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1. CALIGOLA E I GIULIO-CLAUDII La casata Giulio-Claudia è la più celebre, e magari la più amata, delle dinastie succedutesi sul trono imperiale romano perché offre una galleria di atteggiamenti che sono poi quelli universali della psicologia del potere assoluto. Tiberio col suo contegno è l'antesignano di tutte le tendenze di tipo staliniano, volte a diffidare in modo sempre più paranoico e indistinto di tutti i collaboratori più stretti, e degli amici e familiari. Claudio è il prototipo dell'intellettuale senza nerbo, non privo di visioni illuminate ma vizioso e attratto da donne perverse e dissolute, ed inoltre neppure del tutto esente da crudeltà. I principati di Caligola e Nerone, poi, si possono apparentare sotto l'etichetta del complexus Antiatis. Per complexus Antiatis intendiamo l'insieme dei tratti che definiscono la continuità degli atteggiamenti relativi all'interpretazione psicologica del potere da parte di Caligola e di Nerone. Essi sono, dal punto di vista dell'azione politica, i seguenti: - l'ostilità persecutoria nei confronti dei familiari; 2
- l'estrema volubilità umorale nella valutazione di uomini e situazioni, che ha come conseguenza immancabile un incrudelire repentino. Dal punto di vista dell'immagine politica, invece, l'aspetto essenziale è quello dell’istrionismo divistico-demagogico. Caligola è tradizionalmente considerato il primo despota della storia dell’impero romano. Gli ambienti tradizionalisti dello stato romano, cioè in sostanza quelli gravitanti intorno al Senato, lo accusarono da subito di voler attuare un’orientalizzazione del proprio potere. Il suo principato cadde dopo l’età illuminata, ma non priva di tensioni, di Augusto, e la stagione di Tiberio, caratterizzata da un rapporto di rispetto e nello stesso tempo di diffidenza reciproci col Senato. Per la verità, almeno fino all’epoca di Cocceio Nerva, il venerando senatore di Narni, il Senato continuò ad essere nel bene e nel male vero gestore della politica a Roma; e questo, se non altro perché, in pratica, tutto il periodo che va dal 27 a.C. alla caduta di Domiziano, che ebbe come conseguenza, appunto, l’elezione di Nerva, si può considerare una fase di lunga transizione tra una nuova forma istituzionale già in atto, l’impero, e il sostrato costituzionale precedente, quello repubblicano.
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Ne derivò così un aspro conflitto tra attori nuovi della scena politica e vecchie istituzioni, in primis proprio l’assemblea di anziani di romulea fondazione, gelosa di conservare la propria centralità. Proprio l’ascesa di Nerva al trono sembrò chiudere quel lungo braccio di ferro con la vittoria del Senato, e la lettura degli anni precedenti dell’Impero da parte degli storici a lui contemporanei risente chiaramente di quella visione. L’elemento di assoluta novità che Caligola presentava rispetto al secondo successore di Augusto, un generale amato dai suoi soldati ma poco conosciuto dal popolo, era proprio il suo essere un beniamino delle masse. Questo non certo per un proprio merito, ma essendo egli il figlio di un condottiero, Germanico, considerato uno dei migliori, se non il migliore, di tutta la generazione post-tiberiana, e ben accreditato anche per una successione al principato. Che Caligola fosse un divo lo dimostrò fin da bambino: è noto infatti che il soprannome con cui è passato alla storia gli derivò dal fatto che, quand’era fanciullo, amava accompagnare il padre generale negli accampamenti indossando calzature simili, in piccolo, a quelle portate dai legionari (caligae), e non gli dispiaceva certo diventare la loro attrazione e il loro portafortuna. 4
La nomina del cavallo Incitatus a senatore fu chiaramente una provocazione che giungeva al culmine di un lungo periodo di tensione col venerabile consesso. In politica estera si può dire che Caligola perseguì una linea sostanzialmente tiberiana, tesa a non allargare i confini dell’impero. La spedizione in Britannia, che per la storiografia a lui ostile è rimasta famosa come la “pesca delle conchiglie”, proprio come quella in Germania in effetti, lungi dall’avere intenti espansionistici poté invece servire da azione deterrente o dimostrativa: azione giustificata in Britannia dalla presenza di un re alleato che bisognava salvare dalla minaccia di un antagonista, e in Germania dalla necessità di allontanare il pericolo dei barbari dalle frontiere continentali dell’impero.
