Episteme 5

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EPISTEME Physis e Sophia nel III millennio An International Journal of Science, History and Philosophy

N. 5 - 21 marzo 2002


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Redazione (bartocci@dipmat.unipg.it) "Episteme" c/o Dipartimento di Matematica e Informatica UniversitĂ degli Studi Via Vanvitelli - 06100 Perugia

Direttore Responsabile Euro Roscini (Supplemento semestrale ad: Arte in Foglio, Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Perugia, N. 36/1991)

http://www.robotics.it/episteme http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci (per ottenere ~ tenere premuto Alt mentre si compone il numero 126 con i simboli numerici nella parte destra della tastiera)

Numeri arretrati on line: http://itis.volta.alessandria.it/episteme

ISSN 1593-3482


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EPISTEME Physis e Sophia nel III millennio/Physis and Sophia in the III millennium An International Journal of Science, History and Philosophy

N. 5 - 21 marzo 2002 / 21st Mar. 2002 [La diffusione via Internet di sezioni della rivista avviene prima della data indicata - Sections of Episteme are available in Internet even before the previous date]

Informazioni editoriali/Editorial Policy Pubblicazioni ricevute/Received books and journals Annunci/Announcements 1 - Flavio Barbiero: La famiglia di Mosè - Un potere occulto nella storia dell'Occidente? 2 - Franco Baldini: ET IN ARCADIA EGO - Semantiche mito-ermetiche in alcuni quadri di Guercino e Poussin (Parte II) 3 - Francesco Vitale: La fine del mondo secondo la Bibbia e secondo la scienza 4 - Giorgio Taboga: Faustino Perisauli, poeta romagnolo, precursore di Erasmo da Rotterdam 5 - Umberto Bartocci: Leonardo Sciascia e il caso Majorana - Siciliani scompaiono nel nulla, ma un'ipotesi tarda ad apparire... 6 - Alberto Lombardo: La fauna dell'Urheimat 7 - Bruno d'Ausser Berrau: De Verbo Mirifico - Il nome e la storia 8 - Sabina Kruszyñska: DE LA RELIGION... de Benjamin Constant - Le fondement épistémologique et métaphysique (con una recensione di Alberto Mingardi, "La libertà come orizzonte morale", apparsa su Liberalia) 9 - Umberto Bartocci, Rocco Vittorio Macrì: Il linguaggio della matematica 10 - Carlo Cirotto: La comunicazione cellulare 11 - Francesco Sacchetti: La comunicazione nel mondo fisico 12 - Umberto Lucia: Irreversible entropy in biological systems


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" : An algorithm for the cybernetic model of tumour evolution

" " : A cybernetic model for the thorax potential in ECG maps A recent history of mathematical applications Reprints Emilio Spedicato: Galactic encounters, Apollo objects and Atlantis - A catastrophical scenario for discontinuities in human history Commenti ricevuti/Received Comments Giuseppe Antoni: La questione del tempo nelle Confessioni di S. Agostino Paolo Bocchio: Quattro ipotesi sulla natura del tempo Alberto Bolognesi: Una conferma sperimentale delle obiezioni di Halton Arp al paradigma cosmologico corrente Massimo Cardellini: La "fuga" di Amleto, ovvero alla ricerca dell'Introduzione originaria di Hamlet's Mill (Il non detto in rapporto alla tematica centrale) Alessandro Moretti (a cura di): Quattro lettere di sir Isaac Newton al Dottor Bentley, contenenti alcuni argomenti sulla dimostrazione dell'esistenza di una DivinitĂ Sabato Scala: Il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto - L'ultimo oltraggio di un monaco gnostico? // La leggenda dei Merovingi nella Corona del Mosaico di Otranto? Recensioni/Reviews Alberto Arecchi: Atlantide - un mondo scomparso, un'ipotesi per ritrovarlo (Flavio Barbiero - Emilio Spedicato) (Rosario Vieni: 11500 anni fa... - Atlantide nel mito platonico) Maurizio Blondet: Gli "Adelphi" della Dissoluzione - Strategie culturali del potere iniziatico (Arcangelo Papi - Bruno d'Ausser Berrau) Giorgio Taboga: L'assassinio di Mozart


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INFORMAZIONI EDITORIALI Episteme è soprattutto una rivista "non convenzionale" on-line, reperibile presso i seguenti siti: http://www.robotics.it/episteme http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci (Numeri arretrati: http://itis.volta.alessandria.it/episteme). Articoli, commenti e altro materiale sono benvenuti, e possono essere presentati per la pubblicazione da parte di ciascuna persona interessata. La spedizione può essere effettuata vuoi a mezzo Internet, a: bartocci@dipmat.unipg.it (inviare eventuali attachments soltanto in formato txt, o doc - si prega di non usare tex! - ed eventuali figure, tabelle, etc. in formato jpg), vuoi facendo pervenire un dischetto tramite posta ordinaria, all'indirizzo: "Episteme" Dipartimento di Matematica, Università 06100 Perugia - Italy. Respingendo ogni forma di "monopolio linguistico", Episteme intende mantenersi plurilingue, pertanto i lavori potranno essere redatti in qualsiasi (quasi!) lingua, vale a dire Francese, Inglese, Italiano, Spagnolo, Tedesco (etc.?!). L'accettazione degli articoli è decisa dagli organizzatori - in base alla conformità con la linea della rivista - che ne informeranno in modo tempestivo i proponenti, riservandosi eventualmente di acquisire pareri di esperti (le opinioni ricevute saranno eventualmente rese note agli interessati), e/o di chiedere agli autori chiarimenti o modifiche. Il materiale ricevuto anche se non utilizzato non si restituisce. - La diffusione via Internet di parti della rivista avviene in qualche caso prima della data prevista per la pubblicazione ordinaria, dopo la quale però ogni correzione ai lavori messi a disposizione in rete viene segnalata in un apposito Errata Corrige.


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- Si fa notare che la versione on-line di Episteme è talora necessariamente "semplificata" rispetto a quella a stampa (per esempio in presenza di caratteri o simboli speciali). Il file originale in formato doc dei vari articoli (o dell'intero fascicolo) verrà inviato gratuitamente dalla redazione (come attachment) a chiunque ne farà richiesta. "Episteme" è più in generale un "progetto culturale", che non ha fini di lucro, e non è finanziato da alcun ente, pubblico o privato. Gli organizzatori se ne ripartiscono le spese secondo le personali momentanee disponibilità. Sovvenzioni per tenere in vita l'iniziativa sono ovviamente ben gradite, e possono essere inviate via vaglia postale o assegno (intestati ad Episteme) al sopra citato indirizzo. Oltre alla diffusione on-line, si produce anche un certo numero di copie cartacee della rivista, tra l'altro per distribuirle, a cura e spese degli organizzatori, presso Biblioteche, Istituzioni, etc.. Tali copie potranno essere ottenute da singoli rivolgendone specifica richiesta agli indirizzi sopra menzionati, al prezzo di 15 Euro cadauna. Detta somma va intesa esclusivamente quale rimborso (assai parziale!) per le spese di stampa, rilegatura e spedizione postale, e come contributo generale per la gestione e il mantenimento in vita del progetto. Si ringraziano pertanto in anticipo coloro che vorranno richiedere la versione a stampa della rivista.

EDITORIAL POLICY Episteme is mostly an on-line publication, but it does produce even printed copies. In order to obtain some of these (15$ each), a request should be sent to the editor, at one of the addresses indicated below. Episteme is interested in publishing papers which illustrate unconventional points of view - that is to say, which do not usually appear in other academic journals - in Science, History and Philosophy. Since Episteme is thought of as a multi-linguistic journal, papers are accepted and possibly published in Deutsch, French, English, Italian, Spanish (etc.?!). Episteme will communicate to contributors as soon as possible whether submitted papers are in agreement with the journal's criteria, or not. Files of the papers, in doc or txt format (please avoid tex!), together with possible illustrations in jpg format, should be sent either by attachment, to: bartocci@dipmat.unipg.it


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or by diskette, through ordinary mail, to:

"Episteme" Dipartimento di Matematica Università, 06100 Perugia - Italy. Episteme can be found at the following web sites: http://www.robotics.it/episteme http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci (Back numbers: http://itis.volta.alessandria.it/episteme). - Sections of this journal are available in Internet even before the publication of the printed version; afterwards, any modification of the material made available in the web is registered in a suitable Errata Corrige. - The Internet version of Episteme can sometimes be defective, in presence for instance of special characters or symbols. The original file in doc format of the various articles (or of the journal's whole issue) will be sent free (as an attachment) from the editorial office to every people asking for it.

Pubblicazioni ricevute/Received books and journals 1 - Autori Vari, Il tamburo e l'estasi - Sciamanesimo d'oriente e d'occidente (Avallon - L'uomo e il sacro, N. 49, 2001) Il Cerchio Iniziative Editoriali, Rimini - ilcerchio@iper.net Viaggiatore alla ricerca di anime che vola magicamente sull'arcobaleno e sull'albero del mondo al suono dei sonagli e del tamburo. Terapeuta dello spirito ai margini della vita sociale e civile, maestro di purificazioni che sfida i demoni, lo sciamano è chiamato alla sua vocazione da visioni e sogni iniziatici terribili in cui contempla il proprio scheletro e il suo corpo smembrato e ricomposto miracolosamente...

2 - Flavio Barbiero, La Bibbia senza segreti Ed. Andromeda, Bologna, 2001 via Salvador Allende 1 - 40139 Bologna Tel. ø 051.548721 - 051.490439 - Fax 051.491356 andromeda@posta.alinet.it , www.alinet.it/andromeda Nuova edizione dell'opera ampiamente presentata e discussa in Episteme N. 2. 3 - Flavio Barbiero, Una civiltà sotto ghiaccio Editrice Nord, Milano, 2000 - editrice.nord@agora.stm.it


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Alle soglie della più importante scoperta archeologica di tutti i tempi ... Un'opera che ha suscitato un grande interesse tra gli studiosi a seguito della quale sono state organizzate alcune spedizioni scientifiche in Antartide ... Un libro che oltre a presentare un'affascinante teoria è anche un appassionante romanzo di storia dell'archeologia.

4 - Edoardo Mirri e Furia Valori (a cura di), Volontà e autodeterminazione del soggetto Quaderni del Dipartimento di Filosofofia, N. 15 - Università degli Studi di Perugia Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2001 I contributi di questo volume ... cercano di delineare l'idea di libertà, che non consiste nell'arbitrio della volontà nella sua particolarità, ma nel determinarsi ad una razionalità superiore...

5 - Giovanni Stelli, Filosofia II - Filosofia moderna dall'Umanesimo a Kant Ed. Armando Scuola, Roma, 2001 (con supporto informatico "Tutor di Filosofia" ideato e progettato da David Lanari) L'autore presenta una trattazione essenziale, ma non superficiale, dei problemi, delle tesi e delle argomentazioni fondamentali dei filosofi moderni ... nella convinzione che non tutto si può e si deve dire, ma che tutto ciò che si dice va esposto con la massima semplicità e chiarezza di linguaggio. Nel Cd-Rom allegato al volume vengono proposti una serie di esercizi suddivisi per temi in corrispondenza delle unità didattiche del libro...

***** Tra i nuovi titoli di riviste pervenute alla Redazione di Episteme, per le quali tutte ringraziamo ancora una volta sentitamente i curatori, si segnalano: - DIORAMA LETTERARIO, Mensile di attualità culturali e metapolitiche, N. 248, Ottobre-Novembre 2001, Direttore Responsabile: Marco Tarchi Via Laura, 10r - 50121 Firenze www.diorama.it , ordini@diorama.it , tarchi@unifi.it .


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- New Energy Technologies, Research on advanced propulsion systems and new energy sources, Published by Faraday Lab Ltd. Russia, September-October 2001. Editor-in-Chief Alexander V. Frolov. P.O. Box 37, St Petersburg, 193024 Russia http://www.faraday.ru , net@faraday.ru . - Riportiamo qui di seguito un'immagine della copertina dell'interessante N. 15 di ALGIZA, Novembre 2001, Bollettino interno del Centro Studi La Runa, già presentato nel N. 2 di Episteme:

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Annunci/Announcements [Episteme receives, and publishes] *******


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Dear Madam/Sir Should you consider it appropriate, and if there is still time, we would appreciate it if you could mention the announcement below in your publication and/or circulate the announcement among your colleagues. Kind regards Helen Terre Blanche (Conference Alerts) alerts@ConferenceAlerts.com Prague Humanities Summer School 2002: Courses on Theology, Good and Evil 5 to 9 August 2002, Prague, Czech Republic The Prague Humanities Summer School will take place at the Anglo-American College in Prague, Czech Republic, from 5th - 9th August 2002. All courses are certificate and credit bearing; to obtain both a course certificate and/or credit points towards existing studies, an end of course assessment will have to be undertaken. Courses offered deal with several themes, one of which is Theology, Good and Evil. The courses offered under this theme are: * Teaching about Atrocity: Holocaust Education (Dr Deirdre Burke) * Belief in God After Auschwitz (Dr Deirdre Burke) * The Nature of Evil: Philosophical and Theological Issues (Dr Rob Fisher) * Literature and Persons at the Extremes of Life (Dr Rob Fisher). Several other courses are also being conducted at the summer school: * Getting to Know Gandhi * Violence & Non-Violence in Contemporary Society * History of Psychology * Introduction to Psychodrama * Punishing Violent Crime * Restorative Justice * Medieval Art & Iconography * Golem and Goblin: Enchantment in Literature * The Ethics of Globalization * International Business Ethics For more details about any of the above courses, please visit our website or contact Dr Rob Fisher at the e-mail address below. E-mail enquiries: rf@learning-solutions.org Website: http://www.learning-solutions.org/pss.htm Organized by: Learning Solutions ----------------------------------------------------------------This announcement distributed via http://www.ConferenceAlerts.com

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BALTIC STATE TECHNICAL UNIVERSITY INSTITUTE FOR HISTORY OF SCIENCE AND TECHNOLOGY OF RUSSIAN ACADEMY OF SCIENCES INTERNATIONAL SLAVIC ACADEMY OF EDUCATION SCIENCES AND ARTS FIRST ANNOUNCEMENT Dear colleague, We have the honor to invite you to take part in VII International Scientific Conference "Space, Time, Gravitation", which will take place in August 19-23, 2002, in St.-Petersburg, Russia. The biennially held International Conference in St.-Petersburg welcomes open discussion of the conflicts in official theoretical physics and cosmology, possible alternative solution of Natural philosophy problems, experimental results and nontraditional sources of energy. The topic of a round-table talk during the Conference is: "Seven conferences passed, what is to be done further?". Simultaneously a Symposium "Coordinate problem in astrometry and geodesy" is organized in order to consider rather narrow field of problems common to astrometry geodesy and geodynamics: Reduction of high precision observations (on microsecond level), pulsar timing, aberration of light and so on. Orientation of Coordinate Systems; GPS satellite systems. Unsolved questions in metrology: historical aspects and contemporareity. Conference and Symposium are hosted by Baltic State Technical University. If you intend to participate in the Conference or Symposium, please, fill out the enclosed Registration form and send it together with the summary of your paper (not more then 10 lines) to Local Organizing Committee (LOC) before February 1, 2002. After getting Registration form Second Announcement with detailed information will be send to you. Address of the chairman of LOC, Varin Michael Pavlovich is: 65-9-1, Pulkovskoe shosse, 196140 St.-Petersburg, Russia. E-mail: tdima_v@mail.ru From the Program Organizing Committee (POC): G.T. Aldoshin - Honored leader of sciences of Russian Federation, Prof., Ph.D., Baltic State University, chairman of POC. N.I. Nevskaja - Ph.D. in Philosophy, St.-Petersburg brunch of Institute for History of Science and Technology, member of POC. S.A. Tolchelnikova-Murri - Ph.D., Pulkovo Observatory, member of POC, tel.123-4226 home, 123-4324 office. From the LOC: M.P. Varin - Ph.D., chairman of LOC. November 5, 2001


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La famiglia di Mosè Un potere occulto nella storia dell'Occidente? (Flavio Barbiero) Prima parte In tutte le opere che trattano di Mosè ci sono interminabili dissertazioni sui suoi genitori naturali e soprattutto su quelli adottivi, che secondo alcune tradizioni sarebbero da ricercarsi addirittura nella famiglia del faraone. Nessuno, però, parla mai della famiglia formata dallo stesso Mosè, dei suoi figli e dei suoi discendenti. E' un argomento che sembra oggetto di un rigoroso tabù: invano se ne cercano notizie nelle innumerevoli opere che trattano del profeta. I discendenti dei grandi fondatori di religioni, di solito, occupano posizioni di tutto rilievo nelle società che hanno adottato quelle religioni. I discendenti di Confucio, per esempio, sono tuttora venerati nell'estremo oriente e quelli di Maometto (per la precisione di sua figlia Fatima) hanno regnato e regnano tuttora su tutte le monarchie arabe. E i discendenti di Mosè che fine hanno fatto? Logica vorrebbe che fossero tenuti in grande considerazione in seno ad Israele e che occupassero una posizione di rilievo per lo meno nella sua organizzazione religiosa. Invece nella bibbia, la quale, si voglia o no, è l'unica fonte di informazioni storiche su Israele, non esiste il minimo cenno esplicito a questo proposito. A giudicare dal silenzio che li circonda, sembrerebbero svaniti nel nulla, come se non fossero mai esistiti. Eppure non c'è dubbio che Mosè abbia avuto dei discendenti. Quando Mosè fuggì dall'Egitto, si rifugiò nel paese dei madianiti e trovò ospitalità presso il sacerdote Ietro, "che gli diede in moglie la propria figlia Zippora. Ella gli partorì un figlio ed egli lo chiamò Ghersom" (Es. 2,22). Più tardi Zippora gli diede un secondo figlio maschio, Eliezer. Quando tornò in Egitto per organizzare l'esodo, Mosè lasciò moglie e figli presso il suocero Ietro, che glieli riportò in seguito, a Refidim, nei pressi del monte sacro. Il capitolo 18 di Esodo è interamente dedicato a questo episodio: "Ietro, suocero di Mosè, venne da Mosè con la sua moglie e i suoi figli, nel deserto dove era accampato, al monte di Dio. E disse a Mosè: "Sono io Ietro, tuo suocero, che vengo da te, con tua moglie, e con lei ci sono i suoi due figli."

Questa è l'ultima volta in cui Zippora e i due figli di Mosè vengono nominati nel Pentateuco. Da questo momento in poi non si dice più una sola parola su di loro. E' un silenzio che appare incredibile, enorme. Può essere attribuito soltanto a due cose: o c'è stata una censura che ha tagliato o mascherato, a seconda dei casi, tutte le notizie relative alla famiglia di Mosè; oppure questa famiglia è sparita, per un qualche motivo, prima dell'invasione della Palestina. Ma se così fosse stato, il racconto avrebbe dovuto riportarlo. La cronaca dell'Esodo è precisa e dettagliata e registra un gran numero di fatti apparentemente banali; un fatto così enorme come l'eventuale annientamento della famiglia del protagonista assoluto dell'opera dovrebbe necessariamente essere riportato. In ogni caso, quindi, si deve ammettere che una qualche forma di censura c'è stata, o da parte dell'autore stesso del Pentateuco, oppure successivamente. L'idea che qualcuno abbia voluto cancellare la famiglia di Mosè dalla storia di Israele, sembra incomprensibile. Eppure è un dato di fatto innegabile. Alcune notizie frammentarie e liste genealogiche, sfuggite evidentemente alla censura, nei libri successivi (Giudici, Samuele e Cronache), infatti, ci danno la certezza che i figli di Mosè gli sono sopravvissuti e sono entrati in Palestina al momento della conquista, ed hanno avuto a loro volta dei figli e dei discendenti, che arrivano per lo meno fino ai tempi di re Davide. Ma


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delle loro vicende, delle cariche ricoperte e del ruolo svolto negli avvenimenti successivi alla conquista non viene detto nulla di esplicito. Questo non è certamente dovuto al fatto che i discendenti del più grande dei profeti fossero personaggi di secondo piano, che potessero venire ignorati dai cronisti dell'epoca. Non è pensabile. Vista l'importanza della famiglia, il ruolo preminente che ricopriva e la lunghezza del periodo durante il quale è certificata la sua esistenza in seno ad Israele, è da escludersi che la sua assenza dalle cronache bibliche sia dovuta ad una perdita accidentale di informazioni. Non c'è dubbio che debba esserci stata una censura deliberata, volta specificamente a rimuovere dalle cronache ogni accenno ai discendenti di Mosè. Dovrebbe essere relativamente facile trovarne le prove. Appare inverosimile, infatti, che tale operazione abbia potuto effettuarsi senza lasciare tracce piuttosto evidenti. Nel testo devono necessariamente essere sopravvissuti indizi, incongruenze, fatti, nomi e soprattutto omissioni che denunciano in modo evidente l'operazione di censura e dai quali è possibile ricostruire la vera storia di questa famiglia. Deuteronomio Incongruenze ed omissioni ingiustificabili e molto significative a questo proposito si notano già nell'ultimo libro del pentateuco, Deuteronomio. Questo libro narra i fatti dell'ultima giornata terrena di Mosè, quando egli convoca l'assemblea del popolo ebraico e tiene un grande discorso di commiato, passando pubblicamente le consegne ed il potere ai suoi successori. Ci sono cose che dovevano necessariamente essere riportate nella cronaca di quella giornata, perché ne costituiscono una parte importante, se non addirittura il motivo principale per cui era stata convocata l'assemblea. In particolare manca ogni accenno al sommo sacerdote che era o dovette entrare in carica in quell'occasione. In mancanza di indicazioni specifiche viene correntemente dato per scontato che il sommo sacerdote fosse allora Eleazaro, figlio di Aronne, che avrebbe ereditato la carica dal padre; ma è falso. Aronne e suo figlio non sono mai stati sommi sacerdoti: questa è una leggenda messa in circolazione successivamente, quasi mille anni dopo, ai tempi di Esdra, che non ha alcun fondamento nei primi libri della Bibbia. Fino a che rimase in vita il sommo sacerdote fu sempre e soltanto Mosè. Lui e solo lui fu l'interlocutore con Dio; fu lui che consacrò il tempio-tenda, lui che consacrò Aronne e successivamente Eleazaro; lui che convocava le assemblee e presiedeva le cerimonie. Aronne fu sempre e soltanto una comparsa. Non ci può essere il minimo dubbio che Mosè assommasse nella sua persona il potere sia civile che religioso. Nella sua ultima giornata, narrata in Deuteronomio, egli passa pubblicamente il potere civile a Giosuè, ma non quello religioso. A chi andò quest'ultimo? Chi fu designato sommo sacerdote da Mosè al momento del suo commiato dal popolo ebraico? Se il sommo sacerdote fosse stato in quel momento Eleazaro, dovremmo aspettarci che egli comparisse a fianco del profeta come, giustamente, compare il suo erede militare, Giosuè. O quanto meno che il suo nome comparisse nei passi più significativi di un libro quasi interamente dedicato a questioni di carattere religioso e sacerdotale. Invece il nome di Eleazaro non compare mai nel libro di Deuteronomio, se non una volta, incidentalmente, in relazione alla morte del padre. In nessuna parte di Deutoronomio viene mai precisato chi fosse il sommo sacerdote, né chi avesse diritto al sacerdozio. Il che, in un libro che doveva costituire il fondamento della legittimità delle cariche religiose in Israele, è inammissibile. E' fin troppo evidente che vi è stata esercitata una censura a questo proposito. Secondo la consuetudine ed il diritto in vigore presso il popolo di Israele, i figli primogeniti ereditavano sempre la posizione ed i privilegi del padre; per questo la condizione di "primogenito", che viene sempre specificata nella Bibbia, era ed è tutt'oggi così importante in quella società. Non ci sono indicazioni che Mosè facesse eccezione alla norma su questo punto; anzi, il fatto che il racconto evidenzi che Ghersom era il suo "primogenito", sottintende che veniva considerato quale suo erede e successore. In base alle consuetudini, quindi, e alla


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logica, dovremmo aspettarci che Mosè abbia presentato come proprio successore alla carica di sommo sacerdote il proprio figlio primogenito. Come pure dobbiamo ritenere che i discendenti del primo e più grande sacerdote di Israele, Mosè, debbano aver ereditato quanto meno lo stato di sacerdoti. Ma nel libro di Deuteronomio i figli di Mosè non sono mai nominati; neppure in occasione della sua morte e sepoltura, il che è decisamente contrario ad una norma perfettamente documentata nel Pentateuco: tutti i patriarchi sono stati sepolti dai propri figli. Il testo di Deuteronomio, quindi, risulta lacunoso su due punti di assoluto rilievo nell'ambito dei fatti narrati e di importanza capitale nella storia di Israele: i figli di Mosè e l'identità del suo successore alla carica di sommo sacerdote. E' legittimo ritenere che su questi due argomenti sia stata esercitata una sorta di censura e che fra di essi ci sia una stretta connessione. L'eredità della famiglia di Mosè Proseguendo con il libro di Giosuè, le omissioni ingiustificate sono assai più evidenti e clamorose e quindi la prova della censura risulta ancora più eclatante. Il libro narra la conquista e la spartizione della Palestina. Terminata la conquista "si riunì tutta la comunità dei figli di Israele in Siloh, (Gs.18,1) … e Giosuè tirò per essi le sorti in Siloh davanti a Jahweh ed ivi distribuì la terra ai figli di Israele." Dei 24 capitoli del libro, ben dieci sono interamente dedicati alla spartizione del territorio conquistato fra le varie tribù. In essi vengono elencate una per una tutte le famiglie di Israele, con i territori loro assegnati. La famiglia di Mosè, il personaggio in assoluto più importante, non poteva essere ignorata in questo contesto. Incredibilmente, invece, non vi si trova neppure un singolo cenno in proposito. E' un fatto sbalorditivo. Tutti gli ebrei hanno avuto un pezzetto di territorio, anche i personaggi più insignificanti; persino qualcuno dei parenti madianiti di Mosè ha ricevuto la sua parte di eredità in Palestina. Infatti Obab il chenita e i suoi discendenti ebbero un territorio in mezzo a Israele, nella valle del Giordano, vicino a Gerico. Obab era fratello di Zippora e quindi cognato di Mosè; è importante il fatto che egli abbia avuto assegnata una parte di eredità in Israele. A maggior ragione, quindi, i figli veri e propri di Mosè devono aver avuto, all'atto della spartizione, una parte adeguata ai meriti e alla posizione del padre. Invece nulla: essi non vengono mai nominati, neppure di sfuggita. Quella famiglia sembra sparita, volatilizzata. Sappiamo invece con certezza, dai libri successivi, che al momento della spartizione essa si trovava in Palestina. E' fin troppo evidente, quindi, che ci deve essere stata una censura nel libro a questo proposito. Non è possibile, infatti, che si tratti di una semplice "dimenticanza" del redattore. Silo Ma non è l'unica. Dal momento che si cercano nel libro di Giosuè informazioni che dovrebbero esserci e invece non ci sono, non si può fare a meno di rilevare un'altra clamorosa omissione di questo libro. Fin dalla spartizione, la città di Silo, situata nel territorio montagnoso di Efraim, più o meno al centro del territorio conquistato, si era imposta come la località più importante della Palestina. Una rapida indagine attraverso il testo biblico, infatti, è sufficiente a stabilire che era assurta a città guida di Israele fin immediatamente dopo la conquista della Palestina ed era rimasta tale fino alla sua distruzione, operata dai Filistei ai tempi di Samuele. Le conferme sono numerose, come per esempio in Geremia 7,12-16, dove il profeta, preannunciando la distruzione di Gerusalemme e del suo tempio, mette in bocca a Jahweh le seguenti parole: "… nella mia dimora che era in Silo avevo da principio posto il mio nome … io tratterò questo tempio (di Gerusalemme) che porta il mio nome e nel quale confidate e


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questo luogo che ho concesso a voi e ai vostri padri, come ho trattato Silo". In Giudici 18,31 è detto chiaramente che a quei tempi "la casa di Dio era a Silo". A Silo, infatti, era stato eretto il tempio a Jahweh dove veniva conservata l'arca dell'alleanza (1 Sam. 4,3). A Silo risiedeva il sommo sacerdote. A Silo tutta Israele portava le proprie offerte per il Signore (1 Sam. 2,13 seg). A Silo tutti gli anni convenivano gli israeliti da ogni parte della Palestina, "per prostrarsi e sacrificare a Jahweh degli eserciti" (Gdc, 21,19; 1 Sam. 1,3). Sulla base di tutte queste indicazioni, così chiare e precise, non è possibile nutrire dubbi sul fatto che, durante tutto questo intervallo di tempo, Silo era stata per Israele quello che più tardi sarebbe stata Gerusalemme. Ai tempi della spartizione del territorio fra le tribù di Israele, quindi, Silo era in assoluto la città più importante di tutta la Palestina. E il titolare del santuario, in quanto sommo sacerdote, era la massima autorità di Israele. L'autore del libro di Giosuè non poteva ignorare quella che era in effetti l'informazione più importante e significativa di tutto il libro e cioè a chi fosse stata assegnata la città ed il suo santuario. Quindi, delle due l'una: o egli ha omesso deliberatamente di riportare la notizia, per una qualche sua ragione che al momento ci sfugge, oppure essa è stata cancellata successivamente. Se all'epoca della conquista il sommo sacerdote di Israele fosse stato Eleazaro, come vuole la tradizione consolidata ai tempi di Esdra, è logico aspettarsi che la città sarebbe stata assegnata a lui stesso. Ma il libro di Giosuè non lo dice. Anzi, un controllo accurato del testo permette di stabilire con certezza che la città non fu assegnata a nessuno dei leviti, e tantomeno ai discendenti di Aronne. I leviti ebbero in tutto 48 città, distribuite fra le varie tribù, che sono nominate una ad una, comprese le quattro nella regione di Efraim, dove si trovava Silo: Sichem, Ghezer, Qibsajim e Bet-Horon. Tredici città, anch'esse elencate una ad una, vengono assegnate specificamente alla famiglia di Aronne, vale a dire a Eleazaro, Itamar e ai loro figli. Di Silo neanche l'ombra! Ulteriore conferma è il fatto che Eleazaro fu sepolto a Ghibeat, chiara indicazione che questa era la sua città, passata poi in eredità a suo figlio Fineas. Silo, quindi, non era stata assegnata ad un levita e tanto meno ad un discendente di Aronne, Eleazaro o suo figlio Fineas. Nondimeno era sede del tempio a Jahweh e vi risiedeva la più alta autorità religiosa di Israele, il sommo sacerdote. Il fatto che nel libro di Giosuè non venga detta una singola parola da cui si possa arguire a chi fosse stata assegnata la città costituisce una omissione altrettanto clamorosa di quella relativa alla mancata menzione della famiglia di Mosè. Non è possibile che il narratore ignorasse proprio quelle che erano le notizie più importanti di quella spartizione, e cioè a chi era stata assegnata Silo e quale fosse la parte di eredità toccata ai figli di Mosè. L'ipotesi della censura diventa quindi una certezza. Anche qui, come in Deuteronomio, essa riguarda due punti essenziali: la famiglia di Mosè e l'identità del sommo sacerdote, titolare di Silo. Prende consistenza, quindi, l'ipotesi che tra il sommo sacerdozio e la famiglia di Mosè ci fosse una relazione ben precisa e che Silo con il suo santuario fosse stata assegnata in eredità proprio a questa famiglia. Ipotesi che diviene certezza, in base alle informazioni sui discendenti di Mosè contenute nei libri successivi.

Seconda Parte In Deuteronomio e Giosuè si hanno numerose indicazioni dalle quali si desume che la famiglia di Mosè è sopravvissuta al profeta, è entrata in Palestina al tempo della conquista ed era titolare della carica di sommo sacerdote a Silo. Si tratta per lo più di prove indirette, consistenti in omissioni importanti che nessuno poteva ignorare a quell'epoca e che dovevano necessariamente essere riportate nel testo. In Giudici, invece, si cominciano a trovare le prime prove dirette ed esplicite. Ben due capitoli di Giudici, il 17.mo e 18.mo, vengono dedicati a una storia apparentemente strana e avulsa dal contesto narrativo del libro stesso. Si parla infatti di un "certo" levita, figlio cadetto di un personaggio ignoto, che parte da Betlemme in cerca di fortuna e viene accolto in


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casa di un non meglio identificato Mica, che abitava sulla "montagna di Efraim" e che lo assume come suo "sacerdote" personale. Dopo varie vicende, il nostro sacerdote approda a Dan, dove fonda un santuario. Alla fine dei capitoli si scopre che questo levita "innominato" aveva un nome ben preciso, Gionatan, ed era figlio nientemeno che di Ghersom, primogenito di Mosè. Questo versetto è importante perché conserva l'evidenza di una censura e mostra come essa sia stata operata con interventi davvero minimi sul testo. Nella versione della Bibbia tratta dal testo masoretico, infatti, il nome di Mosè è stato cambiato in quello di "Manasse", semplicemente inserendovi una "n". In tal modo il genitore di Gionatan diventa "Ghersom figlio di Manasse", personaggio che non esiste nella Bibbia. Manasse era il figlio primogenito di Giuseppe, morto in Egitto almeno mezzo secolo prima, e non ebbe alcun figlio di nome Ghersom. Che si tratti di interpolazione voluta, per sviare l'attenzione da Mosè, appare più che evidente. Nella versione greca detta dei LXX, (tratta a sua volta da un testo ebraico più antico di quello masoretico), questa corruzione, invece, non è avvenuta. Qui c'è scritto chiaramente che si tratta proprio del figlio di Mosè. Questi due capitoli di Giudici, quindi, confermano in maniera puntuale che la famiglia di Mosè si trovava in Palestina. Forniscono inoltre una informazione molto importante e cioè che i figli di Ghersom erano sacerdoti per diritto di nascita; vale a dire che il sacerdozio era una condizione ereditaria, legata alla famiglia di Mosè. C'è infine un ultimo particolare di estremo interesse, e cioè il fatto che "Gionatan, figlio di Ghersom, figlio di Mosè, e quindi i suoi discendenti furono sacerdoti della tribù di Dan fino al giorno della deportazione dalla terra. Essi si eressero l'idolo che si era fatto Mica, che rimase in quel luogo per tutto il tempo in cui la casa di Dio fu in Silo" (Gdc. 18,31). E' evidente da questo cenno che fra Gionatan e il santuario di Silo doveva esistere un legame diretto. La spiegazione più logica e immediata che balza alla mente è che il titolare del santuario di Silo fosse suo padre Ghersom. Sulla base di queste indicazioni è possibile ricostruire le vicende della famiglia di Mosè con buon grado di affidabilità. Prima della sua morte, in Transgiordania, Mosè deve aver affidato il potere religioso al suo primogenito Ghersom, trasmettendogli la carica di sommo sacerdote. Il potere civile fu invece assegnato "ad interim" a Giosuè, che per le sue capacità militari era l'unico in grado di guidare la conquista della Palestina. Il resto della famiglia di Mosè ebbe come prerogativa la condizione del sacerdozio. All'atto della spartizione del territorio conquistato, Ghersom ebbe in eredità Silo, dove venne subito edificato il tempio a cui affluivano le offerte da tutta la Palestina. Il titolare del tempio di Silo, in quanto sommo sacerdote, era la massima autorità di Israele. Alla morte di Giosuè, nessuno subentrò al suo posto, per cui la guida del popolo ebraico dovette ricadere interamente nelle mani del sommo sacerdote. Sappiamo per certo, proprio da numerosi passi del libro di Giudici, che a quell'epoca Silo era il centro politico e religioso di Israele, dove il popolo ebraico conveniva tutti gli anni per portare le proprie offerte al tempio di Jahweh e dove veniva convocato nelle situazioni di emergenza. Ma il nome del sommo sacerdote non compare mai nel testo, né viene mai evidenziato il ruolo della famiglia sacerdotale negli avvenimenti del periodo. Il testo è popolato soltanto di "leviti" senza nome e senza una provenienza precisa, che appaiono dotati di autorità enorme, senza però che ne venga specificata la fonte. L'opera del censore a questo riguardo è più evidente che mai nel testo di Giudici, perché la mancata menzione di nomi, luoghi e fatti si avverte in modo immediato e diretto ed è tale da rendere incomprensibile buona parte degli episodi narrati e soprattutto da rendere impossibile inquadrare gli avvenimenti in una cornice storica che abbia un minimo di senso. E' un libro confuso che da un lato, a causa delle sue reticenze, lascia emergere il quadro di un periodo apparentemente in preda all'anarchia ed al disordine sia politico che religioso, mentre


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dall'altro testimonia in maniera inequivocabile l'esistenza a Silo di una forte autorità centrale riconosciuta da tutto il popolo. Da notare che anche qui la censura è rivolta essenzialmente alla famiglia di Mosè e all'identità del titolare del santuario di Silo, che sulla base dell'analisi precedente doveva essere appunto Ghersom, primogenito di Mosè. Ma perché mai qualcuno si è preso la briga di cancellare dai primi libri della Bibbia proprio i discendenti di quello che è in assoluto il personaggio più grande e importante di tutta la storia di Israele? La risposta a questa domanda scaturisce con evidenza dall'analisi del testo biblico: i discendenti immediati di Mosè erano personaggi indegni e profondamente invisi alla popolazione ebraica, che mal tollerava il loro primato. La ragione principale va ricercata nel fatto che i figli di Mosè non erano ebrei, o comunque non potevano essere considerati tali a pieno titolo. Erano nati da madre madianita e cresciuti fra i madianiti, quindi decisamente di cultura madianita. E gli israeliti mal tolleravano di sottostare ad uno che non fosse ebreo al 100%. Questo da solo sarebbe sufficiente a giustificare il desiderio di cancellarli dalle cronache di Israele ed evitare un loro abbinamento alla casta sacerdotale. Si aggiunga il fatto che Ghersom era un personaggio dispotico e sanguinario, autore di azioni raccapriccianti. Ciò si deduce dal testo stesso. Kusan il terribile Da un passo di Giudici, molto controverso e sicuramente manipolato, apprendiamo che dopo la morte di Giosuè il potere passò ad un certo "Kusan Risataim, re di Aram. Gli Israeliti stettero sottomessi a Kusan Risataim per otto anni. Allora gli Israeliti alzarono il loro grido a Jahweh, il quale suscitò un salvatore che li liberò: fu Othoniel, figlio di Qenaz…". Gli esegeti si sono sempre chiesti chi mai potesse essere questo personaggio, che sicuramente non era un re Arameo, né risulta avesse un esercito, una sede, o che avesse invaso la Palestina o compiuto azioni militari di alcuna sorta. La cosa più strana è il nome: "Kusan", infatti, non è un nome di persona, ma il nome di una località del paese di Madian, da cui venivano Zippora e i figli di Mosè (vedi Abacuc 3,7). Si tratta senza dubbio di un soprannome, applicato sprezzantemente a qualcuno originario di quella località. Ci vuol poco a capire che si tratta proprio di Ghersom, succeduto a Giosuè nella guida del paese. La conferma ci viene data da uno scritto apocrifo del II secolo a.C. (L'Apocalisse di Mosè) che fornisce una versione di quei versetti leggermente, ma significativamente, diversa da quella fornita dal libro dei Giudici. Infatti egli dice testualmente: "Dopo la morte di Giosuè si pose a capo dei figli di Israele, per ottanta anni, Kusan il terribile. Quindi guidò Israele per venti anni Othaniel, figlio di Kena…". "Kusan" è con tutta evidenza il capo israelita che subentra immediatamente a Giosuè nella guida del popolo ebraico. Non un re straniero invasore, quindi, ma sicuramente il titolare del tempio di Silo. E non viene sconfitto da Othaniel, come è detto in Giudici. Kusan, quindi, era il soprannome con cui veniva indicato il titolare di Silo, massima autorità della Palestina. Trasparente indicazione che si trattava proprio del figlio di Mosè, Ghersom, madianita cresciuto a Kusan. E' un soprannome sprezzante, a cui si aggiunge un appellativo che rivela chiaramente la natura maligna del personaggio. "Risataim", infatti, significa "dalla doppia malizia", tradotto dall'apocrifo in "terribile". L'appellativo "terribile" lascia presumere che Ghersom governasse con il terrore, e fosse stato protagonista di fatti di sangue che hanno gettato Israele nella costernazione. In effetti gli ultimi tre capitoli del libro sono dedicati ad un episodio raccapricciante, in cui un "anonimo" "levita, che abitava all'interno delle montagne di Efraim" (Gdc. 19,1), squarta la moglie morta in seguito alle violenze subite da alcuni beniaminiti, a cui lui stesso l'aveva abbandonata, e ne manda un pezzo a ciascuna delle tribù di Israele, convocandole a Silo. Qui egli esige che la tribù di Beniamino venga completamente sterminata, donne e bambini inclusi (soltanto alcuni giovani vengono in seguito risparmiati per perpetuare la tribù). Più tardi fa sterminare anche


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gli abitanti di Jabes del Galaad, perché non si erano presentati all'appello a Silo - Gdc. 21,812. Non c'è dubbio dal contesto che l'anonimo levita protagonista di questo truculento episodio era il titolare del tempio di Silo, tutt'altro che "anonimo", quindi; ma il suo nome è stato evidentemente cancellato per non coinvolgere la figura di Mosè nel discredito che questi fatti gettavano sulla sua famiglia. Azioni così sproporzionate dimostrano un carattere dispotico e feroce, che certamente non valse ad aumentare la popolarità di Ghersom, già malvisto per il fatto di essere madianita. Era senz'altro il personaggio più odiato e disprezzato dell'epoca. Ed i suoi successori non dovevano essere molto più popolari. Il disprezzo verso la famiglia sacerdotale di Silo traspare con tutta evidenza anche nel libro successivo, quello di Samuele. Il sommo sacerdote Eli e i suoi due figli Ofni e Fineas risultano impopolari e invisi a tutti, descritti come lestofanti avidi e arroganti, interessati soltanto a depredare il popolo. In 1 Sam.2,12, si legge: "I figli di Eli erano uomini perversi: essi non conoscevano Jahweh né il diritto dei sacerdoti presso il popolo. Ogni volta che uno offriva un sacrificio, veniva il servo del sacerdote, mentre si cuoceva la carne, con un tridente in mano, e lo ficcava nel caldaio: il sacerdote si prendeva tutto quello che il tridente tirava su. … Il peccato dei giovani era molto grande davanti a Jahweh, poiché quegli uomini disonoravano le offerte di Jahweh."

Se si considera che queste parole sono rivolte ai figli del sommo sacerdote, eredi essi stessi al sommo sacerdozio, si capisce bene di quale profonda impopolarità soffrisse la famiglia sacerdotale in quel periodo. Si capisce anche come nessuno fosse desideroso di sottolineare la discendenza di tale famiglia dal sommo profeta Mosè e come il redattore, o un qualche copista del testo biblico, abbiano omesso deliberatamente ogni accenno che potesse stabilire in maniera evidente un legame fra Mosè ed i suoi discendenti. Mosè era il fondatore della religione ebraica, il garante supremo della legge: non poteva essere travolto, o anche soltanto toccato, dalla impopolarità e dalle malefatte dei suoi indegni discendenti. Occorreva creare un disaccoppiamento. Questo venne a rispondere in seguito anche ad una esigenza di legittimità della famiglia sacerdotale, che non aveva alcun interesse a sottolineare la sua discendenza madianita. In un primo momento, quindi, si tentò di far sparire dal libro sacro le prove che legavano i discendenti di Mosè al profeta, e questo nell'unico modo possibile: facendo sparire i discendenti stessi. La censura dei testi dovette esercitarsi nel modo più discreto e leggero possibile, limitandosi a cancellare qualche riga qua e là e a sopprimere o modificare qualche nome. Ne risultarono incongruenze vistose e rivelatrici, per cui in un secondo tempo si dovette cercare di mascherarle, trovando un sostituto che potesse assumersi la paternità della famiglia sacerdotale con un minimo di credibilità. Aronne venne a trovarsi in posizione ideale per questa operazione. Al tempo di Esdra venne indicato di punto in bianco, e senza alcuna giustificazione di tipo genealogico (lo vedremo in seguito), quale antenato dei sacerdoti rientrati a Gerusalemme dall'esilio babilonese e da allora in poi questa è diventata la versione accettata in tutto il mondo ebraico. La famiglia di Mosè è scomparsa, sepolta nell'oblio, nonostante le numerose indicazioni della Bibbia che ne testimoniano l'esistenza. Per una qualche ragione che sfugge alla comprensione, nessuno ha mai osato indagare questo argomento. Il sommo sacerdote Eli Nel libro di Giudici si trova l'evidenza che la famiglia di Mosè è sopravvissuta alla morte del profeta ed è entrata in Palestina e anche la prova che questa famiglia era titolare del santuario di Silo e che ai suoi membri competeva il sacerdozio per diritto di nascita. Nei libri successivi


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si trovano numerose citazioni dei discendenti di Mosè che confermano tutto ciò in maniera definitiva. C'è un modo per sapere con certezza chi ha avuto Silo in eredità all'atto della spartizione. Le cariche in Israele, come pure il possesso di beni e città, erano sempre ereditari. Basta quindi controllare chi fossero gli antenati del titolare del santuario di Silo ai tempi di Samuele, per scoprire chi l'ha avuta in sorte all'atto della spartizione. Nei libri di Samuele tutti i personaggi vengono identificati con le loro genealogie, di norma quelli importanti fino a Giacobbe. Il primo libro, infatti, si apre con la genealogia completa di Samuele, che risale fino ad Efraim, figlio di Giuseppe. A maggior ragione, quindi, dobbiamo aspettarci che siano citati gli antenati del gran sacerdote Eli, titolare del tempio di Silo, il personaggio più importante di Israele a quell'epoca. Ma sorprendentemente gli antenati di Eli non vengono citati da nessuna parte. Neppure il nome di suo padre. E' assolutamente incredibile. Il solito censore all'opera? Senza dubbio; ma c'è un passo, 1 Sam.2,27, in cui il censore lascia filtrare qualche informazione in merito ad un grande antenato di Eli, ovviamente senza riportarne il nome: "Un giorno venne un uomo di Dio a Eli e gli disse: 'Così dice il Signore: Non mi sono forse rivelato al tuo antenato mentre gli ebrei si trovavano in Egitto come schiavi nella casa del faraone? Ed egli fu scelto fra tutte le tribù di Israele per me, perché facesse il sacerdote e salisse sul mio altare per far ascendere il fumo dei sacrifici, per portare dinanzi a me l'efod, affinché io dessi alla casa del tuo antenato tutte le offerte fatte mediante il fuoco dai figli di Israele?' "

Sulla base di queste parole, sembrerebbe non possano esserci dubbi che il "grande antenato" di Eli debba identificarsi con lo stesso Mosè: fu a lui e a lui solo che Dio si rivelò mentre gli ebrei erano in Egitto; lui fu sempre l'unico interlocutore diretto con Dio. E fu Mosè a consacrare il tabernacolo e ad offrire i primi sacrifici; fu lui a ungere Aronne ed i suoi figli (Es.29). Tutti i moderni commenti esegetici, invece, sono concordi nel dire che si dovesse trattare di Aronne; come voleva il nostro censore, del resto. Ma la cosa ha poco senso e non trova conferma nel testo. Di Aronne si conoscono tutte le città, e Silo non è fra queste. Mentre Ghersom, figlio di Mosè, e suo figlio Gionatan sono associati a Silo. Dovendo scegliere fra i due, appare praticamente obbligato ritenere che il grande antenato di Eli, cui fa riferimento l'autore del libro di Samuele, fosse lo stesso Mosè. Se la famiglia di Mosè è realmente sopravvissuta, infatti, non ci può essere il minimo dubbio che deve aver avuto in possesso proprio il santuario di Silo ed ovviamente la carica del sommo sacerdozio, ad esso collegata. E che sia sopravvissuta è dimostrato non soltanto dai cenni che abbiamo visto, ma anche da precise liste genealogiche sfuggite alla forbice del censore nei libri successivi, le quali fra l'altro forniscono indicazioni su quale fosse il ruolo assegnato ai discendenti di Mosè. Le liste genealogiche di Cronache Nei libri di Samuele si possono seguire le vicende della famiglia di Eli, da cui discendono tutti i sacerdoti di Israele, dalla distruzione del tempio di Silo fino al termine del regno di Davide, quando Gerusalemme diviene la capitale dei regni riuniti di Israele e di Giuda. I due libri seguenti, 1 Re e 2 Re, consentono di seguire la famiglia sacerdotale lungo i successivi quattro secoli generazione dopo generazione. Abbiamo la certezza che l'ultimo gran sacerdote della serie, Giosedec, figlio del gran sacerdote Seraja ucciso a Ribla da Nabuccodonor, che viene deportato ancora fanciullo a Babilonia, discende in linea diretta da Zadoc, e quindi in definitiva da Eli. Zadoc, infatti, era figlio di Achitub, a sua volta figlio di Fineas, figlio di Eli. A questo punto cominciano a riemergere nuove prove a favore della famiglia di Mosè. In 1 Cronache 23,14 c'è scritto che "riguardo a Mosè, uomo di Dio, i suoi figli furono contati nella tribù di Levi. Figli di Mosè: Ghersom ed Eliezer. Figli di Gherson: Sebuel il primo. Figli di


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Eliezer furono Recabia il primo. Eliezer non ebbe altri figli, mentre i figli di Recabia furono moltissimi." Di Gherson viene citato soltanto il primogenito, Sebuel, mentre sappiamo da Gdc. 18,31 che aveva avuto per lo meno un altro figlio maschio, Gionatan. Di Eliezer viene citato il primo ed unico figlio, Recabia, ma specificando che quest'ultimo ebbe molti figli. Questo passo fornisce la certezza su un certo numero di punti importanti. Innanzitutto, ancora una volta, che la famiglia di Mosè gli è sopravvissuta ed ha avuto discendenti. In secondo luogo che questo fatto era ben noto in Israele e che non poteva non essere riportato nelle cronache di Giosuè, Giudici e Samuele; pertanto l'ipotesi della censura esercitata sul testo, vuoi dal redattore stesso o da qualcuno successivamente, si conferma come certezza. In terzo luogo ci fornisce l'evidenza che la famiglia di Mosè ha svolto un ruolo di primo piano nella vita religiosa e politica di Israele. Ulteriore conferma si trova sempre in Cronache, due capitoli più avanti; al versetto 24, si legge: "Sebuel, figlio di Ghersom, figlio di Mosè, era sovrintendente dei tesori. Tra i suoi fratelli, nella linea di Eliezer: suo figlio Recabia, di cui fu figlio Isaia, di cui fu figlio Ioram, di cui fu figlio Zicri, di cui fu figlio Selomit. Questo Selomit con i fratelli era addetto ai tesori delle cose consacrate, che il re Davide, i capi dei casati, i capi di migliaia e di centinaia e i capi dell'esercito avevano consacrate, prendendole dal bottino di guerra e da altre prede, per la manutenzione del tempio. Inoltre c'erano tutte le cose consacrate dal veggente Samuele, da Saul figlio di Kis, da Abner figlio di Ner e da Ioab figlio di Zeruià; tutti questi oggetti consacrati dipendevano da Selomit e dai suoi fratelli. "

Stando a questo passo ci sono sei generazioni fra Eliezer, secondogenito di Mosè, e Selomit, vissuto ai tempi di David: il conto torna. Torna anche il fatto che i discendenti di Mosè si trovassero a Gerusalemme, al tempo di Davide e soprattutto che fossero in qualche modo collegati al costruendo nuovo tempio. Ad ogni modo, questi versetti ci danno ancora una volta la certezza che la famiglia di Mosè non è svanita nel deserto del Sinai, ma ha seguito (o piuttosto guidato?) gli ebrei in Palestina ed ha continuato a svolgere un ruolo di primo piano nella storia di Israele. Ma quale? Il passo elenca per intero soltanto i discendenti del ramo cadetto, facenti capo al secondogenito Eliezer, che avevano l'incarico di custodi dei tesori consacrati. Un incarico di tutto rilievo. La linea principale della discendenza di Mosè, invece, si arresta, come al solito a Sebuel, primogenito di Ghersom, e quindi nipote di Mosè. Ma è evidente che deve aver avuto dei discendenti; ad essi doveva essere riservato un incarico ancora più importante e certamente al di sopra di quello dei discendenti Eliezer: evidentemente il sommo sacerdozio. Sebuel, in quanto primogenito di Ghersom, gli era certamente succeduto nella carica di sommo sacerdote a Silo e certamente l'aveva trasmessa al suo primogenito. E' proprio qui che la forbice del censore ha spezzato la linea di discendenza di Mosè. Nessuno viene mai indicato come figlio di Sebuel, come d'altra parte nessuno viene indicato quale padre di Eli. Basta ristabilire il rapporto di parentela fra i due perché tutta la vicenda della famiglia di Mosè risulti chiarita. Non c'è dubbio che Eli era un discendente di Mosè anziché di Aronne. Di fronte ai pochi passi (due o tre al massimo) in cui si afferma che i sacerdoti discendono da Aronne, ci sono nella Bibbia innumerevoli prove esplicite e dirette che la famiglia di Eli, e dei sacerdoti suoi discendenti, non aveva niente a che spartire con Aronne. Al tempo di Davide, per esempio, i discendenti di Aronne costituivano una famiglia a parte, ben distinta da quella dei sacerdoti. Alla morte del figlio di Saul, Is-Baal, tutti i capi di Israele trattarono con Davide per passare al suo servizio. Di essi esiste una lista dettagliata in 1 Cronache 12, 23-40. Quando si arriva ai leviti vengono citati espressamente "Ioiadà, capo della famiglia di Aronne, e con lui tremilasettecento; e Zadok, potente giovane di valore, e il casato dei suoi antenati con ventidue capi". Un'altra notevole "svista" da parte del nostro censore! Fotografa la situazione dei leviti e dei sacerdoti al momento della riunificazione dei regni di Giuda e Israele. Da un lato c'erano i


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sacerdoti, con Zadok a capo; dall'altro i leviti discendenti da Aronne, che non erano sacerdoti, con a capo Ioiadà. Questo fatto è confermato anche in versetti successivi (2 Sam. 8,15-18). Controllando tutti i passi di Re, Cronache, Esdra e Neemia, si trova che sacerdoti e leviti vengono sempre nominati assieme, ma sempre ben distinti gli uni dagli altri, a sottolineare il fatto che si tratta di due diverse famiglie. Ci sono prove sufficienti, quindi, per affermare con certezza che il "grande antenato" di Eli era lo stesso Mosè, non Aronne. Ora, finalmente, il mistero della "scomparsa" della famiglia di Mosè sembra risolto. In realtà quella famiglia non è mai scomparsa, ma ha continuato a svolgere un ruolo di primissimo piano nella storia di Israele e non soltanto in quella. La famiglia dei sacerdoti di Israele era costituita dai discendenti di Mosè e solo da loro, per diritto di nascita. Aronne non ha avuto alcun ruolo nella sua genesi. Una conclusione clamorosa, che va contro la tradizione consolidata oggigiorno, ma che appare inoppugnabile, sulla base dei dati forniti dalla Bibbia.

Terza Parte - La riforma di Esdra Il Libro della Legge censurato La Bibbia fornisce elementi sufficienti stabilire con certezza che la famiglia sacerdotale di Israele discendeva da Mosè. Aronne non c'entra per niente. C'è stata censura nei primi libri e ad un certo punto una scelta deliberata, per motivi che non sappiamo, da parte della famiglia stessa di "nascondere" la propria origine mosaica. I libri maggiormente colpiti dalla censura sono quelli di Giosuè e Giudici, dove erano riportate in dettaglio tutte le informazioni relative a Silo, primo centro religioso del popolo ebraico, ed alla famiglia mosaica che l'aveva avuto in eredità. Chi ne fu l'autore? Quasi certamente non una sola persona; sulla base del testo, infatti, è possibile individuare i principali responsabili. I primi sette libri della Bibbia erano già completi ai tempi di Davide, che li pose nell'arca: erano chiamati "Il libro della legge", perché contengono le prescrizioni e le leggi mosaiche. Da allora il libro era rimasto conservato nel Tempio di Gerusalemme come un libro sacro e inviolabile. Senonché intorno all'870 a.C. il re di Giuda, Giosafat, decise di divulgare il contenuto del "Libro della Legge" direttamente al popolo, cosa che non era mai stata fatta in precedenza, e perciò "mandò i suoi ufficiali nelle città di Giuda: avevano con sé il libro della legge del Signore e percorsero tutte le città di Giuda, istruendo il popolo" (2 Cr.17,7). Si trattava certamente di copie del "libro della legge", non dell'originale, che rimaneva custodito gelosamente nel tempio. Ma c'era qualcosa che Giosafat non poteva permettersi di insegnare al popolo di Giuda e quindi di trascrivere in quelle copie prodotte ad "uso didattico". A quel tempo il regno di Giuda era in guerra aperta contro quello di Israele e fra i due regni esisteva una fortissima rivalità religiosa. Giosafat non poteva in alcun modo propagandare scritti che potessero mettere in discussione il primato di Gerusalemme rispetto a Silo. Nel "libro della legge" originale, conservato nel tempio, era certamente scritta in dettaglio al storia della città di Silo, il primo centro religioso del popolo ebraico, assegnato in eredità alla famiglia di Mosè. Silo, purtroppo, era in territorio di Israele. Nelle copie ad uso didattico prodotte da Giosafat, tutta la parte relativa a Silo dovette essere emendata e con essa anche le notizie intimamente collegate, come quelle relative ai suoi titolari, la famiglia di Mosè. Si trattava comunque di una censura tutt'altro che accurata, perché l'intenzione non era di produrre un falso, ma soltanto di evitare di propagandare notizie politicamente inopportune in quel momento. Sennonché qualche tempo dopo la Palestina fu invasa dagli assiri. Il regno di Israele fu distrutto e scomparve definitivamente dalla scena della storia. Il regno di Giuda sopravvisse in condizioni di vassallaggio. Manasse, il più empio dei re di Giuda, abolì il culto di Jahweh, massacrò i sacerdoti e dedicò il tempio di Gerusalemme al culto di divinità assire. Il "libro della legge" scomparve. Fu ritrovato soltanto alcuni decenni dopo dal gran sacerdote Elchia (2 Re 22.8; 23,2), quando il re Giosia decise di restaurare il tempio e ripristinare il culto di Jahweh.


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Quel che deve essere accaduto è che fu ritrovato non il libro originale, che era in esemplare unico, ma una delle copie didattiche prodotte dal re Giosafat, grossolanamente censurata. Pochi anni dopo essa veniva portata a Babilonia, al seguito dei deportati da Nabuccodonosor, e fu su questa copia che si trovò a lavorare Esdra, a cui dobbiamo materialmente la versione attuale della Bibbia. Grazie a re Giosafat, quindi, sono scomparsi dal testo biblico tutti i passi che sancivano il primato di Silo rispetto a Gerusalemme, e con essi buona parte delle informazioni sui discendenti di Mosè, intimamente collegati a quella città. Ma non fu certamente Giosafat a cancellare la discendenza di Mosè e trasformare i sacerdoti di Gerusalemme in discendenti di Aronne. Esistono indicazioni sufficienti per affermare che questa operazione fu effettuata soltanto dopo il rientro dall'esilio Babilonese e per individuarne l'autore nel sacerdote Esdra. Non doveva essergli rimasto molto da fare per completare l'opera di occultamento della famiglia di Mosè e trasformare ufficialmente i sacerdoti di Gerusalemme in discendenti di Aronne. Furono sufficienti pochi ritocchi, come la sostituzione o soppressione di qualche nome qua e là e il suggerire che i sacerdoti fossero figli di Aronne. La discendenza "aronnide" della famiglia dei sacerdoti viene sancita per la prima, ed unica volta in tutta la Bibbia, da un passo di 1 Cronache 24, 1-6: "Figli di Aronne: Nadab, Abiu, Ebiatar, Eleazaro e Itamar. Nadab e Abiu morirono prima del padre e non lasciarono discendenti. Esercitarono il sacerdozio Eleazaro e Itamar. David, insieme con Zadok dei figli di Eleazaro e con Achimelech dei figli di Itamar divise (i sacerdoti) in classi secondo il loro servizio. Poiché risultò che i figli di Eleazaro, relativamente alla somma dei maschi, erano più numerosi dei figli di Itamar, furono così classificati: sedici capi di casati per i figli di Eleazaro, otto per i figli di Itamar."

E' immediato rendersi conto che queste genealogie sono un falso patente e deliberato. Itamar, ultimo dei figli di Aronne, era stato ordinato sacerdote da Mosè in Esodo 29. Ma da allora era scomparso completamente dalle cronache bibliche, se si eccettua un cenno in Numeri 3, dove viene citato fra i figli di Aronne e in Num.7,8, quando gli vengono affidate responsabilità nella cura e trasporto del tempio-tenda. Nessun suo discendente viene mai citato nella Bibbia. Di Eleazaro, invece, viene riportata una lista di discendenti in 1 Cronache 5,30 e 6,35 in cui compaiono anche un paio di Achitub e Zadok; ma chiaramente non hanno niente a che spartire con il Zadok gran sacerdote ai tempi di Saul, Davide e Salomone. La genealogia di quest'ultimo è perfettamente nota dai libri di Samuele: era fratello di Achimelek, entrambi figli di Achitub, figlio di Fineas, figlio di Eli, gran sacerdote a Silo ai tempi di Samuele. Fra i discendenti di Eleazaro Eli non figura da nessuna parte, segno certo che Eleazaro non aveva niente a che vedere con Silo e con la sua famiglia sacerdotale; e d'altra parte nessuno dei personaggi che figurano nella lista viene mai citato nei primi libri della Bibbia, fatta eccezione per suo figlio Fineas (omonimo del figlio di Eli), che compare in relazione a fatti accaduti durante l'esodo. Non ha il benché minimo fondamento, quindi, legare Eleazaro ed Itamar a Zadok ed Achimelek. Un'operazione di falsificazione storica di questo genere poteva avvenire soltanto in un periodo di bassissimo profilo per il popolo ebraico, come quello subito dopo il rientro dall'esilio babilonese; e comunque certamente con il consenso e l'attiva partecipazione della famiglia sacerdotale stessa. Esdra, infatti ha il grande merito di aver riorganizzato la famiglia sacerdotale di Gerusalemme e di averne rilanciato i destini. Una prima ondata di ebrei era rientrata a Gerusalemme poco dopo il 538, guidati da Zorobabele e dal sommo sacerdote Giosuè, figlio di Giosedec, deportato a babilonia ancora fanciullo dopo che suo padre Seraià, ultimo sommo sacerdote di Gerusalemme, era stato ucciso a Ribla da Nabuccodonosor. Qui avevano vivacchiato alla meno peggio, in una città semispopolata e priva di difese, tra l'opposizione dei samaritani e delle popolazioni circostanti. Lo stato della comunità giudaica di Gerusalemme e della famiglia sacerdotale era


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così miserando, che uno dei favoriti del re Artaserse, alla corte babilonese, il dotto sacerdote Esdra, chiese ed ottenne di essere inviato in Palestina per risollevarne le sorti. Era intorno al 428 a.C. quando Esdra arrivò a Gerusalemme, con l'incarico di ripristinare la religione ebraica nella Giudea. Egli portò con sé migliaia di deportati, tra cui centinaia di sacerdoti, che furono immessi al servizio del tempio, la cui ricostruzione era iniziata il secolo prima ad opera della prima ondata di ritorno. Per prima cosa egli si dedicò alla riorganizzazione della famiglia sacerdotale. I versetti citati rispecchiano l'accordo da lui imposto fra i due rami della famiglia sacerdotale che si erano separati al tempo di re Salomone: il primo facente capo a Zadok, che era stato nominato sommo sacerdote, carica che rimase alla sua famiglia fino alla distruzione di Gerusalemme da parte di Nabuccodonosor; l'altro facente capo al figlio di suo fratello Achimelek, Ebiatar, che era stato esiliato da Salomone ad Anatot (di questo ramo della famiglia sappiamo poco, ma tra i suoi componenti di spicco ci fu lo stesso profeta Geremia). 24 famiglie entrarono nell'accordo, che da allora in poi si divisero gli incarichi del tempio e le sue entrate e soprattutto si arrogarono il diritto esclusivo al sacerdozio. Tutte le altre famiglie di origine mosaica, che in quel momento si trovavano fuori di Gerusalemme, come a Babilonia, in Samaria e in Egitto, rimasero escluse. Fu allora, come risulta dai versetti in questione, che le 24 famiglie si diedero ufficialmente, come antenati, i due figli di Aronne: 16 famiglie discendenti da Zadok si ricollegarono ad Eleazaro, per ribadire il loro primato nel sacerdozio; 8 famiglie discendenti da Achimelek, padre di Ebiatar, si ricollegarono al secondogenito di Aronne, Itamar. Tutti i sacerdoti diventarono così "figli di Aronne", ma non si curarono di rendere credibile quella discendenza, inventando delle genealogie ad hoc. La cosa incredibile non è tanto quella che la famiglia sacerdotale di Gerusalemme abbia voluto sostituire il proprio capostipite Mosè con Aronne (aveva evidentemente i suoi buoni motivi per farlo), quanto piuttosto che nessuno degli studiosi successivi abbia voluto rilevare un falso così evidente e spudorato, privo com'è di qualsiasi pezza d'appoggio nella Bibbia. La testimonianza di Binyamin da Tudela Se la discendenza aronnide della famiglia sacerdotale era stata inaugurata ufficialmente soltanto dopo il rientro a Gerusalemme, come appare dalla Bibbia, i sacerdoti rimasti a Babilonia dovevano aver continuato a proclamarsi discendenti di Mosè. La conferma ci viene da un dotto rabbino del medio evo, Binyamin da Tudela che intorno al 1160 d.C. effettuò un viaggio, che lo condusse attraverso le comunità ebraiche di tutto il mondo di allora. Nella sua relazione di viaggio, egli si sofferma a lungo nella descrizione della più grande comunità ebraica dell'epoca, quella residente a Bagdad, l'antica Babilonia, formata in gran parte da discendenti di deportati ebrei che non seguirono Esdra e Zedechia nel loro viaggio di ritorno a Gerusalemme. Fra le altre cose ci informa che: "La comunità di Bagdad, conta grandi dotti e capi di accademie, assai versati nello studio della Torah. Le accademie rabbiniche sono dieci: a capo della maggiore, intitolata al Ga'on Ya'aqov, è il rabbino capo Semu'el ben 'Ali, levita, la cui famiglia discende da Mosè, nostro maestro - sia su di lui la pace."

Di tutti i rabbini citati da Binyamin di Tudela nel suo Itinerario, quello di Babilonia è l'unico che si dichiara discendente di Mosè; l'unico in tutta la letteratura ebraica. (La grande comunità israelita babilonese venne cancellata di colpo, insieme ai suoi sacerdoti discendenti di Mosè, appena 60 anni dopo, quando Gengis Kan travolse Bagdad, massacrandone tutti gli abitanti).


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La riforma di Esdra Sulle ragioni di questa deliberata falsificazione storica si possono pensare almeno una mezza dozzina di validi motivi, ma rimane comunque un esercizio sterile. Il motivo vero lo sapeva Esdra e non lo dichiarò per iscritto. O meglio, non lo scrisse in un libro destinato al pubblico. Esdra è una figura fondamentale nella storia del popolo ebraico e della famiglia sacerdotale in particolare. Egli fu autore di una profonda riforma religiosa, che passò essenzialmente attraverso la riorganizzazione della famiglia sacerdotale di Gerusalemme, a cui venne imposta una struttura perfettamente regolamentata e rigide norme matrimoniali e di comportamento, miranti a prevenire per il futuro ogni degenerazione del sacerdozio e della religione di cui essi erano i ministri unici. Per assicurare i mezzi di sopravvivenza della famiglia e per la condotta del tempio, Esdra aveva stabilito (o meglio ripristinato) un sistema di tasse, le famose decime, che provvedevano entrate abbondanti e regolari, a cui si aggiungevano offerte personali e donazioni. Le fortune della famiglia vennero a basarsi più che mai sul possesso e la gestione del tempio e della religione ad esso collegata. Esdra, infine, sistemò da un punto di vista strutturale e tradusse anche in aramaico il testo della Bibbia, imponendolo come unico testo sacro, cui doveva ispirarsi la religione ebraica. Una corrente di studiosi ritiene anche che fosse proprio lui il famoso "redattore", quello che scrisse materialmente i primi libri della Bibbia, mettendo assieme tradizioni orali di varia provenienza. Ipotesi che viene contraddetta dalla Bibbia stessa che dimostra l'esistenza del "libro della legge" fin dai tempi di Davide, e lo ribadisce innumerevoli volte nei secoli successivi. Sottolinea però un fatto importante e cioè che fu in ogni caso dalla penna di Esdra che uscì la versione della Bibbia che leggiamo oggi, con pochissime varianti. Esdra, tuttavia, non si limitò a ricopiare il "libro della legge". Da fonti esterne alla Bibbia, come gli apocrifi del vecchio Testamento, sappiamo per certo che produsse opere non destinate al pubblico. Nel Quarto Libro di Esdra, nel 14.mo ed ultimo capitolo, il Signore decide di dettargli in sogno la riedizione delle Sacre Scritture e gli ordina: "Quando avrai terminato quest'opera, alcune cose le dovrai rendere pubbliche, altre invece, le affiderai in segreto ai saggi." Esdra, dunque, produsse un testo ufficiale della Bibbia, opportunamente emendato, destinato al pubblico, e contemporaneamente un secondo testo destinato ai "saggi del popolo ebraico", e cioè alle alte gerarchie sacerdotali, che non doveva essere divulgato e che evidentemente conteneva i segreti che riguardavano la famiglia stessa, la sua vera storia, i particolari della sua organizzazione, regole e rituali e le ragioni della riforma da lui imposta, ivi compreso il cambio di genealogia. Fu in ogni caso la riforma di Esdra a gettare le basi per la rinascita e grandezza futura della famiglia sacerdotale e del popolo ebraico intorno ad essa. Sotto la guida della famiglia sacerdotale riformata, Gerusalemme rifiorì, la ricostruzione del tempio venne completata e le mura riedificate. La città crebbe rapidamente in popolazione e prosperità e la Giudea ridivenne totalmente ebraica; di pari passo cresceva l'influenza e la ricchezza della famiglia sacerdotale, o meglio delle 24 famiglie sacerdotali, che insieme controllavano l'intero paese. A capo di Israele non c'era più un re, ma il sommo sacerdote, che governava per conto del sovrano persiano (proprio come ai primi tempi di Silo, quando il sommo sacerdote governava su Israele per conto dell'Egitto, di cui la Palestina era una provincia). Per tutto questo tempo la carica del sommo sacerdozio continuò ad essere attribuita su base ereditaria, ai discendenti in linea diretta di Zadok, vale a dire ai discendenti diretti di Mosè. Nel 333 a.C. Alessandro Magno sconfisse l'impero persiano e conquistò la Palestina; la famiglia sacerdotale si sottomise e continuò a governare sul popolo ebraico, questa volta per conto del sovrano macedone. Alla morte di Alessandro la Giudea passò poi sotto il dominio dell'Egitto, retto dai Tolomei, che attuarono una politica di ellenizzazione del paese, senza però intaccare i privilegi e le prerogative della famiglia sacerdotale di Gerusalemme. In questo


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periodo cominciò ad instaurarsi la consuetudine che il sommo sacerdote fosse nominato, o comunque confermato, dal sovrano, per cui il principio ereditario venne spesso ignorato e la carica cominciò a passare da una famiglia sacerdotale all'altra, creando fra le 24 famiglie rivalità e divisioni. Le varie famiglie si ritrovarono a volte in lotta le une contro le altre per la conquista della carica di sommo sacerdote, che veniva assegnata spesso dietro pagamento di forti somme. Nel 199 a.C. la Giudea venne occupata dalla Siria. Per la famiglia sacerdotale mosaica (divenuta aronnide) cominciarono tempi duri, perché i Seleucidi inasprirono fortemente la politica di ellenizzazione del paese, tentando di trasformare Gerusalemme in una polis greca. Questa politica culminò nel 168 con il saccheggio del tempio da parte di Antioco IV ed il massacro di un gran numero di sacerdoti. La religione ebraica venne messa fuori legge, il tempio ridedicato a Zeus ed a supremo oltraggio vi si sacrificò un maiale. La rivolta non si fece attendere, guidata dalla famiglia sacerdotale degli Asmonei. Nel 165 Giuda Maccabeo riprese Gerusalemme e ridedicò il tempio a Jahweh, dopo averlo purificato (la ridedicazione è celebrata nella festa ebraica di Hannukah). Infine nel 142 a.C. Simone Maccabeo cacciò definitivamente i Siriani. Per i successivi 80 anni la Palestina fu uno stato indipendente, sotto la guida degli Asmonei, che governavano in qualità di sommi sacerdoti, carica a cui ben presto aggiunsero il titolo di re, inaugurando così una dinastia sacerdotale di sangue reale (o viceversa, una dinastia reale di sangue sacerdotale). La monarchia sacerdotale regnò su Giuda, fino a quando si affacciarono sulla scena mediorientale i romani. Nel 63 Pompeo Magno conquistò Gerusalemme e profanò il tempio. La famiglia sacerdotale, pur privata dell'indipendenza, continuò a regnare sulla Palestina sotto i nuovi padroni. Tenta però di scrollarsi di dosso la dominazione romana alleandosi ai nemici giurati di Roma, i Parti, sotto il cui dominio si trovava l'altra grande comunità ebraica di quel periodo, Babilonia. Mal gliene incolse. Erode, di origine edomita, ne approfittò per ottenere il favore dell'imperatore romano e farsi nominare re della Giudea. Per farsi accettare dagli ebrei, però, dovette sposare Mariamme, figlia dell'ultimo re-sacerdote, Ircano. Con Erode la famiglia sacerdotale perdette il trono, ma acquistò un nuovo Tempio, incomparabilmente più grandioso del precedente, aumentando così il proprio prestigio e le proprie entrate. Particolare interessante, per la costruzione del nuovo tempio venne istituito un corpo di "sacerdoti muratori" (i sacerdoti erano gli unici autorizzati ad entrare nel Sancta Sanctorum), che rimase poi sempre in servizio per le ordinarie manutenzioni. Con la morte di Erode, Roma divise il regno della Palestina fra i suoi tre figli ed un legato romano. La famiglia sacerdotale di Gerusalemme rimase come unico elemento di unità del popolo ebraico e raggiunse il culmine della potenza e della ricchezza. Fu allora che si lasciò trascinare in moti antiromani e alla fine in una vera e propria rivolta, che provocò la sua rovinosa caduta. Si avvicinava il giorno del giudizio.

Quarta Parte Giuseppe Flavio All'appuntamento del 70 d.C. la famiglia mosaica, ormai autodefinitasi aronnide, era al culmine della potenza. Le 24 famiglie sacerdotali che ai tempi di Esdra si erano spartite il potere, fondato sul possesso esclusivo del tempio e sul possesso esclusivo del sacerdozio, erano ancora tutte là, più numerose e ricche che mai, e saldamente insediate alla direzione del Tempio e del paese. I loro discendenti si contavano a migliaia e molti di loro avevano sangue reale nelle vene. Il dominio romano aveva portato pace e prosperità, ma era stato segnato da forti attriti su base religiosa, che avevano provocato una serie di rivolte, l'ultima delle quali, nel 66 d.C. fu fatale per la nazione ebraica e per la famiglia stessa. Con la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C., ad opera di Tito, figlio dell'imperatore Tito Flavio Vespasiano, la famiglia sacerdotale fu virtualmente sterminata.


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Il Tempio, strumento di potere della famiglia venne raso al suolo e mai più ricostruito. Da quel momento in poi la famiglia sacerdotale di Gerusalemme scompare dalla scena storica, perché non svolgerà mai più un ruolo evidente. Fine di una grande famiglia millenaria? Le apparenze storiche sembrano dire di si; ma non sempre le cose vanno proprio come sembra dall'apparenza storica. E' certo, infatti, che la famiglia non scomparve materialmente. Ci furono dei sopravvissuti, numerosi e di altissimo rango, dotati di ricchezze e della protezione dei romani. Ce ne dà notizia lo storico ebreo Giuseppe Flavio, che li elenca uno per uno, a cominciare da se stesso. Giuseppe Flavio era lui stesso sacerdote, appartenente alla prima delle 24 famiglie sacerdotali e con sangue reale nelle vene, perché imparentato per parte di madre con gli Asmonei. Al tempo della rivolta contro Roma, aveva ricoperto un ruolo di primo piano negli avvenimenti dell'epoca. Inviato come governatore della Galilea da parte del Sinedrio di Gerusalemme, egli era stato il primo a combattere contro le legioni del generale Vespasiano, che era stato incaricato da Nerone di domare la rivolta in Giudea. Giuseppe venne sconfitto e si chiuse a Iotpata. Quando la città cadde, si consegnò ai romani e chiese di parlare con Vespasiano. Da quel colloquio nacque la fortuna di Vespasiano e quella di Giuseppe: il primo sarebbe diventato di lì a poco imperatore di Roma, il secondo ebbe salva la vita, non solo, ma dopo qualche tempo fu cooptato nella famiglia imperiale stessa, di cui assunse il nome "Flavio", ottenne la cittadinanza romana, una villa patrizia a Roma (la villa di famiglia dello stesso Vespasiano), un vitalizio annuo a spese dell'erario e vaste proprietà in Italia e Palestina. Giuseppe Flavio giustifica questi incredibili favori con il fatto che, nel loro incontro dopo la caduta di Iotpata, aveva predetto a Vespasiano che sarebbe divenuto imperatore. Giustificazione ridicola! Lo storico romano Svetonio testimonia che quella di Giuseppe fu soltanto l'ultima di una lunga serie di profezie analoghe, cominciate il giorno stesso della nascita di Vespasiano. Tutti sapevano dell'esistenza di queste profezie; è quindi semplicemente assurdo pensare che egli abbia colmato di favori inauditi un ribelle vinto, soltanto perché gli aveva ripetuto una notizia che era ormai di pubblico dominio. C'era ben altro! Il generale romano aveva un handicap terribile nella sua corsa alla porpora imperiale: era squattrinato (è sempre Svetonio che lo conferma), mentre per diventare imperatore aveva bisogno di larghissimi mezzi finanziari. Giuseppe glieli fornì. Durante il suo governatorato in Galilea, aveva messo da parte un discreto gruzzolo, sia con la raccolta delle decime dovute al Tempio e le ruberie di cui egli stesso dà notizia, sia soprattutto per aver requisito l'oro, l'argento e gli oggetti preziosi provenienti dal saccheggio del palazzo di Erode Tetrarca, operato dagli abitanti di Tiberiade (Guerra Giudaica, II,21,3 Vita, 66). Consegnò subito a Vespasiano il gruzzolo personale, ottenendo salva la vita, e promise un patrimonio enormemente superiore, in cambio dei benefici che poi ottenne: il tesoro del Tempio di Gerusalemme. Ci sono nelle sue opere stesse indicazioni sufficienti per accusarlo con elementi di fatto. Che Vespasiano sia entrato in possesso del tesoro del Tempio non c'è alcun dubbio: parte di esso, infatti, in particolare il candelabro a sette braccia, venne fatto sfilare a Roma nel 71, in occasione del trionfo, come viene mostrato sull'arco di trionfo di Tito. Ma come e quando ne entrò in possesso? Leggendo le circostanze in cui si svolsero l'assedio di Gerusalemme e l'attacco finale al Tempio, dobbiamo aspettarci che quando i romani riuscirono a impadronirsene ben poco del tesoro originale fosse rimasto a loro disposizione. Il Tempio, infatti, era stato occupato per mesi dagli zeloti, che non avevano esitato a spogliarlo di tutto. Quando, alla fine, si resero conto che ogni difesa era impossibile, vi appiccarono il fuoco e distrussero tutto ciò che era rimasto di valore, per evitare che cadesse in mano romana. I romani si trovarono padroni di un edificio distrutto dalle fiamme e saccheggiato dai suoi stessi difensori.


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Il fatto certo che emerge dal resoconto di Giuseppe Flavio, è che il tesoro del Tempio fu consegnato a Tito da esponenti della famiglia sacerdotale, in cambio di un salvacondotto e di benefici economici. Da esso risulta anche in modo certo che il tesoro era nascosto in diversi ripostigli segreti, anche se ovviamente non dice dove si trovassero, ed è alquanto confuso e contraddittorio per quanto attiene tempi e modalità di consegna. Soprattutto si guarda bene dal mettere in luce il ruolo svolto nella faccenda dallo stesso Giuseppe Flavio. Il Rotolo di Rame Possiamo ricostruire i fatti con l'aiuto di uno straordinario documento che doveva venire alla luce soltanto 2 millenni dopo: il Rotolo di Rame. Fu scoperto nel 1952 nella grotta 3Q di Qumran. Si trattava di tre fogli di rame, ricuciti fra loro, arrotolati come un foglio di carta, sulla cui faccia interna era inciso un testo in ebraico. Data l'età, non era possibile svolgere il rotolo senza rovinare il testo. Esso fu quindi portato a Manchester, dove fu tagliato in strisce verticali, corrispondenti alle colonne del testo. Mano a mano che le strisce venivano tagliate e ripulite, venivano tradotte dal celebre qumranista J.M. Allegro. Il testo è in sostanza un elenco di località in cui erano stati nascosti dei tesori. In un primo momento si pensava si riferisse a tesori della comunità essenica di Qumran ed il testo veniva guardato con profondo scetticismo, perché sembrava impossibile che quella piccola comunità possedesse ricchezze tanto grandi. Fra l'altro, la maggioranza delle località citate nel testo si trova nei dintorni di Gerusalemme. Oggi è opinione pressoché unanime fra gli studiosi che il rotolo di rame si riferisca al tesoro del tempio di Gerusalemme (anche perché buona parte di esso è costituito proprio dalle decime), nascosto in previsione dell'assedio. Il rotolo comincia direttamente con la lista dei nascondigli: "A Horebbeh, nella valle di Acor, sotto i gradini che vanno verso oriente, a quaranta cubiti di profondità: cofano d'argento, il cui peso totale è di 17 talenti. Nel monumento funebre di Ben-Rabbah da Shalisha: cento lingotti d'oro. Nella grande cisterna del recinto del piccolo peristilio, turata da una pietra bucata, in un angolo del fondo, di fronte all'apertura superiore: novecento talenti. Sulla collina di Kohlit: vasi di offerte di prelevamento, di mezza misura e di riscatto, tutte offerte di prelevamento del tesoro del settimo anno e della decima… "

E continua su questo tono per tutta la sua lunghezza, elencando ben 74 nascondigli diversi, ognuno con il suo contenuto. Inutile dire che nessuno di questi tesori si trova nel nascondiglio indicato. (J. Allegro aveva effettuato ricerche in tutte le località che era riuscito ad individuare sulla base della descrizione, senza trovare nulla). Cosa scontata, del resto. L'ultima frase del rotolo di rame, infatti, dice che: "Nella caverna di Kohlit, … c'è una copia di questo scritto, con la spiegazione, le misure e un inventario completo, oggetto per oggetto." Il rotolo ritrovato a Qumran, quindi era soltanto una copia di riserva di un originale che era stato nascosto nella caverna di Kohlit, che si trova nei pressi di Gerusalemme. Possiamo quindi essere certi che durante o dopo la distruzione di Gerusalemme, un drappello di soldati fedelissimi a Tito, accompagnati da Giuseppe e da altri sacerdoti, se ne andarono in gran segreto per il deserto di Giuda (Giuseppe lo conosceva benissimo, per avervi trascorso tre anni in gioventù), dissotterrando uno dopo l'altro i tesori elencati nella copia originale del rotolo di rame, prelevata a Kohlit. La copia di riserva, ormai inutile, venne lasciata dov'era, a Qumran. Questa caccia al tesoro segreta aveva per Vespasiano un grande vantaggio: non doveva rendere conto a nessuno dei tesori recuperati, di cui poteva disporre a suo piacimento. Il fatto di aver ritrovato la copia di riserva dell'elenco, ci consente di conoscere con precisione l'enormità della somma di cui Vespasiano si trovò improvvisamente a disporre a titolo personale, largamente sufficiente a comprare la porpora imperiale. Sotto questa luce, i favori elargiti in cambio a Giuseppe ed ai suoi compagni appaiono ampiamente giustificati.


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Gli oggetti di culto più appariscenti, come la menorah ed il vasellame sacro, vennero messi da parte per il trionfo e l'erario pubblico, probabilmente su richiesta dello stesso Giuseppe, che era pur sempre un sacerdote e che non poteva vedere di buon occhio la loro distruzione. Dopo il trionfo essi furono depositati nel tesoro del Senato. Nel 455 vennero presi dai Vandali di Genserico, quando saccheggiarono Roma, e furono portati a Tunisi. Qui vennero presi, nel secolo successivo, dal generale bizantino Belisario che li portò a Costantinopoli, dove se ne perdono le tracce. Il denaro delle decime, i gioielli, l'oro e l'argento sfusi, invece, vennero incamerati dall'imperatore, che fu così in grado di risanare le proprie finanze e di costruirsi una villa imperiale sfarzosa (regalando la sua casa di famiglia a Giuseppe). Giuseppe si ritirò a Roma, dove mise su famiglia e dopo qualche anno cominciò a scrivere le opere per le quali è passato alla storia. Ma quanti altri membri della famiglia sacerdotale sopravvissero al massacro e che ne fu di loro in seguito? Sappiamo per certo che vi furono parecchi scampati, perché Giuseppe Flavio li elenca uno per uno. Fin dalle prime fasi dell'assedio di Gerusalemme molti ebrei disertarono, passando dalla parte dei romani. "Fra essi", dice Giuseppe Flavio (VI, 2, 114), "c'erano due dei capi della famiglia sacerdotale, Giuseppe e Gesù, ed alcuni figli di capi di questa famiglia, come i tre figli di Ismaele, che era stato decapitato a Cirene, i quattro figli di Mattia ed il figlio di un altro Mattia, che era fuggito dopo la morte di suo padre, che Simone, figlio di Gioras, aveva fatto uccidere insieme a tre dei suoi figli, come si è detto dianzi. Cesare li accolse con benevolenza e … si impegnò a restituire a ciascuno i propri beni non appena ne avesse avuto la possibilità al termine della guerra." Si tratta quindi di dieci membri della famiglia sacerdotale, fra cui due di alto rango, che dobbiamo ritenere siano stati successivamente reintegrati nei loro beni. Dopo la cattura del Tempio, o meglio di quel che ne restava, un gruppo di sacerdoti che lo avevano difeso fino all'ultimo momento si arresero ai romani, chiedendo salva la vita. Nei loro confronti l'atteggiamento di Tito fu ben diverso che in precedenza. "Egli rispose che il tempo del perdono era passato per loro; l'unica cosa per la quale egli avrebbe avuto qualche motivo di risparmiare loro la vita, il Tempio, stava riducendosi in cenere ed era dunque giusto, per dei sacerdoti, essere annientati insieme al loro santuario. E li fece condurre al supplizio." (VI, 6, 1, 321 e seg.). Ciò non gli impedì, soltanto pochi giorni dopo, di garantire salva la vita a due alti esponenti della famiglia sacerdotale (VI, 8, 3): "In quelli stessi giorni, un sacerdote di nome Gesù, figlio di Thebuthi, dopo aver ottenuto da Cesare una garanzia sotto giuramento per la propria vita, a condizione di consegnare certi oggetti preziosi del culto, uscì e fece passare… due candelabri simili a quelli che erano depositati nel tempio, dei tavoli, dei crateri e delle coppe, tutto in oro massiccio. Egli fece passare anche i veli, le vesti del gran sacerdote, con le pietre preziose, e molti altri oggetti utilizzati per i sacrifici. Ed il guardiano del tesoro del tempio, un certo Fineas, anche lui fatto prigioniero, consegnò le tuniche e le cinture dei sacerdoti, una grande quantità di porpora e di scarlatto,… ed anche molta cannella e una gran quantità di altri aromi che essi mescolavano e bruciavano ogni giorno come incenso per Dio. Egli consegnò anche ai romani molti altri tesori del tempio, ed anche una buona parte degli ornamenti sacri, grazie a cui, anche se prigioniero di guerra, ottenne l'amnistia riservata ai disertori. "

Giuseppe Flavio scarica tutta la responsabilità della consegna ai romani del tesoro del Tempio su due sacerdoti, Gesù e Fineas, anch'essi evidentemente di altissimo rango (tanto da essere depositari del tesoro), che tradiscono in cambio della vita e di benefici economici. Ma è fuori dubbio che in questa faccenda egli deve aver svolto un ruolo primario, altrimenti non si spiegano gli incredibili favori di cui fu oggetto. Oltre a quelli menzionati, infatti, egli ottenne anche quello di poter liberare chiunque gli piacesse. Nella sua Autobiografia (417-419) egli dice:


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"Feci richiesta a Tito di liberare alcuni prigionieri e ottenni … la liberazione di mio fratello e di cinquanta amici. Recatomi poi, dietro autorizzazione di Tito, nel Tempio dove erano rinchiusi moltissimi prigionieri, con donne e bambini, liberai tutti gli amici ed i conoscenti che vi riconobbi, in numero di circa 190 e li feci rilasciare senza che pagassero alcun riscatto, restituendoli alla loro precedente condizione."

In totale, quindi, Giuseppe elenca dodici alti sacerdoti, a cui va aggiunto lui stesso e suo fratello, che hanno avuto salva la vita grazie al loro tradimento, e sono stati reintegrati nei loro beni. Oltre a questi egli cita ben 240 altre persone, tutti suoi amici e conoscenti, che sono stati liberati grazie al suo intervento e "restituiti alla loro precedente condizione", vale a dire reintegrati anch'essi nei propri beni. Visto il personaggio, possiamo essere certi che, se non proprio tutti, per lo meno la maggioranza di essi apparteneva a famiglie sacerdotali. Il gruppo di sacerdoti sopravvissuti al massacro di Gerusalemme, in conclusione, era certamente molto numeroso. Di gran lunga più numeroso che in varie altre occasioni del passato in cui la famiglia sacerdotale era stata ridotta al lumicino, come per esempio dopo la disfatta e la distruzione del tempio di Silo da parte dei filistei, ai tempi di Samuele; o dopo il massacro di Nob perpetrato da re Saul, che cercò di annientare la famiglia sacerdotale; o dopo quello di Manasse, che inondò Gerusalemme di sangue sacerdotale; e da ultimo dopo Nabuccodonosor, che fece massacrare tutti i "grandi del Tempio". Sono tutte circostanze dalle quali la famiglia era risorta dalle proprie ceneri più forte e influente che mai. Questa volta, però, essa sembra uscire definitivamente dalla scena. Di essa non se ne parlerà mai più, almeno nelle cronache storiche ufficiali. Essa sembra svanire nel nulla, come per incanto. Che fine ha fatto?

Quinta Parte La famiglia sacerdotale ebraica e la Chiesa di Roma Con la distruzione di Gerusalemme la famiglia sacerdotale di origine mosaica, o meglio, le 24 famiglie che dai tempi di Esdra si erano arrogate l'esclusività del sacerdozio, sono uscite fortemente decimate e soprattutto private di quello che per secoli era stato il centro e strumento del loro potere: il Tempio. Ma non sono scomparse fisicamente. Dal resoconto di Giuseppe Flavio sappiamo per certo che i sopravvissuti si contavano a centinaia. Di questi almeno una quindicina costituivano un gruppo omogeneo e dobbiamo ritenere anche compatto, perché erano legati da circostanze che li accomunavano nella stessa sorte. Tutti, infatti, appartenevano alle prime famiglie sacerdotali; tutti erano stati risparmiati perché più o meno coinvolti nella consegna del tesoro del Tempio a Vespasiano; tutti erano considerati dagli altri ebrei come traditori della propria patria; tutti, quindi, avevano interesse a scomparire, ritirandosi nell'anonimato, almeno per quel che riguardava il mondo ebraico. Ma non è realistico pensare che abbiano compiuto una sorta di suicidio collettivo, rinnegando le proprie origini, il proprio passato e le proprie tradizioni e chiudendo definitivamente il capitolo più significativo e glorioso della storia ebraica. Erano legati fra loro da vincoli di parentela, da un millenario passato e da potenti tradizioni. Erano tutti dotati anche di larghi mezzi finanziari, perché, come riferisce Giuseppe Flavio, furono reintegrati nei loro beni da Vespasiano e fatti oggetto di generose donazioni. Il che significa che individualmente ciascuno di loro era assai più ricco di quanto i singoli membri della famiglia lo fossero mai stati, neppure al culmine della potenza e prosperità. Godevano inoltre del favore e della protezione del potere politico, perché il loro esponente di maggiore spicco, Giuseppe, era stato addirittura cooptato quale membro della famiglia imperiale stessa. Facevano, infine, parte di una organizzazione familiare salda e ben collaudata, quella creata da Esdra, che non era stata smantellata insieme al Tempio, ma che dovette continuare a mantenere intatta la sua struttura, i suoi contenuti e tutto il suo potenziale.


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Non è possibile che una tale famiglia sia scomparsa nel nulla. Semplicemente non poteva. Se non ne abbiamo più alcuna notizia, ciò è dovuto certamente al fatto che essa stessa aveva deciso di scomparire dalla scena del mondo, ritirandosi nella clandestinità. Fu un cambio di strategia, del resto nell'alveo di una tradizione ben consolidata che aveva già fatto scomparire l'origine mosaica, volto non al suicidio collettivo, ma alla perpetuazione delle fortune della famiglia. Di nessuno dei sacerdoti superstiti sappiamo che fine abbia fatto dopo la distruzione di Gerusalemme, tranne che di colui che da quel momento in poi dobbiamo considerare quale rappresentante della famiglia: Giuseppe Flavio. Di lui sappiamo che seguì Tito a Roma, sulla sua stessa nave, e passò il resto della propria vita nella lussuosa villa romana che gli era stata regalata da Vespasiano. Degli altri non abbiamo notizie da fonte storica, ma è certo che lasciarono la Giudea per lidi più ospitali. Né loro, né alcun loro discendente compare mai più nella storia di quel paese o di una qualunque comunità ebraica, dentro o fuori l'impero romano. Cosa del resto ben comprensibile: erano considerati tutti dei traditori e la loro presenza era certamente non gradita fra gli ebrei. D'altra parte erano personaggi troppo cospicui perché la loro presenza potesse passare inosservata in un qualunque paese di provincia. Dobbiamo ritenere, quindi, che almeno in un primo momento abbiano seguito Giuseppe a Roma, una megalopoli con gente proveniente da tutto l'impero e da tutte le religioni, dove potevano facilmente scomparire nell'anonimato. Cosa fecero a Roma? Non ne sappiamo nulla. Conosciamo soltanto l'attività di Giuseppe Flavio in quanto scrittore, perché qualche anno dopo iniziò a scrivere la sua opera monumentale, per la quale è noto alla storia. Ma è proprio da questa sua opera che possiamo valutare appieno la sua personalità, la sua incredibile abilità nel volgere a proprio vantaggio le situazioni più disperate e l'enorme ambizione che lo muoveva. Un personaggio del genere, giunto al culmine del suo vigore fisico e mentale e del suo potere personale, non poteva esaurire la propria attività semplicemente nello stendere le proprie memorie. Da semplice governatore di una provincia della terra di Israele si trovava ad essere cooptato nella famiglia imperiale romana. I suoi orizzonti si erano allargati dalla Giudea e dal popolo ebraico al mondo intero. Ed è in questa condizione che si trovò ad essere responsabile dei destini futuri della famiglia sacerdotale, la più nobile delle famiglie esistenti sulla faccia della Terra, perché discendente dallo stesso Mosè. Il primo grande sforzo cui dedicò ogni energia, come traspare nettamente dalle sue opere, fu quello di trovare una giustificazione al tradimento perpetrato e di gettare nuove basi su cui ricostruire il ruolo e le fortune della propria famiglia. Come al solito in questi casi, la giustificazione è fornita dalla Divinità stessa. Giuseppe si era deciso al tradimento dopo la caduta della città di Iotpata. Si era rifugiato con 40 compagni in una cisterna e tutti d'accordo avevano deciso di suicidarsi, anziché consegnarsi ai romani, secondo un costume ben consolidato fra gli ebrei dell'epoca. Rimasto ultimo, Giuseppe anziché uccidersi si consegnò ai romani, dicendo che Dio stesso gli aveva imposto di salvarsi, per annunciare a Vespasiano la notizia che sarebbe diventato imperatore e per assolvere successivamente la missione per la quale era stato prescelto. Dio aveva ormai abbandonato Israele ed aveva irreversibilmente accordato il suo favore ai romani. Giuseppe non poteva opporsi al volere di Dio, ma dovette farsene strumento suo malgrado. Così egli giustifica il proprio tradimento. E questa fu la giustificazione che dovettero adottare anche gli altri sacerdoti. Hanno abbandonato Israele, consegnato il Tempio ed il suo tesoro al nuovo padrone del mondo, prescelto da Dio, e lo hanno seguito a Roma, per adempiere la missione cui erano stati chiamati. E' così che la famiglia mosaica ha legato il proprio destino ai destini imperiali di Roma. Il suo palcoscenico non era più la "terra promessa", ma il mondo intero. Non ci sono informazioni storiche sul come Giuseppe Flavio portò avanti la sua missione, come riorganizzò la famiglia sacerdotale e quale fu il nuovo ruolo che le attribuì. C'è però una


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fonte non storica, sulla cui natura e attendibilità discuteremo in seguito (i rituali massonici), che ci fornisce informazioni di prima mano sulle attività del gruppo. Da questa fonte apprendiamo che subito dopo la distruzione del Tempio, il gruppo di sacerdoti superstiti si riunì tra le rovine fumanti, per decidere dei propri destini futuri. Gli argomenti discussi sono gli stessi che costituiscono il leitmotiv delle opere di Giuseppe Flavio: Dio ha abbandonato Israele e si è schierato definitivamente dalla parte di Roma; non è saggio opporsi alla sua volontà. La potenza dell'impero romano era al suo apogeo: era assurdo sperare in un capovolgimento di fortuna tale da consentire la ricostruzione del tempio a Gerusalemme in un prevedibile futuro. I sacerdoti quindi decidono di continuare le tradizioni della famiglia, ma a Roma e nella clandestinità, e di non affidare mai più, come in passato, le proprie sorti ad un tempio materiale, troppo soggetto a profanazioni e distruzioni, ma di dedicarsi alla costruzione di un "tempio spirituale". Secondo questa fonte di informazione, quindi, la famiglia sacerdotale mosaica all'indomani della catastrofe ha mantenuto la propria identità ed organizzazione, ma ha cambiato strategia, scomparendo nella clandestinità e affidando la propria sopravvivenza e le proprie fortune ad una istituzione immateriale, che doveva garantire il potere e la prosperità della famiglia, nell'alveo delle passate tradizioni. Il tempio di Gerusalemme aveva consentito alla famiglia di Mosè di sopravvivere e prosperare per oltre un millennio. Il "tempio spirituale" doveva servire lo stesso scopo per il futuro. Futuro nel quale l'esistenza stessa della famiglia non doveva mai più essere rivelata pubblicamente, per non essere vulnerabile come per il passato, quando fin troppe volte era stata oggetto di campagne di sterminio. Anche questo rientrava nelle tradizioni di famiglia. Al ritorno dall'esilio babilonese i sacerdoti avevano scelto di non far più apparire pubblicamente la loro discendenza da Mosè, precostituendosi antenati aronnidi. I membri della famiglia scampati alla definitiva distruzione del Tempio dovettero giudicare che la loro sopravvivenza era meglio assicurata se non soltanto la loro origine mosaica, ma anche la loro stessa esistenza rimaneva segreta. L'organizzazione familiare rimase da allora in poi occulta, invisibile e quindi non più vulnerabile in quanto tale. Se pertanto i loro discendenti sono riemersi in seguito alla ribalta della storia, come certamente è avvenuto, lo hanno fatto sotto altro nome e con genealogie di comodo. Ma sapendo della sua esistenza, non dovrebbe essere un'impresa impossibile scoprire le tracce lasciate da questa famiglia e individuare almeno alcuni dei personaggi storici appartenenti ad essa. La famiglia sacerdotale mosaica e la Chiesa romana In ogni caso tracce e personaggi vanno ricercati nel mondo cristiano, non in quello ebraico. Ci sono vari elementi che legano Giuseppe Flavio (ed il gruppo di sacerdoti che era con lui) al mondo cristiano. Le argomentazioni addotte da Giuseppe Flavio per giustificare il proprio tradimento e quello dei suoi confratelli, sembrano riecheggiare le parole di San Paolo, considerato da tutti come colui che gettò le basi ideologiche per la costruzione della chiesa romana. I due sembrano perfettamente in sintonia per quanto attiene l'atteggiamento nei confronti del mondo romano. Paolo, per esempio, stimava suo compito svincolare la Chiesa di Cristo dalle strettoie del giudaismo e dalla terra di Israele e di renderla universale, legandola a Roma. I due sono in sintonia anche su altri punti significativi: per esempio entrambi si dichiarano aderenti dell'ideologia farisaica, che era quella poi su cui si basò la chiesa romana. Caso fortuito o c'è invece un collegamento preciso? Quasi certamente i due si sono conosciuti e frequentati per un certo tempo. Nel 63-64 d.C., infatti, Giuseppe Flavio, giovane di 27 anni, era a Roma quale membro di un'ambasceria del Sinedrio presso Nerone. Erano gli anni dell'incendio della capitale e della successiva prima persecuzione anticristiana, durante la quale Paolo fu giustiziato. Non è verosimile che due


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membri così eminenti della comunità giudaica abbiano convissuto nella stessa città per tanto tempo senza conoscersi e frequentarsi. Giuseppe Flavio, nelle sue varie opere, non dice una sola parola in merito a quegli avvenimenti di cui pure fu testimonio oculare. Un silenzio che per uno storico come lui è anche più fragoroso di una confessione. In qualche modo quei fatti dovettero toccarlo assai più profondamente di quanto egli fosse disposto ad ammettere in pubblico. Fu allora, forse, che furono insinuati i primi dubbi nella mente del giovane ed ambizioso sacerdote e vennero gettati i semi che dovevano dare frutto di lì a pochi anni. Dalle informazioni storiche che possediamo è legittimo supporre che Giuseppe Flavio e gli altri sacerdoti che erano con lui abbiano svolto un ruolo decisivo nella nascita ed affermazione della Chiesa cristiana. Dei 30 anni che vanno dal 70 al 100 d.C., e cioè dall'arrivo di Giuseppe Flavio a Roma in poi, non sappiamo praticamente nulla di quel che successe nella Chiesa romana. E' un black-out pressoché totale che lascia sconcertati, perché si tratta di un periodo cruciale nella storia della formazione della Chiesa, che ne uscì completamente trasformata, soprattutto nella sua struttura gerarchica. Da quel momento iniziò una prodigiosa espansione che la portò nel giro di due secoli a divenire religione di stato dell'impero. Mentre nel periodo apostolico non esisteva "una" Chiesa cristiana, ma un agglomerato di chiese indipendenti, rette ciascuna da un consiglio di presbiteri, dalla fine del primo secolo la direzione delle chiese assunse una forma monarchica, ciascuna retta da un vescovo con poteri assoluti e questi ultimi tutti soggetti all'autorità del vescovo di Roma, figura equivalente al sommo sacerdote di Gerusalemme. La conferma di una stretta relazione fra i sacerdoti superstiti e la chiesa di Roma ci viene ancora una volta dalla fonte di informazione "non storica" cui si è accennato in precedenza. In un rituale massonico ritroviamo i sacerdoti superstiti riuniti a Roma quali seguaci di Gesù Cristo e soggetti a persecuzione da parte di Tito Flavio Domiziano, succeduto alla morte del grande protettore di Giuseppe, Tito. Persecuzione attraverso cui, peraltro, passano quasi indenni. L'informazione è di estremo interesse e coerente con le informazioni di carattere storico che possediamo. I punti di maggiore importanza di questa fonte sono innanzitutto che i sacerdoti superstiti hanno ricostituito, o meglio continuato, l'organizzazione sacerdotale creata a suo tempo da Esdra, mantenendone la struttura, i contenuti ed i rituali, ma in segreto, rendendola invisibile al mondo profano. In secondo luogo che si sono "convertiti" al cristianesimo. Che Giuseppe Flavio si fosse "convertito" al cristianesimo è praticamente certo sulla base dei suoi scritti e delle circostanze storiche note. La parola "convertito" è fra virgolette, perché in realtà non si trattava di un grande passo per Giuseppe Flavio e i suoi confratelli. Gesù era ebreo e non aveva mai rinnegato la "legge mosaica" (anzi la insegnava agli stessi sacerdoti nel Tempio). La sua era una predicazione da ebreo ad altri ebrei, il cui contenuto era in sintonia con il modo di vivere e pensare della setta ebraica degli esseni, che vengono normalmente considerati molto vicini, se non addirittura precursori, dei cristiani. Ma i contenuti dottrinari del cristianesimo, quale emerge da questo periodo di black-out, sono straordinariamente vicini a quelli della setta dei farisei (lo stesso S. Paolo, durante il processo subito nel Tempio, dichiara di aderire alla setta dei farisei). Giuseppe Flavio, nelle sue opere dedica molto spazio agli esseni e non nasconde la sua simpatia per essi. Da giovane aveva trascorso tre anni nel deserto di Giuda, con un sant'uomo di nome Banno (Vita 7-12), vivendo come un eremita. Al termine di questa esperienza "essena", però, tornato a Gerusalemme e prese a vivere "seguendo i precetti della scuola farisaica", la stessa di San Paolo. Non è il caso, quindi, di parlare di "conversione" se egli ha abbracciato le idee di Gesù, perché non ha dovuto rinnegare nulla della religione professata fino a quel momento. Il vero salto di qualità, quello che distingueva un ebreo da un ebreo-cristiano, era il fatto di accettare Gesù come l'atteso Messia. La grande maggioranza degli ebrei pensava al Messia come ad un sovrano (non per niente doveva essere della stirpe di Davide) che avrebbe ristabilito materialmente il regno e la potenza di Israele. Gesù, invece, proponendosi come Messia,


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specificò chiaramente che "il mio regno non è di questo mondo". Dunque, quel che proponeva era un "regno spirituale". Un concetto che noi oggi accettiamo come normale, quasi banale. Allora era una novità straordinaria, che però era stato abbracciato in pieno da Paolo, ma anche da Giuseppe Flavio e dai sacerdoti che erano con lui, i quali avevano deciso di non riedificare mai più un tempio materiale, ma di dedicarsi alla costruzione in sua vece di un "tempio spirituale". Un tempio spirituale per un regno spirituale. Semplice coincidenza casuale? Una relazione fra i due concetti appare più che verosimile e presuppone che gli "edificatori" del tempio spirituale avessero riconosciuto Cristo come il Messia e fossero diventati i fautori e promotori del suo regno spirituale (avevano mille valide ragioni per farlo). Esistono riscontri precisi in proposito. Giuseppe Flavio, in un famoso passo delle Antichità Giudaiche (il cosiddetto Testimonium Flavianum, libro XVIII, III, 3) scrive testualmente: "Allo stesso tempo visse Gesù, uomo saggio, se pure lo si può chiamare uomo; poiché egli compì opere sorprendenti e fu maestro di persone che accoglievano con piacere la verità. Egli era il Cristo. Quando Pilato udì che dai principali nostri uomini era accusato, lo condannò alla croce. Coloro che fin dal principio lo avevano amato non cessarono di aderire a lui. Nel terzo giorno apparve loro nuovamente vivo: perché i profeti di Dio avevano profetato queste e innumerevoli altre cose meravigliose su di lui."

