risulta più idonea a risolvere le problematiche a tipologia complessa che caratterizzano le nostre società. Superato è, dunque, il cosiddetto modello di pianificazione intraurbana, quasi sempre basato sulla espansione fisica della città. I processi necrotici della nostre città sono ormai evidenti, ma pur producendo sui tessuti urbani ferite purulenti, forse insanabili, sembrano non essere ancora sufficienti per innescare possibili inversioni di tendenza, ovvero l’avvio di progetti lungimiranti e condivisi. Prevale una discussione parossistica, a volte ideologica, preferendo rincorrere i consensi e le convenienze elettorali del momento. In questo scenario si configurano due pensieri. Il primo produrrà, sostanzialmente, un approccio etico del progetto urbano, teso ad una cultura della conservazione sterile, incapace di perseguire in tempo utile i mutamenti delle società, cogliendone con determinazione le sfide, per una reale e profonda innovazione della struttura urbana della città. Il secondo tenderà, invece, ad introdurre nel corpo urbano antidoti efficaci, in grado di riadattarlo alle nuove realtà, alle diverse relazioni collettive che le società contemporanee impongono. Sullo sfondo vi sarà l’immagine di un’arcaica e perduta bellezza, di cui sarà indispensabile ritrovarne le ragioni. La sfida che siamo obbligati ad intraprendere è la messa a punto di un progetto possibile, capace di coniugare la complessità della società che viviamo, le molteplicità del pensiero moderno, la struttura della nuova urbanità, con l’idea di una ritrovata e condivisa bellezza. L’Italia sembra non aver ancora preso coscienza dei cambiamenti avvenuti nel resto del mondo negli ultimi due decenni. Il nostro Paese sembra dunque aspettare, celando quasi nel proprio inconscio che tutto ritorni com’era prima, senza fare niente. La diagnosi è un assunto pleonastico che non ha bisogno di ulteriori dimostrazioni. In Italia si continua a parlare di riforme, di auspicabili cambiamenti che vivono soltanto nei limiti degli annunci mediatici. Quando qualcosa accade è quasi sempre un passo di lumaca, di cui nessuno si accorge. In Italia la mole legislativa nel settore urbanistico e nella gestione dei territori è pressoché sterminata. Complice è la diffusa convinzione che essendo la bellezza paesaggistica esistente non più generabile, debba essere salvaguardata ad ogni costo con leggi impositive. Un guazzabuglio di norme nazionali, regionali, provinciali e comunali. In questo ambito, dunque, è più che legittimo pensare che la redazione dei progetti d’architettura, nel nostro Paese, sia un mero processo amministrativo, privo di appeal, di significato urbano o di argomentazioni scientifiche per la corretta organizzazione dello spazio in cui noi tutti viviamo. Sono essi, spesso, tavole di rappresentazione avulse dal sapere specifico, dall’architettura della città. I progetti tendono così alla rappresentazione (riverente) della norma, privandosi dei precipui fondamenti della disciplina. Schematizzando si può dire che il progetto d’architettura sia uno strumento in cui è assolutamente necessario dimostrare (al responsabile del procedimento) il rispetto della regola vigente: Le distanze legali tra gli edifici, la misura minima dai confini di proprietà (Codice Civile), il rapporto di superficie tra ambienti e finestre (ASL), il rapporto numerico tra superficie dell’edificio e area fondiaria, la quota generica delle altezze massime, il rapporto, consentito, tra superficie interna ed esterna per l’estensione degli eventuali patii, la destinazione d’uso del manufatto (Piani Urbanistici Generali), il rispetto dei modelli di
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zonizzazione delle aree fondiarie, quello degli standard e delle superfici minime degli ambienti (D.M. /1444 del 1968), eccetera. La configurazione della città contemporanea è dunque ascrivibile al perseguimento compulsivo di queste regole urbanistiche, attraverso l’astrazione dei Piani Urbanistici Generali (ex PRG), delle norme tecniche di attuazione e infine dalla selva, da Ventimiglia ad Erice, dei regolamenti edilizi comunali. Ciò detto, non è esagerato dire che l’uso del territorio e il disegno della città contemporanea, nella quale viviamo, siano stati fenomeni indotti dalle leggi urbanistiche del nostro Paese. La città che non ci piace, quella periferica, afona e generica, è la traduzione configurata dei testi legislativi italiani. Nel resto dell’Europa, c’è da dire, le cose non sono andate diversamente, ma là i cambiamenti e le inversioni di tendenza sono stati percepiti con molto anticipo, intervenendo, significativaménte, su ciò che non funzionava. È bene chiarire che le leggi di un Paese rappresentano l’asse portante di una civiltà, essenziale è rispettarle, né è possibile pensare che ognuno faccia da sé a seconda del proprio capriccio e gradimento. La configurazione di una città senza Piano, ammesso che in una certa misura fosse possibile ancora oggi, implicherebbe il ritorno all’inoppugnabilità identitaria, fondata su un principio di condivisione, diffuso, sull’uso e organizzazione dello spazio in funzione della reciproca convenienza. Concetti propri delle città-stato antiche. Insomma ci dovrebbe essere l’adesione implicita e totale ad una patto economico di necessità, senza il quale l’esistenza dei singoli e della collettiva cesserebbe catastroficamente. Nelle società contemporanee, complesse, con alto numero di fattori reagenti, tale circostanza non esiste più. Oggi il patto di necessità è un qualcosa di sconosciuto. L’individuo contemporaneo è soltanto colui che delega. Egli affida ad altri la sua stessa esistenza. In tale circostanza le leggi urbanistiche mutuano e sostituiscono l’antico patto di necessità capace di disciplinare, naturalmente, le relazioni tra soggetti. Il concetto di identificazione, di appartenenza, di e implicito patto di necessità, implica un sistema basato su piccole comunità di individui (Georg Simmel). Nel passaggio dalla piccola alla grande comunità, una volta raggiunte dimensioni numeriche rilevanti, la società è obbligata a organizzare sistemi di gestione possibili, basati sulla rappresentatività. È, in sostanza, il criterio organizzativo su cui si basa la nostra democrazia possibile e imperfetta. La razionalità del sistema complesso si sviluppa su un principio economico, dove i valori sono espressi in termini di quantità e non di qualità. Qui l’individuo, tra gli spazi generici della città contemporanea, sarà sottoposto, in maniera compulsiva, ad una miriade di sollecitazioni nervose. La sovraesposizione sensoriale implicherà uno stato di assuefazione che lo porterà a credere che sia tutto normale, immodificabile (Georg Simmel / effetto blasé). In tale contesto la bulimia alimentare, e l’alienazione del pensiero saranno i risultati più prevedibili. L’individuo sarà così più avvezzo allo spreco delle risorse energetiche, ai consumi indotti, capace di incidere negativamente sui sistemi ambientali. (IV) Gruppi di individui o soggetti influenti in vista di un interesse comune.