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2. CARACALLA: IL PADRE, IL FRATELLO E I SOPRANNOMI
Caracalla ha in comune con Caligola, oltre alla tendenza a un certo dispotismo sanguinario, il fatto di essere passato alla storia per un soprannome: un soprannome relativo, proprio come nel caso del suo predecessore, a un capo di abbigliamento. Caracalla è infatti il mantello di fabbricazione gallica che Marco Aurelio Severo Antonino Bassiano, nato a Lugdunum (Lione) capitale della Gallia Lugdunense1, portava abitualmente durante le campagne militari, esattamente come Caligula è il diminutivo di caliga, la calzatura preferita dal futuro imperatore quando era bambino. Com’era fatta una caracalla? Si trattava di un mantello con maniche e cappuccio, lungo fino al tallone, fermato al collo con un fermaglio o una spilla; veniva chiamato anche cocullus ed era generalmente di colore verde, ma non sempre. Esisteva anche un altro tipo di caracalla, più corta, conosciuta col nome di birrus. Proprio in base alla lunghezza, evidentemente, si distingueva tra caracalla maior e caracalla minor. Si ha un’ attestazione ufficiale di ciò in una fonte di epoca posteriore a quella del nostro, l’Edictum Diocletiani de pretiis (IV sec.), articoli 46 e 47: bracario pro caracalla maiori viginti 6
quinque; bracario pro caracalla minori viginti. Trattandosi di un catalogo di regolamentazione dei prezzi per varie tipologie di merci, abbiamo a che fare con due indicazioni di prezzatura richieste allo stesso venditore (il bracarius, commerciante di bracae2 e di vesti in genere, se non addirittura confezionatore di esse) riguardo a due capi diversi: la caracalla maior, appunto, e la minor. Tra di esse, come si vede chiaramente, vi è una leggera differenza di costo: per il primo modello, infatti, il prezzo consigliato era di venticinque denari, per il secondo, invece, solo di venti. Giulio Bassiano, dal 196 Marco Aurelio Severo Antonino Bassiano, poi detto Caracalla, nacque dunque a Lione il 4 aprile del 186 da Settimio Severo, generale libico allora governatore della Gallia Lugdunense, e dalla sua seconda moglie Giulia Domna, figlia di un sacerdote siriano. Qualche anno dopo, nel 189, la coppia diede a Bassiano un fratellino, Settimio Geta. Questi nacque a Roma, dove Settimio Severo era stato nel frattempo richiamato, prima di partire per la Sicilia nelle vesti di governatore. Due anni dopo lui e la sua famiglia si trasferiranno in Pannonia superiore3: qui le tre legioni di stanza aspettavano infatti un nuovo comandante. Settimio Severo si insediò dunque a Carnuntum, capitale di quella provincia (ora Petronell-Carnuntum): 7
in questa città, il 28 marzo 193, egli fu proclamato imperatore dai suoi soldati. In meno di ventiquattro mesi, dalla fine del 192, l’impero romano era ripiombato di nuovo in una crisi simile a quella che si era aperta dopo il tragico epilogo di Nerone. Eliminato Commodo, l’ultimo degli Antonini, da una congiura ordita dal prefetto del pretorio Leto (in precedenza altri due complotti, a cui non erano estranei i suoi familiari, erano miseramente falliti), i pretoriani avevano in pratica preso in mano la situazione a Roma, e si erano fatti aggiudicatori dell’impero prima a beneficio di Elvio Pertinace, prefetto dell’urbe, poi, stancatisi di lui, dietro compenso l’avevano ceduto a Didio Giuliano, un ricco senatore nativo di Milano. A quel punto le truppe dislocate nelle varie province iniziarono a far sentire la loro protesta. A Carnuntum, quel giorno di inizio primavera del 193, decisivo per il futuro di loro padre, Caracalla aveva sette anni, il fratello Geta quattro. Che uomo era Lucio Settimio Severo? I principali riferimenti iconografici sulla sua persona danno di lui un’idea non dissimile da quella di un imperatore-filosofo. Sia il busto della Gliptoteca di Monaco che quello dei Musei Capitolini a Roma, così come quelli, sempre a Roma, del Museo di Palazzo Venezia e del Museo di Palazzo 8