Parole del genere possono venire soltanto da un cristiano, perché testimoniano l'accettazione di due punti essenziali: la risurrezione di Cristo e la sua identificazione con il Messia delle profezie. Le simpatie cristiane di Giuseppe Flavio traspaiono chiaramente anche da altri brani della stessa opera. In XVIII, V,2 egli parla con grande ammirazione di Giovanni Battista e della sue azioni e predicazione, esaltando la validità del battesimo e condannando Erode per il suo assassinio. In XX, IX, 1 esprime uguale simpatia per Giacomo, fratello di Gesù. Un ulteriore indizio è costituito dal fatto che la persecuzione anticristiana di Domiziano, di cui parlano le fonti cristiane e la fonte "non storica" menzionata, non c'è mai stata in realtà. L'unico martire romano del periodo, annoverato come cristiano, è il senatore ed ex-console Tito Flavio Clemente, giustiziato da Domiziano, secondo Svetonio, non per essere cristiano, ma sotto l'accusa pretestuosa di "ateismo" e di "deviazione verso costumi giudaici"; in realtà per ragioni sue personali (l'imperatore era estremamente lunatico e feroce, tanto da far giustiziare persone del suo entourage per motivi del tutto banali). Clemente era della casa dei Flavi, cugino dello stesso imperatore, ed è certo quindi che aveva stretti rapporti con il parente acquisito Giuseppe Flavio (la prova più evidente di questi rapporti è proprio l'accusa mossagli da Domiziano). Quale altro "cristiano", in quegli anni, poteva essere in una posizione tale da avvicinare un personaggio così altolocato? E chi altri, se non una Chiesa legata al gruppo di Giuseppe Flavio, poteva rivendicare Flavio Clemente come un proprio martire? Il "martire cristiano" Flavio Clemente costituisce quindi un preciso legame con Giuseppe Flavio, ed un indizio consistente che quest'ultimo rivestiva un ruolo importante nella Chiesa di allora. D'altra parte l'inserimento nella comunità cristiana di allora, costituita per la maggior parte da ebrei, di un gruppo così cospicuo e numeroso di sacerdoti superstiti, non poteva non avere conseguenze profonde sull'organizzazione della comunità. Invisi agli altri ebrei, perché considerati traditori, i sacerdoti dovevano essere invece ben visti soltanto fra i cristiani, che accettavano la loro giustificazione di essere stati prescelti da Dio per l'edificazione del regno spirituale. C'è da osservare, però, che la famiglia sacerdotale, che per oltre un millennio aveva guidato i destini del popolo ebraico e nelle cui vene scorreva sangue reale, non poteva accettare ruoli subalterni in seno alla comunità in cui si era inserita. Certamente si mise alla sua guida e prese saldamente in mano le redini della nascente Chiesa Romana. Non a caso proprio da quel momento iniziò la irresistibile ascesa del cristianesimo, che nel tempo incredibilmente breve


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di due secoli divenne "religione di stato" dell'impero romano. Si realizzava così il sogno di Giuseppe Flavio, la missione per cui era stato predestinato da Dio: la famiglia sacerdotale mosaica era divenuta per Roma e il suo impero quello che era stata a suo tempo per Gerusalemme e la Palestina; il suo potere, però, non era più fondato sulla gestione di un tempio materiale, come per il passato, ma su un "tempio spirituale": la Chiesa di Roma. Questa incredibile ascesa, che ha stupito per primi gli stessi storici cristiani successivi, non desta meraviglia se si considera chi furono i loro protagonisti. Sappiamo con certezza qual era la loro specializzazione, il loro know-how, frutto di una esperienza più che millenaria: sapevano meglio di chiunque altro al mondo come si organizza e si gestisce una religione, indipendentemente dal suo contenuto dottrinario. Dovettero mettere la loro competenza, le loro conoscenze e se stessi al servizio della nascente religione cristiana, impostandola secondo gli schemi ormai collaudati da oltre un millennio, ma con una novità essenziale: l'apertura al mondo pagano. Aveva cominciato lo stesso Pietro ad accogliere pagani nella comunità, tra le proteste degli altri ebrei, che pretendevano dai neoconvertiti il rispetto totale della legge mosaica. S. Paolo rese sistematico l'ingresso dei non-ebrei, creando le opportune giustificazioni dottrinarie. Ai tempi di Giuseppe Flavio ben pochi ebrei dovettero entrare nella comunità cristiana, vista la fama che godevano i loro capi; ma il mondo pagano dovette accorrere in massa, dal momento che il proselitismo veniva fatto da un membro stesso della famiglia imperiale. Pura speculazione? L'argomento è delicato e urta suscettibilità profonde, per cui molti certamente insorgeranno all'idea, affermando che non esistono prove in proposito. Prove assolute in senso storico, come testimonianze e documenti scritti, forse, no, per lo meno al momento. Ma è indubbio che le coincidenze sono tante e tali da rendere questa ipotesi, se non proprio una certezza, qualcosa di assai più concreto e verosimile di una semplice speculazione. Non è quindi semplice speculazione gratuita l'ipotizzare che proprio allora la famiglia sacerdotale mosaica abbai preso saldamente il controllo della nascente religione cristiana, tramite la propria organizzazione occulta, e ne abbia da allora in poi guidato i destini.

Sesta Parte Un potere occulto nella storia dell'Occidente? La famiglia sacerdotale mosaica, dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, inaugurò una nuova strategia di sopravvivenza, scomparendo nella clandestinità, ma continuando a mantenere in vita l'Organizzazione familiare occulta, creata a suo tempo da Esdra, e sostituendo il Tempio materiale, quale mezzo di sussistenza e di potere, con un "tempio spirituale", costituito dalla Chiesa di Roma. L'organizzazione occulta controllava l'istituzione visibile, la Chiesa, che a sua volta controllava il popolo dei fedeli. Un sistema perfetto, che faceva scomparire la famiglia in quanto bersaglio ben individuabile da parte dei nemici e la metteva al riparo da campagne di sterminio. Eventuali persecuzioni, come in effetti ci furono, si sarebbero rivolte contro il bersaglio visibile, la Chiesa, lasciando indenne, o quasi, l'organizzazione occulta da cui essa emanava. Ci sono numerosi e precisi indizi storici che confermano questo scenario, ma l'unica prova esplicita e diretta, almeno al momento, è costituita da quella che abbiamo definito una fonte di informazioni "non storica", perché costituita da materiale che solitamente non viene preso in considerazione dagli storici. Si tratta dei rituali e delle tradizioni massoniche. Il loro contenuto è tale da dimostrare in modo certo una connessione tra l'organizzazione sacerdotale mosaica e la massoneria moderna. Le origini della massoneria sono uno dei problemi più discussi e discutibili in tutto il campo della ricerca storica. La tesi più accreditata in campo accademico, quella di un'origine da corporazioni di scalpellini e muratori, ad un'analisi approfondita appare, oltre che inverosimile


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e per certi aspetti ridicola, del tutto priva di basi storiche e riscontri reali. Quanto alle altre "teorie", innumerevoli, non mette neppure conto di parlarne. Più si cerca di approfondire il problema delle origini e più la soluzione si allontana, avvolta nel mistero. Nessuno, però, fino ad oggi ha pensato di risolvere il problema tramite un approccio che appare il più immediato e plausibile per un'organizzazione la quale per tempi immemorabili ha trasmesso le proprie tradizioni e rituali soltanto per via orale, vale a dire esaminando proprio i suoi contenuti tradizionali. E' opinione comune che i rituali siano cerimonie di carattere essenzialmente simbolico, ideati ad hoc per trasmettere determinati messaggi. Ma questo non è vero. Quando ci è dato conoscere l'origine di un rituale, infatti, ci si rende conto che esso è sempre ispirato ad un fatto realmente accaduto o presunto tale, che viene "rivissuto" dai partecipanti. I rituali cattolici, per esempio, ripercorrono a distanza di due millenni la storia di Gesù Cristo. Lo stesso dicasi per i rituali delle feste ebraiche, che rivivono gli episodi più salienti della storia di quel popolo, a partire dal passaggio del Mar Rosso. Ovviamente il rituale rivive sempre un episodio singolo isolato, non inserito nel contesto storico ed ambientale in cui è accaduto, per cui sarebbe illusorio sperare di ricostruire una storia in modo attendibile, partendo soltanto dai rituali che la rappresenta. Ad esempio, non saremmo certo in grado di ricostruire la storia del popolo ebraico o quella di Gesù Cristo partendo soltanto dai rituali che vengono recitati nelle varie ricorrenze dell'anno liturgico ebraico o cristiano. Siamo, però, in grado di riconoscere con certezza a quali vicende i rituali si riferiscono, proprio grazie al loro contenuto informativo di carattere storico. Questa caratteristica dei rituali può risultare utile per orientare l'indagine storica vera e propria là dove mancano gli strumenti tradizionali, come nel caso, appunto, della massoneria, per la quale mancano fonti scritte. Ebbene, è immediato rendersi conto che i rituali massonici si riferiscono sempre ed esclusivamente ad una storia ben precisa e delimitata: quella della famiglia sacerdotale di Gerusalemme. Fatti e personaggi sono quelli biblici, da Salomone a Geremia, Esdra e così via, ma con il contorno e la costante presenza dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme, che vengono sempre identificati come fratelli massoni. L'identificazione della massoneria con la famiglia sacerdotale giudaica è sempre esplicita e diretta. Anche la cornice è quella giusta. Le riunioni avvengono sempre nel "tempio", che la presenza di particolari illuminanti, come le colonne Boaz e Joachim, identifica come quello di Salomone, e i partecipanti si caratterizzano come una vera e propria casta sacerdotale, che ricalca il modello della famiglia sacerdotale di Gerusalemme. I rituali massonici ripercorrono uno ad uno tutti i fatti più salienti della storia della famiglia sacerdotale, che ci sono noti attraverso la Bibbia e sono perciò riconoscibili in modo immediato e certo. Ad esempio, ciascuno dei 33 gradi del cosiddetto "rito scozzese" (il risultato non varia sostanzialmente se ci si riferisce ad altri "riti" massonici, con diverso numero di gradi) è caratterizzato da un ben preciso rituale, a cui sono legate leggende e tradizioni specifiche. I rituali dei primi gradi, fino al tredicesimo, si svolgono tutti nella Gerusalemme dei tempi di Salomone e riguardano vicende collegate ad un momento fondamentale della storia della famiglia sacerdotale: la costruzione del primo tempio. Esecuzione dei lavori, nomine dei sovrintendenti ai lavori, pagamenti, il conferimento di cariche e incarichi ai membri della famiglia sacerdotale, nascondigli segreti, vicende di tradimenti e di sangue e così via, fra cui l'istituzione dei rituali stessi. Il rituale del 14.mo grado riguarda avvenimenti accaduti quattrocento anni dopo: la distruzione del tempio di Gerusalemme da parte di Nabuccodonosor e la deportazione dei sacerdoti (indicati come fratelli massoni) a Babilonia. Il ritorno a Gerusalemme, 70 anni dopo, e la ricostruzione del tempio sono raccontati con una quantità di particolari inediti nella Bibbia, dai rituali del 15.mo e 16.mo grado. I rituali del 17.mo e 18.mo grado sono di contenuto filosofico ed esoterico, ma riguardano sempre la stessa storia. Col 19.mo grado si


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ha un nuovo salto di alcuni secoli: descrive, infatti, la distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera dei romani, nel 70 d.C.. Fin qui i rituali si muovono in una cornice storica nota dalla Bibbia ed è facile verificare che si riferiscono sempre a vicende della famiglia sacerdotale mosaica. Da questo momento in poi essi rivivono episodi che ci sono noti da fonti storiche, senza però che sia evidenziata una relazione con questa famiglia. Ma è indubbio che si tratta sempre della stessa storia. Il rituale del 20.mo grado, lo abbiamo già visto, si svolge tra le rovine fumanti di Gerusalemme, dove i fratelli massoni superstiti abbandonano definitivamente ogni velleità di ricostruire materialmente il tempio e decidono di affidare le proprie sorti ad un "tempio spirituale". L'episodio successivo, narrato dal rituale del grado 26.mo, si svolge a Roma soltanto pochi anni dopo, all'epoca dell'imperatore Domiziano. Ritroviamo la famiglia massonica nelle catacombe, dove riesce a sopravvivere alle persecuzioni anticristiane scatenate dall'imperatore. Anche per questo episodio abbiamo riscontri storici nell'opera di Giuseppe Flavio, che dimostrano una stretta relazione con i sacerdoti superstiti di Gerusalemme. Segue un lunghissimo periodo di black-out, di quasi mille anni, al termine dei quali ritroviamo i fratelli massoni, nei rituali dal 27.mo al 32 grado, a Gerusalemme, con lo stemma dei crociati sul petto, esattamente dove ci aspetteremmo di ritrovare una famiglia che di quella città era stata proprietaria per oltre un millennio e che certamente non poteva rimanere insensibile ed estranea ad una sua riconquista. Vengono in particolare rivissute le vicende dei Templari, fino al loro scioglimento nel 1307. Come si vede, quella raccontata dai rituali massonici, con il loro contorno di leggende e tradizioni tramandate oralmente, è una storia completa e talmente circoscritta e coerente da far apparire inverosimile l'ipotesi, sostenuta da alcuni, che siano stati "inventati" in epoca moderna. Essi provengono direttamente dalla famiglia mosaica. C'è indubbiamente un legame diretto e continuo fra le l'organizzazione creata da Esdra e ricostituita da Giuseppe Flavio a Roma e la massoneria moderna. A quanto pare la massoneria riproduce l'organizzazione di Giuseppe Flavio, esattamente come un fossile riproduce le forme di un essere vivente ormai estinto da epoche immemorabili, consentendoci di avere informazioni molto precise su di lui, anche se la materia vivente è stata interamente sostituita dalla pietra. La sua struttura, i contenuti, i rituali dovrebbero essere l'immagine essenzialmente fedele della primitiva organizzazione sacerdotale. Cambia ovviamente la sostanza: sacerdoti discendenti da Mosè da un lato, con un'organizzazione viva, in cui ogni rituale, ogni istituzione, come la solidarietà fra fratelli, il mantenimento del segreto e tutta la parafernalia della massoneria, dai segnali di riconoscimento reciproco alle parole di passo ecc., avevano una funzione ed uno scopo vitali per la sopravvivenza della famiglia stessa. Dall'altra parte perfetti estranei senza alcun legame fra loro, che recitano parti di cui non conoscono l'origine ed il significato e continuano ad usare simboli e comportamenti che sono divenuti ormai puro folclore nell'organizzazione odierna. Il processo di "fossilizzazione" dell'organizzazione sacerdotale mosaica è cominciato, secondo le informazioni che possediamo, in Inghilterra. Da alcuni manoscritti apprendiamo che individui non appartenenti all'arte massonica (vale a dire non appartenenti alla famiglia mosaica), i cosiddetti "accettati", re, principi, ministri cominciarono ad essere ammessi a far parte dell'organizzazione fin dal decimo secolo. Nel 1600 esistevano logge formate da soli "Accettati" che annoveravano i più cospicui personaggi dell'epoca, fra cui Newton. Quando nel 1717 quattro logge londinesi decisero di riunirsi e formare la Gran Loggia d'Inghilterra, atto di nascita ufficiale della moderna massoneria, forse fra le loro file non esisteva più un solo discendente di Mosè. Erano infatti tutte logge di "Accettati", un'organizzazione in cui il significato e gli scopi originari erano andati smarriti, ma che ebbe un enorme, immediato successo, grazie al fatto di essere aperta a tutti (o quasi). La storia dell'organizzazione sacerdotale mosaica, quindi, è come un fiume che si immerge nel sottosuolo per riapparire più a valle. Sappiamo quando e dove scompare, a Roma nel 70


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d.C., e quando e dove riemerge in superficie, a Londra nel 1717, ormai completamente snaturata nella sua sostanza. Del percorso "sotterraneo" che sta nel mezzo conosciamo soltanto alcuni punti salienti attraverso i rituali, che ci consentono di attribuire alla famiglia sacerdotale fatti e personaggi, come le crociate, i templari e gli altri ordini cavallereschi e così via. Un'analisi storica che cerchi di unire i punti estremi, passando attraverso gli episodi noti dai rituali massonici, dovrebbe consentire di tracciare il percorso di questo fiume sotterraneo, almeno a grandi linee, con buona attendibilità. L'organizzazione sacerdotale rivitalizzata da Giuseppe Flavio doveva essere del tutto analoga a quella odierna della sua immagine "fossile", la massoneria, con la differenza che i suoi membri erano tutti e soltanto discendenti di Mosè e gli obblighi di solidarietà, reciproca assistenza e così via erano assoluti. Come pure quello del segreto; la morte era la pena per chi lo avesse trasgredito. L'attività principale della famiglia, come si è detto, era e rimase nel campo della religione e fu dedicata alla edificazione e diffusione della religione cristiana, con energia e successo travolgenti. Il "tempio spirituale", vale a dire la Chiesa di Roma, venne a costituire la base del potere della famiglia a partire dalla fine del primo secolo. Papi e vescovi venivano insediati dalla associazione mosaica occulta, con meccanismi che via via si modificavano e affinavano mano a mano che la base della famiglia si allargava (certamente dovevano venire eletti anche membri non appartenenti alla famiglia, purché controllabili). Chi era insediato in posizione di potere era tenuto ad insediare in posizioni di potere sotto il suo controllo altri confratelli (ma soltanto lui li conosceva in quanto tali; per il mondo profano si trattava di estranei). Per poter assicurare il controllo delle cariche ecclesiastiche fu istituito per i prelati l'obbligo del celibato, comparso allora per la prima volta. Fino ad allora nessun sacerdote del mondo antico aveva avuto tale obbligo, neppure nella primitiva Chiesa apostolica. Dalla fine del primo secolo, invece, invalse la consuetudine che papi e vescovi non potessero sposarsi. A partire dal 306, col sinodo di Elvira, in Spagna, l'obbligo del celibato fu esteso a tutti gli ecclesiastici. E' una fatto significativo e indicativo, che non trova giustificazione nella predicazione di Cristo o nelle consuetudini. Esso rispondeva ad una precisa esigenza della organizzazione sacerdotale occulta. Il celibato di coloro che assumevano cariche di rilievo nel tempio spirituale, cioè papi e vescovi, aveva una ragione specifica: evitare il sorgere di dinastie familiari, che avrebbero potuto sottrarsi al controllo della famiglia sacerdotale. Diversi altri fatti storici si spiegano soltanto con l'esistenza di questa organizzazione occulta, o comunque acquistano un significato chiaro e soddisfacente se esaminati alla luce di essa. Si è già detto del black-out di informazioni sulla Chiesa romana alla fine del primo secolo, quando la famiglia sacerdotale mosaica si insediò ai suoi vertici, e del fulmineo, inspiegabile successo della nuova religione. Si spiega anche il fatto, indubbiamente anomalo e strano, che la Chiesa abbia esercitato sempre una sorta di tutela sul popolo ebraico. La famiglia mosaica non rinnegò le proprie origini ebraiche; la religione ebraica era una creazione di Mosè e si è sempre identificata con la sua famiglia. E' più che ovvio pensare che anche dopo il cambio di strategia imposto dalle circostanze e messo a punto da Giuseppe Flavio, la famiglia sacerdotale continuasse a considerarsi ebraica e comunque in carica del popolo ebraico. E' legittimo pensare che alcune delle famiglie confluite nell'organizzazione di Giuseppe Flavio (non dimentichiamo che si furono ben 250 sopravvissuti) si siano prima o poi "cristianizzate" interamente, abbandonando la legge mosaica. Altre, però, dovettero rimanere in tutto e per tutto "ebree". Altre ancora scelsero una via di mezzo, continuando a seguire la legge mosaica, pur accettando i principi cristiani (questa setta particolare era detta "ebionita" e la sua presenza è accertata fino al sesto secolo). L'organizzazione mosaica occulta, quindi accoglieva certamente nel suo seno membri di entrambi le religioni (la sua immagine "fossile", la massoneria, è infatti estremamente tollerante in fatto di religione); essa doveva quindi esercitare una sorta di protezione nei confronti degli ebrei. E' da notare infatti che gli ebrei furono sempre tollerati, e spesso


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apertamente protetti dalle gerarchie ecclesiastiche, a differenza di tutte le altre religioni e delle eresie cristiane. Quando gli imperatori romani, da Costanzo a Giustiniano, cominciarono ad imporre il Cristianesimo come religione di stato, vietando tutte le altre religioni, fecero eccezione per quella ebraica, che era soggetta a restrizioni, ma non vietata. E c'è un continuo travaso, nella storia dell'Occidente, di personalità dal mondo ebraico a quello cristiano (ad esempio, papa Innocenzo VIII, promotore dell'impresa di Colombo, era figlio di Aharon Cybo, di famiglia ebraica. E lo stesso Colombo era figlio di madre ebrea). Non è dato sapere fino a quando la famiglia abbia mantenuto il controllo sul papato e se lo abbia fatto continuativamente. Problemi dovettero sorgere già verso la fine del primo millennio, che portarono alla riforma del sistema elettivo intorno al 1050, quando fu introdotto il sistema attuale, che prevede l'elezione del papa da parte di un collegio di principi della Chiesa (in precedenza l'elezione era decisa dalle grandi famiglie romane). In un primo tempo i cardinali dovevano essere designati dalle famiglie sacerdotali mosaiche (che a quell'epoca dovevano essersi moltiplicate e ramificate a dismisura), che in tal modo continuavano a mantenere il controllo del papato, ma poi anche questo sistema perdette efficacia, quando re e imperatori cominciarono a imporre l'elezione di cardinali a loro fedeli, non appartenenti alla famiglia mosaica, scompaginando così il sistema di controllo dell'organizzazione occulta. Naturalmente, accanto agli interessi di carattere religioso ed ai membri celibi inseriti nelle gerarchie della Chiesa, l'organizzazione sacerdotale aveva anche una dimensione diciamo così, "civile", costituita dalle famiglie vere e proprie dei sacerdoti. Famiglie che già in partenza erano dotate di larghi mezzi finanziari e che indubbiamente, grazie non solo alla naturale inclinazione della razza, ma anche e soprattutto alla solidarietà reciproca, continuata nel corso dei secoli, dovettero migliorare enormemente la loro posizione economica e sociale. Non va dimenticato che i sacerdoti costituivano la "classe nobiliare" del popolo di Israele (è sempre Giuseppe Flavio ad affermarlo con orgoglio) e che alcune delle famiglie superstiti avevano sangue reale nelle vene. Fino a che la struttura imperiale dell'impero romano rimase in auge, era difficile far valere questa condizione, ma la rivendicazione rimaneva e non c'era alcuna remora ad impadronirsi di posizioni di potere, facendo valere i propri titoli nobiliari, fino a quello più elevato, ovunque se ne presentasse l'opportunità. La famiglia dilagò in tutto l'occidente, al seguito dei suoi missionari e un poco alla volta assunse posizioni di potere nei popoli evangelizzati, sfruttando l'appoggio della Chiesa (e viceversa, naturalmente). Un numero notevole di grandi famiglie, infatti, a cominciare dai Merovingi per finire coi Medici, hanno origini avvolte nella leggenda, che quasi sempre riconducono al mondo ebraico. Intorno al mille la famiglia mosaica aveva colonizzato l'intera Europa e conquistato posizioni di predominio, soprattutto in Italia, Francia ed Inghilterra. Una parte notevole della classe nobiliare di questi paesi doveva essere costituita da discendenti di Mosè. Molti di essi escono allo scoperto al tempo delle crociate. E' indubbio che le crociate sono state promosse dalla famiglia mosaica, che in tal modo ambiva a rientrare in possesso dei suoi antichi domini palestinesi. E per poco più di un secolo vi riuscì. Fu una membro della famiglia, discendente di Mosè, quello che assunse il trono di Gerusalemme, re-sacerdote che tornava dopo più di mille anni a ricoprire quel ruolo che era stato dei suoi antenati Asmonei. E membri della famiglia erano quei nove cavalieri, i futuri templari, a cui il re concesse la moschea di Al Aqsa, nella spianata del tempio, vicino alla reggia, con il permesso di scavare nelle viscere del monte Moriah. In una singolare commistione di poteri, i Templari prestavano il loro servizio al re di Gerusalemme, ma professavano obbedienza assoluta al papa, anch'esso un discendente di Mosè in incognito. E, fatto mai spiegato storicamente, fu il papa stesso che decretò la fine dell'ordine, senza che ci fosse mai alcun atto formale di disobbedienza. L'ordine dei Templari era assurto a grande potenza e ricchezza nella Palestina crociata. Dopo la caduta di Gerusalemme aveva stabilito il suo quartier generale in Francia, ma con ramificazioni in tutta


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Europa; in Portogallo aveva addirittura creato un proprio regno. Esso fu sciolto nel 1307, apparentemente per volere del re di Francia Filippo IV, detto il Bello. L'ultimo gran maestro, Jacques De Molay, salì sul rogo qualche anno dopo a Parigi, con i suoi due luogotenenti. Quali furono i motivi veri che portarono alla distruzione dell'ordine? Evidentemente era diventato troppo potente, tanto da sfuggire al controllo. Ma al controllo di chi? Non certo di Filippo il Bello, che non lo aveva mai avuto: i Templari rispondevano unicamente al papa. Fu il papa stesso a decretarne lo scioglimento e non soltanto nei domini di Filippo il Bello, ma in tutto il mondo cristiano. Per quali ragioni dovette disfarsi (suo malgrado) di un ordine fedele a tutta prova, che gli procurava ricchezze e potere? Egli agiva evidentemente su istruzioni di un potere occulto che vedeva nella potenza economica e militare dei Templari una minaccia al proprio potere. Fu una lotta intestina tra fratelli. Lo prova il fatto che soltanto i tre capi in testa furono giustiziati, mentre la stragrande maggioranza dei Templari fu risparmiata e aggregata ad altre organizzazioni cavalleresche, come pure i loro beni, o semplicemente cambiarono nome, riprendendo quello originario, come in Portogallo. In tal modo rientrarono all'obbedienza di chi li controllava, cessando di dare ombra. L'ordine scomparve in quanto tale senza alcuna resistenza, ma è accertato che alcune centinaia di suoi membri rifiutarono di sottomettersi, riparando fuori dalla Francia, in particolare in Inghilterra e in Scozia. E' possibile che proprio questi transfughi templari, i quali, anche se sconfessati dalla "loggia" madre, erano pur sempre membri della famiglia mosaica, in possesso di tutti i suoi segreti e rituali, abbiano dato vita a logge separate da cui avrebbe poi avuto origine l'organizzazione "fossile", aperta a tutti, che va sotto il nome di massoneria. Ma che fine hanno fatto i veri discendenti di Mosè? L'unica cosa di cui possiamo essere certi è che esistono ancora. Ma sono sempre associati in un'organizzazione occulta, riservata solo a loro, com'era alle origini? Come ha reagito la famiglia nel corso dell'evoluzione della storia degli ultimi secoli? Ha sostituito il tempio spirituale con qualcosa di altrettanto valido? Una nuova istituzione, come ad esempio un "tempio finanziario", o che altro? Il fatto che alcune logge inglesi siano degenerate, accogliendo elementi estranei alla famiglia, non preclude l'esistenza di logge riservate esclusivamente alla famiglia e del tutto segrete. Ma qui siamo veramente nel campo della pura illazione…

----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme] flbarb@tin.it


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ET IN ARCADIA EGO Semantiche mito-ermetiche in alcuni quadri di Guercino e Poussin

Parte Seconda - Poussin 3. I pastori d'Arcadia I Il primo dipinto che Nicolas Poussin dedicò alla scritta epigrafica in questione è un olio su tela di cm. 101 x 82, eseguito pare intorno al 1629-30, ora alla Devonshire Collection a Chatsworth.

Stando agli storici dell'arte, l'ispirazione gli sarebbe venuta dall'aver visto il quadro di Guercino, quadro che all'epoca si trovava già a Roma. A nostro avviso il fatto che egli abbia ripreso l'enigmatica epigrafe può voler dire una sola cosa: egli ne aveva compreso - o creduto di comprendere - il significato. Se è così, il suo quadro deve in qualche modo esprimere questa comprensione, esibendo un significato almeno contiguo a quello del quadro di Guercino. E tuttavia la scena che presenta è quasi totalmente diversa. Il cranio è ancora visibile, posato però sopra un sepolcro scolpito nella parete stessa di un monte, dimodoché l'epigrafe incisa su uno dei suoi lati si offre, questa volta, non solo allo sguardo dello spettatore ma anche a quello di tre personaggi, una donna e due uomini, uno dei quali - con espressione tra il sorpreso e l'attento - ne sta accompagnando la lettura con l'indice della destra, fermo per sempre alla lettera D.


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Sembra abbastanza certo che il vecchio seduto, intento a versare da un orcio acqua che forma un ruscello, rappresenti il fiume Alfeo: ma chi sono gli altri tre personaggi? Noi dubitiamo fortemente che si tratti - come vorrebbe la tradizione - di pastori, quando questo appellativo venga preso in senso letterale. Che la tomba sia incastonata nella parete di una montagna, è a nostro avviso la traduzione in immagini del nome Oreste: in Greco Oréstes vale appunto "montanaro", cioè "che abita in un luogo alto". Ora, se la tomba è quella di Oreste, il fatto che essa sia ancora perfettamente conservata, allo scoperto, ci suggerisce che la scena raffigurata nel quadro si svolge in un periodo storico anteriore a quello in cui ha luogo la vicenda narrata da Erodoto, un periodo probabilmente non molto lontano dalla data di morte dell'eroe. Un'altra cosa che ci colpisce è l'atteggiamento artificioso della donna che, oltre ad esibire una scollatura che le lascia scoperto un seno, tiene il leggero chitone di cui è vestita ostentatamente sollevato a scoprire la coscia destra. Non possiamo non constatare che questa figura femminile rispecchia esattamente i caratteri che la letteratura classica attribuisce ad Ermione, moglie di Oreste: le spartane erano note per indossare abiti assai succinti. Plutarco, parlando della "legislazione di Licurgo, che lasciava una libertà totale e sconveniente per le donne", cita Ibico che chiama le spartane "mostracosce". Euripide le descrive "discinte, con le cosce nude" e Sofocle parla proprio di "Ermione la giovane, la cui veste non ricopre, e si apre sulla coscia nuda". Ora, se la donna è la moglie - o meglio, la vedova di Oreste - perché i due personaggi maschili non potrebbero essere gli altri due protagonisti di questo mito, ossia il figlio dell'eroe, Tisameno, e l'inseparabile compagno di tutte le sue avventure, Pilade? In effetti, la figura maschile vicina ad Ermione, più pingue e dalla muscolatura meno tonica dell'altra, sembra denunciare un'età più avanzata. Così, da sinistra verso destra, identifichiamo i personaggi come Ermione, Pilade, Tisameno ed Alfeo. Di conseguenza, la scena comincia ad assumere un significato preciso: la famiglia dell'illustre defunto, in visita alla sua sepoltura, si accorge con sorpresa che qualcun altro è passato di là, lasciando dietro di sé - quale testimonianza del suo passaggio - l'enigmatica epigrafe. Questa è secondo noi la ragione per cui, nel quadro di Poussin, essa non è più riservata ai soli spettatori, ma è esplicitamente e innanzitutto offerta all'attenzione dei personaggi raffigurati. Occorre qui sottolineare il ruolo che svolge Alfeo, figura a sé stante nella composizione: fiume d'Arcadia carsico, che per lunghi tratti svanisce sottoterra per poi riapparire alla luce del sole in luoghi assai distanti dal suo inabissamento, ai tempi di Poussin era spesso impiegato per rappresentare la permanenza della trasmissione di una tradizione segreta. In accordo con questo significato, Alfeo volge il dorso agli spettatori, non si fa vedere in faccia. Inoltre, esso porta l'alloro dell'immortalità accordata a una tradizione che sempre scompare e sempre riaffiora. Si può così cominciare a gustare la sottigliezza dell'inventio poussiniana: avevamo detto che, riprendendo l'epigrafe, nel suo dipinto Poussin avrebbe dovuto cifrare la propria decifrazione dell'enigma guerciniano, in quanto doveva far sapere - a chi già sapeva - che sapeva anch'egli, pur senza che chi non sapeva capisse. Ora, ci pare che egli abbia conseguito il suo scopo in modo splendido: ben lungi dal plagiare il soggetto di Guercino, egli ne riprende solo la misteriosa epigrafe situandola in un contesto temporale affatto diverso ma assolutamente congruente: conformemente al classicismo del pittore, la scena si sposta da quella della storia erodotea a quella del mito, talché, con l'epigrafe, è ora Poussin stesso che si rivolge non solo agli spettatori, ma ai protagonisti stessi del mito, informandoli che anche lui - Poussin - è in Arcadia, anche lui è a conoscenza della tradizione segreta che il quadro di Guercino cifrava. Un po' - diremmo - alla maniera del turista che lascia sul monumento archeologico la traccia graffita del proprio passaggio. Abbiamo dunque visto che il significato letterale del quadro è relativo al mito di Oreste, in cui al contempo si cifra nuovamente una decifrazione. Il quesito che ora ci si presenta è il seguente: è possibile che ciò si estenda anche al significato allegorico del quadro di Guercino, ossia all'alchimia? Occorre ora che menzioniamo una lettera - considerata inspiegabile - che


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l'abate Louis Fouquet scrisse dall'Italia, il 17 aprile 1656, a suo fratello Nicolas, il famoso e fastoso sovrintendente alle finanze di Luigi XIV, dopo aver reso visita a Poussin a Roma (Archives de l'art français, 2e série, 1862, p.266s): "Non potreste credere, Signore, né le fatiche che si sobbarca per il vostro servizio, né l'affetto con cui lo fa, né il merito e la probità che mette in ogni cosa. Lui e io abbiamo progettato certe cose nel merito delle quali potrei intrattenervi a fondo tra poco tempo, che vi daranno - attraverso il Signor Poussin dei vantaggi (se voi non vorrete disprezzarli) che i re durerebbero molta fatica ad ottenere da lui e che, dopo di lui, nessuno al mondo scoprirà mai nei secoli a venire; e quel che più conta, ciò sarebbe senza molte spese e potrebbe perfino tornare a profitto, e si tratta di cose da ricercare così fortemente che nessuno oggi sulla terra può avere una fortuna migliore e forse neppure eguale".

Qualcuno ha creduto che il grande e raro segreto a conoscenza di Poussin riguardasse l'ubicazione di un sito archeologico all'epoca ancora sconosciuto: tuttavia questa ipotesi, per quanto plausibile, non ci pare affatto adeguata all'enfasi delle parole di Fouquet. Riteniamo improbabile che, nel fervore di scavi caratteristico dell'epoca, si potesse pensare che la sua ubicazione non sarebbe mai più stata scoperta nei secoli a venire. Al contrario, la descrizione di Fouquet si attaglierebbe benissimo a quello che, all'epoca, era indicato come "il massimo segreto ermetico". Infatti un'opera del suo carissimo amico Félibien, ossia Entretiens sur les vies et sur les ouvrages des plus excellents peintres anciens et modernes avec la vie des architectes, nel dialogo che verte su Poussin, introduce un personaggio che un libello d'arte interamente curato da uno dei massimi specialisti mondiali dell'opera poussiniana, che non menziono per pudore - definisce, in modo assai simile a certe informative dei carabinieri, "un amico, tale <<Pymandre>>". Poiché non bisogna mai lasciarsi scappare l'occasione di ridere, vale la pena riportare il brano per intero. "Come è noto, il testo dal quale è tratto il presente brano è un dialogo fra l'autore, André Felibien, e un amico, tale <<Pymandre>>".

Un amico, tale <<Pymandre>>! Non capiremo mai come sia possibile che qualcuno possa considerarsi o esser considerato specialista di qualsivoglia autore del passato, sia esso uomo di lettere, pittore, scienziato o filosofo, senza minimamente conoscere la cultura di cui quegli si è nutrito e in cui ha operato. Ma noi, naturalmente, siamo solo poveri amateurs, e non possiamo avere idea di tutti i sottili sentieri che portano al conseguimento di una vera competenza. Tuttavia ci sia concesso di segnalare che, nel nostro povero, rozzo e approssimativo mondo amatoriale, "Pymandre" è la francesizzazione del titolo - e del nome del protagonista - di uno dei dialoghi attribuiti a Ermete Trismegisto e contenuti nel famosissimo - ma solo nel nostro mondo, si capisce! - Corpus Hermeticum, portato in Italia da un monaco macedone e tradotto, nel 1460, da Marsilio Ficino. Ora, riteniamo abbastanza difficile che Félibien potesse considerare Pimandro un amico in senso letterale, visto che sapeva bene - al contrario del nostro specialista - trattarsi della manifestazione sensibile del Nous supremo. Più probabile è che si riferisse al fatto che Poussin, uomo straordinariamente erudito, aveva strettissime frequentazioni con personaggi quali Lorenzo Pignoria, Gerolamo Aleandro e soprattutto - Athanasius Kircher, tutti gesuiti. Sentiamo ora cosa ci dice a loro proposito Paola Santucci, nel suo ottimo Poussin: tradizione ermetica e classicismo gesuita (Cooperativa Editrice 10/17, Salerno, 1985, p. 23): "Costoro si erano resi divulgatori di quella particolare tradizione, già accolta e tramandata da Marsilio Ficino e dai dotti umanisti della fine del '400, che faceva capo allo studio degli Hermetica, cioè di quei testi attribuiti al mitico filosofo egiziano Ermete Trismegisto e che venivano considerati espressione della prisca theologia, di una conoscenza divina più antica dello stesso Mosè".

E aggiunge (p. 32):


43 "Poussin dunque aderì alla teosofia ermetica e di questa egli colse soprattutto l'aspetto relativo

all'identità di tutti gli dei in un'unica divinità. Era la stessa tesi propugnata dai gesuiti contemporanei per i quali la diffusione del sincretismo in chiave cristiana fu compito primario poiché il momento storico richiedeva uno strumento valido per la evangelizzazione dei popoli extra-auropei. Fu forse su questa base di affinità ideologica ed intellettuale che Poussin strinse i suoi rapporti con i rappresentanti della Società".

Félibien stesso - suo contemporaneo e grande amico - mette dunque Poussin sotto il segno di Ermete Trismegisto, con buona pace di interpreti prestigiosi come il curatore dell'edizione italiana delle sue lettere, docente di filosofia presso la Carnegie Mellon University e autore davvero non si capisce perché - di diversi libri sulla storia dell'arte moderna e contemporanea, che invece tratta il problema nel modo seguente: "Soltanto un lettore che creda a priori che Poussin dipingesse soggetti esoterici seguirà Blunt concludendo che quando Poussin usa il vocabolo francese <<délectation>> si riferisca all'affermazione di S. Agostino secondo il quale la <<delectatio>>, nel suo senso corretto di delectatio boni, conduce alla beatitudine ed è perciò uno dei mezzi che portano all'unione con il divino. Qui si entra nel famoso circolo ermeneutico. Il lettore che consideri Poussin un pittore-filosofo ermetico estremamente erudito, leggerà queste lettere preparato a trovarvi alllusioni a sottili dottrine; coloro che invece considerano in modo più semplice la sua personalità artistica, riterranno esagerata una tale lettura dei suoi testi. E' stato osservato che l'allegorista può diventare simile al nevrotico affetto da ossessioni maniacali, portato a leggere ogni cosa in termini personali. Ma non spingiamoci troppo oltre".

Infatti, di fronte a tale sfoggio di equilibrata saggezza empirico-nordamericana, cosa conta la testimonianza diretta ed esplicita di uno dei più intimi sodali del pittore? Tuttavia, noi non pensiamo che l'iniziazione di Poussin all'ermetismo risalga ai suoi contatti con l'ambiente gesuita, quanto piuttosto al suo incontro - giovanile e parigino - con uno dei massimi poeti dell'epoca, ossia il cavalier Marino. I possibili aspetti esoterici dell'opera di Marino non sono affatto studiati, tuttavia si è recentemente affacciato almeno un sospetto, segnatamente ad opera di Cesare Vasoli nel suo L'ermetismo a Venezia (in AA. VV., L'ermetismo nell'antichità e nel rinascimento, Nuovi Orizzonti, Milano, 1998, p. 132-133): "E, senza dubbio, se si affrontassero le ricerche, del resto, già affrontate, con ottimi risultati, nei confronti di personalità artistiche, come Jacopo Sansovino e Sebastiano Serlio, letterarie, come il Marino, o musicali, come Fabio Paolini o Gioseppo Zarlino, già studiati dal Walker, o gli autori delle grandi compilazioni enciclopediche della fine del Cinquecento o della prima metà del Seicento, si potrebbero scoprire indicazioni non meno utili sul ruolo svolto dallo Zorzi nell'assicurare la continuità di un "topos", appunto, l'"armonia del mondo", che affascinò il giovane Descartes degli Olympica, e che può condurre addirittura a talune celeberrime pagine di Leibniz".

Secondo noi è proprio attraverso il suo primo mentore, Giambattista Marino, che la tradizione ermetica preservata e rilanciata dallo Zorzi - come abbiamo visto già influente nella precedente parte relativa al Guercino - giunge fino a Poussin, prima ancora che egli la ritrovi nel circolo gesuitico della capitale. E' difficile avere una nozione esatta delle conoscenze di Poussin in materia di ermetismo, a causa dell'estrema riservatezza da lui sempre dimostrata persino nella corrispondenza personale. Le sue lettere sono tuttavia piene di riferimenti a conoscenze segrete, come il brano seguente che varrà da unico esempio (a Chanteloup, 7 aprile 1647): "Vi potrei dire cose su quest'argomento, che sono molto vere ma sconosciute a tutti. Bisogna dunque passarle sotto silenzio".

E tuttavia almeno una sua lettera - quella del 25 novembre 1658 a Chanteloup - contiene un riferimento, laconico ma preciso, a un aspetto operativo dell'alchimia a noi già ben noto:


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"Vi ho promesso di spiegare i parerga che sono in fondo all'ultimo quadro che vi ho fatto. Ecco quel che è. Una processione di sacerdoti, dalle teste rasate e coronate d'alloro, vestiti nel loro modo con tamburini, flauti e trombe, e sparvieri sui bastoni. Quelli che sono sotto il portico portano la cassa, contrassegnata Sero Apin, in cui erano racchiuse le reliquie e le ossa di Serapide loro dio, al tempio del quale si incamminano. Il restante che appare dietro quella donna vestita di giallo, non è altro che un edificio costituito per il riposo dell'uccello ibis, che là è rappresentato, e quella torre, che ha il tetto concavo, con quel gran vaso per raccogliere la rugiada...".

Se si ha presente quanto abbiamo documentato nella prima parte rispetto al ruolo svolto dalla rugiada nell'Opera alchemica, il riferimento poussiniano non può non risultare assai significativo. Non dimentichiamo che il seicento è il secolo di maggior fulgore dell'alchimia tradizionale, quello che vedrà esplodere il fenomeno dei Rosacroce, del cui bagaglio culturale questa disciplina faceva necessariamente parte. Ora, nonostante le palesi e notevoli differenze rispetto al dipinto di Guercino - la moltiplicazione dei personaggi e dei colori degli abiti, nonché la profonda diversità nell'architettura - è possibile mostrare che esso allegorizza i medesimi aspetti dell'operatività alchemica. Come abbiamo scritto, Poussin deve trovare un modo diverso da Guercino per riferirsi alla medesima fase del lavoro alchemico. Per comprendere quale sia, dobbiamo ora ricordare che le varie fasi dell'Opera alchemica erano spesso anche presentate come episodi di un dramma in cui i materiali canonici interpretavano il ruoli dei princìpi - mercurio, solfo e sale - o degli elementi - aria, acqua, terra, fuoco - della fisica teorica del tempo. Così, dai colori dei loro abiti possiamo dedurre che in questo caso i personaggi del dipinto - tranne Alfeo che gioca un ruolo a sé, come dimostra anche la sua posizione appartata - impersonano proprio gli elementi: l'abito bianco di Ermione ne fa una rappresentazione dell'aria, come quello blu di Pilade e quello arancione di Tisameno ci rinviano rispettivamente all'acqua e al fuoco. La terra, cioè Oreste, giace nel sepolcro: Poussin esprime dunque in altri termini la stessa fase operativa che era oggetto del precedente quadro del Guercino. Infatti, seguendo la diversa terminologia simbolica adottata da Poussin, si può dire che l'esito della Prima Opera consiste nel fatto che l'aria si unisce all'acqua, mentre il fuoco alla terra. In particolare, terra e fuoco vengono chiusi insieme nel sepolcro, come non manca di segnalarci Janus Lacinus nel suo Margarita pretiosa pubblicato a Venezia nel 1546: "Nella quinta casa il figlio pensava di gettare suo padre nella tomba e di lasciarvelo ma (per mezzo della nostra arte) vi sono posti entrambi".

Questa idea è espressa da Poussin nella sequenza spaziale delle figure: aria e acqua sono contigui, così come fuoco e terra che - proprio come nel brano di Lacinus - sono figlio e padre. Quindi - come abbiamo detto nella parte relativa a Guercino - occorre che il fuoco venga recuperato dalla massa del caput mortuum con un'operazione apposita e che poi anche la terra venga "rigenerata" o "resuscitata" con un'altra operazione particolare. Il cranio posto sopra il sepolcro ci dice poi che la prima delle due operazioni è già stata compiuta, ossia che il fuoco salino - il "sale mirabile" di Sabine Stuart de Chevalier - è già stato estratto dal caput, ed è per questa ragione che Tisameno, che lo impersona, è visibile all'esterno della tomba e porta la corona della rigenerazione. Questo cranio appoggiato sul sepolcro ha lo stesso significato dello scheletro ritto in piedi sulla bara nell'illustrazione delle Dodici chiavi della filosofia di Basilio Valentino, riprodotta nella prima parte, come pure dell'immagine della Pretiosa margarita di Lacinus, che riproduciamo qui sotto con il suo commento:


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"Nella nona casa le ossa sono tolte dalla tomba. Ciò si produce quando tutto il corpo è stato dissolto con soluzioni successive: fatto questo, conservatele accuratamente".

Nel secolo seguente, che vedrà esplodere il fenomeno Massoneria, lo stesso concetto sarà espresso dal "mak benak" del magistero massonico: "La carne si stacca dalle ossa". Con quale mezzo ciò si sia potuto ottenere è Tisameno stesso a mostrarcelo, per il fatto che il suo dito indica senza possibilità di equivoco la lettera D. Questo gesto ci dà la certezza che Poussin conosceva la tecnica operativa dell'alchimia altrettanto bene che Guercino. Conformemente al sincretismo allora vigente in ambito ermetico - consolidato dai kabbalisti cristiani fin dai tempi di Pico della Mirandola e di cui si può vedere un esempio nel De occulta philosophia di Enrico Cornelio Agrippa - la lettera latina D era considerata strettamente equivalente alla greca ∆ (delta) nonché all'ebraica  (daleth), sicché l'interpretazione mistica delle lettere ebraiche, come è per esempio contenuta nel Sephèr Jetziràh, veniva comunemente estesa anche agli altri alfabeti. In particolare, la daleth era collegata kabbalisticamente tanto con il numero 4 quanto con il pianeta Giove. Erano tempi in cui ci si compiaceva di trovare significati supplementari e segreti nel fatto che la greca delta aveva la forma di un triangolo rivolto verso l'alto, che era anche il simbolo spagirico del fuoco, e che il numero 4 aveva la medesima forma del simbolo astrologico di Giove: . Ora, Paola Santucci, nel libro già citato (p. 77-78), ci ricorda in modo assai pertinente quanto segue: "Nel dipinto di Poussin Apollo, cioè il Sole, simboleggia l'anima del mondo; Giove, cioè il cielo, il suo spiritus e le ninfe, cioè la terra, il suo corpo, analogie che si ritrovano anche in Campanella. Ma a questo punto va ricordato che anche Ermete Trismegisto nell'Asclepius aveva affermato che il reggitore del cielo è Giove e, tramite il cielo, egli dispensava la vita a tutti gli esseri. Giove affermava il filosofo egiziano - è dio dell'aria o spiritus mundi ed occupa un luogo intermedio tra la terra e il cielo".

Se ora ricordiamo la frase - citata nella prima parte - di Limojon de Saint Didier sulle virtù dell'"acqua celeste", così come quella di Sabine Stuart de Chevalier sul fatto che "la vita e la salute sono contenute nello spirito universale" e che "l'unica fomentazione è contenuta nel mare universale", riusciamo anche a cogliere tutta la pertinenza del riferimento poussiniano alla lettera D: la sfera di Giove è questo stesso "mare universale", cioè l'aria, allora considerata piena degli influssi del sole, della luna e degli astri, la cui azione si riteneva necessaria per recuperare il "fuoco salino" dal caput mortuum.


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Abbiamo dunque visto come il significato letterale del quadro si discosti da quello del Guercino pur interagendovi strettamente, e come tuttavia quello allegorico si riferisca alla medesima fase dell'Opera Ermetica da lui cifrata. A proposito del significato morale, dobbiamo dire che anch'esso - come quello letterale - si discosta sensibilmente da quello dell'opera guerciniana: qui non si tratta affatto della carità ma di tutt'altro. Un uomo come Poussin, ossessionato dall'idea di risalire all'origine della prisca theologia, doveva aver letto con particolare emozione la seguente frase tratta dal Crater hermetis, quarto trattato del Corpus hermeticum: "A partire da questo principio, vediamo dunque di chiarire brevemente la strada del bene. Si tratta di una via tortuosa, che consiste nell'abbandonare le cose familiari e presenti, per risalire verso le antiche e primordiali".

Questa coincidenza del bene con l'origine fornisce a nostro avviso la chiave morale del quadro, conformemente tanto al fatto che la scena si svolge alle fonti dell'Alfeo, all'origine della tradizione segreta. Per quanto riguarda infine il senso anagogico esso è palesemente lo stesso del quadro di Guercino, per cui rinviamo a quanto ne abbiamo scritto nella prima parte.

4. I pastori d'Arcadia II Circa dieci anni dopo, pare intorno al 1638-39, forse anche più tardi, Poussin sente il bisogno di tornare sul soggetto. Da quella prova giovanile è passato parecchio tempo: nella sua frequentazione dell'ambiente libertino come di quello gesuita il pittore ha acquisito competenza e cultura: il suo lavoro di ritorno alle fonti se è ancora lungi dall'esser compiuto, è senz'altro assai più avanzato.

Infatti, rispetto all'opera precedente, i cambiamenti sono rilevanti. Intanto, il sepolcro non è più iscritto nella parete di un monte ma posto in un luogo pianeggiante. Il cranio è scomparso. Ci sono ancora tre figure maschili e una femminile, ma questa volta tutti i personaggi sono


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coinvolti nella medesima azione: non c'è qui nessun Alfeo che se ne sta appartato. Ritroviamo ancora i colori simbolici degli elementi: bianco per l'aria, blu per l'acqua e rosso - in luogo dell'arancione del quadro precedente - per il fuoco; tuttavia uno dei personaggi, ossia l'imponente signora che domina la composizione, nel suo ricco abbigliamento li riveste tutti. Le uniche cose rimaste immutate sono il sepolcro e l'iscrizione epigrafica, entrambe cose che testimoniano del fatto che tra il quadro presente e quello precedente vi è senz'altro un legame. Poussin dunque ha qualcosa da aggiungere al discorso svolto nel suo primo lavoro, ma che cosa? Secondo noi, egli doveva aver avuto modo di considerare che la tradizione cui si riferiva non era nata in Arcadia, e che dunque nel suo primo quadro egli aveva solo creduto di indicarne l'origine. Infatti, crediamo poco probabile che abbia ignorato il seguente brano, anch'esso tratto dalle Storie di Erodoto: "170. Anche la tomba di colui che non considero pio nominare in tale circostanza si trova a Sais, nel santuario di Atena, alle spalle del tempio, contiguo a tutta la parete del tempio di Atena. [2] E nel recinto sacro ci sono grandi obelischi di pietra, e vicino c'è un lago ornato da un margine di pietra ben costruito di forma circolare, e per dimensioni, a quanto mi parve, grande quanto il lago chiamato Trocoide a Delo. 171. Su questo lago celebrano di notte le rappresentazioni della passione di lui, che gli Egiziani chiamano Misteri. Ma intorno ad essi, pur conoscendo io con più esattezza come ciascun rito si svolge, conserverò un religioso silenzio. [2] Ed anche riguardo all'iniziazione ai misteri di Demetra, che i Greci chiamano Tesmoforie, anche riguardo a questo ch'io mantenga il silenzio, tranne per quanto di essa è lecito dire. [3] Le figlie di Danao furono quelle che portarono questa cerimonia sacra dall'Egitto e la insegnarono alle donne pelasgiche; più tardi poi, essendo stata tutta la popolazione del Peloponneso scacciata dai Dori, il rito andò perduto, e solo quelli dei Peloponnesiaci che rimasero superstiti e che non si trasferirono, gli Arcadi, lo conservarono".

Dunque, dopotutto, c'è un capitolo preliminare alla tradizione arcadica, e questo capitolo è egizio. Siamo in un'epoca in cui il sincretismo alessandrino viene pienamente ripreso e - se possibile - ulteriormente sviluppato: Oreste che muore per il morso di un serpente è Dioniso sbranato dai Titani ed è Osiride ucciso da Set. Nel secolo seguente - come abbiamo detto, secolo massonico - tutti questi diversi eroi e dei lasceranno il posto ad Hiram il cui nome, curiosamente, in ebraico ha lo stesso significato che quello di Oreste in greco: "colui che risiede in alto". Infatti non comprendiamo come generazioni di studiosi abbiano potuto continuare a considerare la dama del dipinto come una "pastora" quando tutto, dalla sua aria ieratica ai colori del suo abbigliamento ce la presenta come la consorte vedova di Osiride, ossia Iside, secondo la classica descrizione di Apuleio nel suo Asino d'oro [XI, 3]: "La tunica era di colore cangiante: intessuta di bisso finissimo, ora brillava d'un bianco luminoso, ora appariva d'un giallo oro, ora rosseggiava d'un colore di viva fiamma. Quello che poi mi abbagliava completamente la vista era il mantello: nerissimo, tutto lucente d'un fosco splendore".

Per sapere che il Seicento è stato il secolo di Iside non è necessario leggere il libro che le ha consacrato Baltrusaitis. Ora, uno dei fulcri del rinnovato culto di Iside era proprio l'ambiente gesuitico della capitale, soprattutto per opera dell'amico di Poussin, il padre Kircher. La grande dea, dallo sguardo al contempo assorto, addolorato e colmo di bontà, con un gesto di affetto materno, tiene la mano appoggiata sulla spalla del suo primogenito Orapollo (Horus - Apollo), naturalmente vestito del colore del fuoco. E' facile arguire che la figura vestita di bianco all'altro capo del sepolcro è il suo figlio adottivo Ermanubi (Ermes - Anubi, figlio illegittimo di Osiride e di Neftis), figura eminentemente aerea. E chi può essere il personaggio accosciato, intento a leggere l'iscrizione, se non il terzo e ultimo dei suoi figli, ossia


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Arpocrate, dio del silenzio e della riservatezza iniziatica? E in effetti, egli proietta sul sepolcro un'ombra che restituisce proprio la figura di un uomo accosciato intento a portarsi un dito alla bocca come per intimare il silenzio: era proprio questa la rappresentazione tipica del dio, come si può vedere nella rappresentazione seicentesca seguente, tratta proprio da un libro di Pignoria:

Alfeo lascia dunque il posto ad Arpocrate, senza che nulla muti quanto a significazione. Allo stesso modo il cranio, ora assente, è sostituito dal gesto di Orapollo, il fuoco, che indica alla madre il luogo della propria provenienza. Tuttavia, l'aspetto più delizioso dell'inventio poussiniana è secondo noi fornito dal fatto che il dito di Arpocrate non indica più la lettera D come nel quadro precedente, bensì la R. Che ora la lettera latina che viene indicata sia proprio la R, ermeticamente equivalente alla Ρ (rho) greca e alla  (resh) ebraica, ci mostra in modo lampante quanto il Poussin della maturità fosse progredito, rispetto a quello giovanile, nella sua capacità di sintesi semantica. Kabbalisticamente, la  corrisponde a Saturno. Simbolizza la testa dell'uomo. Secondo Boehme, la  trae la sua origine dalla facoltà ignea della natura e a causa di ciò è l'emblema del fuoco. Basterebbe questo a mostrare che la R, per la sua maggiore estensione semantica, esprime il segreto del caput mortuum o saturno dei filosofi in modo più pregnante che non la D. Tuttavia, questa lettera presentava il vantaggio di dire qualcosa di preciso intorno alla soluzione del problema, cioè a quell'aria che era lo strumento necessario per estrarre le ossa saline dalla carne metallica di Osiride. A uno sguardo superficiale sembrerebbe dunque che la sostituzione implichi la perdita di un'informazione a vantaggio di un'altra ma se si considerano le cose più attentamente ci si rende conto che non è affatto così: il riferimento all'aria non sparisce affatto ma rimane pienamente evocato da la erre, l'aere. Non si può non rimanere incantati dal genio enigmistico di Poussin: sostituendo la R alla D riesce a darci addirittura - e in un modo estremamente elegante - un supplemento di informazione rispetto a quanto era contenuto nel quadro precedente. Il quadro esprime dunque soltanto una retrodatazione della tradizione arcadica, e formula un differente giudizio quanto alla sua origine. Conformemente a ciò, la frase Et in Arcadia ego cambia ancora quanto all'enunciatore e al suo senso: è ora Iside stessa a pronunciarla, esprimendovi il fatto che la tradizione che la concerne è stata importata in Arcadia dall'Egitto. Io, Iside, sono venuta anche in Arcadia. Ma - domandiamoci - se i due quadri parlano veramente di tutto ciò perché un titolo così fuorviante come "I pastori d'Arcadia"? Secondo noi la soluzione è come sempre semplice,


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lineare, e risiede ancora nella tradizione ermetica. Abbiamo visto che quando Félibien, nel suo libro, vuol parlare dell'amico Poussin, sceglie come interlocutore quel "tale Pymandre" di cui abbiam discusso più sopra. Ora, Pimandro in greco vuol dire esattamente pastore. Ecco cosa ci dice in proposito Françoise Bonardel, docente di filosofia della religione alla Sorbona, nel suo La via ermetica (Atanòr, Roma, 1998): "Uno dei primi commentatori moderni dell'ermetismo, Louis Ménard, ha evocato <<quella sorprendente chimca intellettuale il cui laboratorio principale si trovava ad Alessandria>>. I libri ermetici avrebbero rappresentato l'elemento unificatore tra gli gnostici (sia le sette conosciute con questo nome sia la scuola ebraica di Filone l'Alessandria) e i neoplatonici Plotino e Ammonio Sacca. Ménard pone anche l'accento su quella sorta di tradizione "pastorale" - il Pimandro è in effetti un pastore - derivata dalle scuole dei terapeuti egiziani (Ménard rinvia al De agricultura di Filone, al Pastore di Erma e al Timeo di Platone). L'insegnamento di questa tradizione si sarebbe tramandato proprio attraverso la rivelazione ermetica, per la quale il trismegisto diviene l'iniziato e l'iniziatore supremo della Gnosi".

E poco oltre: "Il Corpus Hermeticum offre quindi da un trattato all'altro, da un discorso all'altro, da un incantesimo all'altro, degli esempi di questa catena di iniziati destinata a perpetuare la tradizione ermetica: dal Nous a Pimandro, da Pimandro ad Ermete, da Ermete a Tat, da Iside a Horus ... è sempre il solo e unico Verbo divino che pneumatizza la Creazione attraverso coloro che ne sono i <<pastori>>".

Non crediamo che le due citazioni necessitino di commento: il titolo dei quadri non si riferisce affatto a individui dediti alla pastorizia bensì ai custodi di una tradizione. E con questo il mio compito è terminato: anche se inusuale l'ipotesi è chiara, coerente, documentata ed esposta nel dettaglio. Ai lettori il compito di giudicarla. Tuttavia resta solo un'ipotesi che - come ho detto - non perderò tempo a difendere. Dopotutto potrebbe darsi benissimo che Guercino sia stato solo un autodidatta ignorante nonché marcatamente bigotto, Poussin un classicista interessato solo alla mitologia letteraria e Pimandro un amico personale di Félibien: al mondo può succedere di tutto!

----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 3 di Episteme] f.baldini@thelema-spf.org


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La fine del mondo secondo la Bibbia e secondo la scienza (Francesco Vitale) Sommario: L'Autore, dopo una disamina puntuale di alcuni passi escatologici di contenuto astronomico del Vecchio e del Nuovo Testamento, conclude che le spaventose catastrofi, in essi descritte in modo sintetico ma efficace e riguardanti l'intero pianeta, sono proprio quelle che secondo la moderna astronomia rientrano tra quelle possibili per la Terra e per il Sistema Solare, tenendo anche conto delle recentissime scoperte di nuovi corpi celesti al di là di Plutone. Se si accettano queste conclusioni, allora si pone lo scabroso problema epistemologico riguardante la fonte delle conoscenze alla quale i profeti avrebbero dovuto attingere - in un passato in cui la scienza e la tecnica erano ancora rudimentali - per prevedere per il nostro pianeta lo stesso terribile futuro che soltanto oggi, con una certa sicurezza, siamo in grado di delineare e che in tutti noi può destare non soltanto curiosità, ma anche apprensione e angoscia. L'Autore infine discute le possibili soluzioni di questo problema, che fa parte di quello più generale del rapporto tra scienza e fede.

******* La Bibbia costituisce la raccolta dei testi sacri di due religioni: la religione cristiana (con tutte le sue confessioni, delle quali le più seguite sono quella cattolica e quella protestante) e la religione ebraica. Quest'ultima, molto più antica della prima, adotta come testo sacro quasi tutti gli scritti che i cristiani inseriscono nel cosiddetto Vecchio Testamento. In ogni caso, tutti i veri credenti appartenenti a queste religioni devono prendere atto che la Bibbia non ha soltanto un contenuto storico e morale: diversi scritti che la compongono sono infatti costituiti da opere profetiche, anche se varie profezie si trovano in altre parti della raccolta aventi però un contenuto diverso. Ebbene, le profezie non si riferiscono soltanto alla vita futura dopo il Giudizio Universale, cioè al Regno dei Cieli del quale faranno parte soltanto coloro che Dio avrà scelto; in esse sono contenute descrizioni sia di fatti storici non ancora accaduti, sia di sconvolgimenti che avranno enorme portata per il pianeta Terra. Queste descrizioni, contenute sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento, come ora vedremo, non sono in contraddizione tra loro, ma mirabilmente si completano e si confermano reciprocamente: ciò significa che, almeno per quanto riguarda il mondo fisico, in tutta la Bibbia c'è un'identità di contenuto. Allora diventa possibile procedere ad un esame dei fenomeni celesti preannunciati, utilizzando le conoscenze scientifiche di cui disponiamo: senza uno studio condotto con il dovuto rigore, ci si troverebbe infatti di fronte alla profonda e deleteria dicotomia tra ciò che deve essere oggetto di fede e ciò che è la realtà fisica nella quale siamo immersi e dalla quale non dobbiamo allontanarci. La necessità di questo esame dovrebbe essere sentita dallo studioso credente; ma anche l'ateo dovrebbe esserne interessato, se veramente vuole restare nella convinzione che la Bibbia non ha alcun fondato legame con la realtà fisica. Chi invece oggi, per convincere gli altri che le Sacre Scritture sono l'unica fonte di verità, tenta di spiegare le terribili catastrofi descritte dai profeti semplicemente facendoli passare per fenomeni soprannaturali prodotti da Dio e da accettare per fede giacché mai sono stati osservati in natura o perché non sono verificabili dalla scienza, non soltanto fa il gioco degli atei, ma mette a dura prova la fede dello scienziato credente, che potrebbe perciò essere indotto a non considerare più gli scritti sacri come fonte di certezza e, soprattutto, di speranza. Ancora più grave ci sembra poi la posizione del credente che considera le profezie soltanto paterne minacce espresse da Dio per spingerci a tornare a lui con il terrore dei suoi castighi.


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Il contenuto di questo articolo rappresenta non soltanto un tentativo di spiegare col metodo scientifico le catastrofi finali descritte dalla Bibbia e riguardanti la Terra e il Sistema Solare, ma anche il punto di partenza e lo stimolo per studi più approfonditi che potranno essere intrapresi dai lettori preparati. L'Apocalisse di Giovanni, l'ultimo degli scritti del Nuovo Testamento, è indubbiamente il testo escatologico più conosciuto; tuttavia non è l'unico a trattare gli avvenimenti finali riguardanti l'umanità e il pianeta Terra e nemmeno è il più ricco di particolari; ha però il vantaggio di lasciare intravedere una ben definita linea storica, anche se volutamente presentata in modo oscuro e confuso. La complessità del testo e le conseguenti difficoltà interpretative richiedono uno studio molto attento di questo testo, che sembra in gran parte dedicato alle tribolazioni, provocate da Satana, che affliggeranno tutta l'umanità e soprattutto gli Ebrei. Di questo scritto la figura centrale, sulla quale Giovanni si sofferma di più, è quella dell'Anticristo, che riceverà da Satana tutto il suo potere quando sarà giunto il tempo in cui gli sarà concesso di agire. Immane flagello per il mondo intero, riuscirà a tenere in suo potere tutte le nazioni della Terra, perpetrando un nuovo olocausto di tutti coloro che non lo adoreranno come Cristo per il quale si spaccerà. Una volta terminata l'anticristiana tirannide, seguirà una pace universale della durata di mille anni. Dopo questo periodo, paragonabile ad una nuova Età dell'Oro e che porterà grande prosperità a Gerusalemme e alla sua terra, Satana avrà di nuovo il potere di agire contro l'umanità, ma soprattutto contro il popolo eletto. Egli riuscirà a mettere a punto un attacco proprio contro la "città diletta", istigando le orde barbariche e sanguinarie provenienti dalle terre del nord e guidate dall'ultimo Anticristo: Gog, re di Magog. Contro gli abitanti di Gerusalemme sarà allora perpetrato un altro e più terribile olocausto, chiamato in tutti gli scritti profetici "grande tribolazione". Ma la vendetta di Dio sarà immediata e i bellicosi popoli invasori subiranno una disfatta spaventosa. Subito dopo questa tribolazione (come è precisato nel Vangelo secondo Matteo - Cap. XXIV) leggiamo nell'Apocalisse (Cap. VI, v. 12 e segg.): "Si udì un gran terremoto; il sole si offuscò in modo da apparire nero come un sacco di crine; l'intera luna prese il colore del sangue; le stelle del cielo precipitarono sulla terra come i frutti tardivi di un fico scosso da un vento gagliardo; il cielo si accartocciò come un rotolo che si ravvolge e tutti i monti e le isole scomparvero dai loro posti. Allora i re della terra, i maggiorenti, i comandanti militari, i ricchi e i potenti e tutti gli schiavi e le persone libere si rifugiarono nelle spelonche e tra le rocce dei monti e dissero: <<Cadeteci addosso e nascondeteci dalla presenza di Colui che siede sul trono e dall'ira dell'Agnello, poiché è giunto il gran giorno della loro ira e chi potrà resistere? >>". E più avanti (Cap. XXI): "Poi vidi nuovi cieli e una nuova terra: infatti il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c'era più". Segue la descrizione della Gerusalemme Celeste che scende dal cielo e che sarà la dimora di Dio e di tutti coloro che, dopo il Giudizio Universale, saranno ammessi a farne parte. Per la nostra ricerca è risultato molto importante questo passo di Isaia (Cap. XIII - v. 9 e segg.): "Ecco il giorno del Signore giunge: giorno crudele, d'indignazione e di sdegno, che farà della terra un deserto e ne distruggerà i peccatori. Infatti le stelle del cielo e le costellazioni non faranno brillare la loro luce; il sole si oscurerà fin dalla sua levata e la luna non farà più risplendere il suo chiarore. Punirò il male sulla terra e i malvagi per la loro iniquità". La traduzione di questo passo che abbiamo ora riportato è la più diffusa; tuttavia, per quanto riguarda le parole che abbiamo evidenziato in corsivo, essa non è corretta. Risulta infatti evidente che, se le stelle del cielo perdono la loro luce, la perdono anche le costellazioni, perché queste ultime sono semplicemente dei collegamenti ideali tra determinate stelle e variabili da una civiltà all'altra, che consentono di ottenere figure - legate ai miti o alla realtà quotidiana - semplici da ricordare e quindi facilmente riconoscibili sulla volta celeste.


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Soltanto nella Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture (cioè quella dei Testimoni di Geova) leggiamo: "... poiché le medesime stelle dei cieli e le loro costellazioni di Chesìl non irradieranno la loro luce"; ma ancora il significato non è chiaro. L'inserimento della parola "Chesìl" in questa traduzione ci ha però costretti alla lettura diretta del testo ebraico. Qui leggiamo "E le stelle dei cieli (in ebraico "cielo" è plurale) e i loro Chesìl (   ) non daranno la loro luce". Ebbene, Chesìl (   ) è propriamente la costellazione di Orione, come vedremo tra poco: perché dunque è usato il plurale? La sola spiegazione plausibile ci sembra quella di un riferimento ad altre costellazioni di forma simile a quella di Orione. Questa bellissima e grande costellazione, visibile verso mezzanotte a sud sul finire dell'anno, è riconoscibile immediatamente perché ha la forma di un enorme quadrilatero.

(Figura 1)


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La figura 1 mostra appunto l'aspetto del cielo come appare ad un osservatore posto alla latitudine di Gerusalemme quando Orione culmina. Ebbene, nei suoi pressi si trovano due costellazioni, quella dei Gemelli e quella dell'Auriga, che presentano la stessa forma quadrangolare propria della costellazione di Orione e quasi le stesse dimensioni. Nella figura, i quadrilateri determinati dalle principali stelle delle costellazioni interessate sono rappresentati con linee tratteggiate. Questa nostra interpretazione trova due importanti conferme. La prima viene dal significato di Chesìl, che in ebraico significa "matto", "folle". Ebbene, gli studiosi di esoterismo considerano i tarocchi un retaggio delle antiche e segrete conoscenze ebraiche. Uno degli "arcani maggiori" è "Il Matto", raffigurato da un uomo che trasporta un fardello e che, mentre cammina, viene azzannato alla coscia da un cane. Nella figura si può infatti vedere che, al di sotto della costellazione di Orione, che quasi tutte le antiche civiltà hanno associato ad una figura umana, c'è la costellazione chiamata Cane Maggiore - nella quale brilla fulgidissima la stella Sirio - che ha veramente l'aspetto di un cane che sembra spiccare un salto verso Orione. Anche i Greci collegavano il gigante Orione alla costellazione del Cane. Ma al di sopra di questa costellazione c'è quella del Cane Minore e, ancora più su, quella dei Gemelli, che pure ha la stessa forma quadrangolare di Orione: perciò si può ben dire che queste due ultime costellazioni ricordino le precedenti. La seconda conferma alla nostra interpretazione viene dal seguente passo delle profezie di Amos (Cap. V - v. 8); "Egli (il Signore) ha fatto le costellazioni di Chimà e di Chesìl, muta l'ombra di morte in aurora e fa del giorno una notte oscura; chiama le acque del mare e le riversa sulla faccia della terra.", passo che questa volta tutti i traduttori rendono correttamente traducendo Chimà e Chesìl con "(le) Pleiadi e Orione". Facciamo notare che Amos ha scritto le sue profezie intorno all'anno 800 a.C., quasi un secolo prima dell'epoca di Isaia. Anche Giobbe (Cap. IX) cita le costellazioni di Ash (l'Orsa Maggiore), di Chimà e di Chesìl: "Egli (il Signore) trasporta le montagne senza che se ne accorgano; nel suo furore le sconvolge. Egli scuote la terra dalle sue fondamenta e le sue colonne tremano. Comanda al sole ed esso non si leva; mette un sigillo alle stelle. Da solo spiega i cieli e cammina sulle più alte onde del mare. E' il creatore dell'Orsa, delle Pleiadi, di Orione e delle misteriose regioni del cielo australe". Anche questo passo, come il precedente, è tradotto correttamente in tutte le versioni della Bibbia. Le cause di questi fenomeni sconvolgenti devono essere ricercate in altri scritti biblici non propriamente profetici. Il più importante è la Seconda Epistola di Pietro. Nell'ultimo capitolo si legge tra l'altro: "Negli ultimi giorni verranno schernitori sarcastici, i quali (a proposito del ritorno di Gesù) diranno: << Dov'è andata a finire la promessa del suo ritorno? Da quando i padri si addormentarono (nella morte) tutto è rimasto come all'inizio della creazione>>. A coloro che fanno tali affermazioni arbitrarie sfugge che i cieli, in principio, esistevano e che la terra prese consistenza dall'acqua e per mezzo dell'acqua in forza della parola di Dio. Perciò il mondo di allora andò in rovina, sommerso dall'acqua, mentre i cieli di adesso e la terra sono tenuti in serbo per il fuoco, secondo questa stessa parola, e mantenuti per il giorno del giudizio e della condanna degli uomini empi". E più avanti: "Il giorno del Signore sopraggiungerà come un ladro: allora i cieli scompariranno in un sibilo e gli elementi si scioglieranno nel fuoco assieme alla terra e a tutte le opere che in essa saranno trovate. Così, dato che tutto questo dovrà dissolversi, come dovete voi vivere una condotta di santità e di pietà, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, quando i cieli, incendiandosi, si scioglieranno e gli elementi si fonderanno nel calore! Secondo la sua promessa, aspettiamo un cielo nuovo e una terra nuova, in cui soggiorni la giustizia.". Facciamo notare che l'apostolo ritenne molto importanti queste informazioni per ripeterle tre volte nella sua lettera. Nel discorso profetico di Gesù la descrizione degli ultimi avvenimenti contiene alcune importanti precisazioni. Nel Vangelo secondo Matteo (Cap. XXIV) si legge: "Subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze celesti saranno sconvolte. Allora apparirà nel cielo il segno del


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Figlio dell'uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra e vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e splendore". E più avanti: "Comprendete la parabola del fico: quando il suo ramo diventa tenero e produce le foglie, sapete che l'estate è prossima. Così anche voi, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutte queste cose accadano. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto al giorno e all'ora, nessuno lo sa, neppure gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre. Vigilate, poiché non sapete in che giorno verrà il vostro Signore". Nel vangelo di Marco (Cap. XIII), si trovano quasi le stesse parole. Questi sono dunque i passi che ci accingiamo a commentare, partendo dal presupposto che essi costituiscano una descrizione precisa di eventi naturali che ancora non si sono verificati. Crediamo che siano chiaramente indicati i seguenti fenomeni: - l'improvviso oscuramento del disco solare, la cui durata non è precisata, e il contemporaneo arrossamento del disco lunare al plenilunio (nell'Apocalisse è scritto: "l'intera (‘όλη) luna"); il tutto accompagnato da fenomeni sismici di eccezionale intensità; - l'oscuramento progressivo delle stelle - diventate visibili per la mancanza della luce solare che si estenderà gradatamente fino a ricoprire le costellazioni dei Gemelli, dell'Auriga, di Orione e delle Pleiadi (queste oggi fanno parte della costellazione del Toro); - un bombardamento meteorico (la "caduta di stelle"), dopo la fase precedente, e la conseguente mutazione dell'orografia terrestre e della distribuzione delle distese marine (probabilmente destinate in gran parte a scomparire o a subire enormi spostamenti) in seguito a spaventosi maremoti. La descrizione di questi fenomeni, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, consente subito di effettuare alcuni calcoli che potrebbero far luce sulle cause degli eventi profetizzati. Innanzi tutto appare chiaro che l'eclisse di Sole descritta non è causata dalla Luna: questa infatti al plenilunio, trovandosi rispetto alla Terra dalla parte opposta a quella del Sole, non soltanto non potrebbe oscurarlo, ma essa stessa, come leggiamo, sarà parzialmente oscurata. La causa di questi fenomeni si deve dunque attribuire al passaggio di un corpo celeste opaco, che si frapporrà tra il Sole e la Terra. Allora il cono d'ombra da esso prodotto e nel quale verrà a trovarsi la Terra al momento del suo passaggio sarà tale da avvolgere completamente il nostro pianeta, ma parzialmente la Luna. Infatti durante un'eclisse lunare, una parte del disco del nostro satellite, prima della fase della totalità, acquista un bel colore rosso vivo appena comincia a entrare nel cono d'ombra prodotto dalla Terra; ciò avviene perché i raggi solari che, passando attraverso l'atmosfera terrestre e rifratti, riescono ancora a illuminare parzialmente la Luna sono quelli rossi, dal momento che le radiazioni azzurre vengono diffuse (e quindi disperse) dai gas in misura maggiore (effetto Rayleigh). La condizione che la Luna sia interna al cono d'ombra prodotto da questo corpo sconosciuto, ma sia vicinissima alla superficie laterale del cono stesso, consente allora di ricavare, attraverso semplici considerazioni geometriche, importanti informazioni riguardanti la distanza minima dalla Terra e il diametro del corpo, nell'ipotesi che esso abbia forma sferica. Per semplicità supporremo che la Luna si trovi proprio sulla superficie laterale del cono. Prima di passare ai calcoli, facciamo notare che le Pleiadi e le costellazioni di Orione, dei Gemelli e dell'Auriga sono tutte comprese in un cerchio avente il centro proprio su quella linea ideale (che è un cerchio massimo della sfera celeste) chiamata "eclittica". Quest'ultima rappresenta l'insieme delle posizioni assunte dal Sole durante il suo percorso apparente nel cielo e non è altro che l'intersezione del piano dell'orbita terrestre con la sfera celeste, piano che è perciò chiamato "piano dell'eclittica". Il termine "eclittica" deriva dal fatto che proprio


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quando il Sole è su questa linea si verificano le eclissi. Nella figura 1 è rappresentato il cerchio anzidetto, che ha un raggio di circa 30°. Allora è chiaro che il passo di Isaia consente di stabilire il diametro del campo stellare occultato, mentre il passo di Amos precisa e conferma che il limite della zona oscurata passa per Orione e per le Pleiadi. Un altro elemento che si può stabilire è la durata massima dell'eclisse. Ebbene, l'indicazione che la Luna apparirà durante il fenomeno in tutta la sua interezza consente di stabilire che la durata complessiva non dovrebbe superare i sette giorni: infatti la frazione illuminata del disco lunare si mantiene superiore all'85% tre giorni e mezzo prima e dopo l'istante del plenilunio. Bisogna ancora tenere presente che il piano dell'orbita lunare è inclinato di 5° 9' (5°,15) rispetto al piano dell'eclittica: occorre perciò considerare due situazioni estreme e cioè quella in cui la linea dei nodi di questo piano (ovvero la sua retta di intersezione col piano dell'eclittica) sia ortogonale alla retta congiungente la Terra col Sole e l'altra situazione in cui invece sia quasi coincidente con quest'ultima.

S3S = LpL' (Figura 2) La figura 2, che mostra il Sole, la Terra, il corpo e la Luna sul piano ortogonale sia al piano dell'eclittica (Π) che al piano dell'orbita lunare (Σ) e passante per i centri di tutti questi corpi celesti allineati, illustra la prima situazione che è quella in cui il nostro satellite al plenilunio si trova alla massima distanza rispetto al piano dell'eclittica. Per chiarezza, in questa figura e nella successiva non sono stati rispettati i rapporti effettivi tra le distanze dei corpi celesti. La retta congiungente la Terra con la Luna, tre giorni e mezzo prima o dopo il plenilunio, forma un angolo di circa 45° con quella che congiunge la Terra con la Luna al plenilunio. Indicheremo con L1 e L2 queste due posizioni del nostro satellite e con Lp quella relativa al plenilunio. Si vede subito che è sufficiente che il raggio della sezione del cono d'ombra nel punto in cui esso avvolge la Luna, sia uguale alla distanza del nostro satellite da Π (segmento LpL') affinché esso si trovi proprio sulla superficie del cono d'ombra, diventando perciò rossastro. Le distanze di L1 e di L2 da Π sono invece pari al 70% circa di LpL'. Per semplicità trascureremo nei nostri calcoli il raggio lunare rispetto a tutte le distanze in gioco. In figura, S è il centro del Sole e T il centro della Terra. Il segmento ST è la di stanza della Terra dal Sole. Utilizzeremo nei calcoli il suo valore medio, che è l'unità astronomica delle distanze planetarie. E' noto che 1 UA (Unità Astronomica) è pari a 149.600.000 km. Il segmento S1S, ortogonale al segmento ST e che costituisce il raggio della base del cono d'ombra su cui si trova il Sole, si può ritenere con buona approssimazione coincidente col raggio di quest'ultimo (segmento S2S), il cui valore è di 696.000 km: ciò perché la semiapertura del predetto cono, con i valori delle distanze in gioco, è sempre inferiore a 1°.


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Nell'ipotesi semplificativa che l'orbita ellittica della Luna sia circolare (l'eccentricità è 0,055) e tenendo presente la figura, si ha: LpL' = DTL sin(5°,15) ; TL' = DTL cos(5°,15) . DTL è la distanza media Terra-Luna, che è di 384.000 km. Si ottiene così: LpL' = 34.000 km ; TL' = 382.000 km. Si può quindi ricavare, tenendo ancora presente la stessa figura:

tg(α) =

S1S - LpL' . ST + TL'

Se si ricava α da questa formula, si ottiene un valore di 0°,253 , inferiore a 1°. Se si indica con V il vertice del cono d'ombra, si ricava allora: L'V = LpL'/tg(α) = 7.703.000 km . Se si indica con R c il raggio del corpo oscurante (che, come abbiamo potuto stabilire, sottende un angolo di 30° e in figura è dato dal segmento CC 1) e con x la distanza incognita del corpo da T, risulta: Rc = x tg(30°) . Ma si ha pure: Rc = (x + TL' + L'V) tg(α) quindi: x tg(30°) = (x + TV) tg(α) , essendo: TL' + L'V = TV. Risolvendo quest'equazione nell'incognita x, si ottiene: x = TV

tg(α ) tg(α ) ≅ TV . tg (30° ) - tg(α ) tg (30° )

Eseguendo i calcoli, si determina x = 62.000 km e da questo valore si ricava subito Rc = x tg(30°) = 36.000 km . Nel caso in cui la Luna dovesse trovarsi nelle posizioni L 1 o L2, i valori di x e di R c sono pari al 70% di questi.


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Occorre ora esaminare il caso in cui la Luna, al plenilunio, si trovi sulla retta passante per ST: in questo caso il cono d'ombra prodotto dal corpo ha le stesse dimensioni del cono d'ombra prodotto della Terra (figura 3).

(Figura 3) Se si indica con RT il raggio medio terrestre, che è di 6370 km, e con V il vertice del cono d'ombra, si ottiene: tg(α) =

S1S - R T . ST

Anche in questo caso α è inferiore a 1° (0°,264). Quindi: TV = RT/tg(α) = 1.382.000 km . Indicando ancora con x la distanza del corpo dal centro della Terra, si ha: Rc = x tg(30°) e Rc = (x + ST + TV) tg(α) . Operando come in precedenza, si ricava: x = 11.000 km , e quindi: Rc = 6.400 km . Questi risultati consentono subito di stabilire le caratteristiche fisiche di questo corpo. Nell'ipotesi che questo abbia forma sferica, anche attribuendogli una densità quasi uguale a quella dell'acqua (come quella di Saturno), un diametro che può variare da un valore che è uguale a quello della Terra a un valore che è la metà di quello di Giove comporterebbe una massa in grado di provocare, con la sua attrazione gravitazionale, lo sbriciolamento del globo terrestre addirittura a distanza, anche in assenza di collisione. Queste semplici considerazioni sembrerebbero privare di ogni attendibilità le profezie bibliche, ma non è così. Nulla infatti vieta di supporre che il corpo non sia massiccio, ma sia costituito da una ammasso di piccoli corpi, distribuiti lungo la sua orbita, che dovrebbero conferire a questo oggetto celeste un aspetto simile a quello che presentano le comete, ma una struttura come quella degli anelli di Saturno, costituiti, come sembra, dai frammenti di un satellite sbriciolato dall'attrazione gravitazionale del pianeta. Questi piccoli corpi potrebbero quindi essere i frammenti di un corpo inizialmente compatto e andato in pezzi dopo una


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collisione con un altro corpo, come spiegheremo meglio più avanti. Allora la massa effettiva di questo corpo potrebbe essere molto contenuta e tale da non produrre a distanza la distruzione della Terra. Questa nostra ipotesi sembra rafforzata sia dal paragone calzante col "sacco di crine" (che lascia sempre passare dai suoi interstizi un po' di luce quando lo si tiene disteso in direzione del Sole), sia dalla descrizione del bombardamento meteorico che dovrebbe aver luogo dopo l'avvicinamento massimo di questo oggetto, quando la Terra intercetterà una parte dei frammenti del corpo. Quindi, per quanto devastanti, queste numerose collisioni non porterebbero alla distruzione completa del nostro pianeta, come le stesse profezie lasciano intendere. I limiti ricavati poc'anzi entro cui può variare il diametro del corpo e la sua distanza dalla Terra sono piuttosto ampi. Per eliminare queste incertezze e per determinare un valore possibile per la distanza minima effettiva del nostro corpo, nel rispetto delle condizioni imposte dalle dimensioni del suo cono d'ombra, bisogna ricorrere alla meccanica celeste. Allora è necessario fare delle ipotesi sull'orbita di questo corpo. Le profezie sono molto esplicite sul fatto che esso non sarà visibile prima dell'eclisse prodotta dal suo passaggio, perché giungerà di sorpresa. Se dunque apparirà per la prima volta vuol dire che esso proverrà da regioni remote dello spazio interplanetario: la sua orbita dovrà dunque presentare un semiasse maggiore lungo parecchie unità astronomiche, ma dovrà consentire al corpo di avvicinarsi abbastanza al Sole in modo da tagliare l'orbita della Terra. Queste condizioni comportano un'eccentricità molto elevata per l'orbita che può allora essere studiata come se fosse parabolica, perché alla distanza Terra-Sole la differenza con un'orbita ellittica molto allungata è assolutamente trascurabile. Il fatto che un corpo così grosso non sarà avvistato nel cielo durante la fase di avvicinamento alla Terra non deve stupirci: ciò infatti accade per tutti quei corpi celesti (come le comete e gli asteroidi) che, durante questa fase, si spostano in modo da apparire dalla Terra sempre vicini alla posizione del Sole, che, abbagliandoci, ci impedisce di avvistarli. Si può dimostrare che, per località aventi latitudini comprese tra i 32° e i 50° (come quelle dei più popolati paesi dell'Europa e dell'Asia), questa condizione comporta che la direzione di provenienza del corpo dovrà formare con la direzione del Sole un angolo non superiore a 30°. Questa condizione si traduce nel fatto che l'orbita non dovrà avere una distanza del perielio (dal Sole) - che si indica con "q" in meccanica celeste superiore a 0,5 UA. Il corpo dovrà inoltre spostarsi con moto diretto (come è quello della Terra e dei pianeti) in modo da affiancarsi alla Terra durante l'eclisse per un certo tempo, prima di collidere con essa; il piano della sua orbita dovrà perciò coincidere col piano dell'eclittica. Intanto possiamo cercare di stabilire quando dovrebbe verificarsi questa serie di eventi così spaventosi. Gesù ha chiaramente precisato che "questa generazione (γενεά) non passerà prima che tutte queste cose siano avvenute". La traduzione di γενεά con "generazione" è, a nostro avviso, poco felice, perché può allontanare dal significato di "stirpe", "discendenza", che la stessa parola greca può avere. Gesù voleva dunque precisare che gli ultimi avvenimenti si dovranno verificare quando sarà trascorso, a partire dal momento in cui egli faceva questa profezia, un periodo di tempo inferiore a quello trascorso dall'inizio della generazione adamitica, cioè dal momento in cui fu creato Adamo. Peraltro, il vangelo secondo Matteo e quello secondo Luca riportano dettagliatamente la genealogia di Gesù, che risale fino ad Adamo. Con questa nostra interpretazione, la figura di Cristo si troverebbe temporalmente proprio a metà tra la creazione e la fine del mondo. Per stabilire l'anno in cui ebbe inizio la generazione adamitica sono stati fatti, anche in passato, diversi studi. Il più noto è quello dell'arcivescovo irlandese James Ussher (15801656), che faceva risalire al 4004 a.C. l'anno della creazione di Adamo. Più recente è quello dei Testimoni di Geova, che spostano questa data al 4024 a.C. Infine, il calendario ebraico ortodosso inizia dal 3761 a.C., anno della fondazione del mondo. Il divario tra queste date è scoraggiante, perché si può soltanto presumere che gli avvenimenti finali dovranno verificarsi


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prima della fine del prossimo millennio, sempreché questa nostra interpretazione sia giusta. Comunque bisogna tenere presente che ci sono due buone ragioni che impedirono la rivelazione di questa data, come si evince dalla lettura dei passi biblici che riportano il discorso escatologico di Gesù. La prima è che le ultime catastrofi giungeranno di sorpresa per mettere alla prova coloro che avranno conservato la fede e che dovranno perciò restare sempre vigili; la seconda è che queste stesse catastrofi porteranno alla distruzione dei malvagi, i quali non dovranno avere la possibilità di prevederle e di mettersi quindi in salvo. Tuttavia, per coloro che, come noi, non dovrebbero prendere parte agli ultimi avvenimenti (se questo nostro studio corrisponde a verità), resta, anche se vaga, un'indicazione che, se da una parte può appagare in qualche modo la curiosità, dall'altra costituisce un monito per noi e per le future generazioni che dopotutto non manca molto al compimento dei disegni divini. Poi, se si tiene presente che il regno dell'Anticristo si concretizzerà con la conquista del potere politico mondiale da parte di un unico dittatore, è possibile che, con la presenza attuale di poche superpotenze, si assista all'avvento dell'anticristiana tirannide prima della fine del presente millennio. Dopo il periodo di "pace universale" di mille anni, tenendo conto che un certo tempo sarà necessario all'ultimo Anticristo per organizzare un attacco contro Gerusalemme, l'ipotesi che gli ultimi tempi arriveranno alla fine del prossimo millennio potrebbe essere fondata. In ogni caso queste considerazioni portano a giudicare false, allarmistiche e tendenziose tutte le voci che oggi ancora annunciano con ridicola sicurezza che la storia umana finirà tra qualche anno e che si avvalgono delle stesse superficiali argomentazioni utilizzate anni fa da altri ciarlatani per stabilire per l'anno 2000 la fine di un mondo che continua ancora ad esistere, tranquillo, a dispetto delle loro asserzioni. Fortunatamente il numero dei "falsi profeti" sembra diminuito dopo il mancato avverarsi delle loro predizioni; ma il loro insuccesso ha anche screditato le stesse profezie che hanno voluto interpretare. Ma torniamo al nostro corpo celeste. Adottando una distanza q = 0,5 UA, si ottiene per il corpo l'orbita riportata nella figura 4 insieme con l'orbita della Terra.

(Figura 4) Da questa figura il lettore può facilmente verificare che la direzione secondo la quale il corpo è visto dalla Terra, andando indietro nel tempo rispetto all'istante del massimo


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avvicinamento, non forma mai con la direzione del Sole un angolo maggiore di 30°, tenendo presente che un mese prima dell'impatto il corpo si trova al perielio P e la Terra nel punto T 0 . La figura 5 è stata ricavata con l'ausilio del computer (da noi programmato per risolvere vari problemi di meccanica celeste) e mostra le posizioni della Terra e del corpo a distanza di 24 ore.

(Figura 5)

Si vede che quando la Terra è in T 1, T2, ... , T6 il corpo è in C1, C2, ... , C6 . Ebbene, prima dell'impatto, la velocità del corpo è tale da farlo spostare troppo rapidamente rispetto alla congiungente Terra-Sole ed occorre perciò attribuire al corpo una coda di considerevole lunghezza perché si possa avere un'eclisse della durata di qualche giorno. Ciò avviene perché la velocità del corpo sull'orbita è continuamente variabile e diminuisce via via che aumenta la sua distanza dal Sole. La velocità della Terra sull'orbita è invece pressoché costante perché varia pochissimo la sua distanza dal Sole. Con una distanza q = 0,4 UA si ha invece, qualche giorno prima dell'impatto, uno spostamento del corpo troppo lento rispetto alla congiungente Terra-Sole e l'eclisse non potrebbe verificarsi (figura 6).


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(Figura 6) Invece una distanza q = 0,45 UA soddisfa pienamente la condizione richiesta per l'eclisse. Come si evince dalla figura 7, l'eclisse può iniziare tre giorni prima dell'impatto; poi il corpo e la Terra si spostano in modo da restare allineati col Sole durante questo tempo. In questo caso lo sviluppo del corpo lungo la sua orbita può essere modesto.

(Figura 7)

Intanto possiamo subito stabilire a quale distanza dalla Terra il corpo comincerĂ a eclissare il Sole. Supponiamo che il raggio apparente del corpo abbia il valore massimo che avevamo


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trovato attraverso le condizioni imposte dalle dimensioni del suo cono d'ombra (cioè R c = 36.000 km); se indichiamo con γ l'angolo sotteso dal raggio del disco solare, che ammonta a 0°,25, si ottiene subito che la distanza D del nostro corpo dalla Terra affinché esso oscuri completamente il Sole è dato da: D = R c ∕ tg(γ) . Con il valore di R c ipotizzato, si ottiene D = 8.250.000 km. Questa è quasi esattamente la lunghezza del tratto percorso intorno al Sole dalla Terra in tre giorni, come si può facilmente verificare tenendo conto che la sua velocità media sull'orbita è di 29,9 km/s; tre giorni è anche, come abbiamo trovato poc'anzi, il tempo richiesto dall'orbita del corpo! Allora il valore effettivo del raggio di quest'ultimo deve essere vicino a quello massimo che avevamo determinato. Esaminiamo ora l'ultima figura (8), che riporta le posizioni del corpo e della Terra poco prima dell'impatto.