1/7 Il caso ex caserma Rossani a Bari
La trasformazione di una città implica la messa a punto di progetti consapevoli e l’elaborazione, complessa, di una pianificazione di sistema. Purtroppo siamo ancora prigionieri di beffarde e soporifere genericità, tra il brusio dei comitati, delle associazioni, dei singoli cittadini. Negli incontri partecipativi per la progettazione condivisa dell’area dell’ex caserma Rossani a Bari, gli inglesismi e i neologismi modaioli: l’ecosostenibilità, il bosco urbano, l’orto sociale, il playground, il dog park, la Gulliver zone, la pista di skateboard, le deck fountain, i tracciati running e fitness, l’ammiccante filosofia del “Terzo
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paesaggio” rappresentano il riflesso dei pensieri orecchiati, a volte populistici, su cui poggia la nebulosa idea della democrazia orizzontale, dove tutti parlano per sentito dire, auto referenziandosi. Un brusio urticante tra desideri strampalati, narcisismi e visioni ideologiche. La discussione sulla costruzione di una rudimentale idea di città, qui appare inutile, sepolta sotto il peso delle verdi immagini, alla ricerca dell’apollinea ed effimera bellezza, tra gli odori del paradiso perduto. Il confronto sereno, auspicabile, essenziale, sul significato territoriale e sui ruoli della città metropolitana è il grande assente. A nessuno importa discutere sulla possibile struttura di sistema, sui flussi di mobilità, sugli asset strategici di base, legati al benessere al “bene stare in città”, sulla valorizzazione dei plus economici dei territori, sulle relazioni funzionali dei luoghi, tra tessuti urbani consolidati e frange periferiche. Cronache recenti, a proposito del BAC (Bari Arte Contemporanea)
L’area dell’ex caserma Rossani è l’ennesimo paradigma della città dismessa, adagiata sulle tracce rugose delle vecchie funzioni. La città contemporanea è il campo della stratificazione in cui il concetto di relazione tra permanenza ed innovazione configura un’area inesplorata, almeno in Italia, della progettazione urbana. La città intesa come organismo complesso non potrà configurarsi come mera somma di parti statiche, incapaci di dialogare in un mutuo rapporto di sistema. Il segno del degrado di molte delle nostre città è da ricercare proprio nella incapacità di allestire modelli urbani “parlanti”, in grado di comunicare il proprio contenuto, ovvero l’essere città. Contributi notevoli alla configurazione della “città generica” (Rem Koolhaas ), insignificante ed afona, sono stati dati, va ricordato, dal nostro sistema legislativo. Un apparato normativo senza visione strategica del sistema città, ostinato soltanto a privilegiare l’ossessiva attenzione al pensiero “ragionieristico” per l’uso del territorio: ecco quindi gli standard, gli indici volumetrici, i presunti diritti di edificabilità in relazione ai fondamenti del diritto urbanistico. A Bari tutte queste questioni, sinteticamente accennate, prendono corpo tra l’area dell‘ex caserma Rossani e il kursaal Margherita, tra il comune di Bari e la Regione Puglia. Il comune di Bari sembrava attraverso il suo ex sindaco (Michele Emiliano) voler perseguire la strada del museo BAC da allestire presso il Margherita, la Regione Puglia invece sembrava privilegiare l’idea di una” città della cultura” con annesso parco da sistemare nell’area Rossani. La sterile polemica di palazzo ha estromesso gli urbanisti, i cittadini, le associazioni culturali, gli ordini professionali e gli organi del sistema produttivo e commerciale. L’inutile polemica, fuorviante e del tutto autoreferenziale, ha allontanato i temi veri da affrontare in un futuro prossimo. Ognuno dei due contendenti, in buona sostanza, indicava visioni non opportunamente analizzate, studiate, ovvero progettate e condivise. Il BAC sarebbe stato affidato, grazie ad una convenzione di cui poco si sa, alla fondazione napoletana d’arte contemporanea Morra Greco. L’idea del parco con annessi spazi d’arte all’interno dell’area Rossani era invece la conditio sine qua non della regione Puglia per l’erogazione dei tredici milioni di euro promessi al comune di Bari. La polemica ci mostra, ancora una volta, il supponente convincimento degli Enti pubblici per la rigenerazione della città, dove prevale l’idea che i luoghi urbani possano essere rivitalizzati attraverso atti legislativi, convenzioni e convinzioni personali, delibere di giunta ed accordi verticistici. La città invece si progetta attraverso le competenze, le visioni condivise, le analisi territoriali e i progetti sistematici, sufficientemente argomentati con i
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criteri della conoscenza scientifica, tralasciando le convinzioni di questo o quell’altro assessore o di questo o quell’altro sindaco. L’area Rossani è di per sé in relazione con la stazione ferroviaria da una parte e dall’altra con la farraginosità dei tessuti periferici oltre il fascio dei binari. Entrambe le aree (fascia ferroviaria e Rossani) una volta divenute tra di esse dialoganti evolverebbero per condizione di sistema al rango superiore, in grado di dialogare ad ovest con i tessuti dismessi (od in via di dismissione) delle FAL (Ferrovie Appulo Lucane) e ad est con il territorio urbano, lungo l’extramurale Capruzzi, che dovrà una volta o l’altra essere liberato dal fascio dei binari della RFI. Ecco dunque la configurazione di quell’idea di progetto di quell’analisi di sistema per la riorganizzazione della “spina dei servizi” (una cerniera fra le due città) che ha in sé tutte le contraddizioni dei processi urbani degli ultimi sessant’anni. 1/8 L’ego-sostenibilità degli architetti
Le proposte progettuali, cosiddette sostenibili, che configurano facciate verdi, oppure quelle degli orti o dei boschi urbani, rappresentano l’ennesimo paradigma, alcune volte ambiguo e supponente, dell’architettura costruita, intesa come rappresentazione attraente. In una società dove conta la notorietà, ciò che si vede, ciò che è diverso ed esclusivo, la bella forma delle cose è il miglior campo del consenso, luogo ideale per lo spettacolo, per una teatralità tronfia, mere rappresentazioni mediatiche. Ma questi progetti sono davvero sostenibili? Vittorio Gregotti in un suo articolo del 2011, sembra non crederci, egli infatti sostiene che si tratti soltanto di: ”… vento dell’eco compatibilità che sconvolge, più che la pratica urbana, le ideologie recenti degli architetti.” Aggiungendo subito dopo, con un palese sarcasmo: “Qualche spirito maligno ha scritto di trasformazione della eco sostenibilità in ego sostenibilità degli architetti.” Dobbiamo credere a Vittorio Gregotti oppure a Jean Nouvel, progettista dell’ormai noto Quai Branly? L’archistar si è avvalso per le sistemazioni green degli interventi, delle competenze di Patrick Blanc (l’inventore dei murs végétales) e di Gilles Clément (il teorico del terzo paesaggio). Per chi desideri comprendere, qualsiasi idea precostituita non è consigliabile, meglio dunque addentrarsi negli intricati paradigmi dei concetti e delle idee per cercare di giungere a conclusioni attendibili. Note / 1 Gilles Clement, autore del “Manifesto del terzo paesaggio” scrive: “Istituire lo spirito del non fare così come si istituisce lo spirito del fare”, “Elevare l’improduttività fino a darle dignità politica” (riferimento a Serge Latouche / La decrescita felice); “insegnare i motori dell’evoluzione come si insegnano le lingue, le scienze, le arti”. Nella difesa della biodiversità, Gilles Clément allude ad un “politeismo vegetale”, avversando il monoteismo del prato all'inglese. Lo stesso autore però nei suoi progetti ne fa grande uso (Parc André Citroën a Parigi; Parc Matisse a Lille). 2 / Parco di Bercy, Parigi. Autori del progetto: architetti Bernard Huet, Madeleine Ferrand, Jean-Pierre Feugas, Bernard Leroy; paesaggisti Ian Le Caisne e Philippe Raguin. Superficie e ubicazione: circa quattordici ettari, rive della Senna. 3 / Nel 1977 vi fu la decisione di includere un’area verde nella rigenerazione dei tessuti est della città. L’idea dell’area verde aveva lo scopo di controbilanciare ciò che si stava progettando ad ovest: il parco Citroen. Fu scelta l’ex-area di stoccaggio dei vini (1880), dismessa da decenni. Dicembre 1987 : fu bandito il concorso internazionale. La realizzazione è avvenuta negli anni novanta dello scorso secolo.