Massimo, lo fanno apparire un parente alla lontana di Marco Aurelio e Lucio Vero. Era un effetto voluto, a dire il vero: Settimio fece di tutto per accreditarsi come figlio adottivo di Marco Aurelio, sin dalla titolatura ufficiale con cui si presentava (e che trasmise a Caracalla), e per legittimare la sua dinastia come prosecuzione naturale di quella illuminata degli Antonini. Naturalmente, però, la realtà era diversa: Settimio, anzi, era tutt’altro che un uomo di studio riluttante ad affrontare le campagne militari; aveva semmai una tempra simile a quella di Vespasiano e di Traiano, comandanti audaci e spregiudicati come lui. Come Vespasiano Settimio fu costretto a conquistare l’impero in un clima di aperta guerra civile. Dopo la rapidissima soppressione di Didio Giuliano, infatti, egli non era stato l’unico comandante ad essere salutato imperatore dall’esercito fuori d’Italia: in lizza per quell’ambito titolo c’erano anche altri due condottieri, Clodio Albino, sostenuto dalle truppe di Britannia, e Pescennio Nigro, governatore della Siria. Inaspettatamente, Settimio e Clodio strinsero un accordo per spartirsi il potere: in particolare, con un anticipo sorprendente su quello che sarà il sistema tetrarchico dioclezianeo, Settimio si riservava il titolo di ”augusto” (il principe titolare, per così dire), Clodio, 9
invece, quello di “cesare” (il vice-imperatore). Il loro nemico comune diventava così Nigro. Contro di lui fu proprio Settimio a muoversi, e a vincerlo dopo una breve ma intensa campagna durata circa un anno (autunno 193-autunno 194) , e risoltasi in quattro scontri campali: a Perinto, a Cizico, a Nicea e ad Isso. Qua, dove già Alessandro Magno aveva ottenuto una decisiva vittoria sul re di Persia Dario III (correva l’anno 333 a.C.), Settimio sbaragliò definitivamente le forze pescenniane, e costrinse lo stesso loro comandante alla fuga; questi venne poi intercettato mentre cercava di passare l’Eufrate e messo a morte. Non contento del trionfo, l’augusto infierì sui resti dell’esercito di Pescennio, ordinando spedizioni punitive e confische ai danni di coloro che avevano combattuto per il suo ex avversario. Soltanto due anni dopo, associando al trono come cesare il primogenito, Settimio ruppe l’accordo con Clodio e venne a guerra aperta con lui: il “magno discrimine” tra i due avvenne a Lugdunum nel febbraio del 197, e si concluse con una nuova vittoria di Severo, a questo punto padrone dell’impero. Tuttavia non fece in tempo a festeggiare il trionfo che subito partì per una nuova impresa militare: una spedizione contro i Parti, E fu solo dopo la sua elice conclusione (199) che Settimio e 10
Caracalla si concessero una più lunga permanenza a Roma: il loro ritorno fu festeggiato dal senato a dal popolo romano con l’erezione di un arco trionfale nel foro, a ricordo proprio delle imprese partiche (203). Dal 200 al 208 l’imperatore si dedicò quindi alla realizzazione di imponenti opere pubbliche a Roma, e soprattutto a favorire una riconciliazione tra i figli, che già covavano l’un per l’altro un odio profondo. Fu l’unica impresa in cui il generale di Leptis Magna (in quella città infatti aveva visto la luce l’11 aprile del 146) non seppe riuscire: poi la difesa dei confini lo chiamò ancora una volta, e per l‘ultima volta, lontano da Roma. Al suo fianco, per fare un estremo tentativo di riunire gli animi fraterni, volle sia Caracalla, suo collaudato braccio destro nelle operazioni militari, che Geta, nominato governatore della Britannia al posto di Alfeno Senecione e nel frattempo diventato anche “cesare”. Di lì a poco, la sua morte, avvenuta ad Eburacum (York) il 4 febbraio 211, aprì la strada al regolamento di conti fratricida da parte di Caracalla. Alla sua morte, dunque, Settimio lasciò Caracalla e Geta principi alla pari, ma sotto una sorta di tutor, il prefetto del pretorio Plauziano. Che fosse un uomo che godeva della massima fiducia da parte 11