(Figura 8) Le loro orbite si possono assimilare, per un breve tratto, a segmenti rettilinei. L'angolo secondo cui l'orbita del corpo taglia quella della Terra è di circa 45°; ma la velocità dal corpo su un'orbita parabolica alla distanza di 1 U.A. è esattamente uguale a √2 volte la velocità della Terra: pertanto, di quanto si sposta il corpo sulla sua orbita, di tanto si sposta la Terra sulla sua: entrambi vengono perciò a trovarsi sempre allineati col Sole. Quando il centro del corpo si trova in C 1 e quello della Terra in T 1, il corpo sottende un angolo di circa 30°. Successivamente, quando il corpo e la Terra sono rispettivamente in C 2 e in T2, l'angolo sotto cui è visto il corpo diventa di 50°; la macchia scura circolare che appare sul cielo, oltre a dilatarsi, comincia a spostarsi lentamente verso destra, mantenendo sempre il suo centro sull'eclittica. Con il corpo in C 3 e la Terra in T3 siamo al massimo avvicinamento e


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l'angolo sotto cui è visto il corpo è di 60°. Poi la macchia scura appare spostarsi velocemente, sicché le stelle sembreranno come segnate su un rotolo di pergamena che via via si avvolge facendole sparire. Con la Terra in T 4 e il corpo in C4 siamo nella fase in cui il nostro pianeta collide con i frammenti che costituiscono la "coda" del corpo, attraversandone il tratto AB. Tutte queste considerazioni restano valide se la massa complessiva dei frammenti che costituiscono il corpo è dello stesso ordine di grandezza della massa lunare: infatti, essendo il campo gravitazionale terrestre preponderante rispetto a quello solare fino a una distanza dal centro della Terra di poco inferiore a tre volte la distanza Terra-Luna, l'ultimo tratto effettivamente percorso dal corpo prima della collisione cambierebbe poco rispetto a quello rettilineo ipotizzato. In ogni caso, a causa dell'avvicinamento molto stretto con la Terra, il corpo, nell'allontanarsi da questa, seguirà un'orbita diversa da quella ipotizzata e forse tale da non intersecare più quella terrestre. I frammenti del corpo principale che lo seguono a ridosso, collideranno con la Terra liberando energie enormi; le rocce terrestri colpite da questi corpi e i corpi stessi fonderanno quasi istantaneamente e il materiale fuso sarà scagliato lontano dai punti di impatto. Le collisioni provocheranno la formazione di crateri che potranno anche avere dimensioni tali da alterare l'orografia delle zone colpite, mentre le distese marine saranno violentemente spinte verso la terraferma, dando origine a spaventosi maremoti, se non spariranno addirittura. I corpi di dimensioni più contenute produrranno un numero elevatissimo di meteore (le cosiddette "stelle cadenti"). Ebbene, non è forse questo lo scenario descritto dalla Bibbia? Tuttavia questo nostro studio potrebbe apparire a qualcuno una costruzione imbastita da noi abilmente per fare tornare i conti a favore di un modello prestabilito. Anche se ciò sarebbe a tutto vantaggio dei nostri meriti, teniamo a fare presente che il modello che abbiamo utilizzato per spiegare i fenomeni descritti nella Bibbia e che è scaturito da considerazioni semplici ma rigorosamente concatenate e suffragate da conferme indipendenti, richiede, per il rispetto delle leggi fisiche, certe condizioni così severe e concomitanti, da escludere ragionevolmente un suo successo per circostanze da noi volute oppure casuali. In altre parole, soltanto una descrizione di eventi che realmente si potranno verificare può reggere di fronte a tante condizioni limitative imposte dalle leggi fisiche. Passiamo ora alla descrizione degli eventi che la scienza oggi annovera tra le possibili cause di una distruzione su vasta scala della superficie terrestre. Non prenderemo in esame la distruzione, tra cinque miliardi di anni, causata da un'espansione del Sole che, trasformandosi in una gigante rossa, avrà un raggio che si estenderà fino all'orbita di Marte. Resta il pericolo di un impatto con un asteroide. Impatti si sono effettivamente verificati in passato, come è testimoniato da numerosi crateri che, nonostante i fenomeni di erosione, ancora sono chiaramente visibili e sono stati accuratamente studiati. Le varie estinzioni di massa, riguardanti cioè la scomparsa di molte specie viventi (come i dinosauri) sono state infatti attribuite a periodiche cadute di comete, provocate da un'ipotetica stella legata gravitazionalmente al Sole e chiamata Nemesis; questa, avvicinandosi periodicamente a quell'enorme serbatoio di comete chiamato "Nube di Oort" - che circonda il Sole come un guscio e che si estende fino a 80.000 UA - potrebbe aver provocato la caduta di questi corpi verso la parte più interna del Sistema Solare e quindi verso la Terra. Fino ad oggi Nemesis non è stata trovata e ormai gli astrofisici ritengono improbabile questa ipotesi. Nel secolo scorso due impatti spettacolari relativi a oggetti celesti appartenenti al Sistema Solare sono stati visti e documentati. Il primo è quello del cosiddetto "Meteorite della Tunguska", che nel 1907 causò in Siberia un'estesa distruzione di taiga, essendosi liberata con la collisione un'energia di parecchi megaton. Il secondo è quello della cometa ShoemakerLevy su Giove, avvenuto nel luglio del 1994. Questa cometa, prima di sprofondare nell'atmosfera del pianeta gigante, si era divisa in 25 frammenti; questi, con la loro caduta,


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produssero nel sistema nuvoloso gioviano squarci di tali dimensioni da risultare visibili con strumenti modesti. Tuttavia qualcosa di più inquietante sembra esserci al di là di Plutone. Questo piccolo pianeta fu scoperto perché il moto di Urano, anche dopo la scoperta di Nettuno, presentava un moto perturbato che con la sola presenza di quest'ultimo pianeta non si poteva spiegare. La caccia ad un possibile pianeta transnettuniano portò, nel 1930, alla scoperta di Plutone. Ma si comprese subito che un pianeta così lontano e più piccolo della Luna non avrebbe mai potuto perturbare il moto di Urano in modo apprezzabile. Ebbene, negli anni Settanta ci fu l'annuncio della scoperta della presenza di un pianeta transnettuniano attraverso le perturbazioni che questo avrebbe prodotto sulla cometa di Halley; ma le ricerche per rintracciarlo nella zona dove si sarebbe dovuto trovare risultarono infruttuose, forse perché i corpi perturbatori potevano essere più di uno. Intanto già da alcuni anni è stata scoperta una serie di oggetti di tipo asteroidale nella fascia che si estende fino a una distanza pari a circa il doppio della distanza media di Nettuno dal Sole e che è stata chiamata "Cintura di Kuiper", nella quale dovevano trovarsi soltanto comete a corto periodo. Questi oggetti sono indicati con la sigla TNO (Transnettunian Object). Ad eccezione delle comete, le cui orbite possono estendersi fino alla nube di Oort, non si pensava alla presenza di altri oggetti di dimensioni cospicue al di là di questa cintura. Recentemente sono stati invece scoperti asteroidi aventi gli afeli che andavano ben oltre; le loro orbite erano tutte comprese in una superficie cilindrica molto schiacciata, che è stata perciò chiamata "disco diffuso". Ma ancora una volta recentissime scoperte hanno costretto gli astronomi a rivedere questo quadro. Un nuovo oggetto, avvistato nel febbraio del 2000 e chiamato 2000 CR105 , presenta un'orbita avente un semiasse di ben 216 UA, un periodo di 3174 anni e un diametro di circa 400 km. Una delle ipotesi più probabili avanzate dagli esperti di meccanica celeste è che un'orbita così stabile - perché esente dalle perturbazioni del lontano Nettuno - sia dovuta all'influenza di uno o più "embrioni planetari", o "protopianeti", aventi una massa paragonabile a quella di Marte o a quella della Luna; questi, costituiti da materia della nebulosa primitiva che ha dato origine al Sistema Solare, non sarebbero stati in grado di catturare altra materia e formare, per accrezione, pianeti grandi come Urano e Nettuno. L'ipotesi della presenza di un Decimo Pianeta, avente una distanza del perielio quasi uguale all'afelio di 2000 CR105, torna dunque a riaffacciarsi. Poiché si suppone che alcuni oggetti della fascia di Kuiper vengano scagliati da Nettuno sia verso il Sole che lontano da questo, noi pensiamo che possa essere avvenuta una collisione di uno di questi corpi con un protopianeta, andato perciò in frantumi e frenato nel suo moto di rivoluzione al punto da "cadere" quasi verso il Sole secondo un'orbita molto allungata; protopianeta (o ciò che resta di esso) che potrebbe essere proprio il corpo che abbiamo ipotizzato in questo nostro studio. Da queste considerazioni si evince che gli eventi catastrofici annunciati dagli scritti biblici confermerebbero anche i modelli più recenti della configurazione del Sistema Solare! Ci sembra perciò improbabile che tutto ciò possa essere frutto del caso; ma allora dobbiamo trovare una risposta alla domanda: come potevano i profeti, quasi 3000 anni fa, avere conoscenze astronomiche e matematiche tali da annunciare fenomeni che soltanto oggi riconosciamo come possibili? Non ci sono che queste due spiegazioni. La prima, la più ovvia per il credente, è che "Dio sa tutto e i profeti, suoi messaggeri, non potevano che descrivere la realtà". Indubbiamente questa spiegazione soddisfa pienamente le esigenze di chi ha fede, scienziato o no che sia, e non richiede ovviamente ulteriori precisazioni. La seconda deve invece valere per coloro che non ritengono Dio una necessità. Questa concezione si è diffusa da quando la moderna cosmologia ha dimostrato che quella dimensione fisica che chiamiamo tempo ha cominciato a esistere da quando si è formata la materia, ossia un istante dopo il Big Bang, la Grande Esplosione con la quale è nato l'universo circa 15 miliardi di anni fa. Poiché non è possibile spingerci indietro nel tempo prima di questo periodo, il problema della presenza di un essere che, esistendo prima di questo evento,


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avrebbe creato l'universo per farlo poi apparire dopo il Big Bang, non si pone nemmeno: difatti tutto ciò che c'era prima di questo evento non ha significato nel mondo fisico. Inoltre gli atei affermano che un essere infinito è pur sempre indefinito e quindi inconoscibile, tant'è che la sua concezione non è unica per ogni credente, ma resta del tutto dipendente da colui che la formula e dalla civiltà alla quale egli appartiene. Ma allora l'ateo dovrà ammettere che, se la conoscenza e quindi la previsione di certi fenomeni naturali è impossibile se non si hanno a disposizione i necessari strumenti scientifici, una civiltà tecnologicamente più avanzata della nostra (che qui chiameremo superciviltà e che costituisce la spiegazione alternativa a quella che si collega a Dio) deve avere istruito i profeti senza lasciare altre tracce della sua presenza. Difatti i pochissimi e misteriosi reperti archeologici, che alcuni ritengono oggetti in grado di svolgere le stesse funzioni di quelli inventati nell'era moderna, hanno generato fino ad oggi incredulità e diffidenza. Ma ora ci sembra di sentire un coro di voci che grida "E' la prova dell'esistenza di Atlantide!". Già! Ma gli "atlantologi" dimenticano che l'unica cosa meravigliosa descritta da Platone erano gli edifici di Atlantide, rivestiti di oro, bronzo e oricalco (lega simile all'ottone); le navi più grandi che potevano accedere al porto erano le triremi, che però già esistevano tre secoli prima di Platone! Nulla lascia pensare a invenzioni straordinarie descritte da qualche visionario. Ma gli atlantologi non prendono in considerazione il fatto più importante: che Atene, come riferisce ancora Platone, intorno al 10.000 a.C. sarebbe esistita contemporaneamente ad Atlantide e avrebbe sconfitto col suo eroismo quest'ultima, che si preparava a invadere il Mediterraneo. Ebbene, abbiamo forse delle prove archeologiche che indicano una tale antichità per Atene? Non si può pensare ad Atlantide senza considerare anche Atene, come non si può scrivere la storia di Cartagine ignorando Roma! Per l'ipotesi di una superciviltà del passato non resta che il regno sotterraneo di Agarthi e la sua capitale: Shamballà. Retaggio di una civiltà, forse sviluppatasi nelle regioni artiche, alla quale, secondo la tradizione, sarebbero appartenuti gli scritti vedici, questo regno è sempre stato oggetto di affannose ricerche e di ipotesi sconcertanti. Ci sono soltanto alcune testimonianze che lascerebbero pensare che l'attuale sede di questo regno si trovi in caverne sotterranee, ubicate in certe zone del Tibet o dell'Himalaia e collegate da gallerie che avvolgerebbero tutto il globo. Purtroppo lo spesso velo disteso dall'esoterismo da sempre ha impedito a quasi tutti di saperne di più. Facciamo presente al lettore che è in corso di pubblicazione un nostro libro, avente lo stesso titolo di questo articolo, nel quale abbiamo trattato diffusamente tutti gli argomenti che qui abbiamo dovuto esporre sommariamente. Nel libro abbiamo indicato la nostra soluzione di altri problemi, come quello riguardante il periodo dell'anno in cui avverrà la catastrofe finale e quello della localizzazione delle zone della Terra dove cadranno i frammenti maggiori. C'è anche uno studio sulle cause che provocarono le tenebre al momento della crocifissione di Gesù e una rassegna delle ricerche del mondo sotterraneo di Agarthi che sono state intraprese anche in passato. Concludiamo facendo presente che questa nostra interpretazione del testo biblico è partita dal presupposto che esso potesse contenere una verità scientifica e ha portato alla conclusione sconcertante che questo presupposto era vero. Ma se qualcuno volesse giudicare superficialmente e senza un metodo di studio rigoroso questo libro sacro, considerandolo per partito preso soltanto l'opera di visionari, rischierebbe di commettere lo stesso errore che la Chiesa commise - a causa della scarsa conoscenza che allora si aveva del mondo fisico quando condannò Galileo: in questo caso sarebbe la Bibbia a essere condannata; ma è bene meditare sul fatto che all'origine di questi errori c'è sempre l'incompetenza di chi condanna.


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----Francesco Vitale è nato a Torre Annunziata (NA) nel 1944. Si è laureato a Napoli in Ingegneria Elettronica nel 1969. Nel tempo libero si occupa, da diversi anni, di archeologia e di astronomia, dedicandosi allo studio e alle osservazioni delle meteore e dei corpi del Sistema Solare. E' anche collaboratore scientifico di varie riviste - tra le quali l'astronomia diretta da Margherita Hack - ed è attivo, come conferenziere, nella divulgazione delle varie discipline che sono oggetto delle sue ricerche. Recentissimo è il suo libro Astronomia ed esoterismo nell'antica Pompei e ricerche archeoastronomiche a Paestum, Cuma, Velia, Metaponto, Crotone, Locri e Vibo Valentia (CLEUP, Padova, 2001), in cui egli propone, tra l'altro, una nuova chiave di lettura dei misteriosi "quadrati magici". Via Nazionale, 144 89060 Saline Joniche (Reggio Calabria) Telefono e fax: 0965-782184 */*/*/*

La collisione di un oggetto celeste con la Terra come immaginata in http://www.ciai-s.net/Apocalisse.htm


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Faustino Perisauli, poeta romagnolo, precursore di Erasmo da Rotterdam (Tredozio - Forlì, 1450 c.a - Rimini, 2 dicembre 1523) (Giorgio Taboga) La prima volta che intesi il nome di Faustino Perisauli fu alla fine di settembre 1995. Passavo allora per le dolci colline tosco-romagnole rientrando da Firenze, dove mi ero recato per delle ricerche sull'ignorato musicista veneto Andrea Luchesi (Motta di Livenza 1741 - Bonn 1801), maestro a Bonn di Ludwig van Beethoven ed autore di musica oggi circolante sotto i nomi di Joseph Haydn e Wolfgang Mozart. Avevo dato una copia del mio libro Andrea Luchesi. L'ora della verità, più un'indagine biografica che una ricerca musicale sul Luchesi, all'avvocato Luigi Bonfante di Tredozio, al quale mi lega un'amicizia nata oltre trent'anni orsono, e quel giorno - ricordo ancora la calorosa accoglienza di sua moglie Lina che vidi per l'ultima volta Bonfante mi parlò di Faustino e mi procurò in Comune una copia del De triumpho stultitiae. Pochi giorni dopo, mi giunse a Silea anche il testo della conversazione tenuta da mons. Giannino Fabbri presso il Rotary Club di Forlì il 17 marzo 1964. Allegato un biglietto dell'amico Luigi: "Caro Giorgio, il testo della conferenza di Mons. Fabbri è saltato fuori poco dopo la tua partenza. E' estremamente interessante. Tu con il tuo fiuto poliziesco non mancherai di tirare fuori altri validi argomenti. Attendo tue notizie". L'esame accurato che dedicai alla documentazione di cui ero venuto in possesso mi convinse che, per un giudizio preciso sul ruolo svolto dal poeta tredoziese nella vita letteraria europea, era necessario dare risposta definitiva al quesito posto da Giovanni Papini ancora nel 1936 e da mons.Fabbri nel 1964: il De triumpho stultitiae di Faustino da Tredozio precede la Laus stultitiae di Erasmo da Rotterdam? Dopo aver controllato gli elementi forniti da Alberto Viviani nell'introduzione al Triumpho (ed. 1964) e valutato la serie impressionante di passi quasi identici esibiti da mons. Fabbri a dimostrazione della dipendenza di un testo dall'altro e quindi della priorità del Triumpho - consultai diversi trattati1 e, pur condividendo la visione di mons.Fabbri, conclusi allora che la soluzione definitiva era al di fuori della mia portata. Certamente più competente di me in materia, e perciò maggiormente in grado di reperire eventuali prove della precedenza di Faustino (un manoscritto o un incunabolo) era il dr.Emilio Lippi, direttore della Biblioteca civica di Treviso, interessato anche ai rapporti intercorsi tra Faustino e l'ambiente veneto, in particolare, come allora pareva, con il domenicano di Treviso Francesco Colonna, autore della Hypnerotomachia Poliphili apparsa a Venezia presso Aldo Manuzio nel 1499 ma scritta molto prima.2 Sopravvenute difficoltà hanno impedito al dr. Lippi di dedicarsi alla ricerca su Faustino ed allora il Comitato ha chiamato me a contribuire alla riscoperta del poeta tredoziese per quanto scrissi nel mio libro L'assassinio di Mozart del giugno 19973: "(…) la prosaica verità non è commerciabile come la leggenda. Lo sapeva già Erasmo da Rotterdam quando, sullo spunto fornito dal modesto Faustino Perisauli da Tredozio, scriveva nel suo "Elogio della follia": "E' più facile catturare l'interesse di un uomo con l'inganno che farlo diventare accanito sostenitore della verità". Affidavo ad una nota le mie convinzioni:


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"Erasmo da Rotterdam potè conoscere il "De triumpho stultitiae" del prete romangolo nell'anno in cui fu correttore di bozze per Aldo Manuzio, a Venezia, tra il 1508 ed il 1509. Il silenzio conservato da Erasmo sul lavoro del Perisauli trova la sua giustificazione nel fatto che gli artisti ed i giornalisti sono particolarmente restii a far conoscere le loro fonti, consci dell'aureo adagio "Facile inventis addere"."4 L'accenno alla dipendenza del "grande" Erasmo da Faustino mi procurava l'immeritata nomea di "studioso toscano". Su "Il Resto del Carlino" del 23 ottobre 1997 si può leggere: "Tutto ciò, per quanto appaia clamoroso, non è altro che una "riscoperta". Infatti attorno agli anni '60, Don Giannino Fabbri, ecclesiastico ed uomo di cultura tredoziese, traducendo il "De triumpho stultitiae", rilevò l'affinità tra quest'opera e l'"Elogio" di Erasmo. Il parere di Don Fabbri fu confermato dallo studioso fiorentino Alberto Viviani, il quale girò la questione ad un suo illustre concittadino: lo scrittore Giovanni Papini. E pare che lo stesso Papini si convincesse della fondatezza di quest'idea, tanto che avrebbe fatto presente la questione in un suo viaggio in Francia5. Su Perisauli si tenne anche, negli anni '60, un convegno a Forlì. Poi la vicenda venne dimenticata, complice anche il disinteresse dimostrato a Tredozio". A questo punto pare possano essere parzialmente iscritti a mio merito il rinato interesse per Faustino del Comitato per la valorizzazione culturale di Tredozio e la decisione di dare soluzione ai quesiti posti da Don Giannino Fabbri. E' questa la sola ragione per la quale mi sono ritrovato qui oggi, 23 maggio 1998 - cornacchia tra le muse direbbe Erasmo - a parlare del poeta latino Perisauli, recte Pier Paolo Fantini dal Casone di Tredozio, avvocato d'ufficio in una causa che meriterebbe un patrocinio di ben altra levatura. Fortunatamente, dall'apparizione dell'Assassinio del giugno 1997, la situazione si è evoluta in senso positivo, e questo mi consente di contribuire alla riscoperta di Faustino con notizie certe e definitive. L'amico Bonfante ha segnalato il passo relativo a Faustino del mio libro sulla morte di Mozart al collega Gianfranco Fontaine di Bologna, proprio colui che ospita questo convegno nello storico palazzo Fantini in Tredozio. L'avvocato Fontaine non solo ha riscoperto tra le carte di famiglia la "Genealogia dei Fantini del Casone di Tredozio", scritta dal canonico Giovanni Mini a Castrocaro nel 1902, ma ha anche localizzato altri tre esemplari (di tre diverse edizioni) del Trastullo, che si aggiungono alla due già note al Mini. Uno si trova in Bologna (datato 1504), il secondo fu battuto da Christie's in un'asta del 1996 ed il terzo si trova alla Biblioteca Trivulziana di Milano. Quest'ultimo, datato 1492, ci fornisce un preciso riferimento per la datazione del Triumpho, che lo stesso Faustino definisce come il suo primo lavoro poetico6. Grazie ad esso ed alla "Genealogia dei Fantini" del canonico Mini disponiamo oggi di un preciso riferimento temporale che ci ha consentito di chiarire in via definitiva i dubbi di Papini, Viviani e mons. Fabbri: il Triumpho precede sicuramente - e non di poco - la Laus stultitiae di Erasmo da Rotterdam.7 Anche lo scambio Faustino-Fantino non è necessariamente un errore. Tutto fa ritenere che sia stato lo stesso Pier Paolo Fantini, allora forse non ancora prete, a celarsi sotto il nom de plume di Faustino in modo particolare per il Triumpho, il cui contenuto si prestava a critiche dal punto di vista dell'ortodossia. Possediamo poche notizie certe sul poeta; si sa che prima di divenire prete fu precettore presso una famiglia nobile - forse quella dei principi Colonna signori di Preneste. Il mestiere di carpentiere, che si sa esercitato dal padre, fa ritenere che Faustino non discendesse dal ramo principale della nobile famiglia Fantini del Casone di Tredozio, ma il fatto che anche suo fratello fosse sacerdote ci autorizza a ritenerlo di famiglia agiata e di buona cultura. Forse si trattava di famigli che avevano assunto il nome dei nobili padroni, come succedeva allora anche nel Veneto, dove un cognome nobile non comporta necessariamente l'appartenenza alla nobiltà8. Molto rimane ancora da chiarire delle vicende umane e letterarie di Faustino, specialmente i suoi rapporti con l'umanista tedesco Francesco Rufo Muziano, della cerchia dell'Hutten, che nel 1524 dettò l'epitaffio di Faustino e curò


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l'edizione postuma del Triumpho, ma uno dei grandi interrogativi che condizionavano gli studi sul poeta è stato risolto: il De triumpho stultitiae precede la Stultitiae laus di Erasmo, a conferma delle intuizioni del "cieco veggente" Papini (1936) e delle deduzioni di Alberto Viviani e di mons. Giannino Fabbri (1964). Scrive infatti il canonico Mini: "Il primo ad apparire di queste omonime famiglie è un Pier Paolo Fantini il quale, verso la fine del '400 9, contrapponendo al "Sonaglio delle donne" di Giovanni Battista Giambullari un suo "Trastullo intorno le donne da far ridere" si rese non solo favorevole al bel sesso ma si acquistò fama presso i posteri anche di letterato e di poeta popolare, come lo furono il Pistoia e Belisario da Cingoli. Quest'operetta, senza indicazioni tipografiche di luogo né di tempo al principio ha: "Trastullo delle Donne da far ridere" compilato per il culto giovane Pier Paolo Phantino da Tredozio, castello di Romagna. Comincia: "Ad libellum suum. Non fò rime dantesche o verso alchayco". Se ne conserva un esemplare nella Regia Biblioteca di Monaco di Baviera (…) e ne fu acquistato un altro dalla Regia Biblioteca Riccardiana di Firenze. Accrebbe poi in sé questa fama per diverse altre composizioni di argomento consimile, specie per le due operette latine che hanno per titolo "De triumpho stultitiae" e "De honesto appetitu", le quali riscossero gli elogi dei letterati suoi contemporanei e della pubblica stampa e procurò a Tredozio sua patria il merito di avere un posto nella nostra letteratura".10 Queste operette sono oggigiorno rarissime sotto il nome di Pier Paolo Fantino da Tredozio: or di Pier Saulo Fantino da Terdocio o Tradocio, or di Fantino, Pier-Sauli ed or di Peri-Sauli, ma nelle stampe più antiche apparisce certamente genuino 11. Il can.Girolamo Tassinari di Faenza nelle sue "Dissertazioni sopra Tredozio" pubblicate ne "L'industriale della Romagna Toscana" (Rocca S.Casciano presso Federico Cappelli 1858) tessendo le biografie di alcuni uomini illustri di Tredozio, offre un piccolo cenno biografico di questo illustre Tredoziese, ma lo dice della famiglia Perisauli e non già dei Fantini scrivendo: Faustino Perisauli. Faustino fiorì al cominciare del secolo XVI. Fu gentilissimo poeta latino, e le sue opere sono addivenute rarissime. In Rimini nel 1524 uscì alla luce un suo lavoro intitolato "Petri Sauli Faustini Terdocii de honesto appetitu". Nel qual libretto è pure un altro suo opuscolo che ha per titolo "De triumpho stultitiae, Faustinus de Terdocio" e in una pagina dello stesso periodico aggiunge: Lettera ad un amico in cui si parla dell'opuscolo "De leteratura faventinorum" ecc. Faenza per il Benedetti 1775 p.12. L'autore è D. Andrea Zannoni, Biblioteca volante di Gio. Cinelli-Cavoli continuata dal dr. Dionigi Andrea Sancassani ed. seconda I 4, p.212. In fine del "Trastullo" leggesi: Una sol gratia donne ve dimando Quando mi coprirà la morte obscura Che voi veniate insieme tutte ballando A tomularmi nella sepoltura (…) Et in quel sasso che 'l mio corpo copra, Questo epitaphio sia scolpito sopra; Qui sotto giace Phantin da Tredotio Trastullo delle donne e riso e canto Per cui l'hor stette sempre in festa et ocio (…). Dove e quando morisse non è detto."12 L'attendibilità di questa relazione è comprovata dalle giacenze del Trastullo a Monaco di Baviera ed alla Riccardiana di Firenze, dalla data del 1492 della copia trivulziana e dall'esistenza di diverse edizioni del Trastullo senza indicazioni di luogo e data. Rimane da chiederci se siano stati esperiti tutti i tentativi di rintracciare le fonti di cui disponeva nel 1902 il canonico Mini per stendere la sua "Genealogia". Tutto in realtà fa ritenere che, dopo l'apparizione nel 1964 del lavoro di mons. Fabbri, la questione Faustino sia passata in dimenticatoio, forse per la "demolizione" delle ipotesi del Fabbri da parte di certo Angelo


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Scarpellini, l'unico ad essersi interessato al problema, di cui si dirà in appresso. Oggi si ritiene che Faustino sia nato attorno al 1450 mentre è noto che morì il 2 dicembre 1523. Visse dunque la maggior parte della sua vita nel secolo XV, anche se la sua fama poetica "fiorì" nel secolo XVI. La copia trivulziana, datata 1492, conferma che il Trastullo circolava "prima della fine del '400" (e non è certo che si tratti della prima edizione). Sicuramente il Trastullo non è la prima opera di Faustino, che debuttò come poeta latino con il Triumpho, da lui definito "tyrocinia et primitiolas". La certa nascita del Triumpho prima del 1492 assicura che il lavoro di Faustino apparve con un anticipo di circa vent'anni rispetto alla Stultitiae Laus di Erasmo, stampata a Parigi soltanto nel 1511. Vi sono inoltre elementi suffcienti a rendere plausibile la nascita del Triumpho tra il 1485 ed il 1490, in ogni caso prima del 1493. Confermano la precoce nascita l'assenza nel poema di Faustino di ogni riferimento ai viaggi di Colombo (del 1492 e posteriori), alla calata in Italia di Carlo VIII (1494) ed alle eclatanti e burrascose vicende del ferrarese Frà Girolamo Savonarola, finito sul rogo a Firenze nel 1498.13 L'espressione "e poco fa il Poliziano" 14, riferita ai neologismi da lui inventati, è ulteriore prova che il Triumpho nasce prima o al massimo subito dopo la morte dell'Ambrogini, avvenuta nel 1494. Proprio questo riferimento al Poliziano mi obbliga qui a denunziare un comportamento molto comune alla critica italiana - potrei definirlo chauvinisme à rebours -che si sostanzia nella negazione di prove od indizi per giungere alla sistematica svalutazione dei contributi italiani e privilegiare i "mostri sacri" stranieri, un atteggiamento non limitato alla letteratura ma esteso alla musica, alla pittura ed alle scienze. Esemplare per il caso qui trattato lo studio del già nominato Angelo Scarpellini Erasmo ed i letterati romagnoli del Cinquecento. Il merito di essersi interessato alla questione Perisauli, ignorata dalla ricerca mondiale, non compensa il demerito di Scarpellini di aver tentato di affossare gli studi di mons.Fabbri e di Viviani usando argomenti del tutto infondati. A lui va addebitata gran parte della colpa per il ritardo con cui viene finalmente affrontato il problema Perisauli-Erasmo, perché fu lui ad includere Faustino tra "la decina di romagnoli di qualche nome nel campo delle lettere" che avrebbero "echeggiato, imitato e criticato Erasmo nel secolo suo". Declassato ad epigono di Erasmo, Faustino venne schedato come "poeta un po' imitatore ed un po' critico della Laus" erasmiana, togliendo agli studiosi ogni incentivo alla ricerca. Scarpellini non si degna nemmeno di prendere in considerazione le ragioni che hanno indotto Fabbri e Viviani ad ipotizzare la precedenza di Faustino ed afferma che il Triumpho non è la prima opera del poeta tredoziese ma l'ultima. 15 Per smerciare la sua verità, Scarpellini tace quanto non collima con la sua ipotesi, ad iniziare da quel "nuper Politianus" che, a lume di logica, indica una nascita del Triumpho vivente il Poliziano o immediatamente a ridosso della sua morte (1494) e stravolge il significato di un passo-chiave del poema di Faustino. Il tutto aggravato dal fatto che Scarpellini si permette di offendere mons.Fabbri e Viviani, che taccia di falsari, glissando sul più impegnativo Giovanni Papini, che cita solo en passant: "Secondo alcuni, la Romagna avrebbe avuto anzi un precursore ed un ispiratore di Erasmo circa la "Stultitiae Laus". Un primo accenno in proposito si deve a Papini che, nel VI anniversario della morte del Rotterodamo16, scriveva un articolo "La pazzia di Erasmo", ricordando un poeta romagnolo di Tredozio, in quel di Forlì, ed il suo "De triumpho stultitiae", poemetto latino che, oltre la somiglianza del titolo, ha espressioni e frasi che si trovano anche nell'opera erasmiana. Il moderno editore e traduttore del poemetto Mons.Giannino Fabbri, parroco della zona tredoziese e studioso di cose locali - è mancato ai vivi poco dopo la pubblicazione da lui dedicata al poeta conterraneo e noi porgiamo devoto omaggio alla sua memoria17 - ha ritenuto fondata l'ipotesi che il "De triumpho stultitiae" sia stato composto prima della "Stultitiae Laus" che, come è noto, usciva a Parigi nell'anno 1511; fissava anche un termine "prima del 1500" e trovava pieno consenso da parte dell'introduttore del suo volume (Viviani). Non è il caso qui di rievocare le considerazioni che hanno indotto il Fabbri ed i suoi amici alle loro conclusioni, compreso il categorico aut-aut:


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o la"Stultitiae Laus" dipende dal "Triumpho" o viceversa. Infatti il Fabbri ha elencato diecine e diecine di passi dell'una e dell'altra opera ponendoli di fronte; ed in confronto esclude che si possa trattare di coincidenze ed affinità casuali: uno dei due autori "ha fatto proprie molte espressioni dell'altro".18 In conclusione, chi avrebbe fatte proprie le espressioni altrui sarebbe stato Erasmo - abbia egli attinto da una perduta edizione del "De triumpho stultitiae"- l'unica conosciuta e giunta fino a noi è quella che apparentemente usciva a Rimini, in realtà a Venezia nel 152419 - o che, durante la sua permanenza in Italia, tra il 1506 ed il 1509, abbia avuto modo d'avere per le mani il manoscritto del poemetto ancora inedito.20 A legittimare la supposizione potrebbe contribuire il fatto notorio che Erasmo, conforme le usanze del tempo circa i diritti di proprietà letteraria, in altre pubblicazioni non si è fatto riguardo di appropriarsi di qualche cosa del lavoro altrui senza ricordarne l'autore (…). Altro però è far propria un'idea altrui, o una serie di adagi da altri raccolti, altro inserire nell'opera propria espressioni o frasi intere tolte di peso da un'altrui opera: in questo caso quella in esametri latini del tredoziese".21 Costretto ad ammettere le ripetute "appropriazioni indebite" di Erasmo (ma lo facevano tutti!), non potendo attribuire al caso le similarità dei due testi e mancando di seri elementi a sostegno della precedenza di Erasmo, è veramente difficile capire il percorso logico che ha portato Scarpellini a capovolgere le conclusioni di Fabbri-Viviani, permettendosi l'incivile ricorso ad un'ipotetica del terzo tipo ai danni di mons.Fabbri, che si sarà rivoltato nella tomba nel sentire così malamente distorto il significato di uno dei passi del Triumpho che confermano la precedenza di Faustino. Scrive infatti lo Scarpellini: "Nessuno arriverebbe a spiegare perché mai Erasmo che, a quanto scrivono i biografi, dettò la "Stultitiae Laus" in otto giorni, abbia voluto echeggiare il volumetto dell'oscuro autore e fargli tale onore22. Invece si trova logico e naturale che il poeta, volendo echeggiare e (…) criticare la beffarda prosa erasmiana, ne abbia tolto ostentatamente espressioni e passi interi. I suoi echeggiamenti, nel titolo come nel contesto del poemetto, erano necessari, in quanto non credeva opportuno fare il nome di Erasmo, né citare scopertamente l'opera sua. Lo stesso mons.Fabbri, se avesse avuto il tempo per tornare sull'argomento, avrebbe trovato inevitabile ammettere che il "De triumpho stultitiae" non è stato composto "prima del 1500", ma nei primi decenni del '500, presumibilmente poco prima della morte del suo autore avvenuta a Rimini nel 1523. Nel II libro (…) s'accenna ai viaggi che per sete di guadagno si affrontavano già attraverso l'Atlantico, per raggiungere l'America: "ora vai sul Gange, or nel paese dei neri Etiopi, or torni in Occidente alle sponde dell'Irlanda; poi non ancora contenta, di qui riparti per gli antipodi, madidi di pioggie australi <per ritornare di là con navi cariche d'oro>23. Ciò non poteva certo avvenire immediatamente dopo la scoperta del continente nuovo, ma solo dopo i viaggi di Vespucci, di Caboto e degli altri seguaci di Colombo, italiani e stranieri, cioè solo agli inizi del secolo XVI". Questo è l'argomento principale con il quale Scarpellini giunge a stabilire la precedenza della Laus stultitiae. Dal che appare chiaro che il critico, oltre a condividere con molti agiografi erasmiani una grossa dose di credulità che lo porta ad accettare la stesura della Laus in soli otto giorni, evidenzia gravi carenze logiche quando accusa Faustino di aver plagiato, criticato ma taciuto Erasmo senza indicare una plausibile ragione. Non basta infatti definire "logico e naturale" l'ipotetico atteggiamento di Faustino nei confronti della Laus per superare l'illogicità di fondo della situazione. L'immediata ed imponente diffusione della Laus esclude che Faustino potesse gabellare per originale il Triumpho se scritto dopo, mentre avrebbe avuto la massima risonanza un'aperta contestazione alla Laus, ed in questo caso sarebbe stato illogico polemizzare tacendo il nome di Erasmo. "Logico e naturale" risulta invece il silenzio di Erasmo sul Triumpho: sperava che il molto tempo trascorso dall'apparizione del poema di Faustino e la sua limitata diffusione ne avessero cancellato il ricordo. 24 Scarpellini stravolge la


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realtà: Faustino avrebbe arcaicizzato di proposito indicando il Triumpho come suo primo lavoro (tyrocinia et primitiolas) ed aggiungendo il nuper Politianus per apparire non come critico ma come anticipatore di Erasmo. Un falso perseguito con protervia, non tanto scaltro da ingannare Scarpellini ma sufficiente a far "inciampare" Giovanni Papini, Alberto Viviani e mons. Fabbri; pronto quest'ultimo a fare onorevole ammenda dell'errore se solo fosse vissuto fino ad apprendere la verità dall'avveduto Scarpellini. Il quale dimostra tutta la sua impotentia ratiocinandi proprio nell'interpretazione del passo del Triumpho relativo ai viaggi marittimi che, a suo dire, dimostrerebbe oltre ogni ragionevole dubbio la precedenza di Erasmo ed è divenuto il caposaldo della sua verità. Ma citare il Gange, i neri Etiopi (nigri Memnonis oras) e l'Irlanda non dimostra in via assoluta che Faustino conosceva l'America posteriore ai viaggi di Caboto ed alla lettera di Vespucci del 1504. Quelli che Faustino ha in mente sono i viaggi africani dei portoghesi, non le traversate atlantiche di Colombo. Le navi cariche d'oro 25 che Scarpellini, chissà perché, non cita, non sono i galeoni spagnoli al rientro dal "Nuovo Mondo" ma le caravelle portoghesi che, dagli inizi del secolo commerciano in oro giallo e nero (schiavi) lungo le coste africane, alla ricerca del passaggio per l'India. E' probabile che Faustino avesse in mente uno dei tanti precursori di Bartolomè Diaz, che nel 1487 doppiò il Capo di Buona Speranza aprendo la via a Vasco de Gama, che giungerà in India soltanto nel 1498. E' logico e naturale ritrovare nell'operetta latina del debutto la descrizione dei confini del mondo di Faustino, e che questo mondo ancora quattrocentesco sia limitato all'Asia (Gange), all'Africa (neri Etiopi) ed all'Europa (Irlanda). Un mondo che però conosce il significato di termini quali "emisfero australe" e "stagione delle piogge" perché le esplorazioni lungo le coste africane hanno familiarizzato gli studiosi europei con questi fenomeni atmosferici esotici. In Italia, come in tutta Europa, è nota l'attività di incentivazione alla scoperta che fin dal 1430 è perseguita da Don Enrico il Navigatore, allo scopo di circumnavigare l'Africa sulle orme del mitico ammiraglio Annone cartaginese. Dapprima venne doppiato il Capo No (Capo Boiador), nel 1460 si era giunti a Sud dell'attuale Dakar e nel 1484 Diego Cao arrivò alle foci del Congo. Da decenni le navi di Dom Enrique bordeggiavano lungo la costa occidentale dell'Africa per far commercio di schiavi negri e di polvere d'oro. Andavano nelle ricche regioni dell'Africa occidentale: la Costa d'Oro, la Costa d'Avorio e Malagueta, dove nasceva una qualità di pepe piccante quasi come quello dell'India orientale. Furono i viaggi africani a consentire la traversata di Colombo grazie alla messa a punto della caravella, una piccola imbarcazione dalle caratteristiche eccezionali. La perfetta combinazione tra la linea dello scafo ed il piano della vela latina le consentiva di navigare più sottovento e più veloce di qualsiasi altra nave a velatura quadra. La manovrabilità le consentiva di raggiungere qualsiasi punto della costa africana con la certezza di ritornare indietro. Venne così sfatata l'antica duplice superstizione che le navi non sarebbero mai ritornate contro i venti predominanti che spiravano da Nord (alisei) e che continuando a navigare verso Sud si sarebbe finiti nelle acque bollenti dell'Equatore. A Dom Enrique interessa raggiungere le Indie per via marittima perché la carovaniera delle spezie è in mano agli Arabi. Lo stesso viaggio di Colombo del 1492 mirava ad aprire alla Spagna una via delle spezie più breve ed agevole del periplo dell'Africa. Fu per questo che Colombo, partito per raggiungere il Cipango (Giappone) e non per scoprire un nuovo mondo, una volta giunto a Cuba credette di essere sulle tracce del mitico Prete Gianni. A conferma del fatto che l'esplorazione dell'Africa per giungere in India era considerata prioritaria e che il viaggio di Colombo fu un'avventura anomala ed estemporanea, scrive l'ammiraglio Morison:26 "Se l'intera flotta (di Colombo) avesse fatto naufragio, nessuno ne avrebbe più saputo nulla e probabilmente l'America non sarebbe stata scoperta fino al 22 aprile 1500, quando Pedro Alvarez, in navigazione verso la vera India, avvistò un monte della costa del Brasile".


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Di tutto ciò Scarpellini dimostra ampiamente di non avere la minima cognizione. Se veramente Faustino avesse inteso riferirsi alle navi che tornavano dall'America cariche d'oro, sarebbe da accreditare la precedenza alla Laus di Erasmo, ma non vi è nulla nel testo di Faustino che possa minimamente supportare le interpretazioni di Scarpellini. Che il Triumpho sia anteriore al 1493, oltre che dalla data (1492) della prima edizione nota del "Trastullo", viene confermato dall'assenza di riferimenti alla lettera del 1493 di Colombo ed alle questioni relative alle terre scoperte, che nascono ben prima della lettera di Vespucci del 1504. E' impensabile che nella cerchia di umanisti in cui operava Faustino fosse ignoto il viaggio di Colombo nel 1493. Scrive sempre S. Morison:27 "Durante i tre mesi della permanenza di Colombo a Barcellona (tra il primo ed il secondo viaggio), la notizia della sua scoperta si diffuse in Italia, specialmente per mezzo di lettere di italiani residenti in Ispagna e attraverso la "Lettera" (…). Risulta dalle lettere e dalle cronache dei contemporanei che le informazioni che suscitarono maggior curiosità ed interesse riguardavano la scoperta dell'oro, gli indigeni nudi e la possibilità di convertirli. Colombo aveva messo in evidenza questi tre particolari nella sua "Lettera" ma aveva anche indicato una nuova rotta commerciale verso la Cina. (…) I sovrani di Spagna ed il papa avevano accettato senza obiezioni la dichiarazione che Colombo avesse realmente raggiunto le Indie, ma Pietro Martire d'Anghiera, un umanista italiano che si trovava alla corte spagnola, era assai più scettico in proposito, tanto che scrisse ad un suo conoscente sostenendo che Colombo non poteva essere arrivato in Asia, date le dimensioni del globo terraqueo; infatti egli definisce l'Ammiraglio "Novi Orbis Repertor" nella lettera del novembre 1493 indirizzata al cardinale Sforza. La denominanzione di Nuovo Mondo non significava, per Pietro Martire e per altri suoi contemporanei, un continente separato e non ancora scoperto, ma una terra sconosciuta e non descritta da Tolomeo, un gruppo di isole adiacenti alla penisola di Malacca sarebbe stato il Nuovo Mondo. Nel 1498, Colombo giunse alla medesima conclusione e qualche mese più tardi anche Amerigo Vespucci, al quale toccò tutto il merito della scoperta, convinse i geografi del tempo che la terra scoperta non era l'Asia ma un nuovo continente". In realtà solo dopo la conquista da parte di Hernan Cortez del ricco impero azteco (1519), gli europei appresero che il nuovo continente poteva rivaleggiare con l'Africa in quantità di oro e di altri metalli preziosi, ma a quella data il Triumpho era stato scritto da circa trent'anni. E' naturale che Faustino l'abbia radicato nella realtà geografica nota alla sua generazione ed è scorretto da parte di Scarpellini parlare di America ed attribuire al tredoziese intenti mistificatori senza alcuna prova. Ignoro se qualche altro critico sia giunto ad attribuire la precedenza ad Erasmo sulla base di prove diverse; posso però affermare con certezza che quelle esibite da Scarpellini sono totalmente da rigettare. Illusosi di avere dimostrato la precedenza di Erasmo, Scarpellini si mostra generoso nei confronti di Faustino tanto da riconoscergli un merito addirittura superiore a quello che gli sarebbe spettato se avesse ispirato la Laus: solo il poeta di Tredozio in Italia avrebbe rilevato le "stonature" di Erasmo in merito alla pazzia dei santi. 28 Una "permuta" lusinghiera ma inaccettabile perché la precedenza del poema di Faustino esclude che il Triumpho possa essere interpretato come una critica alla Laus di Erasmo29. Del tutto giustificata è anche la mancata rivendicazione di priorità del prete Faustino nei confronti di Erasmo, il cui libello fu in odore di eresia fin dal primo apparire. Erasmo fornisce per la nascita della Laus la falsa data del 10 giugno 1508, quando era ancora in Italia, anticipando di circa tre anni la vera data di stesura; un falso gratuito ed ininfluente visto che il Triumpho circolava allora da circa vent'anni. Nella lettera che scrisse nel 1515 a Martin van Dorp, professore di teologia di Lovanio, Erasmo ricama sulla stesura della Laus ma evita con cura ogni accenno al De triumpho stultitiae, dal quale ha attinto a piene mani:


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"Ero allora arrivato dall'Italia in Inghilterra ed ero ospite del mio Moro. 30 Un mal di reni mi tratteneva da giorni in casa. I miei libri non erano ancora arrivati, e anche se li avessi avuti, la malattia mi impediva studi troppo seri. L'ozio forzato mi indusse ad uno scherzoso elogio della follia, e non per pubblicarlo ma solo per distrarmi dai miei mali. Cominciata l'opera, ne offrii qualche assaggio agli amici, perché maggiore allegria ne venisse dal ridere in compagnia. Ne rimasero entusiasti ed insistettero perché continuassi. Obbedii, e la stesura mi prese all'incirca una settimana, un tempo che, data la leggerezza dell'argomento, mi parve anche troppo. Gli stessi amici che mi avevano spinto a scriverlo portarono l'opuscolo in Francia, dove fu stampato, purtroppo da una copia non solo piena di errori ma anche mutila. La cosa mi dispiacque anche di più perché in pochi mesi se ne diffusero sette edizioni, e in vari paesi. Di questa generale fortuna sono stato io il primo a meravigliarmi." Erasmo avrebbe scritto l'operetta in sette giorni e per puro diletto. La stesura può anche essere stata rapida, ma la gestazione della Laus era iniziata in Italia almeno tre anni prima del 1511, da quando cioè aveva avuto modo di conoscere il Triumpho di Faustino. Totalmente da rifiutare è anche l'affermazione di Erasmo di aver scritto la Laus per puro diletto, proprio o degli amici, perché questa pratica non rientra assolutamente nelle note e sempre molto interessate abitudini di Erasmo: "Fino alla metà del '700 lo scrivere per lucro invece che per la fama era considerato indice di cattiva educazione. Solo pochi scrittori avevano ricevuto un compenso dai loro editori e se lo avevano ricevuto, erano ansiosi di nasconderlo: Erasmo ad esempio rimase profondamente offeso dagli accenni di alcuni colleghi italiani al fatto che Aldo Manuzio gli aveva pagato un libro e si difese violentemente da alcune analoghe insinuazioni provenienti da Hutten e altri. Il fatto è che egli non si vergognava davvero a spillar quattrini ai ricchi padroni; i suoi tre viaggi in Inghilterra furono suggeriti ogni volta, come egli stesso affermò freddamente, dalla speranza di ricevere "montagne d'oro". Ed egli ricevette dal re, dall'arcivescovo, dai vescovi, dai lord e dai professori doni e pensioni annuali per un ammontare di parecchie migliaia di sterline d'oggi; benefici superati soltanto dalla sua presunzione ed ingratitudine."31 Anche Febvre e Martin ci ragguagliano sugli usi del tempo e su quelli particolari di Erasmo: "Quando un'opera esce dai torchi, gli autori ne richiedono alcune copie, cosa più che naturale, ed ai tempi di Erasmo prendono l'abitudine di inviarli a qualche ricco signore, amico delle lettere, accompagnati da lusinghiere epistole dedicatorie; omaggio che il signore saprà apprezzare e ricompensare con un regalo in denaro. Nel secolo XVI la cosa appare lecita ed onorevolissima, come l'abitudine, ben presto acquisita, di far stampare all'inizio o alla fine dell'opera, epistole o versi encomiastici rivolti ai potenti protettori, che non mancano anche loro di pagare, salvo far sapere a tutti, se la somma non è abbastanza alta, la tirchieria del personaggio in questione. (…) Il sistema che oggi ci urta, appariva allora naturalissimo, molto più onorevole (…) che vendere il manoscritto ad un editore. Erasmo, accusato da un avversario di esigere denaro dai suoi editori, rispose con indignazione che non riceveva altro denaro fuorché quello che non mancavano di offrirgli gli amici cui mandava in dono un esemplare. Ma non lasciamoci ingannare: Erasmo viveva della sua penna. Moltiplicava le dediche, la sua fama gli permetteva di richiedere agli editori un numero abbastanza rilevante di esemplari, ed aveva organizzato in tutta Europa una vera e propria rete di agenti che li distribuivano e raccoglievano le ricompense." E' abbastanza naturale ipotizzare che Erasmo, intravvista la possibilità di ricavare un best seller dall'ignorato Triumpho di Faustino, abbia prontamente colto l'occasione confermando


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anche in questo caso il suo proverbiale fiuto affaristico. Faustino affronta nel Triumpho, da uomo del '400, una serie di problematiche che Erasmo per una parte trascura perché già superate32 e per l'altra affronta e risolve in tutt'altro modo. Il prete romagnolo giudica la follia dal di fuori, sforzandosi di non esserne partecipe e schiavo; Erasmo la indaga dal di dentro, la giudica condizione umana inevitabile e ne tesse le lodi identificandola con il motore dell'universo. Si tratta evidentemente di due concezioni diverse, due modi antitetici di affrontare lo stesso problema, ma le identità riscontrate nei due testi assicurano che esiste tra il Triumpho e la Laus un rapporto di filiazione che mons. Fabbri, forse impropriamente definì "plagio", mancando di un termine più appropriato. Con il prof. Aldo Sacco, che difendeva Erasmo dalle sue non tanto velate accuse, mons. Fabbri fu esplicito:33 "Non sono apoditticamente certo che la composizione del "De triumpho" preceda quella della "Laus"; ma lo sono invece del fatto che testi di quel libro sono passati in questo o viceversa. Il valore e l'estensione del plagio sarà argomento di uno studio ulteriore. Per ora, per quanto le mie convinzioni siano altre, sostengo - se così posso dire - il "plagio materiale", non il "reato" di plagio."34 Una distinzione sottile, quella di mons. Fabbri, che conserva la sua validità anche ora che la precedenza di Faustino è accertata. Se l'inglobamento nella Laus di passi del Triumpho sia sufficiente a configurare il "reato" di plagio, considerate le molte novità presenti nell'impostazione erasmiana, non sta a me giudicare. Affermo però senza tema di smentita che la Laus stultitiae non sarebbe nata - quanto meno non nella forma oggi nota - senza il precedente Triumpho; nella Laus, figlia del Triumpho, è perciò naturale ritrovare il comune bagaglio genetico e le diversità che accomunano e distinguono i figli dai padri. Conosciuto in Italia il Triumpho - se a Rimini o a Venezia, manoscritto o stampato non ha importanza Erasmo inizia subito ad elaborare una sua personale risposta ai problemi affrontati da Faustino (forse la data di nascita del 10 giugno 1508 è un lapsus freudiano!) per concludere paradossalmente tre anni più tardi, nel 1511, che la pazzia è il vero ed insostituibile motore dell'universo. Dobbiamo allora vedere la Laus come la risposta di Erasmo alla domanda che gli è stata posta dal Triumpho di Faustino e risulterà naturale ritrovare nella risposta elementi comuni alla domanda, consentendo forse di escludere il reato di plagio cosciente. Contrastano però con l'"assoluzione" di Erasmo, che mons. Fabbri pare fosse orientato a negare dopo i doverosi accertamenti, due fatti, il primo avvenuto in tempi recentissimi ed il secondo risalente ai tempi della seconda edizione del De triumpho stultitiae del 1524. In merito al primo, a dimostrazione che nulla di nuovo accade sotto il sole e che il plagio è un vizio difficile da guarire, mi è capitato di leggere sul "Corriere della sera" di giovedì 25 giugno 1998, un articolo di Cesare Medail dal titolo: "Siciliano, un pastiche troppo simile a Isherwood". In esso, rifacendosi ad un articolo di Stelio Solinas apparso sul "Giornale", Medail accusa Enzo Siciliano di aver plagiato ne "I bei momenti" il libro di Piero Buscaroli La morte di Mozart. Siciliano non avrebbe perduto il vizio di copiare benché fosse già stato scoperto nel 1975 che ne La notte matrigna aveva ripreso pari pari dei passi da Mister Norris se ne va di Christopher Isherwood. Lo segnalo perché l'argomento di A.Scarpellini che Erasmo può aver ripreso da altri qualche adagio ma non aver riprodotto intere frasi da Faustino è privo di valore allora come oggi. In entrambi i casi siamo di fronte a persone affette da animus plagiandi. La distinzione di Scarpellini concettualmente non ha senso; in entrambi i casi siamo davanti al plagio e chi plagia perde il senso della misura. Scrive Maria Corti che le "citazioni occulte" sono pienamente legittime se sono poche (e questo non è il caso di Erasmo), oppure si deve dichiarare in anticipo che s'intende scrivere un pastiche, una specie di "plagio autorizzato" (ed anche questo Erasmo si guardò bene dal fare). E' doveroso che il giudizio su Erasmo tenga conto delle leggi e delle abitudini degli inizi del 1500, ma nessuno potrà assolverlo per il suo totale silenzio sul De triumpho stultitiae di Faustino di cui si è servito a piene mani.


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Il secondo fatto, come già anticipato, risale al 1524 e, vista la diffusione abbastanza massiccia del De triumpho stultitiae, pone dei grossi interrogativi sul perché solo nel 1936 sia ritornata sul tappeto la questione Faustino Perisauli grazie a Giovanni Papini, per poi ricadere nel dimenticatoio fino al 1964. Abbiamo già detto della nota relativa alle affinità colla Laus sull'esemplare del Triumpho proveniente dal poeta veneziano Apostolo Zeno; dobbiamo aggiungere ora che l'originalità di Faustino rispetto al lavoro di Erasmo era stata difesa ancora nel 1524 dal suo editore Girolamo Soncino, forse su esortazione di Francesco Rufo da Monteiano che stese l'epitaffio del poeta tredoziese. In base al principio che nessuno difende chi non è attaccato, si deve ritenere che Soncino avesse sentito qualcuno definire il Triumpho un lavoro plagiato da Erasmo ed abbia deciso di ristabilire la verità. La sua edizione - datata 7 dicembre 1524 ed in realtà uscita a Venezia dai fratelli Rusconi con una parte dei lavori che appare stampata da Girolamo Soncino di Rimini - comprende anche l'altro posteriore poemetto De honesto appetitu, ed è preceduta da una lettera del Soncino al vescovo di Fano Gerio Goro, vice-legato bolognese, al quale il Soncino dedica e raccomanda l'opera. Questa la prima parte: "Al Reverendissimo D.D. Goro Gerio vicelegato bolognese. Reverendissimo D.D. Goro Gerio da Pistoia, vescovo di Fano e vicelegato di Bologna, Gerolamo Soncino S.D. Sogliono molti, Reverendissimo Signore, nell' esaminare quanto è stato fatto dai loro predecessori, darsi molto da fare perché, se capita l'occasione, possano essere annoverati celebri tra gli uomini illustri e celebri, e se non per propria virtù, almeno per affinità. In verità è ingiusto che vi sia chi osa (se è onesto) mettere la mano sulla messe altrui, ed usurpare la gloria per se stesso. Perciò, avendo esaminato i molti poemi del nostro Pietro Paolo Faustino di Tredozio ed avendoli trovati dotati di varie dottrine e virtù che giudico non frutto di rapina, e spinto dall'amore e dalla bontà di queste virtù, mi proposi nell'animo che in tempo adatto quelli stessi poemi avrei portato alla luce a nome del loro autore ed a sua lode immortale."35 I due lavori di Faustino apparvero entrambi sotto l'unico titolo "Perisauli Faustini Tradocii Sil/va Tota moralis/ cui Titu/lus Votum Faustini/ Argomentum De Honesto Appetitu". Alla fine del De Honesto Appetitu si trova: Faustinus de Terdoceo. Ad libellum suum. De Triumpho Stultitiae et ad Lectores. Già il nome dell'autore indicato in due diversi modi dice che Soncino riunisce lavori in precedenza usciti in date diverse sotto nomi diversi. Non tutti, a differenza di quanto afferma Scarpellini, erano disposti a giustificare i plagi: nel 1524 Soncino denunciava l'appropriazione dei meriti di Faustino da parte di chi non aveva alcun ritegno a "immettere la sua mano nella messe altrui", (chi se non il "grande" Erasmo da Rotterdam, la cui Laus stultitiae circolava allora in tutta Europa ? ) e tentava di ristabilire la verità in merito all'originalità delle opere.36 Soncino aveva esaminato i lavori di Faustino (cum ... conspexissem), allora disponibili in una precedente edizione o in manoscritto e quindi consultabili anche da Erasmo che poi provvide a saccheggiarli a suo personale uso e merito. Tenendo presente che Soncino dichiara di aver " iterum omni diligentia excussa" la nuova edizione, anche per questa via rimangono confermati il "plagio" di Erasmo e la precedenza di Faustino. Ma qui la questione diviene ancora più stimolante. Nel 1936 Giovanni Papini scriveva sul "Frontespizio", edito da P. Bargellini: "Il Rinascimento sorge e finisce sotto il segno della pazzia. In Italia comincia col Poliziano, che muore in un accesso di frenesia (1494) e termina col delirante Tasso. Nella letteratura europea si apre con "La nave dei folli" di Sebastian Brant (1494) e con l'"Orlando furioso" dell'Ariosto (1516) e si chiude con i massimi eroi della pazzia consapevole e volontaria; Amleto (…) Don Chisciotte. Erasmo che butta giù il suo "Elogio" tra il 1508 ed il 1509 37,


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viene dopo Brant ed anche dopo l'Ariosto, che fin dal 1502 aveva intrapresa l'epopea rimata della pazzia d'Orlando. Forse negli stessi anni Faustino Perisauli di Tredozio componeva un poemetto : "De Triumpho stultitiae", che ricorda nella generale intelaiatura l'operetta erasmiana, ma è ignoto, credo, a tutti gli studiosi di Erasmo." A distanza di quasi trent'anni, nel 1963, scriveva Michel Foucault:38 "(…) a partire dal XV secolo, il volto della follia (ha) ossessionato l'immaginazione dell'uomo occidentale. Un succedersi di date parla da solo: la Danza dei Morti del cimitero degli Innocenti data senza dubbio dai primi del XV secolo, quella della Chaise-Dieu sarebbe stata composta attorno al 1460; e nel 1485 Guyot Marchand pubblica la sua "Danse macabre". Quei sessant'anni furono certamente dominati da questa serie di immagini sghignazzanti della morte. Nel 1492 Brant scrive il Narreschiff; cinque anni dopo viene tradotto in latino. 39 Negli ultimissimi anni del secolo (il pittore) Jeronimus Bosch compone la sua "Nef des Fous". L'elogio della follia è del 1509. L'ordine di successione è chiaro". Risulta evidente da quanto scrive M.Foucault, che la pittura della pazzia anticipò di diversi decenni la letteratura della pazzia. Un anno dopo Foucault, nel 1964, a quasi trent'anni dall'incontro di Papini con Perisauli, parlando al Rotary Club di Forlì mons. G. Fabbri ricordava come l'improvvisa ricomparsa di Faustino tra gli autori della cosiddetta "foolliterature" avesse creato sconcerto e scandalo specialmente in Francia. A partire dal 1936/37 Faustino Perisauli - o meglio Pier Paolo Fantini - non doveva essere più un illustre sconosciuto per la ricerca erasmiana e rimane da spiegare perché non lo si trovi citato nelle edizioni moderne della Laus, se non tra i precursori, almeno tra gli epigoni di Erasmo. Renaudet ci informa che la fama europea di Erasmo inizia con la stampa a Venezia degli "Adagia", e che poi, nell'"Elogio della pazzia", trasformerà in stile evangelico e moderno l'ironia di Luciano di Samosata, "per avviare la più ampia critica dello stato, della società, della chiesa, della vita religiosa".40 Oggi però sappiamo con certezza che la cronologia di Foucault e di Renaudet è errata perché Faustino aveva preceduto Erasmo di circa vent'anni e chi conosce il Triumpho ne può facilmente trovare vistose tracce nella Laus di Erasmo. Non è quindi necessario risalire fino a Luciano di Samosata, ad Apuleio od al Sinesio della "Lode della calvizie" (V secolo) per trovare i precursori di Erasmo. Essi sono temporalmente molto più vicini di quanto finora noto e la "fool-literature" dei secoli XV e XVI non inizia con il "Narrenschiff" di Brant. Qui veramente comincia a definirsi l'ordine di successione: quale causa prossima della Laus erasmiana ed all'origine della letteratura della pazzia è cronologicamente sufficiente e plausibile il Triumpho di Faustino, apparso tra il 1780 ed il 1790. Per fare doverosa chiarezza su questa importante questione si impone un raffronto del Triumpho con i diversi lavori pre e post-erasmiani che abbiano attinenza con la pazzia quali la già citata Nef des Fous di Brant (1494), la Contentione tra Pluto e Iro di Antonio Phileremo Fregoso (Milano 1507), il De sapiente di Charles de Bovelles - concepito nel 1509, apparso nel 1511, l'Opera nova che il Fregoso dette alle stampe a Venezia nel 1534 e la Laus podagrae di Willibald Pirckmeyer (1521). E proprio per ristabilire l'ordine di precedenza appare plausibile che l'umanista tedesco Francesco Rufo Muziano (Montano, de Monteiano) abbia curato col Soncino l'edizione postuma dei due lavori di Faustino apparsa nel 1524.41 Se lo scopo di Rufo era quello di rendere di publico dominio le fonti del "plagiario" Erasmo ed evidenziarne l'ennesima scorrettezza, non riuscì a conseguirlo. La reputazione di Erasmo come critico si conserva pressoché immacolata; gli studiosi moderni lo onorano senza riserve e lo considerano uno dei maggiori smascheratori di errori e di falsità. Tutti sembrano ignorare gli imprestiti dal Triumpho42, la sua slealtà nei confronti di molti colleghi, tra cui l'umanista forlivese Publio Fausto Andrelini43 ed il falso perpetrato nel 1530 col De duplici martyrio


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sulla vita di S.Cipriano, che sostenne di aver scoperto in un'antica biblioteca, sufficiente da solo a ridimensionare la sua figura morale: "Il suo disprezzo per la cultura basata sulla frode letteraria risalta con forza dalla sua vita di S.Girolamo, in cui attacca con veemenza le leggende medievali di guarigioni ed interventi soprannaturali che avevano distorto e mistificato la realtà dei fatti (...) Erasmo espresse chiaramente il proprio rifiuto verso ogni genere di mistificazione, anche quelle realizzate per fini desiderabili: A quel tempo anche gli uomini pii ritenevano che il ricorso a tale artificio per istillare nella gente il desiderio di leggere fosse cosa gradita a Dio". Nel 1530 Erasmo pubblicò la IV edizione delle opere di S.Cipriano, cui era stato incluso all'ultimo momento un ulteriore trattato "De duplici martyrio", uno scritto, spiegava l'indice, scoperto in un'antica biblioteca; "Speriamo sia possibile ritrovare altre preziose opere". (…) E' scritta in un latino meraviglioso ma molto particolare, appesantito da citazioni bibliche e caratterizzato dalla ricorrente presenza di diminutivi, lo stesso genere di latino, insomma, in cui Erasmo scrisse le grandi opere letterarie di cui riconobbe la paternità quali "L'elogio della follia", e quella più divertente che invece non riconobbe, il "Giulio escluso dal Paradiso". 44 Il "De duplici martyrio" non è stato scoperto da Erasmo: è stato scritto di suo pugno. (…) Fu così che il più eminente studioso patristico del sedicesimo secolo falsificè una grande opera patristica."45 Erasmo, che predicava bene e razzolava male, non può in ogni caso rivendicare il merito di aver iniziato la "fool-literature" dei secoli XV e XVI; che il merito possa esserne attribuito al Triumpho di Faustino è invece ipotesi cronologicamente fondata, la cui validità potrà essere valutata dopo ricerche ormai non più rinviabili. Un'ultima cosa: Eugenio Garin contesta l'opinione di Johan Huizinga che solo l'"Elogio" di tutta la copiosa produzione di Erasmo, abbia meritatamente vinto la battaglia contro il tempo. Contro l'opinione corrente, malgrado il carattere volutamente paradossale, la Laus non sarebbe separabile dal resto della prosa erasmiana. A sostegno della sua tesi Garin può citare solo un passo abbastanza ambiguo della lettera scritta nel maggio 1515 all'amico Martin van Dorp, dal quale traspare però chiaramente che lo stesso Erasmo considerava anomala la sua Laus: "Ti dirò con franchezza che quasi mi pento di aver pubblicato la "Follia" (…) il suo scopo è esattamente il medesimo delle altre mie opere, anche se perseguito per via diversa." Secondo Eugenio Garin, Huizinga ed altri critici avrebbero contribuito a consolidare un'immagine del tutto falsa di Erasmo perché: "in mezzo ad un oceano di erudizione emergerebbe un solo testo, un libello satirico scritto in pochi giorni46, l'unico scritto erasmiano accessibile ad un lettore moderno. In questa prospettiva, che purtroppo traduce tutta una lunga serie di letture celebri dell'"Elogio" anche di studiosi eminenti, si collocano interpretazioni che dell'opera hanno fatto, volta a volta, il "passatempo di un letterato in viaggio", una "lunga facezia per divertire gli ozi di intellettuali e di professori", un "Capriccio", una "Fantasia", un "Impromptu" e perfino una "teoria dell'irrazionale". Giustamente (…) Delio Cantimori (…) lamentava che a furia di cercare in questa famosa operetta quello che non c'è, (…) si finisce col "non vedere quello che c'è, o per lo meno l'autore si era proposto di metterci:un appello di carattere etico-religioso ben definito ed una critica al malcostume universitario ed ecclesiastico."47 Qui mi ricollego a quanto scrissi ne L'assassinio di Mozart sulla reticenza di artisti e giornalisti ad indicare le loro fonti. Giustamente Garin si sforza di non vedere quello che non c'è ma, come i critici che contesta, non riesce nemmeno a vedere quello che c'è. Perché


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Erasmo ha voluto nascondere il suo pesante debito verso Faustino cercando di mimetizzare la Laus tra le altre sue opere. La sua ammissione di aver percorso con la Laus una via diversa per raggiungere il medesimo scopo trova riscontro in una diversità di esporre, di stile, che oggi possiamo spiegarci grazie alla conoscenza del Triumpho. Fatta propria l'idea di Sebastian Brant di far parlare la follia in prima persona,48 Erasmo rielabora il materiale poetico messogli a disposizione da Faustino con risultati che diversificano l'"Elogio" da ogni altro suo libro, ad eccezione dello spurio "Giulio escluso", e che gli hanno consentito di resistere al tempo. Nella Laus si fondono, a livelli di eccellenza, la vena poetica di Faustino e l'anima razionale di Erasmo e questo spiega un risultato superiore alla somma degli addendi. Ha ragione D.Cantimori a lamentare che si sia voluto trovare nella Laus quello che non c'è, ma non lui, e nemmeno E.Garin, hanno saputo trovare in essa quello che Erasmo ha voluto nascondere e che deve essere riscoperto: Faustino Perisauli e la sua poesia. Perché colui che fornisce la materia prima per una grande opera d'arte non è certo inferiore a chi, rielaborandola, la porta a perfezione, e gli è sicuramente superiore in originalità. Erasmo, anche se lo tacque, pagò ad usura il suo debito verso Faustino trascinandolo all'immortalità e noi, oggi, godiamo attraverso la Laus di Erasmo, la produzione intellettuale dell'umanista tredoziese. Così, ogni volta che un editore ripresenta l'"Elogio", onora nel famoso Erasmo anche l'ignorato poeta Pier Paolo Fantini di Tredozio. Giustizia vuole che questo inconscio omaggio si trasformi nell'apprezzamento cosciente di una platea non più limitata al paese natale: Faustino fa parte del patrimonio europeo e come tale deve essere riscoperto. Un compito che il Comitato per la valorizzazione culturale di Tredozio ha affrontato con decisione e saprà condurre sicuramente a buon fine. Tredozio 23 maggio 1998 Silea (Tv) 26 febbraio 2001

Note 1

Tra gli elementi che apparentemente deponevano per una nascita del Triumpho posteriore alla scoperta dell'America, vi erano due passi del Cap.XVIII (Aulici quam sint fatui) non citati da Mons.Fabbri: al verso 69 dove si parla di "pingue polentum", ed al verso 70 dove compaiono i "picti faseli". Benché la polenta oggi sia quella di mais, pervenuto dall'America, come anche i fagioli, fin dai tempi antichi erano noti la polenta di miglio e di grano saraceno e nel contempo, come cibo per poveri, dei piccoli fagioli di origine afro-asiatica, detti ancor oggi "fagioli dall'occhio" per la macchia nera simile ad un occhio presente in corrispondenza all'attaccatura al bacello (da ciò il nome di "faseli picti"). 2

In realtà pare assodato che il frate Francesco Colonna che fu anche a Treviso sia persona totalmente diversa da quella della quale il poeta romagnolo parla nel suo altro poema latino De honesto appetitu. Il Colonna che ebbe rapporti con Faustino andrebbe individuato con il principe Francesco Colonna, signore di Preneste. Scrive Maurizio Calvesi che il Perisauli fece parte dell'entourage del principe Francesco Colonna, che cita nel De honesto appetitu, sicché non è da escludere un contributo del poeta tredoziese alla stesura dell' Hypnerotomachia Poliphili. Vedi Hypnerotomachia Poliphili. Nuovi riscontri e nuove evidenze documentarie per Francesco Colonna signore di Preneste in "Storia dell'Arte" n.60 maggio-agosto 1987 pp.95 e 135. 3

G.Taboga. L'assassinio di Mozart. L.I.M.editrice Lucca 1997 p.131.

4

Mi riferivo al silenzio mantenuto da Ludwig van Beethoven sul suo maestro Andrea Luchesi

5

In realtà fu Papini a richiamare l'attenzione di Viviani sul Perisauli al rientro da un viaggio in Francia nel 1936. L'interesse di mons.Fabbri per il poeta tredoziese è molto posteriore.


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"nostra haec tyrocinia et primitiolas". Vedi Atti del convegno. Modigliana 1999 p.144.

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Lo stesso dubbio assillava ancora nel '700 il letterato veneziano Apostolo Zeno. Nella sua copia del Triumpho oggi presso il Museo Correr di Venezia vi è infatti una nota autografa che indica la somiglianza tra il lavoro del Perisauli e la Stultitiae Laus del Rotterodamo. 8

Anche gli ebrei convertiti assumevano il nome di coloro che li tenevano a battesimo. L'esempio più noto è quello di Emanuele Conegliano, che ebbe a padrino di battesimo il nobile vescovo di Ceneda, ne assunse il nome e divenne noto come Lorenzo da Ponte, il librettista di Mozart. 9

Vedi la corrispondenza della data 1492 della copia trivulziana del "Trastullo".

10

Se quanto afferma il Mini è corretto, rimangono ancora delle fonti da riscoprire in merito alla fama acquisita da Faustino ancora durante la sua vita. Le informazioni del Mini sul contenuto non sono del tutto esatte: il "De triumpho" ha poco a che vedere con il "Trastullo" e lo precede. 11

Una delle maggiori difficoltà incontrate nella ricostruzione dei lavori del Perisauli è dovuta alle troppe forme in cui il suo nome è stato sbattezzato. Lo scrivente ha ritrovato due copie del Triumpho presso la Biblioteca A.Maj di Bergamo rubricate sotto "Tradocio" (Faustino) con due altre indicazioni: Faustinus Tradocius Perisaulus e Perisaulus Faustinus Tradocius entrambe con rinvio a Tradocio Faustinus. Presso la Biblioteca casanatense di Roma si trova un'altra copia rubricata sotto Sauli. 12

La riscoperta del testamento di Faustino ci dice che morì a Rimini il 2 dicembre 1523.

13

Uno dei rami della famiglia Fantini , come si legge nella relazione del can. Mini, era stabilito a Ferrara ed era quindi al corrente delle vicende di Frà Girolamo in Firenze. 14

"Nuperque Politianus" del Proemio a p.143 degli Atti del Convegno.

15

A.Scarpellini in "Studi romagnoli" vol.XVII Anno 1967 pp. 369 ss. Per Scarpellini Faustino sarebbe quindi un falsario cosciente ed un plagiario. 16

Imprecisione evidente di Scarpellini. Si trattava non del VI anniversario ma del IV centenario della morte di Erasmo, avvenuta nella notte tra l'11 ed il 12 luglio 1536 a Basilea. 17

Scarpellini onora la memoria di mons. Fabbri in modo quanto meno inusuale: gli dà dell'ignorante, del campanilista e dell'intellettualmente disonesto sapendo che non può difendersi. Va quindi annoverato tra i molti "erasmiani di ferro", impermeabili ai dubbi ed alle evidenze contrarie, integralisti che troppo spesso fanno opinione ma raramente della vera cultura. Lo scorretto intervento di Scarpellini ha contribuito a ritardare la ricerca della verità. 18

A.Scarpellini ammette dunque che le deduzioni di mons.Fabbri sono logiche e veritiere.

19

Scarpellini sembra ignorare che l'edizione 1524 reca nel Colophon una precisa indicazione al fatto che è stata "excussa" da una precedente stampa. 20

Scarpellini riconosce quindi che Erasmo avrebbe avuto l'opportunità di conoscere il lavoro di Faustino qualora fosse stato precedente al suo. 21

Il ragionamento di Scarpellini è chiaro! Erasmo è troppo grande per abbassarsi a plagiare un Faustino qualsiasi. Sono cose che fanno solo gli italiani ! 22

L'impossibilità di rendere plausibile simile ipotesi dipende proprio dal fatto che non può in alcun modo corrispondere alla realtà. Erasmo rendeva onore solo a se stesso e si serviva degli altri senza alcuno scrupolo. 23

Il passo in parentesi graffa non è citato da Scarpellini.


81 24

Calcolo dimostratosi "non manifestamente errato" se solo oggi si pone la questione della precedenza, malgrado l'apparizione delle edizioni del 1524 e del 1964. Erasmo si permise non solo di "echeggiare" ma anche di "saccheggiare" il lavoro di Faustino. 25

P.96 testo Fabbri, versi 33/38.

26

Samuel Morison. Storia della scoperta dell'America. Milano 1978 II p.17. La traversata di Colombo nacque dall'errore di Paolo Toscanelli nel calcolare la dimensione della terra. L'errore rese possibile l'allestimento della spedizione di Colombo per conto della Spagna nella convinzione che il percorso circolare fosse più breve del periplo dell'Africa, al quale si dedicavano i portoghesi. 27

Morison cit. pp.92 ss.

28

Ciò sta a significare che per Scarpellini Faustino è più "profondo" di Erasmo, almeno in questa particolare questione. 29

Non entro nel merito del valore letterario di Faustino, dal canonico Mini definito "gentile poeta latino", da G.Manzoni "insulso" e dal Tiraboschi "non buon poeta in lingua latina". Sospetto però che gli ultimi due siano anch'essi degli "erasmiani di ferro" decisi a castigare Faustino per il presunto plagio ai danni del grande Rotterodamo. 30

Sappiamo che Erasmo non giunse in Inghilterra prima del 1509 e che fu ospite di Thomas Moore. La data del 10 giugno 1508 da lui fornita per la stesura della Laus è quindi sicuramente falsa. 31

S.M.Steinberg. Cinque secoli di stampa. Torino 1982 p.162. Erasmo fu il primo a stipulare contratti che prevedevano uno stipendio per l'autore, innovazione che per circa 200 anni non venne ripresa da altri autori o editori. Ibidem p.105. 32

Vedi le questioni relative alla terra e dell'esistenza degli antipodi, che Faustino tratta ne "Il delirio del geometra" a p.77 ed. Fabbri. Erasmo le ignora perché nel 1511 sono in gran parte superate e risolte.. 33

Vedi Conversazione cit. p.25.

34

la fine prematura di mons.Fabbri ci ha privato di questo importante studio.

35

Questo il testo completo della lettera di G. Soncino: "Ad Reverendissimum D.D. Gorum Gerium Vicelegatum Bononiense./ Reverendissimo D.D. Goro Gerio Pistogliensi, Phanensis Civitatis Episcopo ac Bononiensi Vicelegato, Hieronymus Soncinus S.D. Solent plerique, Reverendisssime Domine/ in maiorum suorum factis recenscendis plurimum insudare/ ut hac occasione habita inter illustres/ hominesque celebres/ et si non in virtute propria/ saltem affinitate celebri/ videantur commemorari. Enivero/ infandum est/ ut unquam quis praesumere audeat (si probus est) in alienam messem manus iniicendo/ sibimetipsi gloriam usurpare. Quadere cum nostri Peri Sauli Faustini Terdocii Poemata plurima conspexissem/ et illa variis doctrinis ac virtutibus adornata/ non rapina arbitratus/ et ipsarum virtutum amore ac bonitate excitus/ animo meo praeposui/ ut nacto tempore in inspius Authoris nomine immortalique laude/ ea ipsa Poemata in lucem prodire. At/ cum hmoi (?) preciosa quaeque/ non nisi celeberrimorum virorum manibus sint contractacta in eorumque tantummodo gloriam et laudem excutienda/ fautius quoque/ penes me inditum est/ ut clariori minime/ his labor et honos/ praeclarissimorum virorum in/ aciem connumerandus/ tuo munimine insignitus prosilire. Qui enim scientiarum virtutumque omnium decore perfulges/ ac veluti iubar excelsum/ tua irradiatione ubique dinosceris/ non immerito tui nominis obumbratione gratiam excipietur. Velit autem tua Reverendissima Dominatio/ munusculum hoc/ paupercula quidem manu/ animo autem ac voluntate ditissima transmissum/ letius amplexari: et quod ipsa inexpletum conspicit sua benignitate suffragari. Vale/ viveque diu perpetuo felix."


82 36

La diffusione del Triumpho ed.1524 deve essere stata più vasta di quanto oggi noto. Mini parla di diverse edizioni e sappiamo che alcuni lavori di Faustino apparvero senza indicazioni tipografiche di tempo e luogo. Gerolamo Soncino (dal paese di Soncino presso Cremona) poteva contare, per la diffusione della sua edizione, su altri parenti e colleghi ebrei omonimi, oriundi di Spira o Firth, disseminati in Europa. Oltre che a Mantova, Ferrara, Bologna, Brescia, Barco, Fano, Pesaro e Rimini, dei Soncino erano in Francia ed addirittura in Turchia. 37

La data è sicuramente errata; potrebbe corrispondere al momento in cui Erasmo ebbe tra le mani il Triumpho di Faustino. La data di stampa è invece giugno 1511. 38

M.Foucault. Storia della follia nell'età clasica. BUR Milano 1997 p.22.

39

Il Narrenschiff o Nef des Fous o Nave dei folli di Brant appare in latino nel 1494, non nel 1497.

40

A Renaudet. Humanisme et Renaissance. Ginevra 1958 p.162.

41

L'umanista Francesco Rufo Montano (Muziano) "eterodosso ed incredulo", erroneamente indicato da mons.Fabbri come romagnolo (da Montiano), è nemico di Erasmo, di cui scrisse nel suo epistolario: "Erasmo è divino e conviene venerarlo con pio fervore quale essere celeste". Vedi Elogio della pazzia a cura di R.H.Bainton BUR 1994 p.302 nota 232. Scrisse un altro rivale di Erasmo, il tedesco Camerarius: "Chiunque non voglia passare per ignorante nel regno delle Muse lo ammira, lo magnifica, lo esalta. Se uno riesce a strappargli una lettera, la sua gloria è grandissima e può festeggiare un mirabile trionfo." S.Zweig. Erasmo. Milano 1981 p. 73. 42

C'è anche chi, come Scarpellini, li conosce ma non vi presta fede, dimostrando ancora una volta che l'impotentia ratiocinandi coglie anche i critici più agguerriti davanti al "mostro sacro". 43

Vedi Conversazione cit. p.3.

44

Magrado la sicumera con cui viene qui attribuito ad Erasmo il Giulio escluso dal Paradiso, manca del tutto la certezza che il libello sulla morte di papa Giulio II, morto il 21 febbraio 1513, sia dovuto alla penna del Rotterodamo. La prima edizione datata apparve nel settembre del 1518 a Lovanio e nel corso dei secoli fu attribuito a Ulrich von Hutten, a Girolamo Balbi, a Battista Carmelita detto "Spagnolo", a Girolamo Riario ed a Publio Fausto Andrelini, al quale fu anche intestata una delle prime edizioni del pamphlet. Proprio quest'ultima attribuzione ad un umanista della medesima formazione di Faustino (nasce a Forlì, si forma a Bologna , soggiorna a Roma dove fa parte dell'Accademia di Pomponio Leto - Faustino a Preneste preso i principi Colonna - prima di trasferirsi in Francia come poeta regio di Carlo VIII) ci consente di avanzare una nuova candidatura per la paternità del Julius exclusus: quella di Faustino Perisauli da Tredozio. L'uso del diminutivo che caratterizza il latino del Julius, "categoria morfologica dell'affettività, è del resto caro a Faustino, che spesso vi ricorre" (L.Chines in Atti del convengo cit. p.30) e non vi è alcuna dotta citazione del libello che non sia nota a Faustino. Questi era più di Erasmo in grado di conoscere fin dal suo primo apparire in Roma, nel settembre 1513, l'Apolococyntosis di Seneca che è indubbiamente il modello classico a cui s'ispira il Julius. Del resto, lo stesso Erasmo rifiutò sempre di riconoscere la paternità del libello che Faustino può aver invece volutamente licenziato anonimo. Vedi Papa Giulio escluso dai cieli, a cura di Paola Casciano Ed. ARGO, Lecce 1998 pp.9-49. 45

Antony Grafton. Critici e falsari. Torino 1996 p.47.

46

Ha il sapore di scherzo questa affermazione di Erasmo alla luce di quanto scrisse nel cap. I 4 sulla follia dei retori: "Costoro (…) di un'orazione su cui hanno sudato trenta lunghi anni – e qualche volta è fatta da un altro – giurano che l'hanno buttata giù e magari dettata in tre giorni, quasi per svago" . Forse il grande Erasmo si divertiva a prendere in giro i suoi lettori. 47

E.Garin. Prefazione all'Elogio per gli Oscar Mondadori Milano 1992 p.VIII ss.


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Da Brant Erasmo non prese altro. Il Narrenschiff si riferisce alla pratica, allora molto nota, di imbarcare verso una destinazione ignota i pazzi giudicati in soprannumero rispetto alle possibilità della città, che rifiutava di mantenerli ulteriormente. M.Foucault. Storia della pazzia cit. p.77.

----Il presente studio condensa e completa il mio intervento al convegno su Faustino Perisauli organizzato dal "Comitato per la valorizzazione culturale di Tredozio" tenutosi nel palazzo Fantini di Tredozio il 23 maggio 1998. Intervennero i relatori: prof. Augusto Vasina Ordinario di Storia medievale presso l'Università di Bologna - (Politica e cultura sull'Appennino tosco-romagnolo nel tardo Medioevo), dr.Loredana Chines – Dipartimento di italianistica presso l'Università di Bologna - (Il De triumpho stultitiae tra fonti classiche e tradizione umanistica), prof. Gian Mario Anselmi – Docente di Letteratura italiana presso l'Università di Bologna - (Codro, Faustino, il De triumpho stultitiae e la cultura umanistica tra Bologna e la Romagna), dr. Giorgio Taboga (La valenza europea di Faustino nel rapporto con Erasmo da Rotterdam), prof. Emilio Pasquini – Ordinario di Letteratura italiana presso l'Università di Bologna - (Fantino –Faustino- da Tredozio ed il cantare "Trastullo delle donne"). I professori Bruno Gurioli e Silvia Tagliaferri, paleografi, hanno presentato l'edizione moderna del "Trastullo". Tra gli atti del convegno, pubblicati in Modigliana (Forlì) nel marzo 1999, compare anche la traduzione del De triumpho stultitiae a cura di mons. Giannino Fabbri, per gentile concessione della casa editrice "Il fauno" di Firenze, che la stampò nel 1964. Brescia 5 dicembre 2000 Silea (Tv) 4 marzo 2001

----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 4 di Episteme] gtaboga@tiscalinet.it


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Leonardo Sciascia e il caso Majorana: siciliani scompaiono nel nulla, ma un'ipotesi tarda ad apparire... (Umberto Bartocci) 1 - Preambolo "Nel momento in cui Nisticò ci diceva della inaspettata, insospettata, incredibile notizia che la lontana voce dell'amico gli aveva rivelata, noi abbiamo vissuto un'esperienza di rivelazione, una esperienza metafisica, una esperienza mistica: abbiamo avuto, al di là della ragione, la razionale certezza che, rispondenti o no a fatti reali e verificabili, quei due fantasmi di fatti che convergevano su uno stesso luogo non potevano non avere un significato." Il lettore devoto di Leonardo Sciascia avrà certamente riconosciuto nelle righe precedenti uno dei passaggi conclusivi del pamphlet che quest'autore dedicò, nel 1975, alla scomparsa dello scienziato catanese Ettore Majorana, verificatasi nel 1938, un anno prima della più terribile guerra che l'umanità finora ricordi1. Esse descrivono l'esperienza, appunto quasi mistica, dell'illuminazione "immediata", che permette all'improvviso alla mente di comprendere quanto era rimasto ostinatamente celato ad ogni precedente sforzo concettuale. Allo storico della scienza esse riecheggiano le parole con le quali Sir William Rowan Hamilton illustrò, nel 1858, la sua scoperta dei quaternioni: "Essi videro la luce, già completamente cresciuti, il 16 ottobre 1843 [H. aveva allora 38 anni], mentre stavo passeggiando a Dublino con la signora Hamilton risalendo verso il Brougham Bridge. In altre parole, là e allora sentii chiudersi il circuito galvanico del pensiero e le scintille che si sprigionarono da esso furono le equazioni fondamentali tra I, J e K, esattamente tali e quali le ho sempre usate da allora in poi. Tirai fuori sul posto un notes, che esiste ancora, e vi scrissi sopra un'annotazione, sulla quale, in quello stesso istante, mi accorsi che avrebbe potuto valere la pena di spendere la fatica dei prossimi dieci (o forse quindici) anni della mia vita ... mi accorsi che era stato risolto in quel momento un problema, era stato alleviato un bisogno intellettuale, che mi aveva ossessionato per almeno quindici anni"2. Bene, se il valore di un'intuizione di tipo scientifico è abbastanza presto verificabile e oggettivo (avremmo potuto parlare in modo analogo della mela di Newton, che suggerì la legge di gravitazione universale, o dell'ascensore di Einstein, ispiratore del principio di equivalenza della relatività generale), e le equazioni di Hamilton sono ancora lì, materia di studio per ogni allievo d'algebra del globo, per quelle di tipo storico la questione appare alquanto diversa, e la certezza che proviene da siffatte "illuminazioni" rischia di avere spesso una valenza poco più che personale. Se Sciascia era davvero convinto che Majorana aveva deciso di finire i suoi giorni nella pace di un convento, del pari sicuri di avere trovato la soluzione del dilemma della celebre scomparsa sono Erasmo Recami3, con la sua ipotesi della fuga in Argentina, o Bruno Russo4, che propende nettamente per il suicidio, etc.. Mi permetterò di esporre nelle pagine seguenti qualche riserva logica su tutte queste "soluzioni", sperando che gli "Amici di Leonardo Sciascia" mi vorranno perdonare se il primo dubbio che cartesianamente5 avanzerò riguarda proprio la sincerità dell'ipotesi proposta dal loro beniamino: era questi realmente convinto di avere fornito la vera spiegazione del caso?


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E, comunque, quello da lui illustrato, può ritenersi un esito plausibile della faccenda, coerente con i (pochi) dati che abbiamo a disposizione? Alla prima domanda si potrebbe rispondere che sì, perché dubitare del contrario?!, ma in effetti ho minori perplessità sulla completa "buona fede" degli altri due autori citati. Invece, per ciò che riguarda Sciascia (un siciliano, bene al corrente quindi di costumi e "situazioni" del luogo), resto con qualche incertezza, poiché non posso dimenticare l'intelligenza acuta, e quindi scomoda, che egli esercitò in altri analoghi contesti, mentre la "soluzione" intimisticospiritualistica da lui escogitata appare abbastanza incolore, non all'altezza insomma del suo talento investigativo, e di un affare che, a mio modo di intuire, potrebbe avere probabilmente dei risvolti assai più "oscuri" di quanto l'opinione pubblica non sia stata mai indotta a credere (e con queste parole rispondo anche alla seconda domanda). Ma procediamo con ordine...

2 - "Malizia" interpretativa all'opera Partiamo dall'episodio del concorso che condusse Majorana alla cattedra universitaria, appena pochi mesi prima della sua morte (e già, è bene cominciare a introdurre subito l'avvenimento che farà da cornice alle presenti riflessioni). Sciascia, usando soltanto la propria esperienza, da profondo conoscitore di uomini ed ambienti, ne offre una spiegazione assolutamente realistica e credibile, che val la pena rileggere insieme tutta intera. "Majorana dimostra invece di poter rientrare quando vuole in quella che Amaldi chiama la vita normale. E ci rientra, crediamo, per un 'normale' ripicco, per un risveglio di quel latente antagonismo nei riguardi di Fermi e dei 'ragazzi di via Panisperna', che non erano più ragazzi, ma professori ordinarî o incaricati - con tutto quel che comporta, sul piano delle strategie e tattiche interne, sul piano del costume, l'esser professori in Italia, il far parte in Italia della vita accademica (ma non soltanto in Italia). E dispiace dover dire che è un po' una mistificazione la versione che da parte accademica si dà del rientro di Ettore Majorana nella 'normalità': che cioè furono Fermi e gli altri amici a convincerlo di partecipare al concorso per la cattedra di Fisica Teorica. In realtà i conti per l'attribuzione delle tre cattedre messe a concorso erano stati fatti sull'assenza e non sulla partecipazione di Majorana; e la decisione di concorrere crediamo sia scattata in Majorana dal gusto di guastare un giuoco preparato a sua insaputa ed a sua esclusione. Candidamente, Laura Fermi rompe quella specie di omertà che si è stabilita sull'episodio e racconta le cose per come effettivamente sono andate. La terna dei vincitori era stata già tranquillamente decisa, come d'uso, prima della espletazione del concorso; e in quest'ordine: Giancarlo Wick primo, Giulio Racah secondo, Giovanni Gentile junior terzo. 'La commissione, di cui faceva parte anche Fermi, si riunì a esaminare i titoli dei candidati. A questo punto un avvenimento imprevisto rese vane le previsioni: Majorana decise improvvisamente di concorrere, senza consultarsi con nessuno. Le conseguenze della sua decisione erano evidenti: egli sarebbe riuscito primo e Giovannino Gentile non sarebbe entrato in terna'. Di fronte a questo pericolo, il filosofo Giovanni Gentile svegliò in sé le energie e gli accorgimenti del buon padre di famiglia dell'agro di Castelvetrano: dal ministro dell'Educazione Nazionale fece ordinare la sospensione del concorso; e fu ripreso dopo la graziosa eliminazione da concorrente di Ettore Majorana, nominato alla cattedra di Fisica Teorica dell'Università di Napoli per 'chiara fama', in base a una vecchia legge del ministro Casati rinvigorita dal fascismo nel 1935. Tutto tornò dunque nell'ordine. E a Majorana toccò di rientrare sul serio nella 'normalità': ché aveva partecipato al concorso soltanto per fare acre scherzo ai colleghi. Tra i quali più tardi, dopo la scomparsa, prese piede la convinzione che fosse fuggito per il panico, il trauma, di dover comunicare, di dover insegnare. Come a dire che ben gli stava. " (p. 51; i numeri di pagina sono relativi alla prima edizione del libro). Naturalmente queste parole (e il complessivo impianto della ricostruzione sciasciana, che faceva riferimento alle scoperte di fisica che sarebbero sfociate di lì a poco nelle applicazioni dell'energia atomica a fini bellici, e alla sopravvenuta estraneità tra Majorana e gli altri "ragazzi di via Panisperna") non fecero piacere ai diretti interessati, e puntualmente Edoardo Amaldi replicò a Sciascia dalle pagine de L'Espresso6. "Fantasioso ed infondato" il ritenere che il fisico siciliano possa aver "previsto specificamente il pericolo delle armi atomiche


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incombente sull'umanità", in quel tempo non ci pensava nessuno 7; ma soprattutto falso supporre che esistesse "una forma di contrapposizione fra Ettore Majorana ed Enrico Fermi 8. I rapporti fra i due sono stati sempre più che buoni". Soffermiamoci su quest'ultima affermazione: proviene da un testimone oculare, ed è in teoria9 degna di essere presa in maggiore considerazione delle deduzioni di chicchessia. Elemento fondante del ragionamento di Sciascia è la constatazione che, dopo la cessata frequentazione da parte di Majorana dell'Istituto di via Panisperna (ma non degli studi di fisica!10), Fermi non andasse mai a trovarlo, segno che "i loro rapporti non erano mai stati amichevoli o non lo erano più" (p. 48 - enfasi del presente autore). Ma senza pretendere di dirimere la questione teorica di quale delle due categorie di indizi sia più rilevante, ed invitando il lettore ad agire nella veste di vero e proprio giudice11, portiamo in scena un'altra testimonianza diretta, di solito ignorata da chi si è occupato finora del "mistero" in parola. Si tratta di quella che viene offerta da Oscar D'Agostino, uno dei primi attori delle ricerche che condussero infine alla bomba atomica12: "[Majorana] Tornò più volte in via Panisperna per discutere con Fermi su tutte le questioni teoriche che erano state, per così dire, messe sul tappeto dalle stesse scoperte di Fermi e da quelle immediatamente precedenti dei coniugi Joliot-Curie. Un pomeriggio Amaldi ed io arrivammo all'Istituto di Fisica verso le due. Fatti pochi passi cominciammo a percepire grida ed esclamazioni assai vivaci. Riconoscemmo la voce di Fermi e ci stupimmo non poco. Non avevamo mai udito Fermi urlare. La porta dello studio era aperta: Fermi e Majorana, davanti a grosse lavagne piene di numeri e di strani segni più o meno cabalistici, si davano reciprocamente del cretino e dell'asino. La disputa era incominciata verso mezzogiorno. Nel calore della discussione nessuno dei due fisici aveva pensato di andare a pranzo. Fu quella l'ultima volta che vidi Majorana. " Non ce ne sarebbe ovviamente bisogno, ma sottolineiamo pure, per i "distratti", che, secondo le dichiarazioni di quest'altro testimone oculare, come già detto da tutti solitamente trascurato, Amaldi stesso fu presente all'episodio, e che quella sopra riferita non può essere considerata una naturale comune sfuriata, con successiva rappacificazione, perché dopo di allora D'Agostino non vide mai più Majorana in via Panisperna! (l'accaduto si riferisce alla tarda primavera del 1934, quindi a ben 4 anni prima della scomparsa del povero Ettore).

3 - Altre scomparse Amaldi dunque rimprovera Sciascia per aver esercitato troppa fantasia, essersi preso delle discutibili eccessive libertà, nella costruzione del suo "giallo", "in una prospettiva che spesso caratterizza più l'autore che la vicenda trattata". Un lavoro da letterato, da artista, il suo, di nessun valore dal punto di vista storico. Muoverò invece qui di seguito all'autore di Racalmuto la critica di aver messo in campo troppo poca fantasia, e che di questa sua deficienza era forse ben consapevole. E' chiaro che sarà necessario preliminarmente delineare un plausibile scenario alternativo, a quello che in fondo accomunava tanto Amaldi quanto Sciascia. Per usare ancora le parole del primo, il problema sarebbe "di comprendere le ragioni per cui Ettore Majorana abbia deciso di scomparire (e sia scomparso)", prefigurando già così l'unica possibile soluzione del caso della quale sarebbe legittimo discutere13. Ma se Majorana NON avesse optato per una "fuga dal mondo", e il senso di tutto l'accaduto fosse viceversa l'aver quegli SUBÌTO, e non SCELTO, la sua sorte? E una simile eventualità, trattandosi a fortiori di un siciliano che scompare nella sua terra d'origine, non sarebbe dovuta venire in mente proprio a Sciascia, che di altrettanto analoghe luttuose sparizioni ben sapeva, e sulle quali aveva anzi basato diverse sue storie? Nel primo racconto di Sciascia dedicato alla conquista (o riconquista) della Sicilia da parte della mafia (Il giorno della civetta, 1961) "scompare" un certo Nicolosi, che aveva avuto l'unica colpa di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato 14. Nella successiva storia, affine alla precedente per tema ed ambientazione (A ciascuno il suo, 1966), "scompare" il


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Prof. Laurana, che si spera possa risaltare fuori un momento o l'altro, "come un gatto che è andato a passare qualche giorno sui tetti", laddove in verità già "giaceva sotto grave mora di rosticci, in una zolfara abbandonata, a metà strada, in linea d'aria, tra il suo paese e il capoluogo" (enfasi del presente autore). Fin qui la "fantasia" letteraria - anche se, si sa bene, il confine con verità ispiratrici è assai labile - ma certamente Sciascia non poteva ignorare, nel mentre poneva attenzione alla vicenda Majorana, l'effettiva scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, avvenuta nel settembre del 1970 in piena Palermo (e a maggior ragione dappoiché lo sventurato aveva scritto, solo qualche anno prima, un'inchiesta in tre puntate proprio sulla storia del fisico catanese15). Tre "persone", tra realtà e immaginazione, che non si rintracciano più, in circostanze dietro le quali si profila minacciosa l'ombra della mafia, e non il desiderio di rifarsi una vita altrove, o dedicarsi pacificamente alla meditazione spirituale e alla preghiera: parlando sotto il profilo delle pure ipotesi logiche, si può davvero scartare a priori tale "pista" nel caso di cui ci stiamo occupando, e confinarla nel novero delle ricostruzioni "fantasiose", che andrebbero "tralasciate per ovvi motivi"16? Non è questo breve articolo naturalmente la sede adatta per discutere i pro e i contro di un'ipotesi di soluzione conforme a siffatte premesse17, ma la si può comunque cercare di riassumere così. Majorana potrebbe essere scomparso perché, nei preparativi del conflitto mondiale che appariva sempre più ineluttabile, le applicazioni di alcune recenti scoperte scientifiche sembravano poter assumere presto un importante rilievo, tanto che la corsa all'accaparramento dei principali esperti di talune questioni era già cominciata 18. Il timore che lo scienziato siciliano potesse restare in un certo campo, anziché nell'altro, può aver fatto precipitare una tragica decisione, alla cui esecuzione la famigerata organizzazione criminale, evidentemente già allora collusa con i servizi segreti americani, si sarebbe prestata. La tesi della fuga, o del suicidio, sarebbero state volutamente accreditate (in qualche modo facilitate dagli ultimi inconsulti tentativi di Majorana stesso di sottrarsi ai presumibili rischi che correva, o a eventuali pressioni indesiderate), per non attirare l'attenzione del governo fascista su un ambiente che desiderava al tempo su di sé molte più ombre che non luci19. Se ne trarrebbe che gli "ovvi motivi" di cui sopra, piuttosto che nella manifesta infondatezza di considerazioni dietrologiche (una "parola magica" che, una volta pronunciata, sembra oggi mettere a posto ogni coscienza), consisterebbero allora soprattutto: i - nella scarsa volontà di tutti (compresa la stessa famiglia Majorana, naturalmente ad eventi bellici conclusi) di chiarire la posizione dello scienziato in ordine al suo possibile schieramento dalla parte dei "cattivi", e non da quella dei "buoni"20; ii - nell'ovvio desiderio di non approfondire i particolari della vicenda da parte di coloro che vi furono personalmente (e forse drammaticamente) coinvolti, in modo più o meno diretto; iii - nell'intento politico di non riproporre, attraverso la discussione di un caso tutto sommato "marginale", la questione dei rapporti della mafia con il fascismo, a seguito della nota campagna del prefetto Mori, e la successiva collaborazione di questa dalla parte degli alleati (o dei futuri alleati) contro il governo persecutore21; iv - il rifiuto di dibattere il precedente punto consente altresì di non indagare in determinate direzioni - "pericolose" per chi le segue, come il povero De Mauro sperimentò di persona - le possibili ulteriori connessioni tra mafia ed interessi americani in Italia, caso Mattei docet22.


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E' il complesso di tali motivazioni che potrebbe forse spiegare come mai una particolare ipotesi investigativa sia rimasta sempre sciaguratamente assente dal campo, quasi un tabù ideologico impedisse addirittura di pensarla (e se ciò può essere scusabile per quanto si riferisce alle indagini del 1938, lo diventa assai meno per chi dovrebbe avere a suo favore almeno il senno di poi). Perché anche solo pronunciare nel presente contesto la terribile parola: "omicidio" - sebbene è probabile che si sia trattato di un "delitto di stato" rimanderebbe alla ricerca del possibile "omicida", e dei suoi mandanti, ma guai a cominciare a gettare sia pure ragionevoli dubbi sugli intimi, tutti assolutamente al di sopra di ogni sospetto, proprio come nelle migliori storie di Sciascia, per l'appunto, che la sapeva assai lunga in proposito...

4 - Conclusioni Per proseguire nella metafora di tipo giudiziario, dopo l'accusa, un po' di "difesa". Si potrebbe per esempio sostenere che il lavoro di Sciascia non dovrebbe essere inquadrato nella categoria della "cronaca", o del resoconto storico, come abbiamo finora fatto, ma in quella del mero espediente letterario. Ovvero, una semplice finzione, la vicenda terrena di Majorana offrendosi opportuna a simbolizzare - secondo la personale prospettiva ideologica dell'autore, e la "soluzione" da questi prescelta - la figura dello scienziato pentito, il quale, presago degli orrori che sarebbero usciti dal vaso di Pandora incautamente aperto dai suoi colleghi, compie una scelta spirituale, e si ritira dalle brame del mondo 23. Anche la tesi del suicidio si sarebbe prestata altrettanto bene, del resto, per un siffatto utilizzo della vicenda in chiave allegoricomorale, né è mancato infatti chi (soprattutto in occasioni di tipo popolare-divulgativo) ha proposto a tale scopo questa "spiegazione", indicando negli scrupoli dello scienziato, più sensibile degli altri apprendisti stregoni manipolatori della materia, il principale movente per l'eventuale atto estremo24. Sinceramente, ritengo che la detta linea di difesa sia decisamente debole, e che, affrontando gli avvenimenti in parola, il nostro autore avesse l'intenzione di restare sul versante della realtà, e non su quello dell'immaginazione. E allora, quali conclusioni trarre in definitiva? Se fosse vera, anche solo in qualcuna delle sue linee generali, la ricostruzione sopra accennata, Sciascia non avrebbe saputo (o voluto) "intuire" nulla di ciò che potrebbe essere veramente accaduto25? (escludendo naturalmente l'eventualità che abbia compiuto opera di volontario "depistaggio"). C'è un'altra possibile più convincente difesa, che passa attraverso un tentativo di autentica comprensione del "metodo" dello scrittore, della sua personalità, e l'unico modo per individuarli è, al solito, quello di far parlare egli stesso. "Ho impiegato addirittura un anno ... per far più corto questo racconto ... Ma il risultato cui questo mio lavoro di cavare [corsivo nel testo] voleva giungere era rivolto più che a dare misura, essenzialità e ritmo, al racconto, a parare le eventuali e possibili intolleranze [corsivi del presente autore!] di coloro che dalla mia rappresentazione potessero ritenersi, più o meno direttamente, colpiti. Perché in Italia, si sa, non si può scherzare né coi santi né coi fanti: e figuriamoci se, invece che scherzare, si vuol fare sul serio ... Non mi sento eroico al punto da sfidare imputazioni di oltraggio e vilipendio; non mi sento di farlo deliberatamente. Perciò, quando mi sono accorto che la mia immaginazione non aveva tenuto nel dovuto conto i limiti che le leggi dello Stato e, più che le leggi, la suscettibilità di coloro che le fanno rispettare, impongono, mi sono dato a cavare, a cavare ... Può darsi che il racconto ne abbia guadagnato. Ma è certo, comunque, che non l'ho scritto con quella piena libertà di cui uno scrittore (e mi dico scrittore soltanto per il fatto che mi trovo a scrivere) dovrebbe sempre godere [ancora una volta, il corsivo è aggiunto]. Inutile dire che non c'è nel racconto personaggio o fatto che abbia rispondenza, se non fortuita, con persone esistenti e fatti accaduti ".