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1/9 La chimera del consenso unanime
Nei processi di trasformazione della città il consenso unanime è cosa difficile, pressoché impossibile. La Torre Velasca ad esempio, riconosciuto simbolo di Milano, fu descritta dallo scrittore Luciano Bianciardi nel romanzo “La vita agra”(1962) come un “torracchione di vetro e cemento”. L’opera per la verità continua ancor oggi a suscitare contrasti d’opinione. Da una parte la soprintendenza per i beni culturali giudica l’opera dello studio BBPR meritevole di vincolo (2011), dall’altra il giornale inglese The daily telegraph l’annovera (2012), al contrario, tra le opere più brutte al mondo. In Italia basta solo l’ipotesi di una trasformazione a scatenare, ormai per vezzo consolidato, opposizioni preconcette, nascita di comitati, ragionamenti pretestuosi e a volte ideologici. È pur vero però che nel nostro Paese le trasformazioni, o solo le ipotesi, sono spesso frutto di progetti modesti e maldestri, affidati ai soliti noti con le magagne (artificiosamente legali) che purtroppo connotano il nostro Paese. In Italia l’organizzazione e la relativa velocità dei processi di trasformazione sono condizioni pressoché sconosciute, complice l’abnorme apparato burocratico che è l’ ambiente ideale per tutti gli intrallazzi, per tutte le ruberie e il malaffare. Corruptissima re publica plurimae leges (Tacito (Annales, Libro III, 27) ha ben scritto Giuseppe De Tommaso, direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno, sul fondo di domenica 11 maggio 2014, commentando le ultime beffarde cronache milanesi di Expo 2015 . È come dire che lo Stato corrotto pasce e si ingrassa quando vi sono tante leggi , il più delle volte oscure. In questo quadro nessuna trasformazione efficiente nascerà. Sarà solo possibile una mediazione contrattata tra una selva di interessi, speculativi ed oscuri. La res bublica, sarà in tale contesto, solo uno sfondo, lontano e sfocato, qualcosa che assomiglierà ad una guarnitura zuccherosa, improbabile, per rendere le cose più accettabili. 1/10 L’esempio delle città europee
La velocità con cui si trasforma la città negli altri Paesi d’Europa, invece, è sorprendente. Il museo Quai Branly a Parigi, ad esempio, progettato e costruito da Jean Nouvel (vincitore dell’omonimo concorso internazionale di architettura) è stato realizzato in tutte le sue fasi, giardino a pronto effetto compreso, dal 1999 al 2006, ovvero in solo sette anni. Da noi le cose vanno diversamente. Per l’ex caserma Rossani di Bari le vicissitudini iniziano nel 2001 con la bonifica delle coperture in amianto. Sono passati tredici anni d’allora e nulla si è fatto, di concreto, su quell’ aerea. Forse ne passeranno altrettanti, prima di veder realizzato qualche stralcio di progetto che in quel lontano futuro correrà il concreto rischio di essere diventato anacronistico, a causa degli inevitabili compromessi e delle troppe lungaggini. Le vicende urbanistiche berlinesi degli ultimi due decenni (dopo l’unificazione della Germania) descrivono non solo la proverbiale efficienza tedesca, ma anche la straordinarietà delle azioni di ricostruzione e trasformazione della città. Il tutto è impensabile se paragonato alla lentezza della pianificazione urbanistica italiana, intrisa di stucchevoli discussioni e di pretestuose argomentazioni ideologiche, capaci di rallentare qualsiasi cosa. Dopo l’abbattimento del famigerato muro (1989), Berlino è rinata in solo due decenni. Lo ha fatto guardando all’eccellenze professionali sparse, un po’ dovunque, nel globo, complici i Piani strategici chiari e lungimiranti. I concorsi di architettura in quella città non si contano più, ormai sono prassi consolidate. Sin dai primi mesi , dopo
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l’unificazione, simboleggiata dall’abbattimento del muro, la città di Berlino ha cominciato a muoversi, avviando rapidi processi di ricostruzione e trasformazione, efficaci sia per il rigore metodologico e sia per la qualità architettonica dei manufatti. L’ultimo, o quasi, concorso bandito dallo statunitense Hines (un immobiliarista che sta investendo in Germania) per la realizzazione di un grattacielo ad Alexanderplatz, è la tessera di un formidabile mosaico non ancora concluso. In questo concorso il primo premio è stato assegnato all’archistar Frank Gehry. L’architetto canadese, nella stessa città, sulla Pariser Platz , ha già costruito il palazzo Dz Bank, quasi accanto alla porta di Brandeburgo. In corsa per il premio c’erano anche due architetti berlinesi, Agnieszka Preibisz e Peter Sandhaus. La loro proposta era incardinata sulla configurazione di una sperimentale “città giardino verticale” Alla fine, però, la commissione del Senato del Land ha preferito la proposta di pietra del canadese, noto ai media per i progetti del Guggenheim Museum di Bilbao e del controverso Walt Disney Concert Hall di Los Angeles. I processi di trasformazione di Alexanderplatz hanno, intanto, aperto nella città stimolanti confronti di idee. Da una parte c’è la difesa della storica configurazione del luogo, reso celebre dal romanzo di Alfred Döblin, in cui ancora campeggiano i datati edifici del monumentalismo sovietico, dall’altra si schierano i sostenitori di un processo, graduale, per una radicale trasformazione della piazza. Nel 2008 vi è stato un altro importante concorso di architettura per la ricostruzione dello Stadtschloss di Berlino, l’antico palazzo imperiale del Kaiser. La costruzione, ancora in piedi dopo la seconda guerra mondiale, era stata, durante il regime comunista, indebitamente demolita per ragioni ideologiche. Era il simbolo tangibile, queste le ragioni addotte, dello sfruttamento di classe. Il concorso è stato vinto dall’architetto italiano Franco Stella (insieme a HSA Hilmer & Sattler und Albrecht Gesellschaft von Architekten mbH e gmp Generalplanungsgesellschaft mbH) con un progetto di ricostruzione filologica dell’antico organismo. A Bari, invece, la ricostruzione del teatro Petruzzelli, distrutto con l’incendio doloso del 1991, ha avuto un’altra logica. L’ideologia del tale e quale, del dov’era e com’era, ha generato un palese falso, una anacronistica e vuota scatola di cioccolatini. Tragica sorte. 1/11 Le buone prassi delle città europee, le trasformazioni di Trafalgar Square (1998 / 2003) Dalla relazione di progetto, Norman Foster architetto
La trasformazione di Trafalgar Square s’inquadra nei processi di trasformazione urbana dei luoghi emblematici di Londra. Essa è il culmine di molti anni di lavoro per migliorare l'ambiente urbano nel cuore della città. Il progetto realizzato è il risultato di un attento equilibrio tra le esigenze di mobilità dei pedoni e le funzioni urbane dei luoghi. Trafalgar Square è stata progettata nel 1840 da Charles Barry. La piazza, dominata dalla Colonna di Nelson, è fiancheggiata da edifici di pregio, tra cui la chiesa di St Martin-in-the-Fields. Ad est è delimitata dalla Sud Africa House, ad ovest dalla Canada House, e a nord dalla National Gallery. Dalla metà degli anni novanta la piazza ha subito un processo di degrado, soffocata dall’intenso traffico. Questa zona centrale era visitata solo da coloro che erano disposti a rischiare la vita e la salute. L’esigenza di cambiamento era evidente. Le proposte di trasformazione sono state sviluppate con il contributo di centottanta associazioni pubbliche e private e con quello di migliaia di
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cittadini. La strategia più importante è stata la chiusura sul lato nord della piazza al traffico veicolare e la creazione di una nuova ampia terrazza, che costituisce un’idonea cerniera-filtro tra la National Gallery e la sottostante Trafalgar Square, connessa tramite un’ampia scalinata. Al di sotto della terrazza è stata realizzata una nuova caffetteria con posti a sedere all'aperto, offrendo comfort ai visitatori del museo. Le vie adiacenti sono state riformulate con un nuovo sistema di arredo urbano: sedute per la sosta temporanea, sistema d’illuminazione e segnaletica visiva. Strategica è stata la scelta della nuova pavimentazione, configurata tra contrasti visivi e materici. Gli interventi contemporanei evocano l'audacia del disegno originale di Barry. I materiali utilizzati ricalcano la tradizione dei luoghi: pietra di York, granito e bronzo. I dissuasori del traffico veicolare sono sati realizzati con lastre di granito che originariamente facevano parte del muro di contenimento della terrazza nord. Ogni aspetto della riprogettazione ha migliorato per i soggetti diversamente abili l'accesso alla Galleria Nazionale (ascensori sono stati sistemati per l’agevole superamento della barriera architettonica). L'integrazione dei vari interventi ha reso la piazza, una volta ostile al traffico pedonabile, gradevole e facilmente fruibile. (traduzione di base Google, correzioni dell’autore)
La Space syntax (Sintassi spaziale) è una ricerca teorica della University College di Londra. È stata utilizzata per progettare correttamente gli interventi a Trafalgar Square, progettati da Norman Foster. Si è fatta una mappatura minuta dei percorsi pedonali, basata sull'osservazione reale dei comportamenti dei fruitori. Si sono studiate diverse opzioni per migliorare l'accessibilità. La soluzione più efficace prevedeva un nuovo percorso pedonale tra la piazza e la Galleria Nazionale (ubicata sul lato nord) progettata agli inizi del diciannovesimo secolo da William Wilkins. Prima dell’intervento la Galleria Nazionale era divisa dalla piazza da una strada ad alta densità di traffico. Il processo (in precedenza affidato a Richard Rogers) faceva parte di un ambizioso progetto di rigenerazione urbana, denominato le cento piazze della città, teso alla ridefinizione del sistema della mobilità pedonale. Il tessuto urbano londinese fra Trafalgar Square e Parliament Square aveva nei decenni scorsi sgradevoli flussi veicolari che diminuivano la bellezza architettonica dei luoghi. Nel 1996 il Westminster City Council e la Greater London Authority affidarono a società specializzate l’incarico di elaborare un masterplan per l’intera area. Il tema da perseguire era l’idonea fruizione e il miglioramento dello spazio pubblico. Il team di consulenza, Space Syntax, era coadiuvato da autorevoli partners: Foster and Partners, Halcrow Fox, Civic Design Partnership, Davis Langdon ed Everest. L’analisi dei luoghi in relazione alle funzioni urbane, ai comportamenti d’uso dei cittadini e ai flussi di percorso lento, basata sulla puntuale osservazione degli spostamenti pedonali, ha permesso l’elaborazione di appropriate soluzioni progettuali, tali da consentire una mobilità agevole e gradevole fra Trafalgar Square e Parliament Square. La soluzione del problema urbano ruotava intorno alla dismissione della strada veicolare (sul lato nord) e alla realizzazione di una nuova scala in grado di connettere, agevolmente, la terrazza della Galleria nazionale con Trafalgar Square. Tale soluzione avrebbe permesso il ricollegamento, con un efficace corridoio pedonale, fra Trafalgar Square e Westminster Abbey e Parliament Square. Tutti i lavori sono stati terminati nel 2003. La trasformazione urbana si è rilevata un successo, consentendo un uso dei luoghi tredici volte superiore, rispetto ai dati di flusso precedenti.