del defunto imperatore era fuori di dubbio: Settimio infatti aveva smantellato il vecchio corpo dei pretoriani e lo aveva ricostruito su nuove basi, e dunque non avrebbe tollerato che a capo della guardia imperale salisse un uomo che non gli fosse completamente fedele. In un certo senso, coerente con l’immagine che Settimio volle dare di sé fu il “destino” iconografico del primogenito suo successore: come nel caso di Commodo, infatti, anche per la rappresentazione plastica di Caracalla influì senz’altro la sua passione per i giochi gladiatori. Il nostro, però, non ebbe la possibilità di meritarsi le fattezze erculee del predecessore, e preteso zio (Settimio, infatti, facendosi figlio adottivo di Marco Aurelio, si presentava anche come fratello di Commodo, e in quanto tale aveva anche favorito la sua divinizzazione); e questo, a dispetto del suo vero culto per Ercole, secondo solo a quello per Alessandro Magno, come ci testimonia Elio Sparziano nella Storia Augusta. Sembra, invece, di poter concludere che i tratti collerici di Caracalla e la terribilità che traspare dal suo cipiglio facciano omaggio a un accostamento che i senatori avevano istituito tra la persona del principe e quella di 12
un gladiatore particolarmente feroce, Taurautas, di cui non si sa molto di piĂš oltre al fatto che era solito finire a morsi gli avversari battuti.
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3. CARACALLA E ALESSANDRO MAGNO
6 aprile del 217 : ultima scena del principato di Caracalla. Due giorni dopo aver compiuto il trentunesimo anno di età, il principe, impegnato in una campagna contro i Parti, è in vista della città di Carre (nell’odierna Turchia), dove vuole fermarsi a sacrificare al dio Luno. Secondo il racconto di Sparziano, nel momento in cui sta montando di nuovo sul suo cavallo, dopo esserne sceso per orinare, viene raggiunto dal pugnale del suo staffiere, che gli si avvicina col pretesto di aiutarlo. Lo staffiere è solo l’esecutore di un delitto voluto da Marziale, un soldato che odiava il principe perché gli aveva negato la promozione a centurione; dietro di lui, però, a sostenerne i propositi di vendetta c’era un nutrito gruppo di congiurati, che facevano capo al prefetto del pretorio Opellio Macrino. Ad architettare l’assassinio di Caracalla era stato dunque lui, Macrino. Un altro prefetto del pretorio nella vita dell’imperatore, proprio quello che egli stesso aveva nominato per sostituire Plauziano, l’odiato retaggio paterno. Come Alessandro, in un certo senso, Caracalla morì 14
mentre era in marcia per fare la guerra in Oriente.
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NOTE
1Cioè
il distretto nordoccidentale della provincia gallica secondo la ripartizione
augustea: nel suo territorio includeva anche Parigi, allora Lutetia. Gli altri distretti erano la Gallia Narbonense, corrispondente alla costa meridionale francese e avente per capitale Narbo Martius, oggi Narbona; la Gallia Aquitania, che completava la frontiera con la Spagna e aveva in Mediolanum Santonum (Saintes) la sua capitale, destinata a spostarsi a Burdigala (Bordeaux) nel III secolo; e infine la Gallia Belgica, equivalente al nostro Belgio, piĂš Lussemburgo, Francia nordorientale, Olanda meridionale e una parte della Germania occidentale: sua capitale era Durocortorum (Reims), poi soppiantata da Augusta Treverorum (Treviri). 2Gli
antenati dei nostri calzoni. Si tratta di un indumento di origine
gallica. 3La
Pannonia superiore corrispondeva alle attuali Austria, Croazia e
Slovenia, la Pannonia inferiore all’odierna Ungheria e aveva per capitale Aquincum (la futura Budapest).
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