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Queste parole, quasi una straordinaria "confessione", sono contenute in una nota finale apposta a Il giorno della civetta, e si può dire che esse non richiedano ulteriori commenti, ad illustrazione dell'ipotesi interpretativa cui abbiamo accennato. Del resto, se quella del capitano Bellodi era dichiaratamente un'opera di fantasia, quanto più allora certe cautele, certa profonda amarezza e disistima per l'ambiente in cui si trovava a vivere, debbono avere condizionato la "libertà" dello scrittore nel trattare un caso fin troppo concreto? E, ancora, se questi ricevette critiche per aver solo osato pensare a un concorso pilotato (e quando mai nell'ambiente universitario?!), e a possibili "rancori" all'interno di un gruppo di scienziatiprofessori (in Italia siamo sempre tutti "amici", o almeno così bisogna dire, e scrivere, nonostante ogni evidenza contraria - anche se, per fortuna, non necessariamente "amici degli amici"), figurarsi se avrebbe potuto lasciarsi andare ad esprimere alcuni dubbi, oppure ad accennare soltanto, così per puro esercizio di logica e libertà, a piste che andrebbero (avrebbero dovuto essere sin dall'inizio) perseguite con maggiore rigore, e soprattutto totale assenza di pregiudizi. L'infondatezza di certe supposizioni potrebbe essere provata solamente dopo indagini davvero degne di questo nome, e non per via di anatemi (pur sempre efficaci, specialmente sugli "uomini di cultura" che, da sempre bramosi di servire il potere del momento per ricavarne benefici, evitano di contrastarlo, o di fungere pubblicamente da sua "coscienza critica" - il pessimismo civile di Sciascia, con ciò che ne consegue in ordine all'inutilità dell'agire, riguarderebbe una tipologia diversa di intellettuale26). Potremmo interrompere qui la nostra analisi, ma desiderio di completezza, e forse di "provocazione", ci spinge a chiederci se, una persona intelligente come Sciascia, non abbia lasciato forse, confuse nella sua opera complessiva, delle "tracce" del suo reale pensiero. E allora non resisto a dire che la mia fantasia maliziosa avverte una sorta di parallelismo tra la fine di Majorana e quella del povero professor Laurana (eh sì, professori entrambi, legati inoltre dalla funzione, oltre che dall'assonanza botanica dei cognomi), che capisce troppo e scompare, di quell'improvvisato detective della cui ingenua onestà e curiosità non ci si poteva "fidare" (addirittura: "cretino", è l'ultimo appellativo che si usa per lui nel libro), ma che al contrario si fida di chi, malgrado fosse abbastanza sconosciuto, gli offre un passaggio in auto per tornare a casa. Quasi che Sciascia avesse voluto dire che, a cercar bene, il corpo di Majorana - come quello dell'altro sfortunato De Mauro27, e di chissà quanti altri - avrebbe potuto essere ritrovato poco distante da Palermo (quante volte non sarebbe meglio appunto, in simili casi, scavare vicino, che non cercare lontano?!), in una zolfara, o in un chiarchiaro, piuttosto che all'ombra del silenzioso chiostro di un convento, o addirittura in un'altra parte del mondo, alla stregua di un banchiere fuggito con i risparmi dei suoi clienti... Un'ipotesi troppo "scottante" questa per poter essere sia pure solo sussurrata ancora oggi? Bene, aspettiamo allora che più acqua passi sotto i ponti, ma cominciamo ad alimentare di nascosto, nell'ombra delle nostre menti, un piccolo dubbio, anche se sono persuaso che, proprio come nel "caso Laurana", soltanto quel "cretino" (e tale pure è forse il sottoscritto!) non aveva piena consapevolezza di fatti che viceversa tutti conoscevano assai bene...

Note 1 - La pubblicazione in volume era stata preceduta da 7 articoli apparsi su La Stampa tra il 31 agosto e il 7 settembre 1975, presentati come un "giallo filosofico". C'è perfetta corrispondenza tra questi e il successivo libro (che era peraltro annunciato con un titolo diverso: E possibilmente anche dopo), a parte l'aggiunta di numerose note a pie' di pagina, che non appaiono nel quotidiano. 2 - Morris Kline, Storia del pensiero matematico, Ed. Einaudi, Torino, 1991, vol. II, p. 908.


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3 - Erasmo Recami, Il caso Majorana, Ed. Mondadori, Milano, 1987. In quest'opera, assolutamente fondamentale per chiunque voglia conoscere ogni elemento documentario sulla vicenda, sono riportate tutte le lettere dello scienziato scomparso, alcuni brani delle quali nel seguito citeremo senza ulteriore esplicita indicazione. 4 - Bruno Russo, Ettore Majorana - un giorno di marzo, Ed. Flaccovio, Palermo, 1997. 5 - Il primo dei principi della filosofia di Cartesio recita appunto: "Che per esaminare la verità si deve, una volta nella vita, porre tutto in dubbio, quanto è possibile". 6 - 5 ottobre 1975. Amaldi replicava alla serie di articoli apparsi sul quotidiano torinese (vedi nota 1). Nel sottotitolo del pezzo in oggetto compaiono le parole: "Secondo Leonardo Sciascia il fisico Majorana 'non morì suicida nel 1936 [sic], ma si rifugiò in un convento'. Perché? 'Per orrore dell'atomica e rancore verso i suoi colleghi'. Ma Edoardo Amaldi, che fu suo amico e collega di Fermi, sostiene che non è vero...". L'espressione "Per orrore dell'atomica etc.", pur riportata tra virgolette, non sembra comparire in effetti nel lavoro di Sciascia, il quale, anziché "rancore", si limita ad utilizzare termini quali: antagonismo, diffidenza, estraneità, ripicco, puntiglio. 7 - C'è assai da dubitare di questa affermazione, e in effetti una sua smentita è essenziale per lo scenario alternativo che qui si proporrà. Si veda allora al riguardo quanto viene riportato nello studio del presente autore, La scomparsa di Ettore Majorana: un affare di stato?, Ed. Andromeda, Bologna, 1999, pp. 57 e segg.. Amaldi entra in particolari scientifici in effetti sconosciuti all'epoca di Majorana, necessari però per la costruzione della bomba, ma ovviamente la convinzione che qualcosa possa essere conseguito percorrendo una certa strada è cosa ben diversa dalla conoscenza completa di tutti i dettagli e le difficoltà dell'operazione, che si è rivelata certamente più complessa di quanto l'immaginazione delle persone coinvolte nella vicenda, negli anni dal '34 al '38, poteva ragionevolmente prevedere. Nell'analizzare i problemi teorici e sperimentali che bisognava ancora superare, Amaldi ci rivela comunque un particolare significativo, e cioè che Majorana era molto interessato a fare previsioni "per vedere quale dei due gruppi di potenze che entro qualche anno si sarebbero con ogni probabilità affrontati, aveva maggiori probabilità di prevalere"! Come dire che almeno la consapevolezza dell'imminente conflitto era ben presente tra i fisici di via Panisperna. 8 - Amaldi si affanna anche a sottolineare come i prevedibili vincitori del concorso "secondo giustizia" fossero tutti assolutamente meritevoli, ma il giudizio di Majorana su almeno uno di questi non è propriamente positivo. Citiamo da una lettera al sincero amico Giovanni Gentile jr.: "Ho visto il lavoro di Racah, ma solo nelle bozze. Nella seconda parte vi è qualcosa di reale: cioè l'effettiva applicazione alla teoria β e le critiche che mi rivolge. La prima parte non è originale e anche come matematica è traballante: Racah non sa, o non crede, che gli spinori hanno due valori e ne trascura le conseguenze. Cose che succedono sempre quando si impara da altri (Pauli) piuttosto che da se stessi". Si tratta di uno scritto del 21.11.37, dei tempi cioè del famoso concorso, a proposito della quanto meno anomala e rara conduzione del quale, Majorana ebbe a dire: "Ho riso alquanto per le stranezze procedurali del mio concorso, delle quali non avevo alcun sospetto"; "se al prossimo conclave mi fanno papa per meriti eccezionali accetto senz'altro" (da lettere allo zio Quirino Majorana, noto fisico, oppositore della teoria della relatività di Einstein, 16.11.37, e a Gentile, 21.11.37). Né del resto si può fare a meno di sentire acre ironia in queste altre parole, sempre indirizzate a Gentile (e qui siamo al 12.3.1933, l'anno che segnò l'inizio del definitivo distacco dai colleghi romani): "Ho avuto da Roma una copia della grande opera di Fermi e Segrè che apparirà presto fra le memorie dell'Accademia. A questa dovrà seguire un'altra grande opera di Fermi e Amaldi sui calcoli statistici". Sarebbe interessante naturalmente discutere se esistessero anche altre e più importanti ragioni di contrapposizione all'interno del gruppo di via Panisperna, e quale ne fosse l'origine profonda, ma sono tutti argomenti sui quali si preferisce sempre sorvolare... 9 - Ci sarebbe da interrogarsi se ciò sia proprio vero. Una testimonianza, che può essere sempre interessata, vale davvero più di una sensata deduzione? Per trovare una risposta a questo interrogativo restando all'interno dell'universo sciasciano, citiamo da Il giorno della civetta (opera su cui presto ritorneremo): "- Lasciate che tutto arrivi al giudice istruttore: e intanto preparate per Diego un alibi di quelli che, a tentare di morderli, ci si rimettono i denti... - E che vuol dire? - Vuol dire che Diego, il


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giorno che Colasberna è stato ammazzato, alla stessa ora, stava mille miglia lontano dal luogo del delitto, e in compagnia di degnissime persone, mai censurate dalla legge, galantuomini della cui parola nessun giudice ha il diritto di dubitare...". 10 - Questo è un altro importante particolare sul quale giustamente insiste Sciascia, accennando per esempio alla corrispondenza scientifica tra Ettore e lo zio Quirino, già citato. Delle ultime eventuali ricerche di Majorana lo stesso Amaldi ammette: "Nessuno di noi riuscì però mai a sapere se facesse ancora della ricerca in fisica teorica; penso di sì, ma non ne ho alcuna prova" (l'affermazione è riportata da Sciascia, alla p. 48), pure: "[Majorana] Lavorava molto, per un numero di ore del tutto eccezionale" (ibidem), alla fine forse anche per "tenersi a quel livello di 'chiara fama' per cui era stato chiamato alla cattedra ... Non poteva ormai non stare alla pari di un Fermi" (p. 53). A tale proposito, un importante elemento da non sottovalutare, nella sua incongruità rispetto a versioni "buoniste" della vicenda, è il caso degli appunti scomparsi dello scienziato. Questi aveva consegnato infatti a una studentessa, proprio il giorno della sua ultima lezione a Napoli (sede dove Majorana era da poco venuto ad insegnare, in seguito al famoso concorso), certe carte, dalla ragazza date poi al fidanzato, assistente presso l'Istituto di Fisica della città partenopea, il quale le fece finire successivamente nelle mani del Prof. Carrelli, direttore del detto Istituto. Da allora di questi fogli si perde ogni notizia, avendoli Carrelli, a quel che pare, definitivamente perduti (perché non consegnati subito ai familiari dello scomparso?!). Si tratta di storia risaputa, che il libro di B. Russo, citato nella nota 4, riferisce invero molto bene (Cap. VI), aggiungendo anzi, rispetto ad altre fonti, un interessante dettaglio, ancora frutto di una testimonianza diretta: e cioè che lo stesso Carrelli aveva cercato di ottenere dagli studenti le annotazioni prese durante le lezioni del neo-professore! 11 - Sia pure soltanto di un ideale tribunale della storia, che non ha la responsabilità di stabilire colpe, e comminare pene, ma unicamente di pervenire ad interpretazioni credibili di eventi passati, possibilmente diverse e in alternativa - comunque, si potrebbe scommettere che funzionerebbe sempre meglio di tanti, troppi, dei nostri tribunali veri. 12 - I ricordi di D'Agostino (che era il chimico del gruppo di via Panisperna, sempre rimasto piuttosto in disparte nelle numerose "storie" ad esso dedicate) furono pubblicati in più puntate nel 1958 sul Candido, il "settimanale d'attualità e politica fondato da Giovannino Guareschi nel 1945" (si tratta qui in particolare del N. 24 del 15 giugno). Questa fonte, che appare diretta e sincera (in quanto evidentemente disinteressata), oltre che di prima mano, è ignorata dagli altri lavori sul caso Majorana che conosco, e che qui ho citato, ma forse, più che per volontà di non prendere in considerazione indizi che porterebbero su strade "rischiose", perché il Candido era un settimanale di destra, in un momento in cui la "cultura" italiana era principalmente di sinistra. 13 - Non è questo del resto l'unico punto nel quale Amaldi tende cripticamente ad orientare le ipotesi sulla scomparsa di Majorana solo in certe direzioni: "Quest'estate ... 'La Stampa' di Torino pubblicò un manipolo di 'rivelazioni' sulla scomparsa di Majorana ... [che] non giovavano a risolvere il 'mistero' Majorana, (se cioè si fosse veramente suicidato o se invece, tentato il suicidio, si fosse rinchiuso in un convento senza più dar notizie)" (tertium non datur?!). 14 - In questo caso, però, il cadavere dello sventurato viene successivamente rinvenuto in un chiarchiaro, ovvero "una zona pietrosa, un insieme di grotte, di buchi, di anfratti". 15 - L'Ora, Palermo, ottobre 1965. 16 - Utilizziamo qui espressioni contenute nel libro di Bruno Russo citato nella nota 4, p. 85. Questo lavoro, di dimensioni modeste come il suo contenuto generale, propende per l'ipotesi del suicidio, senza prendere minimamente in considerazione gli argomenti con i quali proprio Sciascia confutò brillantemente tale possibilità: "Esaurimento nervoso, dicono concordemente i testimoni (e lo dissero anche i medici di famiglia); e alcuni sarebbero costretti a parlare di follia, se non disponessero di questo delicato, 'moderno' eufemismo. Ma l'esaurimento nervoso o la follia non sono porte aperte da cui si entra e si esce quando si vuole.", p. 50; "altro elemento da tener presente contro la tesi del suicidio, Ettore Majorana portò con sé passaporto e denaro", p. 64. Ulteriori considerazioni contro questa soluzione sono contenute nello studio del presente autore, già citato nella nota 7.


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17 - Rimandiamo allo studio indicato nella nota 7 il lettore interessato all'esame di questo tipo di ipotesi, oppure all'assai poco noto, dal momento che è pur esso ignorato dai lavori di maggiore diffusione dedicati alla vicenda: Salvo Bella, Rivelazioni sulla scomparsa di uno scienziato: Ettore Majorana, Ed. Italia Letteraria, Milano, 1975. Tale studio individua correttamente l'esistenza di una "macchinazione politica internazionale" (p. 142) dietro la sparizione dello scienziato, e il ruolo della mafia quale intermediario: "Grande rappresentante occulto degli americani era a quell'epoca il capomafia don Calò Vizzini, che nel 1943 ne organizzò lo sbarco in Sicilia", ma sembra poi "perdersi" nelle conclusioni, visto che Majorana sarebbe stato soltanto premurosamente aiutato a cambiare ... identità, e a nascondersi nelle vesti di un sacerdote. Del resto, anche questo autore appare vittima di un antifascismo di maniera, visto che ci tiene a sottolineare che Majorana "era antifascista e ogni capodanno scommetteva con gli amici che il regime sarebbe entro i dodici mesi caduto" (p. 156). Ma se Majorana fosse stato davvero antifascista, come gli altri fisici che lasciarono l'Italia per andare a costruire la bomba atomica negli Stati Uniti, sarebbe partito con loro, e se non avesse davvero voluto impegnarsi concretamente nell'impresa, lo avrebbero lasciato in pace a portare avanti le sue ricerche "astratte" in qualche istituto scientifico prestigioso. Sulla questione vedi la successiva nota 20. 18 - Anche se talune ipotesi resteranno probabilmente sempre confinate nel rango di illazioni, un fatto è sicuro, e consiste nella quasi sincrona fuga della maggior parte del gruppo dei fisici romani centro di questa storia nei mesi successivi alla scomparsa di Majorana, così come è certo che la gran parte di queste persone si troveranno poi in posizioni di rilievo nel famoso "progetto Manhattan". Pontecorvo era già all'estero dal 1936, e passò a lavorare negli Stati Uniti nel 1940 (da dove poi, nel 1950, operò il noto radicale cambiamento di campo, fuggendo con tutta la famiglia al di là della "cortina di ferro", a seguito di alcuni misteriosi episodi di spionaggio, i cui più autentici retroscena aspettano ancora di essere chiariti). Emilio Segrè si recò negli Stati Uniti già nel mese di luglio del 1938. Fermi lo raggiunse poco dopo, nel mese di dicembre dello stesso anno, assumendo il conferimento del premio Nobel a Stoccolma come pretesto per allontanarsi dall'Italia, dove non farà mai più se non saltuario ritorno (morirà a Chicago, nel 1954; a proposito di fascismo e di anti-fascismo nel gruppo dei fisici romani, Sciascia sottolinea opportunamente che fece scandalo al tempo la circostanza che, nel momento del ricevimento del Nobel, non effettuasse il prescritto saluto romano - p. 14). Amaldi andò oltreoceano nel luglio del 1939, e il giorno della dichiarazione ufficiale dello stato di guerra tra le potenze alleate e la Germania (3 settembre 1939) fu raggiunto dalla notizia che la Questura di Roma aveva impedito che la sua famiglia potesse seguirlo in America, sicché fu costretto a rientrare in Italia nel mese di ottobre, prima che il nostro paese entrasse a sua volta nel conflitto (10 giugno 1940). Il caso di Rasetti, assistente di Fermi, e l'unico dei protagonisti tuttora viventi di questa storia, fu del tutto diverso, e degno di particolare attenzione. Questi abbandonò definitivamente l'Italia nell'estate del 1939, ma la sua meta fu il Canada, dove lasciò, in maniera definitiva, gli studi di fisica, dedicandosi da allora in poi a quelli di scienze naturali (geologia e paleontologia), rifiutando sostanzialmente ogni contatto con gli ex-amici. Perché? Anche le possibili connotazioni psicologiche di tale peculiare comportamento potrebbero avere grande importanza sullo sfondo dello scenario alternativo qui proposto. Naturalmente, non furono soltanto i fisici romani a essere coinvolti in questa sorta di grandioso esodo scientifico; l'evento assunse dimensioni nazionali e internazionali. Tra gli altri fisici ebrei italiani inclusi nel progetto Manhattan, Bruno Rossi lasciò anch'egli l'Italia nel 1938, raggiungendo gli Stati Uniti dopo aver fatto tappa a Copenaghen; e come lui emigrarono, poco dopo, Giulio Racah (uno dei vincitori del "concorso" di cui al secondo paragrafo), che si recò però nell'attuale Israele, e il cugino Ugo Fano (che, già laureato, aveva studiato a Roma con Fermi). Per quel che riguarda ciò che accadde al di fuori dei nostri confini, a prescindere da Albert Einstein, che aveva già detto addio alla Germania per gli Stati Uniti nel 1933 (dove divenne professore presso l'oggi celeberrimo Istituto di Studi Avanzati di Princeton, allora appena istituito), e da Johann von Neumann, che si trovava negli USA dal 1930, lasciarono o avevano da poco lasciato l'Europa in quegli anni, per raggiungere i fisici americani Julius Robert Oppenheimer (il cosiddetto padre della bomba atomica) e Isidor Rabi (premio Nobel 1944), entrambi di origine ebraica: Niels Bohr, Max Born, Edward Teller (il futuro ideatore della bomba H), James Chadwick (lo scopritore del neutrone), Eugene Wigner (premio Nobel 1963), Leo Szilard, Hans Bethe, Klaus Fuchs (che fu poi accusato, nel 1949, di avere fatto la spia al servizio dei sovietici sin dal 1942; arrestato, a differenza di Pontecorvo - riuscito a fuggire prima, evitando simili accuse e conseguente reclusione - Fuchs poté riparare anche lui in URSS soltanto dopo uno scambio di prigionieri), Rudolf Peierls (leader del progetto atomico inglese, e


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"maestro" di Fuchs), George Placzek, Samuel Goudsmit, Otto Frisch, etc. (citando un po' alla rinfusa); tutti futuri membri, seppure a diverso titolo, dell'esclusivo club atomico. Si può aggiungere che numerosi di questi scienziati avevano trascorso qualche tempo presso l'Istituto di Fisica di Roma, nel momento di massimo splendore della "scuola" di Fermi. 19 - A dire il vero, nel corso delle mie personali "indagini", mi è pure venuta all'orecchio, in via riservata, una nuova "possibile verità", della stessa "tipologia" però di quella qui illustrata, anche se ad essa in qualche senso "antipodale". Majorana sarebbe fuggito volontariamente in Germania (lasciando credere di essersi tolto la vita), allo scopo di collaborare con alcuni scienziati del III Reich addetti al progetto della fantomatica "bomba atomica" tedesca, che aveva avuto modo di conoscere e stimare durante il suo soggiorno in Germania nel 1933; successivamente, alla conclusione delle ostilità, avrebbe trovato rifugio in Sud America, assieme ad altri gerarchi nazisti. L'ipotesi così sintetizzata, alla quale mi piace riferirmi come all'ipotesi Klingsor (ricollegandola al romanzo di Jorge Volpi, In cerca di Klingsor, Mondadori, 2000, dove peraltro non si nomina mai Majorana), ha diversi "meriti": per esempio è capace di spiegare talune voci di avvistamento dello scienziato in quella parte del mondo (a cui si dà molto credito, come si è ricordato, nel libro di Recami - ma, appunto, la vera fuga dall'Europa sarebbe avvenuta nel '45, e non nel '38!), oppure le chiacchiere relative a un suo ritiro, per ovvie ragioni del tutto occultato, in qualche convento italiano, a seguito di un ritorno nel nostro paese un numero imprecisato di anni dopo i drammatici eventi della guerra (vedi per esempio Sharo Gambino, L'atomica e il chiostro, Jaca Book, 2001). La famiglia - o almeno parte di essa, e da un certo punto in poi - sarebbe stata al corrente dei fatti, ma per comprensibili motivi avrebbe preferito continuare ad accreditare l'ipotesi del suicidio, tenuto conto che il collaborazionismo sarebbe stato ritenuto peccato ben peggiore da addebitare al congiunto. Si tratta di una ricostruzione logicamente decente (e coerente, al pari del resto di quella che ho deciso finora di privilegiare, con uno dei "dettagli" più inquietanti di tutto questo mistero, cioè la testimonianza, ingiustamente sottovalutata, della signora Fiorenza Tebalducci - cfr. lo studio citato nella nota 7, pp. 75 e segg.), se non fosse per due grosse obiezioni alle quali non riesco a trovare adeguata risposta. Perché tale specifico episodio sarebbe passato completamente sotto silenzio, quando numerosi particolari, riguardanti il ruolo di altri scienziati collaboratori dei nazionalsocialisti, sono stati divulgati? (vedi per esempio Operation Epsilon: The Farm Hall Transcripts, Inst. of Phys. Publ., Bristol, 1993, attualmente distribuito dalla Univ. of California Press). Perché soltanto alla memoria di Majorana sarebbe stato riservato un trattamento di favore, specialmente da parte di persone che - come Emilio Segrè, tanto per citare uno dei "ragazzi di via Panisperna" - non lo "amavano" di certo? Inoltre, se Majorana intendeva davvero fuggire in Germania simulando un suicidio, quale sarebbe il senso delle note "complicazioni": una prima lettera annunciante il suo proposito, poi una seconda in cui lo rinnegava, un viaggio a Palermo apparentemente inutile, il ritorno a Napoli, seppure realmente avvenuto, etc.?! Comunque sia, si è ahimé costretti a riconoscere che la completezza logica è il grande assente da tutte queste indagini, sia da quelle poliziesche veramente effettuate al tempo, che definire mediocri è un eufemismo [Sciascia, nel suo solito modo brillantemente pungente, così si esprime sul tema: "la sicurezza pubblica, per quel tanto che se ne gode, più poggia sulla poca e sporadica tendenza a delinquere degli uomini che sull'impegno, l'efficienza e l'acume di essa polizia [...] più o meno secondo i tempi, più o meno secondo i paesi ... E senz'altro riconosciamo di essere anche noi ingiusti nei riguardi della polizia italiana, del modo - che ci appare svogliato e senza acutezza - in cui la polizia italiana condusse le indagini per la scomparsa di Ettore Majorana. Non le condusse affatto, anzi: lasciò che le conducessero i familiari, limitandosi ... a 'collaborare' (e ad un certo punto, è facile immaginarlo, a fingere di collaborare).", p. 10], sia da quelle successive "letterarie", che è difficile non qualificare "deboli", e "conformiste"... 20 - Abbiamo già cominciato ad accennare alla spinosa questione delle eventuali "simpatie fasciste" di Ettore Majorana, altro elemento che curiosamente lo accomuna a Mauro De Mauro, che fu, con grave imbarazzo dei suoi successivi numerosi estimatori "democratici", combattente della R.S.I., e devoto del comandante della X MAS Junio Valerio Borghese (tanto da battezzare una propria figlia con il nome di Junia). Nel tentativo di "dimostrare" l'antifascismo di Majorana si affannano un po' tutti, dal Bella già citato (vedi nota 17), al Recami, al Russo, etc. (fino al punto che qualcuna delle ipotesi davvero più fantasiose contempla un intervento dei nostri servizi segreti contro Majorana: come è possibile però concepire questi intervenire contro il fisico siciliano, dubbiosi della sua "lealtà", e inattivi invece nei confronti dei ben più sospettabili di "collusione con il nemico" Fermi, o Segrè, tanto


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da consentirne addirittura qualche mese dopo i fatti che stiamo esaminando la partenza dall'Italia?!), ma non Sciascia, che anzi scrive molto onestamente: "Siamo nel 1933. E in Italia gli antifascisti è possibile incontrarli soltanto in carcere. Quattro anni prima c'era stata la 'conciliazione' tra Stato e Chiesa: i cattolici avevano sciolto le loro riserve nei riguardi del fascismo, i vescovi benedivano i gagliardetti e proclamavano Mussolini 'uomo della Provvidenza'. L'anno prima anche Pirandello aveva montato la guardia alla mostra del decennale della 'rivoluzione fascista'. Marconi presiedeva la reale Accademia d'Italia voluta da Mussolini. Fermi, accademico, era Sua Eccellenza Fermi. D'Annunzio ... continuava a mandare a Mussolini fraterni messaggi ... Del primato italiano negli armamenti, nel giuoco del calcio e nella fisica, nessuno dubitava. Tutto il mondo ammirava le imprese dell'aviazione italiana. Critici accademici e militanti esaltavano la prosa di Mussolini. Ad ogni discorso di Mussolini, piazza Venezia rombava di un consenso che trovava eco nei palazzi e nei tugurî ... E dovremmo proprio a Ettore Majorana, disimpegnato dalla politica al limite di quanto allora si poteva essere disimpegnati, distante, chiuso nei suoi pensieri, chiedere una netta ripulsa del fascismo, un duro giudizio sul nascente nazismo?" (pp. 42-43). A me sembra che basti, a risolvere la vexata quaestio, citare un passo di una delle prime lettere di Majorana scritte alla madre da Napoli (23.2.38): "Ho una stanza discreta; oggi me ne daranno una migliore su via Depretis, da cui potrò vedere fra tre mesi il passaggio di Hitler", ma naturalmente il problema è affrontato con maggiore ampiezza nello studio già citato nella nota 7. 21 - Su questo argomento lasciamo parlare ancora Sciascia, attraverso uno dei suoi più indimenticabili personaggi: "Una eccezionale sospensione delle garanzie costituzionali, in Sicilia e per qualche mese: e il male sarebbe stato estirpato per sempre. Ma gli vennero alla memoria le repressioni di Mori, il fascismo: e ritrovò la misura delle proprie idee, dei propri sentimenti. Ma durava la collera, la sua collera di uomo del nord che investiva la Sicilia intera: questa regione che, sola in Italia, dalla dittatura fascista aveva avuto in effetti libertà, la libertà che è nella sicurezza della vita e dei beni ... Per il contadino, per il piccolo proprietario, per il pastore, per lo zolfataro, la dittatura parlava questo linguaggio di libertà. 'E questa è forse la ragione per cui in Sicilia ... ci sono tanti fascisti...'" (da Il giorno della civetta). Mi piace integrare queste considerazioni con un'ammissione di uno dei tanti pentiti (o, meglio, "collaboratori della giustizia") di oggi: "Cosa Nostra era stata debellata da Mussolini" (deposizione di Antonino Calderone, Verbale della Commissione Parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali similari, N. 11, 1992, XI Legislatura, Presidenza Luciano Violante). 22 - La probabile connessione della scomparsa di Mauro De Mauro con le sue indagini relative all'assassinio di Enrico Mattei (avvenuto nel 1962, ma ufficialmente negato per ben 33 anni, visto che la "versione di Stato" ha sempre parlato di un incidente casuale; solo una perizia del 1995 ha finalmente rinvenuto "tracce di esplosivo nei resti dell'aereo e dei corpi") è brillantemente illustrata in: Luciano Mirone, Gli insabbiati - Storie di giornalisti uccisi dalla Mafia e sepolti dall'Indifferenza, Ed. Castelvecchi, Roma, 1999. In questo lavoro si riprende anche la questione dei rapporti tra mafia e governo degli Stati Uniti: "Vito Guarrasi, potentissimo ed enigmatico avvocato palermitano, è colui che dal dopoguerra è considerato la vera eminenza grigia nell'isola, l'anello di congiunzione dei poteri occulti fra la Sicilia e gli Stati Uniti"; "Esperto di finanza, schivo, colto, Vito Guarrasi ha sempre comandato da dietro le quinte ... l'8 settembre del '43, ad appena ventinove anni, è aiutante di campo del generale Castellano al momento della firma dell'armistizio di Cassibile, un atto segreto che fa da premessa allo sbarco dell'esercito anglo-americano in Sicilia. Guarrasi è una delle pochissime persone ammesse a partecipare allo storico avvenimento"; "Dice l'ex-senatore Carmine Mancuso: 'Il patto scellerato fra politica, massoneria e mafia avviene nel momento in cui gli alleati sbarcano in Sicilia: l'artefice di questo legame è il colonnello Charles Poletti'." [secondo le ipotesi avanzate nel presente articolo, il "patto" cui si fa cenno potrebbe risalire in verità anche a qualche anno prima, senza dimenticare peraltro che sia mafia che massoneria avevano motivi di risentimento diretto nei confronti del fascismo - mi sembra di fare cosa utile al lettore, interessato alla questione dell'esistenza di un eventuale "fronte interno" occulto in azione durante la guerra, citando il libro di Piero Baroni, Una patria venduta - Come tradimenti e congiure hanno portato alla disfatta dell'8 Settembre, Ed. Settimo Sigillo, Roma, 1999]; "Michele Pantaleone afferma: 'Guarrasi è determinante per l'occupazione della Sicilia ... dove la situazione era più tranquilla e la mafia si era messa a disposizione per dare il suo apporto logistico. Molti boss vennero nominati sindaci. Calogero Vizzini e Genco Russo divennero rispettivamente primi cittadini di Villalba e di Mussomeli ... Io sono convinto che fu Guarrasi ad


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indicare agli americani il nome di don Calò come una delle persone in grado di agevolare lo sbarco alleato'."; "Il magistrato Aldo Rizzo, ex-componente della commissione parlamentare sulla P2, aggiunge: 'Io escludo nella maniera più categorica che i delitti eccellenti palermitani abbiano soltanto una matrice mafiosa, cioè credo che la mafia sia stata soltanto il braccio armato di un disegno molto più complesso e molto più vasto. Il caso De Mauro bisogna inquadrarlo in una dimensione nazionale ed internazionale'." (pp. 66-68, e 77). Il presidente dell'ENI, che non può essere ovviamente considerato sospetto di alcun servilismo nei confronti delle "compagnie petrolifere americane e inglesi che dal 1928 detengono il monopolio mondiale sulla produzione e distribuzione del petrolio" (p. 62), era fautore di una strategia "terzomondista", che sosteneva la necessaria neutralità dell'Italia nella contrapposizione (a voler dubitare di tutto, quanto autentica?!) tra i due "blocchi" USA ed URSS, e si schierava, in tema di politiche energetiche, a favore di paesi quali Marocco, Libia, Sudan, etc.. 23 - Tanto per dire, qualcosa del tipo I fisici, di Friedrich Dürrenmatt (1961), che però non ebbe bisogno di riferirsi a persone realmente vissute per esprimere le angosce di una generazione ossessionata dal timore di un possibile conflitto nucleare, e della probabile conseguente estinzione della specie umana. 24 - Citiamo alcuni eloquenti titoli di vari articoli scritti sul caso in discussione: "Rivive il dramma del primo suicidio atomico" (Sorrisi e Canzoni TV, 17.10.1971); "L'atomica a Mussolini? Meglio sparire" (Tempo Illustrato, 28.11.1971); "Il giovane fisico siciliano che morì per non vedere l'atomica" (Gente, 6.5.1972); "Si uccise per non vedere esplodere la sua bomba atomica" (Oggi, 6.5.1972) [queste informazioni bibliografiche vengono riprese da Leandro Castellani, Dossier Majorana, Ed. Fabbri, Milano, 1974]. 25 - Poiché intendiamo procedere senza riguardi pregiudiziali nei confronti di alcuno, c'è da dire che questa possibilità non è del tutto destituita di fondamento, visto il modo con cui Sciascia tratta una informativa anonima del 1938, che ci sembra viceversa assai degna di attenzione: "Sempre a proposito di movimenti contro gli interessi italiani si prospetta in qualche ambiente, che la scomparsa del Majorana, uomo di grandissimo valore nel campo fisico e specialmente radio, l'unico che poteva seguitare gli studi di Marconi, nell'interesse della difesa nazionale, sia vittima di qualche oscuro complotto, per levarlo dalla circolazione". Sciascia si limita a commentarla dicendo che: "Questa breve comunicazione eloquentemente dice della estrazione e livello della generalità dei 'confidenti'. Gli 'ambienti' in cui allora poteva nascere il sospetto che nella scomparsa di Majorana ci fosse un intrigo spionistico 'contro gli interessi italiani', altri non potevano essere che quelli della burocrazia infima, dei portieri (categoria alla quale molto probabilmente l'anonimo 'confidente' apparteneva), dei bottegai; non certo quelli dei fisici, dei diplomatici, delle alte gerarchie militari o ministeriali. Ed è facile pensare che il sospetto sia nato dopo che La Domenica del Corriere pubblicò l'annuncio della scomparsa: e tra i lettori di quel settimanale" (p. 8). E ancora, altrove (p. 61): "Su questa strada si può anche arrivare all'amenità della mafia che si dedicasse alla tratta dei fisici come a quella delle bianche". 26 - Tra tante esperienze dolorose, si può ricordare la nota polemica con Renato Guttuso (1979). 27 - Per parlare ancora di informazioni anonime che, nonostante il generale disprezzo con cui vengono accolte, vanno talora assai vicino alla verità, nel Giornale di Sicilia del 4 novembre 1970 è riportata la notizia di una "lettera dattiloscritta anonima, spedita da Palermo alla sede centrale dell'agenzia ANSA", a Roma, da parte di una persona che si firma "Uno che sa e che ha paura", nella quale si dice testualmente: "Prego informare tutti i giornali d'Italia che il giornalista Mauro De Mauro (foggiano) è morto ed il suo corpo si trova a pochissimi km. da Trapani. Ritengo opportuno far sapere questa notizia alla opinione pubblica. Badate che dico la verità, e ve lo giuro sull'onor mio e su Dio. Non posso darvi il mio cognome, ho paura della mia [sic]: se non ritenete opportuno di diffondere codesta notizia è affar vostro, io me ne lavo le mani".

Ringraziamenti - Desidero esprimere la più viva gratitudine alle Ed. Castelvecchi; alla Biblioteca Comunale di San Giustino (Pg), nelle persone dei responsabili Gustavo Perugini e Giovanna Pucci; a Francesco Izzo, dell'Associazione "Amici di Leonardo Sciascia"; Roberto


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Lanfaloni; Marco Negri; Consolato (Tito) Pellegrino; Francesca Salvati; che mi hanno tutti, a vario titolo e modo, cortesemente aiutato durante la stesura del presente articolo. Postilla - Ritengo opportune (istruttive) alcune parole di chiarimento su una non proprio piacevole vicenda che è all'origine del precedente lavoro. Come il lettore avrà notato, esso è idealmente rivolto agli "Amici di Leonardo Sciascia", e in effetti fu terminato nell'estate dell'anno 2000 (la versione qui presentata è sostanzialmente immutata rispetto a quella, salvo un'estensione della Nota 19, relativamente all'ipotesi Klingsor), a seguito di un esplicito invito a redigere un articolo su Sciascia e Majorana rivoltomi da parte di un esponente di detta Associazione. Una sorta di aggiornamento, di messa a punto, delle considerazioni contenute nel libro sulla scomparsa dello scienziato siciliano che avevo scritto nel 1999, che potesse anche essere l'occasione per suscitare un eventuale dibattito per esempio con il Prof. Recami, sostenitore di tutt'altro parere, etc.. Esso "avrebbe potuto" essere inserito abbastanza sollecitamente (si parlava del successivo autunno) su una loro pubblicazione (non so/sapevo bene quale), e quindi elaborai con rapidità il pezzo che mi si richiedeva. Il conseguente dispendio di tempo e di energie fu compensato dal fatto che ritenni, senza falsa modestia, il risultato finale alquanto soddisfacente (nel senso di conforme alle intenzioni). Dopo averlo spedito però al committente, per diverso tempo non ne seppi nulla, e allora qualche mese dopo chiesi sommessamente delle notizie in merito, ricevendo la risposta che sarebbe stato sottoposto, secondo una procedura del resto usuale a certi livelli, al giudizio di referee, e che entro la fine dell'anno mi sarebbe stato comunicato il responso. Passarono numerose settimane in assoluto silenzio, e tornai a chiedere, in primavera, delle nuove informazioni. Come probabile conseguenza della mia insistenza, finalmente ricevetti la seguente sintetica comunicazione: "Subject: quaderni leonardo sciascia Date: Tue, 15 May 2001 19:49:12 +0200 Egregio prof. Bartocci, Le scrivo a nome del comitato di redazione dei "Quaderni Leonardo Sciascia", i cui lavori coordino da qualche mese. Già da tempo [...] mi inoltrò il Suo testo dedicato alla Scomparsa di Majorana e mi scuso per l'imperdonabile ritardo con il quale Le rispondo. Come Lei saprà, ogni testo sottoposto alla rivista viene vagliato da diverse persone per avere una pluralità di pareri, e questo lavoro di smistamento, per mia colpa esclusiva, è avvenuto in tempi lentissimi; solo adesso stiamo riuscendo a venire a capo della faccenda, potendo disporre di tutti i risultati dei "pareri incrociati". Mi spiace comunicarLe che il Suo testo non è stato ritenuto - nella versione che Lei ci inoltrò - convincente ai fini della pubblicazione. Naturalmente, rimaniamo a Sua disposizione qualora Lei, eventualmente ritornando sulla sua ricerca con un "supplemento d'indagine" e con diverse argomentazioni, volesse ancora sottoporci i frutti del Suo lavoro. Scusandomi ancora per il ritardo, La prego di gradire i miei più cordiali saluti [...] [la comunicazione era firmata]" Replicai al tempo con il seguente messaggio, che "ovviamente" non ebbe alcun riscontro: " Caro [...], ringrazio comunque per l'attenzione, e la comunicazione della vostra decisione che mi consente di proporre la pubblicazione dell'articolo in altre sedi [...] Per "migliorare" eventualmente l'articolo (problemi di contenuto? di forma? incompletezze? veri e propri errori relativi a dati di fatto?), mi sarebbero state utili vostre esplicite osservazioni..." Ho detto "ovviamente" non alla leggera, perché, come si sarà ben capito, sono viceversa persuaso che lo scritto in parola sia degno di attenzione, almeno superiore alle usuali comuni, ritrite, scontate considerazioni sulla questione (comprese quelle di chi mi indirizzò il precedente mail, autore di un breve commento al libro di Sciascia dedicato a Majorana), e che


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le motivazioni del detto rifiuto siano da ricercarsi altrove (ciò che sempre accade con contributi "scomodi" - si veda per esempio il caso integralmente documentato in http://www.dipmat.unipg.it/~bartocci/LINCPOL.htm), piuttosto che nel fatto che le argomentazioni addotte a favore della mia ipotesi generale siano "non convincenti"*. Non ho mai sostenuto del resto di aver descritto una "verità", tanto meno definitiva, ma che le congetture avanzate sono del tutto "naturali", e che e' bene cominciare a prenderle in seria considerazione. Un investigatore che le escludesse "per principio" (non si debbono mai imbarazzare con sconvenienti domande persone "al di sopra di ogni sospetto"!), assomiglierebbe molto ai due sfortunati rappresentanti della legge immaginati dalla fervida fantasia di Andrea Camilleri nel delizioso La scomparsa di Patò (Mondadori, 2000), i quali furono appunto chiamati dal destino (e dai loro superiori, adamantini "servitori della Verità" loc. cit., p. 228) a dover indagare sulla scomparsa dell'inappuntabile ragioniere (che "scomparve, o venne fatto scomparire" - loc. cit., p. 49), con esiti che non riveliamo per non togliere sorpresa, e divertimento, ai lettori. Mi piace soltanto citare a conclusione della presente postilla un commento inviatomi da una delle persone che a suo tempo ricevettero il preprint: - "La morale del libro mi sembra chiara. Non cercate la verità sui rapporti ufficiali. Quelli se mai escludono, categoricamente, il vero e, in questo modo per me Camilleri dice (come lei ormai fa da tempo): Per certe questioni (tipo scomparse inspiegate), se volete aumentare le probabilità di incontrare la verità, dovete andare a cercarla non nella direzione in cui spingono i rapporti ufficiali, ma nelle direzioni da cui quei rapporti allontanano", assieme ad un'altra frase tratta dall'opera in parola (p. 147): - "Troppe sono state, sono e saranno le scomparse misteriose in Sicilia", soltanto i cauti studiosi del "caso Majorana" non sono al corrente dei probabili retroscena di molte di esse, o rifiutano "analogie"! * Amor di verità, e di completezza, vuole che accenni anche alla possibilità che, alle radici del comportamento quanto meno discutibile dianzi lamentato (sia pure soltanto sotto il profilo di una corretta procedura editoriale: tempo impiegato nel disbrigo della "pratica", accuratezza del giudizio dei referee, disponibilità al dialogo con un potenziale contributore, ... ), possa esserci stata una "suscettibilità ferita" (difficile peraltro da comprendere per chi scrive), a causa di indiscrezioni apparse sulla stampa successivamente ad aperte, franche risposte date dallo scrivente a giornalisti che lo avevano intervistato - per mera casualità proprio nel corso della menzionata estate - sulla misteriosa vicenda in generale (a taluni di essi fu pure inviato un preprint dell'articolo incriminato). Ecco quanto comparve per esempio sul quotidiano La Stampa di Torino (30 agosto 2000, p. 13): "A riaprire il capitolo dell'oscura scomparsa di Majorana è il professor Umberto Bartocci, docente [...], autore del saggio "La scomparsa di Ettore Majorana: un affare di stato?" pubblicato [...] e di un articolo per il periodico "A futura memoria" dell'Associazione "Amici di Sciascia". Si tratta dei due studi più ampi e riassuntivi su tutte le ipotesi circolate sul caso." [enfasi del presente autore - il riferimento a quella in particolare tra le pubblicazioni dell'Associazione è in effetti errato, visto che le dimensioni dell'articolo non ne avrebbero consentito comunque l'inclusione nella citata rivista...]

(UB, dicembre 2001) ----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme] bartocci@dipmat.unipg.it


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La fauna dell'Urheimat (Alberto Lombardo) Il problema della localizzazione dell'Urheimat, la protopatria originaria degli antichi Indoeuropei, è uno di quelli che più hanno fatto dibattere gli studiosi nell'ultimo secolo. Ormai le tesi contrastanti che si sono venute successivamente a stratificare sono talmente tante (sino alle più stravaganti) che è difficile darne brevemente conto. Sostanzialmente, il problema è stato spesso viziato da alcuni problemi di prospettiva cronologica, vale a dire si è usualmente pensato all'Urheimat come a una zona temporalmente e geograficamente statica nella quale le nazionalità indoeuropee sorsero, si svilupparono per un periodo indeterminato o variabile e dalla quale successivamente, in ondate differenziate nel tempo, si dispersero in molti luoghi dell'orbe terracqueo. La lacuna di una simile prospettiva sta nella sua visione statica, cioè nella non considerazione della possibilità che gli Indoeuropei abbiano avuto invece fasi di sviluppo comune in zone differenziate, e che il parlare di Urheimat sia dunque possibile solo riferendosi alla vera e propria patria originaria, e non a una sede intermedia o finale della storia comune. Tale nuova, più elaborata visuale sta imponendosi più recentemente, tanto che - relativizzando la vexata quaestio - si fa un parlare sempre maggiore, per esempio, di Urheimat dei Germani, dei Balti, degli Slavi etc. Il problema vero e proprio dell'Urheimat, nella sua accezione fondamentale, resta quello della determinazione della terra originaria. Per una simile localizzazione, è necessario lo sforzo congiunto di diverse e numerose discipline: dalla linguistica comparata alla paleontologia, alla climatologia, alla nuova mitologia comparata, dall'archeologia allo studio della poetica e via dicendo. In particolare all'interno della paleontologia linguistica, vale a dire quella branca della linguistica che, sulla base dello studio comparativo, individua nei termini più largamente attestati del vocabolario compatto indoeuropeo il nucleo lessicale dei parlanti indoeuropeo, e deduce dunque per vie mediate le caratteristiche fisiche e geografiche di luoghi e costumi, si sono ottenuti e tuttora si ottengono risultati interessanti. Lo studio della fauna ha un valore esemplare: questo breve saggio si propone di analizzare sommariamente - e senza pretesa di completezza - i nomi dei fondamentali animali presenti nel vocabolario compatto, per tentare di dare una descrizione del mondo in cui i parlanti l'indoeuropeo compatto vissero. L'insieme dei dati qui raccolti conduce verso una regione nordica nella ricerca delle più remote origini. Cervo e alce. Il nome di questo animale ci viene dal latino cervus: parola dalle origini assai lontane, risalente a un'antica forma indoeuropea *ker-wo- (che è ampliamento in -u di *ker, 'testa'), attestata in più aree, ossia in quella celtica (gallese carw, cornico carow, bretone karo), germanica (antico alto tedesco hiruz), baltica (prussiano sirwis, 'capriolo') e greca (xeras, 'cornuto'). «Dal nome del cervo», spiega inoltre Fr. Villar, «deriva poi la parola castigliana cerveza (in francese antico cervoise, in italiano antico cervogia) "birra", entrata in latino come cervsia (e cerevsia) attraverso le Gallie. La birra era così designata per il colore biondo, che ai Galli doveva evocare il colore del cervo». Si tratta senza dubbio di un animale assai importante per noi Indoeuropei, tanto per quanto riguarda gli aspetti linguistici quanto per i significati che al cervo si sono associati. Infatti, esso è uno degli animali fondamentali della protopatria nordica che i nostri antichi progenitori abitarono in epoche remote, prima della diaspora e delle numerose migrazioni che li portarono a popolare buona parte dell'orbe terracqueo. Sin da tempi antichissimi, in quell'area circumpolare il cervo era significativamente associato col simbolismo del sole e della luce, come recita l'Edda: «da Sud vidi il cervo solare muovere - i suoi piedi stanno sulla terra - ma


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le corna raggiungono i cieli». Questa importanza centrale del cervo è stata spiegata egregiamente da Adriano Romualdi, un profondo studioso della preistoria indoeuropea: egli identificò il cervo con l'animale dei cacciatori del Nord, contrapposto nel simbolismo al toro, elemento della forza cieca generatrice e tipico delle precedenti civiltà matriarcali. Lo scontro tra i due opposti simbolismi, tanto chiaro in Irlanda, in Scandinavia, in Val Camonica, è la raffigurazione nei simboli di due civiltà e anche di due diversi principî, e il cervo in questa contrapposizione assume l'emblema di animale tipico della civiltà indoeuropea. Scrive Romualdi: «Dietro a questo urto di simboli, dietro all'espansione dei popoli dell'ascia da combattimento e alla diffusione dei linguaggi indoeuropei, si cela un avvenimento di grande importanza spirituale. È il principio paterno che si urta contro la "civiltà della madre"; la virilità olimpica contro il mito taurino e materno della fecondità; l'ethos delle "società degli uomini" contro la promiscuità entusiastica dell'antico matriarcato». Non stupisce dunque la grande diffusione e importanza di questo animale nelle mitologie indoeuropee: dalla Grecia, ove era consacrato a dei della purezza e della luce (Apollo, Atena, Diana), all'India, in cui rappresenta la cavalcatura del dio del canto Vayu. Nella cosmologia scandinava i quattro cervi sull'albero del mondo rappresentano i quattro venti; nel mondo celtico esistono veri e proprî dei-cervi (p. es. Cernunnos) e divinità che conducono carri trainati da cervi; ancora oggi chi visiti in Irlanda luoghi come Coole, nella contea di Clare, rimarrà colpito dal senso di profonda reverenza e rispetto che vengono tributati dagli abitanti a questi stupendi animali. Per quanto riguarda l'alce, il suo nome ci viene dal latino alces, e questo derivò a sua volta dall'antico alto tedesco *alha (in tedesco oggi è Elch e in svedese elg). La radice indoeuropea è forse ARK-, che ha senso di "difendere", "proteggere", presente anche nel latino (arca, arx) e nel greco arké (= "proteggo"). Ma la parentela più stretta (stando al Benveniste) ad apparire è quella col greco alk, che è "la forza dell'anima, la fortitudo, che non cede davanti al pericolo e resta risoluta qualunque sia il destino". Significativamente, nell'Iliade (IV 245) Agamennone sprona gli Achei paragonandoli, per la loro mancanza di alk, a "cervette che, quando molto han corso pei campi, si fermano stanche, perché non hanno in petto coraggio". Il nome richiama strettamente quello di una delle rune, la quindicesima della serie del futhark, e cioè Algiz, che non a caso richiama nella sua forma le corna dell'animale. Il suo nome richiama quello dei Gemelli, i nordici "dioscuri" Alcis (analoghi anche agli Ashvin della tradizione indiana), associati a loro volta alla terza funzione sovrana indoeuropea, quella relativa alla fecondità. Questo animale è simbolo di vita e rinascita, come le corna lo sono della primavera e dell'eterno ritorno: numerose divinità indoeuropee munite di corna rimandano a questo stesso senso. Il dio celtico Cernunnos, per esempio, raffigurato sul famoso Calderone di Gundestrup, è munito di corna, e viene associato alla fecondità naturale. Lupo. Parrà strano che l'inglese e il tedesco Wolf sorgano dalla medesima radice da cui deriva alla nostra lingua "lupo". Eppure il latino lupus deriva da *lukwos / *wlkwos, ed è affine al greco lkos e al sanscrito vrka. Il termine si presenta nel lituano vlkas, nell'antico slavo vlk, nel gotico vulfas e in molte lingue antiche e moderne in forme affini. In latino e in alcuni dialetti italici la 'p' è sostituita alla 'k' del ramo germanico; così avviene anche nella seconda sillaba del termine in questione. La radice del termine, e analogamente quella della lince (la latina lynx, greca lygx e antico alto tedesca luhs) è la stessa di "luce", cioè *leuk. Simbolicamente, il lupo è infatti in antico animale luminoso dalle sacre valenze; come nel caso di molti simboli, peraltro, il suo significato divenne duale, e a quelle positive andarono a giustapporsi valenze negative. Fu così che, seppure legato a miti fondatori (Roma) e a società guerriere, il lupo fu al tempo stesso collegato all'età oscura, come al Ragna-rkkr ricordato dall'epica nordica.


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Cane. I nostri avi indoeuropei conobbero, certo già nell'epoca precedente la loro diaspora, un termine comune per designare il cane. Questo animale accompagnava infatti la vita agropastorale dei lontani progenitori già numerosi millennî orsono. Il nome per designarlo doveva essere *kwn, che si è poi tramandato, tra le numerose lingue, nell'antico irlandese cu, nel gallese ci, nel tocario A ku, nel lituano u(n), nell'armeno un, nel greco con, nel nell'avestico span-, nel sanscrito çv-, oltre che nel latino canis, da cui il nostro 'cane'. Per quanto attiene alle lingue germaniche, si hanno le testimonianze dell'antico alto tedesco (hunt) e del gotico (hunds), e le sopravvivenze, tra le lingue moderne, nel tedesco Hund e nell'inglese, oggi desueto, hound (si noti che ancor'oggi greyhound designa il 'levriero'). Gli indoeuropeisti Adams e Mallory rilevano come il cane sia il primo animale addomesticato, e come il processo di addomesticazione avvenne oltre diecimila anni orsono. Dal Mesolitico in poi, il cane è largamente conosciuto in Eurasia. I due studiosi, in un loro scritto sul tema, fanno un'osservazione interessante: in varie aree indoeuropee le parole che designano il 'cane' possono indicare anche il 'lupo', come avviene per esempio in Irlanda e nell'India arcaica. In tali casi il cane assumerebbe il significato e la funzione anche simbolica del lupo, tanto dal punto di vista mitico quanto in quello del comportamento sociale, ove i lupi sono usualmente associati ai guerrieri. La millenaria stretta familiarità con questo animale ha determinato il sovrapporsi di una miriade di leggende, tradizioni e significati, tanto che è impossibile accennare a tutti. Vi sono però alcuni elementi fondamentali: è uno psicopompo, vale a dire una "guida delle anime", specie nel post-mortem, analogamente a come lo è stato durante la vita (sua e del padrone); è collegato agli inferi, che custodisce o nei quali dimora (si pensi al Garm dei Germani, al Cerbero dei Greci o alle figure dei cinocefali e di Anubis nell'antico Egitto) e alla morte in genere, tanto da poter mettere in contatto con l'aldilà; è, come accennato, un simbolo del furor guerriero (specie nel suo aspetto di lupo): esempio ne è l'eroe irlandese Cchulainn, il cui stesso nome significa "cane di Culann". Volpe. Viene alla nostra lingua senza soluzione di continuità dal latino vulpes (in antico volpes). Arrivando al latino si è solo a una stazione intermedia: risalendo ulteriormente verso la sorgente gli studiosi hanno identificato una comune radice indoeuropea *wlp. In ogni caso Giacomo Devoto definisce le connessioni del termine latino con gli altri corrispondenti nelle aree baltica e greca come "disturbatissime". Si hanno attestati il lituano lp e il greco alpex. Inoltre, attribuendo alla parola che nell'etimologia designa la volpe - come fece il Pokorny mezzo secolo fa - il significato di "rubatrice", si può vedere nel sanscrito lopas, "furto", un ulteriore sviluppo di questa stessa radice, la quale, varrà notare, si presenta nei suoi primi due elementi del tutto affine a quella che designa il "lupo" (la radice di questo termine è *wkwo). D'altronde anche nel simbolismo esistono alcune affinità tra i due animali. Inoltre la caratteristica e proverbiale furbizia di questo mammifero nelle lingue storiche ha prodotto talvolta un'assimilazione con termini che ne indicano tale qualità; non solo noi usiamo dire "furbo come una volpe", per indicare una persona astuta e talvolta anche ingannevole, ma anche nell'antico scandinavo il termine fox (che permane inalterato, tra le lingue germaniche, nell'inglese - a indicare appunto la volpe) significava "inganno". La volpe è una delle più classica figure di "briccone", note ai simbolisti e - a un gradino più basso - agli etnologi e studiosi di folklore; anzi tra gli animali è quello che meglio lo incarna. Nel mondo nordico nella volpe «si incarnano gli spiriti delle persone infide che talora appaiono nei sogni». Inoltre - particolare che conferma quanto scritto sopra - anche il termine maschile Refr ("volpe", appunto) «si ritrova talora come nome proprio, spesso a indicare persone assai astute» (Chiesa Isnardi, I miti nordici). Restando nel mondo nordico esiste una kenning, o circonlocuzione poetica, per definire l'aurora boreale: "luce della volpe".


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Lontra. In latino lutra deriva forse dall'incrocio di *udro-, con significato di "animale acquatico", (attestato nelle aree ariana o indoiranica, greca e germanica) e lutum, "fango". Questo termine lutra, successivamente incrociato con il greco en()dria (quest'ultimo derivante a sua volta da énydris, "animale acquatico"), deve avere dato origine a "lontra". Nello Zoroastrismo e nel mazdeismo è uno degli animali "puliti", e come il cane non può essere uccisa impunemente (poiché appartiene ad Ahura-Mazda); nell'iconografia cristiana rappresenta invece S. Cutberto. Nella mitologia classica l'énydris è identificata da Plinio ed Eliano con la serpe d'acqua (Idro), cui è attribuita la leggenda della distruzione del coccodrillo; questa credenza (in realtà spuria) sopravvive nei bestiari medievali in una visione generale del mondo cristianizzata. Tra i Celti la lontra, insieme a un orso e un lupo, accompagna il "signore degli animali" Cernunnos. Castoro. Viene dal latino castor, e questo nacque probabilmente come aggettivo castoreus dal greco Kastor (nome di uno dei due Dioscuri). Ma in latino il termine "puro" (come lo definisce il Calonghi) per designare tale animale è fiber (della seconda declinazione: genitivo fibri). Sembrerà strano che la lingua dei Romani avesse un termine per indicare un'animale che mai si sarebbe potuto incontrare sulla riva del Tevere: si tratta, anche in questo caso, di una parola sopravvissuta nella lingua particolare dopo la diaspora indoeuropea, sebbene ciò che essa designava non fosse più visibile ai parlanti tale lingua. In questi casi spesso accadeva che il termine andasse col tempo a indicare concetti affini, legati a elementi della nuova realtà che i parlanti incontravano; ma ciò non avvenne in questo caso particolare. Il termine fiber trova corrispondenza nel gallico Bibr(acte) (un nome personale), nell'alto tedesco bibar (tedesco moderno Biber), nel lituano bebras e nel sanscrito babhru, che ha due significati: come aggettivo significa "brunorosso" e come sostantivo maschile indica l'icneumone. Anche il greco phrne (rospo) viene dallo stesso tema, e cioè l'indoeuropeo *bhebhru- (Pokorny). Sull'importanza di questo termine comune del vocabolario indoeuropeo varrà riportare quanto scrisse Romualdi: «Gli Indoeuropei conoscono la betulla, l'albero bianco del Nord. Conoscono la quercia, il pioppo, le conifere. Conoscono l'orso, il lupo, il cervo, il castoro. Vivono in un ambiente di foreste dove la radura, il luogo in cui piove la luce in mezzo alla gran selva, è sacra alla divinità del cielo». Anche questo animale, cioè, ci riconduce nell'identificazione della protopatria originaria, l'Urheimat degli indogermanisti, a un paesaggio nordico - le regioni nordeuropee della Svezia meridionale, della Danimarca e della Germania settentrionale. Topo, sorcio, ratto. Nel caso di questo animale il termine venuto a prevalere in italiano non è probabilmente di origine indoeuropea, ma mediterranea. Si tratta infatti del risultato del tardo latino talpus (da talpa, che è appunto di origine mediterranea). In area settentrionale *talp è cambiato in *taup-, sino a giungere al termine oggi invalso; sino al secolo scorso aveva una diffusione più o meno pari a "topo" anche "sorcio", oggi però sempre più in disuso. Anch'esso ha probabilmente origine mediterranea. Mentre le lingue romanze hanno subito questa influenza mediterranea (francese taupe, spagnolo topo, catalano taup) in quelle germaniche il vocabolo si è mantenuto in forme più fedeli alle origini indoeuropee: inglese mouse, tedesco Maus: qui è rimasta evidente la radice indoeuropea *mus, che si manifestò in forme pressoché invariate dal latino all'alto tedesco e al norreno e dal sanscrito al greco, sino al prussiano moderno; nello slavo antico compare come my0, nell'armeno come mukn e nell'albanese sotto la forma m. A queste parole va ancora aggiunto l'italiano "ratto", derivante da una serie onomatopeica in cui le due consonanti "r" e "t" dovevano rimandare all'idea del "rodere" (la


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cui radice era *rd / *rd); forme affini a "ratto", come rileva Devoto, sono attestate in tutta l'area romanza e in quella germanica occidentale (provenzale e francese rat, spagnolo e portoghese rato, tedesco Ratte), ma verosimilmente anche in area celtica (bretone raz, medio irlandese rata, gaelico radàn). Suini. Si tratta di animali che ci forniscono molte informazioni sull'antichità. In italiano vi sono tre sostantivi per indicare questo animale: maiale, porco e suino - quest'ultimo designa la sottofamiglia zoologica. L'etimologia del primo termine ci porta forse alla dea romana Maia, cui poteva essere offerto. Il secondo è di chiara origine indoeuropea: viene da *porko(s) e indica l'animale addomesticato (e di norma giovane) in contrapposizione a quello selvatico: è presente nell'antico irlandese orc, alto tedesco farah, lituano pars, slavo antico prase, latino porcus e umbro purka (in cui è femminile). Pare attestato anche in area iranica: avestico *parsa (ricostruito da Benveniste), curdo purs, khotanese pasa. Per quanto attiene "suino", infine, viene da *ss, di più ampio significato, e comprendente l'animale adulto ma anche la scrofa e il cinghiale. È assai diffuso (in latino sono presenti sia sus sia suinus): gallese hwch, alto tedesco ss, gotico swein (da cui il tedesco Schwein), lettone suvns, antico slavo svin, tocario B suwo, umbro si, greco hs, albanese thi, avestico h e sanscrito s(karas). In norreno Sr è un attribuito della dea Freyja, e significa "scrofa". Come ha scritto Adriano Romualdi, «il maiale è un tipico elemento della prisca cultura indoeuropea, legato ad antichissimi riti (suovetaurilia), attestante sedi ben visibili». È sacrificato anche dai Greci, nei misteri eleusini, in Irlanda tra i Celti e assai diffusamente tra i Germani (anche i Longobardi): è infatti l'animale tipico dell'agropastorizia nordica originaria, secondo quanto ha spiegato tra gli altri Walther Darré scrivendo del popolo indoeuropeo preistorico, presso il quale tale animale aveva valenze sacrali: «non è un caso che la razza nordica consideri tra gli animali sacri il tipico animale dei sedentarii delle foreste a foglie caduche della zona fredda temperata, […] né è un caso che, quando si scontra con i Semiti del Mediterraneo orientale, proprio il maiale dia luogo alle più accese dispute; il maiale è l'antipodo animale del clima desertico. Ed è naturale che i patrizi all'atto del matrimonio sottolineino l'elemento agricolo e sacrifichino un maiale che doveva essere ucciso con un'ascia di pietra». Una diversa sacralità, cioè, rispetto alla venerazione di cui invece era oggetto tra i Semiti, che lo considerano impuro, ma, secondo il Frazer, sebbene non potessero ucciderlo, «in origine il maiale era piuttosto venerato che aborrito dagli Ebrei. Questa spiegazione è confermata dal fatto che fino ai tempi di Isaia vi furono Ebrei che si riunirono segretamente in qualche giardino per mangiare carne suina o di topo come rito religioso. Senza dubbio era questa una cerimonia antichissima». Insomma, conclude Romualdi, «la familiarità col maiale è uno dei molti elementi che ci obbligano a vedere negli Indoeuropei un popolo delle foreste del Nord». Nel suo significato simbolico è di norma associato alla fertilità e il suo sacrificio segna la venerazione degli dèi e la consacrazione dei patti, ma con il predominare del cristianesimo sull'occidente è andato sempre più assumendo caratteristiche "semitiche", sino a venire identificato via via con l'impudicità, la passione, la lussuria e infine col diavolo. Nella Bibbia, infatti, il "guardiano dei porci" (immagine dell'agropastore indoeuropeo originario) è la figura più degradata e spregevole (il figliuol prodigo della parabola). Orso. Il nome del plantigrado viene da un tema indoeuropeo *kyo- o *kos, che serve a designarlo come "il danneggiatore". Da questa radice fonetica sono sortiti: in area celtica l'irlandese art, il gallese arth e il nome personale gallico Art(ioni), di una divinità femminile affine alla greca Arto; il latino ursus (da cui il nostro "orso", tramite un *orcsos); il greco rktos; l'albanese ari, l'armeno arj, l'avestico ara- e il sanscrito kas; anche una lingua non indoeuropea come il basco, per il tramite di un prestito, presenta la forma hartz. Dal


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termine greco è poi derivato "artico", cioè "proprio all'orsa" - e il riferimento è qui ovviamente alla costellazione. Nelle varianti del mito greco, ad assurgere in cielo sub specie delle due orse sono Callisto la bella, amata da Zeus, e suo figlio. Secondo alcune versioni fu l'invidia di Giunone, secondo altre la misericordia di Zeus a produrre tale catasterismo (trasformazione in astro o costellazione). Questa "assunzione in cielo" dell'orsa, oltre che a livello linguistico, può essere illustrata con l'aiuto del simbolismo. L'orsa (o meglio le due orse) ci indicano la direzione del Nord, tramite la stella polare. Il simbolo nordico, la direzione cioè della patria d'origine, è significativamente collegato con l'orso anche nelle tradizioni che gli sono relative: tra l'altro, tornando agli aspetti linguistici, l'orso è animale di localizzazione nordica e la sua presenza in così tante lingue indoeuropee corrobora la individuazione nel Nord della patria originaria (l'Urheimat) dei popoli indoeuropei. Nel simbolismo l'orso è animale altamente sacro, specie (ma non solo) tra gli Indoeuropei, che per designarlo ebbero moltissime circonlocuzioni e kenningar. Analoga reputazione l'orso gode tra gli Ainu, una popolazione di razza apparentemente occidentale che vive nell'isola di Hokkaido e segue una religione animista di tipo sciamanico; ivi è anche fatto oggetto di un rito sacrificale. Questa sacralità dell'orso si lega a quella delle origini; l'orso è animale ancestrale, e non a caso presenta sia caratteristiche maschili sia femminili (specialmente nella tradizione nordica). Inoltre è animale "ordinatore": secondo una diffusa leggenda, tramandata da Aristotele e Plinio sino ai bestiarî medievali, l'orsa darebbe la vita ai proprî piccoli leccando pezzi di carne: "modellandola", essa crea la propria progenie. Questa virtù creatrice fu poi reinterpretata, in epoca cristiana, con un'ardita metafora che voleva vedere in tale atto la conversione dei pagani al cristianesimo. Un figura importante e altamente significativa è quella dell'uomo-orso, che si presenta in forme varie in ambiti diversi. Il più noto di questi esempî è quello dei berserkir, gli uominiorso invasati dalla furia odinica delle saghe nordiche. Oggi nel folklore l'uomo-orso è ancora assai diffuso e ha funzioni "totemiche" (su questi temi ha scritto pagine assai interessanti M. Centini). L'importanza di questo animale si avverte ancora nettissima sul suolo europeo: seppur nelle fiere ormai non vi siano più orsi danzanti, restano i toponimi (per esempio di Berna, legata anche nel mito di fondazione alla figura del plantigrado; rileviamo di passaggio che tra le lingue germaniche il tedesco Bär e l'inglese bear derivano da una diversa radice, che è la stessa da cui il nostro colore "bruno"), oltre alle raffigurazioni araldiche, gli emblemi nazionali (come nel caso della Russia), i cognomi e i nomi personali (specie in Scandinavia), oltre ai proverbi ("vendere la pelle dell'orso"), i modi di dire ("comportarsi come un orso"), una ricca favolistica (per esempio la fiaba dei "tre orsi") e varie raffigurazioni carnevalesche tradizionali. Felini. Adams e Mallory, nell'Encyclopedia of Indo-European Culture edita pochi anni orsono, identificano due forme dalle quali nello spazio linguistico indoeuropeo sono sortiti i termini indicanti il gatto comune: *kat- e *bhel-; delle due è stata probabilmente la prima ad avere una maggiore fortuna. Per la ricostruzione di *kat si hanno elementi nel latino volgare cattus (che, divenuto gattus per via della lenizione di c in g, era in origine termine indicante il gatto selvatico), sia nell'antico irlandese catt; ma non è del tutto certo che quest'ultimo derivi dal latino, anzi il Devoto pare pensare il contrario. Quel che è attestato o dimostrato è il passaggio del termine dalla lingua latina sia all'area slava (russo kot) sia a quella baltica (antico prussiano catto, lituano katè, lettone kae); di qui sino a lingue a noi più familiari, come l'inglese (cat), il tedesco (Katze) e lo svedese (katt). Ovviamente il passaggio è avvenuto anche alle lingue romanze (in provenzale, catalano, spagnolo e portoghese si usa cato, in francese chat). Ma, aggiungono Adams e Mallory, «presumibilmente il latino cattus fu preso in prestito da qualche fonte non-latina». Per quanto attiene *bhel-, ci limitiamo qui a ricordare che esso sopravvive, nella nostra lingua, nel termine felino.


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Alcuni problemi ci sono posti dall'archeologia, poiché testimonianze varie parrebbero suffragare l'idea che questo animale si sia diffuso in Italia prima e in Europa poi in tempi relativamente recenti. Risulta dunque poco chiaro il suo ruolo, per esempio, nella mitologia nordica, dove è un importante attribuito della dea Freyja, della quale, in pariglia, tira il carro. A nostro modo di vedere se gli studî archeologici sono fondati si tratta, come spesso avviene in mitologia, di una trasposizione del simbolismo da un animale a uno consimile - e cioè probabilmente da un piccolo mammifero selvatico, forse proprio il gatto selvatico, a quello domestico. Il leone ha un interesse diverso rispetto agli altri termini esaminati. Mentre la parola italiana "leone" deriva dal latino leo (accusativo leonem), e questo a sua volta venne in età arcaica alla lingua di Roma dal greco lén, léontos (questa forma pare essere quella di un participio presente), tra gli antichi Indoeuropei si può solo con grande fatica determinare una radice ricollegabile a questo animale: mentre in sanscrito questo grosso felino si designa con simha, nell'albanese il leopardo è inj. Da questi due dati si è dedotta una radice *singho- (WaldePokorny), che, quand'anche fondata, non ha però la stessa diffusione di altri termini designanti animali diversi. Questa è un'importante prova a contrario per escludere che gli Indoeuropei potessero essere originarî di una zona abitata da leoni, e per localizzare viceversa nel Nord la loro patria originaria. Pesci. Da una forma indoeuropea *piski-, secondo il Pokorny, si sarebbero sviluppati i termini comuni: l'irlandese asc (peiskos), l'alto tedesco fisc, il gotico fisks e il latino piscis: è ovviamente da quest'ultimo che è venuto il nostro "pesce"; altrettanto chiaro il fenomeno della rotazione consonantica di Grimm nelle lingue germaniche (la "p" passa in "f", come da pater a fadar). Anche se le connessioni del latino sono dunque solo con le aree celtica e germanica la parentela è comunque abbastanza significativa. In ogni caso oggi in moltissime lingue europee contemporanee si utilizzano termini imparentati. Il salmone deriva il suo nome italiano dal latino salmo (accusativo salmonem), ed è presente nell'antico francese e in inglese come salmon. Il Devoto ne sostiene l'origine gallica; vi è chi ha ipotizzato che il nome derivi dalla radice *sar-, cioè 'scorrere', dalla quale deriva anche il verbo 'salire'. Questo rimanderebbe infatti alla caratteristica del pesce inteso come "saltatore". Tale pesce (che in indoeuropeo trae l suo nome da una forma *laks) che ha fornito a uno studioso tedesco, P. Thieme, il fondamento per uno studio epocale e da cinquant'anni assai dibattuto che gli ha fatto evidenziare con estremo fondamento la possibilità dell'origine nordica degli Indoeuropei. La balena deriva il suo nome dal termine latino volgare balena (classico ballaena), che trova una corrispondenza nel greco phállaina. In area germanica, si presenta in tedesco come Walfisch, in inglese come whale (il nome del Galles si è legato infatti anche a quello del mitico cetaceo), mentre in islandese, svedese e danese è hval. Parole come "baleno", "balenio", "balenare" derivano dal nome della balena, in ragione dell'apparire repentino e improvviso di questo animale. Tra i Germani la balena aveva una parte importante nel simbolismo, e nella tradizione nordica esisteva la credenza che questo animale, dotato di poteri magici, portasse al sabba le streghe (Olaus Magnus nel suo famoso Historia de gentibus septentrionalibus dà ampio spazio al cetaceo e alla sua caccia). Granchio. Il nome di questo animale crostaceo si presenta simile in varie lingue e dialetti neolatini e celtici (anche a questi ultimi è arrivato dal latino cranculus, diminutivo di cancer): provenzale e catalano cranc, vallone cranche, spagnolo cangrejo, portoghese granquejo (e garanguejo da *cancriculus), cimbrico cranc e bretone kranck. In italiano e portoghese si verifica la lenizione della c- iniziale in g-.


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Il latino cancer passò a designare anche la costellazione (e da essa il corrispondente segno zodiacale), e successivamente è divenuto termine medico per via dell'analogia delle ramificazioni di tale malattia con le molte zampe dell'animale. Scrivendo dell'etimologia di questa parola, Devoto spiega che il termine latino cancer è in realtà una forma dissimilata da carcer (dissimulazione, dunque, di una -r in -n); cioè il termine che, dal significato di "sbarre del circo" è poi passato a designare la prigione ("carcere" nell'italiano attuale). Lo studioso inoltre scrive che esistono parallelismi, sia semplici sia dissimulati, anche nelle aree greca e indiana. Ed effettivamente il tema indoeuropeo da cui venne il termine cancer è stato ricostruito dal Pokorny come *karkar ("granchio"): oltre al latino si trova effettivamente sia nel greco karknos sia nel sanscrito karkaa-. La presenza del termine nelle "aree laterali" è un argomento che ne fa ritenere l'appartenenza alla lingua comune indoeuropea, almeno nel suo stadio detto "postanatolico". Serpente. Il corrispondente latino della nostra lingua, serpens (accusativo serpentem) nasce come participio presente di un verbo serpere - e questo viene a sua volta dalla radice fonetica indoeuropea *serp. Da questa stessa, che ha appunto il significato di "serpeggiare", sono derivati anche il greco antico hérp, il sanscrito sarpati e l'albanese gjarpn (quest'ultimo corrisponde all'animale, non al verbo all'infinito). Verrebbe in questo caso da pensare a una radice di tipo onomatopeico, o quantomeno a un'antica vicinanza tra suono e significato: un simile pensiero ci porta indietro nei millennî, sino ai territori - fisici o meno - dove si verificò la nascita della parola. Forse per ragioni simili, ma ormai inconsce, dal latino classico bstia si passò al tardo latino medievale bstia e da questo al nostro "biscia": anche qui il suono pare richiamare l'immagine dell'animale. Bisogna segnalare sin d'ora che nel fondamentale Indogermanisches etymologisches Wörterbuch del Pokorny (Berna 1955), saggio che resta un punto di riferimento fondamentale per lo studio della linguistica comparata indoeuropea, figura un'altra radice fonetica che designa il serpente, che è *e(n)gwh, e che da essa derivano, oltre all'irlandese esc(ung), "anguilla" (cioè serpe acquatica), il lituano angìs, l'antico slavo oz0, il tocario B auk e i greci égis e fis, anche l'armeno auj, l'avestico ai- e il sanscrito ahi-; inoltre il latino anguis, da cui è venuto il nostro termine "anguilla". Quello del serpente è uno dei simboli più enigmatici e ricchi di significati che esistano. È essenzialmente la manifestazione della potenza, dell'energia e della forza. Ma le sue caratteristiche sono in tutto e per tutto duali, dato che è collegato tanto al maschile quanto al femminile, alla generazione e alla nascita quanto alla morte, ed è presente, nei miti, come portatore di influenze di ogni tipo: non è un caso che assai di frequente sia assimilato o addirittura confuso con il drago. Nello stesso simbolismo giudaico-cristiano, seppure prevalgano le caratteristiche oscure, con conseguente assimilazione al male, al demonio e al "tentatore", Cristo è da Tertulliano definito "il Buon Serpente". Per Guénon il carattere "terribile" del serpente si spiega col fatto che «raffigura l'incatenamento dell'essere alla serie indefinita dei cicli della manifestazione». Tra i Greci vi sono numerosissimi miti e leggende su questo animale: da quella relativa al giovinetto Ercole che nella sua culla strozza due serpenti al mito di Medusa (come delle Erinni e delle Graie), di cui una moltitudine di serpi costituisce la capigliatura; inoltre avvolto (o avvolti) sul caduceo rimandano al potere del corpo - e di conseguenza sono attributi di Ermes e Asclepio nelle loro vesti "mediche". A questo proposito un'immagine assai affine è quella yogica indiana relativa ad ida e pingala, le due vie opposte del respiro, che analogamente si sviluppano sinuose intorno a un asse retto quello della colonna vertebrale - per risvegliare la Kundalini, il "potere del serpente". Tra i Germani è largamente presente, a simboleggiare, secondo la Chiesa Isnardi, la vita primordiale. In età vichinga, però, la sua connotazione divenne negativa, e fu associato alle potenze malefiche che irromperanno nel giorno della battaglia finale. La studiosa ricorda che «Il serpe-mostro per eccellenza ricordato nel mito è Migarsormr, "serpe di Migar"»: si tratta dell'enorme animale che costituisce la crosta terrestre, e i cui sommovimenti nel sonno


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rappresentano i nostri terremoti. Quando verrà la battaglia finale sorgerà contro il cosmos, l'ordine degli uomini e degli dèi, e verrà affrontato da Thor, che ucciderà venendone a sua volta ucciso. Verme. "Verme" corrisponde al latino vermis. Questo vocabolo è il corrispondente latino del germanico wurm (alto tedesco) e warms (gotico). Ancora oggi in tedesco si indica con Wurm e in inglese con worm. Così gli indoeuropeisti ricostruirono un tema *wermi-. Al di fuori di queste due aree linguistiche tra gli Indoeuropei prevalse però una forma simile, *kwrmi-, attestata in area indoiranica (medio persiano kirm, sanscrito kmi), baltica (lituano kirmìs), slava (antico slavo rv0) e celtica (irlandese cruim, gallese pryf). Segnaliamo che il colore "vermiglio" trae il suo nome dalla cocciniglia, che forniva questo colore rosso tra il cremisi e lo scarlatto. Nel mondo nordico germanico il verme venne confuso in più casi con il serpente. La cosa può apparire curiosa, ma quello di "Gran Verme" fu uno degli attributi del serpe di Migarr, cioè del mostruoso figlio di Loki che riposa sul fondo dell'oceano e il cui corpo costituisce le terre ferme. Sussultando e muovendosi nel sonno questo essere mostruoso provoca i terremoti; si ridesterà per la Battaglia Finale. Allora verrà affrontato da Thor, che ucciderà venendone a sua volta ucciso: «ecco sopraggiunge il famoso / figlio di Hlyn, / va il figlio di Odino / a lottare col serpe, / con coraggio si batte / il guardiano di Migarr, / tutti gli uomini / lasceranno il mondo abitato; / retrocede per nove passi / il figlio di Fjörgyn / morente lontano dal serpe / incurante del disonore» (Völusp LVI). Un'altra assimilazione nordica del verme con il serpente si ha nel mito relativo al frassino Yggdrasill, l'albero del mondo. Le sue possenti radici, specie quella in Niflheimr, sono rose da serpenti (o vermi, appunto). Eppure il possente albero resterà saldo sulle sue radici delle quali nessuno conosce l'origine sino alla Battaglia Finale, «produrrà frutti salutari e medicamentosi e non temerà né ferro né fuoco». Formica. Usiamo in italiano, per designare questo animale, il termine latino. Questo però venne da un più antico *mmica, derivazione della forma indoeuropea *morm. Questo nome, come scrive del resto G. Devoto, è al tempo stesso largamente diffuso nel territorio indoeuropeo, ma anche di tradizione disturbatissima: infatti si presenta in forme varie, dall'antico irlandese moirb e l'antico gallese morion (plurale), al norreno maurr, l'antico slavo mrav0ji, il greco mrenx, il tocario B warme, l'armeno mrimn, l'iranico avestico maoiri- e il sanscrito vamra. Tale varietà di forme ha fatto scrivere a un altro studioso, D.Q. Adams: «il numero delle varianti fonologiche suggerisce che la designazione per "formica" nelle tradizioni indoeuropee fu più che usualmente soggetta a deformazione fonologica… così risulta difficile ricostruire l'esatta forma protoindoeuropea di tale parola, la quale è chiaramente di origine protoindoeuropea». Uccelli. Primo per valenza simbolica è il cigno, che trae il suo nome dal latino cygnus, che deriva a sua volta dal greco kknos. Il tedesco Schwan (antico svan) come l'inglese swan derivano dalla medesima radice *kan, la quale è all'origine del latino cano (cantare). Il cigno è dunque, etimologicamente, il "cantante". Le leggende di diverse aree confermano questa sua proprietà. In Irlanda, una nota leggenda narra del triste destino dei figli del re Lir che vengono trasformati in cigni e ridotti per secoli in tale condizione; il loro canto, peraltro, aveva la virtù di affascinare chiunque li avesse ascoltati. Nel Fedone platonico Socrate afferma che il canto funebre del cigno esprimeva la gioia di reintegrarsi nel divino, del quale l'uccello era epifania. Animale iperboreo, sacro all'Apollo nordico, è presente nelle incisioni della Valcamonica, avanguardia della "migrazione dorica" in Italia. Non senza un preciso significato, nel mito


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greco il carro della bionda Venere è trainato in aria da cigni. Nella tradizione indiana è simbolo di purezza e conoscenza: ha deposto l'uovo aureo dal quale sorse il dio Brahma. Secondo il mito raccontato da Ovidio, Cigno era il figlio di Stenelo, re dei Liguri. Quando Fetonte, per avere improvvidamente condotto il carro solare del padre Febo (Apollo), fu fulminato da Giove e cadde nell'Eridano (cioè il fiume Po), Cigno, che era parente del defunto, ne pianse disperatamente la morte. Il dolore fu tanto, che si trasformò nell'animale che porta il suo nome. Scrive a proposito di Cigno il poeta del IV-V secolo Claudiano (carme XXVIII): "Un vecchio trasformato dalle piume… un circolo latteo bagna le ali protese del compagno Cigno, lo stellato Eridano vagando con curve sinuose solca la chiara volta di Noto e scorre con gorgo siderale sotto ad Orione terribile per la sua spada". E Virgilio (Eneide, X.192-3): "e una vecchiezza raggiunse bianca di morbida piuma / e questa terra lasciò, salì dietro il canto alle stelle". Il tema della vecchiezza legata all'animale non va riferita, forse, solo alla bianchezza della capigliatura che richiama quella dell'animale, bensì anche alla remota origine, i cui connotati, secondo il mito richiamato, sono quelli della purezza, della bianchezza, della "solarità". Simboli che univocamente ci parlano dell'origine nordica e iperborea, cui ancora oggi guardiamo. Per quanto riguarda l'oca, data l'etimologia del suo nome si potrebbe dire che essa fu definita come "uccello minuto", poiché questo viene dal latino tardo auca (che corrisponde alla forma del catalano e dell'antico spagnolo), da una forma intermedia ricostruita avica, la quale viene a sua volta da avis ("uccello", appunto). Il latino classico aveva però un altro termine più antico e preciso per designare questo animale, e cioè anser (hanser), nel quale il retaggio indoeuropeo era ben più evidente. Suoi termini parenti erano l'irlandese giss ("cigno") e la forma ricostruita gans; l'alto tedesco gans (tedesco sing. Gans, plur. Gänse; in inglese il singolare è goose, il plurale Geese e l'oca maschio gander); il lituano asìs; l'antico slavo gasi; il greco chén e il sanscrito hamsa- (anche questo spesso significante "cigno"): tutti sortivano da una medesima forma *ghans (Pokorny). Questa sorta di confusione linguistica col cigno diffusa in varie lingue si spiega sia per via della somiglianza dei due animali, entrambi bianchi e col collo curvo, sia a livello simbolico, dove parimenti spesso sono confusi. Un esempio mitologico ha valore indicativo più di ogni altro: la ninfa Nemesi, per sfuggire a Zeus che voleva unirsi a lei si trasformò in oca, ma fu ugualmente fecondata dal re degli dei, trasformatosi in cigno. Dalla loro unione scaturirà l'Uovo. Sulla scia degli studî di Bachofen, Alfredo Cattabiani rileva come l'oca sia «la Terra stessa, un'immagine della materia materna», e ne sottolinea la forte partecipazione all'universo simbolico della Grande Madre. Così possiamo forse vedere oca e cigno come le due manifestazioni, rispettivamente sotto forma femminile e maschile, di una stessa immagine trascendente. Come il cigno, l'oca rappresenta (tra l'altro) l'origine artica, e l'arcaica ciclicità del tempo. Questo è testimoniato, tra l'altro, dal fatto che nella civiltà classica fu associata al tempo stesso sia alle immagini di bambini (lo mette ben in luce Cattabiani nel suo Volario), sia a Persefone-Proserpina, dea degli inferi. Lo stesso avviene nel caso del cigno. Le coincidenze nel simbolismo non si fermano però qui: vanno ricordati almeno altri tre importanti elementi. Anzitutto l'associazione di entrambi questi uccelli con donne sovrannaturali (si pensi per esempio alla favolistica celtica e a quella slava). In secondo luogo, appaiono entrambi come epifanie dell'altro mondo: tipica a proposito la mitologia irlandese, ma non solo. Infine - e soprattutto sono entrambi associati al suono e alla musica in senso eminente. In una visione ciclica del tempo il canto del cigno, che predice la fine, forse non è poi troppo dissimile dal verso dell'oca, che rappresenta la creazione e l'origine. Infatti secondo la mitologia egizia il verso di Amon-Ra, che in forma d'oca sorvolò le acque deponendovi l'Uovo cosmico, fu il primo suono mai prodotto; e nell'India (citiamo nuovamente le parole di Cattabiani) «è la manifestazione della Grande Madre originaria, tant'è vero che fu chiamata anche la Madre dei Veda, creatrice della lingua scritta, dea della parola». Per quanto riguarda l'anatra, o anitra, si usano in italiano entrambi i termini, che hanno percorso una storia parallela. Il secondo corrisponde in pieno al latino volgare *anitra, che è il


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risultato di un incrocio del latino classico anas, anatis con il suffisso in -tr-; il primo è invece meno influenzato dalla volgarizzazione. Comunque anas viene da un'antica radice fonetica indoeuropea, e cioè *ant (Pokorny) o comunque da una forma *hahati- / *haenhati(Greppin). Essa compare, oltre che nel latino, nell'alto tedesco anut (tedesco moderno Ente), nell'antico prussiano antis, nel lituano ntis, nell'antico slavo ty (e nel russo tka), nel greco nessa e anche nel sanscrito ti-, "uccello acquatico". Inoltre esistono alcune parole derivate che indicano la carne d'anatra, come il latino anatina. Tutti questi dati fanno pensare a buon diritto agli studiosi a uno «status protoindoeuropeo di questo termine» (John Greppin). Inoltre è logico dedurre che questo animale facesse parte del mondo indoeuropeo originario, data la presenza nel vocabolario comune. Gli studi archeologici ne attestano la presenza ovunque in Europa e solo in parte dell'Asia settentrionale (ciò ci pare indicativo per tornare a negare la possibilità che i nostri progenitori provenissero dall'Oriente, come certi studiosi indoeuropeisti sovietici o di impronta ideologica sovietica hanno spesso sostenuto). Spesso nel mondo classico l'anitra ha carattere di "profetessa dei venti", in quanto capace di prevedere le variazioni atmosferiche e meteorologiche. Inoltre (riportiamo quanto afferma Cooper) «quando volava in gruppo a pelo d'acqua era intesa come simbolo di superficialità, eccessiva loquacità e inganno. Il tema dell'inganno è evidente nel francese canard, che significa anitra, ma anche "falsa notizia"». Andrà ricordata la nota vicenda fiabesca del "brutto anatroccolo", nella quale, probabilmente, non si deve tanto ravvisare un'immagine negativa dell'anitra quanto piuttosto, per contrapposizione, un inno poetico alla bellezza simbolica del bianco animale nordico, il cigno iperboreo che indica la direzione delle origini remote. L'origine del nome del colombo è abbastanza paradossale. Sebbene infatti la colomba sia uno dei simboli per eccellenza della bianchezza, il latino columbus, che ha un corrispondente esatto nel greco klymbos, pare venga da una radice indoeuropea *kel (o forse *gel), ricostruita sul raffronto con l'antico slavo golobi: tale radice ha il significato di "scuro" (come nel greco kelains, "nero"), e il nome dell'animale significherebbe dunque "uccello grigio scuro". Bisogna però aggiungere che da millennî altri uccelli hanno evoluto il loro nome in modo del tutto parallelo a quello del colombo. Così, in particolare, il palombo: da una radice indoeuropea *pel, indicante un colore grigio o azzurro sbiadito, venne al latino palumbes, che si sviluppò sino all'italiano odierno in modo del tutto parallelo al columbus. Da *pel deriva anche "pallido", che ha mantenuto il senso originario di "sbiadito": inoltre altre voci in varie aree, specie in quella greca e germanica, ma anche nell'armena, nella slava, nella baltica e nell'indo-iranica. Aggiungiamo come curiosità che il nome "palombaro" deriva da quello dato in tardo latino allo sparviero (palumbarius), per via dell'assimilazione dell'uomo che si immerge nelle profondità delle acque con l'animale che si precipita dalle altezze dei cieli. Come ha recentemente spiegato Alfredo Cattabiani, «nei miti antichi e poi nei bestiari medievali si tende in genere a parlare della colomba, al femminile, anche quando si indica il maschio, il colombo o piccione: sicché il lettore rimane sconcertato e non riesce più a raccapezzarsi […]. In ogni modo i tre nomi colombo, colomba e piccione sono equivalenti; tuttavia il secondo è prevalso nel linguaggio simbolico». La colomba è tradizionalmente simbolo dell'anima, della purezza e della pace. Consacrata alla Grande Madre, spesso viene associata all'Albero della Vita e in particolare all'ulivo. In quest'ultima iconografia il suo simbolo richiama la pace e la prosperità luminosa (Atena); ma nella mitologia classica fu associata anche a Bacco e a Venere. Sotto forma di piccione questo animale talvolta è legato alla codardia, alla vigliaccheria e alla lascivia; presso varî popoli fu oggetto di sacrifici rituali. La sua associazione al tema diluviale, inoltre, non è solo biblica. La parola 'corvo' ci viene direttamente dal latino corvus (cfr. anche l'accusativo singolare umbro curnaco), parola di remota origine indoeuropea, probabilmente onomatopeica (kr… kr). È attestata in forme affini in diverse altre aree (il che ne fa presumere una derivazione dalla fonte comune): celtica (irlandese cr, ricostruito *krowos), germanica (alto tedesco


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hraban, norreno hraukr) e baltica (lituano rka, e krakti il verbo), oltre che greca (crax, corne), indiana (sanscrito kravas) e nell'albanese srr (cornacchia). Dalle lingue indoeuropee il termine è passato poi all'ebraico haraban. Nell'Urheimat il corvo doveva solcare con la sua nera figura il cielo: assurse a epifania di diverse divinità, con tratti affini. Il suo simbolismo, peraltro, è duale, dal momento che è collegato sia con la saggezza, la preveggenza e la lungimiranza, sia con la morte e la distruzione: le sue peculiarità lo fanno animale solare e notturno al tempo stesso. Forse è anche per questo motivo che viene spesso associato al lupo, che ha analoghe caratteristiche. Gianna Chiesa Isnardi, ricordando la Hlfs saga ok Hlfsrekka (Saga di Hlfr e dei guerrieri di Hlfr), afferma che «nelle figure dei due fratelli Hrkr inn hvti e Hrkr inn svarti "cornacchia bianca" e "cornacchia nera" è forse conservato il ricordo della duplice simbologia dell'animale» (I miti nordici). Nello Zoroastrismo è animale benefico e puro che dissipa la corruzione; il culto di Mitra definì corvus il primo grado iniziatico dei suoi misteri solari. Nella mitologia greca il carattere solare si manifesta nel fatto che è messaggero di Helios-Apollo e collegato a Crono, ad Atena e a Asclepio-Esculapio; i corvi predissero la morte di Platone, come a Roma quelle di Tiberio e Cicerone. Nell'Orfismo appare a simboleggiare la morte iniziatica ed è conseguentemente associato alla pigna e alla torcia, che sono simboli della rinascita metafisica. Analogamente nella tradizione ermetica è simbolo della nigredo (la morte rituale, il "passaggio alle tenebre"), come lo sono il teschio e la tomba. Il dio Brahma, nella religione hindu, si manifesta anche sotto le sembianze del corvo. Particolare importanza riveste nella mitologia nordico-germanica e in quella celtica. Tra i Germani i corvi sono sacri a Wotan-Odino, e i suoi due corvi Huginn e Muninn ("pensiero" e "memoria") volano nel mondo a raccogliere ogni informazione, per poi tornare a riferirla al dio sovrano. Lo seguono anche nella furiosa caccia selvaggia, e analogamente nella mitologia celtica sono sacri tanto a Lug dalla lunga lancia (così simile a Odino), quanto alla Morrigan, dea del furor guerriero e della morte in battaglia. In un mito gallese Owein è un eroe "sovrano di corvi" e si scontra con il seguito di Artù. Questa diffusione in area celtica e germanica ne ha comportato una forte presenza nell'araldica, dove pare però essere confuso con la cornacchia. Un ultimo dato interessante è che il corvo è spesso associato, in diverse aree e sino al tardo medioevo, agli occhi: non solo per via della sua capacità di lungimiranza, ma anche perché gli occhi sono il suo primo pasto quando si imbatte nei caduti in battaglia; inoltre i suoi occhi hanno potere medicamentoso. Fjölsvir è minacciato, allorché menta, «di essere mutilato da due corvi che gli strapperanno gli occhi». Ciò è forse da mettere in relazione con la qualità del corvo di rappresentare la prima funzione sovrana indoeuropea, quella magico-religiosa (testimoniata anche dal suo collegamento a Odino e Lug), come gli occhi lo sono nella gerarchia simbolica del corpo umano. Il cuculo trae il suo nome da una forma onomatopeica (*kuku-) abbastanza diffusa nel panorama indoeuropeo. Di essa si ha vestigia nelle lingue storiche nell'irlandese cach, nel gallese cog, nel verbo lituano kukoti (fare cucù), nel russo kuka, nel greco kkkyx, nel sanscrito koka- (e kokila-) e nel latino cuclus. Il latino pare avesse anche una forma, più rara e antica, ccus (a ulteriore conferma della ricostruzione del tema indoeuropeo), della quale cuculus rappresenterebbe una sorta di diminutivo poi invalso come nome principale. Questa è una delle tante parole che si sono conservate ancora oggi affini in moltissimi lingue, e in quasi tutte si è mantenuto il senso dell'onomatopea: anche in lingue influenzate da quelle indoeuropee, come il turco e il georgiano. Nominando questo uccello, ne riproduciamo il verso e, per un attimo, parliamo forse inconsapevolmente la sacra lingua degli uccelli, che molteplici tradizioni e leggende raffigurano come la "lingua angelica" e sacra per eccellenza. Nel simbolismo il cuculo è strettamente legato ad amore, fecondità e abbondanza pere via della sua funzione di "annunciatore" della bella stagione (in un calendario scandinavo medievale al cuculo è associata la data del 25 aprile, e nella antica tradizione nordica il mese


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che andava da circa metà aprile a circa metà maggio era definito "mese del cuculo"); inoltre, in alcuni ambiti ha la funzione di "sovrano" tra gli altri uccelli; ed ha anche alcuni caratterizzazioni negative e tenebrose, che fanno di lui uno dei parassiti simbolici per antonomasia. Come riportava già Aristotele, questo animale depone il suo uovo nel nido di altri uccelli (per lo più passeracei) eliminando dalla covata uno di quelli dell'ospite; allo schiudersi, il piccolo cuculo viene allevato e cresciuto dall'ignaro genitore adottivo. Questo fatto ha avuto due significative attribuzioni nel mondo del simbolismo: da una parte, ha accresciuto i significati primaverili che già erano proprî di tale animale, dall'altra lo ha fatto apparire in alcuni ambiti quale «emblema dell'abbandono dei doveri materni e del parassitismo, ma anche del canzonatore, tanto che una volta si usava il verbo "cuculiare" per "prendere in giro"» (Cattabiani). In ambito folklorico, e specialmente in Piemonte, esiste l'espressione "vecchio come il cucco". Sempre stando a quanto scrive Alfredo Cattabiani, essa sarebbe sorta dalla credenza secondo la quale il cuculo non morirebbe mai; inoltre, essendo immortale il cuculo tutto ha visto e tutto sa - un po' come il corvo, per altri aspetti. In un poema indotibetano quest'immagine del cuculo quale sapiente risulta appieno suffragata. Ne La preziosa ghirlanda degli insegnamenti degli uccelli si narra infatti del saggio Avalokitevara il quale, dopo avere assunto le forme di questo uccello, rimase per lunghi anni nel folto di un albero di sandalo. Quando venne richiesto di parlare da un pappagallo, iniziò un discorso di saggezza che fu ascoltato da un uditorio sempre maggiore di uccelli, che si radunarono in un grande e memorabile convegno. Il cuculo stabilì di riunirsi l'anno seguente: ciò avvenne, e quasi tutti i pennuti assunsero un impegno di natura spirituale; ciò li condusse sulla strada verso la liberazione. L'italiano "tordo" corrisponde al latino turdus, che è una parola di antiche origini. Si trovano suoi corrispondenti tra i Celti (irlandese moderno truid, 'tordo', e irlandese medievale truit, 'storno'), i Germani (antico alto tedesco drosca, norreno throstr, inglese moderno thrush, tedesco moderno Drossel), i Balti (lituano strzdas, lettone strazds, antico prussiano tresde), gli Slavi (russo drozd) e i Greci (greco stroudhos, che assunse il significato di 'passero'). La linguistica comparata ha individuato l'origine di questi nomi in una forma comune indoeuropea *(s)trsdos-, dalla quale sarebbero sortite le varie espressioni dialettali. John Greppin, dell'Università di Cleveland, la definisce parola «del Nord-Ovest indoeuropeo». Riferisce inoltre che i tordi del genere zoologico turdus sono ben noti per il loro dolce canto, e che i più comuni, all'interno del genere, sono il tordo canterino, il merlo e la tordella gazzina. Aggiunge infine che i varî tordi sono «ben distribuiti dall'Europa sino all'Asia occidentale e centrale» e che in India il tordo e la ciarla sono definiti con termini comuni, che designano entrambi tali uccelli. Mosca. Il nome di questo insetto si è conservato nei millennî, sino a giungere alla nostra lingua del tutto simile a quello utilizzato in tempi arcaici dal vocabolario indoeuropeo. Attraverso il latino musca ci giunge sin dalla radice indoeuropea *mus, ampliata in *mus-k. Questo tema è stato ricostruito dai linguisti tramite la comparazione con l'antico basso tedesco muggia, il norreno my, il lituano musè, l'antico slavo muxa, il greco antico myîa, l'albanese miz e l'armeno mun. Si delinea così la radice *mus, attestata nelle aree baltica, slava e greca; ampliata da *-ka nel latino e ridotta alla forma *mu o *m nelle aree germanica, albanese e armena.