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Ken Livingstone, sindaco di Londra fino al 2008, in un discorso pubblico del 2005 ha dichiarato: “Per troppo tempo gli spazi pubblici di Londra sono stati ignorati e abbandonati. Ora abbiamo l’occasione di sistemare le cose riequilibrando l’ambiente urbano fra persone e automobili. Credo che le strade siano la linfa vitale della città”. Intanto una nuova proposta per il miglioramento della sostenibilità urbana di Londra è stata recentemente presentata, dopo gli incidenti mortali di sei ciclisti londinesi nel 2013. Si tratta del progetto Skycycle (Foster&parteners con la collaborazione di progettisti paesaggisti Exterior Architecture e consulenti del trasporto Space Syntax), “Un’utopia ciclabile” da sviluppare per circa duecentoventi chilometri, al di sopra della rete ferroviaria esistente. La rete ciclabile avrà duecento punti di accesso e secondo alcuni calcoli, ogni singolo tratto potrebbe ospitare dodicimila ciclisti ogni ora, influendo positivamente sul sistema della mobilità e sulla media dei tempi di percorrenza, ridotta di circa mezzora. “Vogliamo una rivoluzione su due ruote”, ha annunciato David Cameron con il sotteso scopo di incoraggiare l’uso della bicicletta in Inghilterra. Altri investimenti nel settore della mobilità ciclistica riguarderanno le maggiori città inglesi e i quattro parchi nazionali. 1/12 Le aree dismesse, i campi bruni (the brown fields) di Bari
Faticoso sarà convivere con le ideologie, con i luoghi comuni, con i fraintendimenti dei pensieri, delle parole e con i diffusi populismi. Nel 2006 l’area Rossani fu inserita nei Programmi di Riqualificazione Urbana e di Sviluppo Sostenibile (PRUSST). Sull’area si ipotizzava un accordo di project financing per la realizzazione di un generico parcheggio al costo di trenta milioni di euro circa. Nello stesso anno vi fu l’inaugurazione del parcheggio interrato (770 posti auto) di Piazza Giulio Cesare costruito dal gruppo Degennaro (impresa Dec) mediante un altro accordo di financing project. Passano due anni, dove nulla succede, apparentemente. Siamo nel febbraio 2008, all’epoca del Decreto mille proroghe che sancirà il passaggio di proprietà della caserma Rossani dal demanio al comune di Bari. Lo stesso Decreto prevederà un congruo capitale monetario da tredici milioni di euro, vincolato alla riqualificazione dell’intera area. Nell’aprile dello stesso anno vi fu la delibera comunale che ratificò il medesimo passaggio di proprietà dell’area e l’acquisizione di tutti i manufatti in essa presenti. Com’è noto il Comune di Bari, contestualmente, cederà al demanio l’edificio della Prefettura progettato dall’architetto Giuseppe Gimma e la Chiesa Russa di via Alcide De Gasperi. Quest’ultima sarà donata al Patriarcato di Mosca per effetto di un accordo tra Romano Prodi e Vladimir Putin del 2007 e successivamente formalizzato nel 2008 (la cronaca dell’effettiva consegna sarà del 22 gennaio 2012). A maggio dello stesso anno la Giunta Comunale approva un studio di fattibilità dal titolo: “Riqualificazione Area ex Caserma Rossani”. Si tratta di uno studio che ipotizza oltre ai parcheggi auto sotterranei anche la costruzione di un mix di edifici (residenza privata e generici sevizi alla collettività). Il tutto naturalmente con la ricorrente formula del project financing. A maggio del 2008 è approvata in Consiglio la variante al piano triennale delle opere pubbliche. Ecco dunque i drammatici esiti, covati nei due anni di silenzio. L’ipotesi di trasformazione dell’area sembra rincorrere, inequivocabilmente , gli esclusivi interessi immobiliari di parte che sviliscono, per come sono stati concepiti, i precipui caratteri pubblici della Rossani.
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Tra marzo e aprile 2014 un collettivo giovanile occuperà l’area dell’ex caserma Rossani. È un” bene liberato” all’inerzia burocratica, diranno alcuni sostenitori, mentre il sindaco Michele Emiliano si farà promotore di una goffa mediazione, complice la prossimità delle elezioni amministrative di maggio: riunitevi in associazione riconosciuta, egli dirà, presupposto essenziale per la gestione temporanea dell’area, ma i ragazzi rifiuteranno. L’idea del collettivo, eterogeneo per composizione ed età dei componenti, si farà strada sui media locali e sui social network. Verranno organizzate assemblee ed eventi pubblici. Il collettivo sin dall’inizio pretenderà di essere l’unico organismo garante e rappresentativo di un’intera comunità. Di fatto però si sovrapporrà al precedente Comitato Rossani che da più tempo si batte per l’inderogabilità pubblica di quell’area. In seguito il Collettivo occupante e il Comitato Rossani incominceranno a dialogare, elaborando documenti concordi. Le ipotesi sul futuro dell’area (tratte dai documenti circolanti sui social network, o dalle dichiarazioni dei portavoce, rese note negli eventi pubblici, saranno di tipo generico, massimaliste. Avranno una natura perentoria e inderogabile, tanto da non lasciare alcuna disponibilità al dialogo e al confronto democratico tra le diverse ipotesi di utilizzo della ex caserma Rossani, in vista di un Piano urbanistico condiviso, capace di intersecare realmente gli interessi di un intero territorio con una strategia di sistema. L’ex caserma Rossani infatti va intesa in un quadro di relazioni territoriali, quale componente assoggettabile ad un progetto di Piano, efficiente e transcalare. L’area della ex caserma Rossani non va pensata e progettata, dunque, in una scala di quartiere, ma orientata in una visione di scala vasta. Sintetizzando L’area Rossani non è un’isola, così come appare, ma è un arcipelago insidioso, inesplorato e complesso.
