A sinistra: Ulisse (1824). Illustrazione di William Blake del XXVI
«"O frati," dissi, "che per cento milia perigli siete giunti a l'occidente, a questa tanto picciola vigilia d'i nostri sensi ch'è del rimanente non vogliate negar l'esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza".» (Inf. XXVI, vv. 112-120)
Massimo Seriacopi
Ulisse in Dante: un riflesso di sé nella «Commedìa»
U
lisse è un unicum nel percorso infernale di Dante: con questo personaggio il poeta-pellegrino si identifica mentalmente (non moralmente, però); su di lui proietta aspetti fondamentali di sé nella sua inesausta volontà di conoscenza e di ricerca di una Verità
assoluta. Si pensi che per l’autore del “poema sacro” l’eroe greco non sarebbe, in realtà, nemmeno ritornato a Itaca e avrebbe rinunciato agli affetti della famiglia e al dominio della sua patria
perché urgeva in lui l’ardore, appunto, dell’esperienza del mondo, e delli vizi umani e del valore.1 1
Riflettiamo sul fatto che anche secondo alcuni commentatori del poema coevi a Dante Ulisse non sarebbe mai ritornato in patria: si veda, ad esempio, la redazione inedita da me rintracciata all’interno della Biblioteca Mediceo Laurenziana del commento volgarizzato di Graziolo dei Bambaglioli, ora in Massimo Seriacopi, Graziolo dei Bambaglioli sull’«Inferno» di Dante. Una redazione inedita del commento volgarizzato. Reggello (FI), FirenzeLibri, 2005, dove, a p. 129, si legge: «non amore di padre, non d’i figliuoli, non di Penelope mia moglie me, Ulisse, muovere potero per alcun modo ch’io redisse in mio paese, ma di dì in dìe andava e faticava più forte a cercare il mondo […]».