----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 4 di Episteme] albertolombardo@libero.it, centrostudilaruna@libero.it


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De Verbo Mirifico - Il Nome e la Storia (Bruno d'Ausser Berrau) Premessa


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Ho voluto chiamare così questa ricerca perché tali e non altri ne sono i protagonisti: il nome è il Nome per eccellenza ovvero è la designazione di Dio nella tradizione ebraica. Tradizione, che trovandosi alla sorgente, dalla quale sono scaturite le tre religioni nate con Abramo, presenta un evidente e particolare interesse anche per i popoli, da esse stesse determinati, nel corso del tempo due volte millenario che sta per concludersi. Inoltre, per sue intrinseche caratteristiche, l'Ebraismo è portatore di elementi arcaici; alcuni di relativa evidenza, altri assai meno. Tutti però dal contenuto assai sorprendente per le possibilità da essi offerte nel far luce su aspetti remoti della storia. In realtà, sarebbe più corretto parlare di preistoria ma questo termine è spesso associato con prospettive paleontologiche non contigue al punto di vista qui utilizzato. L'approccio al problema, partendo dai rituali massonici, è assai insolito; sia perché questi appaiono relativamente poco conosciuti, sia perché sono, erroneamente, ritenuti elaborazioni colte assai tardive. I segni invece della loro genuina antichità risaltano, con evidenza, non solo per quanto può scaturire da un esame comparato del contestuale simbolismo ma proprio come nei particolari presi in considerazione - per la presenza di deformazioni ed alterazioni tipiche di una trasmissione per lungo tempo orale; avvenuta, inoltre, in ambiti linguistici e culturali, al fondo, lontani dalle fonti, in prevalenza semitiche, di partenza. Un patrimonio, nel suo insieme, assai diversificato; essendone conseguenza un lascito complesso: una sorgente ebraica primaria, veicolata dal primo cristianesimo, alla quale si sono poi aggiunti apporti della tradizione classica e con essa ma, soprattutto più tardi grazie agli arabi, anche componenti ermetiche (i.e. egizie), attive queste - del resto - in tutte le iniziazioni di mestiere dell'ambito europeo. Il problema principale, sotteso al ritualismo muratorio, è la ricerca della "parola" perduta del grado di Maestro. Parola, che dovrebbe coincidere con il vero nome del Grande Architetto dell'Universo; esso è poi il nome del Creator Mundi nella particolare prospettiva dell'Ars Ædificatoria: nel seguito, si vedrà come, di parola sostitutiva in parola sostitutiva, in un gioco di rimandi, connesso alla peculiare natura dell'ineffabile, si giunga infine ad un Nome per scoprire che è anch'esso surrogatorio. Anzi, se ne scopre un nascosto, composito assetto, strettamente dipendente dalla stratificazione cronologica di eventi storici, determinanti lo stesso intimo e più profondo carattere della tradizione ebraica. È quindi dalla disamina di questa struttura che si rende possibile gettare uno sguardo su fasi ed eventi di epoche molto lontane ed è per questo che anche il termine storia (ιστορια, historia), si trova presente nel sottotitolo. Nella sua estrinsecazione in questo studio, esso deve pertanto essere letto e inteso, e nel senso corrente, quale espressione di un tentativo d'interpretazione ricostruttiva di alcuni avvenimenti del passato, e nella primitiva accezione, contenuta nella √ƒιδ, dalla quale ιδειν, corrispondente al lt. videre, connotante tutte quelle attività che, dal senso della vista, attraverso la ricerca e l'investigazione, giungono alla conoscenza intellettuale. Nella conclusione, ho cercato, infine, di rendere ragione dell'importanza del ruolo che l'Ebraismo ha giocato nella realtà delle organizzazioni iniziatiche occidentali, trovandola nell'originaria natura del massaggio cristiano, il quale, soltanto in quella successiva, discreta, dimensione elitaria ha avuto seguito ed autonomo, peculiare sviluppo. Questo ho provato a fare ed anche se il modus operandi potrebbe sembrare quello di un mero lavoro d'erudizione - altri strumenti non essendoci in quest'archeologia materiæ non signata - la volontà è stata soprattutto quella di pervenire a gettare una qualche luce sulle vere radici della nostra epoca. SIGLE DEI RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Elenco parziale dei testi consultati BEJ: B.E.Jones; Freemasons' Book of the Royal Arch, Harrap, 1975 BdR: B. de Rachewiltz; Egitto magico religioso, Boringhieri, 1961 BGT: B.G.Tilak; The arctic Home in the Vedas, Poona & Bombay, 1903 CB: C.Benveniste; Il Vocabolario delle Istituzioni Indoeuropee, vol I, II, Einaudi, 1976


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CFV: C.Fabre-Vassas; La bête singulière. Les Juifs, les Chrétiens et le cochon, Gallimard, 1994 Ch: P.Chantraine; Dictionnaire Étymologique de la Langue grecque, vol.I, t.1,2, vol.II, t.3,4, Éd. Klincksieck, 1990 CS: C.Schmitt; Il Nomos della Terra, Adelphi, 1991 E.1: J.Evola; Lo Yoga della Potenza, Ed. Mediterranee, 1968 E.2: Ibid.; Metafisica del Sesso, Ed. Mediterranee, 1969 F: J.G.Février; Histoire de l'Écriture, Éd. Payot, 1984 FdO: Fabre d'Olivet; La Langue Hébraïque Restituée, L'Age d'Homme, 1985 FEI: First Encyclopaedia of Islam, 1913-1936, reprint Brill, 1987 FV: F.Vinci; Omero nel Baltico, Ed. Palombi, 1997 GG: G.Garbini; I Filistei, Rusconi, 1997 H: J.Hadry; Les Indo-Européens, P.U.F. 1981 HC: H.Corbin; Corps spirituel et Terre céleste, Éd. Buchet/Chastel, 1960 HC1: Ibid.; En Islam iranien, 4 tomes, Éd. Gallimard, 1971 HL: F.Brown, S.R.Driver, C.A.Briggs; Hebrew & English Lexicon of the Old Testament, Oxford U.P.1951 HS: H.Shanks;Understanding the Dead Sea Scroll, Random House, 1992 JD: J. Daniélou, Théologie du Judéo-christianisme, Paris, 1958 JH: J.Hani; La Religion Égyptienne dans la Pensée de Plutarque, Les Belles Lettres, 1976 K: Kluge; Etymologisches Wörterbuch der deutschen Sprache, de Gruyter, 1995 KK: K.Kerényi; Dioniso, Adelphi, 1992 L: R.M.H.Luzzatto; Les Soixante-dix Arrangements, (t.I, II), Éd. Rahmal, M: A.Ernout, A.Meillet; Dictionnaire Étymologique de la Langue Latine, Éd. Klincksieck, 1959 ME: M.Eliade; Lo Sciamanismo, Ed. Mediterranee, 1974 MMW: Sir Monier Monier-Williams; A Sanskrit-English Dictionary, Delhi, 1995 MS: M. Simon; Verus Israel, De Boccard, 1983 PV: P.Vulliaud; La Kabbale Juive, Éd. D'Aujourd'hui, 1976 PW.: P.Walter; Canicule, SEDES, 1988 PW.2: Ibid.; Mythologie Chrétienne, Éd. Entente, 1992 RG.1: R.Guénon; Études sur la Franc-Maçonnerie et le Compagnonnage,(t.1, II), Paris, 1965 RG.2: Ibid.; Formes traditionnelles et cycles cosmiques, Gallimard, 1970 RG.3: Ibid.; Symboles fondamentaux de la Science sacrée, Gallimard, 1962 RG.4: Ibid.; Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, Gallimard, 1945 RG.5: Ibid.; Formes traditionnelles et cycles cosmiques, Gallimard, 1970 S: G.Semerano; Le Origini della Cultura Europea, (vol.1, t.I, II, vol.2, t.I, II), Ed. Olschki, 1984 Sh: G.Scholem; La Cabala, Ed. Mediterranee, 1982 Sh1: Ibid.; Les grands courants de la mystique juive, Payot, 1983 W: J.S.M.Ward; The Higher Degrees of Masonry, s.d. Z: Le Zohar; (t.I,II, III, IV), Éd. Verdier, 1996 Considerazioni intorno alla parola di Maestro ed al Nome del grande Architetto dell'Universo così come espressi nei rituali della Gran Loggia Unita d'Inghilterra Per la priorità storica dell'Inghilterra nella moderna diffusione della Massoneria, in questo studio, nella presunzione d'avere così ottenuto una maggior prossimità all'antico, ho attinto ai testi originali facenti riferimento alla documentazione prodotta dalla United Grand Lodge. Tale antico, per me, non si ferma agli inizi del XVIII sec., epoca nella quale si costituì la Massoneria Speculativa, come, in modo riduttivo, pensano anche alcuni massoni e neppure si


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colloca in tempi rinascimentali, qual è opinione di altri ma si perde invece lontano, ab immemorabili, com'è del tutto naturale avvenga per qualsivoglia tradizione. In ogni caso, a mio parere, la tradizione massonica, ancorché impoverita nella qualità degli uomini e nell'eterogeneità dei fini,1 è autentica e, per questo, meritevole d'attenzione in quanto suscettibile di fornire indicazioni di notevole valore ove la si sappia mondare dagli effetti di una patina ottocentesca, spesso fatta di stucchevole moralismo nei paesi anglosassoni e d'aggressivo impegno politico-laicista in quelli latini. I rituali massonici, qui presi in considerazione, sono pertanto quello Emulation per il Craft2 e l'Aldersgate per il Royal Arch, il quale non è un grado a sé stante ma si colloca, pur con una sua autonomia espressa in Chapters, all'interno del Craft stesso quale estensione e completamento del grado di Maestro e pertanto non deve, in alcun modo, essere confuso con gli Higher Degrees.3 Alla chiusura nel terzo grado, il Maestro Venerabile (Worshipfull Master), dopo aver ricevuto dal 1° Sorv. (Senior Warden) i segni ed ascoltato le parole di Maestro - pronunciate ad alta voce - dichiara: brethren, the substituted Secrets of Master Mason, thus regularly communicated to me, I, as Master of this Lodge, and thereby the humble representative of King Salomon, sanction and confirm with my approbation, and declare that they shall designate you, and all Masters throughout the Universe, until time or circumstances shall restore the genuines. È quindi chiaro come Mahbenah e Mohabon - sono queste le parole ritualmente comunicate al nuovo Maestro - siano soltanto parole sostitutive, si tratta ora di vedere da quale parte cominciare per ritrovare the genuines. Per tutte e due il rituale dà poi una spiegazione che - in quanto tale e in qualche modo sembra attenuare l'affermazione dall'impatto più nettamente negativo che ho citato sopra: <<both words have a nearly similar import, one signifying "the death of the builder", the other "the builder is a sacrificed man". Nonostante, la fuorviante e probabilmente volontaria inesattezza della traduzione, queste due frasi trasmettono però altrettanti validi suggerimenti: 1. 2.

Le parole, ancorché sostitutive, non sono prive di senso. C'è, in entrambe le frasi, un richiamo al costruttore che - come spiegherò tra poco - è importante.

R.Guénon,4 scrive che le interpretazioni, finora date, non possono trovare una corretta spiegazione perché, ove si cerchi di inserirle in <<…une étymologie hébraïque quelconque>>, si rivelano, al primo approccio, del tutto fantasiose. A questo punto c'è la precisa traccia - ancorché scontata - di doversi riferire alla lingua ebraica. Ma leggiamo ancora: <<…ce mot, [è a Mahbenah che si riferisce] en réalité, n'est pas autre chose qu'une question, et la réponse à cette question serait le vrai "mot sacré" ou la "parole perdue" ellemême, c'est-à-dire le véritable nom du Grand Architecte de l'Univers.>>. Altrettanto, secondo logica debbo supporre, varrà per l'altra parola; quindi, essendo due quelle disponibili ed una la "parola perduta" entrambe le domande dovranno comportare la stessa risposta. Mahbenah corrisponde assai bene all'ebraico MâH BâNâH? [ ]: che cosa costruisci? La risposta è evidente: il Tempio. L'altra parola è Mohabon, per la quale posso usufruire di un altro prezioso suggerimento dello stesso autore,5 che scrive, in forma alquanto ellittica, <<…qu'on répondra jamais valablement à la question posée par un "mot" qui a été déformé de tant de façons diverses, question qui d'ailleurs, chose curieuse, se lit en arabe encore plus clairement qu'en hébreu: Mâ el-Banna? [⊕×_← ∇ ∴↓] >> Mâ, nella lingua araba attuale, è un pronome interrogativo avente il senso di che cosa? Mentre, per gli individui, s'adopera man (chi?). È invece nella


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lingua aulica, che mâ è impiegato per interrogare sull'identità personale; anzi, in alcuni passi della Scrittura, questo pronome sta proprio a designare la funzione divina di creazione. Pertanto, l'equivalente ebraico di Mâ el-Banna? È MY Ha BONèH? [  ]. Cioè, quello che, con una leggera deformazione,6 è il nostro Mohabon, il quale - in entrambe le lingue - infine, significa: chi è il costruttore? Si potrebbe, qui giustamente, osservare che costruttore non è esattamente la stessa cosa di architetto ma, del resto, nell'imperfetta spiegazione qual è quella, data in via rituale e più sopra riportata, si parlava proprio di un builder e non di un architect ed in effetti, ciò che troveremo al termine di questa prima fase, non è tanto il nome del Grande Architetto dell'Universo (GADU) quanto un suo attributo. Tale disposizione è in analogia ai consueti, terreni rapporti gerarchici, dove, il costruttore è concettualmente subordinato all'architetto. I nomi o attributi di Dio sono settantadue; le difficoltà mi appaiono pertanto minori affrontando la gamma dei sinonimi relativi a tempio. Ed essi sono essenzialmente due: HIKâL [] e QaDoS h [ ].7 HIKâL ha, principalmente, il significato di un edificio imponente, monumentale; un palazzo insomma e soltanto lato sensu può essere esteso ad un edificio di culto. Un'accezione propriamente religiosa è invece connessa a QaDoSh, lett. santo ma anche tempio, che - nel giudaismo, pel concetto dell'imprescindibile unicità del luogo di culto - non può essere che il Tempio, cui, tale ieratica ed esclusiva designazione, perfettamente, s'addice. Per più estesi riferimenti ho utilizzato lo HL, limitandomi qui a riportare come di QaDoSh affermi che è proprio of places set apart as sacred by God's presence; da cui consegue che, con tale vocabolo, viene pertanto designato, e il Tempio, e - prima di esso - the Tabernacle and its courts nonché, con l'espressione QaDoSh QaDoShIM, l'inviolabile Santo dei Santi. Questa, ottemperando ai requisiti premessi, dovrebbe essere quindi la risposta nonché la parola cercata. Mi rendo conto, come, l'immediata traduzione con santo non riesca, in italiano, ad essere del tutto congrua per la designazione del Tempio; meglio sarebbe, quindi, servirsi di santuario; però - così facendo - si viene ad attenuare la pregnanza della metonimia scaturita dalla singola risposta. L'importante, non dovendo esserci un effettivo uso della traduzione in una lingua diversa dall'ebraico, è capire a fondo il concetto che sottende l'originale. In questo senso, è utile partire dall'etimo latino della versione italiana dove il significato, indiviso nell'unico termine ebraico, si scinde in due componenti. Voglio procedere con ordine:  Sanctum è ciò che si trova alla periferia del sacrum e che serve ad isolarlo da ogni contatto, infatti quest'ultimo ha un doppio significato designando ciò che non può essere toccato senza essere contaminato o senza contaminare: mons sacer, via sacra / auri sacra fames, homo sacerrimus. Mentre la funzione isolante, di limes, del sanctum, è ben leggibile nel sanctuarium, nel murus sanctus ed anche nella lex sancta. Tutto bene quindi per restituire il concetto di tempio ma capisco come possa esserci qualche difficoltà a ritenerlo un attributo del GADU, cui allora parrebbe più appropriato sacro:  << sacer indique un état, sanctus le résultat d'un acte>>8 Ma come siamo arrivati all'attuale senso, anche morale, di santo? E' un portato, storicamente ben collocabile, dell'evangelico αγιος, che ha mutuato il suo significato proprio dall'ebr. QaDoSh, nella cui radice si trova, allo stato principiale, ciò che, come ho già accennato, nel latino ha dato luogo alle due accezioni esaminate. E, infatti, nello HL, alla traduzione di QaDoSh, la dicotomia risulta ben evidente: sacredness, apartness: il primo concetto riconduce a Dio e pertanto all'Attributo, il secondo alla Casa di Dio ovvero al Tempio. L'esame radicale e comparato della parola (QaDoSh), mi conferma i due significati qui sopra riportati9 nonché il suo ruolo nella corrispondenza funzionale col GADU. Ambito di sacredness


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FdO, per QD [ ], scrive: <<Le point vertical, le pole, le sommet de quelque chose que se soit; le pivot, le mobile, le point sur lequel tout porte, tout roule.>> Mentre per Sh [ ]: <<Comme image symbolique, il représente la partie de l'arc d'ou la flèche s'élance en sifflant.>>. Sembra palese che siamo di fronte all'immagine del prodursi di tutta la manifestazione da un punto o anche, in termini più "muratòri" e più consoni al contesto biblico, è l'Antico dei Giorni che, con il suo compasso, divide le acque superiori da quelle inferiori: <<... quando tracciava un cerchio sull'abisso…>>.10 Ben evidente è la prossimità semitica all'accadico quddušu,11 essere luminoso, splendente, che, in termini concettuali ma non linguistici, richiama l'idea mazdea ed iranica della Xvarnah, la luce di gloria propria ad ogni manifestazione del divino. In un senso più ristretto QDD [ ] è inclinarsi e QDH [ ] è un inchino; evidente riflesso della maestà connessa alla radice.

Ambito di apartness • QD ha naturalmente anche il senso di separare, dividere, in arabo [ϖ≤] si concretizza in <<…une ligne de démarcation, une fissure, une entaille; c'est en particulier, la taille de quoi que ce soit, la proportion corporelle…>> (FdO). Per quest'ultimo ambito, c'è da mettere in evidenza come, nonostante la doppia valenza di Qadosh, esista nelle lingue semitiche un'altra serie di termini usciti da una √HRM [   , ±ζο] per i quali i sono assai evidenti i rapporti con le accezioni di sacer piuttosto di quelli relativi a sanctus ma ritengo più proficuo privilegiare il vocabolo nel quale le possibilità semantiche sono più ampie. Ma ritorno ora alle nostre due domande; com'è facile constatare, sia nel sostantivo BONèH, sia nel verbo BâNâH l'elemento radicale è rappresentato da √ BN [] . Qui, il FdO mi è ancora d'aiuto: <<… cette racine développera l'idée d'une extension génératrice … d'une émanation … elle sera le symbole de toute … manifestation de l'acte générateur … dans un sens propre c'est un fils, une formation, une corporisation, une construction.>> In essa, si trova pertanto, in nuce, quello che se ne svilupperà ossia: dal piano dell'idea a quello della concretezza dell'edificio. Dal suo fondersi con la √ YN [] - <<… toutes les idées de manifestation particulière et d'être individuel>> - consegue √ BYN → BYNâH []: <<L'intelligence; ce qui élit intérieurement et dispose les éléments pour l'édification de l'âme.>>. Questo percorso mi ha così portato a trovare la ragione profonda di uno di quelli che, per travisamenti secolari, sembrerebbe poter classificare tra i luoghi comuni di un certo moralismo massonico: la costruzione del Tempio interiore. Il rapporto tra il Manifestato ed il suo Principio sono illustrati, nella tradizione ebraica, dall'Albero Sefirotico (da Sephiroth,    : numerazioni), il quale gioca un ruolo fondamentale in quell'esoterismo. Esso e n u m e r a appunto dieci "categorie", disposte secondo un impianto tripartito, dalla forma d'ideogramma geometrico mentre il Principio dell'intera costruzione ha un ruolo matematico e, a maggior ragione, metafisico di zero: è l'Inconoscibile o AYN-SOPh [      , lett. senza limiti ] che sovrasta lo schema standone però all'esterno. La terza di dette categorie è la nostra BYNâH, l'Intelligenza. Ciò, che qui, particolarmente, m'interessa è l'abbinamento, attuato dalle dottrine cabalistiche, tra le Sephiroth e le più diverse serie concettuali d'ordine teologico, cosmologico o morale. In tale prospettiva, è importante vedere con quali conseguenze, concependo l' e n u m e r a z i o n e come progressiva manifestazione d'alcuni nomi di Dio, a BYNâH risulti appaiato il Tetragramma YHWH [   ].12 A conferma, nel Decalogo, è il terzo enunciato, che ha come tema il Nome: <<Non pronuncerai invano il Nome del Signore, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il Suo Nome invano>>.13 Ed è noto che tale compito fosse riservato - una volta l'anno, nel giorno dello Yom Kippur - soltanto al Sommo Sacerdote.


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Resta, ora, da trovare la non ancora individuata identità dell'Architetto, che concepisce il progetto poi attuato dal Costruttore. Per far questo debbo tornare ai rituali, dei quali rimane da esaminare quello del Royal Arch, che, come ho già scritto, è il completamento del grado di Maestro ed al quale si accede attraverso un rito che ha nome Exaltation. Al termine di esso, al Maestro "esaltato" viene espressamente rivelato il vero nome del GADU che è, appunto, il Tetragramma. Quindi i rapporti gerarchici, tra Square Masonry ed Arch Masonry, risultano sempre per legge d'analogia - un riflesso di quelli esistenti tra uno dei nomi o attributi e quello che è il Nome ovverosia <<…l'Hiérogramme du Grand Architecte de l'Univers>>.14 Per altro, attraverso una delle operazioni alfanumeriche della Cabalah, a BYNâH è attribuito il valore di 50,15 il quale coincide con il risultato della somma dei quadrati dei lati del triangolo rettangolo (di proporzioni 3 / 4 / 5)16 su cui si basa la Master's square: è pertanto all'Intelligenza che si rapportano - come dimostrano tutte queste, sottese relazioni - sia la Square, sia l'Arch Masonry, trovando in essa attinenza qualsiasi opera costruttiva a qualsivoglia livello ontologico la s'intenda intraprendere. Per completezza, debbo aggiungere che, alla Sephira BYNâH, è anche collegato il nome ALôHYM [] e per esso, come suggerito da Gen. 1.1 <<Berashit bera Elohim…>>,17 si perviene ad una stretta rispondenza con la prima parola della Torah: BéRAShYTh [     ], in principio. Poi, attraverso questa, dalla scissione in due componenti, nasce un nuovo significato: BéRA ShYTh [       ], Egli crea sei. È così, significativamente, mostrato il determinarsi delle sei direzioni dello spazio. Come si può vedere, siamo sempre in piena cosmogenesi; in effetti il collegamento, di ALôHYM e BYNâH con il Tetragramma, è quello che si ha quando la Presenza/Potenza [Shekina,  ] di Dio si manifesta ed opera in questo mondo ed il testo biblico, nell'originale ebraico, fa apparire evidente questo ruolo <<..è detto, Elohim che la luce sia ! E la luce fu>>18 Tale Fiat Lux primordiale ha la sua corrispondenza microcosmica nel processo iniziatico in quanto - mentre il primo determina l'ordinamento del χaος - quest'ultimo produce un'analoga rettificazione nel composto individuale del neofita o Entered Apprentice. Adesso, ritengo che si possa stabilire quale sia la corrispondenza massonica degli Elohim creatori: se esamino questo nome - che è, appunto, un plurale - constato come, sempre lo Zohar, lo metta in relazione con il settenario, completando in tal modo il nesso già rilevato con le direzioni dello spazio. Esse - diciamo così - si riassumono nel centro da cui originano ed è quindi, in definitiva, esso stesso (che è poi un loro: gli Elohim), il soggetto della frase: Egli crea sei. Ciò facendo, determinano il settimo e principale componente nella croce a tre dimensioni che, secondo i modi della geometria descrittiva, le rappresenta.19 Ma per formare una Loggia e poter quindi trasmettere l'iniziazione sono necessari sette maestri, i quali saranno così - in piena armonia con tutto il simbolismo cosmologico del Tempio - la proiezione terrena di quel consesso celeste. Torniamo ora al Nome, sul quale il rituale dell'Exaltation ci riserva ulteriori informazioni: al termine of the legend that deals with the "discovery" of the lost secrets at the re-building of the Temple after the return from the Captivity, viene scoperto (è letteralmente nascosto da un velo) il Nome del GADU. Di fatto, la cosa si presenta più complessa: c'è sull'ara la rappresentazione di una circonferenza, nella quale è inscritto un triangolo equilatero. Nella parte superiore, della circonferenza, sta scritto Jehovah, sui lati del triangolo, spezzata in tre parti, si legge la parola Jah-bul-on. In corrispondenza dei vertici si trovano le lettere , , .20 Di tutti questi elementi esaminerò in particolare il primo perché del Tetragramma YHWH, oggi, come si sa, la pronuncia generalmente accettata concorda per il convenzionale Iahveh pur non escludendo che in antico essa fosse diversa. Questo suggerimento rituale, appare invece confermare un'indicazione del simbolismo, che fa ritenere come, quella originaria e supposta perduta fosse, appunto, Jehovah; consonante, d'altronde, con l'altro, più insolito Nome di Jahbulon. Quanto alle tre lettere ebraiche, con le quale si esemplificavano interessanti combinazioni, esse non compaiono più per precise ma non chiarite disposizioni 21 del Supreme


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Grand Chapter. Ma torniamo al problema della pronuncia; a favore della seconda dizione del Nome debbo fare anche questa considerazione: la forma della lettera yod [] è quella geometrica di una piccola squadra e pure una squadra è la gamma Γ maiuscola; entrambe, nel simbolismo e in antichi rituali, sono associate alla G la cui pronuncia può essere gutturale come in God - dove l'assimilazione fonetica a "yod" era, in inglese, espressamente voluta (Yah22 è uno dei nomi) - oppure dolce come in Geometry (the fifth science secondo l'enumerazione delle sette arti liberali) ma in ogni caso è sempre detto che essa stands for God. Ora, parrebbe d'esser giunti al termine della quête avendo, secondo il diligente investigare sin qui condotto, trovato sia la Parola, sia il Nome; infatti, riepilogando: QaDoSh è l'Attributo di BONèH, il Costruttore e QaDoSh è la vera parola del grado di Maestro. Il Costruttore è poi ipostasi di YHWH, ed il Tetragramma, con la pronuncia Jehovah, è pertanto il Nome dell'Architetto ovverosia del GADU, Nome e pronuncia che sono rivelati nel Royal Arch al completamento della Maestria. Ma la via iniziatica ha sue specifiche caratteristiche ed anche se attentamente percorsa con gli strumenti dell'erudizione, è necessario tenerne conto. Pertanto, nonostante quanto acquisito, il viaggio non è giunto al suo termine: cosicché, collocando il punto di vista ad un livello superiore di realtà, l'orizzonte si allontana ulteriormente. Infatti, ogni forma tradizionale e, di conseguenza, ogni lingua sacra che la supporta, non sono, essi stessi, altro che sostituti della Tradizione Primordiale una ed indivisa come pure della lingua originaria anch'essa unica e comune a tutta l'umanità. Dobbiamo quindi avere ben presente che siamo, ancora una volta, di fronte a termini sostitutivi. Del resto, il reale raggiungimento dell'obiettivo implicherebbe l'aver conseguito la pienezza della realizzazione e questa - appartenendo per sua stessa natura all'ineffabile - comporterebbe l'incomunicabilità della "parola ritrovata", a maggior ragione poi attraverso uno scritto. Nell'ambito iniziatico del mondo classico, cui la Societas Latomorum è debitrice per quel filum che la lega ai Collegia Fabrorum, questi ultimi, in quanto organizzazioni artigianali, appartenevano ai "piccoli misteri" e - a chi vi militava - si poneva, come meta della realizzazione spirituale, il raggiungimento della condizione di "uomo primordiale" ovvero, secondo la terminologia cristiana, il superamento degli effetti della "caduta". È quindi evidente come nel Tempio non possano mancare gli accenni alla Tradizione Primordiale; in altri termini alla fase iniziale di questo ciclo di umanità, la sede della quale - il berceau originario - elementi concordi, presso le più diverse tradizioni, collocano - per quanto ciò possa apparire singolare - in posizione artica.23 Tale localizzazione, di fatto, risulta in Loggia con tutta evidenza: ancor oggi, quando l'ambiente dedicato a quest'uso è arredato e composto secondo le prescrizioni, dovrebbe esserci una volta stellata ed inoltre dovrebbero essere esposti i segni zodiacali e messi intorno alle pareti sì da riprodurre la situazione che si ha ponendosi esattamente sul Polo. Da questa posizione sommitale sul globo terrestre, lo Zodiaco appare dietro al cerchio dell'orizzonte di modo che, quest'ultimo viene a coincidere con l'Equatore celeste; quindi, per l'esattezza, nella realtà geografica, esso emerge per la metà superiore, cioè sino al Tropico del Capricorno in guisa che, l'altro settore della fascia, quello limitato a Sud dal Tropico del Cancro, resti nascosto alla vista. Anzi, nel Tempio degli Operativi, l'ambiente artico era ancor più leggibile essendo la Polare posta al centro della volta quale <<siège effectif du Soleil central, caché de l'Univers, Yah24>> e la G si ritrovava inscritta o circoscritta ad essa. In quest'ultimo caso, era invece inscritta la yod [] e, dal tutto, calava, fino al pavimento, un filo a piombo, che terminava al centro di uno swastika formato da quattro Γ, riproducenti il movimento (senso antiorario) delle due Orse25 e di tutto il firmamento intorno alla Polare nel corso delle ventiquattro ore. Questo è il senso del moto celeste che - anche alle nostre latitudini - risulta tale ove lo si osservi volti a Settentrione mentre con la direzione rituale 26 ad Oriente (cristiana e massonica) lo spostamento ci appare essere quello delle lancette dell'orologio ed è il Sole, più che le stelle, a dominare la scena. Non a caso le Soleil central caché… è Yah ed è


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rappresentato dallo yod, che avendo appunto, in piccolo, la forma speculare a quella della Γ corrisponde all'altro senso di rotazione dello swastika: giustamente quello solare. Naturalmente questi sensi di rotazione hanno una serie di "ricadute": ad essi corrisponde il movimento di deambulazione in Loggia e per analogia, in un contesto sacrale più ampio, quello intorno ai luoghi di culto,27 fino a definire l'andamento della scrittura in vari ambiti culturali. A riprova di quanto sia forte l'interna coerenza di tutto il simbolismo tradizionale, mi è utile sottolineare che, avendo in precedenza28 messo in rilievo (per la cosmogonia ebraica, a proposito della croce a tre dimensioni) una prima relazione tra lo spazio ed il tempo, egualmente, essendo ora pervenuto ad un esame dello swastika ed avendo esteso l'indagine all'Induismo, indottovi dal nome stesso del simbolo, posso individuarne una seconda. Nel Genesi, al succedersi dei giorni, c'è una formula sempre ricorrente che è lecito definire d'approvazione e pertanto di benedizione dell'opera compiuta: <<…and God saw that it was good>> ovvero KY TÔB [    ].29 Per elementari cognizioni di geografia astronomica si sa che il volgersi, nello spazio del cielo polare, dei due suddetti asterismi, produce una completa rotazione nell'arco delle ventiquattro ore. Rotazione, appunto, plasticamente raffigurata dallo swastika; si marca così, ad ogni giro, il transito da un giorno al successivo. Infatti, viene parimenti ripetuto: <<E fu sera e fu mattina>>.30 Ebbene, in skr. swastika - che è di per sé segno di <<good luck>> - può divenire , se sono utilizzati <<the Asoka characters>> , il monogramma di sw-astì il cui senso è reso dal benedicente <<may it be well with thee !>>. Se poi prendiamo il sostantivo composto swastivâcana, troviamo che trattasi di <<a religious rite…performed by…invoking blessings by repetition of certain Mantras>>;31 proprio l'esatto corrispondente dell'iterativa formula biblica. Trovo davvero suggestivo pensare come un tempo questa benedizione divina potesse quindi, letteralmente, leggersi nel cielo. Tali precisazioni, sia detto per inciso, tolgono ogni significato a tutte quelle strane fantasie, nate dall'arbitrario contenzioso politico sorto, per le note ragioni, riguardo allo swastika, che lo vorrebbero buono o cattivo a seconda del suo senso di rotazione e chiariscono invece il significato fondamentalmente cosmologico che gli è proprio. Questo detto - stante la posizione assiale del Polo nel mondo terrestre - risulta evidente perché la Camera di Maestro venga detta Camera di Mezzo (the middle chamber) ed anche si comprende perché il Tempio - inteso in un'accezione universale - dovrebbe essere a pianta quadrata (Square Masonry) proprio per la simmetria di quella figura rispetto al suo centro. Il cerchio (cupole ed archi competono alla Arch Masonry) attiene al cielo mentre il quadrato alla terra; ne consegue che - tra i numeri - il quattro si rapporta all'aspetto sostanziale della manifestazione, dando luogo, nella concretezza dell'edificio, all'alzata cubica che potrà o meno essere culminata da un assetto architettonico derivato from a circle's development, a sua volta sensibile aspetto della relazione tra cielo e terra. Un semplice cubo è difatti la Kaaba ed un cubo era il Santo dei Santi ma l'allontanamento, non solo geografico, dal Polo ha provocato una specie di compromesso; pertanto l'attuale planimetria della Loggia, di proposito, non è descritta come un rettangolo ma come a double square. Con questa duplicazione, si è ottenuta, per l'allungarsi della figura, una direzione (qibla), che - non potendo più lo spazio sacro incentrarsi sulla proiezione del "sole zenitale" è ormai quella volta a Solis adventus, caratteristica di più basse latitudini. Quindi, sul lato corrispondente all'aurora, dietro al Venerabile - a ragione dell'immutata posizione dello zodiaco astrologico, che ha "dimenticato" di tener conto degli effetti del moto precessionario è ancor oggi indicato il segno dell'Ariete [] - asterismo in cui sostava il punto vernale in epoca salomonica (-968 / -928) - cioè esattamente l'equivalente grafico di una lettera " γ " (gamma) minuscola; piccola, appunto, come piccola è la square dello "  " ed entrambi, contrassegnati da una relazione col sole da intendersi, quindi, sostitutiva di quella polare originaria.


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Quest'indagine sulle caratteristiche del Tempio, mi ha permesso di meglio illustrare le relazioni tra  / Γ / G, ottenendo così un'ulteriore conferma riguardo alla pronuncia di YHWH; inoltre - nel sottolineare l'importanza di Yah, - viene messa in luce un'evidenza alla quale farò ancora cenno a proposito del significato insito nello stesso Hiérogramme du GADU. Parimenti interessante è un'altra connessione esistente tra il Nome ed il Tempio: l'architettura cubica di base, oltre a poter essere sovrastata da una cupola, può esserlo anche da un dôme piramidale com'è verificabile per alcune chiese e per molti campanili. Questo solido, che sul piano diventa un quadrato sormontato da un triangolo, è un simbolo presente in molte Logge ed è chiamato " broached thurnel" ma il termine italiano "pietra cubica a punta" m'appare, descrittivamente, più esatto. Quand'esso è riprodotto in immagine, vi è inscritto il Tetragramma, il quale è scomposto in modo che lo  risulti posto al centro del triangolo mentre le rimanenti lettere  sono collocate nel quadrato. Più sopra, abbiamo visto come, al quattro, corrisponda l'aspetto sostanziale del creato mentre, al mondo dello spirito, afferisce il tre e come entrambe le cifre siano congruamente rappresentate nei due poligoni (triangolo + quadrato) e nel modo in cui questi sono disposti per formare la figura in esame. Inoltre, se tengo conto delle corrispondenze esistenti tra le lettere ed i numeri nell'alfabeto ebraico, risulta per l'intero Nome il valore di 26: in questo totale, 10 deve essere attribuito allo  ,32 che è appunto l'essenza del Nome stesso mentre per le altre lettere si ottiene una somma pari a 16 ovvero il quadrato di 4 , cioè l'area della superficie su cui sono tracciate. Queste attribuzioni, per le concordanze con il mondo classico presenti in Loggia, trovano conferma nel pitagorismo: in esso, il valore riassuntivo (essenziale) del 10 rispetto alla substantia del 4 a sua volta rappresentato dalla Τετρακτυλ: 1 + 2 + 3 + 4 = 10 - è testimoniato da un'altra rappresentazione della stessa figura nella quale, al posto delle lettere ebraiche, si possono trovare punti geometricamente distribuiti: in n. di 10 nel triangolo ed in n. di 16 nel quadrato. Il senso sotteso al simbolo è pertanto da intendersi come se fosse la forma stessa del Tempio a proclamare il nome GADU. La pregnanza di esso è tale che i massoni letteralmente se ne rivestono: in the English version del grembiule - quadrato con bavetta triangolare - l'identità con il disegno in argomento è perfetta se si considera che, the Entered Apprentices should wear their aprons with the bibs up. Più sopra, ho fatto riferimento all'illusorietà di un raggiungimento della Parola e del Nome definitivi; ebbene, si deve ora accettare e prendere atto di come, anche YHWH, rimandi, a sua volta, a qualcosa di diverso e che, <<…suivant l'interprétation la plus autorisée et la plus plausible, il s'agit en réalité d'un mot composite, formé par la réunion de trois noms divins appartenant à autant de traditions différentes>>.33 Del resto, un suggerimento che questo fosse il modo di procedere nell'interpretazione, appariva implicito nella suddivisione del secondo Nome - Jahbulon [] - sui tre lati del triangolo. In effetti, quando i Tre Principali del Royal Arch, si comunicano la Parola - in entrambe le varianti è, appunto, un Tetragramma per la sostanzialità d'ogni scrittura (in analogia con supra; a proposito del numero quattro) - lo fanno in modo assai singolare e spezzandola in tre sillabe (Je-ho-wa e Jah-bul-on)34 e questo poiché la voce, veicolo del Verbo e quindi dell'essenzialità, si rapporta, a sua volta, al tre nel simbolismo numerico. La rappresentazione della specifica leggenda dell'Exaltation è incentrata sul secondo Tempio, cioè after the return from the Captivity e pertanto i Tre Principali rappresentano: •

Zorobabele, come Re (figlio di Sealtièl, guidò una colonna di esuli al ritorno da Babilonia: -520, tutti e tre i personaggi sono contemporanei); • Giosue, come Gran Sacerdote, (figlio di Jozedàc); • Aggeo, come Dottore della Legge, (profeta).


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Ma, dalla leggenda iniziatica del grado di Maestro ci è noto come il segreto della Parola fosse custodito dai primi tre Grandi Maestri; <<…Our Master [Hiram], true to his Obligation, answered that those secrets were known to but ..[only three persons]…in the world and without the consent and co-operation of the other …[two]…he neither could nor would divulge them…>>. Ed essi erano: 1. Salomone, 2. Hiram, Re di Tiro e 3. Hiram Abi, l'Architetto, quest'ultimo però, negli Old Charges, non è mai chiamato così bensì Amon [] che in ebraico significa, infatti, artigiano. Quindi le connessioni con le tre traditions différentes sono: 1. per la componente Je- e Jah- [] • Je- e Jah- []: è il precitato Yah ma è la stessa lettera yod , che costituisce in sé un nome divino. Questo, rapportandosi a Salomone, sembra la più diretta espressione della tradizione ebraica e soprattutto, da questa, della Tradizione Primordiale. Ma andiamo con ordine: dello "  " viene detto essere formato dall'unione di tre punti corrispondenti alle tre middoth supreme ed inoltre - a motivo del suo geometrico disegno - si afferma che da esso, per combinazioni, derivino tutte le altre lettere dello squadrato alfabeto chiamato caldaico35 (cfr. infra, punto 2.) Il suo valore numerico è, lo abbiamo già visto, 10 pari appunto alle Sephiroth, a loro volta espressioni di tutto il manifestato. 36 La sua trascrizione in lettere latine è I e << …I s'appellava in Terra il sommo Bene…>> 37 dice Adamo, riferendosi ai tempi edenici ossia proprio alla Tradizione Primordiale - per la quale cfr. MMW, il skr. Îsh, master, Lord, the Supreme Spirit38 - mentre Francesco da Barberino nel suo Tractatus Amoris - in un'incisione - si fa raffigurare in adorazione della lettera I.39 Del resto, perché non supporre che la nostra forma Iddio sia da intendersi <<I [‫]י‬: Dio>>, evidente ri-velazione di un Nome? • In questa componente i due Nomi coincidono. 2. per le componenti -ho- [] e -bul- [] • -ho- []: si rapporta ad Hiram, Re di Tiro, che ebbe tuttavia un ruolo nella costruzione del Tempio. Il suo nome, probabilmente per influenza del racconto biblico, è stato poi trasferito, con l'avvento della Massoneria Speculativa, all'Architetto sostituendosi così al nome originario che era appunto Amon (cfr. supra p. 8 et infra, punto 3.). L'allusione ad un Re straniero anche se prossimo e di un regno posto a Nord della terra d'Israele, sembra ricondurre alla tradizione caldaica dalla quale sorse l'ebraismo come viene suggerito dal racconto d'Abramo sortito da Ur per dare inizio alla sua fatale migrazione. A conferma,40 abbiamo l'accadico ha'atu: watchful, said of gods and demons ed ancora hâtu: to watch over, to take care of ma anche hadû: joy. Per quest'ultimo è da notare la curiosa convergenza con ←δ⇓ς e la parallela relazione semantica esistente tra God e Good. • -bul- []: anche in questo caso il riferimento settentrionale è dominante, sia perché, nella forma ba´al [   ], it seems to have been used, as divine name, in Northern Kingdom of Israel (HL), sia perché il termine, di generale radice semitica, con il senso di rule over, be lord, era diffuso in tutta l'area; dalla terra di Canaan all'Assiria (cfr. acc. Bêlu) quale nome di divinità. Per tutti questi motivi - il rigetto di Ba´al, nella Bibbia è ripetuto innumerevoli volte - è assai strano trovarlo nel nostro contesto e, forse, l'alterazione vocalica (a → u) potrebbe essere stata volontaria proprio per dissimularne, in qualche modo, l'identità. In ogni caso, il legame con la componente


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-ho-, apparentemente più "ortodossa", è evidente anche nel riferimento a Tiro; città dove il dio era chiamato Ba´al Melqart ovvero, letteralmente, Re della Città. 3. per le componenti -wa [] e -on [] • -wa [] : si rapporta ad Amon, l'Architetto del Tempio; la radice è la stessa di Amen (; infatti) che esprime <<en hébreu comme en arabe [∝↓∩], les idées de fermeté, de constance, de foi, de fidélité, de sincérité, de vérité, qui s'accordent fort bien avec le caractère attribué par la légende maçonnique au troisième Grand-Maître>> 41. Inoltre è immediato metterlo in relazione con l'omonimo dio egiziano che ha invece il senso pur esso non contraddittorio al contesto - di misterioso. Per tutto ciò, appare evidente come Wa debba riferirsi a quest'ultima tradizione dalla quale l'Ebraismo ricevette sicuramente notevoli apporti ed il collegamento risulta soddisfacente per Wsir che è il "nome reale" di Osiride. Nome, che ha una singolare e non spiegata assonanza con ο⋅σ∅α. Nel nostro caso Wsir sarebbe l'egiz. Ws - iri, πολυοφθαλµος ovvero onniveggente, che - quale attributo divino - risulta accettabile. Oltre a ciò ho anche trovato per la √ WSR il senso di potenza e per la √ WR 42 quello di grandezza ed essi pure ben si integrano al precedente attributo, sembrando semmai l'ultimo prevalere sugli altri per contenimento. In Plutarco,43 si trovano - a proposito di queste relazioni - alcune interessanti notizie: * <<…il est interdit aux dévots d'Osiris (puisqu'il est le même que Dionysos) détruire aucune arbre cultivé…>>,44 * <<C'est tout d'abord le caractère tauromorphe qui constitue la preuve de l'identité d'Osiris et de Dionysos..>>,45 * <<…Dionysos, qu'une opinion alors46 répandue pensait identique au dieu des Juifs>>.47 Tutte e tre queste affermazioni rimandano a Dioniso ma non mi sembra il caso d'approfondire ora questo aspetto; qui mi limito a quelle connessioni che esso comporta con l'argomento. C'è da dire intanto che, dalla terza di esse, ho conferma delle equivalenze esistenti: Dionisio ≡ Osiride = Wsir ≡ Wa delle quali, s'aveva, evidentemente ancora e in qualche modo, contezza sino all'epoca ellenistica. Poi - nelle altre - trovo una qualche giustificazione di tre momenti d'idolatria del popolo d'Israele: enigmatici i primi due, dovuto invece alla conquista straniera il più recente. * Noto è quanto avvenne ai piedi del Sinai 48 mentre Mosé sul monte incontrava YHWH, che già - nell'episodio del roveto ardente49 - gli si era manifestato come Essere (appunto, Ουσια):50 il popolo, nell'attesa, Lo (direi che il destinatario è lo stesso ma è il modo che non è più accettato) adora come idolo tauromorfo. * L'altro episodio è successivo e risale Re Roboamo (-931 / -913), che sull'esempio del Regno settentrionale permette che alberi e pali sacri divengano oggetti di culto, sino a che il Re Giosia (-640 / -609), nell'intento di purificare i costumi religiosi, fa togliere e distruggere vari oggetti introdotti nel Santo dei Santi e tra essi appare appunto un palo sacro (2Re, 23.6) mentre, sui monti intorno, ordina vengano abbattuti altari, boschetti ed alberi sacri. Anche qui, come nel caso precedente, sembra che manifestazioni di culto, un tempo del tutto regolari, siano poi percepite come idolatriche: all'epoca di Giosue (metà del XIII sec. a.C.) è detto esplicitamente <<…the oak which is in the sanctuary [i.e. Tabernaculum] of >>.51 Quella quercia, nella Settanta, diventa un τερεµινθοΗ 52 ma, in ogni caso, la ritroviamo - pur se in un ruolo di minor valenza - in numerosi altri riferimenti scritturali. 53 Però, la cosa più sorprendente è che the oak in ebr. è ALH [] ovverosia pressoché identico ad Al [], il quale è uno dei nomi ma era il Nome tout court presso i Cananei e che si trova, infine, alla base proprio di quell'enigmatico plurale ALôHYM [] precedentemente indagato. * Nell'ultimo fatto, l'elemento strano è che Dioniso è ancora protagonista: Antioco IV Epifane (-175 / -164), nel -167, in conformità a tutta la politica ellenizzante della dinastia dei Seleucidi, impose che il 25 Kislev, data del suo compleanno, il dio fosse festeggiato; però,


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questo ed altri più gravi episodi di carattere sacrilego non furono accettati dalla maggioranza della nazione e contribuirono, in seguito, ad innescare la rivolta dei Maccabei. • -on []: il riferimento è, anche in questa circostanza, da ricercare nello stesso ambito geografico; ma, a differenza di quello che possono pensare alcuni autori di studi massonici,54 non è qui, a mio parere, il caso, (ne mancano i presupposti linguistici) come per la componente -wa, di riportarsi all'<< Egyptian god Osiris>> ma, piuttosto, all'enigmatica fase "monoteistica" di quella tradizione, che trova i suoi inizi tra quei sacerdoti di Heliopolis, i quali fecero del simbolo solare On (or Aton; an ancient name for the physical sun, that was employed to designate him.) il centro del loro culto. Culto, che ebbe poi valenza totalizzante per l'intero paese nel - per tanti versi misterioso - regno del Faraone Akhenaton, al cui riguardo, sono note le supposizioni d'appartenenza al popolo ebraico. Questo suffisso ricompare curiosamente anche nei toponimi Gabaon [    , GaBON] e Aialon [, AYaLON] che sono relativi ai luoghi nei quali avvenne il famoso episodio (Gs. 10.12) della battaglia, durante la quale, Giosue, per conseguire la vittoria, chiese a Dio di fermare il sole. GaB, , ha il senso di convex, high; un colle insomma mentre AYL,  è, significativamente help: Aialon potrebbe dunque leggersi come <<l'aiuto del sole>>. Gabaon ha poi avuto un uso massonico ben preciso, essendo stata indicata, fino agli anni '80 del XIX secolo, nei rituali francesi, come <<la dénomination mystérieuse des Maîtres>> mentre in alcuni, attuali rituali inglesi, accompagna il segno di riconoscimento del secondo grado. Non può essere infine trascurato che, Aton avesse anche un nome dal netto sapore ebraico: Yati.55 Ma, ciò che più stupisce, è che nessuno, a mia conoscenza, abbia ancora messo in evidenza come un nome di Dio, quello di norma pronunciato, sia Adonai ovvero ADON, 0&$!, Signore, la cui eguaglianza con l'appellativo egizio appare immediatamente. È evidente come tutto quest'ordine di possibilità meriti d'essere particolarmente vagliato anche perché le tracce massoniche tendono a confermare l'ipotesi ebraico-eliopolitana; tale indagine porterebbe però oltre gli intenti del presente lavoro. Lo sviluppo di questa parte finale, relativa agli elementi costituenti la tradizione ebraica, è di notevole importanza, in specie per comprendere gli apporti, che hanno determinato il formarsi dell'assetto religioso delle culture egemoni nel ciclo di civiltà cui noi apparteniamo. A questa ricerca è dedicato il capitolo che segue; in esso, il Nome preso in considerazione è, per ragioni di semplicità espositiva, soltanto quello "storico" di YHWH anche perché, nell'altra più insolita versione, i collegamenti geografici delle tre componenti sono gli stessi ed è, principalmente, su questi che s'imposta l'intera indagine.

Sulle implicazioni della pronuncia tripartita del Nome del grande Architetto dell'Universo Nella conclusione del capitolo che precede è apparsa, in maniera in un certo modo imprevista, la composita costituzione del Tetragramma, rivelando, nell'ordine dei componenti, la successione degli apporti determinanti il formarsi della tradizione ebraica storicamente nota. Quindi YHWH - che abbiamo visto pronunciarsi Jehowa56 - rivela, per la testimonianza del Royal Arch, la trama tripartita Je-ho-wa, i cui riferimenti ho già messo sommariamente in evidenza. Questo risultato che, agli occhi timorosi di alcuni, può apparire quasi dissacrante, svela invece la complessità dei processi tradizionali e - nel contesto della scienza sacra - la loro profonda congruenza con quell'insieme di relazioni, le quali, nello svolgersi del ciclo di quest'umanità, hanno legato tra loro epoche e civiltà apparse spesso lontane ed inconciliabili. È in questa prospettiva che cercherò adesso di dare un quadro cronologico e storico 57 significante; tengo però a precisare - proprio perché partiti dalle motivazioni all'origine della


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tripartizione del Nome - la mia distanza dalla teoria degli imprestiti. Teoria, per la quale, questi apporti appaiono il risultato di una mera sovrapposizione ossia di un collage sincretico, conseguente ad una decadente e pressoché sempre anacronistica (viste le epoche prese in considerazione) inclination to an exotic style e perciò stesso priva di spessore quanto di una reale possibilità di fruizione spirituale. Sono, infatti, del parere che sempre, elementi della più diversa provenienza, quali possono apparire le adduzioni in questione, siano - come tutte le operazioni realmente determinanti e durature - l'esito di precise e consapevoli intese avvenute tra i rappresentati le forme tradizionali implicate. Tal genere di accordi, aventi lo scopo provvidenziale, sia di far transitare sotto altra forma un corpus dottrinale altrimenti in estinzione, sia di conservare proprio la specifica Gestalt di una qualche scienza o concezione, danno luogo ad esiti di diversa ma spesso ingannevole, successiva leggibilità. Ad esempio; un fenomeno, dalle apparenze prevalentemente rinascimentali, quale la cabala cristiana mi appare, a prima vista, di una trasparenza e possibilità di ricostruzione anche documentaria assai agevole: Ficino, Pico, Reuchlin vengono subito alla mente. Poi, se rifletto sulle origini cristiane che, nel primo, riservato ambiente giudeo-cristiano, avevano tutte le caratteristiche di un raggruppamento esoterico interno alla società ebraica (vd. infra p. 26) e, a riprova, tengo conto dell'evidente matrice cabalistica 58 di tanti passi evangelici, paolini e dei Padri, sino alle, proprio in questo lavoro constatate, influenze, presenti in ciò che sopravvive dei riti dei costruttori medievali, 59 divento consapevole di quanto le cose non siano, in effetti, così semplici come, a prima vista, c'appaiono. Altrettanto, ed a volte ancor più difficile, è individuare l'eredità classica o druidica sottesa al cristianesimo ed ancor differente ma parimenti oscuro è il percorso della filiazione ermetica. Fenomeno analogo - ma nel quale l'aspetto sommerso e spesso indecifrabile è del tutto prevalente, trovando rifugio al più modesto livello sociale - è quello del folklore, dove, dietro la veste vernacolare, possono celarsi nozioni appartenenti a scienze scomparse ma anche elementi di cosmologia e simboli di essenza puramente metafisica: in questo caso, è come se al popolo fosse stato affidato un lascito che - facendosi strumento protettivo di una trasmissione prevalentemente non cosciente del valore dei contenuti - abbia attraversato il tempo quale messaggio di naufraghi, lasciando a chi, dei posteri, fosse stato in grado d'intendere, l'onere e la ricompensa di ricevere qualcosa d'altrimenti perduto. Non è quindi, quella che segue, una deminutio sui dell'eredità abraminica bensì un tentativo di dimostrarne la complessità e l'importanza per la fase ciclica cui apparteniamo. Per attuare questa collocazione è necessario che io dia, pur se per sommi capi, alcune nozioni della dottrina dei cicli, la quale ha la sua massima espressione nell'Induismo e, ad esso, mi rapporterò con frequenza. Debbo inoltre fare presente che, il nostro modo di pensare, dopo la fenomenologia di Hegel, ci fa opporre storia a natura, poiché vediamo la prima inserita nel divenire della scienza e del sapere. Nel pensiero tradizionale invece, il concetto di φυσιλ è molto più ampio: comprende ogni aspetto del manifestato, annullando così la cesura tra i due flussi; con la conseguenza che, storia e geografia, si trovano ad essere rette dalle stesse leggi. È quanto, con un parziale recupero di alcuni antichi frammenti concettuali, cerca di fare la moderna ma proprio perciò discussa geopolitica. Limitandomi al Manvantara, che è il ciclo di una umanità,60 mi sembra importante sottolineare che esso è sottoposto a due principali scansioni: la prima, ne comporta la divisione in quattro parti diseguali - gli yugas - stanti tra loro nelle stesse proporzioni della già citata Τετρακτυλ e dove la durata d'ogni yuga va raccorciandosi mano a mano che si procede nel tempo. 61 L'altra invece, lo seziona in cinque parti eguali, ognuna corrispondente ad un semiperiodo della precessione degli equinozi 62 ed ognuna, relativa alla fase di reggenza di una delle cinque grandi razze componenti questa umanità. Poiché l'orologio cosmico, che ritma il ciclo non può essere - per la sua stagionale e celeste evidenza - che la suddetta precessione,63 un notevole ruolo nelle determinazioni qualitative del tempo, lo hanno pure le stazioni64 rappresentate dai dodici asterismi zodiacali attraverso le quali transita, alla velocità di un grado ogni settantadue anni, il punto vernale. La


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cesura tra un Grande Anno (Mahâyuga) ed il susseguente ha la caratteristica d'essere sempre segnata da un cataclisma provocato dallo scatenarsi di uno degli elementi tradizionali.65 Quello attuale è l'ultimo Grande Anno del Manvantara ed è appannaggio della razza bianca discesa da zone circumpolari, dove si trovava "in sonno", quale erede diretta della Tradizione Primordiale (razza hamsa: 1° Grande Anno) mentre, a minori latitudini, si succedevano civiltà che, pur sempre espressione della Religio Una, n'esprimevano, di volta in volta, le specifiche possibilità - in rituum varietate66 - quali sensibili apparenze della diversa natura delle razze e delle loro peculiari caratteristiche, estrinsecate nella dominanza di epoche e terre diverse. La discesa verso Sud della razza bianca non avvenne senza problemi ed i principali tra essi dipesero dall'incontro-scontro (circa -8.000)67 con i rappresentanti della razza rossa, stanziati, principalmente, nelle zone occidentali e costiere del continente europeo nonché in quella fascia di terre che va dal Magreb68 al Caucaso ed alla Mesopotamia. Altrettanto importante era la presenza umana esistente sull'altro lato dell'oceano; il motivo di questa distribuzione dipendeva dal risultare l'arcipelago atlantideo, metropoli e centro d'irradiazione di tale civiltà ma escludo ora dal discorso le culture americane perché lontane dagli eventi qui esaminati. Questi brevi cenni sono però sufficienti per capire come sia proprio a motivo della natura talassocratica dell'impero di Atlantide che, i popoli, nei quali quel tipo d'eredità prevale, abbiano il Diluvio nelle loro leggende fondatrici mentre, nelle stirpi di più diretta filiazione iperborea, facenti capo ad una cultura di agricoltori-allevatori, sia invece ricorrente il racconto di un brusco incrudimento del clima a motivo del quale, a seguito di gelo e tempeste di neve, fu intrapresa una penosa migrazione in cerca di terre più vivibili. 69 Entrambi gli eventi sono però epifenomeni di uno stesso immane cataclisma dalle conseguenze veramente planetarie. Tra i tanti argomenti, che possono sottolineare quell'antica rivalità, basti pensare a come, per i popoli indoeuropei, nei quali ha invece dominanza l'eredità iperborea e continentale, 70 solo la terra sia la iustissima tellus e quindi unico luogo del diritto (della Lex, del Ν:≅λ anche nel senso alto di Dharma dell'intera, presente umanità): sulle onde nessuna traccia permane, <<sulle onde tutto è onda>>. Il mare è libero perché non ha carattere (da χαρασσειν, incidere) come, in effetti, non lo ha il mondo contemporaneo dove, di nuovo, c'è l'universale e incontrastato dominio di un impero marittimo e ciò fino a quando non torneranno i <<Saturnia regna, … Hinc … cedet et ipse mari vector, nec nautica pinus mutabit merces,71 omnis feret omnia tellus.>>72 e coerentemente per l'Apocalisse73 non solo non ci sarà più navigazione ma sulla pura terra avvenire non ci sarà proprio più mare: <<η θαλασσα ουκ εστιν ετι>>. Del resto, altri racconti attribuiscono alla discesa ciclica uno spazio ognor crescente pel mare: solo 1/7 dell'intera superficie agli inizi, 1/4 nel periodo atlantideo mentre ai nostri giorni la proporzione si è addirittura invertita: 4 a 1. L'ultimo Grande Anno, che, in epoche tanto remote, stava per iniziare, era così segnato dagli esiti di questi due principali ed in un certo senso alternativi retaggi. Esiti, poi reperibili in tutte le civiltà successive, sia sul piano della loro organizzazione tradizionale, sia su quello della composizione etnica dei popoli vettori. Le differenze erano ma sono ancor oggi individuabili, in entrambi i livelli, dalla maggiore o minore presenza degli elementi entrati nella composizione. A complicare le cose, per la precisione, debbo aggiungere come la presenza di ciò ch'era sopravvissuto da forme cultuali appartenute ai periodi di dominanza delle razze, nera (meridionale: 3° Grande Anno) e gialla (orientale: 2° Grande Anno), avesse un ruolo residuale ma non indifferente al momento della formazione di alcune di queste culture. Senza poi troppo allontanarmi dal tema principale, mi sembra infine il caso di rispondere ad alcuni interrogativi che, per quanto mi risulta, non sono mai stati sufficientemente ascoltati da alcuno con questa disponibilità quando, al contrario, la risposta è decisiva per iniziare a ricomporre un puzzle altrimenti irrisolvibile. Innanzitutto, l'uso della terminologia <<razza bianca>> e <<razza rossa>> può generare equivoci, dovuti all'accezione contemporanea in cui la prima è intesa e, di conseguenza, al sorgere di qualche perplessità riguardo a farsi un'immagine della seconda. Le differenze tra loro possono oggi non sembrare eccessive ma dobbiamo tener conto del melting pot di cui ho qui tratteggiato soltanto gli inizi e che, da


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tempo, si sta ulteriormente complicando. Inoltre, mentre per la razza bianca l'isolamento ne aveva permesso l'omogeneità,74 per quella rossa l'elemento cosmopolita, collegato all'impero ed al dominio dei mari e di terre lontane, doveva aver già avuto inevitabili conseguenze. Oltre alle obiettive difficoltà scientifiche, esistenti nell'affrontare il tema razziale, un approccio il più possibile neutro è via inusitata non godendo, né delle simpatie della politically correctness, né di quelle del punto di vista avverso perché, per prima cosa, si deve affermare che i popoli d'origine europea - o meglio, ciò che comunemente viene, ai nostri giorni, designato quale razza bianca, creando così qualche confusione col valore originario di tale denominazione - sono, nel loro insieme, il frutto di mistioni assai complesse: in primis con la razza rossa, la quale, a sua volta, dagli antropologi non è nemmeno considerata quale razza a sé stante ma è ritenuta soltanto una semplice variante. In ogni modo, essa, all'epoca della giunzione, veicolava, per i motivi già detti, molte altre componenti. In definitiva, si può affermare come il prototipo del tipo razziale bianco e linguisticamente indoeuropeo sia rappresentato da quello che oggi è noto come tipo nordico; 75 nell'Induismo vedico, Indra è il dio biondo (hàri) mentre per la pelle, avendo presente come i nordici, nella percezione cromatica degli arabi, siano detti "uomini blu"76 - a ragione del trasparire del sangue - è rilevante l'attribuzione di questo colore a Vishnu ed a Krishna.77 Da quanto ho detto sinora, è evidente come l'eredità iperborea sia in prevalenza riscontrabile presso i popoli della famiglia linguistica indoeuropea ed in particolare - come già affermato 78 presso gli Indù. Avendo ben presenti i tipi umani dominanti nel sub-continente, è anche palese di come, al contrario, l'elemento etnico non sempre segua gli stessi rapporti d'incidenza percentuale di quello culturale. L'eredità tradizionale atlantidea è invece più presente presso i popoli di stirpe semitica; tra gli Ebrei in particolare nonché, in parte, tra i Camiti mentre, da un punto di vista genetico, la partecipazione della razza rossa è rilevante in quella che, oggi, s'intende per razza bianca, ebrei compresi.79 A tutto questo, si deve aggiungere che, esclusi gli indù (in tutte le loro varianti confessionali e pochi buddisti), nel nostro tempo, tutti gli indoeuropei stiano praticando religioni d'origine semitica.80 Per cercare di visualizzare in qualche modo quest'evanescente razza rossa, ritengo essere la giusta strada quella di procedere alla collazione delle testimonianze che la riguardano e, nel contempo, sempre avendo presente che lo scopo è quello di riportarci alle diverse confluenze tradizionali presenti nell'Ebraismo, giudico, altresì indispensabile, verificare gli eventuali segni del suo riconnettersi a quel preciso filum etnico. Incominciando da questi ultimi, sono del parere che, il primo indizio sia lo stesso nome di Adamo. Intanto, bisogna sottolineare come appartenga ad un processo del tutto normale dei testi tradizionali, il far sì che un elemento particolare possa essere preso a prototipo di un insieme più ampio e viceversa. Per tale motivo, Adamo, il quale nel Genesi rappresenta il primo uomo di quest'umanità, appare poi, da alcune peculiarità linguistiche appartenere invece ad un ciclo secondario ed assai più recente. Infatti, il suo ruolo di primo referente della filiazione semitica (lato sensu), dalla quale è poi sorto l'Ebraismo, risulta proprio dall'etimo: AâDâM [], man, mankind ∏ √ DM [ e →υ], blood, da cui ADêM, be red, ADuMYM, ruddy, red of a man oppure ebr. ed ar. ADM, tawny ovvero il fulvo dei capelli mentre significativo, quale accenno all'epidermide, è l'ar. ADaMaTh [≈↓υ∩], skin, che in ebr. ha la più prossima assonanza con ADaMaH, ground, land81 riproducendo così lo stesso rapporto esistente in lat. tra homo e humus con, in più, una significativa coincidenza che <<…si l'on rapporte plus spécialement ce même nom d'Adam à la tradition de la race rouge, celle-ci est en correspondance avec la terre parmi les éléments, comme avec l'Occident parmi les points cardinaux…>>82 L'Occidente è la terra di Atlantide, la terra in cui la Tula - già iperborea (cfr.supra, n. 25) venne ad identificarsi con l'isola di Ogigia posta nell'Atlantico settentrionale ovvero nelle attuali Færöer di cui resta una traccia toponomastica nel Mt. Høgoyggi dell'isola di Stòra Dìmun.83 Ma, per l'area semitica, all'Occidente ci riconducono altri precisi riferimenti: come abbiamo visto84 l'iterativa formula del Genesi <<…and God saw that it was good>> ovvero


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] è sempre seguita dall'altra <<…and evening came and then morning>> ovvero OYHY ‘ReB OYHY BoQeR [       ],85 nella quale è evidente la precedenza data alla sera quando - sole occidente - l'astro del giorno va verso quella terra liminare che è appunto das Abendland . Infatti, alla √ ‘RB [  ] è connesso il senso di qualcosa <<…qui est placé derrière ou au-delà, ce qui est éloigné, caché, dissimulé, privé du jour; ce qui passe, ce qui termine, ce qui est occidental, etc. les Hébreux, dont le dialecte est évidemment antérieur à celui des Arabes, en ont dérivé ‘BRY, (   , ebreo] et les Arabes ‘aRaB []ζ , arabo) par une transposition de lettres qui leur est très-ordinaire dans ce cas. Mais soit qu'on prononce ‘BRY, soit qu'on prononce ‘aRaB, l'un ou l'outre mot exprime toujours que le peuple qui le porte se trouve placé ou-delà, ou à l'extrémité, ou aux confins, ou au bord occidental d'une contrée>>.86 Oltre a questi due segni dell'appartenenza del filum ebraico alla scomparsa civiltà occidentale, un altro è individuabile nel già citato ruolo biblico del Diluvio 87 quale fondamentale turningpoint of history, inoltre c'è una poco nota descrizione 88 dell'aspetto fisico del suo protagonista - che in qualche modo a quel mondo apparteneva - tale da fornirci ulteriori ragguagli sulle caratteristiche della razza in argomento: <<Dopo del tempo, mio figlio [è Enoc che parla] Matusalemme prese una moglie per suo figlio Lamek e costei rimase incinta da lui e generò un figlio. Ed era la sua carne, bianca come neve e rossa come rosa e i capelli del suo capo e la sua chioma erano come bianca lana e belli erano i suoi occhi e, quando li apriva, illuminava tutta la casa come il sole, e tutta la casa risplendeva assai. E quando suo padre, Lamek, ebbe paura di lui, fuggì. E venne da suo padre Matusalemme>>. Viene ora da domandarsi il perché di tanto timore per l'aspetto di quel neonato cui sarebbe poi stato dato il nome di Noè; il motivo lo indica espressamente Lamek nella descrizione che, del figlio, fa a suo padre: <<…mi sembra che egli non sia nato da me ma dagli angeli ed io temo che, ai suoi giorni avverrà un prodigio sulla terra...>>. 89 La spiegazione di questo apparentemente ingiustificato pericolo rappresentato dagli angeli la dà il bisavolo Enoc, presso il quale, Matusalemme è andato a chiedere consiglio: <<Il Signore restaurerà la Sua Legge sulla terra ed io ho già visto ciò nella visione e ti ho fatto noto che nella generazione di Yared, mio padre, si è negletta, dall'alto dei cieli, la parola del Signore. Eccoli [e.s. gli angeli], fanno peccato e trasgrediscono la Legge e si sono uniti con le donne e commettono peccato con loro e tra loro hanno preso mogli, generando figli. Genereranno sulla terra i giganti, non di spirito ma di carne e sarà gran flagello su tutta la terra ma essa si laverà da tutta la corruzione.>>90 È lo stesso episodio che, nella versione biblica, viene espresso con contenuti sostanzialmente identici: <<Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro figlie, i figli di Dio [qui, nell'originale, Dio è Elohim e la frase è bene ha'Elohim] videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero. Allora Dio [qui invece è YHWH] disse: "il mio spirito non resterà sempre saldo nell'uomo, perché egli è carne e la sua 92 vita sarà di centoventi anni."91 C'erano sulla terra i giganti [Nephilim, NeFLYM,    ] a quei tempi - ed anche dopo - quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini ed ebbero da loro dei figli: questi furono gli eroi dell'antichità, uomini famosi.>>93 Chi sono dunque questi enigmatici bene ha'Elohim? A mio parere qui entrano in gioco due diversi piani ontologici, entrambi significativi per questa ricerca: dai brani riportati, certe volte, gli angeli che fanno peccato e che hanno figli carnali sembrano coincidere con i bene ha'Elohim, così determinando incertezza e perplessità. È necessario quindi precisare che, al livello più alto, si trovano gli Elohim ovvero entità definibili quali  i quali secondo quanto afferma il Deuteronomio,94 nella sua versione ultima, stabilita dalla scoperta a Qumrân di un frammento del 1°sec.A.C., versione già presente nella Settanta (…ed ora pertanto documentalmente convalidatasono coloro che quando l'Altissimo spartì le nazioni, quando divise i figli degli uomini, Egli fissò le frontiere dei popoli secondo il numero dei Figli di Dio>>. Gli altri invece sono i fedeli, i seguaci di questi ed anche i loro figli: i Nephilim.95 KY TÔB

[   


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In questo πανθειον , uno degli Elohim è (se ricordiamo la tripartizione del Tetragramma) -Je [], Colui che sceglie Israele e diventa il suo Dio. 96 In altri termini, passando ad un modo d'esprimersi più diretto: è il monoteismo (qui sarebbe più appropriato l'uso del termine vedantico di "non-dualità") della Tradizione Primordiale, della Religio Perennis,97 che si perpetua, a dispetto di tutte le avvenute deviazioni ma rivestito di forme legittime ancorché proprie alla civiltà condannata, in quella comunità rappresentata da Noè 98 e dall'εκκλησια dell'Arca. Del resto, tra i tre figli del Patriarca della Prima Alleanza 99 - ognuno in singolare e non casuale coincidenza con la tripartizione100 - non è a Giafet (eponimo dei Giapeti ossia di quegli Indoeuropei che, discesi dalle ancestrali sedi boreali, rivivificavano ed in parte sostituivano la decaduta tradizione atlantidea) che spetta un'espansione mondiale ed il dover poi, sul finire del ciclo, in epoche a noi molto più prossime, abitare le tende di Sem ovverosia far propria l'abitazione, l'habitus, rivestire cioè le forme della tradizione semitica?101 Il Libro di Enoc ci fornisce, riguardo alla localizzazione di questi avvenimenti, un'ulteriore importante informazione: il Cap.LXXI contiene un complicatissimo excursus calendariale, nel quale sembra essersi riuscito ad orientare molto bene il primo traduttore inglese del testo etiopico: Richard Laurence;102 i risultati sono davvero significativi, in quanto stanno ad indicarci che gli avvenimenti narrati, si svolgono in una contrada dove il giorno più lungo dell'anno è pari al doppio del giorno più corto. Poiché sappiamo - ci è noto dai Vêda - che la sede della Tradizione Primordiale era <<la terre où le soleil faisait le tour de l'horizon sans se coucher…>> e <<…il est dit aussi que, plus tard, les représentants de la tradition se transportèrent en une région où le jour le plus long était double du jour le plus court …>>, 103 siamo ora in grado di fissarne la latitudine intorno ai 49° ovvero la collocazione che, in Europa, è quella di Parigi. La région in questione è naturalmente l'Atlantide e la posizione geografica che abbiamo ottenuto è del tutto compatibile con il possibile assetto della massa principale del continente (arcipelago) scomparso. Giunto a questo punto, non mi è possibile approfondire il tema della natura del peccato commesso e dei suoi sviluppi sino ai giorni nostri ma il fatto stesso che ne siano risultati i "caduti" lo qualifica - in analogia con quello perpetrato illo tempore et in Cælo - come "luciferino" (in altri termini, il rifiuto di un ruolo assegnato). Il fatto che a compierlo possano essere stati gli "angeli" lo definisce quale deviazione all'interno di una società di uomini, il cui scopo originario era la santificazione ovvero di un gruppo inteso ad una qualche forma di realizzazione spirituale. Il fatto infine che tale perversione sia potuta avvenire esclude, per esprimere la cosa nei termini della tradizione classica, che possa essersi trattato di un'organizzazione appartenente al novero dei magna mysteria. Non resta quindi che pensare ad un ambiente di Kshatryias o "cavalleresco" che dir si voglia come, infatti, sia l'espressione <<… eroi dell'antichità, uomini famosi.>>, sia il brano <<Giacciono con i guerrieri, i Nephilim dell'antichità, che scesero allo Sheol con le loro armi da guerra>>;104 entrambi, pienamente, confermano. In sostanza, essa fu la ribellione di un potere temporale verso le legittime prerogative del potere spirituale. È quindi, da questo elemento "militare" che, tutto il susseguente Grande Anno viene marcato, non soltanto per l'aspetto negativo è bene sottolineare 105 ma, comunque, coinvolgendo ogni momento della successiva storia della "razza bianca" o, con maggior precisione, europea. In ogni modo, secondo una logica causale di matrice teologica, fu questa stessa specifica "insurrezione" a provocare il Diluvio106 mentre, da un punto di vista cosmologico, si può dire che il processo debba essere considerato come sincronico. In altri termini, il collegarsi in successione dei due eventi, era, in quella precisa fase ciclica, diretta espressione della qualità dei tempi. In seguito, come ho già precedentemente accennato, a proposito della discesa verso Sud della razza bianca, il 6° Avatâra di Vishnu cioè Parashu-Râma107 pose fine a quel potere usurpato, sconfiggendo demoni, Titani,108 Giganti o Nephilim che dir si voglia. Dovrebbe ora risultare chiaro perché, quando degli indoeuropei cominciamo ad avere notizie storicamente più precise, le due razze, sulla fascia più occidentale dell'Eurasia, appaiano inscindibilmente fuse anche se l'apporto iperboreo abbia, di fatto, maggior incidenza per


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quello che riguarda miti e costumi. Sul piano di questi ultimi, direi che una certa prevalenza dell'elemento nautico, predatorio, mercantilistico ed in molti casi nettamente piratesco è un segno evidente dell'importanza assunta dall'influenza definibile occidentale. Anche l'astuzia è, in Ulisse, un indice d'alterità rispetto all'ingenuità nativa109 della razza. Ed egualmente, per quest'aspetto divergenti, sono - quali navigatori - gli Achei 110 e, con loro, i "popoli del mare"; così i più tardi Vichinghi e tra essi i Variaghi. 111 Questi ultimi, imponendosi ai continentali Slavi e fondando a Kiev un loro principato, sono dai vinti definiti i "rossi" (anche i finni li chiamano Ruotsi), da cui il nome di Rus dato al paese. Quest'aspetto ha poi, nettamente, caratterizzato l'espansione mondiale degli anglosassoni benché figli della pur <<pallida Albione>>. Ma, ciò nonostante, l'elemento boreale resta prevalente: <<L'homologie entre le type physique e le statut social est explicite dans le Chant de Rig de l'Edda: Jarl le noble est "blond pâle", Karl le paysan libre est "roux, aux joues roses", Træll le serviteur est "noir de peau".>>112 Per la seconda componente della tripartizione del Tetragramma -Ho [] - il rinvio è ad una fase assai più tarda del ciclo: Abramo esce infatti da Ur all'inizio del II millennio A.C. Ur, ci è nota come una città dei Caldei, il che può apparire un anacronismo in quanto quel popolo compare come tale soltanto intorno all'XI sec. A.C., in effetti, il radicamento in quell'area della base linguistica semitica è realmente antico ed <<essa pone come sistema o quadro di riferimento l'idioma che ha la più antica e più ampia documentazione scritta , l'accadico [o assiro; ho qui usato l'uno o l'altro nome a seconda di quello che ho trovato nella fonte citata]….con tracce di sostrato sumero ed i cui documenti più remoti risalgono alla metà del III millennio A.C.>>. 113 Quindi, se per Caldea non ci si deve limitare ad intendere la patria di un popolo è, in alternativa, logico pensare che se <<…le nom …. désignait en réalité non pas un peuple particulier, mais bien une caste sacerdotale>> e se <<la Celtide et … la Chaldée, dont le nom…est le même>>,114 in un senso profondo s'identificano, perché non vedere qui uno dei risultati dell'incontro tra la corrente settentrionale e quella occidentale? Certo che, per determinare in tutta sicurezza il momento della giunzione, <<…il faudrait tout d'abord savoir à quelle époque précise remonte le Druidisme, et il est probable qu'il remonte beaucoup plus haut qu'on ne le croit d'ordinaire, 115 d'autant plus que les Druides étaient les possesseurs d'une tradition dont une part notable était incontestablement de provenance hyperboréenne.>>116 A mio parere, la collocazione temporale ma anche spaziale è quella che ho già dato a proposito dell'incontro-scontro precedentemente citato 117 e, per il quale, posso aggiungere che il mitico posarsi dell'arca sul Mt. Ararat indica nella parte orientale e meridionale di quell'ambito geografico, il settore che più interessa la genesi dell'Ebraismo. In effetti, il Caucaso, per l'incredibile giustapporsi dei popoli più diversi, sembra rappresentare come un résumé delle razze aventi parte all'ultima fase del Manvantara e lì, come nella parte occidentale ed atlantica dell'area in questione, si ritrovano gli stessi segni linguistici; ad esempio il nome Iberia designa, sia la penisola europea (ma anche la grande isola atlantica: l'Irlanda è, in lat., l'Hibernia), sia, nella lingua nativa, la Georgia (variante: Imeria). Infine, le lingue prettamente caucasiche ed il basco trovano, nel reciproco confronto, le uniche possibili affinità nell'intero contesto mondiale. Del resto, anche sul piano antropologico, esiste tra Celti ed Ebrei una comune tendenza al rutilismo ed i rossi sono stati (spesso ancor oggi) per vari aspetti ed in molte circostanze, stranamente, associati nei luoghi comuni del pregiudizio antisemita: << le rouge de cheveux trahit, un peu partout en Europe, la fécondation pendant les règles, d'ou découle par ailleurs un ensemble de traits qui font du rouquin un être trouble, à l'odeur forte, à l'haleine trop chaude.>>.118 A tutto ciò, si può confrontare l'antica diceria del fetor judaicus nonché <<…le désordre des humeurs, et singulièrement du sang …. [les] "écoulements" des juifs et des cagots, eux aussi affligée de ces étranges "flux", …>>. 119 Evidentemente si tratta di un qualcosa di ancestrale che è rimasto indelebile nel folklore se <<toutes les "races maudites" dont nos avons cerné l'image présentent ce trait>>.120 <<"Poil de Judas" en France, suffit


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pour désigner un roux. En Allemagne, on le traite tout simplement de "Judas" ou bien d' "âme de Judas"…..un peu partout en Europe les éphélides sont appelées "marques de Judas>>. 121 Vizi d'origine e impurità che determinano un calore malsano e libidinoso nonché un carattere difficile, violento ed infido; anche per il Ruodlied (XI sec.):122 <<non sit tibi rufus unquam specialis amicus>>. Tratti questi, che non mi sembrano lontani dall'immagine, quale, sulla base di ciò che c'è stato narrato, possiamo attribuire ai Nephilim. Con loro, l'Ebraismo, che non di meno li condanna, avrebbe avuto in comune soltanto la civiltà d'origine, non certo la colpa essendo Noè un puro, un hanîf inteso nell'accezione già esposta: cfr. supra, n. 96. È noto <<…le rapport légendaire établi entre Nimrod et les Nephilim ou autres "géants" antédiluviens, qui figurent aussi les Kshatriyas dans des périodes antérieures…>> 123 ma, oltre a queste significative relazioni, c'è da fare un'altra considerazione; in ebr. Nimrod è NiMRoD [    ] ed in arab. è NiMR [ζ°≥], in entrambe le lingue il vocabolo sta ad indicare un animale with a spotted coat ma anche keen-eyed, in ass. Namâru ha il senso di shine, gleam.124 Come non pensare a les éphélides od anche alla descrizione dell'infante Noè <<belli erano i suoi occhi e, quando li apriva, illuminava tutta la casa come il sole>>. 125 Però, dietro quelle macchie c'è ancora dell'altro: l'animal tacheté può essere la tigre che <<… comme l'ours dans la tradition nordique [est] un symbole du Kshatriya et la fondation de Ninive et de l'empire assyrien par Nimrod semble être effectivement le fait d'une révolte des Kshatriyas contre l'autorité de la caste sacerdotale chaldéenne>>. Riassumendo, credo quindi possa affermarsi che, la Caldea (da intendersi assai più ampia che quella storica) sia stata teatro del momento orientale di quella giunzione più volte citata, dando luogo a tradizioni dove la componente "occidentale" risultava prevalente mentre la parte atlantica e centrale dell'Europa ha avuto nel Druidismo un esito, dove, l'elemento "settentrionale" giocava sicuramente il ruolo preponderante. Le tracce mediorientali di quella giunzione - pur se non rilevate e fraintese - sono molto evidenti anche da un punto di vista linguistico; basti pensare ai Sumeri il cui nome è del tutto confrontabile con il skr. sumera, nome composto da sú-, corresponding in sense to Gk. ,υ e da -meru, name of a fabulous mountain, regarded as the Olympus of Hindû mythology and said to form the central point of Jambu-dvîpa [i.e. questo nostro mondo terrestre; in realtà tutti e sette i dvîpas convergono nel "vertice" del Meru]; all the planets revolve round it …: 126 è, in effetti, la montagna polare, per la quale passa l'asse terrestre ed è espressamente indicata dall'Induismo come la sede della Tradizione Primordiale. È perciò significativo che Sumera,127 risulti il nome dell'Artico, con ciò testimoniando di cosa fu sede quella regione; potremmo infatti anche tradurre e con maggior precisione, "beata sede iperborea" . Un tal nome applicato ad un popolo - nel contesto generale che ho delineato - fa riflettere. L' ebr. ShMR [ ], keep, watch, preserve, e l'ar. SaMaRa, [ζ° ], stay awake, trasmettono un'idea di vigilanza, di conservazione e - di fatto - con ShMR, si designa la Samaria stante, in quel particolare ambito, il ruolo storico di assoluto conservatorismo religioso dei Samaritani nei riguardi del rimanente Ebraismo. Il più ampio significato sotteso è da intendere nella custodia di un legato tradizionale. C'è poi un altro nome di paese, la Siria o Assiria (o Accadia), che presenta due interessanti connessioni:  Per essere stata la patria di quel tardo epigono dei Nephilim, quale fu Nimrod, l'ebraica √ SUR [  ], dal significato di base turn aside sviluppa, ovviamente, quelli, nella fattispecie del tutto appropriati, di rebellion e apostasy. 128  Con l'arabo invece torniamo alla relazione con la tradizione iperborea: per un <<… enseignement traditionnel de l'Islam …la langue "adamique" était la "langue syriaque", loghah sûryâniyah [≠ℵ≥∴↵ζ ∂∴ ↔ [ ], qui n'a d'ailleurs rien à voir avec le pays désigné actuellement sous le nom de Syrie, non plus qu'avec aucune des langues plus ou moins anciennes dont les hommes ont conservé les souvenir jusqu'à nos jours.>> 129 Pel concetto tradizionale di monogenesi del linguaggio, si tratta ovviamente della lingua


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originaria, propria agli uomini della razza hamsa, i quali vivevano in the Arctic home. Mi sembra, adesso, importante sottolineare come, mentre nei paesi meridionali il sole, non dico che sia un nemico ma, per il calore, determina un atteggiamento di fuga dai suoi raggi, nell'estremo Nord è atteso e desiderato così da scaturirne, nell'indigenza, un richiamo assoluto. Ed il nome in skr. del sole è proprio Sûryâ <<et ceci semblerait indiquer que sa racine SUR,130 une de celle qui désignait la lumière, appartenait elle-même à cette langue originelle.>>.131 È questa, quella Siria primitiva <<dont Homère parle comme d'une île située "au-delà d'Ogygie", ce qui l'identifie à la Tula hyperboréenne, et "ou sont les révolutions du Soleil>>.132 La Siria storica giunge pertanto ad avere lo stesso, trasposto significato attribuito ai Sumeri, i quali quindi ce ne appaiono, davvero, i legittimi abitanti. Tutto quanto ho già esaminato, ci ha, più volte, mostrato ciò che può trarsi da un'attenta collazione del lessico accadico (ovvero dalla lingua semitica, che per geografia e tempi è relativamente più prossima alla giunzione in argomento) e di quello indoeuropeo. Alcuni dei raffronti riportati mostrano, infatti, le notevoli convergenze con questa lingua ma del pari importanti sono anche quelle che appaiono esistere tra i due ambiti linguistici, indoeuropeo e semitico, considerati nel loro insieme. I motivi, all'origine del fenomeno, risiedono, per gli apporti che c'interessano maggiormente, nei contatti predetti mentre, per altri casi, non è da escludere la necessità di rapportarsi anche al substrato più arcaico, collegato alla stessa monogenesi del linguaggio. Non deve essere infine dimenticato come, in seguito - last but not least - quando ci fu il grande insediamento indoeuropeo nel Mediterraneo (2° millennio A.C.), quell'area diventasse un tale punto d'incontro che, le tante somiglianze linguistiche, oggi riscontrabili, siano da attribuire piuttosto alla stratificazione di tale complesso succedersi di eventi invece che - con atteggiamento notevolmente riduttivo e singolarmente one minded ascriverle al discendere tout court di una delle due grandi famiglie dall'altra, negandone le rispettive, specifiche identità.133 Resta adesso da esaminare la terza ed ultima parte del Nome -Wa [], che, per i suoi riferimenti egizi, è - rispetto alle altre - in sequenza cronologica con la storia ebraica e con il succedersi delle civiltà nell'area mesopotamico-mediterranea. Per quest'ultimo aspetto, è dunque importante collocare la civiltà egizia nell'ambito temporale, che le compete. Lo scopo, è di pervenire a delineare un quadro, il più possibilmente chiaro, dell'intreccio d'influenze che hanno poi condotto alla definizione dell'Ebraismo. Agli inizi di questo percorso, è apparso il rilievo del ruolo del profeta Enoc; giunti ora a questa fase è bene ricordare che <<…on sait qu'Henoch ou Idris [il suo nome nell'Islam] antédiluvien lui aussi, s'identifie à Hérmes ou Toth, qui représente la source de laquelle le sacerdoce égyptien tenait ses connaissances… >>.1344 E Toth era, dai Greci, fatto corrispondere ad Hermes con la conseguenza - e adesso lo vedremo meglio - di un'origine egizia di tutte le correnti, le quali, appunto sotto il titolo di ermetiche, hanno in seguito percorso l'Europa cristiana, influenzando in modo particolare, come ho in precedenza accennato, le scienze e le arti tradizionali. Nonostante, infatti, le equivalenze succitate anche il nome di Hermes ha una sua rispondenza a sé stante in arabo: hermes [ ↓ ζ• ]. Essa non è, probabilmente, che solo un parziale ricalco sul greco, in quanto già Ερµηλ doveva essere estraneo a quest'ultimo sin dall'inizio perché pervenuto <<[on] suppose [par] une origine égéenne>>.135 Come poteva, infatti, un dio con quelle caratteristiche risultare ingenuus alla stirpe? Non per niente era anche figlio illegittimo di Zeus e di Maia, figlia, naturalmente, d'Atlante.136 Se poi prendo gli elementi consonantici di base: HRM, vedo che, significativamente, coincidono con la radice di haram [→ζ•], piramide; radice cui, a sua volta, è connesso il senso di grande vecchiaia, remota antichità. L'attributo datogli dai greci di Τρισµεγιστολ è riprodotto con lo stesso significato e più esplicitamente (triplo per la saggezza) dall'ar. al-muthallath bil-hikam [±♦ο←⊥ η←γ°↔[] ed ha, in questa lingua, la particolarità che al-muthallath sta a designare anche il triangolo e triangolari sono le facce


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della piramide, <<…qui a dû être déterminée aussi "par la sagesse" de ceux qui en établirent les plans…>>.137 In egizio, il nome del monumento era mr, nel quale ritroviamo gli stessi componenti radicali di Meru ossia della montagna polare degli Indù e sede della Tradizione Primordiale e del resto il triangolo di per sé, come il πυραµιδιον che, in Loggia, costituisce la parte sommitale di the broached thurnel, hanno entrambi la stessa possibilità di richiamo simbolico senza che vengano escluse le altre citate in precedenza. 138 Non stupisca questo riferimento al Meru perché, prima della "confusione delle lingue",139 la percezione dell'equivalenza di fondo e della comune origine di tutte le tradizioni era patrimonio universale ed ancor oggi, in ambito islamico, il termine lingua può essere usato, parlando di un popolo, come sinonimo per indicarne la religione. Rimanendo nel mondo islamico vediamo che <<cette "triplicité" a d'ailleurs encore une autre signification, car elle se trouve parfois développée sous la forme de trois Hermès distincts: le premier, appelé "Hermès des Hermès" (Hermes El-Harâmesah) et considéré comme antédiluvien, est celui qui s'identifie proprement à Seydna Idris; les deux autres, qui seraient postdiluviens, sont l'"Hermès Babylonien" (El-Bâbelî) et l'"Hermès Égyptien (ElMiçrî); ceci paraît indiquer que les deux traditions chaldéenne et égyptienne auraient été dérivées directement d'une seule et même source principale, laquelle, étant donné le caractère antédiluvien qui lui est reconnu, ne peut guère être autre que la tradition atlantéenne>>.140 Per completare i nostri parametri, resta da dire che <<…si la source principale est ainsi la même, la différence de ce formes fut probablement déterminée surtout par la rencontre avec d'autre courants, l'un venant du Sud pour l'Égypte, et l'outre du Nord pour la Chaldée>>. 141 Mentre la cosa, per la Caldea, c'era nota, con l'Egitto compare adesso il legato della Razza Nera (3°Grande Anno); nonostante ciò è però necessario sottolineare che <<…la tradition hébraïque est essentiellement "abrahamique" donc d'origine chaldéenne>>.142 Qui giunti, c'imbattiamo in un ulteriore diversificarsi della prospettiva: infatti, la soluzione che per prima sarebbe venuta allo spirito ed anche quella in apparenza più semplice, sarebbe stata di considerare l'ultima parte della tripartizione nient'altro che l'introduzione di una componente egizia nell'insieme dell'Ebraismo. Invece, <<…la "réadaptation" opérée par Moïse a sans doute pu, par suite des circonstances de lieu, s'aider accessoirement d'éléments égyptiens, surtout en ce qui concerne certaines sciences traditionnelles plu ou moins secondaires; mais elle ne saurait en aucune façon avoir eu pour effet de faire sortir cette tradition de sa lignée propre, pour la transporter dans une autre lignée, étrangère au peuple auquel elle était expressément destinée et dans la langue duquel elle devait être formulé.>> 143 Di fatto, nel percorso sinora compiuto, abbiamo veduto come Noè, ancorché hanîf, fosse un rappresentante del mondo atlantideo e come poi, dal melting pot della giunzione,siano emersi sia il Celtismo, dove l'influenza nordica era prevalente, sia il Caldaismo, dove, invece, quella occidentale aveva maggior ruolo. Giunto in Egitto, il popolo ebraico, fedele al suo genio, può aver trovato συµπαθεια soltanto con gli aspetti della tradizione del paese più affini a sé ed alle sue origini e se le cose stanno così, debbo concludere che nemmeno in questo caso siamo in presenza di un prestito, di un collage sincretico ma che Wa →← Wsir è un fenomeno di convergenza provocato da un substrato comune ad entrambe le tradizioni e l'aggiunta è pertanto avvenuta nel pieno rispetto del portato caldaico. Questa fedeltà alle proprie radici, traspare allora anche nel senso che ho attribuito alla terza parte del già esaminato Jahbulon (Jah-bul-on); nel qual caso, addirittura, ci sarebbe un'operazione inversa: -on, pur parola egizia (On, Aton), testimonierebbe un momento storico nel quale, il popolo ebraico avrebbe imposto la propria visione monoteista al paese ospite. Sembra logico attribuire l'appartenenza di questo substrato alla discendenza atlantidea d'entrambe le tradizioni ma ciò è vero solo in parte e, soprattutto, le evidenti differenze tra le due investono anche questa condivisa eredità per ciò che riguarda, in particolare, le estrinsecazioni di carattere cultuale. Ma soffermiamoci sul perché si trovi qualcosa non completamente pertinente al comune substrato: qual è dunque la novità? A mio parere essa sta in quella corrente multiforme,


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pressoché universalmente presente e non altrimenti definibile se non "dionisiaca". Essa corrisponde all'affiorare, nel corpo sociale144 dell'ultimo Grande Anno del Manvantara, di impulsi ognora crescenti e dall'immenso potere disaggregante e, perciò stesso, in necessità di un contenimento rituale, rappresentato, e da un preciso quadro teologico/mitico, e da riti intesi alla trasformazione/ sublimazione delle grandi forze presenti, nonché, da periodici episodi di "libertà" vissuti, in Europa, sino al nostro Medio Evo, nelle ben note feste carnascialesche. Anzi, a sottolinearne l'importanza, si deve mettere in evidenza come la fine di queste coincida con la nascita del mondo moderno, nel quale tali spinte dal basso non più respinte o incanalate ma, disordinatamente accolte e ricercate, contribuiscono a rafforzarne ogni aspetto innovativo grazie all'enorme potenziale inerente la loro magmatica energia.145 La razza bianca, nelle sue sedi circumpolari, contrassegnata da un temperamento flemmatico146 e depositaria di dottrine e di culti, i quali erano - come abbiamo già visto quanto di più prossimo ci fosse alla Tradizione Primordiale, doveva godere di una situazione sociale e psicologica definibile olimpica. Quest'equilibrio, senza dubbio, iniziò ad alterarsi già al momento della discesa ma ancor più, quando, poi, s'ebbero gli scontri-incontri con altre genti anche se poi, in qualche modo, rimase tra gli ideali dei popoli che da quella stirpe derivarono.147 Per fare un esempio tra i molti possibili: l'imperturbabilità è, anche oggi, sentita, al fondo, come un atteggiamento superiore essendo connaturata alla padronanza di sé e, di conseguenza, all'attitudine al comando mentre l'emotività e le sue pulsioni, spesso paradossalmente cercate, suggerite ed addirittura lodate come indice di genuina umanità, sono percepite, pur se non sempre lo si confessi, quali segni di una caduta di tono. Di un vulnus nel carattere insomma. Cosicché, quando in un popolo tale sentimentalità domina e lo contraddistingue, siamo certamente in presenza di un sintomo di decadenza e stanchezza civile. Stante quest'attitudine di base, si può comprendere come, in tempi lontanissimi, il rapporto con il soprasensibile, si realizzasse unicamente per mezzo della volontà e della capacità di concentrazione nonché attraverso l'uso di precisi mezzi rituali. 148 Soltanto in seguito, sorse la necessità d'altri strumenti, che, in qualche modo, aiutassero l'uomo a superare l'ormai sempre più spessa barriera per lui rappresentata da ciò che la Bibbia chiama la "tunica di pelle" ovverosia il corpo carnale in cui è "caduto" dopo la "cacciata" dalla sede originaria. 149 Per questa decadenza, che il Mazdeismo definisce un passaggio dallo stato mênôk (sottile) allo stato gêtik (grossolano), <<…n'est-il plus possible aujourd'hui aux humains, comme il le fut à l'origine, de passer d'un keshwar150 à l'autre.>>,151 non è infatti più possibile cavalcare << … [l']animal mythique maintenant conservé en un lieu secret jusqu'au Frashkart [la παλινγενεσις ] où il doit être sacrifié et son corps servir à la composition du breuvage d'immortalité>>.152 Era con quest'immagine equestre che veniva indicata tale perduta possibilità degli uomini primordiali di liberamente accedere a tutti i recessi delle "terre" da allora nascoste e la cui presenza poté ormai rendersi visibile ed il cui spazio essere percorso esclusivamente attraverso virtù eroiche o godendo di specialissime situazioni non certo ottenibili soltanto ex voluntate.153 Nelle epoche, che immediatamente precedettero la fine rovinosa del penultimo Grande Anno del Manvantara, la situazione nell'uomo delle capacità di quest'ordine, pur se sicuramente superiore a quella esistente ai nostri giorni, non era in misura alcuna paragonabile a quella propria allo stato dell'umanità primordiale. Il rapporto però con il mondo à côté doveva essere vissuto in maniera più facile e poiché ogni manifestazione dell'ordine corporeo ha in quella sfera, per gerarchia ontologica, la sua immediata radice è comprensibile come, quello, che oggi può apparirci un residuo per certi versi grottesco - intendo riferirmi a tutto ciò che va sotto l'assai generica etichetta di Sciamanismo - facesse allora parte di un diffuso modus operandi, probabilmente proprio, in misura e forme diverse, anche a periodi ancor più antichi. Di tale operatività, quello che n'è rimasto ai nostri giorni, fa comprendere come essa fosse, in prevalenza, rivolta e limitata all'ambito cosmologico. Doveva, in altri termini, esser parte dell'esercizio di numerose scienze tradizionali; per cui, non a caso, lo sciamano, per gli


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antropologi anglosassoni, a motivo delle funzioni oggi prevalenti, prende pure il nome di medicine-man. Ora è noto che, sul finire di una civiltà, sono proprio le scienze e le tecniche a prevalere e quella che chiamiamo magia è l'applicazione di analoghe procedure sul piano sottile (mênôk, in iranico) piuttosto che su quello grossolano (ir. gêtîk); pertanto, tutto quest'ordine d'attività tende ad assumere un ruolo sempre maggiore ed è proprio quello che deve essere accaduto al mondo atlantideo. 154 Ma, alle ombre fanno riscontro alcune luci, quali la presenza, nei riti sciamanici, di simboli sicuramente primordiali come quelli dell'albero e del cigno.155 Cosicché chiaro ed oscuro, s'alternano anche in singolari raffronti linguistici: la designazione della funzione ci è pervenuta da un contesto ugro-finnico ma vediamo che in Hindi, sheman è un idolatra mentre è singolare constatare in qual modo, sempre presso i popoli mongolo-siberiani, alla connessione tra il nome di Dio ed i concetti di "cielo - alto elevato", faccia riscontro il reperimento degli stessi significati nelle pressoché identiche radici semitiche di shmym, [ ], cielo; sama, [∴° ], cielo; samin,[→∴ ], elevato. Il candidato a quell'iniziazione presso i Kirkisi156 ha nome di baqça, che posso, significativamente, confrontare a baqsh,157 [ ] , quête (da cfr. con l'accezione cavalleresca: la quête du Graal) bahth è [ην⊥] chercher. Però, secondo i Buriati,158 nell'estasi, gli spiriti degli antenati rapiscono in Cielo l'anima del candidato per portarla dinanzi ad un consesso docente che è l'Assemblea dei Saaitan, cui corrisponde nientemeno che un più che trasparente satan, [ ]. Le sopra accennate, sopravvenute, difficoltà ad accedere ai particolari stati liminari, necessari per trasferire, in stato di veglia, la coscienza nel mondo sottile, determinarono il ricorso a tecniche e sostanze di supporto ed è così molto interessante constatare come, nell'era postdiluviana, Noè s'identifichi con lo "scopritore" del vino e dei suoi poteri. Più sopra,159 ho scritto, a proposito della √ ‘rb e della sua connessione ad un significato ampio di sera e d'occidente (das Abendland), per ricollegarmi ai riferimenti atlantidei sottesi al suo significato. Ebbene, per evidenti ragioni di colleganza genealogica, presso i popoli semitici, da tale radice è scaturito anche il concetto di relationship between persons of the same status, 160 infatti: hâbêr, [] , camarade; acc. ibru, colleague, comrade ma gli esempi potrebbero continuare investendo una serie davvero importante di derivati. Nelle lingue di questi popoli il pref. la- ha valore negativo per questo l'accadico laibru (la-ibru), designa qualcuno privo di vincoli. Se a questo si raffronta la mancanza di soddisfacenti etimi i.e. per il lat. liber, che ha lo stesso significato, c'è di che rimanere incuriositi ed ancor più se ricordiamo che Liber è pure nomen e lo è di una <<divinité italique….assimilée a Bacchus… [et]…des rapprochements pertinents… [ont montré]…que le culte était identique à celui de ∆ιονυσος>>.161 Il motivo è evidente: <<Liber repertor vini ideo sic appellatur quod vino nimio usi omnia libere loquantur>>.162 Davvero intrigante è allora leggere, sempre a proposito di Noè, che <<l'Arca andò vagando e si fermò sulla cima di Lubar, uno dei monti di Ararat.>>163 Per tutta una serie di paradossi, che caratterizzano questa parte terminale del ciclo, tra i popoli semitici, quelli di fede mussulmana hanno la proibizione degli alcolici; 164 gli Ebrei trovano nella Torah, accanto alla lode della vite e dei suoi frutti ed al loro positivo simbolismo, la condanna, innumerevoli volte ripetuta dell'ubriachezza,165 mentre tra i popoli i.e., originariamente lontani da questi abbandoni, è avvenuto che, per quelli in seguito cristianizzati,166 l'abuso dell'alcool sia - da tempo immemorabile - una piaga sociale sicché soltanto nell'Induismo è sopravvissuto il divieto di consumare bevande fermentate. Da un esame linguistico, risulta poi che i popoli i.e. dell'Europa acquisirono sì la conoscenza del vino allorché giunsero nel bacino del Mediterraneo ma che già conoscevano i prodotti e gli effetti della fermentazione quale evidente risultato di quel primo incontro-scontro con i tardi epigoni della civiltà atlantidea, cui ho fatto più volte menzione. Provo ora a esaminare da vicino quest'aspetto: il nome della vite ha in gr. una chiara origine semitica che ne determina nettamente l'esotismo rispetto all'originario habitat boreale: οινος, digamma initial assuré,167 quindi, posso supporre una forma ƒοινος, confrontabile


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con l'ar. WaYN , [∝℘…], black grapes; acc. inu, vino; sémitique commun √ wainu ma anche georg. g'wino. Analoghi processi stanno a monte di vinum poiché e in gr. ed in lat. non c'è una soddisfacente etim. i. e. Nel Nord del continente eurasiatico le bevande fermentate s'ottenevano, infatti, diversamente; in questo caso, sono partito dalla conseguenza del bere: l'ubriachezza. In gr. c'è un verbo normalmente usato, in tutte le accezioni, per indicare l'ubriacarsi ed è µεθυσκοµαι mentre, per precisare l'ubriacarsi di vino, esiste il più raro ed ovviamente più tardo οινυν (→ εζοινεω), d'evidente origine non i.e. in quanto formato su οινος. Il KK afferma che i termini originari erano µεθυειν, µεθυσκειν, comunque in tutti l'elemento base è µεθυ (→ µελι), miele e da questo proviene la "bevanda degli Dei"168 per eccellenza lo υδροµελι. Il vocabolo di riferimento è antichissimo perché risuona in tutte le lingue i.e. (ingl. mead, ted. der Met, skr. madhu, per tutti: birra di miele e poi skr. mâda, ubriacatura da cfr. con l'ingl. mad, pazzo) ed anche nelle lingue ugro-finniche (fin. mesi, metinen, ung. méz). In it. c'è mézzo (dal lat. mitis, dolce) nelle espressioni mézzo di vino, ubriaco mézzo che, nelle forme popolari toscane può limitarsi all'icastico <<è mézzo !>> per definire la precaria condizione di qualcuno. Alla luce di tutto questo, è dunque mera falsità dire con Plutarco che il Dio degli Ebrei fosse Dioniso? Indubbiamente sì, se l'affermazione fosse presa alla lettera ma, con evidenza, ove la prospettiva cambi ed i riferimenti siano intesi in senso trasposto come avviene, per esemplificare, nei vari aspetti che hanno avuto sviluppo nel successivo Cristianesimo: <<Io sono la vera vite…>>169 oppure <<Prese il calice e rese grazie … ne bevvero tutti>> 170 … l'affermazione assume ben altra pregnanza. Intendo dire che l'elemento di base, i mitologhemi di partenza sono comuni, essendo radicati nelle strutture di una forma tradizionale lontana, in larga parte profondamente modificatasi all'inizio dell'ultimo Grande Anno e, per troppi aspetti, totalmente perduta. Quanto alla raccapricciante morte - per smembramento - e resurrezione iniziatica dello sciamano ed a quella mitica ed atroce di Dioniso/Osiride,171 sono del parere che il più compiuto svolgimento, si è avuto col Cristo nel suo sacrificio e resurrezione. Direi quindi, valutando anche l'elemento arboreo172 e quello tauromorfo173 che, la costituente "dionisiaca", sottesa a -Wa [], debba essere considerata una porzione importante ma silente del retaggio ebraico e che essa", nel passato, nella sua versione "letterale", debba, in linea di massima, aver costituito una "tentazione" verso l'osservanza di un culto "non hanîf "e, perciò stesso, ritenuto eretico dai custodi dell'ortodossia israelita. Pertanto, la sua messa in evidenza, durante il periodo egizio 174 è stata più un effetto di coalescenza, al contatto del locale culto di Osiride, con un qualcosa già presente piuttosto di una reale acquisizione ex novo. Resta, infine, l'elemento sessuale che, nei riti dionisiaco/shivaiti 175 è così rilevante ma è, di fatto, presente solo in negativo nell'Ebraismo. Attitudine che questo ha trasmesso al Cristianesimo, il quale, in qualche misura, la ha ulteriormente potenziata. C'è questo passo di Abacuc176 che, significativamente, accomuna due condanne: <<Guai a chi fa bere i suoi vicini versando veleno per ubriacarli e scoprire le loro nudità. Ti sei saziato di vergogna, non di gloria. Bevi e ti colga il capogiro. Si riverserà su di te il calice della destra del Signore e la vergogna sopra il tuo onore>>. Mentre Paolo: 177 <<…Qualsiasi peccato l'uomo commetta, è fuori del suo corpo ma chi si dà alla fornicazione, pecca contro il proprio corpo.>> Sempre a proposito della componente -Wa [], esiste un episodio significativo, accaduto in Egitto in epoca però assai più tarda della remota schiavitù, dalla quale gli Ebrei sfuggirono sotto la guida di Mosé.178 Sembra, infatti, che, dopo la presa di Gerusalemme, da parte di Nabuccodonosor (-587), alcuni nuclei della tribù di Giuda, intorno al -580 (la lingua corrente era già l'aramaico), si fossero rifugiati nella valle del Nilo, per evitare la deportazione in Mesopotamia. In genere, si trattava di coloni, raggruppati in clan familiari, insediati in villaggi, sul tipo degli stanitsy cosacchi, dove la terra era concessa alla coltivazione in cambio di una costante milizia. Sembra, infatti, che i Persiani, signori in quel tempo dell'Egitto, molto


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apprezzassero lo spirito castrense del popolo ebraico. A Yeb, nell'isola nilotica di Elefantina, nell'Alto Egitto, ad oltre ottocento chilometri dal Mediterraneo, fu, da questi profughi, innalzato un tempio, la cui costruzione era, in qualche modo, sentita lecita (faccio presente che si stava, in tal guisa, contravvenendo al concetto principalmente giudaico dell'unicità del luogo di culto) essendo stato distrutto il santuario gerosolimetano. Un'altra informazione lo fa invece risalire ad epoca anteriore e pertanto già in uso ad una comunità preesistente in zona, la quale si sarebbe quindi limitata ad accogliere i profughi. Quel tempio, dal nome dato a Dio, c'è noto sotto il titolo di Yaho. Adesso bisogna dire che, sebbene tutto questo avvenisse in epoca pre-tolemaica, le notizie ci sono pervenute prevalentemente da fonte greca, egizia o veicolate dall'aramaico, che era, allora, la lingua veicolare di tutta l'area mediorientale. È per questa ragione, che non può esserci sicurezza su quale fosse l'effettiva grafia ebraica di Yaho ma, di norma, per la corrispondenza di O e di W a ,179 si dice fosse un nome trilittero della forma yhw, [] invece del consueto tetragramma yhwh, []; a mio parere, la trascrizione fonetica pervenutaci, invece corrisponde e pertanto conferma la testimonianza massonica della costituzione tripartita del tetragramma, con tutte le implicazioni oggetto di questo lavoro. Doveva, quindi, trattarsi di un nome dalla pronuncia Jèho e dalla scrittura bilittera YH, [], al quale mancava, appunto, la componente -Wa []. Perché, proprio in Egitto, fu tolta dal Nome la costituente che poteva essere ricondotta ad Osiride? La risposta può essere soltanto ipotetica ma se consideriamo che, nei pressi di quel luogo di culto, si trovava un tempio egizio dedicato a Khnum, il dio dalla testa d'ariete, i sacerdoti del quale mal sopportavano che, l'oggetto del sacrificio ebraico fosse, spesso, proprio tale animale 180 e se, a ciò, s'aggiunge il consueto esclusivismo ebraico, il quale, parimenti, mal sopportava apparentamenti con quei gentili, potremmo forse individuare una spiegazione. Altra ipotesi è che, non volendo semplicemente contraddire appieno la prescritta unicità templare,181 il clero, preposto al santuario, abbia attuato quella modifica a mero scopo giustificativo. Terza ed ultima ipotesi: il Nome si presentava bisillabo perché la comunità originaria del luogo era, come il Tempio stesso, estremamente antica, risalendo ad un'epoca precedente l'Esodo; quindi, essendo essa rimasta isolata e poco toccata, sia dagli sviluppi sopravvenuti nell'Ebraismo, sia dalle influenze locali, era a conoscenza soltanto della dizione praticata prima dell'arrivo del popolo nella terra dei Faraoni. Se ciò fosse, avrebbe un senso la supposizione, tratta dalla documentazione papirologica ritrovata, che quel nucleo remoto non avesse cognizione della Thorah, almeno nella veste sua storica di Pentateuco. In ogni caso, dalle forme assunte nonché dalla generale accettazione di questa partitio, appare evidente - anche a livello popolare - la coscienza, all'epoca, della composita costituzione del Nome. L'ostilità sacerdotale egizia fu, comunque, così irriducibile da ottenere infine che, dalla riva destra del Nilo, dalla guarnigione persiana della vicina città di Syene, si muovesse verso Yeb una spedizione, che, nel -411, distrusse l'inviso tempio giudaico.