Nel giugno 2012 il comune di Bari rende noto il concorso di architettura Baricentrale. Si tratta di disegnare il master plan di tutte le aree ferroviarie da dismettere (RFI, FNB, FAL, FSE), estese per 78 ettari. Quelle aree hanno la potenzialità di configurare circa un milione e duecentocinquantamila metri cubi di costruzioni, vale a dire la capacità di generare (calcolo approssimato per difetto) quattromila unità immobiliari, di tipo terziario e residenziali, estese per cento metri quadri cadauna. Ciò implicherà la variazione della densità abitativa di quei luoghi che genererà una stanzialità, media, di circa ventimila persone, ovvero un carico veicolare, potenziale, incidente sulla già precaria struttura viaria esistente di almeno diecimila autoveicoli. Prima della pubblicazione del bando, all’ultimo momento, il Comune inserirà nel concorso l’area dell’ex caserma Rossani. Tutta l’operazione è chiara , al di là delle stucchevoli argomentazioni, circa l’inderogabile esigenza di ricucire le due parti di città (la murattiana e i tessuti a sud, cresciuti nei vituperati quarant’anni dell’espansione barese): quei suoli sul mercato immobiliare valgono un sacco di quattrini, la rendita differenziale di Johann Heinrich von Thünen vale ancora, là dunque è possibile speculare proficuamente. Il ragionamento è chiaro, addirittura incontrovertibile in un epoca, come la nostra, dove nulla è possibile fare (e pensare) senza soldi. Il piano strategico si incanala in una relazione di scambio: le convenzioni (gli accordi) tra pubblico e privato saranno l’ingegneria finanziaria che consentirà l’esito positivo di tutta l’operazione. L’argomento non è nuovo. Nel resto d’Europa è largamente utilizzato con i dovuti controlli di garanzia che da noi però sono inefficaci e qualche volta addirittura assenti. Il 24 aprile 2013, nel rudere del kursaal Margherita, i dieci finalisti di Baricentrale saranno resi noti: Carlos Ferrater (Barcellona), Massimiliano e Doriana Fuksas Design (Roma/Parigi), studio Metrogramma (Milano), studio Scape UAPS e LAN (Roma/Parigi), studio Cobe (Copenhagen/Berlino), Francesco Cellini (Roma), studio Bolles + Wilson (Muenster), Guillermo Vazquez Consuegra (Siviglia), Allies and Morrison (Londra), Cruz e Ortiz Arquitectos (Siviglia/Amsterdam). Qualche giorno dopo la giuria del Premio, capeggiata dall’architetto Boris Podrecca (vincitore di un concorso quasi omologo a quello di Bari: il master plan dell’ areale
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ferroviario di Bolzano), sceglierà la collina verde (lunga tre chilometri) di Massimiliano e Doriana Fuksas Design. Il master plan è incardinato sull’idea di tombare le linee dei binari (ridotte a quattro) in un tunnel di pannelli di cemento precompressi (prefabbricati), largo venti metri, ricoperto di pietrisco e terra (che sarà il substrato naturale della collina verde). L’altezza finita del manufatto raggiungerà pressappoco quella di un edificio di tre piani. Su questa semi salsiccia (green) lunga tre chilometri si svilupperà la trama viaria di ricucitura tra i sistemi viari esistenti sugli opposti fronti: nord e sud. L’idea cardine implica la costruzione di una stazione ponte (organismo architettonico non richiesto dal bando). Nell’area Rossani il gruppo vincitore propone la costruzione di un auditorium, l’ennesima astronave scesa dal cielo, dopo quella di Renzo Piano del novanta. I maligni dicono che si tratti, addirittura, di un progetto riciclato, proveniente da altre latitudini. Una autorevole componente della giuria, l’architetto Annamaria Curcuruto, fa sapere intanto che Bari non ha bisogno di un altro auditorium, constatata la contiguità (trecento metri) con quello esistente (dedicato a Nino Rota), ubicato nell’area del conservatorio musicale. Nel frattempo l’Amministrazione comunale rende nota la copertura finanziaria per il parco della Rossani (2,7 milioni di euro) da realizzare nell’area nord (quella dell’ex campo sportivo). Per gli edifici contigui, prospicienti l’area-parco, il progetto Fuksas ipotizza una biblioteca pubblica. L’operazione è però soltanto una delle tessere del mosaico progettuale complessivo che avendo necessariamente varie fasi avrà, secondo l’archistar, un processo di realizzazione esteso almeno per vent’anni. Lo start d’inizio, però, non è stato ancora avviato e se ancora vale il detto che il buongiorno si vede dal mattino, quest’ennesimo iter burocratico sembra non promettere giorni sereni. Il settore urbanistico del comune di Bari (diretto da Annamaria Curcuruto) e quello dei lavori pubblici (diretto da Maurizio Montalto) sembrano essere diventati gli uffici kafkiani de Il processo. Vi è sempre in agguato un cavillo, un articolo di legge, successivamente emendato tra uno oscuro comma o una parte di esso che si pone di traverso, complicando tutto. Qual è la storia? Stando alle cronache un altro direttore dello stesso Ente comunale (Anna Valla, settore edilizia pubblica) scava tra i suoi dubbi, tra i quesiti di diritto amministrativo che sono più astrusi dei bizantinismi più remoti. L’incarico ufficiale al gruppo vincitore, formato da Massimiliano e Doriana Fuksas e dal catalano Jordi Henrich Monràs non potrà essere formalizzato perché il relativo contratto di incarico con ognuno di loro, così com’è previsto dalla legge, sembra collidere con l’esito concorsuale. La giuria incaricata, infatti, ha aggiudicato il premio, correlato al relativo incarico professionale, ad uno Studio associato. In altre e più semplici parole, gli architetti Massimiliano e Doriana Fuksas insieme al catalano Jordi Henrich Monràs sembrano diventati per le astrusità della legge perfetti sconosciuti, ovvero non esplicitamente riconducibili al premio del concorso Baricentrale. Kafka non avrebbe saputo fare di meglio. I resoconti generici e populisti dei media ipotizzano però che l’impasse sia stato risolto. Il gruppo vincitore, secondo La Gazzetta del Mezzogiorno del 2 giugno 2014, ha già intascato la prima tranche dell’ onorario (un quinto rispetto ai centosedicimila euro spettanti al gruppo vincitore) per la progettazione del primo lotto, ovvero il disegno di un giardino nell’area nord della Rossani, là dove una volta c’era il vecchio campo di calcio. 1/13 Res publica
Che cosa si intende per res publica, cosa pubblica, bene di tutti? Qui sarà bene, pena la non comprensione delle parole, far ricorso ai significati antichi dei concetti, sottesi in ogni espressione. Per Marco Tullio Cicerone (trattato politico de re publica / I, 25, 39) La res publica è cosa del popolo, il cui significato non è un qualsiasi aggregato di gente, ma un insieme di persone che condividono un diritto per la tutela del proprio interesse. Interessante in questa visione è il concetto fondativo dell’essere popolo che implica la condivisione di un diritto. Questioni non da poco che si estendono al pregante significato
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di luogo pubblico. Il popolo, dunque, è tale solo se è assoggettato consapevolmente, condividendone i principi, alla comprensione e accettazione delle istituzioni di un Paese. Ciò implica che le visioni esclusive di un singolo, di un minuto gruppo o di una parte di collettività, non essendo espressioni della totalità del popolo, non possono essere intese come inderogabili volontà popolari. Il singolo, il gruppo o una parte di collettività, infatti, non sono popolo, ma espressioni particolari di un insieme strutturato. L’organizzazione condivisa della democrazia è l’antefatto fondamentale per fare dell’insieme dei singoli, dei gruppi e delle parti di società, una unità complessa (il popolo appunto), configurata sulle inalienabili e preziose differenze. Nell’insieme popolo convivono una pluralità d’interessi strutturati sulla base di un principio di equilibrio tra soggetti differenti. Tale equilibrio, di per sé complesso, interseca una miriade di interessi contrapposti. Banalizzando le questioni, la ricerca dell’equilibrio condiviso per il bene comune può essere definita come una mediazione contrattata tra vari soggetti portatori di interessi, in vista di uno specifico benessere sociale. In tale contesto l’interesse esclusivo dell’homo oeconomicus, quale soggetto alla ricerca del massimo vantaggio per sé stesso (monetario o generico), è dunque ancora ammissibile, purché esso sia riconoscibile, regolato dalle leggi del Paese e in conflitto con altri legittimi interessi. La res publica non può, quindi, essere percepita come campo neutro senza conflitti economici, ma luogo d’intersezione degli interessi e delle differenze. La storia della città indica come la generazione e le evoluzioni dei conflitti sociali e economici configurino nel succedersi del tempo lo spazio pubblico della modernità, inteso come luogo concreto o concettuale della democrazia. Il principio di res publica come campo afono e indistinto, in cui ogni conflitto possa essere abolito definitivamente è un ideologico metaracconto senza significato concreto. La ricchezza di un popolo, determinabile nello spazio concettuale della res publica, è una misura quantitativa e qualitativa di un insieme complesso, in cui ogni soggetto non è un semplice mattone indistinto di una informe e velleitaria costruzione, ma è espressione, consapevole, di un diritto fondamentale e inalienabile. In tal senso la res publica è il luogo democratico e condiviso, essenziale per consentire ad ognuno di costruire una equilibrata ricchezza (tangibile e intangibile), intesa come condizione propedeutica per l’esercizio consapevole della libertà. I processi configurativi della città dei comuni e le evoluzioni dello spazio urbano moderno, dal rinascimento in poi, possono essere intesi come la rappresentazione fisica, evolutiva, dell’idea di libertà, propria del pensiero moderno. Escluse le città dell’utopia, l’aggregato urbano è il risultato di una somma di addendi, quali fenomeni tipo-morfologici sviluppatesi all’interno di una rete di interessi contrapposti tra soggetti diversi. Tale concezione implica che la costruzione della città storica, così come oggi l’osserviamo nella sua magnifica straordinarietà morfologica, sia configurabile come un processo economico dispiegato tra le convenienze variegate degli abitanti di un luogo urbano. Sintetizzando possiamo dire che la città compiuta, determinatesi nei fatti, nelle vicissitudini della storia degli uomini, sia stata resa possibile dalle risorse monetarie, private, degli individui. Tale concezione ha determinato una città diseguale, non omogenea. Nella nostra epoca, invece, dove trionfa la genericità, il pensiero ideologico banalizzato e infine la rivendicazione di un mortificante diritto allo standard, la città non può che essere il campo dell’uguale, del ripetitivo normalizzato. In tale visione l’idea dello spazio pubblico sembra essere, alcune volte, il campo privilegiato per l’esercizio di un ikea-pensiero urticante e maldestro. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la ricorrente e generica discussione sull’urgenza (ormai acclarata) di difendere e salvaguardare, in vista di un interesse comune, i beni pubblici: ambiente, paesaggio, città storiche, singole architetture, eccetera, ma di introdurre una metodologia pertinente, non generica, per l’efficace raggiungimento degli obiettivi di uso e tutela dei beni comuni. La res publica è una condizione da difendere, ampliandola nei suoi significati più remoti, approfondendo i suoi presupposti di equilibrata relazione tra il diritto del singolo e quello comune (più ampio) a cui il soggetto
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appartiene. La legalità non è una entità astratta, prelude infatti, concretamente, all’unica democrazia possibile, fondata sul rispetto delle regole. In tal senso, dunque, l’occupazione della dell’ex caserma Rossani presuppone l’arbitrio, la prevaricazione, l’imposizione di una scelta rispetto a tutte le altre. Sarà forse la bellezza dei sogni a spiegare, oppure a giustificare, un qualsiasi principio di illegalità? Chissà! Ma questo è un altro discorso. Intanto, tale illegalità sembra essere sostenuta da alcuni intellettuali assoggettati a quella che loro stessi definiscono cultura militante. L’ideologia militante è però, alcune volte, un freno alla trasformazione delle città perché seppellisce senza speranza il pensiero attivo. Un soggetto (colto) che milita, ovvero che è parte integrante di una milizia, solitamente è portatore di un pensiero coriaceo che implica una visione inderogabile del mondo. La cultura militante tra l’altro è anche quella che partecipa alla vita di un’organizzazione, di un partito, oppure di un movimento, a cui aderisce in toto, operando con azioni concrete di lotta e propaganda. Questa è però una inopportuna condizione per comprendere con la dovuta oggettività le relazioni del mondo. I sogni dei ragazzi, comunque, sono preziosi e dunque vanno rispettati. Alcune volte risultano anche condivisibili. Ciò detto è indispensabile, per rendere possibile questi e altri sogni, comprendere i meccanismi di funzionamento delle società contemporanee (organizzate). I termini occupazione e riappropriazione, invece, rimandano ai remoti linguaggi del secolo scorso, ormai persi nel tempo; oscuro oltre che ambiguo è anche l’abusato neologismo (non tanto nuovo) affine al cosiddetto movimentismo militante: centro sociale. Sembra quasi che il modello urbano, basato sulla permanenza e la stanzialità antropologica, capace di generare le città, abbia bisogno per essere di un centro deputato (magari gestito da un comitato, un politburo monolitico e inflessibile). Le agglomerazioni urbane, invece, sono la configurazione di relazioni complesse, spesso inique ma ugualmente attraenti . Lo “star bene in città” non è una condizione unitariamente spiegabile, e nemmeno è una relazione univoca, privilegiata, tra individuo e spazialità urbana preposta. Desidero dire che le città contemporanee non sono luoghi di supposte scelte etiche. Sono piuttosto luoghi con alto numero di componenti differenti e contraddittorie. Spazi urbani in cui la bellezza apollinea si interseca a quella dionisiaca. Realtà dove convivono ordine e disordine, ricchezza e povertà, omologazione e differenza. Lo “star bene in città” implica l’elaborazione di una pianificazione (strategica) complessa, capace di far integrare proficuamente un alto numero di componenti, di stakeholder , di interessi contrapposti, alcune volte anche indistinguibili. L’intersezione tra le diverse componenti è un atto essenziale per il funzionamento strategico e il benessere ambientale delle città. In quest’ambito non si deve credere, come spesso accade, che la cultura coniugata alla ricerca non possa essere per una sorta di recondita condizione, intersecata proficuamente con altre componenti, apparentemente contrapposte, ad esempio l’economia. Tali relazioni, qui da noi ritenute improprie, sono prassi consolidate nel resto d’Europa. A San Sebastian (Spagna), ad esempio, il Kursaal Auditorium di Rafael Moneo ha innescato un miglioramento del benessere e della ricchezza finanziaria di quella città, generando un cospicuo incremento economico. L’ opera è stata costruita sul sedime del precedente Kursaal (abbattuto nel 1973), quasi coevo al nostro Margherita. Il processo di costruzione ha avuto la durata di soli quattro anni (dal 1995 al 1999). Qui da noi tali processi virtuosi, svolti nell’interesse della comunità, non sono nemmeno immaginabili. Abbattere un edificio, mediocre, con volute e timpani è operazione impossibile. Al potere spropositato delle Soprintendenze si aggiungeranno i procuratori della Repubblica, l’isolato magistrato, il corteo dell’associazione ambientalista e infine l’ultimo proprietario dell’immobile, imparentato con il primo, quale cugino di sesto grado, che farà ricorso al TAR e poi al Consiglio di Stato. La Soprintendenza intanto ha suggellato la bellezza della dell’ex caserma Rossani, mentre i
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ragazzi l’hanno scoperta, ritrovando una inaspettata suggestione verde. In questo quadro aspetteranno ancora, con buona pace di tutti, i progetti di sistema,le strategie studiate e condivise, la pianificazione urbanistica della città in relazione all’area metropolitana, la messa a punto degli efficaci assetti infrastrutturali (ferroviari) del territorio vasto. Nota La democrazia / in senso lato indica il governo del popolo / deriva dal greco δῆµος (démos) che significa popolo e da κράτος (cràtos) che esprime il significato di potere.