Conclusioni Nell'affrontare il tema delle razze ho voluto attenermi ad un punto di vista strettamente tradizionale, sia perché, a mio parere, corrisponde, molto semplicemente, a verità, sia perché permette di fare chiarezza su un tema riguardo al quale i pregiudizi sono oggi presenti come non mai. In effetti, lo spettro delle opinioni, in questa fine di millennio, si estende dalla, di fatto, negazione della fondatezza di quel criterio tassonomico, alle posizioni avverse più oltranziste: quelle che non vogliono vedere, quanto, la composizione attuale dell'umanità resti lontana dagli originari tipi di riferimento. La prima è esplicita opinione di molti genetisti, i quali sembrano ignorare come, nelle antiche classificazioni, si volesse, così catalogando, mettere prioritariamente in risalto l'aspetto qualitativo ovvero formale e temperamentale inerente le differenze esistenti. Aspetto, che è poi quello di maggior rilevanza sul piano sociale e culturale. Oggi, la negazione o estrema


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svalutazione di tali differenze, scaturisce invece da una sottolineatura del riscontro, meramente quantitativo, della prevalente uniformità genetica e fisiologica, la quale, spogliata dalla sua dominante veste ideologica, non è, a sua volta, meno vera, essendo, di fatto, unica l'appartenenza specifica alla comune umanità. Quest'ovvia presa d'atto sarebbe però meglio e più scientificamente proposta ove non si volesse, assurdamente, dimenticare che non è con lo spostamento dell'angolo visuale che, sull'altro piano, quello qualitativo e formale, cambi alcunché. La seconda posizione tende a confondere razze e popoli mentre quelle sono presenti in questi con una rilevanza soltanto percentuale e mai esclusiva. Considerando, per il tema qui affrontato, la razza rossa, vediamo come essa sia rilevabile, nel popolo ebraico - di quella remota civiltà il diretto successore - maggiormente tra gli Askenaziti (pare anche tra i Samaritani) piuttosto che tra i Sefarditi ma è incomparabilmente più importante tra i cattolicissimi e linguisticamente indoeuropei d'Irlanda (Hibernia, appunto!). Vediamo poi che, ad essa, vadano ascritte alcune caratteristiche - le attitudini marinara e commerciale fatte proprie, sin da epoche remote, da popoli, sempre indoeuropei, quali i Greci e gli Scandinavi quando, a Roma, fu invece necessaria la mortale minaccia cartaginese per adottare, obtorto collo, l'arte navale ed assimilarne così le relative influenze. Il popolo, il quale, nonostante le più diverse contaminazioni, meglio si mantiene, nello spirito e nell'effettiva eredità culturale, vicino all'ancestrale tradizione iperborea della razza; il popolo Indù, ne è forse il più lontano sul piano fisico. Al contrario, le nazioni d'Europa, 182 che, forzando in molti casi il concetto, sono definite di razza bianca, hanno tutte adottato una religione semitica, in tal modo esaltando, come, dopo la Riforma, è avvenuto per gli Anglosassoni ma non solo per loro,183 la già rilevante componente "punica". Poiché, in questo campo, le cose non sono mai semplici; per mia parte, riguardo al Cristianesimo, condivido la documentata posizione del Cardini, il quale afferma come, ai nostri giorni, se proprio si volesse trovare qualche vivente traccia della tradizione classica, l'erede - di quel lascito il maggior beneficiario - sia stato proprio il Cattolicesimo romano. 184 Io aggiungo che lo stesso possa dirsi di ciò che resta del mondo celtico.185 Sempre per mostrare la complessità di tutti questi temi, che possono diventare esplosivi se non affrontati con le dovute precauzioni, basti pensare all'immensa portata della discesa indoeuropea nel bacino del Mediterraneo; tema, che è stato indagato da un'importante opera di Giovanni Garbini,186 nella quale, si dimostra come quelli che sono conosciuti sotto la generica denominazione di "popoli del mare" ovvero Achei, Danai, Micenei, Sardi, Siculi, Teucri e Filistei, abbiano fortemente determinato, assimilandosi, la composizione dei popoli semitici delle sponde orientali di quel mare, sì da essere all'origine di alcune delle stesse componenti d'Israele; quali Dan (Danai), Aser (Teucri) e Zabulon (Sardi, che sono poi gli stessi che hanno anche - popolandola - dato nome all'isola) nonché degli stessi Fenici. 187 La meno toccata sarebbe stata la tribù di Giuda ed allora anche la storia dello scisma di Geroboamo 188 e quella delle dieci tribù perdute verrebbero illuminate da nuova luce, risultando tali eventi in qualche modo connessi a questo "vizio" d'origine: parimenti, la chiusura fortemente etnocentrica, che dal ritorno da Babilonia ha determinato, per volontà di Esdra, l'Ebraismo sino ai nostri giorni, sarebbe da rivedere e reinterpretare. Eppure, nonostante l'esclusivismo giudaico post-esilico, il primo Ebraismo su suolo tedesco, costretto, secoli dopo, a migrare ad oriente, nella slavia, portandovi, nel XIV sec., la lingua jiddish e la cultura dello schtetl, sembra che, in larga misura, debba il suo sorgere al ritorno in patria di legionari germanici, i quali, provenienti dal medio-oriente con mogli ebree189 ed essi stessi proseliti, abbiano in tal modo, dato origine in Renania alle prime comunità. Resta, ora, da chiarire un punto che, soprattutto con la connotazione negativa dell'avverso pregiudizio, avendo sempre associato Massoneria ed Ebraismo, può trovare in questo studio conferma per il continuo, anche se non esclusivo, rimando alla lingua ed alla cultura ebraiche che il rituale massonico, con frequenza, richiede. L'intera questione ha la sua non facile spiegazione, nelle origini stesse del Cristianesimo; pertanto, volendo fare solo un breve cenno


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agli estremi del tema, è necessario metterne in evidenza i punti essenziali. Il Cristianesimo nasce come una struttura esoterica, interna alla religione ebraica ed essa corrisponde a quella fase che, oggi, si suole definire Giudeo-cristianesimo (vd. supra p. 11). A conferma, l'Islam, il quale, in modo un po' riduttivo, può dirsi sorto da quella corrente, afferma che, alle sue origini, il Cristianesimo altro non fosse che una tarîqah ovvero si trattasse, secondo quella terminologia, di una specifica via iniziatica. Tale stato di cose implica alcune importantissime conseguenze: • La maggiore discende dal fatto che, Gesù non corrispondeva pienamente a ciò che le Scritture prevedevano per il Messia, il cui compito fondamentale, essendo l'effettiva restaurazione dello stato primordiale, risultava invece modificato dal prospettarsi, nel suo annunzio, detta αποκαταστασις, in forma del tutto virtuale; cioè, quale semplice possibilità di salvezza offerta ai credenti mentre si sarebbe attualizzata erga omnes e come oggettivo evento cosmico, soltanto alla fine dei tempi, con il Secondo Avvento. Da quest'unico, specifico messianismo sono scaturite due, molto diverse, cristologie. * La prima, intende la predicazione di Gesù in senso restrittivo; propedeutica alla Restaurazione finale e quale manifestazione da porre nella sequenza del Verus Propheta <<se hâtant, de prophète en prophète, jusqu'au lieu de son repos.>> 190 Essa è la visione giudeocristiana ed islamica; quest'ultima chiuderà la sequenza con l'avvento di Mohammad, "Sigillo dei profeti" (khâtim al-nobowwat). * La seconda cristologia è quella costruita da Paolo con un'operazione teurgica di carattere gnostico;191 essa, pur collocando nel futuro l'evento d'impatto cosmico, sì da farlo coincidere colla Seconda Venuta, estende subito, erga omnes, la portata del Vangelo, in un'operazione universalistica imperniata sulla deificazione della figura di Gesù, pel quale, l'attributo di Cristo, si carica di implicazioni straordinarie ma necessarie e provvidenziali onde permettere il passaggio dall'originario status di gruppo elitario a quello di religo delle genti. In questa prospettiva, il Primo Avvento, dà luogo ad un momento intermedio del processo e, in tale spazio, trova un suo ruolo anche l'Ebraismo. 192 Sant'Agostino afferma anzi che gli ebrei <<necessari sunt credentibus gentibus>>193 perché le disgrazie che li colpiranno, per non aver saputo comprendere la nuova era, annunziata nelle rivelazioni contenute nelle Scritture che rivendicano, saranno tutt'uno con la missione rimasta loro da compiere ovvero <<ut sibi sumant judicium, nobis praebeant testimonium>>:194 <<ainsi, non seulement l'apologétique chrétienne s'accommode de leur persistance, mais elle l'exige.>>195 Le basi teologiche di questa posizione durissima m'anche singolare nel suo ostile permissivismo sorgono nel momento cruciale in cui andava consolidandosi la definizione della Grande Chiesa quale Verus Israel e si rendeva pertanto concettualmente indispensabile la precisa collocazione subordinata del Vetus. È così che, nella mora dell'iter formativo di quella grandiosa operazione teurgica, si può intravedere il sorgere dell'intrinseca esigenza di negarla, occultandola e chiudendo la via ad ogni possibile comprensione dei fatti con una condanna inflessibile, e mai abbandonata dalla Chiesa, d'ogni dottrina gnostica mentre, nel contempo, s'imponeva analoga rottura e nascondimento delle origini giudaiche, verso le quali si doveva impedire qualsivoglia possibilità di un ritorno, il quale, a livello delle masse, avrebbe vanificato tutta la complessa costruzione universalistica tanto sapientemente e - ripeto provvidenzialmente elaborata. • La conseguenza, che più direttamente ci porta al centro del problema, è come l'esoterismo cristiano, diretto epigono dell'elitaria formula originaria e quindi troppo alternativo, nell'esegesi, rispetto agli enunciati teologici dell'exoterismo dominante, nemmeno in pieno Medio Evo, godesse nella Cristianità - né potesse permettersi - di quella diffusa, ampia anche se superficiale notorietà, riscontrabili, per analoghe forme, in altre tradizioni; sia abraminiche, quali la Cabala nell'Ebraismo o il Tasawwuf nell'Islam, sia di differenti origini, quali le corrispondenti articolazioni dell'Induismo o del Buddismo. Si è pertanto sviluppata, ai margini della Chiesa ufficiale e sotto la "copertura" di ordini religiosi, terz'ordini, ordini cavallereschi, confraternite artigiane e


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caritatevoli, quella che è stata anche denominata la <<Chiesa interiore>>. I Padri, Ireneo, Tertulliano, Origene e Clemente d'Alessandria196 (il più esplicito), parlano dell'esoterismo cristiano come di un insegnamento - la trasmissione avveniva da maestro a discepolo e comportava una gerarchia diversa da quella espressa nella successione dei vescovi - avente per obiettivo la conoscenza integrale del reale; non un contrasto con la fede dunque ma l'approccio alla sua più intima natura. Sono queste le dottrine, che a volte, anche se il loro approfondimento e sviluppo variava molto da un tipo d'organizzazione all'altra, indebitamente diffuse e mal comprese, hanno potuto apparire, nel corso della storia, eretiche e con ben noti, disastrosi contraccolpi. Per questa via, si giunge, infine, alla questione della lingua: Gesù parlava aramaico quando si rivolgeva alle folle, ebraico con i dottori e, soprattutto, quando pregava (Shemà Israel…)197 ed allorché leggeva le Scritture.198 Pertanto questa è la lingua sacra del Cristianesimo ma, ad essa, devesi aggiungere l'aramaico199 mentre in 1Cor. 16.22 (Maran atha, il Signore è venuto) nella forma Marana tha (Vieni, Signore!) faceva parte, alla Consacrazione, della liturgia della Chiesa primitiva come testimonia la DIDACHÉ.200 Inoltre, l'aramaico è considerato lingua sacra anche dall'Ebraismo essendo così scritti alcuni brani del canone: Esd. 4.8 a 6.18, Dn. 2.4 a 7.28, Ger. 10.11. Invece, solo per un libro come l'Apocalisse, che appare, direttamente, redatto in greco, una specifica funzione sacrale può essere data anche a quella lingua. È evidente quindi perché, investigando nei rituali massonici, i riferimenti all'ebraico ricorrano con tanta frequenza e pregnanza. Facendo chiarezza sulle origini, si riescono, soprattutto, a collocare e comprendere due delle peculiarità cristiane particolarmente salienti: • L'ossessivo antigiudaismo, matrice del futuro antisemitismo, che pertanto ci appare quale necessità intrinseca alla sua stessa struttura teologica ovvero alla veste exoterica con la quale, per i più, la Chiesa s'identifica. • L'altrettanto ossessiva fobia per la gnosi, scaturita dalla volontà di calare un velo impenetrabile sulla ben gnostica operazione di teurgia, che permise la sintesi paolina tra l'originario Giudeo-cristianesimo con le tradizioni delle nazioni (i goim) e consentì di salvare il mondo antico da una deriva antitradizionale, nella quale già c'erano le premesse di un prematuro sviluppo di ciò che, i tempi successivi hanno reso possibile con l'avvento del mondo moderno. Nonostante, un artifizio di "sipari" pressoché perfetto, gli "affioramenti", a tutti livelli, sono moltissimi; altre a quelli finora analizzati, posso citarne alcuni altri non sempre noti. Sulla corona del SRI era scritto;201 a destra, REX SALOMON, a sinistra, PER ME REGES REGNANT. L'Imperatore, dal quale tutti i re traevano potere, era quindi identificato a Salomone. Questo stava pertanto a significare come gli Imperatori fossero, exotericamente, da considerare successori di Cesare mentre, da un punto di vista sacrale, esoterico, lo erano del figlio di David, quali guide del Verus Israel ossia della Res Publica Christiana. In questo modo, si spiega anche, come in Dante, si riscontri un'apparente contraddizione dei corretti rapporti gerarchici e tradizionali, quand'egli, affermando che il potere imperiale proviene direttamente da Dio, nega la sottomissione di questi al Papa. Anche le cinque vocali AEIOU, una divisa del SRI, possono, attraverso alcune combinazioni, come, in altri casi, avviene che parole latine abbiano nascosto parole ebraiche,202 rivelare insospettati significati: IA (Jah), IEOUA (Jehovah). Non a caso, l'identificazione, del Re-Profeta con l'Imperatore, trova conferma nell'abbinamento di Jah con il primo dei due personaggi, nel rituale del settimo ed ultimo grado dell'ordinamento massonico operativo. Del resto, G. Scholem203 riporta come, Abraham ben Samuel Abulafia ebbe a scrivere d'aver incontrato, in Italia (negli anni 1279 / 1291), all'epoca di Dante, alcuni esoteristi cristiani, i quali mostravano d'avere in perfetta conoscenza i metodi cabalistici necessari per interpretare le Scritture. Non è, quindi, il caso di chiedersi quale rabbi abbia potuto mai contattare un cristiano, quando dagli scritti di quest'ultimo traspaia una qualche conoscenza cabalistica; essa doveva quindi far parte delle dottrine esoteriche e, pertanto, la cabalistica cristiana del Rinascimento è dunque più un venire in luce


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(tutto si manifesta alla fine del ciclo) che una vera innovazione. A questo punto, stanti le conoscenze esoteriche di Dante, perché non pensare che esse facessero parte, in proprio, delle tradizioni giudeo-cristiane e non fossero state perciò trasmesse dall'Islam come, dopo Asin Palacios (1919),204 si tende invece a credere? Secondo questa diversa angolazione, quanto, con tali dottrine, nell'essenza, appare coincidere, è invece più giusto ritenerlo espressione di un comune patrimonio, proprio a ragione di quel rapporto che lega la nascita dello stesso Islam al prolungato persistere del Giudeo-cristianesimo anche dopo la creazione della <<grande Chiesa>>. Diverso è il discorso della sostanza, della forma insomma che, tali conoscenze prendono nella Commedia; per esse, notevoli sono le concordanze con i possibili modelli arabi.205 Inoltre, nelle proporzioni delle cattedrali, si ripresentano e s'evidenziano rapporti caratteristici del valore numerico di alcuni nomi divini ebraici: El, Adonai, Shadday, Jehovah. In particolare, ciò avviene negli edifici cistercensi e, di quest'ordine, è nota la stretta relazione con i Templari: S. Bernardo era, appunto, un cistercense. 206 Riguardo ai monaci cavalieri, essi, dagli atti del processo loro intentato, forniscono un'ulteriore testimonianza sulla natura dell'esoterismo cristiano. Senza potermi dilungare sulla situazione di questo all'interno dell'Ordine - articolato secondo una struttura che prevedeva una cerchia interna di singolare assonanza qumrânica - si può intuire come l'accedervi risultasse limitato207 e che i casi, in cui sembra fosse richiesto uno strano rifiuto del Crocefisso (non della Croce), facessero forse parte dei saggi di valutazione dei possibili candidati. I motivi dottrinari giustificativi, si possono individuare in una cristologia di tipo docetista e di conseguenza nell'esaltazione della Croce come puro simbolo dell'estensione cosmica della Redenzione: a conferma la caratteristica, triplice inquadratura208 di essa in alcuni graffiti trovati nelle celle dove i cavalieri furono incarcerati. Tutto questo è molto probabile, soprattutto perché, perfettamente, si cala nella complessiva visione giudeo-cristiana originaria, qual è oggi ricostruibile e della quale, appunto, l'esoterismo è stato, in larga misura, il proseguimento. Conferma inoltre, come la teologia della croce, del primitivo nucleo cristiano, quello della Chiesa 209 di Gerusalemme, la Chiesa di Giacomo, la Chiesa degli apostoli che conobbero il Signore, fosse imperniata sul Mysterium Crucis della Crux Gloriæ e non prendesse in considerazione lo strumento di supplizio.210 Ritengo in fine che, quest'occultamento delle origini, sempre inestricabilmente legato ad un parallelo momento dell'efficere,211 resti, per tanti versi, ancora inesplorato mentre, per altri, intuitiva ce n'appaia l'inelusibile, intrinseca necessità. Inoltre, esso, nelle tre religioni abraminiche,212 ancorché in forme e misure differenti, è tutt'altro che limitato al solo Cristianesimo;213 sicché, nell'Ebraismo, analoghi processi sottendono al lungo periodo della costituzione del canone ed alla complessa elaborazione dell'esegesi talmudica, fino all'affermarsi di quella che è, oggi, la prevalente confessione giudaica e rabbanita. Epifenomeni sommersi214 s'evidenziano, anche per questa fattispecie, in ciò che, attraverso un attento scandaglio, può scaturire dal deposito dottrinario e rituale, in parte custodito, dall'ultimo epigono della tradizione iniziatica occidentale.215

Note 1

Non deve però essere trascurato il lato "benefico" della casualità del reclutamento massonico: esso ha comportato, e tuttora permette, un aumento delle chances di sopravvivenza, nei tempi ultimi, dell'intera Istituzione. 2

L'Ordine, nella terminologia italiana.

3

I Riti, nella stessa terminologia.

4

RG.1, t.II, p.37-38.

5

Ibid., t.I, p. 128.


141 6

Come faccio cenno nella prefazione, queste deformazioni, sono frequenti; un'altra, caratteristica è quella relativa al cappio che sta intorno al collo del candidato all'iniziazione. In ing. è chiamato cabletow. Questo deriva dalla deformazione, per assonanza, dell' ebraico qïbolty [‫יתלבק‬, ho ricevuto; stesso etimo di Qabalah, vedi infra, n. 58] da cfr. con l'ar. qabeltu [da ♠_ ≤, ammissione, accettazione nel tasawwuf], relativo all'impegno iniziatico. Potrebbe essere obiettato di considerare anche una terza denominazione: BeYT HaMiQaDoSh [  -  ] , la casa del luogo santo ma essa è chiaramente solo una semplice amplificazione di QaDoS h [ ]. 7

8

M

9

A conferma, la variante qadesh ha, appunto il senso di rigettato ovvero l'equivalente di homo sacerrimus. 10

Pr.8.27.

11

S

12

Sh, p.133.

13

Es.20.7.

14

RG.1, t.II, pp.47, 48.

15

L, p.197, n.34.

16

Inoltre la loro somma ha, quale risultato, 12 come i segni dello zodiaco, che circondano le pareti della Loggia (cfr. infra, p. 6) e come i componenti di un centro spirituale. Per questa squadra, si dà un'altra curiosa coincidenza; essa - con le sue proporzioni - è anche la L dell'alfabeto romano nel quale ha, di nuovo, il valore numerico di 50, in ciò confermando l'impressione visiva di un'originaria impostazione geometrica delle lettere in questione. 17

Cfr. Z, t. I, 23b-24a.

18

Gen.1.3.

19

Mentre viene creato lo spazio e ciò che contiene, sorge anche il tempo (i giorni) egualmente ordinato dalla relazione 6 + 1 con la differenza che l'analoga funzione "riassuntiva" del centro, viene nella modalità temporale - a collocarsi logicamente per ultima come riposo: il riposo sabbatico. La  è posta in alto quando le altre due lettere stanno agli estremi della base:  a sn. e  a dx. Le tre lettere possono essere considerate isolatamente oppure assemblate in due gruppi; l'uno di sei combinazioni, due a due e l'altro di altrettante, tre a tre. Molto sinteticamente, i concetti dei riferimenti radicali sono i seguenti: 1.  un principio,  il dimorare,  l'allontanarsi, l'espandersi, l'elevarsi 2.  progressione,  espansione (è anche un nome divino),  generazione,  elevazione (altro nome divino),  animazione, vitalità,  deprivazione 3. , , , , , : queste combinazioni precisano ed a volte puntualizzano, anche con parole di senso compiuto, i concetti precedenti. Ad esempio  significa lutto, cioè il contrario [ allontanamento] della generazione [ ossia + ] mentre  è cuore. 20

Febr.1989. Debbo aggiungere come, oggi, nemmeno Jahbulon [] sia più presente sull'ara e questo, sembra, per mero rispetto umano a ragione degli equivoci che le esotiche assonanze di un termine desueto provocavano in alcuni timorosi ed ignoranti massoni nonché nei soliti malevoli, i quali ne traevano occasione per fantasiose ed oscure illazioni. 21


142 22

<<Warrant and certificates issued by the First Grand Chapter in the pre-1813 period [ prima dell'Unione tra Antients e Moderns] often bore the words:"In the name of the Grand Architect of the Universe, the Almighty Jah">>: BEJ, p.153. 23

Cfr. BGT: deve essere qui fatto presente - quale semplice cenno - che la tradizione Indù rappresenta, in specie nel suo nucleo vedico, la più diretta filiazione della Tradizione Primordiale. 24

Uno dei Nomi, cfr. supra, n.22.

25

Una delle tracce del remoto, comune possesso di certe cognizioni è nel virgiliano <<…tibi serviat ultima Thyle…>> (Georg. 1.30), dove è citato quello che fu uno degli appellativi del centro spirituale primordiale. Esso, posto alla massima latitudine aveva allo zenit la costellazione da cui traeva nome: infatti in skr. tula è la bilancia (√ tul: to lift up; raise; to determine the weight of anything by lifting it up; da cui il lt. tollo ed anche ϑα8∀ντον, bilancia) ed in epoca arcaica, proprio perché basculanti sul perno della Polare, erano così designate le due Orse. Soltanto in tempi successivi il nome di Libra [] fu trasferito ad un asterismo zodiacale. Quelli stessi tempi in cui, il medesimo centro venne ad identificarsi con l'isola di Ogygia posta nell'Atlantico settentrionale (cfr. FV, et infra note nn. 83, 132). Tra l'altro, si può così comprendere perché l'aspetto principale dell' astrologia non abbia avuto niente a che vedere con le applicazioni divinatorie, oggi divenute ossessive, ma come essa fosse intimamente connessa con i principi che reggevano la geografia sacra. 26

Dalla metà del XV sec., essa non è più scrupolosamente osservata in Occidente, pertanto le chiese non sono necessariamente disposte secondo un asse equinoziale ma, nel mondo islamico, la qibla [↑_≤] ossia la direzione della Mecca, è d'assoluto rigore anche nella preghiera individuale. 27

Ad es. quanto fanno i pellegrini intorno alla Kaaba [  ♣ ].

28

Cfr. supra, n. 19.

29

Gn.1.4, 10, 12, 18, 21, 25 da HL.

30

Ibid.

31

Il rif. delle citazioni è a MMW. Per quanto riguarda i caratteri di Asoka (-272 / -231), si tratta della geometrica scrittura brâhmî che ben si presta a questo tipo di composizioni; altro elemento interessante è la sua antichità. L'inizio del suo uso viene, infatti, collocato intorno al V sec. A.C. ma potrebbe risalire assai più indietro poiché è stata autorevolmente (A.Cunningham e Dowson) congetturata <<l'existence d'une vieille écriture indigène, ancêtre de la brâhmî>> (F, p.340). 32

Parimenti, secondo le attribuzioni della ∅Φ≅Ρ0Νι∀, allo iota, ι , spetta il valore 10.

33

RG.1, t.II, p.42.

34

Attualmente, ci si limita al solo Jehowa (cfr. supra n. 21).

35

È quello che si incontra in questo testo: risale al periodo del Secondo Tempio. Prima dell'esilio ne veniva usato uno assai più elaborato ma che - da allora sino ad oggi - è rimasto appannaggio dei Samaritani. 36

È appunto alle dieci Sephiroth che si allude quando in Bahir,§118, viene affermato:<<Il mondo fu creato per dieci parole>> è ciò perché nello yod c'è il germe d'ogni cosa. 37

Par. XXVI, 134.


143 38

Îsh + vára (environing, enclosing) determina come una personalizzazione ed infatti ne risulta che Ishvará è the Supreme Being ovvero l'equivalente di -Wa/Wsir/ουσια per i quali, cfr. infra, punto 3. 39

La primordialità di questo segno è suggerita dall'essere pressoché ovunque, e non solo presso i romani, cifra dell'unità; il che ci richiama al concetto di subordinazione del Cosmo al suo Principio; universum: Unum versus [ire]. 40

Cfr.S.

41

RG.1, t.II, p.177.

42

Cfr. BdR.

43

Cfr. JH.

44

JH, p.173.

45

Ibid., p.175.

46

Tolomeo III regnante: -246 / -221.

47

JH, p.170.

48

Es.32.

49

Es.3.14.

50

Metafisicamente L'Essere, pur appartenendo al Non-manifestato è all'origine della Manifestazione o Esistenza che dir si voglia, infatti: esistenza - exsistentia - sottende ex stare; quindi, propriamente, è da interpretare fuori dall'Essere, il quale, rispetto ad essa, è un Principio relativo. Il Principio Assoluto (è l'AYN-SOPh, il Deus Incognitus più sopra citato a proposito dell'Albero Sefirotico) - che si colloca al di là d'ogni determinazione non esclusa la prima (l'Unità) ovvero l'Essere stesso corrisponde a ciò che potremmo chiamare Zero Metafisico. E Chi parla dal roveto ardente, secondo la formula più diffusa, Si nomina <<Io sono Colui Che è>> in realtà la forma ebraica AHYH AShR AHYH (   ) è piuttosto un futuro: <<Io sarò Colui Che sarà>>. Nell'immediato l'espressione appare non del tutto trasparente ma se si tiene conto di quanto premesso e si consideri la successione cronologica - in rapporto al reale eterno presente del Soggetto - come una successione puramente logica, la frase può risultare così "tradotta": <<Io, che, per mia propria condizione, sono al di là dell'Essere, mi manifesterò a te secondo quello stato>>. Il sottinteso motivo è: <<…per permettere il mio intervento nell'Esistenza come Legislatore>>. 51

Gs.24.26 da HL.

52

Questa versione è stata poi accolta dai redattori della Bibbia di Gerusalemme.

53

Gen.12.6, 35.4, Dt.11.30, Gdc.9.6.

54

Henry Wilson Coil, Coil's Masonic Encyclopedia, New York, Macoy Publishing and Masonic Supply, 1961, pp. 516-517; Malcom C. Duncan, Masonic Ritual and Monitor, New York, David Mckay Co., nd., p. 226; Dr. Ron Carlson, Fast Facts on False Teachings, Eugene, Oregon, Harvest House, 1994, p. 86. 55

Questa dizione è di particolare interesse perché, esaminata secondo la sillabazione qui messa in atto, si presenta con la precitata componente (1.) Yah- [], e tutto il suo carico semantico, abbinata a -ti, che, nell'egizio, significa forno ed è precisamente il forno del vasaio, riprodotto del resto dalla grafica


144

del corrispondente geroglifico t3 nella sua tipica struttura alta e biconica. Non a caso dunque , YâTzaR, sta per to form, to fashion, nella specifica accezione di Gen. 2.8 ovvero di quando si narra che Dio plasma l'uomo come fa un vasaio. E come non ritrovare gli stessi concetti nelle metafore utilizzate da Paolo nella sua Rm. 9.20? A riprova, nello stesso ambito linguistico, il fenicio  è the potter, così come, in neoebraico, il participio  è potter, creator ma nemmeno è da trascurare, pur per altri rimandi, l'apparentato ar. ζ … , UŞR, the covenant. 56

È naturalmente anche questa un'approssimazione, stante la variabilità vocalica delle lingue semitiche. 57

Per l'uso di questo termine, deve farsi riferimento a quanto ho scritto in prefazione.

 , QaBâLâH, è un derivato del verbo leqabbelet e della √  , che significa ricevere, accogliere. Pertanto, Cabala significa lett. ricezione e lato sensu tradizione, è l'aspetto interno, puramente dottrinario dell'Ebraismo: cfr. supra, n. 6. 58

59

PV

60

In RG.5: 64.800 anni.

61

In RG.5: 25.920, 19.440, 12.960, 6.480 anni.

62

Ibid.: 12.960 anni.

63

Ibid.: 25.920 anni.

64

Ibid.: ognuna, 2.160 anni.

65

Sono i Mahâbûtas o "grandi elementi" quelli che determinano la relazione: chiaramente, il Diluvio (circa -11.000) è correlato all'acqua, invece, la finis mundi lo sarà col fuoco: …dies irae dies illa, testet David cum Sibilla… lo testimoniano cioè l'Ebraismo e la tradizione classica. In fatto di terminologia si può precisare che, in quest'ultima il Grande Anno è il Magnus Annus Platonis mentre per i caldei il Manvantara, s'identifica al regno di Xisuthros, la cui durata è appunto di 64.800 anni. 66

La coscienza di quest'unità di fondo di tutte le forme tradizionali, adombrata dalla comunità di lingua poi distrutta dagli eventi miticamente rappresentati dalla costruzione della Torre di Babele (Gen.11.4), giunge sino all'inizio del Kaly Yuga: -4.480. 67

Quanto accadde è, in qualche modo, accennato da Platone (Tim.24e,25d, Criti.108e) sebbene, nel suo racconto, la guerra tra Atene e l'Atlantide possa sembrare precedere la catastrofe. Inoltre, agli stessi fatti, sono da ricondurre le narrazioni, presenti in tutti i miti indeuropei (e non), relative ai bellicosi rapporti con i Giganti. Quanto alla datazione indicata, è significativo che, in Scandinavia, sia frequente il reperimento di incisioni rappresentanti piovre e con questo ottopode spesso, in certe culture, si è voluta indicare la stazione zodiacale da noi conosciuta come Cancro []: ebbene, il punto vernale sostò in detto asterismo negli anni intercorrenti tra il -8700 ed il -6540. 68

L'Africa è presente a più titoli per questo retaggio: ad es., secondo alcune versioni le Esperidi (da εσπερα, sera) vivevano sul Mt. Atlante in Mauritania ma anche nell'Esperia etiopica ovvero l'Eritrea: da ερευθω, arrossisco e lo stesso abissino, abishà è rosso. 69

Chiarissimo è il racconto iranico dell'abbandono dell'Airyanem Væjah, le berceau ou germe des Aryens, per le grandi tempeste di neve che lo investirono. Cfr. HC. Il mare è sconosciuto in indo-europeo; significativi i teonimi ad esso relativi: Neptunus, in origine, presiede a fiumi e fonti e, soltanto in seguito, per assimilazione a Ποσειδων, estende al mare il suo 70


145

dominio. Ποσειδων, dapprima legato anch'egli alla terra, ha origini più complesse analizzate infra n. 106. 71

Anche il commercio in indo-europeo è un'attività senza nome, priva di una specificità che lo distingua dall'acquisto e la vendita; merx non ha etimi in lat. che sono invece reperibili nell'ebr. MeHYR, [], prezzo e nell'accad. makurru, bene, possesso, merce. Cfr. S. 72

Virgilio, Buc. egl. IV, per tutto questo cfr. CS.

73

21.1.

74

Il matrimonio indoeuropeo era di natura endogamica essendo caratterizzato dall'unione di cugini incrociati, pertanto le specificità psichiche e fisiche di un clan erano fortemente delineate e mantenute nel tempo. Cfr. CB, vol.I. Un esempio estremo ne è stato lo xvêdhvaghdas ovvero unione tra consanguinei immediati, considerato segno di grande religiosità dal mazdeismo iranico ma motivo di mai sopito scandalo per greci e romani. 75

Per pervenire alla determinazione del tipo si può disporre dei ritrovamenti antropologici e della testimonianza delle fonti letterarie e figurative; <<cette seconde source a l'avantage de ne pas dépendre d'une hypothèse préalable. Or, ces témoignages concordante pour désigner la race nordique, sinon comme celle de l'ensemble du peuple, au moins comme celle de sa couche supérieure.>>: H. Naturalmente qui ci si riferisce ad una fase avanzata ma non recente del movimento della razza dalla sede originaria. 76

Cfr. la definizione di "sangue blu" per caratterizzare gli aristocratici, i quali - a ragione delle vicende storiche relative all'origine delle moderne nazioni europee - sono spesso de souche germanique. 77

Riepilogando, si può affermare, in base a tutta una serie di dati convergenti, che la razza rossa si doveva presentare d'aspetto atletico, d'altezza notevole (l'uomo di Crô-Magnon), brachicefalaacrocefala con capelli rossi, gli occhi castano-dorati, naso aquilino, pelle arrossata e delicata, lentiggini. 78

Cfr. supra n. 23.

79

Non è un caso che, nella geografia mazdaica, il continente (iran. keshvar) occidentale, si chiami Arezai, quindi singolarmente eguale al vocabolo ebr. per terra: AReZ, . 80

Le altre eccezioni, numericamente irrilevanti, sono i Parsi (Zoroastriani) dell'India ed i Kafiri dell'Afganistan. 81

I riferimenti etimologici sono tratti dallo HL.

82

RG.2, p.56.

83

FV: opera nella quale si dimostra che lo svolgersi dell'intera epopea omerica è avvenuto nell'area baltica e nell'Atlantico settentrionale, ben prima quindi che gli Achei giungessero nelle sedi storiche dove dettero origine, all'inizio del nuovo insediamento, a quella che è nota come cultura micenea. 84

Vd. supra, p. 7, n. 29. Di questo una traccia evidente è l'inizio del giorno al tramonto sia per l'Ebraismo, sia per l'Islam m'anche - in certi casi pure oggi, es. la Messa vespertina prefestiva - per il Cristianesimo. 85

86

HL

FdO, p. X. Per metafora tratta dal senso d'oscurità connesso al tramonto; stessa origine può essere attribuita a Ερεβος − cfr. anche l'acc. erebu, tramonto.


146 87

Cfr. supra p. 12, n. 65.

88

Libro di Enoc, 106. 1-4. Il Libro di Enoc etiopico - qui citato - è posto, in quel canone, prima del Libro di Giobbe: quindi, significativamente, tra i Libri Sapienziali. Riguardo all'aspetto di Noè, si deve considerare la frequenza dello pseudo-albinismo neonatale nei rossi e - tratto indicativo della monogenesi della specie umana- anche presso i neri aborigeni australiani. 89

Ibid., 106.6.

90

Ibid. 106. 13-17.

91

È la cosiddetta età biblica: secondo tradizione, c'è, nello svolgersi del ciclo, un progressivo accorciarsi della durata della vita. 92

Il termine ebraico significa, alla lettera, i caduti ma in figurative sense è utilizzato anche per indicare i morti. Gen. 6. 1-4. È da notare come il ns. eroe derivi da ηρωλda cfr. quindi con il predetto skr. hàri, blond (MMW). È però curioso che esso converga con l'ambito camito-semitico dove, infatti, abbiamo: eg. WRR, great, important; WR, prince (S); ebr. HOR, [], the noble, free e, addirittura, be or grow white, pale (HL). Il termine invece usato nel testo biblico è GaBORYM [    ], strong, valiant man (HL). 93

94

32.8; per tutto questo cfr. HS, l'articolo di Ronald S. Hendel.

95

Noto qui una particolarità interessante; la nascita li qualifica - per antonomasia - quali figli di donna infatti in Enoc, 15. 18-20, espressamente si dice che <<…questi spiriti si rivolteranno contro i figli degli uomini e contro le donne perché essi sono nati da loro>>. C'è nella contrapposizione una delle motivazioni del titolo di Figlio dell'Uomo attribuito al Cristo. 96

Quest'aspetto non tanto di Principio Primo quanto più limitato di Angelo Etnarca (il Dio geloso) esiste sicuramente nel testo biblico e nel vissuto d'Israele ma non esclude in alcun modo l'altro, quello realmente universale. È, per l'esattezza, il concetto islamico di hanîf [ ℵ ×ο ] <<…the word means the original, innate, primitive religion in contrast to the particular which arose later, polytheism on the one hand and the in part corrupt religions …>> ; (FEI). 97

98

NôHa,[

], la √ NH esprime calma, compostezza, tranquillità ma anche preminenza, distinzione.

99

Ad essa ed al suo simbolo (the Rainbow) fa espresso riferimento uno degli Higher Degrees che collegati alla United Grand Lodge of England - sono più direttamente associati alla Mark Grand Lodge; il Royal Ark Mariner, da non confondere ovviamente con l'assonante Royal Arch. I colori dei regalia sono appunto quelli dell'arcobaleno mentre the apron's bib ha la forma a semicerchio, comune al fenomeno meteorologico ed allo scafo dell'Arca. Non è, in special modo, significativo per questo studio però <<… the most interesting features are the use of a stone, instead of the Volume of the Sacred Law, on which to take the Obligation. The reason for this is explained in the ritual, but it may be that we have here a survival of the old custom of swearing on a stone altar, which was the earliest form of a binding oath>>; da W. 100

In questa fattispecie per Cam prevale la corrispondenza linguistica su quella razziale: è il filum egizio. 101

Gen. 9. 24-27; profezia totalmente avveratasi come da riscontro storica anche per quanto riguarda Cam (in questo caso la razza nera).


147 102

The Book of Enoch, London, s.d.

103

RG.2, p.37.

104

Ez. 32.27.

105

Basti pensare al ruolo di baluardo tradizionale avuto dall'Ordine del Tempio ed alla funzione del Ghibellinismo. 106

È interessante constatare che anche in cinese il fonema hóng dà luogo ad ambiti semantici tutti significativi in ordine alle relazioni che ho finora indicato: *rosso, rivoluzionario [accezione scontata e del tutto moderna ma, in questo contesto, non priva di senso e non solo in cinese] **arcobaleno, ***grande, magnifico, ****inondazione. Del resto lo start point della tradizione estremo orientale, quasi esattamente corrisponde a quello della cronologia ebraica: -3.468 (Cina) a fronte di -3.760 (Ebraismo): cfr. infra, n. 113. Molto indicativo è anche il nome, che, dato dai Greci ad un importante popolo semitico, fosse quello di Fenici; da φοινι> →φοινισσα, roux, fauve, rouge sombre (Ch), chiamati però Sidonî [ ] dalla Bibbia (Gn. 10.15-19, 49.3). Sidôn, Σιδων, oggi Şaydā, era a ancient Phoenician city, on coast N. of Tyre (HL) ma  o  è formata dal loanword from Egypt  (ZY ← egz. t'aī), ship e da , DaN, che è il nome di una delle tribù settentrionali d'Israele. Tutte queste associazioni dell'etnonimo, con una delle componenti del popolo ebraico, da mettere in più stretta relazione coi "popoli del mare" (cfr. infra, CONCLUSIONI), sono abbastanza curiose; tant'è che, a conferma, Sidoni potrebbe essere inteso come: i Danai, quelli delle navi. A questo punto, Ποσειδων, letto Πο−σειδων, ci pone qualche problema. In origine, designava il dio che presiedeva alla terra, come è confermato dall'epiteto omerico di Ενοσιχθων. Tale attributo è attestato dalla giustapposizione uscita da un vocativo Ποτειδα, dove sono presenti Ποτει ← ποσις (pater familias) e l'antico nome della terra ∆α, ∆ας, che ritroviamo incluso nella sua controparte femminile ∆ηµητηρ. In seguito, analogo abbinamento di ποσις, si verifica invece con un etnonimo, Sidoni, [ , Zidan], che ha assimilato un termine non indoeuropeo [ , zy, nave] e si presenta, prima nel mic. Posidaijo, poi nel classico Ποσειδων, che potremmo, adesso, legittimamente, interpretare come "Signore dei Danai" o anche come "Signore dei popoli del mare". La risposta ad un interrogativo, ne solleva però un altro: mentre i Romani avevano, con certezza, una mentalità continentale, in ordine con l' "ideologia" i.e. (cfr. supra n. 70), gli Achei erano già navigatori prima di scendere nel Mediterraneo (FV) e quindi se Posidone è nome tardivo, qual era quello del loro dio del mare? Direi che, come risposta, un aiuto possa fornirlo ancora Omero (Il. 1. 265 e 403-404) con, non a caso (cfr. infra n. 139), il nome di un gigante: Βριαρεως e, neppure qui a caso (cfr. note nn. 25, 67, 68, 83, 108, 136), eponimo delle atlantiche, famose colonne: le Βριαρεω στηλαι, prima denominazione di quelle che, poi, furono intitolate a Ercole; più tarda variante onomastica dello stesso dio. Egli era però detto anche Αιγαιος (inoltre Αιγαι, Ege era la sede di Posidone; Od. 5. 381) ed i due appellativi, nell'area scandinava, hanno avuto un seguito norreno in Brimir e Ægir. Il primo era, come il personaggio greco, un gigante (per tutta questa famiglia di parole vd. in skr. la √ brih, to be thick, grow great or strong, increase) il secondo, il dio del mare. Ma c'è di più: Αιγαιος e Αιγαι, derivano da αιξ, capra: e non è la chimerica, anfibia figura della capra-pesce, in cui i due elementi terra ed acqua, s'uniscono il simbolo del Capricorno []? Simbolo quindi, nel quale, ritrovandosi sia il Ποτειδα, sia il Βριαρεως, poi divenuto Ποσειδων, può ragionevolmente, al momento del passaggio ma anche della maggior confusione tra una funzione e l'altra, aver dato luogo al soprannome di Egeo. Su questa fase e sullo specifico ruolo dell'asterismo, sarebbero da farsi ulteriori considerazioni ma io ritengo opportuno lasciarle ad un più preciso studio. 107

Da non confondere con il 7° Avatâra di Vishnu, cioè Râma-chandra, l'eroe del Râmayana, il marito di Sita, la cui epopea, popolarissima in India, rispecchia eventi relativamente più recenti e connessi all'incontro degli Aryias con genti meridionali, appartenenti, in prevalenza, alla razza nera. 108

Il gigantesco Atlante era il capo dei Titani nella guerra contro Zeus. La vittoria di quest'ultimo terminò con un compromesso: anche Posidone prese posto tra gli immortali: mitico riflesso della fusione delle due razze.


148 109

Considerato l'etimo - ingenuus, qui prend naissance dans… (M) - l'aggettivazione sarebbe superflua ed è proprio l'accezione contemporanea del sostantivo, significativa di quale fosse l'ingenua indoles degli indoeuropei intesa come l'unica <<digne d'un homme libre, franc …>>(M). 110

L'età del bronzo, che è una fase prettamente nordica, trova singolari riscontri tra il rosso, il furor bellico ed il bronzo: sv. röd, rosso; acc. urudû, bronzo; acc. rûbo (cfr. lat. rubeo), ira ignea, perfetto attributo di guerrieri ribelli: siamo lontani dal distacco e dalla misura che distinguevano la prisca forza della razza, che è ben resa dai noti versi del Petrarca: <<Virtù contro a furor prenderà l'armi / e fia il combatter corto che l'antico valor / negl'italici cor non è ancor morto>>. Nonostante la pia illusione del poeta, era giustamente questa una precisa caratteristica di Roma, dove la compostezza e l'ordine delle legioni vinceva, a dispetto degli influssi latitudinari, il disordinato slancio dei barbari. Ed altri e numerosi sono, infatti, i segni che, nell'Urbe, fanno mostra di una singolare fedeltà alle origini. Il nome deriva da una√ var, contratto, accordo, da cui lato sensu: merce, prodotto (cfr. ingl. ware) e pertanto commercianti; segno evidente di un avvenuto snaturamento della nativa ingenuità. 111

112

H, p.123.

113

S, vol. I, p. VIII. Di fatto, la cronologia ebraica rimonta ad un'epoca ben più antica di Abramo (inizio II mill. a. C.) ossia al già citato -3.760 (inizio del calendario ebr.) ed i rapporti con la tradizione iperborea, qui presi in considerazione, risalirebbero pertanto ad un'epoca precedente quella dall'accertata presenza in zona di Hittiti, Filistei, Persi, Medi e Mitanni. Cfr. infra CONCLUSIONI. 114

RG.2, p. 50.

115

Storicamente, i Celti non sono segnalati (al massimo) prima del VI-VII sec. A.C.

116

Ibid., p.39.

117

Supra n.54.

118

CFV, p.123.

119

Ibid., p.120.

120

Ibid. p.124.

121

Ibid. p.126.

122

PW.1, p.74.

123

RG.3, p.157.

124

HL

125

Cfr. supra p. 5.

126

MMW

127

The southern hemisphere or pole …è invece chiamato Kumeru, dove ku- , è un …prefix implying deterioration, depreciation, deficiency…ed il luogo è a region of the demons… (MMW). 128

MMW


149 129

RG.3, p.69.

130

Facendo rif. al predetto suffisso sú- ne deriva un senso come sorgente del bene.

131

RG.3, Ibid.

132

Ibid. ma, per le implicazioni e sviluppi omerici, cfr. la precitata opera (FV) di Felice Vinci.

133

È in questo senso che si sviluppa tutta l'opera del S, che - per tanti versi meritevole (fosse solo per l'ampiezza e l'accuratezza del lavoro compiuto) operando principalmente sul lessico, sorvola sulle profonde differenze sintattico-grammaticali dei due gruppi, forza spesso la linguistica storica e trascinato dalla volontà di trovare riscontri alla propria tesi, svisa, anche in campo strettamente lessicale, molti confronti dichiarando una quantità di risultati di gran lunga, certo, superiore a realtà. Molto limitante ed assai datata appare anche una decisa impostazione evoluzionistico-positivista. Resta, in ogni caso, un'importante opera di riferimento per trovare verifiche nell'attribuzione al substrato non-indoeuropeo di termini la cui congruenza culturale risulti estranea all'originario ηη≅λ della stirpe. 134

RG.2, p.142.

135

Ch

136

Ad ulteriore dimostrazione, delle profonde influenze reciproche tra la tradizione iperborea e quella atlantidea, si può verificare che in skr. budha, saggezza è anche il nome del pianeta Mercurio mentre la madre del Buddha (il nome è in pâli) è stata Mâya-Dêvî, così budha equivale etim. al ger. Wotan, il quale è omonimo del centro-americano Wotan ovvero Quetzalcohuatl, le cui caratteristiche di serpente alato si ritrovano nel caduceo ermetico. RG.2, Ibid. Sembra qui opportuno fare presente che una √HRM era già stata citata a p.4 a proposito di sacer/aparteness; in questa fattispecie, senza voler escludere, per la vicinanza fonetica, una relazione con quelle accezioni, è opportuno segnalare che, tra i due casi, esiste una differenza ortografica: ±ζο nel primo, →ζ• in questo. 137

138

139

Cfr. supra p. 8.

All'origine della "confusione" (incipit del Kaly Yuga, cfr. supra, n. 66) c'è la famosa Torre di Babele (torre ← turris ← τυρσις), termine pel quale si danno curiose e significative associazioni. Intanto, nonostante l'etimo, greco in prima istanza ma non i.e., forti sono gli indizi di una provenienza dall'Asia Minore. Cibele, detta la turrita per la corona che la cinge, venne a Roma da quell'area geografica sebbene, oggi, sia spesso presa a emblema dell'Italia. Ci sono poi - misteriosi per antonomasia e della stessa probabile origine nonché onomastici vettori della parola in argomento - gli Etruschi o Tyrrheni, τυρρηνοι. L'elemento più inquietante, caratteristico di questa specifica costruzione, è titanico e controiniziatico, che è poi quello qui preso in considerazione: in Gen.11.4 , la Torre è MaGDaL da √ GDL, [], crescere, diventare grandi m'anche nobile, illustre ed i Nephilim li conosciamo quali "famosi eroi". Grandi sono i Giganti e non a caso in norr. þurs è il gigante. In seguito le torri et in urbe le case torri sono state, anche in Europa, strumento militare e segno di nobiltà. Sempre in ebraico la √ ThÛR, [ ] ha il senso di cambiare, modificare, circuire m'anche tradurre; senso non estraneo ad un contesto geografico, teatro di un'importante giunzione di differenti correnti tradizionali. Ma, se si ritorna al tema dell'antica usurpazione operata dalla casta militare ai danni del potere spirituale, un riflesso è leggibile in τυραννος , un usurpatore appunto m'anche uno che cambia, modifica, confonde i ruoli: τυρενω, rimescolo, confondo insieme. Curiosa poi la quasi omofonia cinese tra tã, torre e tâ, rovinare, che trova riscontro nella XVI lama dei Tarocchi dove una torre rovina fulminata trascinando, nella sua caduta, un personaggio coronato: significativa punizione divina (la temuta mors repentina, procurata dal telum Iovis che qui esce da un Sol Justitiæ) dello Kshatrya ribelle. In Gen.36.43 c'è anche un Magdial , capo di Edom, il regno


150

nemico per eccellenza. Infine gli Yezidi hanno le Torri del Diavolo dove, pare - vox populi - si tengano strani consessi. 140

RG.2, Ibid. p.146.

141

Ibid., p.153.

142

Ibid.

143

Ibid.

144

Ad esempio, nell'Induismo le concordanze vanno dallo Shivaismo ai Tantra.

145

Siegmund Freud antepose come motto alla sua Traumdeutung l'esplicita affermazione: <<Si flectere nequeo superos, acheronta movebo>>. 146

Le altre corrispondenze temperamentali sono: r. rossa / biliosa, r. nera / sanguigna, r. gialla / nervosa, r. hamsa / equilibrata. 147

Una delle caratteristiche degli dei, segno del loro distacco dalle cose terrene, era, per gli antichi, la mancanza del battito delle palpebre ed una certa rassomiglianza ad essa fu ravvisata nella qualità dell'acies germanica, cosa che molto impressionò. 148

In India, questo nucleo arcaico è individuabile nella parte che potremmo definire più propriamente vedica della tradizione mentre i Tantra sono sicuramente una apporto acquisito dalle civiltà indigene del sub-continente aventi, come principale riferimento, la razza nera. Cfr. E.1. 149

Fine del primo Grande Anno.

150

Le sette modalità sottili del nostro mondo che, nel loro insieme, costituiscono la terra totale. Sono i sette dvîpas indù, i keshvar iranici (cfr. supra, n.79), le sette terre della Cabala e dell'Islam ed in Dante, i sette ripiani della montagna del Purgatorio. 151

HC, p.42.

152

Ibid., p. 83, n.36.

153

È chiaro, come, in una condizione tanto alterata, le tappe della realizzazione spirituale, s'allontanino in proporzione. 154

Enoc, Libro dei Vigilanti, VII.1: <<E si presero per loro [i Figli di Dio] mogli ed ognuno se ne scelse una ….ed insegnarono loro incantesimi e magie…>>. Ibid. XVI.3: <<…Avete appreso un segreto abominevole e, nella durezza del vostro cuore, lo avete raccontato alle donne…>>. Non si deve poi dimenticare che, i Nephilim erano dei mislead Kshatryas e lo studio delle scienze come il loro esercizio sono appannaggio di tale classe in ogni società tradizionale. 155

Cfr. RG.4, ch. XXVI.

156

ME, p. 66.

157

Tutta questa terminologia non sembra, in via fonetica e concettuale, lontana dal td. der Bursch, Mitglied einer solchen Gemeinschaft:… Soldaten, Handwerker.. (K)... era, infatti, il nome relativo dell'apprendista in senso compagnonico. L'etimo (dal lt. bursa → it. borsa) appare però basarsi sulla metafora dello zaino, che caratterizzava questi giovani, itineranti lungo i loro tours di formazione. Il vocabolo lt. proviene da βυρσα, cuoio, pelle rasata, otre, il quale scaturisce da un'ignota voce semitica testimoniata dall'acc. burschu, das Fell mit ausgezupftem Haar (S), singolarmente prossimo al vocabolo td. da cui siamo partiti. Ibidem, p. 65.


151 158

Cfr. supra p. 22: I "transiti" da un keshwar all'altro.

159

Cfr. supra p. 14.

160

S

161

M

162

P.F.103.3.

163

Libro dei Giubilei, V.28; da una segnalazione dall'Ing.F.Vinci, nel contesto della quale, egli ha anche messo in evidenza come Dioniso (Dio-Niso) sia il Dio del Mt. Nisa ed il suo omologo Osiride sia Dio del Mt. Ba-Ckaw (cfr. l'assonanza con Bacco). Inoltre, nell'epopea di Gilgamesh - mesopotamico equivalente di Noè - Up-Napishtim approda, dopo il diluvio, sul Mt. Nisir. Tutti rapporti non sempre trasparenti ma che confermano il legame dell'ebbrezza col mondo post-diluviano. 164

Corano.II.219: <<Ti domanderanno ancora del vino e del maysir. Rispondi: <C'è peccato grave e ci sono vantaggi per gli uomini in ambe le cose ma il peccato è più grande del vantaggio>>>. Sempre al vino, può alludersi in positivo, intendendolo però in senso traslato; Cor.LII.23: <<E si passeranno calici di un vino che non farà nascer discorsi sciocchi o eccitazion di peccato.>> come in Proverbi, 9.5-6 dov'è la Sapienza che parla: <<Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate la stoltezza e vivrete: andate diritti per la via dell'intelligenza>>. 165

Tb.4.15: <<…non bere vino fino all'ebbrezza e non avere per compagna del tuo viaggio l'ubriachezza.>>. Solo in occasione di Purim c'è indulgenza verso chi usi il vino per dare un tono d'allegra socievolezza ai festeggiamenti. 166

Ovvero "semitizzati" secondo la profezia di Noè in Gen. 9.27: <<…Dio dilati Jafet e questi dimori nelle tende di Sem…>>. 167

Ch

168

Designazione che è sempre segno di grande antichità.

169

Gv.15.1s.

170

Mc. 14.23-25.

171

Cfr.KK e BdR.

172

Indubbiamente, nei tempi più antichi, c'era una maggior tolleranza per questi culti, Gs.24.26: <<poi Giosuè …prese una gran pietra e la rizzò là, sotto il terebinto, che è nel santuario del Signore>>. Cfr. supra p.10 e n.51e 52. 173

Ad esempio, la funzione della vacca rossa è indispensabile nei riti di purificazione ed ancor oggi ci sono notizie che indicano dei tentativi di ripristinarne il sacrificio. Nonostante questi casi "letterali" ben precisi, quali anche gli olocausti, resta però il fatto che, l'elemento dirompente, caratteristico del dionisismo/shivaismo, è sempre stato alieno allo spirito ebraico. Cfr. inoltre 1Sam.11.7. Ritengo però che, il ruolo del toro - come protagonista dei miti dionisiaci e quale oggetto del sacrificio - sia relativamente recente, ricollegandosi alla fase di precessionaria dominanza vernale dell'omonimo asterismo (-4380/-2220). Fase grandemente significativa, comprendendo l'inizio del Kaly Yuga e quello del calendario ebraico. A riprova: l'apparizione più tarda del capro sacrificale, connessa all'ingresso del momento equinoziale nell'Aries []. 174

Precedentemente al -1300 circa.


152 175

Cfr. E.2, opera quasi unica nel suo genere per profondità e ricchezza di riferimenti.

176

2.15-16.

177

1Cor.6.17.

178

Cfr. supra p. 20 e n.143.

179

L'ambivalenza è dovuta alla problematica vocalizzazione nelle scritture semitiche.

180

Cfr. supra, n.173.

181

Dt.18.6-7.

Del resto, è opinione di molti che, l'etimo di Ευρωπη sia da ricercare nel già citato (cfr. supra, n. 86) ereb, ‘RB [  ], occidente. Significativo, che ευρως, ruggine, ci rimandi di nuovo al rosso o, meglio, al fulvo. Inoltre, Europa era, con Cadmo, figlia di Agenore Fenicio e, per "fenicio", già ne abbiamo verificata (cfr. supra, n. 106) la relazione con rosso. 182

183

Basti pensare all'importanza avuta dalle nostre repubbliche marinare.

184

Da intendere in senso storico, indipendentemente - è ovvio - dalla bizzarra configurazione che esso, sempre più, va oggi assumendo. 185

Cfr. PW.1 e 2.

186

GG

187

CFR. SUPRA, P. 16, N. 106.

188

-926.

189

Nonostante la struttura patriarcale di quella società, l'Ebraismo si trasmette per via femminile.

190

HC1, t. I, p. 101. Il superiore grado di realtà, d'attribuire al risultato della "costruzione", rispetto a quello attinente al mero fatto storico, non è accettato, sia dagli agnostici, sia da troppi teologi; irriducibili apologisti di una linea di pensiero (e comportamenti: vd. l'École Biblique di Gerusalemme), per la quale i racconti della storia sacra (vetero e neotestamentari) sono non solo "profeticamente" veri ma rigorosamente autentici persino nei loro particolari. Tutto questo appartiene all'ampia problematica delle relazioni esistenti tra verità e autenticità. Cfr. infra n. 198 e vd. anche il mio studio VERO O AUTENTICO? 191

Ho analizzato, anche nelle sue complesse motivazioni interne, detto aspetto della storia del Cristianesimo nel mio studio EFFICERE DEOS. Lo stesso, presente lavoro procede da un'impostazione concettuale, che prevede una continua interazione tra eventi svoltisi in uno spazio-tempo fisico e quantitativo ma che, in realtà, hanno radice e spiegazione in una corrispondente ma sovrapposta modalità qualitativa, permanente e gerarchizzata, nella quale la storia del mondo visibile è imitazione o proiezione di eventi dell'anima; luogo dunque, tale mundus subtilis, del privilegiato teatro d'ogni ierostoria. È per questo che, certo letteralismo teologico, con il suo inevitabile corollario di infantili images d'Épinal, confondendo la sostanza formale con l'essenza che pone in essere il cosmo, ha infine permesso che si producesse, quale logica degenerazione, l'elementare semplicismo della rationalité voltairienne nella quale, ogni possibilità di dare alla parola spirito un ruolo diverso dalla mera esornatività letteraria, inesorabilmente si spenge. 192

La giustificazione agostiniana è in via meramente negativa, l'altra, quella più strettamente dottrinale e non di parte è che i due tempi del messianismo cristiano ricavano un reale, obiettivo spazio e


153

necessità tradizionale alla presenza, dopo la Rivelazione cristiana (ed islamica), dell'Ebraismo propriamente detto. 193

Enarr. in Ps., Ibid.

194

Serm., 201.3.

195

MS, p. 120.

196

Tra l'altro, in un suo testo, trasmesso da Eusebio, egli afferma che, dopo la Resurrezione, Gesù donò la gnosi a Giacomo, Pietro e Giovanni. I Padri inoltre, rivelano, attraverso alcune allusioni, che confermano l'esistenza di una non palese tradizione orale, la conoscenza della mistica ebraica come, ad esempio, avviene per S. Giovanni nell'Apocalisse a proposito del Trono di Dio (la Merkaba), portato dai quattro animali. 197

Mc. 12. 29-30.

198

Molti passi evangelici, relativi alla persona di Gesù, sono introdotti dall'incipit <<In illo tempore… >>; più sopra (p. 16), ho pur io utilizzato tale formula nella sua versione classica (senza lo in, superfluo in quel compl.) per definire - come avviene anche presso altri autori - un tempo nel quale gli eventi narrati mostrino o la presenza di un attore non umano oppure per imporre ad essi un'ermeneutica profetica che li innalzi ad un grado di realtà, trascendente toto cælo quello materiale della storia comunemente intesa. Tra l'altro, manifestando i Vangeli, per troppi segni, l'impronta di un pensiero e forse anche di un Urtext, espresso secondo le modalità linguistiche semitiche (cfr. i lavori dell'Abbé Jean Carmignac), singolarmente, la versione latina renderebbe meglio del troppo concreto "originale" greco <<Εν εκεινω τω καιρω....>> : <<al momento opportuno…>>, la possibile, sottesa dizione ebraica <<HaYoH HaYaH...[…. ]>>: <<il y avait une fois ….>>. Naturalmente, questo ci riconduce alle complesse relazioni tra verità e autenticità accennate alla n. 190. 199

Mt. 27.46, Mc. 5.41, 7.34, 15.34.

200

Cfr., JD, pp. 392-393.

201

Da un disegno di Dürer, tracciato intorno al 1510.

202

In genere, era usata la figura dell'acrostico come nel caso dell'AGLA, organizzazione fiamminga di operatori del libro (stampatori, librai…). Il suo significato sembra fosse <<Aïth Gadol Leolam Adonaï>>; Adonai sarà grande nell'eternità. Charbonneau-Lassay afferma che il tutto formava uno degli emblemi grafici del Cristo. Questo lavoro sulle parole è tipico della scienza delle lettere anche in altre lingue sacre; in Europa, tali procedimenti, nel Seicento, ebbero una fioritura abnorme, mossa però da scopi di solo estetismo letterario o d'elegante estrinsecazione devozionale. Ci si esprimeva giocando con i versi intessuti, gli anagrammi, i palindromi ed i calligrammi, fino alle forme più barocche ricavabili dalle innumerevoli possibilità dell'iconismo poetico. Ricchissimo e documentato lo studio di G. Pozzi, LA PAROLA DIPINTA, Adelphi, 1981. In questo contesto, si potrebbero citare anche altre manifestazioni "ebraiche" quali lo schema del Magen David (i due triangoli equilateri intrecciati) "occultato" sia nell'aquila dell'Impero, sia nel giglio dei Borboni e di Firenze (ma anche in altre figure araldiche) però, in questo caso, trattandosi fondamentalmente di un riferimento al rapporto tra macrocosmo e microcosmo esso, piuttosto che as symbol of Judaism, deve essere qui ricondotto al suo valore universale. 203

Sh1, p. 144 e nn. 33, 34 a p. 389.

204

In effetti, sulla stessa linea "islamica", ci sono alcuni predecessori: 1780, S.J. Juan Andrès; 1839, Ozanam; 1842, Labitte; 1901, Blochet. 205

Queste manifestazioni "formali", di convergenze scaturite senz'altro dai rapporti intercorsi all'epoca delle crociate, si presentano, a volte, in modi che non possono non lasciare stupiti com'è il caso dei


154

riferimenti sciiti (la ricorrenza delle morte di Alì scritta in caratteri neski) sulla veste di un personaggio miniato in un manoscritto (LE CŒUR ÉPRIS) destinato al Re Renato d'Angiò (XV sec.) o in quello della professione di fede (la shahada) leggibile, in caratteri cufici, nell'aureola di una Madonna (Museo Nazionale di Pisa), dipinta dall'enigmatico Gentile da Fabriano nel XV sec. 206

È curioso che, nel XVIII sec., in Francia, quando molti erano nelle Logge gli ecclesiastici (l'esenzione dalla scomunica era considerata uno dei privilegi gallicani), i Cistercensi fossero particolarmente numerosi. Mancavano, invece, i Gesuiti; ordine controriformista. 207

È anche la mediocrità dei maggiorenti del Tempio, quale traspare dai suddetti verbali degli interrogatori, che rafforza la possibilità dell'esistenza di una gerarchia occulta, vera detentrice delle conoscenze e, in ultima analisi, sede del fons honorum dei titolari visibili del governo dell'Ordine. Quanto alla sua predetta assonanza qumrânica, essa, a mio parere, riverbera particolari significati sul fatto che - nella Cristianità medievale - la più fedele e diretta discendenza dalle origini ovvero il filum iniziatico, avesse il suo centro non in una delle religiones contemplative ma proprio in un ordine guerresco di monaci cavalieri. Questo perché, la prima comunità cristiana, da identificare con la Chiesa gerosolimitana di Giacomo il Giusto, era l'espressione, anzi, l'élite degli "zelanti della Legge" ossia degli irriducibili sostenitori della legittimità dinastica e sommo-sacerdotale dei salomonici zadochiti, dei quali, conservava financo il calendario. S'identificava quindi con gli irriducibili avversari, sia del sacerdozio sadduceo e dei Farisei che lo sostenevano, sia dei re erodiani controllati da Roma. Tracce di quest'animus pugnace, anche se - di esse - altre, trasposte interpretazioni sono legittime, si ritrovano in Mt. 10. 34-35, 11. 12 e, più tardi, riecheggiano in Dante: Par. 20. 94-95. Considerata infine la genesi dell'Islam, un'ulteriore conferma ci giunge dalla constatazione come, tale bellicosa militanza abbia, anche oggi, tanta, visibile parte in quella spiritualità. Sono però comprensibili, specie dopo le opzioni "buoniste" ed i "pentimenti" della Chiesa, le difficoltà anche psicologiche ad accettare che, nei suoi anni iniziali, questa fosse la vera natura del Cristianesimo. 208

Allusione al dominio di Cristo nei tre mondi (per l'importanza di questa divisione ternaria, vd. il ns. JANUA INFERNI) e stesso riferimento simbolico presente nella da poco (decisione di Giovanni Paolo I) abolita Tiara. In genere non si riflette come, anche lo stesso termine Εκκλησια provenga dal vb. εκκαλεω (chiamo, convoco, nel senso di convoco per un'adunanza) e come questo sia corrispondente a , KoNeS (riunisco per un'assemblea); tant'è che     , BeYTh KeNeSeTh, è la Sinagoga. La quale ha poi ricevuto, nella diaspora, questo nome dal tardo lt. eccl. Synagoga, a sua volta, derivato da συν−, insieme e αγειρω, raccolgo, convoco. Corrispondono dunque entrambi i vocaboli, tanto pertinacemente contrapposti nei millenni, allo stesso significato comunitario e chiaramente derivando, nella prospettiva giudeo-cristiana, l'una dall'altra. 209

210

Tutti i dati a nostra disposizione, stanno a confermare che, la Chiesa delle origini preferisse riconoscersi in altri simboli, quali il pesce (anche qui l'importanza di un acrostico: Ιχθυς) o il crisma. Dopo Costantino, compare la croce nella forma commissa ovvero quale lettera tau [Τ] maiuscola ma l'immagine del Crocefisso, sempre assente presso i monofisiti (tipiche le croci copte), appartiene soltanto agli ultimi anni del IV sec. Di norma però, non è mostrato il Christus dolens ma un Cristo sereno; in ogni caso, è in Oriente che la rappresentazione del dolore risulta attenuata con la riproduzione di un corpo non più vivente. Il realismo, in Europa, con il passare dei secoli, si fa però sempre più crudo, finché il corpo viene spogliato anche del colobium, lunga tunica priva di maniche e caratteristico dell'età romanica mentre tende a prevalere il mostrarlo coperto dal solo perizoma ed in preda a tutti gli strazi della Passione. L'intensificarsi di questa tendenza, appare andare, di pari passo, con il farsi dominante della componente sentimentale e dell'imporsi, nell'osservanza, di un'attitudine puramente devozionale, sin che si giunge all'irrompere di orientamenti strettamente sociali e, in tempi recenti, al crescente spazio dedicato ad un elemento spettacolare contesto di immense folle la cui portata è ancor tutta da valutare. 211

Cfr. supra, n. 191.


155 212

Parimenti nell'Islam: nell'epoca successiva alla morte di Muhammad ovvero negli anni dei Califfi Ben Guidati, stesse considerazioni, s'impongono per quanto riguarda l'ordinamento e la definitiva fissazione del corpus coranico nonché la raccolta degli Hadith (i detti, gli aneddoti) del Profeta costituenti la Sunna. Tant'è che quest'ultima risulta la seconda fonte della Shari‘a ed è quella che ha fornito lo strumento per calare il dettato divino nelle molteplici tradizioni, costituenti poi il substrato delle nuove e numerose realtà di fede islamica. In particolare, molto evidenti risultano tali operazioni, in tutta l'area riconducibile alla Shi‘a. 213

Ho usato il presente perché credere fatti obsoleti queste applicazioni della teurgia è, con certezza, un errore; infatti, pur se con ruolo minore e con un diverso livello di consapevolezza, esse, come lo testimoniano proclamazioni dogmatiche e santificazioni, sono sempre, giustamente, anch'oggi praticate e poi non rientra tutto questo in quella pienezza di potere, che definisce il comportamento della Chiesa nell'eone presente secondo la nota formula della potestas clavium? Cfr. Mt. 16.19, 18.1, 18.18. 214

I.e.: l'occulta struttura delle due forme del Nome e, a riprova dell'imbarazzo che ancora genera quest'ordine di argomenti, basti riflettere su quant'è, di recente, accaduto per Jahbulon, a ragione dello "scandaloso" riferimento a Baal (cfr. supra, n. 21). 215

La Massoneria, quale erede di numerose organizzazioni precedenti, tutte - nelle sue molte strutture le conserva in germe per l'incombente transfert al <<novus mundus>> (Ap. 21). Dopo la loro scomparsa come forme autonome, sono ora esse vestigia viventi, non reliquie e suscettibili quindi anche d'attualizzarsi ove per questo se ne venisse a creare la possibilità. Tale condizione, nei rituali, è resa in simbolo dall'espressione che <<la Loggia di S. Giovanni [i.e. la M. stessa], si tiene nella Valle di Giosafat>>. Essa è, insomma, l'"Arca" della civiltà occidentale e porta pertanto il - solo apparentemente incongruo - titolo di <<Arte Reale>>; storicamente confermato da innumerevoli concrete militanze, socialmente superiori alla condizione artigianale, proprio perché, in virtù di questa non immediatamente percepibile funzione, le sue finalità iniziatiche superano la dimensione dei "piccoli misteri". A conferma, si deve aggiungere che, dalla precedente analisi di quel completamento della Maestria che è the Royal Arch, evidenti v'appaiono anche gli elementi provenienti dall'antica, dimenticata Arte Sacerdotale.

----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme] ausserberrau@hotmail.com


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DE LA RELIGION... de Benjamin Constant Le fondement épistémologique et métaphysique* (Sabina Kruszyñska)** 1. Les remarques préliminaires. Dans de nombreux volumes de l'histoire de la philosophie, on ne peut pas trouver le nom de Benjamin Constant. Il serait exagéré d'affirmer que ce manque soit une injustice de la mémoire humaine. Benjamin Constant n'était pas philosophe. Aucune de ses oeuvres n'est pas un ouvrage philosophique. Néanmois, à chaque siècle, et particulièrement au siècle d'abaissement de la pensée philosophique commune, un véritable esprit philosophique réside même en dehors d'oeuvres strictement philosophiques. Dans certains ouvrages littéraires, politiques, etc. nous pouvons trouver les réponses de valeur aux questions fondamentales; aux questions relatives à la structure de la nature humaine et la structure de l'univers humain. Les réponses de valeur, ce sont d'aprés moi les réponses qui ne prétendent pas être exclusivement justes, qui ne réduisent pas les phénomènes culturels aux phénomènes biologiques, mais qui, en même temps, reposent sur de solides fondations empiriques et tout en présentant une clarté de notions et une cohérence logique. Elles résultent alors des efforts d'expliquer rationnellement la réalité humaine en tenant compte de sa complexité. Je pense que quelques oeuvres de Benjamnin Constant sont les oeuvres de ce genre, et que notament De la religion... est un tel ouvrage. Il serait intéressant, bien sûr, de faire une analyse historique des idées philosophiqes constantiennes en les situant parmi d'autres idées de son époque, de l'époque précédente et de l'époque suivante. Mais il est aussi possible, et je le trouve plus passionnant, de suivre et de mettre en lumière les conceptions constantiennes qui sont le fondement épistémologique et métaphysique de sa pensée en général. Je voudrais examiner ces conceptions dans lesquelles les germes de vérité sur l'homme et son monde survivaient jusqu'à nos temps. C'est une tâche immense et elle est encore à faire. Dans cette communication je peux seulement marquer les principales lignes de mes recherches.

2. L' aspect cognitif - L'objet et la méthode. "Pour arriver à la vérité, il faut toujours considérer les questions sous toutes leurs faces." (B.Constant, Du polythéisme... I.)

a. L'objet De la religion..., l'oeuvre sur l'histoire de la religion serait une oeuvre exclusivement historiographique si'il y manquerait quelques dizaines de pages et quelques dizaines de phrases. Une d'entre ces phrases nous présente un objet réel des investigations constantiennes: "L'on n'a jusqu'ici envisagé que l'extérieur de la religion. L'histoire du sentiment intérieur reste en entier à concevoir et à faire" (De la religion..., p.13)


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En examinant et en présentant de nombreux faits de l'histoire de la religion, Constant a un but principal - découvrir et décrire un fonctionnement complexe d'un unique sentiment religieux dans une diversité des formes religieuses. On peut dire, en appliquant une terminologie plus moderne, qu'il cherche une structure fonctionnelle interne dans les jeux superficiels des évémements. Il examine les manifestations du sentiment religieux dans la religion, dans les systèmes philosophique, morale et politique. Alors, pour Constant, tout ce qui fait l'objet de la connaissance se transforme et se redouble en objet empirique et en objet hypothétique. Connaître l'objet c'est-à-dire le saisir comme l'ensemble diachronique (empirique) et synchronique (hypothétique) en même temps. La structure fonctionnelle interne a des relations multiples et compliquées avec la surface changeante. Il n'est pas possible alors de fixer pour toujours ces relations quoiqu'elles soient les manifestations d'une cause stable; mais il ne serait pas aussi possible d'expliquer les jeux des événements actuels sans les efforts de les decouvrir avec toute leur dynamique. Tout forme un système, un ensemble, alors, tout doit être considéré comme tel. Constant exprime ses intuitions sur la spécificité de son objet en écrivant p. ex.: "Comme elle [la religion - S.K.] modifie tout ce qu'elle touche, elle est aussi modifiée par tout ce qui la touche. Les causes se rencontrent, s'entre-choquent, et se font plier mutuellement. Pour expliquer la marche d'une religion, il faut examiner le climat, le gouvernement, les habitudes présentes et passées du peuple qui la professe: car ce qui existe influe, mais ce qui n'existe plus ne cesse pas toujours d'influer. Les souvenirs ont comme les atomes d'Epicure, des éléments rentrant toujours dans la compositon des combinaisons nouvelles. Conduire le lecteur à travers ces recherches, serait écrire une histoire universelle." (D.l.R., pp.214/215). Il est évident qu'il parle ici du niveau empirique qui est representé par les formes religieuses donc, à son tour, ne sont pas à comprendre que dans ses relations multiples avec le sentiment religieux (hypothétique). Constant parle du caractère hypothétique du sentiment religieux (comme une règle stable et comme une cause efficace) au début de son ouvrage: "Si donc il y a dans le coeur de l'homme un sentiment qui soit étranger à tout le reste des êtres vivants, qui se reproduise toujours, quelle que soit la position où l'homme se trouve, n'est-il pas vraisemblable [soulignement S.K.] que ce sentiment est une loi fondamentale de sa nature?" (D.l.R., p. 3) Étant un être hypothétique le sentiment religieux n'est pas à appréhender que par ses formes. Constant, construisant l'objet des ses recherches comme un tout structuré, complexe et variable, et voulant le décrir, se charge d'un travail énorme et hasardeux. On peux dire qu'il en a réalisé une part assez signifiante.

b. La méthode. Il faut constater qu'avoir pleine conscience d'une complexité de l'objet, n'est pas encore avoir une idée d'une méthode suffisante pour l'explorer. Constant n'avait pas à sa disposition que les méthodes connues et employées dans l'historiographie, dans l'empirisme et dans le rationalisme philosophiques et, moins utiles dans son espace de recherche, les méthodes des sciences naturelles. Il était trop attaché à la réalité pour traiter sérieusement les méthodes purement spéculatives proposées par les philosophes allemandes. Alors, pour accomplir sa tâche difficile, Constant unie les méthodes historiques, empiriques et rationnelles. Il n'élabore pas une méthode spécifique, originale ni précise mais on peut remarquer qu'il veut agir selon une manière qui lui permettrait d'examiner l'objet le plus exactement possible. Je voudrais faire quelques remarques sur ce sujet.


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Dans le chapitre VI De la religion... (De la manière dont on a jusqu'ici envisagé la religion) Constant écrit: "...que presque tous ceux qui ont voulu aborder ce vaste sujet aient fait fausse route." (D.l.R., p.101) Il analyse précisément les causes diverses des erreurs commises (les causes frequentes sont les réductions simplificatrices de l'objet) mais une d'entre elles me semble particulièrement intéressante; non seulement parce qu'elle concerne presque tous auteurs discutés, mais qu'elle soit un principe général de la position cognitive de Constant. Il s'agit du principe d'objectivisme cognitif. Constant reproche aux auteurs français, anglais et allemands (les Allemands sont les seuls qui ont apporté les idées justes et nouvelles parce qu'ils avaient aperçu que la religion fait un système de symboles et que ces symboles sont historiquement variables) qu'ils ont preferé être les défenseurs de leurs convictions et de leurs partis que les chercheures d'une vérité. Comme Voltaire, ils ont pensé "qu'il valait mieux frapper fort que juste" (D.l.R., p. 112). Selon Constant l'objectivité forme la base de chaque recherche de valeur. Il constate: "La recherche est immense. Ceux même qui la croient telle, ne l'ont pas appréciée dans toute son étendue. Bien qu'on ait beaucoup écrit sur cette matière, la question principale reste encore inaperçue. Un pays peut être long temps le théâtre de la guerre, et demeurer, sous tous les autres rapports, inconnu aux troupes qui le parcourent. Elles na voient dans les plaines que des champs de bataille, dans les vallons que des défilés. Ce n'est qu'à la paix qu'on examine le pays pour le pays même." (D.l.R., pp.12/13) Qu'est-ce qu'on peut faire pour garder l'objectivité en examinant les faits historiques (socials et culturels)? La réponse constantienne, que j'essayais de reconstruire, contient une germe d'idée de l'interprétation herméneutique (l'influence de Schlegel?). Costant, en concevant son objet comme un système structuré, le comprend aussi comme un ensemble des phénomènes de la conscience qui changent dans un processus du développement de l'esprit humain. Il pense alors qu'il est nécessaire d'interpréter chaque élément de ce système à travers les sens communs de ce tout organisé parce que: "Parmi les opinions comme parmi les hommes, tout tourne au profit de la puissance. Lors qu'une opinion est dominante, elle force toutes les idées contemporaines à se grouper autour d'elle et à la servir." (Du polythéisme... v.I; p. 252) et, en même temps: "On n'invente pas les opinions; elles naissent dans l'esprit des hommes, indépendament de leur volonté."(D.l.R., p. 209) Les sens communs sont à saisir par une analyse psychologique (on analyse en effet les faits de conscience) et contextuelle des idées religieuses, philosophiques, littéraires, etc. à la condition qu'on voit au processus du développement de ces idées les efforts de la conscience humaine d'expliquer les conditions et le sens de son existence. Pour Constant: "...chaque génération est placée comme un point dans la vaste série des choses humaines, pour profiter de ce qui a été fait, et pour préparer ce qu'il y a à faire." (D.l.R., p. 125)


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Chaque interprétation contextuelle et psychologique cherche les garanties de son objectivité dans l'unité des expériences humaines - les expériences intersubjectives et subjectives. Aux propositions herménutiques classiques (p. ex. W. Dilthey) cette unité possède son enracinement profond dans la nature humaine. Pour les conceptions antymétaphysiques (p. ex. postmodernisme) pour lesquelles la catégorie de la nature humaine n'existe pas, aucune catégorie d'objectivité n'est pas possible. On voit alors que pour Constant une structure hypothétique - la nature humaine - est un à priori cognitif sans lequel les phénomènes culturels resteraient incompréhensibles et non-exprimables dans la connaissance objective.

3. L'aspect métaphysique - l'anthropologie philosophique et l'axiologie. a. L'anthropologie philosophique. D'une manière générale, la nature humaine c'est un ensemble des potentiels et des inévitables fixé à l'homme, aussi que la façon de laquelle ces potentiels se manifestent et ces inévitabilités percent réellement. On peut dire autrement qu'elle est une totalité des tendences et des dispositions hypothétiques, qui pourraient expliquer les élémentes stables visibles dans le comportement des êtres humains et communs pour eux (v. Boguslaw Wolniewicz; Filozofia i wartosci; WFiS UW Warszawa; 1993; p.95 et p.245). Je n'analyserai pas la conception constantienne de la nature humaine. J'en ai fait dans mon article intitulé "La nature humaine - l'enracinement anthropologique du libéralisme de Benjamin Constant". J'y présente la nature humaine comme une structure dynamique interne composée de trois élémentes suivants: le sentiment religieux, l'esprit et la vis vitalis. Dans un comportement d'un individuum humain ces trois élémentes se manifestent, respectivement, comme la capacité d'éprouver des sentiments supérieurs (selon la compréhension de Max Scheler) et sous les formes différentes de la rationalité et de l'animalité. Ce que je voudrais faire ici c'est d'accentuer la spécificité de l'anthropologie philosophique de Constant. Chaque l'opinion sur la nature humaine, claire et plus ou moins cohérente, peut être nommée une anthropologie philosophique. Il est alors évident qu'il existe autant d'anthropologies philosophiques que d'opinions sur la nature humaine. Il est néanmoins possible de les grouper en deux catégories: celle des anthropologies naturalistes et celle des anthropologies antinaturalistes. Selon les premières l'homme n'est qu'une partie de la nature. Les deuxièmes rejettent la these naturaliste et affirment que l'homme ne soit seulement une partie de la nature mais qu'il la dépasse Un dépassement ne se realise qu'au niveau de la concience. Les antinaturalistes affirment que l'homme, dépasse la nature parce qu'il ait une concience des valeurs objective, c'est-à-dire, des valeures qui existent par elles-mêmes indépendamment des besoins et des désirs humains (V.B. Wolniewicz; op. cit.; pp. 95/96). L'anthropologie de Constant est antinaturaliste. La thèse sur l'existence "dans le coeur humain" du sentiment religieux - d'une tendence humaine stable et commune - forme le noyau de cet antinaturalisme. Selon Constant le sentiment religieux (datum extrême de sa réflexion philosophique) est la source d'une dissonance entre l'homme et tout le reste du monde. Il déclare au début de son livre: "Nous ne rechercherons point ici quelle est l'origine de cette disposition, qui fait de l'homme un être double et énigmatique, et le rend quelquefois comme déplacé sur cette terre." (D.l.R., pp. 33/34.). Probablemant, sans le sentiment religieux l'homme ne pourrait fonctionner qu' au niveau quasi animal où même sa rationalité ne serait pas la garantie suffisante de l'humanité. Il faut réfléchir alors:


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"...si en repoussant le sentiment religieux, (...), l'espèce humaine ne se dépouille pas de tout ce qui constitue sa suprématie, abdiquant ainsi ses titres les plus beaux, s'écartant de sa destination véritable, se refermant dans une sphère qui n'est pas la sienne, et se condamnant à un abaissement qui est contre sa nature." (D.l.R., pp. XXII/XXIII). La réponse de Constant est déterminée: sans le sentiment religieux l'homme serait un animal rationnel mais il ne serait pas l'homme parce que "être l'homme" signifie "être un animal rationnel et moral en même temps". Il écrit: "Tous les systèmes se réduisent à deux. L'un nous assigne l'intérêt pour guide, et bien-être pour but. L'autre nous propose pour guide le sentiment intime, l'abnégation de nous-mêmes et la faculté du sacrifice. En adoptant le premier, vous ferez de l'homme le plus habile, le plus adroit, le plus sagace des animaux; mais vous le placerez en vain au sommet de cette hiérarchie matérielle: il n'en restera pas moins au-dessous du dernier échelon de toute hiérarchie morale." (D.l.R., pp XXXVIII/XXXIX). On ne peut pas réduire l'humanité à un égoïsme rationnel et séparer la rationalité et l'égoïsme de l'émotivité si on veut donner à l'homme la possibilité d'être non seulement intelligent mais aussi bon. Être bon (faire le bien) ça exige au mois deux fondements: la capacité de distinguer le bien du mal et la volonté du bien. (Je parle de la volonté du bien, pour éviter la notion de la bonne volonté). Ça exige alors la raison (la raison pratique selon Kant) non mois qu' une force qui pourrait pencher la volonté vers le bien. Constant voit cette force dans le sentiment religieux. Il apercevait dans ses manifestations réels le fonctionnement permanent de l' idée du sacrifice désintéressé et il juge que les réalisations de cette idée, plus ou moins exactes, ne soient pas possibles que par l'action de l'amour, le seul sentiment qui nous fait oublier nous-mêmes. Selon Constant le sentiment religieux: "est toujours d'accord avec la sympathie, la pitié,la justice, en un mot, avec toutes les vertus."(D.l.R., s. 65); et: "L'idée du sacrifice est inséparable de toute religion. L'on pourrait dire qu'elle est inséparable de toute affection vive et profonde. L'amour se complaît à immoler à l'être qu'il préfère tout ce que d'ailleurs il a de plus cher; il se complaît même, dans son exaltation raffinée, à se consacrer à l'objet aimé, par les souffrances les plus cruelles et les privations les plus pénibles." (D.l.R., p. 250). Nous voyons donc que pour Constant le sentiment religieux est une condition nécessaire d'un dépassement réel de l'ordre de la nature. Il faux dire clairement que ce n'est pas la condition unique. L'esprit humain en est aussi une. Mais savoir ce qui est bon, et faire le bien, ce sont deux choses différentes. Le sentiment représente ici la force causale.

b. L'axiologie. Une anthropologie antinaturaliste implique une axiologie antinaturaliste. Affirmant que l'homme a une concience des valeurs objectives on suppose que ces valeurs possèdent leur manière d'exister indépendente. Une axiologie naturaliste admet uniquement les valeurs utilitaires, qui par leur nature sont subjectives. Elles "existent" seulement grâce aux besoins et désires humains. Il est cértain quesi nous voulions déchiffrer l'axiologie constantienne, elle apparaîtrait antinaturaliste. Nous ne trouverons aucune theorie axiologique explicite ni dans De la


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religion..., ni dans Du polytheisme... . Nous devons néanmoins apercevoir que ces oeuvres sont une protestatation contre l'utilitarisme et sa théorie naturaliste de la moralité. L'histoire du sentiment religieux y présentée est aussi l'histoire d'une bataille entre le sentiment religieux - un symbole d'un nouveau regard romantique de l'homme, et la raison et l'égoisme - les symboles d'un regard propre au siècle des lumières. Sans doute, la passion avec laquelle Constant défend le sentiment, était causée par le zèle pour l'idée naîssante. Mais elle est aussi effectuée-par la conviction plus rationnelle, étant un résultat de son principe méthaphysique antinaturaliste. En défendant le sentiment religieux, il défend l'existence des valeures objectives. Dans la bataille mentionnée ci-dessus, la raison assez fréquemment prend le parti de l'égoïsme, mais une analyse entière du texte indique le fonctionnement plus cohérent du sentiment et de la raison, pendant que l'égoïsme reste toujours son ennemi mortel. Constant décrit les luttes de ces trois éléments dans le processus du développement des formes religieuses. Le processus, pas linéaire et pas simple, est un effort terrible de perfectionnement. (Je le nomme "terrible" parce que il est, pour Constant, une série des luttes impitoyables entre les idées, les intérêts et les émotions; des luttes réelles, c'est-à-dire, des luttes entre les hommes concrets, des luttes qui ont besoin des vaincus et des vainqueurs, qui ontbesoin de temps en temps des victimes sanglantes). On ne peut pas douter que selon Constant, le processus du perfectionnement est effectué par l'effort commun du sentiment et d'esprit. Je vais évoquer un assez long fragment du texte: "Une lutte s'élève, non-seulement entre la religion établie et l'intelligence qu'elle blesse, mais entre cette religion et le sentiment qu'elle ne satisfait plus. Cette lutte amène la troisième époque, l'anéantissement de la forme rebelle, et de là, les crises d'incrédibilité complète, crises désordonnées et quelquefois terribles, mais inévitables, quand l'homme doit être délivré de ce qui ne lui serait désormais qu'une entrave. Ces crises sont toujours suivies d'une forme d'idées religieuses, mieux adaptée aux facultés de l'esprit humain, et la religion sort plus jeune, plus pure et plus belle de ses cendres." (D.l.R., p. 145). Il est certain que le processus du perfectionnement s'exécute au niveau de la conscience. L'homme se perfectionne en perfectionnant: son savoir (ses idées sur les objets), sa morale (ses idées sur les relations entre les sujets humains), et sa religion (ses idées sur les relations de l'homme avec l'être qui le dépasse). Le perfectionnement des toutes ces idées ne serait pas possible si l'homme n' était pas un être rationnel, s'il n'aurait pas la concience des valeurs objectives: des valeurs cognitives, des valeurs ethiques et des valeurs religieuses. Mais il ne serait pas possible non plus sans une force qui pousse l'homme vers ces valeurs et, chez Constant, il faut voir cette force dans le sentiment religieux. Si nous suivons les réflexions de Constant sur l'histoire du perfectionnement de l'homme nous sommes frappés d'une triste pensée que les momentes des triomphes communs du sentiment religieux et de la raison sont rares et brefs, et les époques du règne de l'égoïsme qui dirige tous les effors humains vers les valeurs utilitaires, sont longues et fréquentes. Cette pensée est adéquate à une thèse, qui semble vraie et importante. Elle dit qu'une influence des valeurs utilitaires sur les actions des hommes est plus forte que l'influence des valeurs objectives. Les valeurs utilitaires agitent avec la force impétueuse éloignant de notre champ de vue les valeurs objectives. Les valeurs objectives cependant, bien qu'elles existent indépendemment d'une autre existence quelconque, aparaissent au monde sensible (naturel) seulement par leur influence sur les actions humaines (v. B. Wolniewicz; op.cit.; pp. 97/98). S'il n'y a pas cette influence, elles disparaissent et on peut penser qu'elles n'existent pas et on peut croire aussi que l'homme n'est pas capable de dépasser la nature ni vers la vérité que l'on pense toujours relative, ni vers le bien que l'on pense toujours subjectif, ni vers la sainteté qui n'est qu'une hallucination des personnalités mal accommodés.


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Dans De la religion... et dans Du polythéisme... on trouve les descriptions suggestives des époques où le sentiment religieux est aussi faible et l'esprit aussi dépravé que presque tous les hommes vivent contre leur nature sublime. Seulement peu d'entre eux agissent sous la pression impliquée par la conscience des valeurs objectives. L'optimisme constantien quant à la nature humaine doit être alors modéré. Jean Baelen a écrit avec justesse en parlant de la philosophie générale de Constant qu'elle est: "philosophie optimiste d'un tempérament pessimiste", et que: "Constant est convaincu de cette perfectibilité humaine qui fut chère aux Encyclopédistes et qui formait le fonds de pensée de l'ouvrage de Mme de Staël: De la littérature; mais il sait que le pacifisme, pas plus que le libéralisme ne sont dans les prédispositions naturelles de l'homme. Ils sont le fruit de la civilisation, du progrès. Le despotisme et l'esprit de conquête représentent des manifestations arriérées et virtuellement condamnées, quoique leurs possibilités demeurent grandes. Si le pire n'est pas toujours sûr, il est au moins probable." (J. Baelen; Benjamin Constant et Napoléon; Paris,1965; pp.138/139). Je voudrais souligner ce "tempérament pessimiste" de la philosophie constantienne. Je pense qu'il a une grande importance pour la pensée sociale et politique de Constant. De cette méfiance de Constant à l'egard de la nature humaine résulte p. ex. sa préférance des transformations évolutives aux transformations révolutionnaires. Il choisi alors le modèle anglais des transformations sociales, (le modèle proposé par Locke et Jefferson), dans lequel les changements, limités et purement politiques, sont un couronnement d'un long processus historique. Constant n'est pas non plus d'accord avec Rousseau et son idée de l'égalité qui s'associe avec l'idée du socialisme et de la volonté du peuple. Il préfère l'idée de la liberté; la liberté qui: "se nourrit de sacrifices"; qui "veut toujours des citoyens, quelquefois des héros" (D.l.R., p.XLIV). Pour Constant la liberté n'est pas toutefois une valeur objective. Elle n'est pas non plus une valeur utilitaire. Constant conçoit la liberté comme une condition importante (peut-être nécessaire) mais réelle (c'est-à-dire que l'on peut en parler seulement au niveau empirique) de la réalisation des valeurs objectives. La liberté n'est une valeur qu'à l'egard des valeurs objectives. Je propose alors d'admettre qu'elle est chez Constant une valeur fondamentale (La vie p. ex. serait aussi une valeur fondamentale). De cette manière, la liberté doit être gardée en conformité avec une lumière commune d'une société, mais elle ne doit pas se transformer dans un être idéal. On ne peut pas postuler la liberté absolue comme principe général du procèssus de changement d'une réalité humaine, comme p. ex. on peut postuler la vérité absolue comme principe général du développement de la connaissance humaine. Dans le "tempérament pessimiste" de Constant je trouve une sorte de la modération rationnelle qui serait nécessaire dans les considerations actuelles sur l'homme et sur les conditions de son existence individuelle et sociale.

Annexe Benjamin Constant est né à Lausanne en 1767 et mort à Paris en 1830; l'homme politique, le publiciste, l'écrivain, l'un des pères du libéralisme moderne. Sa jeunesse était voyageuse, errante parfois, influencée par les rencontres et les lectures faites en Allemagne, en Angleterre, en France et en Suisse. Trois grandes aventures ont rempli sa vie pour l'essentiel. L'une, sentimentale et intellectuelle, se joua pendant une vingtaine d'années: c'est la relation avec Madame de Staël; la deuxième, publique et active, devait l'entraîner sur la route accidentée de l'engagement politique, depuis le Directoire jusqu'à la Monarchie de Juillet; dans la troisième enfin, plus intime, celle de l'écriture, il trouvait refuge en tous temps et toutes circonstances. L'oeuvre de Benjamin Constant est vaste, très diverse et primordiale sous tous ses aspects. Ses textes littéraires {tels Adolphe, Ma vie, Cécile ou les Journaux intimes) sont autant d'étapes majeures dans l'histoire du roman et de l'autobiographie. Ses nombreux essais et ouvrages politiques (dont les Principes de politique de 1806 donnent une synthèse) révèlent une pensée


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forte et vigoureuse, centrée sur le principe de la liberté de l'homme dans les sociétés organisées et sur les fondements de la démocratie parlementaire moderne. Mais Constant est aussi l'auteur d'un oeuvre mal connu, d'un oeuvre sur la religion, qui présente une réflection historique, philosophique et critique sur la question des formes que les sociétés ont offertes ou imposées à cette composante anthropologique, essentielle pour Constant: le sentiment religieux. Constant conçoit l'idée d'une histoire du polythéisme dès 1785, mais il a travaillè pendant plus de quarante ans à son ouvrage, dont le titre général était De la religion, considérée dans sa source, ses formes et ses développements. Le premier volume parut à Paris (chez Bossange) en 1824 (la deuxième édition en 1826). Les tomes 2 et 3 paraissent (chez Béchet) en 1825 et en 1827. Les deux derniers volumes, auxquels Constant a mis la dernière main, sortent des presses après sa mort, (chez Pichon-Didier) en 1831. Un fragment posthume, entièrement redigè sauf le dernier chapitre, Du polythéisme romain, considéré dans ses rapports avec la philosophie grecque et la religion chrétienne, est publié en 1833 (éd. J. Matter, 2 vol., Béchet). Depuis vingt dernières années on peut parler de la renaissance de la pensée constantienne. En 1979 à Lausanne ont été fondés l'Association Benjamin Constant (la continuation d'une première société des amis de l'auteur) et l'Institut Benjamin Constant de l'Université de Lausanne. Le nombre d'éditions de textes de Constant et sur Constant augmente et une diversification des titres s'est amorcée. Les Oeuvres complètes de Benjamin Constant (une cinquantaine de volumes prévus) sont en cours de publication chez Max Niemeyer Verlag à Tübingen. * Le texte ici présenté est le développement de la communication prononcée à l'occasion du VI-e Colloque de Coppet organisé par la Société des Etudes Staëlienne (Paris) et L'Association Benjamin Constant (Lausanne) (Liège, 1-11-12 juillet 1997). Une première version a était publiée dans Le groupe de Coppet et le monde moderne. Conception-Images-Débats. Actes du VI-e Colloque de -Coppet..., Bibliothèque de la Faculté de Philosophie et Lettre de l'Université de Liège, Liège 1998.

** Uniwersytet Gdañski Instytut Filozofii i Socjologii ul. Bielañska 5 80-851 Gdañsk Pologne

----Sabina Kruszyñska (1955), est professeur adjoint à l'Institut de Philosophie et de Sociologie a l'Université de Gdánsk (licence en mathématiques, doctorat en philosophie). Auteur des textes sur le structuralisme, sur le postmodern:sme et sur la philosophie de Benjamin Constant (livre: Benjamin Constant philosophe de la religion. La religion - la morale - la liberté, Gdánsk 2000). Membre de l'Association Benjamin Constant à Lausanne et de la Société Philosophique Polonaise. -----


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[Episteme ritiene al solito di fare cosa utile ai lettori presentando un intero numero della rivista on-line Liberalia, dedicato all'autore oggetto d'attenzione nel precedente saggio.]

Liberalia libera lingua loquemur ludis liberalibus

Periodico liberale di cultura, politica ed editoria - Dicembre 2001, n.18 ["liberalia" <liberalia@tiscalinet.it>, "liberalia" <liberalia@libero.it>] La libertà come orizzonte morale Benjamin Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, a cura di Luca Arnaudo, pp.60+XXXVI, Liberilibri, Macerata, 2001, lire 20.000 (il volume può essere ordinato direttamente all'editore: ama@liberilibri.it). Personaggio storico dalla vita leggendaria, Benjamin Constant è stato, parola di Giovanni Sartori, "il più importante pensatore politico della sua epoca" - ed è una benedizione che Liberilibri, elegantissimo editore di Macerata, ristampi in un'edizione preziosa il suo La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, testo di un discorso pronunciato all'ateneo di Parigi nel 1819, che è un piccolo grande classico del pensiero liberale. Nato a Losanna il 25 ottobre del 1767, discendente degli ugonotti che avevano abbandonato la Francia dopo la revoca dell'editto di Nantes, Constant ha una formazione scostante ed errabonda - caratterizzata dai lunghi soggiorni presso l'università di Erlangen prima e quella di Edimburgo poi. Quest'ultima, allora, era uno dei centri più floridi del pensiero Whig, alma mater di Adam Smith e di Adam Ferguson. Sul giovane Benjamin, la vita parigina e il gioco d'azzardo esercitano un fascino magnetico: bazzica i consessi intellettual-salottieri da prima dello scoppio della rivoluzione, a vent'anni appena. Ma, curiosamente, è solo il 18 ottobre 1794, in Inghilterra, che, auspice la cugina di lei Costance Cazenove d'Arlens, s'imbatte nella regina dei salotti, Madame de Staël. "Napoleone è in guerra contro quattro potenze: l'Inghilterra, la Russia, l'Austria e Madame de Staël": questo si dirà, di lì a poco, di questa donna straordinaria. Figlia di Jacques Necker, banchiere ginevrino e ministro di Luigi XVI, nata a Parigi un anno prima di Constant e morta nel 1817 (le sopravvivrà per tredici anni), Anne-Louise-Germaine Necker, dopo aver rifiutato una proposta di matrimonio di William Pitt, convolerà a nozze, senza amarlo mai, con il barone de Staël-Holstein, ambasciatore di Svezia a Parigi (se ne separerà definitivamente solo nel 1802). A Constant che la corteggia, dapprima oppone resistenza - salvo andarci a vivere assieme, all'inizio del 1795. I due torneranno a Parigi nel mese di maggio, quando Madame de Staël riaprirà il suo salotto in rue du Bac, senz'altro il più eclettico e rinomato di quei tempi. Da questa relazione turbolenta, fatta di alti e bassi e liti furibonde, movimentata da frequenti interludi amorosi con altri amanti tanto da parte di lui che da parte di lei, nascerà Albertine, terza "figlia" del barone svedese, cornuto e contento. La liaison fra la de Staël e Constant dura fino al 1811, attraversa gli anni dell'ostracismo contro di lei (messa alla porta da Napoleone nel 1804) e dell'esilio volontario di lui (espulso dal Tribunato, di cui faceva parte, nel 1802), sino al matrimonio di Constant con Charlotte de Hardenberg nel 1806, e la nascita di Coppet, il ritiro intellettuale svizzero in cui brillano gli


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ultimi Lumi, e germogliano i primi fiori del romanticismo. A dispetto di questo prendersi e lasciarsi, il sodalizio fra Benjamin Constant e Madame de Staël è fra i più floridi sul piano intellettuale: la frequentazione con quest'autentico motore della vita intellettuale dell'Europa di quegli anni, con questa cosmopolita levatrice d'intelligenze, con questa intrigante libertaria si riverbera senz'ombra di dubbio negli scritti di Constant. A cominciare da quel De l'esprit de conquête et de l'usurpation che lo consacra nel 1813. Nel 1830, gravamente ammalato, Constant partecipa ai moti rivoluzionari - e si spegne dopo aver assistito all'affermarsi della monarchia di luglio. In questo libretto a cura di Luca Arnaudo, oltre al discorso che gli dà titolo, vengono riproposte la Nota sulla sovranità del popolo e i suoi limiti (1818) e il saggio La letteratura nei suoi rapporti con la libertà. In tutto, fa una lettura veloce, sessanta pagine appena, ma corroborante, viva. C'è la grandezza di un classico, e la lievità serena della pamphlettistica migliore. Diceva Constant di sè: "ho sempre difeso il medesimo principio: libertà in tutto; e per libertà intendo il trionfo dell'individualità, tanto sull'autorità che dovrebbe governare con il dispotismo, quanto sulle masse che reclamano il diritto di asservire la minoranza alla maggioranza. Il dispotismo non ha alcun diritto sull'opinione personale e ciò che è individuale non dovrebbe essere sottomesso al potere sociale". Ci sono, in queste parole, un'immensa forza visionaria, un'incredibile capacità anticipatrice di quelle che saranno problematiche e sfide del liberalismo di domani: il matrimonio a termine con la democrazia, e il dover fronteggiare l'assalto impietoso del principio di maggioranza anzitutto. Come ha scritto Ralph Raico, Constant è uno di quei personaggi che testimoniano come il liberalismo, pur non avendo avuto la Francia come terra d'elezione, è incredibilmente debitore alla tradizione francese. Ma, a differenza di intellettuali come Mercier de la Rivière e Du Pont de Nemours, o del suo contemporaneo britannico Jeremy Bentham, Constant non è un liberale d'ispirazione utilitarista. "E' dunque così vero che la felicità, di qualunque genere possa essere, è il solo scopo della specie umana?", si chiede in un dialogo ideale con i portabandiera dell'utilitarismo. La risposta è no: "Signori, io chiamo a testimone questa parte migliore della nostra natura, la nobile inquietudine che ci perseguita e tormenta, l'ardore di estendere le nostre conoscenze e sviluppare le nostre facoltà: non alla felicità soltanto, ma anche alla ricerca della perfezione il nostro destino ci chiama; e la libertà politica è il più potente ed energico strumento di perfezionamento che il cielo ci abbia concesso". Come sottolinea ancora Raico, Constant smentisce inoltre il luogo comune del liberale economista, pur essendo un ardente alfiere della libertà di mercato. Le sue preoccupazioni oltrepassano le leggi dell'economia, per puntare al cuore del problema della libertà. Che è una questione morale. Per lo stesso motivo, Constant rigetterà la presunzione fatale dei liberali immaginari, apologeti a tutti i costi della Rivoluzione Francese (di cui, pure, ricorda il carattere emancipatore) - e condanna la pretesa di un laicismo a tutti i costi, di un anticlericalismo per tutte le stagioni, così tipico di certo illuminismo. Nelle sue Réflexions sur les Constitutions et les Garanties (1815), Constant elogia il carattere positivo del localismo, identificando nel senso di realtà verso la comunità e la famiglia un importante arma contro l'avanzare del dirigismo. La devozione alla propria terra più che alla bandiera "contiene i germi di una resistenza che l'autorità politica soffre, e che essa cerca in tutti i modi di sradicare". Allo stesso modo, Constant prefigura i pericoli dello "Stato laico", che è solo un'altra variante dello Stato etico, che fa "della religione uno strumento contro la libertà" - e il pensiero corre all'immaginifica Chiesa della Ragione inaugurata da Robespierre. Ma quale è la differenza fra libertà degli antichi e libertà dei moderni per come ce l'illustra Constant in questo straordinario discorso? La libertà degli antichi, che trovava forma nella democrazia diretta ateniese, non era il paradiso che ci disegnano: la guerra era l'attività primaria delle società, lo schiavismo il suo necessario corollario. La libertà dei moderni trae la


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sua forza in un'altra attività: il commercio. "Il commercio ispira agli uomini un vivo amore per l'indipendenza individuale: provvede ai loro bisogni, soddisfa i loro desideri, e questo senza l'intervento dell'autorità". E' l'esperienza del mercato a creare una sorta di anticorpo naturale al virus del dispotismo, perché "ogniqualvolta i governi pretendono di farsi i nostri affari, li fanno peggio e più dispendiosamente di noi" (e potrebbe essere quasi una legge della storia). Per questo, e per gli interminabili vari impegni che la vita moderna porta con sé, nonché per l'estensione enormemente superiore degli Stati, Constant sostiene che la libertà nostra, a differenza di quella degli antichi, non è "partecipazione" nel dominio dell'uomo sull'uomo, non risiede nella presenza costante negli ingranaggi del potere collettivo. No: "la nostra libertà sta nel tranquillo godimento dell'indipendenza individuale". E il mercato contribuisce a rendere l'uomo sempre meno schiavo della politica: "l'esistenza individuale è meno inglobata nell'esistenza politica. Gli uomini trasferiscono lontano i propri tesori, portano con sé tutti i piaceri della vita privata; il commercio ha riavvicinato le nazioni e ha dato loro costumi e abitudini praticamente paralleli; i capi di Stato possono essere nemici, ma i popoli sono compatrioti". Difficile trovare formulazione più cristallina e convincente dell'ideale di pace e libertà, che unisce Constant a un altro grande teorico francese, Frédéric Bastiat. Ma è anche impossibile imbattersi in una citazione più profetica, sul mondo nuovo della globalizzazione: paradisi fiscali inclusi. Constant previde non solo le gioie ma anche i dolori con cui oggi dobbiamo fare i conti: nella Nota sulla sovranità , mette in guardia dalla superstizione politica rousseauiana, denunciando il mito del potere al popolo e, in ultima istanza, la frode buonista della democrazia. Che "si rende colpevole allo stesso modo di un despota, che fonda il suo diritto sulla spada sterminatrice: la società non può eccedere nelle sue competenze senza essere usurpatrice, la maggioranza non può farlo senza essere faziosa". Il Contratto sociale di Rousseau è, per Constant, "il più terribile strumento d'aiuto di tutti i generi di dispotismo". Perché "il consenso della maggioranza non è per nulla sufficiente a legittimare i suoi atti: e quando una qualsiasi autorità commette atti criminali, poco importa da quale fonte essa dichiari di derivare; poco importa che si chiami individuo o nazione, perché sarà l'intera nazione, meno il cittadino che essa opprime, a non essere più legittima". Giustizia, legittimità, libertà, individuo: sono queste le stelle polari del liberalismo di Constant. Una lezione che certi liberali alle vongole di oggi farebbero bene a ripassare. (Alberto Mingardi) (recensione uscita su Il Nuovo, in data 17 settembre 2001)

Benjamin CONSTANT - Detail, in Nos Anciens et leurs Oeuvres, 1916 Centre d'Iconographie genevoise, coll. BPU

[Da: http://un2sg4.unige.ch/athena/html/swissaut.html]


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Il linguaggio della matematica (Umberto Bartocci - Rocco Vittorio Macrì) "E hai tu mai pensato che l'essenza della musica non è nei suoni?" domandò il dottor mistico. "Essa è nel silenzio che precede i suoni e nel silenzio che li segue. Il ritmo appare e vive in questi intervalli di silenzio. Ogni suono e ogni accordo svegliano nel silenzio che li precede e che li segue una voce che non può essere udita se non dal nostro spirito. Il ritmo è il cuore della musica, ma i suoi battiti non sono uditi se non durante la pausa dei suoni." (Gabriele d'Annunzio, Il Fuoco)

1 - Dalla matematica retorica alla matematica simbolica Quando si pensa oggi ad un libro di matematica si immagina un testo che si differenzia da tutti gli altri per almeno due caratteristiche. Il contenuto, naturalmente, visto che non ci si aspetta ad esempio che esso tratti dei problemi dell'integrazione degli immigrati, o della guerra del Peloponneso; ma anche la forma, dal momento che le sue pagine vengono concepite piene più di formule, di espressioni simboliche, che non di parole appartenenti al linguaggio ordinario. Il significato nascosto in quei fogli resterà sempre quindi incomprensibile, anche in prima istanza, a meno che non si sia dei "matematici", ovvero delle persone abituate a decrittare quel codice cifrato, ad estrarne un senso. Un libro per iniziati, dunque, o se si preferisce usare un termine meno esotico, per esperti, che sono diventati tali dopo un lungo speciale addestramento. Se le considerazioni precedenti hanno un certo fondamento, che vale del resto in qualche misura per tutti i testi specialistici, in realtà la situazione non è stata sempre questa. Ferma restando la discriminante sui contenuti, è senz'altro più difficile comprendere una pagina di un moderno libro di matematica che non diciamo una degli Elementi di Euclide1. Come dire che la simbolizzazione, senza la quale appare oggi impossibile esprimere qualunque fenomeno matematico, non è sempre stata caratteristica precipua di questa disciplina. Il passaggio da una matematica retorica ad una simbolica è il punto di arrivo di un lungo processo di trasformazione, che ha consentito a questa particolare branca della conoscenza di fare gli straordinari progressi che sono a tutti ben noti. La ragione di fondo di questo successo consiste probabilmente nel fatto che il nostro cervello appare più capace di manipolare automaticamente delle espressioni, che non di concepire lunghe catene dimostrative, quali quelle che ci venivano fatte imparare - quasi a memoria - nei primi anni del liceo, quando si trattava dei criteri di uguaglianza dei triangoli, o di qualche altro teorema riguardante la cosiddetta geometria euclidea (che assai meglio sarebbe dire intuitiva, per evitare una serie di equivoci che non è qui il caso di discutere2). Si può ritenere addirittura che una delle cause del declino della matematica antica, oltre a quelle di solito prese in considerazione (quali le invasioni barbariche e la conseguente crisi socio-economica della civiltà greco-romana, o la contrapposizione ideologica tra la cultura "pagana" ed il cristianesimo, dopo l'editto di Costantino), sia costituita proprio da questo mancato passaggio: come dire che quella matematica aveva ormai raggiunto il massimo possibile consentito dai mezzi che impiegava, e che più di così non era possibile fare, d'onde l'inarrestabile decadenza. Si può aggiungere che ancora oggi esistono delle "verità" matematiche riguardanti ad esempio la geometria che è agevole raggiungere per via algebrica (analitica), ma che resistono ad ogni tentativo di dimostrazione per via geometrica (o, come si dice anche, sintetica). Naturalmente, una dimostrazione conseguita per via analitica ci garantisce


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senz'altro della validità di una affermazione, ma spesso non ci dà informazioni adeguate sul suo profondo "perché", ed è questa circostanza che spinge spesso i geometri a cercare anche dimostrazioni sintetiche quando pure già siano in possesso di dimostrazioni analitiche, ma, come dicevamo, non sempre con successo. Scontati quindi tutti gli apprezzamenti trionfalistici relativi a tale situazione di fatto, preferiamo piuttosto occuparci in queste poche pagine di alcuni degli aspetti più in ombra, e quindi anche più pericolosi, dell'attuale assetto della matematica, e del ruolo privilegiato che essa riveste nell'attuale complesso panorama delle scienze.

2 - La matematica e l'intuizione Il primo aspetto paradossale dell'uso sistematico di un linguaggio iniziatico nella matematica consiste nella circostanza che questa ha al contrario la (giusta) pretesa di essere una descrizione universale di alcuni fondamentali meccanismi di funzionamento dell'intelletto umano, che rischiano così di essere offuscati anziché chiariti. Su questa strada si muove Galileo3, quando cerca di spiegare la teoria delle proporzioni di Euclide (fondamentale per l'edificazione del comune concetto di misura), dopo aver ammesso sinceramente e modestamente di essere restato "involto con la mente nella [stessa] caligine" (la stessa dei suoi interlocutori) allorché si era messo a studiare il V Libro degli Elementi: "Per dare una difinizione delle suddette grandezze proporzionali [...] dovremmo prendere una delle loro passioni, ma però la più facile di tutte e quella per appunto che si stimi la più intelligibile anco dal volgo non introdotto nelle matematiche" (il corsivo è nostro). Si tratta qui non soltanto di quei meccanismi che riguardano la percezione dello spazio (Geometria-Continuo) e del tempo (Aritmetica-Discreto), che Kant eresse a forme trascendentali della ragione pura, ma anche della semplice capacità del ragionare, o meglio dell'esprimere con il linguaggio, allo scopo di comunicazione interpersonale, i frutti del proprio ragionamento, mettendo insieme catene sensate di proposizioni, e costruendone di nuove con sillogismi4. "E quantunque io qui sia per dire molte cose intorno alle figure e ai numeri, perché esempi tanto evidenti e tanto certi non si possono prendere da nessun'altra disciplina, chiunque tuttavia avrà attentamente considerato il mio intendimento, facilmente vedrà che qui niente ho pensato di meno che alla matematica comune, ma che espongo una cert'altra disciplina, di cui quelle cose sono involucro piuttosto che parti. Tale disciplina infatti deve contenere i primi rudimenti della ragione umana, e deve estendersi alle verità che si possono trar fuori da qualsiasi soggetto; e, a dirla apertamente, io son persuaso che essa sia più importante di ogni altra cognizione a noi data umanamente, essendo quella che è fonte di tutte le altre". Così Cartesio descriveva nelle sue Regulae ad directionem ingenii (Regola quarta) quella "logica primordiale", da lui definita "matematica universale", nascosta tra le pieghe (a mo' di "conoscenza tacita", per usare un'espressione ormai famosa di Michael Polanyi) di qualunque formula o discorso scientifico-filosofico5. Una matematica cioè che trascende come "metamatematica" quella usuale, della quale quest'ultima, impregnata della prima, assume o assorbe i contorni semantici. Ogni sapienza, per quanto antica, continua un po' più avanti il filosofo francese, non può farne a meno, essa è come l'anima per il corpo: "Ma pensando in seguito donde pertanto venisse che un tempo i primi autori della filosofia non volessero ammettere allo studio della sapienza alcuno che non avesse conoscenze di matematica, quasi che questa disciplina sembrasse più facile di ogni altra e massimamente necessaria per ammaestrare e preparare la mente alla conquista di altre scienze più importanti, ben mi accorsi che essi conoscevano una specie di matematica molto diversa da quella comune ai nostri tempi". Ma c'è un altro pericolo insito nella prassi matematica moderna, oltre a quello di rischiare di oscurare con un linguaggio cifrato quanto, essendo ai primordi stessi del pensiero, dovrebbe viceversa essere reso chiarissimo: ed è di abbandonare addirittura, con le sue attuali


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presentazioni assiomatiche, e con l'enfasi posta sulla forma (le regole deduttive), anziché su una sostanza (il problema della cosiddetta natura degli enti matematici) quella rete semantica primordiale, o "mathesis divina", che è tutt'uno con l'intuizione, intesa nel doppio ruolo di sorgente dei concetti e di controllo del progresso della conoscenza 6. Allontanarsene troppo, in forza della convinzione che una fondazione intuitiva sa troppo di antropocentrismo 7, scava un baratro sempre più profondo tra semplici fruitori ed addetti ai lavori, i quali sono incappati del resto sempre più frequentemente a livello dei fondamenti, cercando nuove vie non più illuminate dall'intuizione primordiale, in quei "nonsense" della teoria degli insiemi che permettono di constatare candidamente a Paul Davies, a proposito del rapporto tra concetto di infinito e intuizione, che: "le proprietà degli insiemi (o collezioni) infiniti contraddicono sovente la nostra intuizione", e che "d'altra parte il senso comune può generare dei nonsense". Tuttavia, dal momento che l'uso e il funzionamento "operativo" di tali proprietà sono sembrati coerenti ed efficaci, la paura di questo mostro è stata esorcizzata, e i matematici possono "far uso dell'infinito senza paura, sempre che si attengano fedelmente alle regole, per strane che possano apparire"8. Lo stesso Hilbert, uno dei padri fondatori della matematica del XX secolo, ci rende edotti esplicitamente del perché sia necessario restare attaccati al livello formale del ragionamento matematico, nel timore di poter smarrire la via tra quei nonsense: "L'infinito [...] non si trova mai realizzato. Esso non è presente nella natura, né è ammissibile come fondamento del nostro pensiero razionale [...] L'infinito essendo proprio la negazione di uno stato che vige dovunque, è un'astrazione spaventosa eseguibile soltanto con l'uso consapevole o inconsapevole del metodo assiomatico"9. Una specie di ricettario dunque, una manipolazione di simboli formali come nel famoso esempio della "stanza cinese" di John Searle 10, senza criptotipi11, o semantica nascosta. L'edificio - o meglio, il castello - dell'infinito eretto da Cantor, quel "paradiso da cui nessuno potrà scacciarci" - come si espresse ancora David Hilbert12 - ha sollevato così il suo ponte levatoio, rimanendo inattaccabile da eventuali intrusi13. La logica aristotelica sembra totalmente abbattuta, così come tutti i tentativi fatti da miriadi di empiristi e razionalisti, per i quali l'infinito non è una realtà ma un ordine della ragione (ad es. David Hume, Treatise, I, IV), di cui Kant farà un'idea trascendentale, con le note antinomie (Prolegomeni). La matematica resta sommersa da un formalismo che dovrebbe salvarla dalle contraddizioni implicite - a parere di alcuni! - nel senso comune; da un funzionalismo che funge da arida linfa alle radici del moderno pensiero scientifico, nel suo rifiuto di ogni sorta di ontologia. Si pensi, per esempio, alla convenzionalità operativista delle strutture matematiche in riferimento allo spazio quadridimensionale relativistico, il famoso "spazio-tempo" di Einstein e Minkowski, in cui la variabile tempo, "t", figura col coefficiente immaginario "i", che non ha alcuna possibilità di un'interpretazione 'reale'. Di fronte a certe situazioni, è necessario tenere in mente che il successo non è sempre indice di verità oggettiva14, e che "un matematico può arrivare a manipolare degli oggetti che hanno un significato. Ma se non è pienamente cosciente del modo in cui, storicamente, questi oggetti sono stati introdotti, rischia facilmente di commettere degli errori" 15. Si aggiunga, a questo, che: "Quando una scienza si è saldamente costituita, gli specialisti di quella scienza dimenticano il passato del loro proprio sapere. Soggiacciono tutti ad una stessa illusione: pensano che la loro specialità sia esistita da sempre. Questa è un'illusione tipica e fondamentale per la quale Giambattista Vico ha anche coniato un nome. Si tratta della 'boria dei dotti ... i quali, ciò ch'essi sanno, vogliono che sia antico quanto il mondo' "16.

3 - La matematica e l'indagine del mondo naturale Veniamo adesso ad un altro importante aspetto del "linguaggio della matematica" che non si può passare in secondo piano, strettamente legato com'è al prestigio - nel senso moderno, e quindi pratico, del termine, e non già speculativo, come nella teoresi antica - che questa


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disciplina si è costruita negli ultimi secoli, da quando essa è stata individuata come strumento di elezione dell'indagine quantitativa sul mondo naturale, consentendoci di esercitare su di esso un dominio senza precedenti nella storia 17. Oggi non c'è corso di laurea che voglia fregiarsi dell'appellativo di "scientifico" in quale non abbia nei primi anni qualche insegnamento di matematica (anche solo finalizzato a fornire elementi di probabilità e statistica, o di informatica), come se un pur epidermico contatto con il freddo rigore di questa disciplina potesse distinguere quel corso di studi da quelli umanistici, e garantisse alla materia particolare di cui tratta il carattere oggettivo e prestigioso appunto della "scienza". Come dire, nell'ottica peculiare del nostro tema, che il ricorso ad un po' di simboli e di formule matematiche ha l'effetto di assicurare a chi ne fa uso una considerazione speciale, ed agli argomenti rafforzati dall'introduzione di quel linguaggio un maggiore fondamento di validità nei confronti di altri incapaci di un tale sfoggio. E si noti che i rischi di cui si parla non si incontrano soltanto nell'ambito delle indagini della fisica o delle altre scienze naturali: accade oggi ad esempio che sofisticati modelli matematici guidino il mondo dell'economia, laddove si può invece ragionevolmente supporre, con il noto economista Geminello Alvi, che la matematica in economia non sia a volte altro che "un espediente retorico per giustificare le scelte del potere". In verità, infatti, la matematica può essere assimilata al cappello di un prestigiatore, da cui non può uscire nulla che non vi sia stato inserito - ma di nascosto, lontano dagli occhi del pubblico - sin dall'inizio. Trovare un modello matematico che possa giustificare ordine o disordine, continuità o discontinuità, o quant'altro si desideri, non è impresa impossibile per un esperto, ma ecco che la semplice esibizione di quel modello anziché di un altro, in un regime di monopolio degli indirizzi economici e culturali, rischia di conferire all'idea che si vuole veicolare un'autorevolezza che deriva in realtà soltanto dalla veste in cui è espressa, e non dal suo contenuto. Strano che la saggezza popolare sappia bene che "l'abito non fa il monaco", ma che in questi casi non si accorga dell'attualità del vecchio adagio! Siffatta concezione ha naturalmente radici antiche, da quando dicevamo la matematica è stata considerata agli albori della rivoluzione scientifica l'unico elemento di oggettività e di certezza sui quali potesse contare l'essere umano nel suo difficile cammino sul sentiero di una conoscenza e di un progresso svincolati da ogni fondamento metafisico. Già Copernico, tra i primissimi esponenti della rivoluzione in parola, ebbe a sottolineare il carattere privilegiato della matematica, e dei matematici, con il celebre ammonimento: Mathemata mathematicis scribuntur, contenuto nelle prime pagine della sua opera fondamentale del 1543 18, con la quale iniziava il crollo della concezione aristotelico-tolemaica nella quale la cultura europea aveva fin allora inquadrato tutta la storia dell'uomo e del cosmo. Ma l'astronomo polacco era stato preceduto su questa strada addirittura da un Principe di Santa Romana Chiesa, quel Nicola Krebs - nativo di Cues, e noto appunto con l'appellativo di Cusano - che aveva enunciato il pensiero secondo il quale: Nihil certi habemus in nostra scientia nisi nostram mathematicam, facendo così piazza pulita, con poche parole, tanto di ogni riferimento ad una forma di "coscienza", quanto ad un'eventuale "rivelazione"19. Non c'è dubbio che proprio da qui prende origine la considerazione di cui la matematica gode ai nostri tempi, dall'essere cioè diventata indispensabile in ogni indagine naturale, considerata del resto quale l'unica investigazione possibile per l'essere umano. Agli inizi del '600 Galileo Galilei, considerato a ragione uno dei padri fondatori della fisica moderna, poteva riferirsi all'uso della matematica nella fisica con le seguenti parole: "La filosofia è scritta in questo grandissimo libro, che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua e conoscere i caratteri ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola". Né è un caso che una delle opere che più hanno impregnato di sé lo spirito di questi ultimi secoli si intitolasse appunto Philosophiae Naturalis Principia Mathematica. Con queste parole Isaac Newton limita il campo della sua indagine 'filosofica' (ma da allora anche quella


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di tutti gli altri che avessero condiviso la stessa valutazione) alla filosofia naturale, vale a dire alla fisica, mentre è curioso osservare che la specificazione finale sulla veste matematica dei suoi Principi viene evidenziata nel titolo di un'edizione olandese del libro (Amsterdam, 1723) con un carattere di formato molto più grande di quello usato per le altre tre parole del titolo20. Sembra difficile negare del resto che, dopo il successo della fisica newtoniana, il puro "involucro" matematico esercitò un fascino e un potere stordente mai avuti in precedenza: "La cultura occidentale è caratterizzata da una sorta di mito della matematica, dalla fede, forse dovuta a Pitagora, in una sua virtù esplicativa e quasi trascendente. A molte persone, descrivere in termini matematici una struttura sintattica o delle relazioni di parentela sembra già una 'spiegazione' sufficiente"21. Il peso autorevole che un linguaggio complesso e quasi iniziatico come quello della matematica possiede, provoca anche sugli esponenti della stessa comunità scientifica quasi una sorta di stato ipnotico, di arrendevolezza, o perlomeno di affievolimento della vigile "ragione cartesiana", con il rischio che in certe teorie fisiche di oggi sia la sola forma matematica che riveste la teoria ad essere ragione sufficiente di apprezzamento: "The habit has developed of assuming that a physical theory is necessarily sound if its mathematics is impeccable: the question of whether there is anything in nature corresponding to that impeccable mathematics is not regarded as a question, it is taken for granted"22. Per riprendere la bella immagine di Galileo dianzi citata, se è vero che la matematica sta alla ricerca fisica come una sorta di linguaggio con il quale esprimere le relazioni tra esperienza ed esperienza, non bisogna dimenticare però che un linguaggio: "is just as capable of expressing false ideas as true ones. The fact, therefore, that something can be expressed with rigorous mathematical exactitude tells you nothing at all about its truth, i.e. about its relation to nature, or to what we can experience"23. Ma tale rapporto di natura 'viziosa' tra fisica e matematica si chiude anche nell'altra direzione, fondando la persuasione in molti uomini di scienza che se una teoria fisica non è espressa in una sofisticata forma matematica allora non ha alcun valore. E' questa la ragione del giudizio oggi generalmente negativo sulla fisica di Cartesio, esposta ad esempio nei suoi Principia Philosophiae, a cui la dianzi menzionata opera di Newton fa riferimento implicito sin dal titolo, con i due qualificativi 'correttivi' la cui funzione è stata già analizzata. Oggi pochi rimpiangono la filosofia naturale di Cartesio, che potremmo dire qualitativa (ma non con allusione ad eventuali "qualità occulte", che anche Cartesio bandiva dalle proprie considerazioni!), in contrapposizione alla fisica quantitativa newtoniana, che fornisce ad esempio una descrizione matematica della gravitazione, ma nessuna possibile spiegazione delle sue cause. Essa ha origine nella materia?, o nello spazio circostante?, e come può trasmettersi da un corpo ad un altro? Newton si rendeva ben conto che la mancata risposta a tali interrogativi rendeva molto meno apprezzabile il suo studio, ma l'Hypotheses non fingo, con il quale esprimeva la propria rassegnazione per l'insuccesso seguito a molti infruttuosi tentativi, è stato assunto quasi a grido di esultanza ed a simbolo di fede epistemologica per tutti coloro che lo hanno seguito sulla stessa strada. "Descartes, con i suoi vortici e i suoi atomi uncinati, spiegava tutto e non calcolava nulla; Newton con la legge di gravitazione in 1/r2 calcolava tutto e non spiegava nulla [...] Non sono affatto convinto che il nostro intelletto possa accontentarsi di un universo retto da uno schema matematico coerente, privo però di contenuto intuitivo", con queste parole il matematico René Thom, il creatore della cosiddetta "teoria delle catastrofi", esprime tra i pochissimi la sua simpatia per il punto di vista cartesiano24, relegato oggi nel dimenticatoio delle idee sconfitte, ma unica risorsa per una fisica che voglia tornare ad essere comprensibile. E' bene chiarire a questo punto che la fisica moderna, dopo l'affermazione del punto di vista newtoniano, è stata per di più contaminata quasi irreversibilmente dalla "tensione al fantastico" e dall'"anti-intuitività" che Teoria della Relatività 25 e Meccanica Quantistica hanno inoculato nel suo corpo dall'inizio di questo secolo. E' diventata famosa ad esempio la risposta che dava Niels Bohr a quanti gli esponevano nuove idee sulla risoluzione dei tanti enigmi


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della teoria dei quanti: "La sua teoria, caro signore, è folle, ma non lo è abbastanza per essere vera"26. E' stata l'affermazione di queste teorie, in larga misura dovuta proprio all'influenza di matematici27, a dare risalto a parti della matematica che altrimenti sarebbero state perlomeno circondate da qualche perplessità sul loro effettivo valore. Arrivando a mettere in dubbio lo stesso concetto di causalità28, la fisica subliminalmente innescava la possibilità che la stessa logica fosse relativa, e chiamava quindi la matematica ad inventarne tante quante fossero necessarie funzionalmente!29 E si noti che l'enfasi posta sul "funziona" è quanto meno poco convincente, dal momento che la pura funzionalità, quando è fortemente collegata con operazionismo e convenzionalismo, perde la "universalità" che dovrebbe avere. Heisenberg stesso, uno dei padri fondatori della nuova meccanica del microcosmo, dove non ha senso parlare di relazioni di causa ed effetto, e la concezione stessa di realtà si disperde fino a diventare quasi un ectoplasma evanescente, rimane fermo sulla sua teoria "funzionale", pur sapendo che "qualsiasi teoria che cerchi di rispondere contemporaneamente alle esigenze della relatività speciale e della teoria dei quanta porterà a delle inconsistenze matematiche" 30. E ancora, si esorta: "La risposta pratica a questo problema è 'chiudi gli occhi e calcola'. La meccanica quantistica potrà anche essere difficile da interpretare, ma non si può negare che funzioni molto bene"31. In realtà, è più plausibile pensare invece che: "Un fisico di chiara fama come Boltzmann poteva ancora dire ingenuamente che 'la dimostrazione che le nostre teorie sono giuste è data dal fatto che le macchine da noi costruite secondo queste teorie funzionano'. Questo resta tuttora valido per le formule e i calcoli matematici con l'aiuto dei quali le macchine vengono costruite, ma per i concetti e i modelli di particelle elementari, onde, campi di forza ecc. questo non è più altrettanto certo"32.

4 - Conclusioni Giunti ormai al termine di questo breve discorso, val forse la pena di sottolineare esplicitamente che si è cercato di approfittare dell'occasione per segnalare alcune delle difficoltà (anche d'immagine) in cui si dibatte l'impresa scientifica verso la fine del secondo millennio, piuttosto che proporre il solito discorso apologetico ad usum delphini, votato di solito a cercare di persuadere il pubblico della convenienza di continuare a finanziare generosamente i vari programmi di ricerca teorici e sperimentali. Nel cercare di analizzare alcuni dei possibili rischi di ogni linguaggio iniziatico, e quindi di ogni organizzazione di casta, siamo stati ispirati da una volontà sincera di favorire un'ulteriore evoluzione dell'umana conoscenza, senza rifiutare a priori come infondate, o motivate da un irrazionalistico ed anacronistico senso di rivalsa nei confronti della supremazia della scienza, le attuali voci contro una possibile forma di arroganza e dittatura della categoria degli scienziati 33, i timori contro forme di tecnocrazia senza scrupoli, dimentiche di principi etici irrinunciabili. Si è spesso parlato di una sorta di "democrazia naturale" che reggerebbe le dinamiche della comunità scientifica, ma se ci sono dubbi che sarebbe più appropriato parlare di un'oligarchia (e il problema è se si tratti di un'oligarchia democratica o non piuttosto aristocratica), ecco che fugare tali dubbi diventa uno delle imprese più impegnative ed irrimandabili nelle quali dovrebbe impegnarsi la nostra cultura, pena davvero in caso contrario un possibile rifiuto della scienza da parte della società civile, ed il rifugio in poco auspicabili nuove tendenze queste sì irrazionalistiche. Per quanto riguarda il tema particolare di questo saggio, un altro rischio da evitare è che l'estrema complessità del linguaggio matematico, necessario per descrivere compiutamente le ricerche attuali, porti ad una sorta di fiducia nell'altro più che in noi stessi, ad una specie di delega in bianco ai cosiddetti "esperti", nella convinzione che quanto non si è capito sia dovuto ad un inadeguato e insufficiente numero di neuroni a nostra disposizione; una sorta di "epistemologia della rassegnazione"34 di cui sono preda non solo tanti studenti, ma anche tanti docenti35. Questo timore viene suggellato poi "dall'angusta specializzazione e dalla fede


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oscurantistica nella speciale abilità dell'esperto e nella sua conoscenza e autorità personale; fede, questa, che tanto bene si adatta alla nostra età 'postrazionalistica' e 'postcritica', orgogliosamente impegnata nella distruzione della filosofia razionalistica e dello stesso pensiero razionale"36. Sofisticati modelli matematici hanno assunto la guida ormai non solo nel momento della creazione di modelli fisici (si pensi ad esempio alle tanto propagandate quanto inverosimili teorie cosmologiche), ma addirittura durante il relativo processo ermeneutico, restituendo splendore a Pitagora e all'affermazione del suo discepolo Filolao: "Senza il numero non sarebbe possibile pensare né conoscere alcunché" 37. Nuove tecniche matematiche e algoritmi ipercomplessi vengono elaborati di continuo, e la loro estensione a macchia d'olio in tutte le moderne teorie scientifiche è irrefrenabile, ma forse non del tutto necessaria 38. "La geometria non euclidea e l'algebra non commutativa, che erano un tempo considerate pure esibizioni della mente e passatempi per i logici, si sono ora mostrate assolutamente necessarie per la descrizione dei fatti generali del mondo fisico"39. Riteniamo invece che nel momento in cui la ricerca scientifica si allontana di molto dalla sua fonte empirica ed intuitiva, diventando formalisticamente una continua prova di coerenza interna o di contenuti estetici, rimane veramente un mistero il contatto a priori, è il caso di dirlo, quasi in modo cieco, che le nostre teorie hanno, o dovrebbero avere, con la realtà; a volte, ci sembra, dando quasi l'impressione di una ridondanza di efficacia. Un ulteriore pericolo è poi che, nell'applicare "la matematica come forza razionalizzatrice diretta"40 durante la spiegazione dei fenomeni fisici, la si spinga lungo la linea che offre minor resistenza, portando ad utilizzare gli ultimi e più in voga modelli matematici - belli e pronti all'uso - senza preoccuparsi troppo se per far quadrare i conti sia infine necessario "arrotondare" ogni spigolo e frastagliatura di una realtà sperimentale apparentemente indomabile. Forse, tutto il problema sta nell'aver dimenticato l'esortazione di Misone, uno dei Sette Sapienti di oltre due millenni e mezzo fa, ricordato da Platone insieme a Talete: "Indaga le parole a partire dalle cose, e non le cose a partire dalle parole"

Note 1

Una delle vette più alte della matematica greca, composto intorno al 300 A.C. ad Alessandria, e rimasto nei secoli come esempio paradigmatico di cosa è, e come si fa, la matematica. 2

Se certamente la geometria intuitiva è quella che studiò Euclide, non è detto viceversa che il modo con cui il geometra alessandrino affrontò tale studio sia l'unico possibile, o il più conveniente (vedi anche la successiva Nota 3). 3

Nel Principio di giornata aggiunta (Giornata quinta) contenuto nella sua ultima opera: Discorsi e Dimostrazioni matematiche intorno a due nuove Scienze. Galileo mostra ancora una volta il suo coraggio e la sua indipendenza di pensiero, criticando addirittura Euclide (vedi anche la precedente Nota 2), dopo essersi già messo in rivalità con Aristotele e Tolomeo. 4

Oggi, con analogia informatica entrata a far parte del linguaggio comune, parleremmo del software di base, o sistema operativo, del cervello, la cui rete neuronale andrebbe allora intesa come semplice hardware. 5

E ad una "mathesis universalis" si riferisce anche qualche decennio più tardi Leibniz, che la descrive sostanzialmente dualista nel suo fondamento: "Mathesis universalis est scientia de quantitate in universum ... seu de ratione aestimandi". Qui quantità e misura si riferiscono ai due pilastri fondatori della matematica tradizionale, ovvero, come abbiamo già detto, Aritmetica e Geometria. 6

Il matematico G. Frege, che pure ne era stato agli inizi conquistato, si riferì a questa moderna tendenza della filosofia della matematica come al frutto di un Morbus mathematicorum recens.


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A questo proposito non va dimenticato né che l'anti-antropocentrismo sembra una delle caratteristiche costanti della scienza moderna, dalla Rivoluzione copernicana in poi, né che la 'ribellione' di alcuni influenti matematici tedeschi contro la fondazione intuitiva della matematica avviene in un periodo che non può non essere influenzato dalle concezioni darwiniste, con conseguente ulteriore diminuzione del ruolo dell'essere umano nella Weltanschauung del tempo. 8

P. Davies, Sull'orlo dell'infinito, tr. it. di C. Sborgi, Milano, 1994, pp. 64-65.

9

Cit. in T. Regge, Infinito. Viaggio ai limiti dell'universo, Milano, 1995, p. 296.

10

J. Searle, Menti, cervelli e programmi, tr. it. di G. Tonfoni, Milano, 1984, pp. 48-51; o anche, sempre dello stesso autore, Mente cervello intelligenza, Milano, 1988, pp. 24-28. 11

Un criptotipo è "un significato sommerso, sottile ed elusivo, che non corrisponde a nessuna parola reale, ma di cui pure l'analisi linguistica mostra l'importanza funzionale nella grammatica" (Benjamin Lee Whorf, "Analisi linguistica del pensiero nelle comunità primitive", in Linguaggio pensiero e realtà, tr. it. di F. Ciafaloni, Torino, 1970, p. 55). 12

Vedi ancora P. Davies, loc. cit.. Scrive R. Rucker a questo proposito (La mente e l'infinito. Scienza e filosofia dell'infinito, tr. it. di M. Negri, Padova, 1991, p. 9): "I matematici, comunque, esitavano ancora a rituffarsi nel mondo dell'infinito attuale, dove un insieme poteva avere la stessa grandezza di un sottoinsieme, una retta poteva avere tanti punti quanti una semiretta e un processo senza fine poteva essere trattato come un oggetto compiuto. Fu Georg Cantor che, verso la fine del XIX secolo, creò finalmente una teoria dell'infinito attuale che, con la sua chiara coerenza, demolì le obiezioni aristoteliche e scolastiche" (i corsivi sono nostri). 13

L'insieme di questi ultimi non è però un "insieme vuoto": si vedano ad es. le perplessità di A.W. Moore ("Una breve storia dell'infinito", in Le Scienze, n. 322, 1995): "Ma davvero la sua [di Cantor] teoria ha fugato tutti i dubbi sui rapporti fra matematica e l'infinito? Quasi tutti oggi pensano di sì, ma io sostengo che Cantor possa avere in realtà rafforzato quei dubbi" (p. 76). E fra le tante perplessità, molto significative restano quelle relative alla possibilità di poter concepire enti quali l'insieme di tutti gli insiemi (o Allklasse): "Dato il teorema di Cantor, questa collezione deve essere più piccola dell'insieme di tutti gli insiemi di insiemi. Ma, un momento! Gli insiemi di insiemi sono a loro volta insiemi: perciò ne consegue che l'insieme di tutti gli insiemi deve essere più piccolo di uno dei suoi stessi sottoinsiemi propri. Questo, però, è impossibile. Il tutto può avere le stesse dimensioni di una sua parte, ma non può essere più piccolo di una sua parte. Come potè Cantor sfuggire a questa trappola? Con meravigliosa ostinazione, negò l'esistenza di una cosa come l'insieme di tutti gli insiemi" (p. 79). La scappatoia che usò Cantor non è esente da critiche. In particolare il problema, ci sembra, è quello che una teoria siffatta possa dare l'impressione (e a molti la certezza!) di aver domato e pianificato tale concetto. "Nella sua ricerca della realtà matematica, il matematico, crea degli 'strumenti di pensiero'. Non bisogna confonderli con la realtà matematica in sé" (J.P. Changeux - A. Connes, Pensiero e materia, tr. it. di C. Milanesi, Torino, 1991, p. 20). Il fatto che la rappresentazione cantoriana possa essere applicata formalmente a tutta la gerarchia, non convalida il passaggio "ai singoli insiemi particolari che la formano" (Moore, loc. cit., p. 80). Il concetto di infinito rimane in realtà ben lontano dal poter essere afferrato dalla mente: "Pochi ammetterebbero che la definizione tecnica di insieme infinito esprima la loro comprensione intuitiva del concetto" (Ibidem). Il fatto è che nella pratica matematica corrente la teoria degli insiemi continua ad essere trattata in quello che si dice un "modo ingenuo", ignorando tutte le difficoltà legate all'introduzione di infinità non costruttivamente definite, e lasciando credere agli studenti di avere fatto ricorso, utilizzando il concetto di insieme, ad una intuizione assai più limitata, e semplice, che non quella della geometria intuitiva. Invece, come sostenne preveggentemente H. Weyl già nel 1917, "una parte essenziale di quest'edificio [l'Analisi] è costruita sulla sabbia", ed una delle cause essenziali di questa circostanza "va ricercata unicamente nell'arbitrio (commesso sin dall'inizio in matematica) di considerare un campo di possibilità costruttive come un aggregato chiuso di oggetti esistente in sé" (Il Continuo. Indagini critiche sui fondamenti dell'Analisi, Ed. Bibliopolis, Napoli, 1977, p. 26). Ci sembra più che saggia, quindi, l'esortazione alla cautela di Moore (loc cit., p. 80): "Ma vorrei esortare matematici e altri scienziati a usare maggiore cautela del solito quando valutano l'importanza dei risultati di Cantor per le


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concezioni tradizionali dell'infinito. Il vero infinito, sembra, rimane ancora molto al di là della nostra comprensione". 14

"Ma in virtù di un duplice mancamento", scrisse Berkeley, "voi arrivate, sebbene non alla scienza, alla verità" (Cit. in G. Giorello, "Il 'disgusto dell'infinito' e il rigore del calcolo", in G. Toraldo di Francia ed., L'infinito nella scienza, Roma, 1987, p. 294). 15

Changeux - Connes, loc. cit, p. 16. Aggiunge a questo proposito il premio Nobel per la fisica R.P. Feynman: "I matematici trattano solo della struttura del ragionamento, e non si interessano veramente di quello di cui stanno parlando. Non devono neppure sapere quello di cui stanno parlando, o, come essi dicono, se quello di cui parlano è vero" (La legge fisica, tr. it. di L. Radicati di Bròzolo, Torino, 1971, p. 61). M. Polanyi parla addirittura del "paradosso" di una matematica basata su un sistema di assiomi che non vengono considerati evidenti, nel momento che se anche logicamente coerenti a livello interno "non si può sapere se escludono qualsiasi contraddizione fra loro. Può sembrare completamente assurdo che si applichi una grandissima ingegnosità e un grandissimo impegno per provare i teoremi della logica o della matematica, mentre le premesse di queste inferenze vengono allegramente accettate, senza che ci siano ragioni sufficienti per farlo, in quanto sono 'formule asserite e non provate'. Questo fa pensare al caso di un clown che con grande solennità colloca al centro dell'arena di un circo due stipiti con una porta ben chiusa fra l'uno e l'altro, tira fuori un mazzo di chiavi e con grande impegno ne sceglie una che apre la porta, poi passa attraverso la porta e accuratamente la chiude dietro di sé, mentre tutta l'arena è aperta ai due lati degli stipiti e sarebbe stato possibile passare di là senza difficoltà. Un sistema deduttivo completamente assiomatizzato è come una porta accuratamente chiusa in mezzo a uno spazio vuoto infinito" (M. Polanyi, La conoscenza personale, tr. it. di E. Riverso, Milano, 1990, p. 328). 16

P. Rossi, "Tradizione matematica e tradizione sperimentale nella rivoluzione scientifica", in L. Conti ed., La matematizzazione dell'universo, Assisi, 1992, p. 4. 17

Vedi ad esempio K. Mendelssohn, La scienza e il dominio dell'Occidente, Editori Riuniti, Roma, 1981. 18

Si tratta della celebre De Revolutionibus Orbium Coelestium, pubblicata a Norimberga nello stesso anno della morte dello scienziato, il quale aveva rimandato il momento della pubblicazione della sua opera per diversi decenni, probabilmente allo scopo di evitare quelle critiche da cui non furono invece immuni prima Giordano Bruno e poi Galileo. 19

Per un approfondimento di quelli che furono i primi passi della scienza moderna, e delle speciali connotazioni ideologiche che li ispirarono, si rinvia il lettore interessato a: U.Bartocci, America: una rotta templare - Un'ipotesi sul ruolo delle società segrete nelle origini della scienza moderna, dalla scoperta dell'America alla Rivoluzione copernicana, Ed. Della Lisca, Milano, 1995. 20

Il libro di Newton fu pubblicato per la prima volta a Londra nel 1686, ma in quell'occasione non fu dato altrettanto rilievo tipografico al Mathematica del titolo. 21

Changeux-Connes, loc. cit., p.12.

22

H. Dingle, Science at the Crossroads, M. Brian & O'Keeffe, Londra, 1972, p. 30. E' curioso osservare a questo proposito che la circostanza in oggetto fu riconosciuta, e disapprovata, anche dallo stesso Einstein, che pure se ne era giovato largamente nel momento del successo della sua teoria della relatività: "Tu sei uno dei pochi teorici che non siano stati spogliati della loro intelligenza nativa dall'epidemia di matematica" (da una lettera di Einstein a P. Ehrenfest, cit. in F. Selleri, La causalità impossibile - L'interpretazione realistica della fisica dei quanti, Ed. Jaca Book, Milano, 1988, p. 25). 23

24

H. Dingle, loc. cit., stessa pagina.

In Parabole e Catastrofi - Intervista su Matematica Scienza Filosofia, a cura di G. Giorello e S. Morini, Ed, Il Saggiatore, Milano, 1980, p. 8.


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"L'aspetto esplicativo manca del tutto nel lavoro di Einstein" (P.W. Bridgman, La logica della fisica moderna, tr. it. di V. Somenzi, Torino, 1965, p. 163). 26

"Sotto questo profilo, il vero successo della teoria dei quanti consiste nell'essere stata costruita fuori, anzi, per lo più contro la ragione ordinaria. E' per questo che c'è qualcosa di 'folle' in tale teoria, qualcosa che va oltre la scienza stessa" (Guitton-Bogdanov-Bogdanov, Dio e la scienza, tr. it. di M. Spranzi, Milano, 1992, p. 88). "Il cammino percorso finora dalla teoria quantistica indica che la comprensione di quei tratti ancora non chiariti della fisica atomica si può raggiungere solo con una rinuncia all'intuitività" (W. Heisenberg, "Lo sviluppo della meccanica quantistica", in S. Boffi ed., Onde e particelle in armonia, Milano, 1991, p. 200). "La teoria ha due argomenti molto efficaci a suo favore e solo uno, di scarso rilievo, a sfavore. Innanzitutto, la teoria è sorprendentemente esatta rispetto a tutti i risultati sperimentali fino ad oggi ottenuti. In secondo luogo [...] si tratta di una teoria di straordinaria e profonda bellezza dal punto di vista matematico. L'unica cosa, che può essere detta contro di essa, è che, presa in assoluto, non ha alcun senso!" (R. Penrose, cit. da A. Zeilinger, "Problemi di interpretazione e ricerca di paradigmi in meccanica quantistica", in F. Selleri ed., Che cos'è la realtà, Milano, 1990, p. 123). "La relatività speciale fu la prima teoria completa ad introdurre cambiamenti radicali nei concetti basilari della fisica classica; ma quando lo sviluppo della meccanica quantistica raggiunse la completezza e si ottenne una comprensione dei cambiamenti ancora più radicali del pensiero fisico da essa provocati, molti scienziati ritennero giustamente che lo sviluppo della teoria della relatività rappresentasse il completamento della fisica classica" (A.A. Tyapkin, Relatività speciale, Milano, 1993, p. 10). 27

Vedi ad esempio L. Pyenson, The young Einstein - The advent of relativity, A. Hilger, Londra, 1985. Il Cap. V di questo testo è intitolato proprio: "Physics in the shadow of Mathematics [...]". 28

"Si era sempre ammesso nel passato, che i fenomeni del mondo fisico fossero governati dal principio di causalità. [...] La nuova teoria dei quanti, invece, ha portato un cambiamento profondo" (G. Castelfranchi, Fisica moderna atomica e nucleare, Milano, 1959, p. 447). "La fisica deve descrivere formalmente solo il complesso delle osservazioni. Anzi, i fatti reali possono essere meglio caratterizzati così: siccome gli esperimenti sono soggetti alle leggi della meccanica quantistica e quindi all'equazione (1), mediante la meccanica quantistica viene stabilita definitivamente la non validità del principio di causalità" (W. Heisenberg, "Il contenuto intuitivo della cinematica e della meccanica nella teoria quantistica", in S. Boffi ed., loc. cit.). 29

Non è raro vedere che una "catena logica" impossibile prima, diventa possibile dopo la scoperta di una nuovo campo matematico. Si veda ad esempio W.I. McLaughlin ("La risoluzione dei paradossi di Zenone sul moto", in Le Scienze, N. 317, 1994, pp. 60-66), che affronta addirittura la risoluzione dei paradossi di Zenone sul moto grazie a nuove "caratteristiche fondamentali" di "nuove teorie" matematiche: "Per molti secoli la logica di Zenone è rimasta pressoché intatta, e ciò dimostra la tenacia dei suoi argomenti" (p. 66). "Per due millenni e mezzo i paradossi di Zenone sono stati fonte di discussione e oggetto di analisi, ma solo oggi, grazie a una formulazione dell'analisi matematica che è stata sviluppata nell'ultimo decennio, è possibile risolverli" (p. 60). "Nuovi tipi di logica possono forse aiutarci a capire com'è che gli elettroni, [...] sembrano comportarsi illogicamente" (B.L. Whorf, "Le lingue e la logica", in loc. cit.). 30

W. Heisenberg, Fisica e filosofia, tr. it. di G. Gnoli, Milano, 1994, p. 191.

31

R. Gilmore, Alice nel paese dei quanti, tr. it. di P. D. Napolitani, Milano, 1996, p. 93.

32

K. von Fritz, Le origini della scienza in Grecia, tr. it. di M. Guani, Bologna, 1988, p. 133.

33

Si è levata in modo particolare tra queste quella del famoso e scomodo epistemologo "anarchico" P.K. Feyerabend, recentemente scomparso. 34

Per citare un'azzeccata espressione di F. Selleri, loc. cit., p. 13.


177 35

La lucidissima Viviane Forrester (nel suo inquietante L'orrore economico , Ponte alle Grazie Ed, Firenze, 1997) pone l'attenzione su una strategia consolidata da parte di chi tiene alla conservazione del proprio potere (di qualsiasi genere, anche quello di dettare mode culturali), che consiste nel creare le condizioni perché i probabili interlocutori non si sentano all'altezza di porre domande, chiedere spiegazioni, provino insomma vergogna:"Niente indebolisce, niente paralizza come la vergogna. E' un sentimento che altera sin dal profondo, lascia senza risorse, consente qualunque influenza dall'esterno, riduce chi la patisce a diventarne una preda: da qui l'interesse dei poteri a farvi ricorso e a imporla. E' la vergogna che permette di fare leggi senza incontrare opposizione, e di trasgredirle senza temere proteste". 36

K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, tr. it. di M. Trinchero, Torino, 1970, p. XXX.

37

Diels-Kranz, 44 B 4.

38

"La nuova bellezza [delle teorie einsteiniane] inagurava la concezione moderna di una realtà definita matematicamente"(M. Polanyi, loc. cit., p. 264). 39

P.A. Dirac (1931), cit. da D. Monti, Equazioni di Dirac, Ed. Boringhieri, Torino, 1996, p. 215. "Troppo spesso il fisico ha una mente 'geometrica'. Egli non è soddisfatto se non volge in equazione un fenomeno, che solo allora è reputato 'esatto'. Per lui tutto è riconducibile alla matematica e si compiace dell'astrazione delle formule. Finisce col dimenticare il concreto, col dimenticare la vera fisica, poiché, per definizione, l'aspetto fisico è il concreto, non la speculazione intellettuale astratta, risultante da trasformazioni matematiche. Vi è una deformazione professionale di cui sono vittime la maggior parte dei fisici. Per loro le formule sono diventate dogmi intoccabili che è sacrilegio discutere, cosicché bisogna rinunciare a convertirli: essi sono persi per la vera scienza, quella che sempre si fa umile, che resta consapevole della nostra immensa ignoranza, che sa serbare il dubbio. Loro, non dubitano di nulla, e sopratutto di se stessi!" (C.L. Kervran, Prove in Geologia e Fisica delle trasmutazioni a debole energia, Palermo, 1986). 40

F. Selleri, Fondamenti della fisica moderna, Milano, 1992, p. 62.

----[Una presentazione degli autori si trova nel numero 1 di Episteme] bartocci@dipmat.unipg.it, rvm2000@inwind.it


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La comunicazione cellulare (Carlo Cirotto) E' forse per pigrizia o, più banalmente, per superficialità che non ci soffermiamo quasi mai a considerare i nostri organismi per quello che in realtà sono: complesse comunità di esseri viventi di grandezza microscopica, le cellule, le cui singole vite formano l'ordito della nostra stessa vita e ne determinano le caratteristiche. A nostro discarico può esserci il fatto che di una simile comunità non è possibile formarsi una immagine adeguata neanche facendo leva su tutta la nostra fantasia. Le grandezze che la contraddistinguono, infatti, sono totalmente al di fuori dell'ambito della nostra esperienza. Si prenda, ad esempio, il numero delle cellule che costituiscono un uomo di media corporatura. Se ne stimano intorno ai 75.000 miliardi. Nessuno, di sicuro, sa farsene un'immagine, neanche fantastica. E che dire, poi, dell'ordine estremo che regna nella loro disposizione spaziale e nel loro funzionamento? Tutte occupano posizioni ben definite e svolgono funzioni distinte per gruppi di specializzazione. In questo modo si configurano gruppi organizzati di cellule, e gruppi di gruppi, tessuti ed organi. La complessità e l'ordine non regnano solo a livello cellulare e supracellulare ma anche a livello subcellulare. Consideriamo, come esempio, una qualsiasi cellula del nostro organismo. E' una struttura estremamente complessa fatta da grosse molecole organiche capaci di svolgere funzioni diversificate con raffinata precisione. A seconda del tipo cellulare considerato, ci imbatteremo in strutture specifiche che costituiscono il fondamento delle varie "specializzazioni" cellulari. Così, ad esempio, le cellule muscolari sono specializzate a contrarsi e possono farlo grazie alla presenza, al loro interno, di sofisticate organizzazioni di proteine specifiche, che sono molecole organiche gigantesche fabbricate ad hoc dalle stesse cellule. Le cellule nervose, dal canto loro, sono iper-specializzate a ricevere stimoli dal loro ambiente, a trasformarli in impulsi elettrici e chimici e a trasferirli ad altre cellule nervose per l'opportuna conduzione o elaborazione. Anche le cellule nervose possono offrire questi raffinati servizi all'organismo grazie alla loro iper-complessa struttura proteica interna. Strutture organizzate su molteplici livelli - molecole, cellule, tessuti, organi, apparati concorrono a strutturare l'organismo, il quale si presenta, quindi, come costituito da un insieme di parti ordinatamente interrelate capaci di svolgere funzioni differenti, di elevata qualità, a vantaggio della totalità dell'organismo stesso. L'organismo, però, non nasce adulto. Non nasce già in possesso di gruppi di cellule specializzate e pronte a svolgere la loro funzione. Al contrario, nasce come un'unica cellula (lo zigote), frutto della fusione dell'uovo e dello spermatozoo, che non può essere definita "specializzata" nel senso tradizionale del termine. E' solo una cellula con grandi potenzialità. Infatti è capace, dividendosi, di originare cellule-figlie che a poco a poco, durante lo sviluppo embrionale, assumeranno la necessaria specializzazione. Ci sono dei limiti a questa potenzialità, che sono poi quelli della stessa specie di appartenenza. Non ci si può aspettare che da uno zigote di topo si sviluppi un coniglio, né un cane. Potrà svilupparsi solo un topo con muscoli di topo e sistema nervoso di topo. Ma torniamo ancora al nostro esempio dei muscoli e dei nervi dell'adulto. Ogni unità specialistica di tali sistemi deve occupare il posto giusto al tempo giusto e, cosa ancora più importante, le unità debbono comportarsi in maniera organicamente efficace. Nel nostro corpo, ad esempio, è di fondamentale importanza che i muscoli (fasci di cellule capaci di contrarsi) ed i nervi (fasci di cellule nervose) si formino in posizioni anatomicamente corrette tali da permettere l'instaurarsi di relazioni efficaci. E' altrettanto fondamentale che, sia le cellule muscolari all'interno dei muscoli, sia le cellule nervose all'interno del sistema nervoso lavorino in maniera coordinata. Fallirebbe, ad esempio, un muscolo le cui cellule non si


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contraessero tutte in contemporanea. E parimenti non avremmo reazioni nervose regolari se ognuna delle cellule del sistema si attivasse a caso. L'ordine, a qualsiasi livello di complessità organizzativa lo si consideri, comporta informazione. Il che è come dire che per essere instaurato l'ordine a livello subcellulare, cellulare, di tessuto, di organo, di organismo e di specie sono necessari "messaggi" adeguati che inducano uno zigote di topo a diventare topo, cellule indifferenziate a differenziarsi adeguatamente e gruppi di cellule del tessuto ad interagire in modo funzionalmente corretto. Tutto quanto detto e gli esempi, banalissimi, forniti fanno intravvedere di quale fitto intrico di scambi di informazioni-messaggi abbiano bisogno le cellule per sopravvivere e per funzionare al meglio. Hanno bisogno di ricevere messaggi da altre cellule loro contemporanee, ma anche dalle loro cellule madri e dalle loro progenitrici. Debbono, inoltre, esse stesse inviare messaggi ad altre unità. Questo andirivieni di scambi di informazioni tra cellule presuppone l'esistenza di adeguati messaggi e della capacità delle cellule sia di emetterli che di recepirli. C'è, in poche parole, tra le cellule del nostro organismo, come in quello di tutti gli altri organismi, una efficiente ed instancabile comunicazione. I tipi di informazione che costituiscono l'oggetto di questa comunicazione sono tradizionalmente raggruppati in tre categorie: genetica, metabolica e nervosa. Senza il patrimonio originario di informazioni genetiche non saremmo uomini come siamo e senza i sistemi di comunicazione metabolica e nervosa, non potremmo vivere ed operare come facciamo.

Comunicazione genetica L'informazione genetica di un organismo consiste nell'esatta sequenza delle basi azotate (adenina, guanina, timina e citosina) contenute nelle molecole di DNA presenti in ogni sua cellula. Questa frase, dal sapore un po' sibillino per i non addetti ai lavori, può essere così tradotta in linguaggio più accessibile. Tutte le caratteristiche, strutturali e funzionali, di un organismo dipendono da adeguate proprietà delle sue cellule. Le cellule, dal canto loro, hanno la giusta struttura e possono svolgere le giuste funzioni grazie ad alcuni loro costituenti molecolari altamente specializzati: le proteine. A loro volta, le proteine funzionano correttamente se anche la loro struttura molecolare è corretta. Per fabbricare corrette molecole proteiche, la cellula si deve servire dell'informazione contenuta nel DNA, che la cellula stessa ha ricevuto in eredità, al momento della "nascita", dalla sua cellula-madre. Quest'ultima prima di dare origine a due cellule figlie, infatti, lo ha opportunamente duplicato ed ha lasciato in eredità ciascuna delle due copie identiche ad ognuna delle due cellule figlie. E' riduttivo, però, prendere in considerazione soltanto l'ultimo passaggio dell'informazione genetica e cioè quello dalla cellula madre alla cellula figlia. La cellula madre infatti l'ha ricevuta, a sua volta, dalla propria cellula madre e così via, indietro nel tempo, fino ai primordi della vita. L'informazione genetica viene quindi, in realtà, da molto lontano, giungendo fino a noi attraverso una lunghissima catena di comunicazioni "testamentarie" che ogni generazione cellulare ha lasciato a quella successiva. Ovviamente, durante questo processo inimmaginabilmente lungo (durato probabilmente 3 miliardi e 800 milioni di anni), le molecole di DNA sono andate incontro ai più svariati tipi di incidenti di percorso che hanno modificato la loro struttura e, di conseguenza, anche le informazioni in essa contenute. Di tali variazioni casuali alcune, la stragrande maggioranza, sono risultate incompatibili con la vita stessa della cellula e ne hanno determinato la morte; altre, molte di meno, non avendo prodotto cambiamenti significativi, sono risultate neutrali; altre ancora, di eccezionale rarità, hanno portato a miglioramenti della vita cellulare e sono entrate a far parte, a pieno titolo, del messaggio genetico lasciato in eredità da una popolazione all'altra. La storia della vita è la storia di una comunicazione che, nata con la vita stessa, si è dipanata con alterne vicende lungo i millenni facendo sì che venissero alla luce e si evolvessero innumerevoli generazioni cellulari tutte impegnate a tramandare la comunicazione stessa.


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Oltre a questa comunicazione "verticale" per la quale ogni cellula riceve la sua informazione genetica dalla cellula madre e, attraverso di essa, dalle cellule delle generazioni passate, esiste una comunicazione genetica "orizzontale" attraverso la quale le cellule scambiano la propria informazione genetica, per dar luogo ad una progenie di origine mista. Ci sono almeno quattro diversi meccanismi mediante i quali si realizza questo scambio di informazioni. Tre sono specifici dei batteri, le forme più elementari di vita cellulare. Uno, la riproduzione sessuale, è invece tipico delle forme superiori. In esse, la nuova vita nasce dalla fusione di due gameti, uno femminile (l'uovo) ed uno maschile (lo spermatozoo) che, in questo modo, mettono in comune il loro DNA. Il processo dà origine, così, ad una progenie il cui patrimonio di informazione genetica proviene dal rimescolamento del patrimonio materno e di quello paterno. Nella comunicazione genetica "orizzontale", la novità emerge ad ogni atto riproduttivo. Nella comunicazione genetica "verticale", invece, perché emerga una novità è necessario attendere un "incidente di percorso". Poiché è sull'emergere delle novità che si basa la plasticità delle specie e cioè la loro capacità ad evolversi, risulta evidente di quale portata rivoluzionaria sia stata l'apparizione, nel corso dell'evoluzione, della comunicazione genetica "orizzontale" accanto alla preesistente "verticale".

Comunicazione metabolica Al contrario della comunicazione genetica, la cui utile influenza si protrae per periodi di tempo molto più lunghi della vita delle singole cellule, la comunicazione metabolica interessa segmenti temporali molto più brevi. Il meccanismo di questa comunicazione consiste nel rilascio di messaggi molecolari da parte di cellule "emittenti", nel loro trasporto fino a tutti i distretti del corpo ad opera dei fluidi corporei circolanti (per esempio il sangue o la linfa) e nella loro ricezione da parte di cellulebersaglio capaci di riconoscerli. Gli ormoni, questo è il nome generico dato a tali molecole, sono un insieme molto vasto di tipi molecolari, che differiscono per grandezza, composizione e struttura a seconda del tipo di informazione trasportato. Il significato biologico della comunicazione metabolica è fondamentalmente di due tipi. Il primo consiste nel controllare l'ordinato sviluppo di animali e piante multicellulari. Questi organismi, come ho già sottolineato, sono comunità, altamente organizzate, di milioni o miliardi di cellule, tutte derivate da un'unica cellula (lo zigote) frutto della fusione di due gameti. Il loro numero va aumentando durante lo sviluppo grazie a successive divisioni cellulari. Anche le loro diverse specializzazioni compaiono in un ben definito ordine spaziotemporale. E' così che si formano le cellule muscolari, quelle ossee, quelle sanguigne, quelle nervose e molte altre. L'organismo, infatti, è il frutto della ordinata collaborazione di gruppi di cellule capaci di svolgere funzioni specialistiche a vantaggio dell'intera comunità. Non si potrebbe definire organismo un insieme di cellule uguali, che riescono, sì, a sopravvivere e a svolgere le fondamentali funzioni metaboliche ma risultano incapaci di compiere servizi specifici a favore della comunità. Così come non ce la sentiremmo di definire società un gruppo umano in cui tutti siano mediocremente capaci di fare tutto, e non esistano categorie di persone che si sono specializzate a compiere in maniera egregia lavori specifici. Buona parte del complesso lavorio della riproduzione e, soprattutto della specializzazione cellulare, che in termine tecnico si chiama differenziamento, è iniziato nel momento opportuno e diretto a buon fine dagli ormoni. Il secondo significato assunto dalla comunicazione metabolica riguarda le modifiche che l'organismo apporta al suo ambiente interno come reazione a stimoli eccessivi provenienti dall'ambiente circostante. Avviene con una certa frequenza che le caratteristiche chimico-fisiche dell'ambiente in cui l'organismo vive cambino così drasticamente da rendere difficile, se non impossibile, la stessa sopravvivenza dell'organismo. In questo caso scattano i meccanismi "omeostatici" che


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tendono a riportare le condizioni dell'ambiente interno dell'organismo entro valori più adatti alla vita. Un esempio farà comprendere, meglio di qualunque trattazione, il nocciolo della questione. E' noto che la temperatura ottimale per la vita e la corretta funzionalità delle cellule del nostro organismo si aggira intorno ai 37 °C. Ciò non vuol dire, però, che si sia costretti a passare la vita in una camera termostatata. Al contrario, avviene spesso, per i più svariati motivi, che la temperatura ambientale salga al di sopra, o scenda al di sotto, del valore ottimale, senza che ciò implichi necessariamente per noi malesseri particolari né tanto meno la morte. Ciò è dovuto all'attivazione di opportuni meccanismi omeostatici che riportano la temperatura interna dell'organismo a valori prossimi a quelli ideali. Così, se la temperatura esterna è troppo alta si attiveranno meccanismi di sudorazione e di iperventilazione polmonare, mentre se è troppo bassa compariranno brividi e pelle d'oca. In questo complesso sistema di compensazioni, la comunicazione ormonale, insieme a quella nervosa, gioca un ruolo fondamentale. Gli ormoni, emessi da singole cellule o da gruppi di cellule a questo deputate, sono messaggi che raggiungono tutti i distretti dell'organismo, anche i più distanti, servendosi delle "vie d'acqua" dei suoi fluidi. Sono, un po', come i messaggi chiusi nelle bottiglie ed affidati dai naufraghi alle correnti del mare. Non è possibile, in alcun modo, predeterminare il loro cammino e chi li invia può solo affidarsi alla speranza che, prima o poi, essi giungano a qualcuno capace di recepirli. Anche le cellule che inviano messaggi ormonali non possono influenzarne il percorso. Si limitano a rilasciare nel mezzo liquido corporeo molte molecole-messaggio, tutte identiche, in modo che ci sia una probabilità finita che almeno una di esse giunga a destinazione. Le cellule a cui questi messaggi sono diretti possono essere localizzate in regioni dell'organismo anche molto distanti dal punto di partenza del messaggio stesso. Ciò significa che il messaggio, prima della cellula a cui è diretto, ha modo di incontrare un'infinità di altre cellule che non sono potenzialmente interessate ad esso. Come farà l'ormone-messaggio a non disperdere inutilmente il suo contenuto di informazione cedendolo a cellule ad esso non interessate? Utilizza un escamotage analogo a quello in uso nelle radio comunicazioni umane. Prendiamo, ad esempio, un messaggio riservato emesso da un radio-amatore e diretto ad un suo amico che abita molto lontano. Come fare perché il messaggio resti riservato e non giunga alle orecchie indiscrete di tutti i radio-ascoltatori della zona? Semplice. E' sufficiente che il radio-amatore invii il suo messaggio su una determinata lunghezza d'onda sulla quale è sintonizzata la radio ricevente dell'amico. Traduciamo ora il discorso nei termini molecolari dell'attività ormonale. La cellula emittente invia i suoi messaggi sotto forma di molecole che colpiscono indiscriminatamente tutte le cellule che incontrano sul loro cammino, come le onde radio dell'esempio colpiscono indifferentemente tutte le antenne. Di tutte queste cellule però solo alcune, quelle "bersaglio", sono attrezzate a riconoscere l'ormone. Per tutte le altre, le molecole ormonali che passano nelle adiacenze non rivestono alcun significato. Le cellule bersaglio sono sensibili al corrispettivo ormone perché sono attrezzate a riconoscerlo. Sono dotate, sulla loro superficie, di piccole cavità, come nicchie, le cui pareti si adattano alla perfezione alle molecole ormonali, un po' come la serratura si adatta alla sua chiave ed un guanto alla sua mano. Questo gioco ad incastro è talmente raffinato e perfetto che nessuna altra molecola, all'infuori di quella prevista, può entrare nella nicchia ed adattarsi alle sue pareti. Va così che solo un certo tipo di cellule è capace di captare un certo tipo di messaggio. Una volta che l'ormone-messaggio è stato captato sulla superficie della cellula ricevente, la sua stessa presenza nella nicchia, fino a quel momento vuota, scatena una cascata di reazioni che sono la risposta della cellula al messaggio o, se si preferisce, costituiscono l'atto di obbedienza della cellula all'ordine ricevuto. Il tempo intercorso tra l'emissione del messaggio e la sua ricezione dipende fondamentalmente da due fattori: dalla velocità con cui i messaggi-molecole diffondono attraverso il mezzo liquido intercellulare e dalla distanza tra la cellula emittente e quella


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ricevente. La velocità di diffusione molecolare in un liquido è piuttosto lenta. Ha bisogno di alcune ore, per esempio, una qualsiasi molecola per diffondere da un capo all'altro del corpo di un animale piccolo come una mosca. Le ore diventano giorni e settimane se si sale con la taglia dell'animale considerato. Gli intervalli temporali tipici della comunicazione metabolica sono estremamente piccoli se confrontati con quelli che scandiscono gli eventi della comunicazione genetica. Pur tuttavia un animale non potrebbe fare totalmente conto su di essi per la propria sopravvivenza. La maggior parte degli animali, infatti, per mantenersi in vita deve poter reagire a certi eventi del suo stesso ambiente in tempi dell'ordine di secondi o addirittura di millesimi di secondo. Per far ciò deve poter contare su di un altro tipo di comunicazione intercellulare, particolarmente efficiente e veloce: la comunicazione nervosa.

Comunicazione nervosa L'informazione nervosa dipende dall'attività di un particolare tipo di cellula posseduta da tutti gli animali multicellulari: la cellula nervosa o "neurone". La funzione biologica della comunicazione dell'informazione nervosa, svolta dai neuroni, è quella di generare le rapide reazioni stimolo-risposta che danno vita al comportamento animale. I neuroni sono provvisti di due caratteristiche che li rendono particolarmente adatti a questo scopo. In primo luogo, a differenza di quasi tutti gli altri tipi di cellule, essi possiedono delle ramificazioni molto lunghe e sottili, per mezzo delle quali raggiungono altri neuroni posti lontano e con i quali formano una trama di connessioni che si estende a tutto il corpo dell'animale. In secondo luogo, a differenza di quasi tutti i tipi di cellule, i neuroni sono capaci di produrre segnali elettrici in risposta a stimoli di natura chimica o fisica. Essi propagano, poi, questi segnali lungo le ramificazioni e li trasmettono ai neuroni da esse raggiunti. La trama delle connessioni dei neuroni ed il movimento dei segnali elettrici che in essa avviene costituiscono il sistema nervoso. Il sistema nervoso si divide in tre parti: una parte ricevente, o "sensoriale", specializzata a comunicare all'animale informazioni relative al suo ambiente esterno o interno; una parte "centrale" deputata ad elaborare le informazioni ricevute dal sistema sensoriale e decidere la risposta più opportuna; una parte emittente o "effettrice", che comunica alla periferia le decisioni prese dal sistema centrale, determinandone l'attuazione. Un esempio classico è quello di una preda che veda il suo predatore. L'immagine di quest'ultimo giunge ai neuroni sensoriali degli occhi della preda e da questi, attraverso i nervi ottici, la comunicazione passa al sistema centrale. Qui l'immagine viene elaborata, il predatore è identificato e, per mezzo del sistema nervoso efferente, viene comunicato ai muscoli delle zampe di attivarsi opportunamente. Comunicazioni in ingresso, quindi, e comunicazioni in uscita. Tra l'uno e l'altro percorso, poi, c'è la parte più importante: l'elaborazione delle informazioni che è, essa stessa, un ipercomplesso scambio di messaggi. Considerando l'esempio della preda e del predatore, si comprende quanto sia importante la velocità e la precisione in questo tipo di comunicazioni. Ritardi anche piccoli nella reazione di fuga potrebbero significare la morte e, parimenti, informazioni approssimative potrebbero essere altrettanto letali. Quali sono, allora, i meccanismi biologici che assicurano una tale efficienza di scambio di informazioni? I neuroni, come sottolineato qui sopra, sono capaci di produrre segnali elettrici in risposta a stimoli di diversa natura, depolarizzando momentaneamente (per uno o due millesimi di secondo) la loro regione stimolata. L'impulso elettrico si propaga, poi, fino alle parti terminali delle ramificazioni ad una velocità di circa 100 metri al secondo. Una via nervosa è in genere composta non da un solo neurone, ma da una catena di più neuroni, ognuno dei quali riceve il messaggio dal neurone che lo precede e lo trasmette a quello che segue. Poiché il messaggio è un impulso elettrico, verrebbe spontaneo pensare che il suo passaggio da un neurone all'altro


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avvenga per contatto elettrico e che, quindi, la comunicazione neurone-neurone sia essa stessa di natura elettrica. In realtà non è così. I neuroni che costituiscono il sistema nervoso, infatti, non si toccano l'un con l'altro, ma anche nei punti in cui sembrerebbero entrare in contatto, le "sinapsi", rimane pur sempre tra di essi uno spazio (da 26 a 40 milionesimi di millimetro) che li rende elettricamente isolati. Attraverso questo piccolissimo spazio la comunicazione neurone-neurone è assicurata da un meccanismo di diffusione molecolare analogo a quello degli ormoni. Vale la pena di entrare un po' di più nel particolare. Immaginiamo che un impulso elettrico attraversi il primo neurone della catena e giunga fino alla estremità delle sue ramificazioni. Giunto lì, provoca la liberazione di circa 3 milioni di molecole-segnale, i "neurotrasmettitori", nello spazio sinaptico che sta tra il primo ed il secondo neurone. Dopo un viaggio di circa 2 millesimi di secondo, queste molecole arrivano sulla superficie del secondo neurone dove vengono riconosciute e legate da recettori specifici. Il legame del neurotrasmettitore emesso dal primo neurone con il corrispettivo recettore del secondo neurone determina, su quest'ultimo, l'insorgere di un nuovo impulso elettrico. Il segnale, poi, si propagherà fino alle estremità del secondo neurone, provocherà un nuovo rilascio di neurotrasmettitori, che, a loro volta, attiveranno il terzo neurone, e così via. L'interposizione di comunicazioni di tipo chimico tra i neuroni della catena sembra essere, a prima vista, controproducente in quanto rallenta il processo globale di trasmissione del messaggio. In realtà, la perdita in velocità è abbondantemente ripagata dall'emergere di una possibilità del tutto nuova, quella di modulare il segnale attraverso i neurotrasmettitori, facendo sì che possa assumere una vasta gamma di intensità. Ed è su questa modulazione della comunicazione interneuronale che si basa l'attività del cervello, la parte di gran lunga più importante del sistema nervoso centrale. Giunti a questo punto, la mia impresa si fa veramente ardua. Dovrei abbandonare la trattazione delle singole comunicazioni interneuronali, per passare ad un livello superiore di descrizione, presentando le configurazioni globali dei flussi di comunicazione che interessano la totalità dei neuroni dell'intero cervello. Sono queste configurazioni globali, infatti, più che le singole unità che le compongono, a costituire il fondamento fisiologico di tutto ciò che ci fa essere quello che siamo. Per usare un parallelo musicale, ciò che è importante non è ciò che cantano i singoli coristi, ma il coro nella sua globalità. E qui ci si scontra con difficoltà di ogni genere: descrittive, sperimentali, interpretative, e tante altre ancora. Il motivo è molto semplice. Il cervello è in assoluto la struttura più complessa dell'universo conosciuto. Un semplicissimo calcolo renderà ragione della mia affermazione. Il cervello umano è costituito da circa 100 miliardi di neuroni. In media ogni neurone dialoga con gli altri attraverso 1000 sinapsi. Il numero totale delle reciproche connessioni sinaptiche è quindi 100 mila miliardi. La configurazione globale di questi 100 mila miliardi di connessioni è di fondamentale importanza per l'individuo che la possiede perché è essa che determina il modo in cui il cervello reagisce alle informazioni sensoriali, risponde agli stati emotivi, pianifica il suo comportamento futuro eccetera. Sappiamo calcolare quante diverse smazzate di bridge possono essere distribuite usando un normale mazzo di 52 carte: abbastanza da occupare svariate vite del giocatore più incallito. Si provi ora a pensare quante "smazzate" possono essere distribuite dal ben più grande "mazzo" cerebrale, con i suoi 100 mila miliardi di connessioni sinaptiche modificabili. Non è difficile calcolare la risposta. Assumendo, con un margine di cautela, che ogni connessione sinaptica possa avere uno qualunque di 10 possibili gradi di intensità, il cervello ha a sua disposizione un numero totale di possibili configurazioni distinte che è pari a 10 elevato a 100 mila miliardi, cioè 10 100.000.000.000.000 . Si provi ora a confrontare questa cifra con quei miserabili 1087 metri cubi che rappresentano la stima corrente del volume dell'intero universo astronomico! Questa è la motivazione che mi ha spinto a sorvolare sull'argomento della configurazione globale delle comunicazioni interne cerebrali, facendomelo definire "arduo". Spero che il lettore mi comprenda e ... non me ne voglia, avendo comunque ormai compreso che il


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benessere ed il funzionamento unitario dell'organismo dipendono in maniera diretta dal benessere e dalla concordia operativa di un numero enorme di componenti. L'ordine, a qualsiasi livello di complessità organizzativa lo si consideri, comporta informazione, e quindi comunicazione, tra di essi. Questa affermazione sembra, a prima vista, ovvia. Quando però ci domandiamo in che modo questo straordinario ordine venga raggiunto e mantenuto nel corso del tempo ci troviamo di fronte ad uno, forse il più grande, dei misteri della vita...

Fonti bibliografiche Riviste scientifiche: "Le Scienze" (Milano), "Nature" (London), "New Scientist" (London), "Rivista di Biologia/Biology Forum" (Perugia), "Science" (Washington), "Scienza Nuova" (Trieste),"The Scientist" (Philadelphia). Testi: Alberts B., Bray D., Lewis J., Raff M., Roberts K., Watson J.D., 1995, Biologia Molecolare della Cellula, Zanichelli, Bologna. Boncinelli E., 1996, A caccia di geni, Di Renzo Ed., Roma. Churchland P.M., 1998, Il motore della ragione, la sede dell'anima, Il Saggiatore, Milano. Di Berardino M.A., 1997, Genomic potential of differentiated cells, Columbia University Press, New York. Lodish H., Baltimore D., Berk A., Zipursky S.L., Matsudaira P., Darnell J., 1995, Molecular Cell Biology, Scientific American Books, New York. Queste letture sono consigliate anche a coloro che vogliano approfondire l'argomento.

----Carlo Cirotto è nato a Camerino nel 1944. Insegna "Citologia e Istologia" presso l'Università di Perugia. Ha svolto attività di didattica e ricerca presso le Università di Perugia e L'Aquila e presso il Laboratorio di Embriologia Molecolare del C.N.R. di Napoli. Si occupa di problemi riguardanti i processi del differenziamento embrionale a vari livelli di complessità, da quello molecolare a quello cellulare, a quello tissutale. Gli argomenti ai quali ha dedicato maggior attenzione sono il ricambio delle emoglobine, l'eritropoiesi e l'angiogenesi embrionali. E' autore di oltre cento pubblicazioni scientifiche ed è co-autore di due volumi di divulgazione scientifica sull'ingegneria genetica e sulle implicazioni etiche delle sue applicazioni. cirotto@unipg.it


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La comunicazione nel mondo fisico (Francesco Sacchetti) 1 - Interpretazione estesa del concetto di comunicazione E' ovvio che se ci si limita a definire, in modo semplificato, la comunicazione come quel processo che permette lo scambio di informazioni fra esseri umani, il numero di forme di comunicazione risulta molto ridotto. Tuttavia è normalmente accettato che vi siano delle forme di comunicazione anche fra animali. E' anche evidente che una più estesa definizione del termine comunicazione potrebbe essere lo scambio di informazioni fra esseri senzìenti. Come sempre accade quando si tenta di dare definizioni estese aumenta il numero di possibilità che non sono state considerate originariamente. Ad esempio, al limite del paradosso, se si definisse l'Uomo come un bipede implume, ci si troverebbe di fronte al fatto che un pollo spennato è un uomo! E' pertanto evidente che deve essere ben chiaro cosa sia un essere senziente affinché la definizione data sia utilizzabile. Il termine senziente potrebbe essere sostituito con vivente, ma anche in tal caso non sarebbe facile trovare una semplice definizione: è vivente un virus? Sono tali certi acidi nucleici che hanno capacità di replica (riproduzione)? Come si vede da questi esempi una definizione estesa del temine comunicazione ci porta ad una sorta di contìnuità fra lo scambio di informazioni fra esseri umani e uno scambio di informazioni che si ha in una reazione chimica fra acidi nucleici. Da qui a vedere una forma di comunicazione in ogni processo fisico che dia luogo ad una scambio di informazioni a distanza fra enti che siano animati o meno il passo è relativamente breve. Se si accetta una simile accezione del termine comunicazione può essere interessante rivisitare alcuni fenomeni naturali esaminandoli da questo nuovo punto di vista. Quest'esercizio può essere un po' accademico e, difficilmente, è di qualche utilità per lo studio della natura e dei suoi meccanismi, tuttavia può essere di qualche interesse nel discutere il concetto stesso di comunicazione. Il giorno che si dovesse venire in contatto con esseri di un altro mondo (se esistono), non ci si potrà limitare ad usare il concetto di comunicazione così come ci viene dal suo uso quotidiano, ma potremmo essere costretti ad impiegarlo nelle sue forme più estese ed imprevedibili. In realtà una simile situazione si è già verificata: quando siamo entrati in contatto con i batteri, prima, e con i virus, poi, abbiamo dovuto affrontare un nuovo mondo che, lentamente, ha costretto l'umanità a cambiare molti punti di vista che erano considerati acquisiti.

2 - La trasmissione a distanza di informazioni Come descritto nel paragrafo precedente, si può assumere che la comunicazione sia equivalente allo scambio di informazioni a distanza fra due enti dotati di dinamica propria. In un linguaggio tipico della fisica si può dire che la comunicazione è lo scambio di informazioni fra due osservatori (non necessariamente animati) che si trovano in due punti diversi dello spazio. Nel mondo fisico la comunicazione fra due osservatori dà sempre luogo a una successione di eventi, anzi tutto l'Universo fisico nella sua infinita complessità è un continuo scambio di informazioni fra osservatori, come avremo modo di osservare nel seguito. E' possibile fare alcuni esempi che ci mostrano il mondo fisico come un complesso organismo in cui poche funzioni fondamentali si diversificano fino a mostrarsi così come noi lo vediamo, cioè un insieme sconfinato di fenomeni anche estremamente complessi.


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Per vedere il mondo fisico in questo modo si può partire da un esempio semplice che, sebbene non sia direttamente accessibile nel nostro mondo quotidiano, è in qualche modo continuamente sotto i nostri occhi. La presenza della Luna ed il suo moto è qualcosa che è nel nostro vivere quotidiano. Tutti noi abbiamo imparato che la Luna è il satellite naturale del pianeta su cui viviamo. Fin dai tempi della rivoluzione Copernicana quando si passò da una concezione geocentrica, con la Terra al centro dell'Universo, ad una più moderna, si è stabilito che la Luna segue un'orbita quasi circolare attorno al nostro pianeta. Quest'orbita è il risultato di un equilibrio fra la forza di attrazione gravitazionale della Terra (la forza gravitazionale è in realtà una forza mutua fra i due corpi, Terra e Luna) e la tendenza della Luna a sfuggire a causa della forza centrifuga presente nel suo moto circolare. Questa è la descrizione che, salvo qualche necessaria precisazione, darebbe il fisico del moto della Luna attorno alla Terra. Il tutto potrebbe essere descritto con delle appropriate equazioni che darebbero la veste matematica e che permetterebbero di prevedere in modo accuratissimo tutti i dettagli del movimento della Luna intorno alla Terra, mentre quest'ultima orbita intorno al Sole. Tuttavia si può esaminare il processo in modo diverso. La Terra è una sorgente di forza gravitazionale, vale a dire essa produce nello spazio circostante un campo gravitazionale. Quest'ultimo può essere visto come una sorta di fluido (senza consistenza materiale) che riempie lo spazio. In questo modo la Terra invia, in ogni direzione, l'informazione della sua presenza ad ogni oggetto sensibile all'interazione gravitazionale (per quanto se ne sa ogni oggetto esistente nell'Universo è sensibile a questa forza). La Luna, passando nello spazio che circonda la Terra, riceve questa informazione e si comporta di conseguenza seguendo la sua orbita. In realtà anche la Luna produce il suo campo gravitazionale, questa informazione giunge sulla Terra ma, vista la differenza delle masse l'effetto prodotto sull'orbita di quest'ultima è molto piccolo. Tuttavia l'informazione gravitazionale è più complessa di come detto. Il campo gravitazionale è un fluido che riempie tutto lo spazio ma è più tenue se si è più lontani dalla sua sorgente. Si ha così che sia sulla Luna che sulla Terra l'intensità della forza gravitazionale sia più forte dal lato che si affaccia fra i due corpi che dal lato opposto. Questo fatto dà luogo sulla Terra al fenomeno delle maree e sulla Luna produce degli sforzi sulle sue rocce, tanto che se il nostro satellite fosse molto più vicino potrebbe arrivare a frantumarsi, cosa che in un lontano futuro avverrà poiché questi sforzi interni alle rocce lunari tendono a rallentarne il moto, come conseguenza vi è un lento e continuo avvicinamento della Luna alla Terra (è opportuno però sottolineare che a tale conclusione teorica si perverrebbe in un quadro semplificato rispetto a quello reale, avendo cioè riguardo soltanto alle interazioni tra i due corpi Terra e Luna, senza tenere conto degli altri oggetti presenti nel sistema solare). Come si vede possiamo pensare che tra Terra e Luna nel loro continuo moto vi sia un complesso scambio di informazioni che dà luogo a vari fenomeni. Può essere utile riesaminare alcuni fenomeni del mondo fisico con lo stesso procedimento usato per esaminare l'orbita lunare. Allo scopo di procedere con un ordine logico si esaminerà il mondo fisico, così come è oggi interpretato, procedendo dalla scala del mondo microscopico fino alla scala cosmologica. Va precisato che la discussione si manterrà ad un livello qualitativo, esprimendo talvolta quelli che sono i punti di vista dell'autore su argomenti che, per essere trattati con rigore, necessitano di un notevole bagaglio di conoscenze matematiche. Il procedimento formale, tuttavia, sebbene sia l'unico che permetta di avere risultati quantitativi, non consente in modo semplice la costruzione di modelli mentali che sono di grande utilità per un discorso di carattere generale che permetta la visione del processo scientifico come un processo culturale. Va comunque evidenziato che senza l'aspetto tecnico-matematico i grandi progressi tecnologici indotti dalla ricerca scientifica non sarebbero stati possibili.


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2.1 - Il mondo dell'ultra-piccolo Fin dalla più lontana antichità si è pensato che potesse essere possibile descrivere l'intera natura come l'insieme delle combinazioni di opportuni mattoni base. Questa visione filosofica pervade tutt'oggi la scienza e le sue conseguenze, grazie anche agli incredibili successi ottenuti, sono universalmente accettate. E' evidente però che il mondo sulla scala di distanze che sono un miliardo di miliardi più piccole di quelle della nostra esperienza quotidiana non può essere molto simile a quello che conosciamo. Su questa scala il concetto esteso di comunicazione diviene un elemento senza il quale non è possibile procedere. Gli oggetti ultra-microscopici che si incontrano all'interno degli atomi e all'interno dei nuclei e, più in giù, all'interno dei costituenti di questi ultimi, non hanno più le caratteristiche che noi attribuiamo ai corpi solidi macroscopici. Nel mondo microscopico ogni oggetto va visto come l'insieme delle interazioni (o le forze) che produce ed a cui è sensibile, cioè dei campi con cui riempie lo spazio circostante. Non siamo in grado di attribuire altro livello di esistenza agli oggetti del mondo microscopico. Quindi noi (di fatto i nostri strumenti che ci permettono di osservarli) li osserviamo per mezzo delle informazioni che ci comunicano. Da questa frase emerge naturalmente la presenza di una forma di comunicazione fra gli oggetti dello studio e lo scienziato che lo effettua. Se si parte dall'oggetto microscopico più semplice (si fa per dire) che si conosca vale a dire l'elettrone, possiamo osservare che esso riempie lo spazio circostante, ad esempio, con il suo campo elettrico. Se facciamo avvicinare un altro elettrone (che ovviamente viene respinto come sempre succede a cariche elettriche dello stesso tipo) osserviamo che i due comunicano la loro presenza fra di loro con questo campo elettrico ed avvicinandoli si comportano esattamente come se fossero punti geometrici ideali. Sebbene questo comportamento renda estremamente complessa la teoria che descrive questi fenomeni e, per molti versi, ripugni al fisico, che ha difficoltà ad accettare un oggetto senza dimensioni, a tutt'oggi non è possibile aggiungere altro, E' interessante osservare che gli elettroni hanno varie forme di comunicazione a distanza, alcune piuttosto curiose e che non trovano equivalente nel mondo macroscopico. Va ricordato che ogni elettrone è portatore di un movimento locale simile alla rotazione di una sfera intorno al suo asse. Questo movimento, detto spin, è da intendersi localizzato nel punto in cui si trova l'elettrone, che come detto, è virtualmente puntiforme. Tuttavia si osserva che due elettroni che abbiano la rotazione lungo lo stesso asse e nella stessa direzione hanno molta maggiore difficoltà ad avvicinarsi di due elettroni che lo abbiano diverso. In altri termini ogni elettrone comunica ai suoi simili in quale modo stia ruotando, in modo che quelli dello stesso tipo siano scoraggiati dall'avvicinarsi. Questo curioso meccanismo è estremamente importante poiché è largamente responsabile della coesione nella materia, In realtà la situazione è molto più complessa di quella descritta, ma le linee più importanti sono quelle indicate. Non diversa è la situazione che si incontra all'interno dei costituenti dei nuclei atomici, dove neutroni e protoni si legano riempiendo lo spazio circostante con la cosiddetta interazione forte. I costituenti del nucleo atomico, neutroni e protoni, sono a loro volta composti da tre oggetti più piccoli detti quark. I quark comunicano fra di loro tramite dei campi particolari, ma la loro caratteristica più sorprendente è che possono viaggiare solo a teme legate, in questo caso si è di fronte ad una forma di comunicazione complessa che è essenziale per rendere il mondo così' come lo conosciamo. Su una scala molto più grande, vale a dire quella degli atomi, si ha che il campo elettrico prodotto dal nucleo atomico riempie lo spazio, così come il campo gravitazionale della Terra riempie lo spazio dove orbita la Luna, e gli elettroni vi viaggiano, comunicando fra di loro le caratteristiche del loro spin. Visto in questo modo il mondo microscopico appare molto simile al nostro mondo pieno di comunicazioni con i più disparati mezzi. Anche i costituenti ultimi della materia sono in


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continuo contatto fra di loro e questo contatto è, per essi e per la materia stessa, importante almeno quanto le comunicazioni sono importanti per l'esistenza della società umana. E' opportuno ricordare anche un altro modo con cui vengono descritte le interazioni fra i corpi microscopici. Per descrivere questo punto di vista si può impiegare il seguente esempio: se immaginiamo due corridori che corrano lungo linee parallele scambiandosi con forza una palla, la spinta della palla stessa tenderà ad allontanare i due corridori. Questo esempio macroscopico ci permette di introdurre un analogo microscopico che è estremamente utile per una descrizione delle interazioni, cioè delle comunicazioni nel mondo microscopico, senza ricorrere al riempimento dello spazio con quel fluido inconsistente che è il campo. Si assume che ogni interazione sia portata da un opportuno portatore (in pratica una particella con delle caratteristiche specifiche), come è la palla nel caso dei corridori. Tale portatore, a differenza della palla che ha una sua esistenza anche in assenza dei corridori, viene prodotto dalle particelle che si trovano nello spazio o viene da essi assorbito qualora sia già presente. Si ha quindi un meccanismo più complesso che permette di descrivere sia le attrazioni che le repulsioni fra le particelle. In questo modo le interazioni sono vere comunicazioni in cui ogni partecipante trasmette o riceve informazioni dagli altri e si comporta di conseguenza. L'unica differenza che sembra esservi rispetto al nostro mondo è che le particelle del mondo microscopico non sembrano avere libero arbitrio ed il loro comportamento sembra essere deciso da leggi immutabili.

2.2 - La scala intermedia Ovviamente, passando dal mondo delle particelle elementari a quello degli atomi ed in su, si potrebbero esaminare infiniti fenomeni che sono forme di comunicazione più o meno complessa. Nella scala umana sono poi numerose le forme che tutti noi saremmo in grado di riconoscere. Nel presente contesto si vogliono mettere in evidenza solo alcuni esempi che sono particolarmente interessanti e lontani dalla comunicazione tradizionale fra esseri umani. Nella materia condensata, cioè non costituita da atomi lontani, si incontrano molti fenomeni che vanno sotto l'unica denominazione di transizioni di fase. Uno dei più comuni casi di transizione di fase è il passaggio di una sostanza dallo stato solido allo stato liquido. Questo fenomeno è ben noto in quanto può essere facilmente osservato da tutti. Tuttavia è più interessante discutere il processo inverso. Quando un liquido puro, ad esempio acqua, viene lentamente raffreddato esso mantiene il suo stato anche al di sotto della temperatura di fusione del ghiaccio. Questo fenomeno è detto di sottoraffreddamento. Il liquido non riesce a rendersi conto che, a quella temperatura, è preferibile che stia allo stato solido e continua a rimanere in uno stato fluido. Tuttavia se una piccola perturbazione favorisce la formazione del primo cristallo microscopico di ghiaccio si ha una trasformazione istantanea di tutto il liquido alla fase solida. In un altro linguaggio, il primo cristallino di ghiaccio comunica al resto del liquido la sua esistenza e si ha la conseguente trasformazione. Esistono molti tipi di trasformazioni di fase, alcune delle quali con caratteristiche particolarissime, ma tutte hanno la proprietà di tenere in continua comunicazione tutte le parti che compongono il corpo che subisce, o è prossimo a subire, la trasformazione. Esistono, ad esempio, leghe metalliche particolari che, ad una certa temperatura, subiscono una transizione di fase che modifica la disposizione degli atomi (trasformazioni di questo tipo sono dette strutturali). Alcuni di questi sistemi possono essere foggiati in forme diverse nelle due fasi e queste forme vengono acquistate a seconda della temperatura (memoria di forma). Questo è un caso in cui tutti gli atomi hanno memoria della loro posizione alle due temperature e la comunicano agli atomi vicini in modo da disporsi secondo la forma macroscopica che era stata originalmente stabilita con un'appropriata procedura.


189

Un altro tipo di comunicazione vicino alla scala umana e introdotta dall'Uomo è quella che avviene tra i componenti del computer per mezzo del quale può essere scritto un testo come il presente. Il computer è costituito da una miriade di componenti piccolissimi ma ha la capacità di comunicare con il mondo umano. La tastiera consente di inviare al processore (così è detto l'elemento centrale del computer che presiede a tutte le operazioni) le informazioni che vogliamo immettere nella sua memoria e lo schermo consente di esaminare le informazioni che nella memoria sono contenute. Il sistema permette di effettuare lo spostamento e l'analisi di queste informazioni a grande velocità poiché tutti i suoi componenti sono in grado di comunicare fra di loro e con il mondo esterno. Il computer si comporta come una grande metropoli dove vi è un centro di controllo delle attività (potremmo dire la City) ed infiniti magazzini, centri di produzione e smistamento ed infine un sistema di raccolta delle richieste e distribuzione dei prodotti. Ovviamente questa analogia non può essere perfetta, ma molti sono i punti di contatto che potrebbero essere cercati con un attento esame che però esula dal presente contesto.

2.3 - La scala cosmologica Come per il mondo microscopico, la scala cosmologica non può essere compresa con i nostri normali mezzi. Sebbene l'Universo sia in parte osservabile con i nostri sensi, la porzione di cui abbiamo qualche informazione diretta è così piccola e l'aspetto che cogliamo è così secondario che è bene spogliarsi di ogni senso comune prima di alzare anche solo lo sguardo al cielo. La comunicazione fra i componenti dell'universo avviene con mezzi molto diversi da quelli impiegati dagli esseri umani e dalle particelle microscopiche. Il mezzo più importante è probabilmente l'interazione gravitazionale, tuttavia molti altri fattori entrano in gioco, primo fra tutti la dimensione incredibile dell'Universo conosciuto (quello sconosciuto potrebbe essere molto più grande). Ogni descrizione attuale dell'Universo, prescinde dall'assumere una dimensione finita per esso. Il massimo successo viene ottenuto con una descrizione che assume l'Universo come omogeneo ed isotropo. Il primo termine si riferisce al fatto che, non già le stelle, ma le intere galassie costituiscono un piccolissima granulosità nella struttura dell'Universo così che esso può essere pensato come un fluido, come l'acqua le cui molecole non sono assolutamente rilevanti per la scala umana. Il secondo termine ribadisce il fatto che l'Universo va inteso come una cosa che è allo stato liquido e non ha direzioni speciali. In questo incredibile Universo tutti i componenti a tutti i livelli comunicano fra loro: le stelle raccolgono con i loro campi gravitazionali i pianeti, le stelle doppie si scambiano materia, gruppi di stelle si riuniscono a formare galassie, con forme dettate dalla velocità di gruppi di stelle che impiegano decine e centinaia di migliaia di anni ad orbitare attorno a centri comuni. In mezzo ad esse stelle ormai morte e buchi neri che assorbono materia dallo spazio circostante. Ogni oggetto è in comunicazione con gli altri e solo così si raggiunge una parziale equilibrio in continua evoluzione. Al di sotto di tutta questa materia sembra esserci una quantità ancor più grande di materia oscura che non emette luce ma che fa sentire la sua presenza con un forte campo gravitazionale che domina il movimento delle galassie ed anche la loro evoluzione.

3 - I limiti fisici alla comunicazione Nel descrivere quello che accade sulla scala cosmica si devono necessariamente invocare comunicazioni che avvengono su distanze e su tempi che, sulla scala umana, non hanno praticamente significato. Tuttavia l'Universo così come noi lo possiamo osservare con i nostri mezzi è dominato da un limite che appare, attualmente, insormontabile. Questo limite è la così detta velocità della luce. Allo scopo di non rischiare di parlare di fantascienza, per altro degnissimo ed apprezzabile


190

genere letterario e di costume, è opportuno precisare cosa sia questo limite. Nella nostra esperienza quotidiana sappiamo che le velocità degli oggetti si addizionano (compongono) secondo semplici leggi. Ad esempio se un treno viaggia in una certa direzione a 100 km all'ora ed un viaggiatore lo percorre alla velocità di 5 km all'ora nella stessa direzione, un osservatore che si trovi sul marciapiede di una stazione dirà che il viaggiatore va, rispetto al suolo, alla velocità di 105 km all'ora. Questa legge, che appare intuitiva, viene a cadere se le velocità in gioco sono molto alte. La legge di composizione delle velocità diviene più complessa che una semplice addizione e la sua forma è tale che se si compongono due velocità di cui una sia uguale alla velocità della luce, allora la velocità composta sarà ancora la velocità della luce. Questo risultato, che è confermato da numerosissimi ed accurati esperimenti, sembra essere in contraddizione con l'intuito, ma è, in realtà, solo diverso da quanto osserviamo nel nostro mondo quotidiano dove velocità molto alte non si possono osservare mai (anche il più veloce razzo va solo a un decimillesimo della velocità della luce). Questo fenomeno, che va visto come una delle infinite curiosità che ci riserva la Natura, fa sì che ci sia una sorta di separazione fra gli oggetti più veloci della luce (se ve ne sono) e quelli più lenti. Nessun oggetto può superare, in un senso o nell'altro, questa linea di demarcazione. Noi siamo dalla parte degli oggetti più lenti della luce. In tale situazione qualsiasi informazione si voglia inviare, noi, o anche gli oggetti inanimati di cui si è discusso nei paragrafi precedenti, si dovrà fare i conti con questo limite. Esso è un reale limite alle possibili comunicazioni e fa sì che l'universo si presenti così come lo vediamo (noi ed i nostri strumenti). Quest'ultimo punto è molto importante poiché l'Universo comunica a noi le sue leggi, ma lo fa con un mezzo che non può essere più veloce della luce. Questo limite produce anche dei limiti alla quantità di informazione che si può inviare da un punto all'altro in certo tempo, qualunque sia il mezzo ed il codice che si impiegano.