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“ Il Paese (l’Italia, ndr) ha così probabilmente perso, durante gli anni ottanta, il tempo di una seria renovatio urbis e si trova ora a dover fronteggiare un tema assai più difficile e sconosciuto per risolvere il quale le esperienze accumulate in un lunghissimo periodo di riflessione sulla città e sul suo progetto e quelle esperite in altri Paesi non sono forse sufficienti. Le responsabilità degli intellettuali, architetti ed urbanisti in primo luogo, sono enormi, sia per il passato, sia soprattutto per il futuro . “Uno dei loro compiti consiste nel tentativo di abbattere gli stereotipi e le categorie riduttive che tanto limitano il pensiero e le comunicazioni umane” ( E. W. Said) ma forse ancora prima oggi, abbandonando distinzioni spesso pretestuose e sovente dettate solo da una troppo elevata considerazione di sé stessi, il loro compito principale è quello di tornare ad un lavoro minuto e collettivo, di promuovere programmi di ricerca convergenti in grado di offrire al Paese, alle città ed al suo territorio una prospettiva entro la quale il ruolo del progetto di architettura e del progetto urbanistico possa ancora essere compreso dai più”. (Bernardo Secchi, Casabella n. 629) Il tema dell’Expo 2010 di Shanghai, città migliore, vita migliore, Better city, better life, sembra non aver perso la sua attualità. È ancora un auspicio, un obiettivo inderogabile, qui da noi, per la riorganizzazione territoriale e il governo strategico della metropoli di Bari. Eppure, malgrado le urgenze, si continua ancora a cincischiare: con le inutili parole, con le errate scelte urbanistiche, con l’assenza di strategie (minime) di governance. La nostra è ancora un’area metropolitana dedita al depauperamento delle risorse ambientali, vedi l’inutile consumo di suolo. L’espansione della città implica, tra l’altro, l’inefficienza dei sistemi urbani, determinando caos e bassa qualità abitativa. Improcrastinabile per invertire la tendenza al caos è l’avvio di una progettazione, condivisa, pluridisciplinare, per l’organizzazione a medio e a lungo periodo dei territori metropolitani. Urgente, in tale quadro, è l’efficiente sistema della mobilità urbana ed extraurbana. Al momento non vi è, però, ancora traccia di un idoneo sistema delle reti di trasporto su rotaia, malgrado i ripetuti annunci e le risibili azioni per rendere competitiva l’offerta. La conseguenza è il perdurare della mobilità su gomma non più sostenibile. Qui da noi valgono ancora le convenienze (di pochi), le magagne per gestire una qualche forma di potere. La logica che ci circonda, se di logica si tratta, sembra essere una sterile liturgia, una messa rituale. Cosi stando le cose, il territorio metropolitano diventa, dunque, un qualcosa di sconosciuto, assimilabile ad un substrato qualsiasi, un piano su cui edificare inutili costruzioni. La politica, nel corso degli anni, è sembrata adattarsi a tale logica, mentre lentamente la scienza (o l’arte?) urbanistica diventava un’inutile gnosi, sempre più funzionale alla
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cucitura di strumenti (legali) per l’espansione della città. Sarà così per Il nuovo PUG (Piano Urbanistico Generale) di Bari? In questa fase, tralasciando le insidiose congetture, le trame delle malevoli supposizioni, dobbiamo solo aspettare la completa elaborazione del Piano (insieme alla sua definitiva approvazione). L’attesa non sarà breve. Il DPP (il Documento Programmatico Preliminare), per il momento, è l’unica fonte da cui trarre vaghe supposizioni sul futuro di questa città. Assente è ancora una coscienza di Piano di rango metropolitano. La rete della mobilità urbana è un sistema essenziale per il funzionamento e per le relazioni che esso ha sulla forma della città futura. In tale contesto, ricorrente (alcune volte generico) è l’apparato linguistico, spesso eccessivamente conformistico, sul quale ci si illude di costruire le soluzioni strategiche, quasi fosse utile soltanto la semplice elencazione terminologica: efficienza della rete, risorsa infrastrutturale, interscambio, intermodalità, accessibilità, eccetera. Per il DPP “…il sistema ferroviario (così com’è, ndr) è una grande risorsa. Lo è in generale e lo è ancor più per la città e l’area metropolitana di Bari grazie ad una rete di linee ferroviarie teoricamente in grado di servire direttamente gran parte delle principali direttrici di traffico e di garantire anche opportunità di interscambio capaci di intercettare i flussi in accesso alla città provenienti dalla viabilità extraurbana principale, offrendo un’alternativa efficiente allo spostamento in auto privata fino a destinazione.” Ciò implica l’accettazione, la pressoché conferma dell’attuale configurazione ferroviaria e il mantenimento del sito stazione Bari Centrale. Tale accettazione non sarà ininfluente sulle sorti della città. La scelta sottende la condivisione del modello tipologico monocentrico agente sull’intero sistema ferroviario barese. La questione fondamentale è proprio questa, ovvero l’efficienza trasportistica di tutta l’area metropolitana barese può innestarsi e crescere attraverso il mantenimento tout court del modello meno efficiente (ovvero quello monocentrico)? Tutto il dibattito scientifico degli ultimi quarant’anni si è sviluppato proprio attorno a questo tema. Il carattere policentrico dell’area metropolitana barese è storicamente fuor di dubbio; ciò lascerebbe pensare, dunque, all’avvio di soluzioni capaci di implementare strategie plurinodo, mirate soprattutto alla configurazione di una rete ferroviaria reticolare, abbandonando definitivamente il modello tentacolare. Ciò non significherà, ciò è fuor di dubbio, la dismissione della stazione Bari centrale, ma affidarle un diverso ruolo sistemico. Importante è dunque verificare se la scelta suggerita dal DPP sia quella corretta. A tale proposito sul documento si legge: “Un ruolo fondamentale in questo scenario (ovvero quello della mobilità urbana collettiva, ndr) di potenziamento del trasporto collettivo e di mitigazione dell’accessibilità automobilistica è svolto dalle due porte di accesso alle aree centrali (Ovest ed Est), di cui si è già detto nella sezione dedicata alla viabilità, ubicate rispettivamente tra via Tatarella e via Pasteur e lungo via Caldarola. La funzione che il DPP attribuisce a queste aree è quella di nodi di interscambio a favore della mobilità pubblica (rispetto a quella, ndr) (…) privata. I nodi sono (saranno,ndr) attrezzati con parcheggi di scambio e autostazioni per il servizio di trasporto pubblico extraurbano e l’intermodalità è garantita verso i servizi ferroviari, la rete portante del trasporto pubblico urbano, anche mediante un People Mover che muovendosi in sovrapposizione ma su quote differenti rispetto al fascio ferroviario assicura, attraverso una serie di fermate poste ad una distanza di circa 400 metri una dall’altra, una molteplicità di funzioni tra cui:
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a) collegare la Porta Ovest e la Porta Est rispettivamente con il Policlinico e il Campus universitario che, del People Mover, costituiscono le due testate; b) mettere in collegamento le due Porte con la stazione centrale, l’area di Piazza Moro e della Rossani; c) garantire la distribuzione degli spostamenti su ferro lungo tutta l’area ferroviaria attraverso fermate in corrispondenza delle stazioni ferroviarie e fermate intermedie che moltiplicano le connessioni riducendo gli sbracci pedonali.”
Il progetto integrato tra idea di città e reti di trasporto è una condizione essenziale (prioritaria) per la gestione strategica dei sistemi urbani ed extraurbani. Il benessere delle città è in stretta correlazione, se non in una logica dipendenza, con un’efficace ed integrata rete della percorribilità, pubblica e privata: viabilità pedonale e ciclistica, linee tranviarie, ferroviarie, trasporto su gomma e intermodalità terra-acqua. Insomma le svariate questioni del muoversi in città non potranno essere affrontate separatamente dalla struttura strategica di un Piano Urbano Generale (PUG). L’ambiente, il paesaggio, il controllo e la riduzione del consumo di suolo, la densificazione dei tessuti urbani, le reti di trasporto pubblico, le polarità metropolitane strategiche, i luoghi delle intermodalità trasportistiche, le politiche per la riduzione dei gas serra, le visioni lungimiranti dell’idea di città, dovranno far parte di un insieme coordinato e sapientemente progettato. Tutto questo sarà il lungo e faticoso percorso per rendere l’area metropolitana barese un territorio stimolante e competitivo, dove vivere e muoversi possano essere ovvietà quotidiane. Da lungo tempo, invece, dibattiamo su questioni marginali, o su inadeguate (a volte anacronistiche) proposte di sviluppo. Qui alludo ad una proposta “strategica” (l’hanno chiamata suggestiva) che è stata presentata nel corso della presentazione del PUG di Bari: La piazza-terrazza sul mare a ridosso del sito / faro San Cataldo. Quanta utenza polarizzerà e in quale modo sarà assorbita durante i congestionati periodi dell’anno, alcune volte concomitanti con le esposizioni fieristiche? La proposta appare al momento una boutade priva di significato. Una piazza non è, tra l’altro, un qualcosa di suggestivo a priori, è invece l’idea (l’embrione) stessa della città. Una piazza, dunque, non potrà mai essere fondata per volere di un singolo perché è da sempre un processo lento, meditato. Essa è la configurazione, condivisa, di una comunità che circonda un luogo riconoscibile: un edificio, una chiesa, un cippo. La traccia di una piazza è una ritualità antica, spesso sepolta nell’oblio. La dotazione infrastrutturale di Bari è una rete viaria indifferenziata. La promiscuità tra le diverse modalità di trasporto, ovvero la contiguità tra i veicoli motorizzati privati e quelli pubblici (autobus e taxi), insieme alle frotte di pedoni costretti, quasi sempre, a muoversi su marciapiedi ridottissimi (su via Dante, ad esempio, la larghezza dei marciapiedi sui due fronti è meno di un metro) rende la percorribilità delle strade, in qualsiasi caso, disagevole, oltreché pericolosa (soprattutto per i ciclisti). I tantissimi incidenti degli ultimi anni, anche infausti, dimostrano l’entità dei pericoli quotidianamente incombenti. La deduzione è ovvia: un’adeguata pianificazione delle reti di percorribilità urbana (motorizzata, ciclistica e pedonale) dovrebbe perseguire l’obiettivo di incidere sulla netta (o adeguata) separazione dei percorsi. La cosa non è nuova, è antica: l’aveva pensata Leonardo Da Vinci in epoca rinascimentale. Il futuro auspicabile delle città, ovvero il muoversi sostenibile, coinciderà con la configurazione di un diffusa, capillare, rete ciclabile e pedonabile degna di rispetto; mi riferisco alla capacità dei percorsi di essere
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e divenire luoghi attraenti del paesaggio urbano, insomma una strada ciclabile non dovrà essere pensata come la pista di un velodromo. 1/15 I crediti volumetrici
Il dimezzamento, come è stato detto, dei retini d’espansione del vigente PRG (detti crediti edilizi), ovvero la possibile costruzione di settemilionicinquecentomila metri cubi di costruzione, significa per i prossimi anni configurare sul territorio urbano duemilacinquecento edifici di cinque piani (quantità pari a venticinquemila appartamenti di cento mq). Se provassimo ad allineare uno accanto all’altro i duemilacinquecento edifici, questi configurerebbero una strada lunga trenta chilometri; oppure, ipotizzando la doppia cortina, una di quindici. L’intersezione tra teoria (o fumose aspettative) e la reale domanda di acquisto di nuove case è fondamentale per comprendere che cosa davvero succederà a Bari nei prossimi anni (o decenni). Intanto possiamo dire che i dati ISTAT del quindicesimo censimento della popolazione italiana / 2011 indicano per la Puglia (1 gennaio 2014) una popolazione complessiva pari a 4.088.988 individui. Tra dieci anni, nel 2024, quel valore numerico avrà un decremento di 77.623 unità, ciò vale a dire che la popolazione residente in Puglia sarà di 4.007.365 individui. Il calo demografico continuerà nei decenni successivi. Ciò implicherà il decremento delle nascite e l’aumento progressivo dell’età media delle persone. Per Bari e provincia (metropolitana) il ragionamento è identico (o quasi). Nei prossimi decenni è prevista una decrescita consistente per il capoluogo di regione e una stabilizzazione demografica della popolazione residente nell’hinterland barese. Tutto ciò implica una diversa visione strategica del Piano Urbano Generale di Bari (in itinere). Quale significato avranno dunque i cosiddetti crediti edilizi di cui tanto si parla (cioè il residuo volumetrico, dimezzato, del PRG Quaroni)? Ipotizzare la costruzione di nuove case è, alla luce dei dati Istat, una metodologia logica, credibile e strategicamente spendibile sul piano del risanamento ambientale? L’approccio strategico per la nuova città è soltanto nelle menti dei progettisti del PUG. I vari incontri pubblici sono stati insufficienti (probabilmente mal gestiti) a descrivere l’idea del nuovo Piano urbano. Il professor Gabrielli, coordinatore del team, ha più volte dichiarato, ma sono soltanto parole, che la sua (la nostra) sarà una città con una forma (verde e sostenibile); una città con una mobilità integrata (reti ferroviarie, stradali, ciclabili). Gli incontri però hanno, forse inconsapevolmente, descritto un’altra città. Il Piano della mobilità presentato è fortemente incentrato sul trasporto su gomma e orientato sul rafforzamento della città monocentrica; del sistema portuale, o quantomeno del rapporto fisico tra città e porto marittimo, si sa poco o niente, al di là della vagheggiata piazza sul mare. Questa è, probabilmente, la moneta di scambio tra Ente porto e Municipio di Bari per consentire il raddoppio della colmata di Marisabella. In questo ambito quale peso avrà la cosiddetta camionale (la spada puntata sul cuore della città che i progettisti hanno battezzato strada dei servizi) sulle sorti della qualità urbana, in relazione all’ accessibilità e alla fruibilità dei margini costieri? Negli incontri tenuti presso la Camera di Commercio di Bari con gli stakeholder l’affabilità, un po’ sorniona, del professor Bruno Gabrielli (che si è mostrato disincantato sulle capacità dell’urbanistica di incidere sulla ricchezza e sul benessere di una città) non è stata sufficiente per ottenere risposte credibili sui rapporti del Piano (il suo) con l’ambiente, la salute, il welfare e il volontariato, la cultura e le arti visive, la giustizia, la sicurezza, l’istruzione, la ricerca e gli ordini professionali (i temi, programmati, degli incontri). Avremmo voluto conoscere i caratteri del Piano (a scala urbana e metropolitana) in relazione alle tematiche indicate. Sapere degli strumenti tecnici, specialistici, per avviare un plausibile metodologia progettuale per l’incisivo miglioramento di ognuna delle componenti (materiali e immateriali) del sistema città. Sapere, insomma, del come, del
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perché e del quando. Di fatto si è preferito trastullarsi con tematiche marginali, quelle che solitamente intersecano il progetto di un Piano urbano e territoriale a una scala inferiore, trascurando essenzialmente gli indirizzi strategici della pianificazione a scala territoriale. Qualcosa di simile era avvenuto nei precedenti incontri, quelli tenuti presso il fortino di Sant’Antonio in cui sono state mostrate alcune ipotesi di Piano (particolareggiato): tipomorfologia delle residenze in relazione agli eventuali processi sostitutivi nei tessuti del Libertà. 1/16 La proposta di lottizzazione sull’area Punta Perotti
La consegna al Comune di Bari, da parte del gruppo Matarrese, del progetto urbano di Punta Perotti , ipotizzato da Ottavio Di Blasi, svela fittizie (o esagerate) virtù, qualcosa che assomiglia alla traditio ficta del progetto d’architettura. Il parco sul mare che accompagna il piano di lottizzazione è, infatti, un buon esempio di architettura paesaggistica ingannevole, configurazione paradisiaca sulla carta, ma non plausibile nella realtà. Quell’area è battuta dai venti di levante e maestrale, insidiosi e salmastri, e dunque non compatibili con una vegetazione rigogliosa, più prossima alla tipologia lacustre (Garda, Lugano, Maggiore, eccetera). Un buon progetto d’architettura ha l’obbligo di riconoscere i luoghi che intende trasformare, il rischio è la perpetrazione della città omologa, insignificante.
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