----Francesco Sacchetti è nato a Roma nel 1946. Insegna attualmente all'Università di Perugia, Corso di Laurea in Fisica. Si occupa del problema a molti corpi, con particolare riferimento agli elettroni nella materia condensata: un problema considerato di frontiera negli ultimi 50 anni e avente importanti relazioni anche con le applicazioni in numerosi settori. In particolare si è impegnato nello studio dell'origine delle proprietà magnetiche della materia, con riferimento al comportamento degli elettroni nei materiali magnetici. Al fine di sviluppare queste tematiche ha impiegato costantemente la diffusione dei neutroni termici, tecnica poco impiegata in Italia, ma di largo uso nei paesi avanzati, avviando così il rilancio di queste metodologie nel nostro paese. E' attualmente coordinatore delle attività italiane presso le maggiori installazioni mondiali dedicate all'uso dei neutroni termici per lo studio della materia condensata. sacchett@pg.infn.it


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Irreversible entropy in biological systems (Umberto Lucia) Abstract The maximum of the entropy due to irreversibility has recently been demonstrated as a principle of stability for the open systems. This principle is applied to biological systems to obtain their thermodynamic conditions of stability. A thermodynamic analysis of the synthesis of the ATP is developed.

Keywords:

bio-chemical reactions, Irreversible entropy, Maximum entropy, synthesis of ATP, thermodynamic biological systems, thermodynamic stability of biological systems

Nomenclature Latin symbols b constant E Ecological function [J/s] g molar Gibbs energy [J/mol] J generalised fluxes L interference coefficients [K s/kg2] LT Thermodynamical Lagrangian [J] L Lagrangian [J/(m3K s)] P power output [J/s] R ideal gas constant (= 8.314 [J/(mol K)]) S entropy [J/K] t time [s] T temperature [K] V Volume [m3] Greek symbols Χ scalar value of generalized forces η efficiency υ reaction velocity [mol/(m3s)] ξ generalised lagrangian thermodynamical coordinates Ψ non-linear dissipative potential [J/(kg s K)] Subscripts env environment int internal irr irreversible sys system Symbols δ differential variation ∆ finite variation ADP adenosine diphosphate ATP adenosine triphosohate C carbon CO2 carbon dioxide H2O water O oxigen P phosphorus


192

I. - Introduction Energy conversion processes are relevant in the biological systems and, as a consequences, they have been studied in the thermodynamic analysis of the living systems [1-3]. The study of linear energy converters working in steady states has been also developed in linear irreversible thermodynamics and the concept of efficiency has been first introduced [1,2]. Moreover some biological systems have been analysed as optimum working regime [2] and in relation to dissipations [4]. Recently some optimisation criteria have been analysed for biological systems by means of the irreversible thermodynamics [2]. The results obtained is that “the election of the working regime depends on the needs or evolutionary advantages it provides, which could differ among species” [2]. In thermodynamics of the irreversible processes a general principle of stability, the maximum variation of the entropy due to irreversibility, for the steady states of the open systems is deduced by means of the calculus of variations [5,6]. Then this principle has been shown to be the general evolution principle of the natural systems [7-11]. In this paper the irreversible entropy maximum principle will be applied in the analysis of the thermodynamic biochemical engineering systems evaluating their efficiency.

II. - Maximum principle for the open systems To obtain the maximum principle for the open systems, a global analysis was developed [5,6]. The initial and the final states are assumed uniquely defined and stable, and the system has a response time τ after which it goes from the initial to the final state. Thus the state functions satisfy the conditions of the calculus of variations [5-8]. Following Gyarmati [5,6,8,9] a continuum general system was examined and its partition in its subsystems with mass dm and volume dV = dm/ρ, with ρ the density, has been made. For every sub-system the density of the thermodynamic Lagrangian per unit of time and temperature L been defined as: d 3 LT (1) L = dVdTdt where LT is the thermodynamic Lagrangian. The analytical expression of L is [5,6,8,9]: ⋅

dS L = − Ψ dV

(2) where [5,6,8]: ⋅

(3)

dS = dV

ij

Lij ξ iξ j +

1 ∑ Lijk ξ iξ jξ k 2 ijk

with ξ generalised co-ordinates, and Ψ, the non-linear dissipative potential density, is [5,6]: (4)

Ψ =

1 1 Lijξ iξ j + ∑ Lijk ξ iξ jξ k ∑ 2 ij 6 ijk

To obtain the thermodynamic Lagrangian from the relation (1) the integration on the total volume V, on the temperature and on time was done, obtaining by the analytical expression (2), with the (3) and (4), and by the Gouy-Stodola theorem, which states that when a system operates irreversibly it destroys work at the rate that is proportional to the system's rate entropy generation [6], the following expression [5-9]:


193

(5)

L = ∫ dt ∫ dT ∫ dVL =

∫ ∆S

irr

dT

where ∆Sis the variation of the entropy due to irreversibility. Thus, as a consequence of the principle of the least action [5-7], the following result was obtained [5-8]:

δ(∆Sirr) = 0

(6)

So the required principle of stability for the open systems stationary states was deduced and demonstrated. This principle can be expressed as: “the condition of stability for the open systems' stationary states consists of the maximum for the variation in the entropy due to irreversibility” [6-9]. This principle, here shown in its most general form, has been verified both in linear and in non-linear physics [5-9,11].

III. - Entropy due to irreversibility in biological systems In irreversible thermodynamics the steady states revel themselves very interesting because they are characterised by the constancy in time of their thermodynamic variables, even when they are not homogeneous inside the system's bulk; to maintain these inhomogeneities there are required some fluxes like mass, energy or others [2,5-8,11-20]. Now a steady state system, characterised by two coupled processes with generalised fluxes (   J 1 , J 2 ) and corresponding forces (X1,X2) considered. Considering the near-equilibrium ⋅ int

irreversible thermodynamics, the time variation of the internal entropy of the system S sys is defined as follows [2,5-8,11-13,16,18-20]: (7)

⋅ int

S sys = J1X1+ J2X2

Following Santillán et al. [2] only internal irreversibility are considered because it has been shown that they are the only responsible of the whole entropy increments of the universe [1,2,5,7-9,18-21]. The total entropy increments are the results of the internal and external contributions of the ⋅

entropy variations both of the system S sys and of the environment S env :

(8)

⋅ int ⋅ ext  ⋅  S sys = S sys + S sys  ⋅ ⋅ int ⋅ ext  S env = S env + S env

It has been shown [2] that

(9)

so that the relations (8) becomes:

⋅  int S  env = 0  ⋅ ⋅ ext  S ext = − S env  sys


194 ⋅ int ⋅ ext  ⋅  S sys = S sys + S sys  ⋅ ⋅ ext  S env = S env

(10)

As a consequence the total entropy increments in time, due to irreversibility, S irr , is: (11)

⋅ int

S irr = S sys + S env = S sys = JX+ JX

where, the in many biological systems, Xis considered constant [1,2]. Recently has been first introduced the ecological function E: (12)

E = P - T S irr

where P = - T J1X1 is the power output and T is the equilibrium temperature. The ecological function must be maximised in the steady state [21]. Considering the relation (11) in the relation (12) it follows: (13)

E = - T (2 J1X 1 + J 2 X 2 )

Using the maximum irreversible entropy variation coupled with the condition of maximum for the ecological function, the following relation can be deduced:

(14)

 ⋅  d S irr = J 1 dX 1 + X 1 dJ 1 + X 2 dJ 2 = 0  dE = − 2 J 1 dX 1 − 2 X 1 dJ 1 − X 2 dJ 2 = 0   T 2

Solving this system and considering that

J=

k=1

Lik X k , with i = 1,2 and

LOnsager

coefficients [2,5-8,12-16,18], such that L= L, it follows that the condition of stability of the steady state for biological systems is: (15)

X1 = −

L12 X2 2 L11

IV. - Application to thermodynamic biochemical engineering systems: the synthesis of the ATP In order to employ the previous results in the thermodynamic analysis of the biochemical engineering systems, the hypotheses of the linear irreversible thermodynamics model, here deduced, are summarised in the following: i) the biological system is in a non-equilibrium steady state consisting of two coupled process ii) the driven force Xmust be constant iii) only linear relations are considered. It has been demonstrated that these hypotheses are acceptable for many biological systems [1,2].


195

Following Sántillan et al. [2] the synthesis of the ATP is considered in anaerobic glycolysis and in respiration. The chemical energy conversion can be described by the following chemical equations, in which the driver reaction is indicated with curly brackets and the driven reaction by square brackets: (16)

{glucose} + [2ADP + 2P+] / {2lactate} + [2ATP] {6O2 + glucose} + [36ADP + 36P+] / {6CO2 + 6H2O} + [36ATP]

For this system the generalised fluxes and forces are [2]: J1 = υ 1 J2 = υ (17)

2

X1 = −

∆ g1 T1

X2 = −

∆ g2 T2

where υ1 and υ2 are the reaction velocities, such that υ1 = υ2 = υ [2], while ∆gand ∆gthe molar Gibbs energies changes of the corresponding reactions. For this reaction the linear phenomenological Onsager coefficients are [2]: (18)

L= L= L= L=

υ

mf

b

R

where υmf is the maximum forward velocity, b a positive constant that takes into account the enzymatic processes and R the ideal gas constant [2]. Introducing the definition of efficiency η = - (J1X 1 / J 2 X 2 ) [1,2] and considering the relations (17), (18) and (15) the following result can be obtained: (19)

η =

1 T2 2 T1

Using the data present in literature [2,21] about the chemical reactions (16) the numerical evaluation of (19) for the chemical reactions (16) is the following: (20)

η = 0 .5 η = 0 .7

according to the measured values presented in the Reference [2].

V. - Conclusions The principle of maximum for the variation of the entropy due to irreversibility has been summarised. It follows that it represents a general principle of investigation for the stability of the open systems. In fact this principle states that: “in a general thermodynamic transformation, the condition of the stability for the open systems' equilibrium states consists


196

of the maximum for the variation of the entropy due to the irreversibility”. This statement represents an important result in Irreversible processes Thermodynamics because it represents a global theoretical principle for the analysis of the stability of the open systems' states. The result here obtained must be compared with the ones recently obtained by Bejan [11]. In fact, Bejan has developed the “constructal” theory, a theory by which it is possible to predict some macroscopic shapes, originated by the spatial organisation, in Nature, both in living and in non-living. The Bejan result is an optimisation principle. Bejan himself has pointed out that the theoretical bases of the architecture of many living and non-living systems remains an unknown design principle [11]. The irreversible entropy maximum principle [6] represents the theoretical fundamental of this design principle. Starting from this thermodynamic result the biological systems have been analysed by the irreversible entropy maximum principle and a condition for the stability of their steady states has been obtained. A particular application has been done to the synthesis of the ATP: the results obtained agree with the measured ones present in literatures.

References [1] S.R. Caplan and A. Essig, Bioenergetics and Thermodynamics, Harvard University Press, Cambridge, 1983

Linear

Nonequilibium

[2] M. Santillán, L.A. Arias-Hernandez and F. Angulo-Brown, Some optimisation criteria for biological systems in linear irreversible thermodynamics, Il Nuovo Cimento, D19, 1 (1997) 99 [3] G.P. Johari and G. Salvetti, On the temperature-invariant enthalpy change and thermodynamics of protein's transformation, Il Nuovo Cimento, 19D, 5 (1997) 753 [4] M. Fabrizio, The concept of dissipation in complex systems, Ricerche di Matematica, XLI, Supplemento (1992) 123-132 [5] U. Lucia, Analisi Termodinamica della cavitazione con transizione di fase, PhD Thesis, Università di Firenze, 1995 (in Italian) [6] U. Lucia, Mathematical consequences of the Gyarmati's principle in Rational Thermodynamics, Il Nuovo Cimento, B20, 10 (1995) 1227 [7] U. Lucia and G. Grazzini, Global analysis of dissipations due to irreversibility, Rev. Gén. Therm., 36 (1997) 605 [8] U. Lucia, Maximum principle and open systems including two phase-flows, Rev. Gén. Therm.,37 (1998) 813-817 [9] U. Lucia, Irreversibility and entropy in Rational Thermodynamics, Ricerche di Matematica, in printing [10] U. Lucia, Geometrical characteristic and heat transfer in building's protruding structure, Il Nuovo Cimento, D18 (1996) 41


197

[11] A. Bejan, Contructal theory: from thermodynamic and geometric optimisation to predicting organisation in Nature, Flowers'97, Florence World Energy Research Symposium “Clean Energy for the New Century”, July 30 - August 1, 1997, Gianpaolo Manfrida ed., Firenze, Italy, SGE, Padova, 1997, 15 [12] 1978

B.H. Lavenda, Thermodynamics of Irreversible Processes, Mcmillan Press, London,

[13] 1980

L.D. Landau and E.M. Lifshitz, Statistical Physics, Pergamon Press, Oxford, Part.1,

[14]

I. Gyarmati, Non-Equilibrium Thermodynamics, Springer & Verlag, Berlin, 1970

[15] P. Glansdorff and I. Prigogine, On a general evolution criterion in Macroscopic Physics , Physica, 30 (1964) 351 [16] P. Glansdorff and I. Prigogine, Thermodynamic Theory of Structure, Stability and Fluctuations, John Wiley & Sons, New York,1971 [17] I. Prigogine, La fin des certitudes. Temps, chaos et les lois de la nature, Édition Odile Jacob, Paris, 1996 [18] I. Prigogine, Thermodynamics of Irreversible Processes, John Wiley & Sons, New York, 1961 [19] 1988

A. Bejan, Advanced Engineering Thermodynamics, John Wiley & Sons, New York,

[20] A. Bejan, Entropy Generation through Heat and Fluid Flow, John Wiley & Sons, New York, 1982 [21] F. Angulo-Brown, M. Santillán and E. Calleja-Quevedo, Il Nuovo Cimento, D17 (1995) 87

----[A presentation of the author can be found in Episteme N. 4]


198

An algorithm for the cybernetic model of tumour evolution (Umberto Lucia) Abstract Starting from the results recently obtained in Rational Thermodynamics, the thermo-physical analysis of the dynamics of cancer interaction with the host immune system is developed using the mathematical model recently obtained in literature. A mathematical model to evaluate the growth of the cancer is proposed.

1. - Introduction The high degree of order displayed by living systems in space and time makes one often wonder about their compatibility with the laws of Thermodynamics, specifically with the Second Law. The tendency of living systems to increase their internal order in the course of their differentiation, growth, development, may appear to be at odds with the tendency of most condensed matter to proceed towards states in which the entropy of the systems is maximized. A living system is not isolated and is not in equilibrium. It is rather an open system, which can exchange matter and energy with the environment. It is in a stationary state, which is not at equilibrium, but which must display stability for times, which are short respect to a lifetime and long with respect to the characteristic times of the internal processes of the system. It can evolve continuously to other stationary states of slightly different structure and function in times comparable to its lifetime [1]. Recently, in Thermodynamics, the basic role of the entropy has been demonstrated in global analysis [2-5] and in the studies of the stability also for the open systems [2,3]. Moreover mathematical results about the analysis of the Thermodynamic stability of the open systems have been recently obtained [3-5], for any non-linear thermodynamic transformation, also when chemical reactions can occur. In this paper this thermodynamic results are used in the analysis of the dynamics of cancer interaction with the host immune system, described by the more recent mathematical model proposed [6]. As a consequence a mathematical model for the evaluation of the numerical growth of cancer cells is obtained.

2. - Recently developments in Rational Thermodynamics To deduce a global principle of analysis for the stability of the open thermodynamic systems the initial and the final states have been assumed uniquely defined and stable, and the system has a response time Ď„ after which it goes from the initial to the final state. Thus the state functions satisfy the conditions of the calculus of variations [1]. A continuum general system was examined and its partition in its subsystems with mass dm and volume dV = dm/Ď , with Ď density, has been made [3-5]. For every sub-system the density of the thermodynamic Lagrangian per unit of time and temperature L has been defined as: d 3 LT L = (1) dVdTdt where T is temperature, t time and LT is the thermodynamic Lagrangian. The analytical expression of L is [3]:


199 ⋅

L = dS − Ψ dV

(2)

where S is the entropy and [3]: ⋅

dS = dV

ij

Lij ξ iξ j +

1 ∑ Lijk ξ iξ jξ k 2 ijk

(3)

with Lij and Lijk symmetric coefficients, and Ψ, the non-linear dissipative potential density, is expressed by the relation [3]: Ψ =

1 1 Lijξ iξ j + ∑ Lijk ξ iξ jξ k ∑ 2 ij 6 ijk

(4)

To obtain the thermodynamic Lagrangian from the relation (2) the integration on total volume V, on temperature T and on time t was done, obtaining, by the analytical expression (3) and the Gouy-Stodola theorem [3], the following expression [3]: LT = ∫ dt ∫ dT ∫ dVL =

∫ ∆S

irr

dT

(5)

where ∆Sirr is the variation of the entropy due to irreversibility. Thus, as a consequence of the principle of the least action [3], the following result was obtained [3-5]: δ(∆Sirr) = 0 (6) and during the thermodynamic path from the initial to the final stationary state [3-5]:

δ(∆Sirr) < 0

(7)

As a consequence the non-linear principle of stability for the open systems' stationary states has been obtained; this states: “the non-linear mathematical condition of stability for the open systems' stationary states consists of the maximum for the variation of the irreversible entropy function, in the response time of the system” [3-5].

3. - The mathematical fundamental for the dynamics of tumor interaction with the host immune system To describe the dynamics of cancer interaction with the host immune system a kinetic or Boltzmann-like theory is considered. This can describe the non-equilibrium evolution of a population of several interacting populations referred to the physical system. This system is constituted by a cancer which grows in vivo and interacts with the host immune system. The host system has the potential capability of producing some significant anti-cancer reactions, since it can recognize cancer-associated membrane antigens or mutated peptides presented histocompatibility complex [1,6-8]. The cellular interaction can be modelled by the evolution equations for statistical variables related to the distribution over physical states which characterize the various interacting populations [6-8]. The axiom, which are the fundamental of the mathematical theory, are [7]:


200

Axiom 1. - The physical system consists of cells belonging to n interacting populations, each denoted by the subscript i, with i =1,...,5, where i = 1 corresponds to the cancer cells, i = 2 to the cells of the feeding host and i = 3 to Polymorpho Nuclear Leukocytes, i = 4 to Lymphocytes and i = 5 to Macrophages. Axiom 2. - The physical state of each cell is described by the variable u, the activation state, whose values span in the interval [0,1]. The statistical of the state of the whole system is defined, for each of the n populations, by the number densities Ni = Ni(t,u) : [0,T] × [0,1] → R+

(8)

where Ni(t,u) du defines the number of cells of the i-population which, at the time t, are characterized by an activation in the range [u, u + du]. The state of the whole system is defined by the whole set of number densities {N1,...,Nn}Ni≥0. The number of cells in the same volume at time t is defined by: 1

n(t) =

∫ N (t , u)du i

(9)

0

Axiom 3. - Encounter between pairs can be divided into conservative encounters, which preserve the total number of cells and are characterized by transition of state, and proliferative encounters, which are characterized by increase or decrease of the number of individuals. Conservative encounters occur between cell pairs, from the same or different populations, and have transition rates of the type: Aij(v,w;u) = ηij(v,w) ψij(v,w;u)

(10)

where Aij(v,w;u), elements of the n × n matrix A, denotes the number of encounters per unit volume and unit time between cell pairs of the (i,j)-populations with states v and w, and transition into the state u; ηij(v,w), elements of the n × n matrix η, is the encounter rate, which denotes the rate of such encounter; ψij(v,w;u), elements of the n × n matrix ψ, is the transition probability density, which denotes the density of the probability distribution of such encounters and transition into the state u. Proliferate encounters occur between cell pairs of the same or different populations, and generate a proliferation or destruction rate in the ipopulation of the type: 5

S i (t , u ) = N i (t , u )∑

1

∫s

j= 1 0

ij

(u, v) N j (t , v)dv

(11)

where sij, elements of the n × n matrix s, denotes a term which will be defined proliferationdestruction rate coefficient. The elements sij of the n × n matrix s can be written as: sij(u,v) = βij(u,v) dij

(12)

where (see Table I):

β

ij

β

ij

β

ij

= 1   proliferation  when the ecnounter generates = − 1  destruction = 0

when nothing occurs

(13)


201

and dij must be evaluated experimentally. Axiom 4. - The number of encounters per unite time in the volume, between cells of the (i,j)populations with states (u,v), is proportional to the product Ni(t,u) Nj(t,v). Axiom 5. - An external action ϕi(t), which may depend on t, can be defined in such a way that it acts directly on the rate growth of u related to Ni du = ϕ i (t ) dt

(14)

Axiom 6. - Generation from the bone marrow will be equivalent to the death of unstimulated cells. The artificial addition of cells from each population is simulated by the source terms γi(t,u).

4. - The thermo-physic and mathematical model In this Section it will be obtained the result of the application, of the theorem of maximum for the entropy due to irreversibility in the open system [11], to the dynamics of tumor interaction with the host immune system. The irreversibility consists of the proliferation or destruction rate in the population caused by the encounters between cell pairs of the same or different population. This is expressed by the proliferate encounters (11). As a consequence the variation of the entropy due to irreversibility ∆Sirr is directly proportional to this term: ∆Sirr = constant Si(t,u)

(15)

Now, applying the maximum principle (6), it follows:

δSi(t,u) = 0

(16)

which, considering βij and dij constant, becomes: 1 Λ i Ni = − Ni

5

1 5

j= 1

β ij d ij N j

j= 1

β ij d ij Λ j N j

(17)

where Λk is the following differential operator: d Λk = dt + ϕ

k

d du

(18)

From the differential equation (17), the following two first order differential equations system can be obtained:


202

        

1 dN i = − N i dt

5

1 5

β ij d ij N j

j= 1

dN i 1 ϕi = − Ni du

j= 1

5

1 5

j= 1

β ij d ij

β ij d ij N j

j= 1

dN j dt dN j

β ij d ij ϕ

j

(19)

du

To solve this mathematical problem it is necessary to deduce a model for the variable u as a function of time, ϕ and d, starting from the experimental data. Here, to obtain an analytical first order approximated solution, the mathematical problem can be solved assuming that the two differential equations are independent and that ϕ and d are constant. As a consequence it follows that, for the first equation, the solution is: 5

N i (t ) = N i0

5

k= 1 k≠ j

β ik d ik N k (t ) + β ij d ij N j 0 (20)

5

j= 1

j= 1

β ij d ij N j (t )

and, for the other one, it results:

N i (u ) = N i0

5

j= 1

 5     ∑ β ik d ik N k (u ) + β ij d ij N j 0   kk =≠ 1j   

∑ (β 5

j= 1

ij

d ij N j (u ) )

ϕ j /ϕ

ϕ j /ϕ i

(21)

i

where Nk0 are the number of cells at the initial time. From these relations (20) and (21) it is possible to argue that: 1) cancer growth is a function of the time behaviour of the immune system; 2) cancer growth depends on the statistical distribution of the tumour and the immune cells; 3) cancer cells proliferation or destruction depends on the interaction between tumour and immune cells and between the different immune cells themselves; 4) cancer growth is a function of the u-state behaviour of the immune system; 5) cancer cells proliferation or destruction depends on the u-state change velocity rate ( ϕj/ϕi) between the u-state changes velocity ϕ of the immune and of cancer cells. As a consequence of these considerations about the first order solution obtained, it follows that cancer cell is an adaptative system, able to change its u-state and the u-state change velocity as a function of the external conditions and the interactions with the immune system.

5. - Conclusion The dynamics of cancer interaction with host immune system has been analysed using the more recent mathematical model and applying the principle of maximum entropy variation due to irreversibility. A two first order differential equations system (19) has been obtained to evaluate the numerical density variation of the cancer and immune cells during their


203

interaction. A first order solution of this differential equations system has been obtained. It follows that cancer growth is a function of the time behaviour of the immune system, it depends on the statistical distribution of the cancer and the immune cells, it is a function of the u-state behaviour of the immune system, cancer cells proliferation or destruction depends on the interaction between cancer and immune cells and between the different immune cells themselves, it depends on the u-state change velocity rate between the u-state changes velocity of the immune and cancer cells. As a consequence it can be argued that cancer cell is an adaptative system, able to change its inner state and its inner state change velocity as a function of the external conditions and the interactions with the immune system. In Figure 1 represents the qualitative shape of the behaviour of two kind of cancer, whose data can be found on Ref. [7]: a highly aggressive and poorly immunogenic cell line established from the first in vivo transplant of the moderately differentiated mammary Aden carcinoma that spontaneously arose in a 20 month old multiparous BALB/c mouse and a poorly immunogenic methylcholantherene induced sarcoma of BALB/c mice. The shapes obtained agree with the experimental shapes reproduced on Ref. [7].

j: i: 1: Tumor 2: Envir. 3: Leuk. 4: Lymph. 5: Macroph

1: Cancer 0 1 ±1 ±1 ±1

Table I - βij coefficients (see Ref. [7]) 2: Envir. 1 0 0 0 0

3: Leuk. ±1 0 0 0 0

4: Lymph. ±1 0 0 0 0

5: Macroph. ±1 0 0 1 0

Figure 1 - Qualitative shape for the cancer growth as a function of the immune system answer (cancer data from Ref. [7])

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----[A presentation of the author can be found in Episteme N. 4]


205

A cybernetic model for the thorax potential in ECG maps A recent history of mathematical applications (Umberto Lucia) 1. - Introduction During the last three decades, computer modelling and mathematical simulation have become increasingly important in cybernetic and physics applications to physiology models. In fact mathematical modelling has been shown to be a substantial tool for the investigation of complex systems and their dynamics, and moreover, since the level of complexity it is possible to model parallels existing hardware configurations, primarily tuned to memory, disk capacity, and CPU speed advances in computer technology have made possible their application to the computational models of complex living systems. For these reasons, the computational methodology has taken hold in medicine and has been used successfully to suggest physiologically and clinically important scenarios and results [1]. The goal consists in understanding which of the system's characteristics and interactions are essential in order to quantify and represent its behaviour: such results may help to describe known behaviour as well as predict unknown responses and may suggest new representations. In this paper, the aim is to show a methodological technique to solve the inverse problem in electrocardiography (ECGraphy); to do so the fundamental of modelling and simulation technique, which can be applied to a class of bioelectric field problems, will be described. It will be analysed a class of direct and inverse volume conductor problems which arise in electrocardiography [2-5]. The solutions to these problems have applications to defibrillation studies, detection and location of arrhythmia, impedance imaging techniques, and localization and analysis of spontaneous brain activity in epileptic patients; furthermore, they can, in general, be used to estimate the electrical activity inside a volume conductor, either from potential measurements at an outer surface, or directly from the interior bioelectric sources. It will be described the recent history of the mathematical models used in the cybernetic interpretation of physiological input in the direct problems.

2. - Myocardium electric volume conductors A general volume conductor can be defined as a region of volume, Ω, with conductivity, σ, and permittivity, ε, in which it resides a source current per unit volume, Iv.  Solving a volume conductor problem means to find the expressions for the electric field, E , and potential, Φ, within the volume, Ω, or on the boundary surface, Γ. The bioelectric current sources, Iv, arise from excitable cells undergoing an activation process: for cardiac tissue, it can be characterized as the process in which the cells undergo rapid depolarization. The depolarization process causes a propagation of excitation waves to move through the myocardium and, as a consequence, these waves produce an extracellular potential field, Φ. This potential field can be characterized by [1-6] i. ii. iii. iv. v.

the geometry of the volume conductor the conductivity of the volume conductor the distance from the source current, Iv the orientation of the source current, Iv the intensity of the source current, Iv.


206

For the macroscopic volume conductor problem, in which the individual membrane currents are not considered, it is possible to apply a quasi-static approximation. Because the displacement current, jωεE, with j = − 1 , is much smaller than the conduction current, σE, the propagation effects are negligible, and inductive effects are dwarf [5]. In this case, the more general analytical form consists of a reduction of the Maxwell's equations to Poisson's one for electrical conduction: ∇ ⋅ σ ∇ Φ = − I v in Ω

(1)

In this form, the source region and an understanding of the primary bioelectric sources, Iv, are considered in the form of a simplified mathematical model. Alternatively, it is possible to define a boundary surface around the region which includes the sources and recast the formulation in terms of information on that surface, finding the following Laplace's equation: ∇ ⋅σ ∇ Φ = 0

in Ω

(2)

Now, these equations must be solved considering appropriate set of boundary conditions. The associated boundary conditions depend on the type of problem one wishes to solve. Here, the direct problem will be solved respect to Φ, with a known description of Iv and the Neumann boundary condition:  σ ∇ Φ ⋅ n = 0 on ΓT

(3)

This problem can be used to solve the direct ECGraphy volume conductor problems: it is possible to utilize the descriptions of the current sources in the heart and calculates the currents and voltages within the volume conductor of the chest and voltages on the surface of the thorax. The inverse problems associated with these direct problems involve the estimation of the current sources Iv within the volume conductor from measurements of voltages on the surface of the thorax itself. So it is possible to solve the equation considering the boundary conditions: Φ = Φ0

on Σ ⊆ ΓT

 σ ∇ Φ ⋅ n = 0 on ΓT

(4) (5)

The first is the Dirichlet condition, which says that it is possible to use a set of discrete measurements of the voltage of a subset of the outer surface, while the second is the natural Neumann condition, considered before. It does not look much different than the formulation of the direct problem, so the mathematician Hadamard [7] noticed that inverse formulations of boundary value problems were often ill-behaved and defined the conditions for well-posed and ill-posed problems. For a problem to be well-posed in the Hadamard sense, it must meet the following criteria: 1. 2. 3.

for each set of data, there always exists a solution the solution is unique the solution depends continuously on the data.


207

If a problem does not meet one or more of these criteria the problem is considered to be illposed. The bioelectric inverse problem in terms of primary current sources lacks two of the three criteria for being well-posed: a) there is not a unique solution; in fact there is a multitude of solutions b) the solution does not depend continuously on the data; in fact small errors in measurements may cause large errors in the solution. While many strategies tend to be problem-dependent, there are a few which are generally applicable to bioelectric field problems [7-9]: a general technique for dealing with the problem of nonuniqueness transfers the problem to be solved into a model problem. One usually breaks up the solution domain into a finite number of subdomains, in which a simplified model of the bioelectric source can be described. Once the problem of nonuniqueness is addressed, there still exists the problem occurring when the solution does not depend continuously on the data. In these cases, the linear algebra counterpart to the elliptic boundary value problem is often useful; in fact the numerical solution to all elliptic boundary value problems can be written as follows [7-9] in the form of a set of linear equations:   Az = u

  z ∈ Z,u ∈ U

(6)

  where z is the solution vector, u , is the vector of input data, A is the transfer matrix between  z and u , which describes the geometry and physical properties of the volume conductor, and Z and U are the metric spaces for the variables. In this way, the direct problemis simply posed   as solving for u given z , while the inverse problem is to determine z given u . A characteristic of A for ill-posed problems is that it has a very large condition number, so that the ill-conditioned matrix A is very near to being singular. The inversion of a matrix, which has a very large condition number, is highly susceptible to errors. The condition number is defined as κ(A) - ||A||.||A-1|| or the ratio of maximum to minimum singular values measured in the L2 norm. The ideal problem conditioning occurs for orthogonal matrices which have κ(A) ≈ 1 , while an ill-conditioned matrix will have κ(A) >> 1. The condition of a matrix is relative because it is related to the precision level of computations and is a function of the size of the problem [7-9]. For the ECGraphy problem, voltages could be measured on the surface of the heart and used to calculate the voltages at the surface of the thorax, as well as within the volume conductor of the thorax. The inverse problems are formulated as using measurements on the surface of the thorax and calculating the voltages on the surface of the heart. Here we are solving Laplace's equation instead of Poisson's equation, because we are solving for distributions of voltages on a surface instead of current sources within a volume [7-9]. If this problem is represented as a linear system, by expressing AΦ = b

(7)

for the Cauchy problem:  ATT   AVT A  ET

ATV AVV AEV

ATE   Φ  AVE   Φ AEE   Φ

  0    V  =  0   0 E    T

(8)

where the subscripts, T, V, and E stand for the nodes in the regions of the thorax, volume, and epicardium. In general, the ATE sub-matrix is zero, so it is possible to obtain:


208

ÎŚE = A-1 ÎŚT

(9)

3. - Physiological considerations and cybernetic model Clinical ECGraphy is concerned with the problem of relating the time-varying potentials measured at the thorax surface to the correlated electrophysiological phenomena in the auricles and ventricles, during the heart cycle. A detailed knowledge of the intracardiac charge distribution, the electromotive source, and the extracardiac distribution of electric potentials, during the various phases of the heart beat, is essential for a correct understanding of their correlation and the consequently pathologies [10]. The distribution of the potentials in volume conductors was investigated by immersing an isolated turtle heart in a cylindrical Ringer bath [10-12]: electrical recordings allowed the scientists to obtain the instantaneous equipotential maps corresponding to the ventricular activation. The maps showed that [10]: i. at the beginning of the ventricular excitation, the extracardiac potential distribution is similar to that of produced by a single electric dipole, both near the heart and at the boundary of the medium ii. the potential maximum is located near the apex of the heart iii. the potential minimum is located near the base of the heart iv. during later stages of ventricular activation, the potential distribution at the boundary of the medium is still of the single dipole, while the potential pattern near the heart is much more complicated v. during the multipolar phases, exploration of the medium near the heart provided information about the probable location of multiple intracardiac excitation waves vi. the potential distribution and the correlated current distributions suggested that two groups of active fibres are located in the right and left parts of the heart, at the end of ventricular activation As a consequence, it is possible to argue that, during the multipolar intervals, measurements, taken at increasing distances from the heart, contain less and less information on the heart activity. It is of considerable clinical interest to determine whether thorax surface ECGraphy allows to derive local heart information. Maps, representing the instantaneous distribution of the chest potentials, in normal subjects and in cardiac patients, may give significant information about the multiple depolarization waves travelling through the heart walls during the heart cycles, allowing to obtain a method of clinical prevention in cardiac pathologies [10,13,14]. In fact, in heart patient, the number, location and displacement of potential maxima and minima are different respect to those of normal subjects [10,13]. The cybernetic model use to analyse the physiological phenomena is the multipole expansion, which consists of an orthogonal expansion of the thorax potentials in spherical harmonics. To do so, the thorax will be considered as a cylinder with an approximated circular cross section and it will be drawn a sphere defined as follows [6]: 1. 2.

its centre is the symmetry centre of the cylinder its total area is the same of the cylinder.

Now polar coordinates are introduced defining their origin coincident with the centre of the sphere, the z axis along the vertical direction and the origin of the azimuthal angle Ď• on the


209

middle of anterior chest wall. In this geometry, it is possible to introduce the spherical harmonics functions Ylm(ϑ,ϕ), with l = 0, 1, 2, ... and -l ≤ m ≤ l, defined as [15]: Yl m (ϑ , ϕ ) =

1 2l + 1 (l − m)! d l+ m m ( − sin ϑ ) (cos 2 ϑ − 1) l e imϕ l l+ m 2 l! 4π (l + m)! d (cos ϑ )

(10)

It has been showed that the electric potential V t(ϑ,ϕ), measured at the thorax surface, can be expressed in terms of the spherical harmonics functions themselves as follows [6]: 7

l

∑ ∑

Vt (ϑ , ϕ ) =

l = 0 m= − l

g lm (t )Yl m (ϑ , ϕ )

(11)

where g lm (ϑ , ϕ ) =

0

π

dϕ ∫ d (cos ϑ )V (ϑ , ϕ )Yl m∗ (ϑ , ϕ )

(12)

0

The first 64 spherical harmonics provide a very good representation of the ECGraphy maps, taken with a particular arrangement of the leads on the thorax, but also the maps taken wearing the lead jacket with any arbitrary orientation with respect to a prescribed system of body axes. It can be shown that it is possible to obtain the same representation by using a less number of orthogonal functions introducing the Loéve-Karunen expansion. A good approximation to decoding the data collected by the leads on the thorax surface is the one provided by the research of the random variables which must be not correlated and by which it is possible to write that the signal f(t) can be represented as follows: f (t ) =

c kψ k (t ) + E[ f (t )]

k

(13)

where ck are the uncorrelated random variables, the ψk the waves forms a priori unknown and E[f(t)] is the error. At the beginning everything is unknown, so it is important to introduce a lot of mathematical conditions. They are [16]: 1. 2. 3.

the set of the waves forms {ψ k (t)} T must be a set of orthogonal real functions on the definition domain T the functions ψk are normalized to 1 as follows: 2 (14) ∫T ψ k (t )dt = 1 the coefficients ck are given by the relation: c k = ∫ f R (t )ψ k (t )dt T

(15)

with fR(t) = f(t) - E[f(t)], the measured signal 4. the functions ψk are numerated so that the variance of the random variables ck associated to them are in non-increasing order: E (ck2 ) ≥ E (ck2+ 1 ) (16) 5. the ψk are such that, if it is considered the truncated series: f N (t ) =

N

k= 1

c kψ k (t ) + E N [ f (t )]

the N-th remainder is minimum in quadratic means:

(17)


210

EN

{∫ [ f (t ) − T

}

f N (t )] dt = minimum

(18)

Under these hypotheses the ψk satisfies the homogeneous Fredholm integral equation:

T

K (t , t ' )ψ k (t ' )dt ' = λ kψ k (t )

(19)

with K(t,t') the correlation function of the random function, defined as: K(t,t') = E[fR(t) fR*(t')]

(20)

The technique of canonical expansion for random fields, the Loève-Karhuen expansion, has been applied to the ECG maps reconstruction as follows [6]: 1.

the measured thorax voltage has been written by the Loève-Karhuen expansion: V N (ϑ , ϕ ; t ) = Vˆ (ϑ , ϕ ) +

N

k= 1

g k (t ) Fk (ϑ , ϕ )

(21)

with Vˆ (ϑ , ϕ ) = M t , I {Vt (ϑ , ϕ )} , average on time and individuals of the measured voltage Fk(ϑ,ϕ) are normalized orthogonal functions on the domain [0,π]×[0,2π] of definitions of the fields, and are to be determined gk(t) are random variables evaluated as follows:

2. 3.

g k (t ) = 4.

1

0

−1

∫ dϕ ∫ V (ϑ ,ϕ ) F (ϑ ,ϕ )d (cosϑ ) t

k

the Fk are labelled in such a way that the following condition is satisfied: M t , I g k2+ 1 (t ) ≤ M t , I g k2 (t )

{

5.

}

{

}

the first N Fk are chosen in such way that: 1  2π M t , I  ∫ dϕ ∫ [Vt (ϑ , ϕ ) − V N (ϑ , ϕ )] 2 d (cos ϑ  0 −1

 ) = minimum 

(22) (23)

(24)

It follows that the Fks satisfy homogeneous Fredholm integral equation: 2π

0

1

{

}

dϕ ' ∫ M t , I [Vt (ϑ , ϕ ) − Vˆ (ϑ , ϕ )][Vt (ϑ ' , ϕ ' ) − Vˆ (ϑ ' , ϕ ' )]Fk (ϑ ' , ϕ ' ) d (cos ϑ ' ) = λ k Fk (ϑ , ϕ ) −1

(25)

The results obtained [6] showed that only N = 25 functions are necessary to describe the ECGraphy signals, so that only 25 leads are necessary to reconstruct the potential maps with a relative error of 1.5% [6].

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----[A presentation of the author can be found in Episteme N. 4]


212

REPRINTS


213

Galactic Encounters, Apollo Objects and Atlantis: a Catastrophical Scenario for Discontinuities in Human History (Emilio Spedicato) Dedicated to the memory of my my late uncle, dr. Umberto Risso. He led me to scientific investigation.

Summary: Recent findings about interactions of the Earth with extraterrestrial bodies, particularly comets and Apollo-like objects, are reviewed, with special attention to climatological effects. We discuss the hypothesis that the last glaciation was started by a collision over a continent and was terminated by a collision over an ocean. We propose that during the glaciation sufficiently good climatic conditions in the lower latitudes made possible for mankind to develop a high level of civilization. The Platonic story of Atlantis is interpreted as an essentially correct description of a political power active in the final period of the last glaciation. Arguments are given to identify the island of Atlantis with Hispaniola. The catastrophe which destroyed the Atlantis civilisation is identified with the oceanic collision which terminated the glaciation. In this framework we also propose a new interpretation of the flood stories in the Bible and in the Gilgamesh epics, and of the origin of the Camunian civilisation.

1. Introduction The idea that collisions between the Earth and celestial bodies have occurred in the past and have been responsible for dramatic geological and biological effects, including orogenesis and destruction of many species, was commonly accepted until the nineteenth century (see Whinston [1] and various statements in Laplace). In the second half of the last century, due mainly to the influence of Lyell in geology and of Darwin in biology, the concept of slow evolution by exclusively terrestrial mechanisms became dominant. In the early Fifties of this century Immanuel Velikovsky, drawing upon immense erudition, fought a lonely battle in favor of catastrophism of extraterrestrial origin. He not only invoked great catastrophes to explain geological features, but claimed that relatively minor catastrophes occurred in historical times, in particular in the first two millennia B.C. He related events like the plagues of Egypt and Sennacherib's army destruction under the walls of Jerusalem to natural catastrophes in the course of a great work [3, 4, 5, 6] aimed at synchronizing the traditions of Israel with the history of the neighbouring peoples. This work led him to propose a substantially revised chronology of Egyptian and related histories. While this is not the place to discuss the historical revision proposed by Velikovsky (that errors of centuries affect Egyptian chronology, upon which the chronology of the other ancient peoples is based, has now been claimed by astronomers as Clube and Napier [7] and by several historians, see for instance Bimson [121], James [122] and Rohl [123] or, for a more radical chronological revision, Heinsohn [136,137]) we have to observe that the extraterrestrial bodies which are now considered to be the main agents of the catastrophes, say the Apollo objects, were unknown to Velikovsky. Indeed, even if the first Apollo was discovered in 1932, in the Fifties the existence of such objects went practicallyunnoticed in the scientific community and no attention was paid by the astronomers to the question of their possible collisions with the Earth. Drawing upon astronomical information from mainly Babylonian sources, Velikovsky [8] was led to attribute the origin of the terrestrial catastrophes to interactions with Venus and, to some extent, with Mars, planets which he claimed to be recent offsprings of Jupiter and


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Saturn. There are substantial arguments against this hypothesis, to which Velikovsky was in some sense forced in absence of the type of information that we now possess. A remarkable explanation of the special role of Venus and Mars in Babylonian records has now been given by Clube and Napier [7], in terms of orbital periods commensurability between these planets and the comets Hencke and Halley. The hypothesis however that the orbits of the planets have changed during the period when Homo Sapiens has been living on the Earth, variously estimated from several thousand years to possibly more than one million years, cannot be completely discontinued, due to the recent discovery of the chaoticity of the planetary orbits, implying the possibility of very rapid changes with possible catastrophic effects. The so called polar planetary model, developed mainly by Talbott [124] and coworkers publishing in the journal Aeon, but going back to still unpublished work of Velikovsky, assumes that during man memory the planetary system passed from a previous configuration, related to the golden age, where Sun, Earth, Mars, Venus and Saturn revolved in an aligned configuration, to the present one via a catastrophical collapse of the previous configuration. For a study of the equations defining the polar configuration see Grubaugh [125], Spedicato and Huang [126], Spedicato [141]. In the Seventies sufficient information was collected about Apollo objects and the cratering history of the Earth and the Moon to arise again interest in the collisional hypothesis, and to give it a sound scientific basis. Possibly the first work to divulge the importance of the Apollo objects as agents of catastrophes was Wetherhill's article [9] on Scientific American in 1979. While already in 1979 Clube and Napier [10] independently rediscovered the terrestrial catastrophism of Velikovsky on the new basis of Apollos and comets impacts, in 1980 worldwide attention was given to the claim of Alvarez et al. [11] (but see also Ganapathy [12], Smit and Hertogen [13], Hsu [13] and, for a different view, Officer et al. [84]) that the disappearance of the dinosaurs 65 millions years ago was due to a collision with a large extraterrestrial object. The claim was based upon geological traces attributed to the impact which are found in a narrow layer of deposits marking the separation of the Cretaceous and the Tertiary geological sediments. The layer contains an unusually large amount (hundred of times greater than normal, around 105 tons of iridium) of minerals, like iridium, which are rare on the Earth, but common in extraterrestrial objects, like meteorites, and in interstellar dust. It was also found, see Wolbach, Lewis and Anders [78], that the layer contains a high amount of graphitic carbon, presumibly due to worldwide fires triggered by the heat wave associated to the impact. The total amount of carbon is such that much of the world vegetation and part of the surface deposits of fossil fuels must have been ignited. The location of the impact is now considered to be the so called Colombian basin, extending partly in the Caribbean Sea and partly in the Yucatan peninsula. Here a 300 km diameter buried crater, the Chicxulub crater, has been found surrounded by huge ejecta deposits, see Hildebrand and Baynton [79]. In the past other locations had been considered, including Ireland, the Manson crater in Iowa and a location close to Cuba, see Bohor and Seitz [80]. Theoretical work by Clube and Napier [7, 10, 14, 15, 16, 17], following the discovery of molecular clouds (see Cohen et al. [18] or Edmunds and Solomon [19] ), has nowput catastrophism in the fascinating and far reaching scenario of birth, evolution and death of planetesimals and cometary bodies. Numerical and experimental work on the effects of collisions has been performed by many authors, giving useful quantitative information. It will take however long to obtain a definitive picture, in view of the extreme complexity of the nonlinear phenomena under consideration. Even more "exotic" catastrophical extraterrestrial agents have recently been considered. They include: 1 - Fargion and Doron [142] have argued that the remote solar system space between the Kuiper belt and the Oort cloud has a significant population of planets with sizes between the


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Earth and Jupiter. The perihelion of these planetsis close to the Sun and their orbital period is of several million years. When approaching the perihelion they may pass close to the Earth with catastrophical effects due to tidal effects. They may also be captured bythe Sun and may have contributed to over 3% of its mass. Fargion andDoron do not discuss however the possibility of a close passage during Homo Sapiens time (i.e. in the last few hundred thousand years). 2 - Dar, Laor and Shaviv [143] have considered the possibility that the solar system would occasionally cross the very high energy jet produced by the collapse of a neutron binary system, an event that at thepresent known scale of the Universe appears to happen about once a day (as indicated by sudden bursts of Îł rays that have been associated to the event). The jets are expected to reach distances of a few hundred light years before disruption. Their crossing by the Earth would take a few weeksduring which period bombardment by high energetic particles (particularly muons produced by secondary reactions in the atmosphere) would affect life even at great depths in the oceans and in the soil. The event would be able therefore to explain the "big five" mass life extinctions in the last 600 million years. However one cannot see how it would explain the special geological features that are also associated with the extinctions. 3 - Collar [144] and Abbas et al. [145] have considered the passage of the solar system through one of the clumps of the dark matter that many cosmologists believe must exist in order to explain otherwise impossible dynamical phenomena in galactic and extragalactic systems (but see Van Flandern [146] for an approach where dark matter is not needed via reinterpretation and modification of the Newton gravitational law). The crossing of a dark matter clump would lead to absorption of dark matter by mainly the Earth nucleus, whose temperature would substantially increase. This extra thermal energy would finally escape to the Earth surface after an estimated period of 5 million years, in the form of huge venting of magma. The quoted authors hypothesize that this is the reason of the huge magma fields that are known as the Deccan and the Siberian traps, extending over hundred of thousand of square kilometers. They also notice that during the relatively short time of the clump crossing, estimated at a few years, also living beings would absorb some dark matter with very likely carcinogenic effects. The proposed mechanism would therefore explain the fact, that now seems well proven, see Stanley and Yang [147] or Benton [148], that the greatest mass life extinctions show two peaks, separated by some 5 million years. 4 - From the observation that all last five big extinctions happened while the solar system was crossing one of the spiral arms of our galaxy (the solar system crosses all arms of the galaxy in about four of its revolutions around the galaxy, since it has a proper velocity of about 70 km/sec with respect to the arms), Leicht and Varisht [149] have proposed, in addition to impacts whose likelihood is known to be much higher when crossing a galactic arm, catastrophical effects due to the passage in proximity of a supernova, supernovas being much more frequent inside spiral arms. In this paper we shall review the state of knowledge on Apollo objects and comets as agents of catastrophes, disregarding the previously considered galactic catastrophical events, whose occurrence is certainly much less frequent and most probably can be disregarded in the context of the holocen period. We shall describe the main features of the aftermath of an impact, in particular the effects on the climate. We shall propose that the last glaciation was initiated by a continental impact and was terminated by an oceanic impact. We shall then argument that a civilisation, the "Atlantis civilisation", flourished towards the end of the glaciation in the lower latitudes to be suddenly destroyed in the aftermath of an oceanic collision. Information about this civilization is contained in Plato's Timaeus and Critias.


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Platonic details about Atlantis will be discussed, showing that they can be accepted as plausible and that they lead to a precise identification of the Atlantis location. Arguments will be given to explain in the framework of an oceanic collision the biblical story of Noah and the Sumerian story of Utnapishtim. These stories will be considered as describing the aftermath of an oceanic collision experienced at two different locations, probably not the same collision that terminated the Atlantis civilization. Finally, a tantalizing hypothesis will be offered on the origin of the unique Camunian civilisation.

2. Apollo objects and comets The name Apollo is applied to a class of asteroid-like objects, whose perihelion lies inside the orbit of the Earth (see Krinov [20] or Watson [21] for a general presentation of these and similar objects). The first Apollo was discovered and given this name by Reinmuth, in 1932. In 1937 a similar object, named Hermes, passed at only 800.000 km from the Earth. Over one hundred Apollos of diameter at least one kilometer are presently known. Some of them have a diameter over ten kilometers. The first object in this class of large Apollos was discovered in 1978 and named Hephaistos. There is an object (Amor object 1036, also named Ganymed) with a diameter close to 39 kilometers. The best studied Apollo is Toutatis, which on 8 December 1992 passed at just 0.0024 astronomical units, i.e. 9.4 lunar distances, from the Earth. Toutatis has a potato-like form, like comet Halley, principal axes of km 1.92, 2.40 and 4.60, almost homogeneous density, perihelion at 0.92 AU and eccentricity 0.63, see Ostro et al. [115] and Hudson and Ostro [116]. The search for Apollos goes on actively, quite a number of them having been found in 1983 using the satellite based IRAS telescope. The number of Apollos with a diameter of over one kilometer is estimated to be at least one thousand, with possibly more than one hundred concentrated in the Taurid-Arietid meteor stream. Various proposals have been made about the origin of the Apollos. A study by Hartmann [22, 23] of the ages of the craters in the solar system, particularly in the Moon, whose craters are attributed to impacts with Apollo-like objects, has shown that, apart from superimposed fluctuations, the rate of cratering has been essentially constant in the last three billion years. However it was thousand of times higher when the first rocks were formed some 4.5 billion years ago. This observation suggests that a large number of Apollo-like objects were formed coevally with planets in the condensation of the primeval nebula, the process which according to most theories led to the formation of the solar system. However most of the original Apollos have by now disappeared in collisions with planets and their satellites. The present population must be essentially formed by new Apollos, which are generated in some way to compensate the loss of older Apollos in collisions with planets and the Sun. One of the possible sources of Apollos is the asteroid belt, from which asteroids can be expelled into Apollo orbits through gravitational perturbation by Jupiter; also fragments of asteroids can be injected into Apollo orbits after impacts with comets or other bodies in the same belt. Numerical considerations on the size of the present Apollo population and on the possible rate of replenishing from the asteroid belt indicate however that this source is inadequate, albeit the problem is still not completely settled (Whetherill [24], [120] ). Degassed comets or fragments of comets are presently considered to be the main source of the Apollo population. A general theory on the formation and evolution of comets up to their catastrophic end in collisions with larger bodies has been developed by Clube and Napier [7, 14, 16] and other authors (e. g. Yabushita [25], Napier and Staniucha [26]). Here we synthetize the theory by main lines: - Comets, together with meteorites and dust grains, are formed in the huge (up to one million solar masses or more) cold molecular clouds found in the galactic spiral arms and in the


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galactic plane, through a process of accretion, which can also lead to the formation of planets and stars. - Apart from a marginal number of comets whose orbits lie in the region of the planets, most of the comets of the solar system are supposed to belong to two main populations: A - the Kuiper belt, estimated to consist of about 10 12 bodies at a heliocentric distance of some 104 A.U. The existence of the Kuiper belt, about which many doubts were voiced till not long ago, seems now to be confirmed by the discovery of bodies belonging to it of sizes up to 600 km, see [150]. Many astronomers now deem that Pluto is a body that was removed not too long ago form the Kuiper belt and at the beginning of 1999, in correspondance with the fiftieth anniversary of Pluto discovery, there was serious discussion in Internet whether it should be removed from the official list of the planets. The removal of Pluto from the much farther away Kuiper belt into its present orbit can be explained by several processes, in particular by special tidal gravitational effects, as shown by Del Popolo and Spedicato [151] B - the Oort cloud, whose existence is still hypothetical, see for instance Van Flandern [146], consisting of possibly 1014 comets in highly elongated orbits (spanning up to 50.000 astronomical units, say half the distance to the closest star), with periods of a few million years. While the traditional view of the origin of the Oort cloud, see Oort [27], considers it to be coeval with the solar system, Clube and Napier claim that only a marginal portion is left of the primordial cloud, most comets having being acquired after the solar system was formed, through the following mechanism. The solar system is known to orbit around the galactic center with a period of about two hundred million years and an average speed of about 230 km/sec. The orbit has a component perpendicular to the galactic plane which is crossed up and down about every 30 million years. During its movement the solar system crosses also galactic arms, which are populated by molecular clouds, often arranged in numerous groups. The last crossed galactic arm was the Orion arm, which contains molecular clouds in the Gould belt. The time of the crossing is no more than five-ten million years ago, possibly much less if deceleration effects on the solar system are taken into account. While crossing a galactic arm or the galactic plane, there is a significant probability to pass through or very near to a molecular cloud. In such a case the solar system undergoes a strong gravitational perturbation, the effect of which is twofold. First a large part of the comets in the Oort cloud lying outside a radius of some 103 astronomical units are stripped away. Secondly, on leaving the molecular cloud, the Sun captures a number of planetesimals from the cloud itself. As the solar system has crossed molecular clouds many times since its formation, most of the primordial comets have been lost, hence the majority of the comets in the Oort cloud are now of interstellar origin. Moreover the periodicity inherent in the crossing of the galactic arms and of the galactic plane becomes reflected in periodicities (cycles of 200, 60, 30 million years) of events in the inner solar system. Such cycles have been observed on the Moon and on the Earth in events like cratering rate (see Grieve and Dence [28], Rampino and Stothers [29], Alvarez and Muller [30]), magnetical reversals (see Doake [31]), geological boundaries, principal plate movements and glacial ages (see Mc Crea [32]), biological extinctions (see Mc Crea [32], Fischer and Arthur [33], Raup and Sepkoski [34]). - The number of comets in short period orbits is small and their orbits are generally dynamically unstable due to gravitational perturbations by the planets and mass variation following degassing and fragmentation. The life of a comet in short period orbit as an object which can produce a shiny tail when approaching the Sun (active comet) is only of a few thousand years; after this span of time the degassed comet becomes a new member of the population of the Apollos (or of other similar bodies, like the Amor objects). Evidence of this evolution is seen in comet Encke, whose orbital parameters and luminosity have drastically


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changed since it was first observed; comet Encke is currently considered to be on the way of becoming a new Apollo. Conversely, the large Apollo object Hephaistos has orbital parameters very similar to those of comet Encke. It is currently supposed that both Hephaistos and Encke are fragments of a larger comet which fragmented not long ago. The limited life of short-period comets implies that a replenishing source must be active. The Oort cloud itself appears to be the required source, through the following mechanism (see Everhart [35, 36]). When a comet of the Oort cloud approaches perihelion, it becomes subject to gravitational perturbation by the larger planets. Numerical simulations, see Yabushita [25], show that in most cases the effect of the perturbation is to inject the comet into a hyperbolic orbit, therefore expelling it from the solar system. In a few cases however the orbital parameters can be changed into those of intermediate period comets (those orbiting beyond Saturn), which evolve later into the short-period orbits and finally into the (relatively stable) Apollo orbits. - When a large comet (say of diameter greater than 100 km) is captured from the Oort cloud, the resulting evolution presents various and complex features. Episodes of fragmentation into smaller comets and boulders are expected. One cause are tidal stresses due to Jovian gravity which can destroy any body in certain size and material strength intervals. Another cause may be exothermal reactions in the interior of the comet due to chemical reactions or phase transition (at 153 K the ice structure changes from amorphous to crystalline liberating energy). The result of these fragmentations (which apparently are often observed in the sky as a sudden flaring, followed by the discovery of a new comet) is that there is an accumulation of smaller active comets, of Apollos, of boulders, of dust and gases (the mass of these up to half the mass of the large captured comet) along an ellipsoidal torus, with angular concentrations, spreading with time, along the directions corresponding to the fragmentation episodes. Experimental data from zodiacal light, interplanetary dust, the distribution of meteor streams and fireballs, the structure of the orbits of the Apollo and the short-period comets, have led Clube and Napier [7, 17, 81, 82] to the following conjecture: a large comet (100-200 km diameter) has been captured some 20.000 years ago, has undergone fragmenting and degassing phenomena and in the course of these has dramatically interacted with the Earth. In particular it has been responsible for the last glaciation and for minor catastrophes in the last millennia, including those attributed by Velikovsky to an extraterrestrial agent. Clube and Napier suggest moreover that a yet undiscovered large fragment (diameter around 30 km) of the original comet is orbiting along the torus; tentative orbital parameters which could lead to its observation are estimated. It is finally predicted that in a next future (around the year 2030) the Earth will cross again that part of the torus which contains the fragments, an encounter that in the past has dramatically affected mankind. We conclude this section with a reference to alternative theories. Whitmire and Jackson [37] and Davis et al. [38] assume the existence of an unseen companion of the Sun, named Nemesis, of the size of a black dwarf, with an orbital period corresponding to the observed 30 million years cycle in the biological extinctions. On approaching perihelion Nemesis would gravitationally perturb the system of external comets, producing effects similar to those previously described in connection with the crossing of molecular clouds. Whitmire and Matese [85] and Van Flandern et al. [86] postulate the existence of a tenth planet beyond Pluto, named planet X, which could produce the considered periodical cometary perturbations by gravitational effects on a belt of comets lying beyond Neptune. Finally, Van Flandern [146] has presented several substantial arguments in favour of the explosion of a planet in the region of the asteroid belt a few million years ago, a proposal originally considered by many authors in the past but not with the wealth of arguments given by him. Such an explosion, in addition to explaining the formation of the asteroid belt itself and several other features of the solar system, would have led to the formation of a large number of cometary bodies, many of them evolved now into Apollos.


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3. Collisions of Apollos with the Earth: transient effects As the perihelion of the Apollos lies inside the orbit of the Earth, it follows on precession reasons that the Apollos will periodically cross the orbit of the Earth. On the average, the frequency of the event for a given Apollo is one crossing every five thousand years. Of course, orbit intersection does not necessarily mean impact, as the Earth will generally be far away when the Apollo crosses its orbit. However, there is a finite probability of an impact, readily estimated at 5-9 per year per single Apollo. This probability implies an average lifetime for the Apollos of two hundred million years, which is reduced to thirty million years if impacts with other planets are considered, and to about fifteen million years if impacts with the Sun are considered, an event which only recently has appeared to be possibly the most common fate for such objects, see Farinella et al. [117]. With an estimated population of 2000 Apollos of at least one kilometer diameter, it follows that more than nine impacts with such objects are expected on the average every one million years. If the estimated distribution of Apollo sizes is taken into account, the impact with a larger Apollo, say of ten kilometer diameter, is expected every 50-100 million years. On the other hand, impacts with smaller bodies (say 100-200 meters diameter) are expected every few centuries. See Spedicato [106] for arguments that a super Tunguska impact occurred on the Pacific Ocean close to year 1178. If close fly-bys are considered, then every century an Apollo of at least one kilometer size is expected to pass closer than the Moon, an observation that led NASA, see [39], to plan a rendez-vous between an Apollo and a TIROS satellite. Impacts with active short-period comets are similarly possible. However the number of such impacts is expected to be a small fraction of those with Apollos, since there are much fewer such comets than Apollos. The last known large body which impacted on the Earth was the famous Tunguska object. On June 30, 1908, at 7.17 a.m., a great explosion occurred in the sky over the basin of the Stony Tunguska river in central Siberia. The explosion was heard in a radius of about one thousand kilometers; a column of fire arose from the ground to an estimated height of 20 km and was visible 400 km around. Trees were destroyed and burnt, in a peculiar way, over an area of ten thousand square kilometers. Before the explosion, a bright trail was observed in the sky over western China. For many following nights the sky was unusually luminous over Europe and western Asia, allowing to read newspapers without the help of artificial light. Due to the remoteness of the affected area, the first scientific exploration in situ was made only in 1927 by the soviet geologist Kulik. No visible fragments of the exploded body were found locally, the object having apparently vaporized in the atmosphere. Later accurate field work uncovered from the soil peculiar black and shiny metallic spheres. Numerous small shallow craters 50 - 200 meters diameter were found, see Hughes [87]. The metallic spheres have shown a typical extraterrestrial high content of iridium, nickel, cobalt and other metals. Analysis of Antarctic ice cores by Ganapathy [40] has similarly shown that an unusually high content of iridium and other metals is present in the layers corresponding to the year 1912 with an uncertainty of two years; a natural interpretation is that the Antarctic iridium was deposited after worldwide stratospheric diffusion of the vaporized debris of the Tunguska object. From the Antarctic data, a global fallout of 7 million tons has been estimated; assuming that the exploded object was of the carbonaceous chondritic type, its size would have been about 160 meters. However, there is still much uncertainty about the composition and the size. For instance, Turco et al. [41] assume that the body was a loose collection of particles of dust and ice (as most comets are supposed to consist), with a density of 0.003 g/cm3 , a mass of 3.5 million tons, and thus a diameter for spherical shape of 1.3 km. From the estimated orbital parameters (speed 40 km/sec, approach angle 30 degrees) the object could well have been a fragment of comet Encke. The energy corresponding to Turco's data is


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1.4×1025 erg, approximately the same liberated in the explosion of five hundred hydrogen bombs of one megaton (500 MT); the energy corresponding to Ganapathy's data would be 1000 MT. Estimates as low as 10 MT or 30 MT have also been given (Ben-Menahem [103], Deacon [104]), while La Violette [105] again argues for energies in the range 250 - 1000 MT. An important effect of the Tunguska atmospheric explosion, analyzed by Turco et al., may have been the production of large amounts of nitric oxide (up to 30 million tons), leading to a strong depletion (30%) of the stratospheric ozone. While the overall effects of the Tunguska event were negligible (but had the impact occurred a few hours later, it would have brought havoc in Europe), impacts with more energetic Apollos are expected to have dramatic consequences on the biosphere and the lithosphere. The description of these effects cannot be quantitatively accurate, due to the extreme complexity and nonlinearity of the phenomena. The effects depend on many factors, including the composition of the Apollo (whether chondritic, metallic or icy), the kinetic energy (proportional to the mass and to the square of the velocity with respect to the Earth; this can vary between 15 km/sec to over 70 km/sec with an expected value around 25 km/sec), the approach angle and the location of the impact (in particular whether continental or oceanic). For sake of exemplifying, we shall consider an Apollo object of "typical" parameters, say diameter 1.4 km, chondritic density 3.3 g/cm3 and relative speed 25 km/sec. The energy of this object would be about 3×1028 erg, about the same liberated in the explosion of one million hydrogen bombs of one megaton 106 MT). This energy is comparable with the energy liberated in the largest historically observed earthquakes 10 25 erg, with the yearly average earthquake budget 5×1025 erg) and with the total heat flow from the Earth 1.8×1028 erg). Impacts with larger Apollos (around 10 km diameter) would have energies in the billion MT range, their frequency being O(108) years. Even impacts with energies in the trillion MT range could have occurred in the Earth history, probably in the first 1.5 billion years since solidification of rocks, when the Apollos population, as estimated from the frequency of Moon cratering, was several orders higher than now. Let us now consider, at least qualitatively, the effects of the impact with the hypothesized "typical" Apollo. Of the available energy, only a few per cent would be spent in the atmosphere, punching an almost instantaneous hole and creating a heat and pressure wave. The ablation effects of the atmosphere would be negligible and the Apollo would reach the surface of the Earth with almost unchanged mass and velocity. The heat and pressure wave created in the atmosphere would propagate outwards at tremendous speed, with lethal effects in a radius of hundred of kilometers. For a larger Apollo with energy in the billion MT range the atmospheric disturbance would be colossal and extended over hemispheric areas. For instance it can be estimated, if ten per cent of the initial energy goes into the blast wave, that at 2000 km from the impact point the wind velocity would be 2400 km/h, with a duration of 0.4 h, and the air temperature would increase by 480 degrees. At 5000 km the velocity would be 400 km/h, the duration 0.8 h and the temperature would increase by 60 degrees. At 10.000 km these numbers would be respectively 100 km/h, 14 h and 30 degrees. Additional effects in the atmosphere would be chemical reactions leading to the formation of poisonous substances, like cyanogen, or nitric oxide, which would completely remove the protective layer of stratospheric ozone. Also, particle acceleration processes generating neutrons in the MEV range might produce, inter alia, radiocarbon C14 (see Brown and Hughes [42]). This process, which may be present in lesser events, including fireballs, has important consequences on the radiocarbon dating method (note that Velikovsky [5] predicted radiocarbon variations due to extraterrestrial causes). Suppose now that the impact point lies on a continent. An additional few per cent of the available energy is transmitted to the continental crust under the form of seismic wave, generating a worldwide earthquake. In the case of energies in the billion MT range, land waves meters high would probably occur. A transfer of momentum to the tectonic plate and to


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the underlying mantle would also occur; the transferred momentum would exceed the existing one for bodies of a few kilometers diameter. While enhanced volcanism would probably follow events even in the 104 MT range, the change of plate movement directions for the more energetic 107 MT) events would very likely enhance orogenesis and also start magnetic reversals (see Velikovsky [2], Clube and Napier [15], Opik [43]); notice that there is now evidence of very rapid change of the geomagnetic field during a reversal, up to 6 degrees per day, see Coe et al. [114]). Thus impacts with large Apollos would have important geological and astronomical consequences, with a periodicity induced by the crossing of the molecular clouds. Shifting of plates by substantial amount could also happen. With the support of Einstein, Hapgood [107] proposed that a shifting was the main factor of the last glaciation, but he considered such a shifting to be caused by centrifugal effects due the asymmetry in the Earth induced by the presence of polar ice. Most of the initial available energy (around 80%) is spent in creating a crater and (around 10%) in injecting dust, including the vaporized Apollo itself, into the stratosphere. The amount of dust is expected to be over one hundred times the mass of the impacted Apollo. For the hypothesized Apollo the dust production would be many times greater than the dust emitted during the greatest volcanic eruption of historical times (say the Tambora eruption of 1815; according to Strommel [44] about 100 km3 of debris were produced, only part of them injected in the stratosphere as fine dust, enough however to produce a substantial worldwide cooling . It should be noted however that the greatest eruption known for the last 100.000 years, the eruption of the Toba volcano in Indonesia, is not associated with a glaciation despite the emission of estimated 1000 km3 of debris; if dust is not emitted with sufficient energy it cannot spread all over the globe). Moreover enhanced volcanism would probably add dust during a long period after the impact, an effect which probably showed up dramatically after the impact which terminated the Cretaceous, see Officer et al. [84]. In the case of a larger Apollo, the amount of dust may well be in the order of many thousand cubic kilometers, shielding completely the surface of the Earth from sunlight. The problem of determining the evolution of a dust cloud injected in the stratosphere and its effects on the amount of light reaching the Earth surface is very complex. The diffusion time from a single source over the whole planet is expected to be about three months (see Lamb [45]). Clearing should begin at the lower latitudes, being virtually complete in about six months. The time for complete removal of the stratospheric dust seems to be around three years and essentially independent of the initial total amount of dust. In the formation of the crater the energy is spent in minor part in fracturing and heating the rocks, mostly in ejecting them. For high energetic impacts a portion of the ejects consists of liquefied rocks, which becoming solid form the so-called tektite fields. Most of the ejected material will however be solid and will accumulate in a circular ring around the cavity. The size of the crater depends in a complex way on the energy of the Apollo and on other factors; an approximate formula states that the energy E required to excavate a crater of diameter D grows with relation E = D 3.4 . For the hypothesized Apollo a crater of some twenty kilometers diameter is expected; for the largest Apollos craters of hundred kilometers would be generated. For sufficiently large energies, the crater has a complex structure, with a central uplift due to rebound of the rocks. The bottom of the crater is covered by broken rocks (breccia), forming a layer possibly hundreds of meters deep (see for instance Grieve [88] or Melosh [89] ). On the Earth hundreds of craters have been detected by now and their size distribution corresponds to the expected one. Some craters (Popigai in Siberia, Sudbury in Canada) are in the 100 km diameter range. The expected depth of a crater is only a fraction of its diameter. As the continental crust has an average depth of about 80 km, no venting of magma is generally expected. Only for the very rare events in the trillion megaton range, the continental crust might be broken with magmatic emissions. We conjecture that the origin of the few very old volcanic


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structures that are found in the interior of tectonic plates, like the Tibesti plateau in the Sahara, can be attributed to such continental super-impacts. Suppose now that the impact point is located on the surface of an ocean. As oceans cover almost three fourths of the Earth surface, most impacts will be oceanic. It is a remarkable indicator of the work yet to be done in oceanic exploration the fact that until 1987 no traces had been found of craters in the oceanic floor, of which there should be plenty (even taking into account the fact that no rocks in the oceanic bed are older than 200 million years). The first underwater crater was detected in 1987, see Jansa and Pe-Piper [90], on the North Atlantic continental shelf, 200 km south-east of Nova Scotia. It is a complex type crater, with a diameter of 45 km and a central uplift 1.8 km high and 11.5 km large. The crater is covered by a layer of about 600-800 meters of breccia and by 200 meters of sediments deposited after the formation. The impact is estimated to have occurred about 50 million years ago, the size of the impacting body evaluated at 2-3 km. Structures which may be associated to oceanic craters are the so called oceanic plateaus, found for instance in the Central Pacific. They seem to consist of the huge amount of lava flowed after an impact fissured the oceanic bottom, see Rogers [91]. When dealing with oceanic impacts, an important observation has to be made about the oceanic floor: it can be part of the submerged continental shelf (whose area is a good fraction of the emerged lands) or it can be the proper oceanic floor. In the first case the oceanic floor consists of a solid crust with a depth of thirty kilometers or more (up to the Mohorovic discontinuity, see Franchetau [46] or Burchfield [47]). In the second case it is very thin, about 2.5 km under the oceanic ridges, increasing to about seven kilometers near to the continental shelf. The difference in depth between the continental and the oceanic crust plays a fundamental role in the different climatic effects of continental or oceanic impacts. The main transient effects of an oceanic impact are the following: blast wave in the atmosphere, formation of a transient crater in the water and subsequent tsunami, earthquake following the impact with the oceanic floor, formation of a crater in the oceanic floor and possible emission of magma. The blast wave and earthquake effects are similar to those in the continental case, but the earthquake would probably be less severe, due to the lesser strength of the oceanic crust. Let us consider the other transient effects. Approximate analysis of the temporary crater in the water and of the following tsunami has been performed for instance by Gault et al. [48] and by Strelitz [49]. Assuming an ocean of infinite depth, the hypothesized Apollo of 106 MT energy would create a temporary, approximately hemispheric crater, quite similar in shape to a crater in rock, since in both cases the post-shock overpressure in the materials greatly exceeds their strength. The crater would have a maximum depth of 13 km and a maximum diameter of 30 km. Most of the available energy (92%) would be spent in ejection of water, shock heating and formation of waves, the remaining being transformed into potential energy of the displaced water. The formed crater would soon collapse, a column of water ten kilometers high developing over the impact point. The collapse of the column originates a system of waves, with amplitudes decreasing, in free ocean, inversely with the distance. The height of the waves would be about one kilometer at 100 km from the impact and 100 meters at 1000 km. On approaching the shores substantial amplification of the wave height would follow, the exact value of the amplification depending on the geometry of the coast. A global catastrophic tsunami, with substantial continental flooding, would be therefore the consequence of an oceanic impact. In the previous analysis, an infinite depth of the ocean was assumed. As the average oceanic depth is only 3.7 km (with a maximum of 11 and a value of only 2.5 over oceanic ridges), all Apollos in the energy range over 10 6 MT would hit the oceanic floor with still a substantial part of their initial energy. A quantitative study of the cratering effects in the oceanic floor has not yet been made, at the knowledge of this author. Therefore the following considerations will be qualitative. A worldwide earthquake would be generated, as previously


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observed, not as severe as in the continental impact case, but probably enhancing the tsunami effects. Breaking of the thin oceanic floor and emission of magma is expected, if the impact occurs on the proper oceanic floor. If little energy is left in the Apollo when it reaches the oceanic floor, the emission of the magma may be essentially a slow venting, an enhanced form of sub water volcanism, with heating effects proportional to the affected area (possibly thousand of square kilometers) during a quite long time period. When much energy is available, as first approximation the existence of the oceanic crust may be disregarded and the impact may be considered equivalent to a direct impact on a bed of magma. A crater would be formed in such a bed, with ejection of large amounts of hot magma, in the order of hundred or thousand cubic kilometers. The heating effects would be at first order proportional to the volume of the displaced magma, determining the almost instantaneous evaporation of several times that volume of oceanic water. Subsequent slower venting with surface heating effects would go on for some period. Of course, the clouds formed by the evaporated water would be carried around the globe by the winds and a truly "universal flood" would inevitably follow. Finally, observe that little dust is expected to be injected in the stratosphere following an oceanic impact. The darkening of the sky, if any at all, would last even for the largest event two or three months at most (see Emiliani et al. [50], O'Keefe and Ahrens [51], Poupeau [52] ). This will be reflected in the climatic consequences, that, as discussed in the next section, are of heating the globe in the case of oceanic impacts, of cooling it in the case of continental impacts. Before discussing the climatological effects of an impact, we briefly mention, for completeness, some possible effects on astronomical parameters of the Earth: - changes in orbital parameters are discussed by Brunini [118]; both impacts and close encounters with comets or asteroids of the previously discussed size, modelled by a Brownian motion, can change semimajor axes by about 10-5 AU over the usually assumed total solar age of circa 4 billion years; the change per impact would therefore be very small, of the order of few meters - under certain conditions on the impact location and momentum size and direction by gyroscopic effects there can be a change in the Earth rotation axis, including a reversal, see Barbiero [109]. As consequence of a reversal the northern and southern sky emispheres would interchange and the Sun would appear to rise in the West instead that in the East. According to an Egyptian tradition related by Herodotus, in the past twice the Sun has been rising in the East and twice in the West, which is an indicator of three inversions in human memory. Quite intriguingly the Egyptian priest in Plato's story of Atlantis, see the following section 5, speaks of three "major" catastrophes. A natural criterion for qualifying a catastrophe as major would certainly be the interchange of the southern and northern skies and of the rising and setting points of the Sun - changes in the duration of the day and in the obliquity of the rotation axis might also be considered, but to our knowledge no quantitative estimates have ever been made.

4. Impacts of Apollos: climatic effects and a hypothesis on the last glaciation In this section we shall consider the climatic effects of Apollo impacts, showing that global cooling is expected after a continental impact, while global heating should follow an oceanic impact. Under suitable conditions a glaciation can be started in the first event, while an existing glaciation can be terminated in the second event. The hypothesis will be discussed that such has been the case with the last glaciation. As discussed in the previous section, a major effect of a large continental impact is the injection in the stratosphere of hundred or thousand cubic kilometers of fine dust, which then


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spreads over the whole globe, possibly completely shielding sunlight. Clearing of the sky initiates after a few months at lower latitudes and is completed after two or three years (at least if possible additional dust injection by enhanced volcanism is disregarded). Now a dust veil which completely screens radiation from the Sun must also produce a greenhouse effect on the Earth, blocking the escape into the space of the terrestrial heat. In usual conditions the surface heat content of the Earth per unit volume is larger in oceans and at lower latitudes. In a globe surrounded by a permanent perfectly insulating dust veil the equilibrium thermal condition should be characterized by an essentially uniform temperature distribution. As most of the surface heat is contained in the oceans, the sudden formation of a dust veil blocking the Sun radiation would cool the oceans at lower latitudes and warm them at higher latitudes, through a heat exchange process characterized by violent storms. An almost thermally stationary world would finally result, where the only thermal changes would be the slow temperature increase due to the heat flow from the interior of the Earth and the transient effects related to tectonic movements, like earthquakes and volcanic eruptions. Of course, the above picture describes an unreal situation, since no permanent completely insulating dust veil is ever expected on our planet. However the mechanism leading to that state would be operating for some time and the expected result, under the present conditions of the Earth, would be the starting of a glaciation. This type of process has been studied mainly by Hoyle and Wickramasinghe [53], see also Hoyle [54]. These authors have criticized the traditional mechanisms for explaining glaciations in terms of small variations in the Earth albedo or solar radiation, claiming that the Earth heat exchange mechanism between lower and higher latitudes can cope well with the effects of small variations. Mathematical work by Chalikov and Verbitsky [55] on a global Earth climate model has indeed confirmed the stability of the Earth climate for a wide range of perturbed solar regimes. With the diffusion of the dust veil over the globe, the atmosphere would cool rapidly over the continents, while remaining relatively warm over the oceans. Thus the usual thermal nonequilibrium conditions which drive the normal heat exchange through winds, rain, snow etc. would be enhanced and violent and long lasting storms would be expected worldwide. At lower-middle latitudes the storms would bring heavy rain that could fill interior continental depressions. This is what happened during the last glaciation, when depressions covering million square kilometers were filled with water (for instance lake Tchad in Sahara, lake Murray in Australia, the Caspian Sea, the many salty lakes in Xinjang and Tibet, in the Armenian and Iranian plateau and in western United States). At middle or high latitudes the storms would bring snow and ice would be formed by accumulation of snow. As the direction of the storm carrying winds depends at large on the Coriolis force, related to the rotation of the Earth and unaffected by the impact (unless a pole inversion had occurred), we expect a peculiar pattern in the distribution of the ice cover. This is what we indeed observe in the last glaciation. In the northern hemisphere, for instance, most of the Pacific water should be carried eastwards, in the direction of North America. In fact, as expected, North America was covered by ice, approximately north of the line Portland - New York, while eastern Siberia, northern China and Korea were essentially ice free. Similary we expect snowy storms originating in the Atlantic to have affected the whole of central-northern Europe and part of western Siberia (as it actually happened), but possibly not central Siberia, the clouds clearly getting depleted after moving several thousand kilometers over a continental area. The configuration presented by the Earth after the settling of the dust veil would thus be one of extended ice cover at high latitudes, of filling up of internal continental depressions, of a lower oceanic level (variously estimated at between minus 60 - minus 130 meters at the end of the last glaciation) and lower oceanic temperature with corresponding reduced evaporation. In other terms, a typical glaciation configuration would have resulted in a very short period. Geological evidence for almost sudden onset of many glaciations is now available, see Bryson [56], Ruddiman et al. [57], Yapp and Epstein [58].


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That such configuration can be essentially stable is proved a posteriori by the fact that, apart from climatic oscillations which are present also in our postglacial times, the last glaciation lasted some twelve thousand years (from about 22.000 A. D. to about 10.000 A.D.). Physical conditions which can maintain a glaciation are the following: - periodical replenishing of the dust veil due to increased volcanism (expected after a continental impact!) or, in the Clube-Napier scenario of a large fragmented comet, to the crossing of the dust filled portions of the torus associated to the comet fragments - increased albedo of the Earth surface due to the extended ice and snow cover - increased albedo of the stratospheric layer due to the extended presence of ice crystals of the type named by Hoyle "diamond powder". Some comments are needed on the last physical condition. Tiny droplets of water in the stratosphere under certain conditions can stay liquid (supercooled liquid phase) till the temperature drops to -40 째C, when they suddenly crystallize in the "diamond powder" form, which reflects almost completely sunlight. The temperature of such droplets in the stratosphere depends essentially on the amount of radiation absorbed in the peculiar wavelength emitted when water vapour condenses. In present conditions "diamond powder" is found permanently only over the poles, where it is responsible of many optical phenomena. During the last glaciation, due to reduced evaporation from the colder oceans, the "diamond powder" layer surely extended over a larger region, probably up to the middle latitudes. Incidentally, no "diamond powder" layer could be formed if the oceanic temperature, and thus evaporation, would be sufficiently high. Now, oceanic temperature depends on continental masses distribution, being lower when a continent lies near a pole, higher otherwise, the difference being up to ten degrees. Antartica reached the South Pole about forty millions years ago and many glacial episodes have since occurred. There have been very long geological periods without glaciations when no continent was near the poles. However a continent can be on a pole and glaciations may not occur (as it happened 500 millions years ago, when North Africa was at high latitudes), since they depend on collisional episodes, which are modulated by the previously discussed crossing of galactic molecular clouds. Let us now consider how a glaciation can be terminated by an oceanic impact. In the previous section we have seen that oceanic impacts have very different consequences than continental impacts. Smaller tectonic effects and lower emission of fine dust are expected. The main features are a colossal tsunami and the production of large amount of water vapour (following the formation of the temporary crater, the release of magma and the enhanced submarin volcanism). The overall climatic effects are clearly in the sense of a global heating. In particular, Emiliani et al. [50] have conjectured that the extinction of the dinosaurs 65 million years ago was due to the rapid global heating (at least l0 degrees ) which followed the impact in the Caribbean sea. An oceanic impact occurring in a period of glaciation could well provide the mechanism for terminating the glaciation. The following actions would indeed be operating: - the tsunamic waves would invade million square kilometers of continental areas, including ice covered regions. Partial melting of ice would follow, due to the higher temperature of oceanic water and its salt content, which lowers the melting point. While the volume fraction of melted ice cannot be great, the surface fraction of area liberated from ice cover would be greater, decreasing the albedo - the huge amount of water vaporizing from the impact point would condense in clouds carrying thermal energy from the ocean and the exposed mantle in clouds towards continents.


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Great storms would bring warm rains capable of melting the ice layer in areas where it is thinner, thereby reducing the albedo - the radiation emitted in the condensation phase of the water vapour would be orders greater then the normal radiation in that wavelength, leading to substantial reduction of the "diamond powder" layer and its associated albedo. The paroxystic effects associated with an oceanic impact are expected to last only a few days (the tsunami) or a few weeks (the "universal deluge" following magmatic emission). It is unlikely that all the ice cover can be eliminated in such a short period, and in fact this is not what is observed from geological evidence. It is however possible that the albedo factor be modified so profoundly for the Earth to revert, in a few additional centuries, to the climatic conditions of non glacial times. This agrees with the geological records, see for instance Broeker et al. [92], which indicate a warming of about 7 centigrades in a period now estimated at just about 50 years, see Lehman and Kergwa [111]. Note that an accurate date for the shift between the Dryas (the terminal phase of the glaciation) and the Preboreal has been recently set by analyis of lacustral sediments at 11.450 years BP with 80 years uncertainty, see Bjรถrck et al. [112]. At that time a huge influx of fresh water entered the North Atlantic ocean, evidence of very rapid melting of the ices. If the last glaciation was started by a continental impact, a problem is that no continental crater aged about 24.000 years and of diameter 10 - 20 kilometers is presently known, as it would be expected for a kilometrically sized impacting Apollo. Disregarding the possibility that the crater is yet undetected (it could lie on a submerged continental shelf or under Amazonian jungle where erosion by rain is heavy) we can consider the hypothesis that the impact was in the super Tunguska class (a body of a few hundred meters diameter, getting possibly fragmented in the atmosphere). The Meteor (or Barringer) crater in Arizona has an uncertain age, some estimates putting at about 20.000 years. Its diameter is one kilometer, the depth 200 meters. It was made by an iron body of an estimated 100 meters diameter; the energy involved may have been a few thousand megatons. We do not expect that enough dust was injected in the atmosphere by this single event to start the last glaciation. However, under the Clube-Napier assumption of the capture and fragmentation of a large comet, that episode might have been one in a series of Tunguska or super Tunguska impacts (note that an oceanic impact of an object of that size would not provoke magmatic emission). Moreover enhanced strong volcanism might have followed the Arizona impact, due to the proximity of the volcanoes rich Coast Range and Mexican Cordillera. Another open question relates to the location of the oceanic impact that we hypothesize terminated the glaciation. We conjecture that the location was in the North Atlantic, somewhere east of the Carolinas. A fall in the Pacific would have created a minor tsunami in the Atlantic, the Pacific being almost isolated during the last glaciation (the Magellan Straits were almost blocked by ice, Australia was almost connected by a land bridge to Asia, America and Asia were connected via the Bering straits). The evidence from the Atlantis story that we interpret in the next section points to a great tsunami and a flood originating from the Atlantic area. We also remark, with Velikovsky [2], that elliptical flat depressions (the Carolina bays), filled with water, with major axis pointing south-eastwards to the Atlantic, characterize in number of thousands the Carolina coast (extending also from New Jersey to Florida). The time of their formation is not certain, but may well be the end of the last glaciation. If this is the case, the Carolina bays would have been formed by fragments of an object impacting in the Atlantic. Finally, extensive evidence for multiple Apollo or cometary impacts in seven points of the Earth (on the ocean south of Mexico, east of Chile, near the Azores, between Norway and Greenland, south of Sri Lanka, south of Tasmania and close to Indochina) has been given by the Austrian geologists Alexander and Edith Tollman [128] and dated at circa 7500 B.C. With


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reference to the three great catastrophes quoted by the Egyptian priest in the Atlantis story, this event could be interpreted as the second catastrophe (the one of Noah?), the first one being that which destroyed Atlantis, the third one the flood of Deucalion (and of Noah?).

5. An interpretation of the Platonic story of Atlantis In two famous books, written around 360 B.C., Timaeus and Critias (of the second only a part is extant) Plato has given information on a political power, Atlantis, which dominated the western world nine thousand years before his time. The story of Atlantis was told by Critias (an old man of 80 years, a relative of Plato and in his youth one of the thirty tyrants), during a discussion with Socrates. Before telling the story, Critias spent a night trying to recollect in his memory all the details. He had originally heard the story, when he was a ten years old child, from his grandfather, Critias senior. The story had so much impressed him that details came to his memory even after so many years. Critias senior had got the story from his father Dropides, a brother of Solon, according to Diogenes Laertius. Solon got the information on Atlantis in Egypt. He had planned to write a poem about it, but he could not realize his wish due to his many political commitments. The way Solon got the story on Atlantis is the following. In the city of Sais, an important religious center in the Nile delta till now little explored archeologically, he began a discussion with priests about the oldest events in the Greek tradition, like the story of the first man Phoroneus and the survival of Deucalion and Pyrrha from the flood. While he was trying to estimate by generation counting the time of these episodes, he was interrupted by a very old priest (possibly the one named Sonchis in Plutarch's Life of Solon), who claimed that his Greek stories were not of great age. In fact, the priest said, the Greeks had kept memory of some catastrophic events, like the Phaeton story, which was the consequence of the interaction between the Earth and a heavenly body, and also the Deucalion flood, which was only a minor catastrophe, but had lost completely the memory of a previous greater catastrophe, a great deluge which swept most of their ancestors into the sea, leaving only few survivors. The memory of that event had survived among the Egyptians and was preserved in written form in their temples in Sais (as confirmed by Crantor, an early commentator of Plato, who lived about 300 BC; he wrote that a traveller in his time had seen these inscriptions). The reason for this was that the ancestors of the Egyptians were living at those times on high lands as herdsmen and shepherds and had not been much affected by the deluge. The catastrophe had happened nine thousand years before; one thousand years later the first Egyptian institutions were established. Before the catastrophe, the priest said, there was a political power, Atlantis, whose basis was on an island located opposite the straits known as the Pillars of Hercules, separating the Mediterranean from the Atlantic (the Gibraltar straits). Atlantis was in control of the following regions: - islands further on - parts of a continent lying beyond, which completely surrounded what could be called the true ocean, the Mediterranean being only a lake in comparison, and, on this side of the Atlantic, which was navigable at those times, of Europe up to Italy (Thyrrenia) and Africa (Libya) up to Egypt. The army of Atlantis started a military operation to extend control over the eastern basin of the Mediterranean, fighting against the ancestors of the Greeks and of the Egyptians. Atlantis was defeated and lost control of the western Mediterranean basin. Just after the end of the war there was an earthquake and a flood of extraordinary violence. In a single terrible day and night the fighting armies were swept away and the Greek cities were washed to the sea.


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The Atlantis island was swallowed by the sea and vanished. The ocean became impassable to navigation and muddy waters appeared in the region of the vanished island. The above information is found in Timaeus. In Critias the discussion mainly concerns the political situation at those times in Greece and in Atlantis, but additional information on Atlantis is also available. It is stated that the catastrophe was the third one before the Deucalion flood and that it was night when the flood fell upon Greece. Some geographical features of the island of Atlantis are given. It had many mountains "higher and more beautiful than any existing today". There were rivers, lakes, pastures and woodlands with abundant timber. Aromatic spices and many fruits were found. There was plenty of domestic and wild animals, including elephants. There were mines, some producing "orichalc", a substance "gleaming like fire", the most precious at that time, except gold. In the southern part of the island there was a plane, of rectangular shape, used for agriculture, completely irrigated by a system of canals; the plane was protected by a chain of hills from the northerly winds. Half way along the plane there was a lake of circular form, whose diameter was ten kilometers and whose center was fifteen kilometers distant from the coastline. The lake had been connected to the sea by a canal, one hundred meters large and thirty meters deep. In the centre of the lake there was a small island, of one kilometer diameter, surrounded by two rings of land, each one separated from the other by water. In the central island there was a palace, build of white, black and yellow stone which had been cut from the central island itself and from the surrounding rings. In the outer rings there were temples, gardens and an area for athletic activities. The lake was used as a well protected port, frequented by ships from all the lands controlled by Atlantis. The commercial and residential areas were build around the lake and along the canal. The whole city, the capital of Atlantis, was surrounded by a circular wall centered on the palace and whose radius was fifteen kilometers, including therefore a total area of about 700 square kilometers. Some numbers on Atlantis dimensions are the following. In Timaeus it is stated that Atlantis was larger than Asia and Africa (Libya) combined. In Critias that the irrigated plane was three thousand stades long and two thousand large, say about 600 by 400 kilometers. About Atlantis more than 3600 works have been written, see for instance the bibliographies in Bramwell [59], Spanuth [60], Pinotti [138], Zhirov [93] and particularly Kukal [94]. Before the second world war the discovery of submerged mountains in the Atlantic ocean excited those looking for a submerged continent; however it was just the discovery of part of the oceanic ridges which are now known to extend for over 60.000 km in the middle of oceans. More recently, after the discovery of the great Santorini eruption in the second millennium BC (see Warren [95] for a discussion of dating problems), it was theorized, see for instance Carpenter [61] or Luce [62], that Atlantis was Minoan Crete, destroyed by the tsunami which followed the collapse of the volcanic chamber in Santorini. This theory, which is widely accepted today, requires so many substantial changes to the Platonic text, that it is equivalent in our opinion to rejecting the text. Other theories which require substantial changes include those of Spanuth [60], who put Atlantis in Helgoland, and of James [108], who related Atlantis with the capital of the ancient kingdom of Tantalus, in western Turkey, which was apparently destroyed by a great mud flow. An intriguing identification of Atlantis with the Lesser Antarctica peninsula in Antarctica has been proposed by Barbiero [133] and redeveloped by Flem-Ath [110]. The idea that the Atlantis story derives from a memory of the flooding of the continental shelf of Northern Europe following the increase of the sea level after the end of the last glaciation has been developed by Castellani [152]. In our scenario the information in the Platonic text is accepted as essentially correct. Only two major modifications are made, namely in the statements relating to the size of Atlantis and of the irrigated plane. We accept the numbers, but we change their attribution. We think that an error slipped in the survived manuscript at a later time, or that Critias


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memory failed in correctly assembling the details, something about which there should be no wonder, as he was trying to recollect information obtained seventy years before. Before giving our interpretation of the Platonic text, it is important to look again at the configuration of the Earth during the last glaciation (making use, for instance, of the map given by Kukla in Scientific American, see Broecker [63]). Ice covered northern Europe, west Siberia and much of northern America. The climate was dryer and colder than now in the regions below the ice line, which could however maintain a substantial population of large herbivores, including mammoths, large carnivores, like ursus speleus, and man. At lower latitudes, corresponding to presently arid regions as northern Mexico, the Sahara and the Mesopotamian-Caspian region, climatic conditions were wetter than now and probably favorable to cattle breeding and agriculture. In particular, the Sahara was a huge grassland, its mountains were forested, large lakes filled the depressions and great rivers were flowing, as has been spectacularly confirmed by radar photographs from the Shuttle. In western and central Asia the climate was favorable too, thanks also to the presence of a huge inner sea which inglobed the Black Sea (during the glaciation the Black Sea was not connected with the Mediterranean), the Caspian Sea and probably lake Aral, for an extension almost equal to that of the Mediterranean. Finally, heavy vegetation covered the circumcaribbean region, parts of central Africa and the circumpacific regions of Asia and Australia from middle China to southern Australia. It is a remarkable observation that during the glaciation the amount of land made inhospitable by the ice cover was more than compensated by the availability of good grasslands in areas which are now desert (more than twenty million square kilometers between Africa and western-central Asia) or covered by jungle (the Amazonian basin was probably mainly a grassland, albeit recent analysis of sediments on the bottom of a lake indicated that the forest was still present, with a different vegetation structure, corresponding to less warm conditions, see Colinvaux et al. [113]). If we assume that the climate variations during the twelve thousand years of the last glaciation were comparable to those of post glacial times, then the conditions for the development of a civilization would have been, during that time, similar, if not better, to those that have permitted in the following twelve thousand years the development of the present civilization. We assume that this was indeed the case and that the story of Atlantis and many other traditions that we do not consider here, relate to the final stage of that civilization. We assume that the catastrophic event of Plato's story was the oceanic impact which terminated the last glaciation, as previously hypothesized. The great Atlantic tsunami devastated America, Europe and Africa. The ocean penetrated possibly for thousand of kilometers into the Amazonian basin and the Sahara. Immense devastation affected the Mediterranean region. No architectural structure, already weakened by the earthquake that preceded the tsunami, could have resisted. A tsunamic wave of the envisaged size would not only flatten a city, but carry away its debris, leaving virtually no trace. The deluge following the magmatic emission would have affected mostly Europe, northern Africa and west-central Asia, bringing havoc where the tsunami could not reach. Finally, the melting of ice and the subsequent elevation of the sea level by 60 meters would have changed the coastline configuration and affected the direction of currents, thereby justifying the claim that Atlantis had vanished and the ocean had become impassable. We can well wonder how much of our civilization structures could resist to a similar event. Let us now consider the details of Plato's story and set them in our scenario for the end of last glaciation. The date given for the catastrophe, corresponding to circa 11.600 B.P., fits well the commonly accepted starting time for the withdrawal of the ices (as said in the previous section, this time is now estimated at 11.450 B.P.). Note that very precise dating for these events cannot be made using radiocarbon or sedimentary analysis; a five per cent uncertainty in our opinion should be accepted without difficulty (we note that for a core of Antarctic ice only one century old, an 8% error in dating the layers was assumed by Ganapathy [40]!). Remark also that while our approach to glaciations assumes a rapid onset of


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ice cover, just a few months, the disappearance of the ice cannot be sudden, the thicker layers requiring possibly thousand of years to melt (in fact, we are still in the last throngs of deglaciation, as shown by the positive bradisism in Sweeden and the continuing loss of glaciers in the northern hemisphere, albeit factors due to human activity play now a major role). The city of Atlantis is located by Plato beyond the pillars of Hercules and it is noted that the ocean was navigable at that time. Control was exercised by Atlantis over islands beyond and parts of the continent which surrounded completely the true ocean. Our interpretation is that the island of Atlantis is the large Caribbean island that was encountered by Columbus in his first voyage, was named by him Hispaniola and is presently split between Haiti and the Dominican Republic. The local name at the time of Columbus was Quisqueya, which had the notable meaning of "Mother of Lands" (a remembrance of its dominant role in past times?). This assumption implies of course that man lived in America during the last glaciation, a fact which is now confirmed by increasing archaeological evidence, see for instance Morell [100]. The islands beyond Atlantis therefore are the other large Caribbean islands (Cuba, Jamaica) and the continent further on is America. As already observed, during the last glaciation the Bering straits were a land bridge, Australia was almost connected with Asia, and thus a huge continent almost completely surrounded the Pacific Ocean (the true ocean of Plato's story). One might actually wonder whether, at least during the austral winter season, ice from Antarctica didn't effectively close the passage to the Atlantic and Indian oceans. One should at this point notice the existence of a few additional classical sources that suggest knowledge in the Old World about America that has some relation with the information on the Atlantis story. One is a passage in Plutarch's De facie quae in lunae orbe apparet, containing the following: - a man visited Carthago from a land on the other side of the Atlantic - the man described a region on that land, located at about the latitude of the Maeotian Sea on the greath mouth of a river, which was visited in ancient times by the ancestors of the Greeks - the region can be identified with the estuary of the St Laurence; we may notice that Vinci [153] has strongly argued that the Homeric world should be set in the Baltic and Northern Sea at a time, the optimal climatic that ended about 1600 BC, when navigation conditions in the Northern Atlantic were probably favourable. The other passage is a statement attributed by Aelian [154] to Theopompus which says: - there are two continents on Earth. One consists of Europe, Africa and Asia; the other is far away in the middle of the ocean - in the far away continent there were two great cities: one (the capital of the Atlantis empire?) was inhabited by people bent on war and conquest; the other (possibly one of the great cities whose remains in the form of huge earthen mounds are found in the central part of the United States?) was inhabited by peaceful people. Notice that if the Atlantis age came to termination via a huge tsunami associated with the end of the last glaciation, it is expected that the Caribbean sea waters invaded large part of the lower and middle Mississippi basin, destroying and washing away most of any structures built by man. Identification of Atlantis with Hispaniola is strengthened by the Platonic description of the island: high beautiful mountains, rivers, lakes, a plane, precipitous coasts, forests and animals. Hispaniola has indeed mountains over 3000 meters (Pico Duarte is 3175 meters


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high), some of them (for instance La Selle, 2680 meters) being located very near to the coast. The effect of the height of such mountains for an observer from the sea should be compared with that made on an observer of Monte Bianco (4807 meters) from the bottom of Val d'Aosta. Such mountains could well have seemed higher than anything known to observers from Greece or Egypt. The luscious tropical forest that covered Hispaniola, in glacial times and until some years ago (now the island has been largely deforested), was surely a reason of attraction for visitors from the Mediterranean basin. It is interesting to note that Columbus was truly fascinated by the natural beauty of the Caribbean islands, a theme which often recurs in his diaries. Rivers and lakes (including two lakes below sea level, Imani and Enriquillo) are plentiful in Hispaniola. The reference to elephants may not necessarily relate to the present African variety (but some exemplars could have been shipped there) but to the American variety of proboscidates (mammoths or mastodons), which disappeared in the catastrophe terminating the glaciation. The reference to the coasts of Atlantis being precipitous is very indicative of Hispaniola (but see Collins [161] for arguments in favour of Cuba). Hispaniola's coasts are mostly high and inaccessible. Moreover the ocean is deep around Hispaniola, implying that the shape of the island during glacial times, when the ocean was 60-130 meters lower, was essentially the same as now, while, for instance, Cuba was substantially larger and a great island was located where are now the Bahamas. A roughly rectangularly shaped plane lies in the south-eastern corner of Hispaniola (Santo Domingo is located there), with a range of hills on its northern side. Here may have been the irrigated plane described by Critias. If this is so, then the capital city of Atlantis should be located in a now submerged site along the southern part of the Dominican republic, somewhere along the present minus 60-130 meters sea depth level. Another possible location could be the flat area, with mountains both on the north and the south side, which is named the Plaine de Cul-des-Sac and which contains a number of lakes, particularly the lake Enriquillo. This lake is very salty and its surface is below the sea level (-44 meters). This whole area was occupied by the sea in Quaternary times, see Wendell et al. [96] or Butterlin [97], and could well contain coralline structures now covered by recent sediments. The information about the ring structure of the central part of the capital of Atlantis and the colored stones carved there suggests indeed that the site had a coralline atoll structure, exposed when the onset of the glaciation lowered the level of the oceans. The Platonic text states that Atlantis was larger than Libya and Asia combined and that the irrigated plane was about 600 by 400 km. No vanished land of that size has existed in recent geological times, no plane of that size and characteristics is found now in the Earth, nor even in present times has man been able to irrigate a connected piece of land of such dimensions. The data in the text are erroneous. We believe however that they transmit an actual information, which has been put wrongly in the text, most probably through a memory slip by Critias. Our opinion is that the reference to the size of Atlantis should be a reference instead to the continent beyond, say America, part of which was stated to be under control of Atlantis, or to the empire of Atlantis, which included parts of Africa and of Europe. The dimensions given to the plane are remarkably close to the dimensions of Hispaniola itself (which are essentially unchanged if water level is dropped 60-130 meters), which are about 650 by 300 kilometers. Thus we think that the last reference was actually to the Atlantis island itself. Some final considerations have to be made about the claim that Atlantis was in control of the western Mediterranean basin and waged war against the ancestors of Greeks and Egyptians. According to the Platonic story the ocean was navigable and the Atlantis capital had a great port. The development of navigation is a characteristic of civilization and is naturally expected, in viewing the end of the last glaciation as a period of flourishing civilization. Which types of boats could be available those times? To this question unfortunately only unprobable archaeological findings could give an answer. However we point out that large distances over oceans and substantial transfer of men and materials can be


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performed using very primitive navigational means. This has been proved in the classical exploration voyages of Thor Heyerdahl [64, 65], who crossed the Pacific (from Peru to the Tuamotu islands) on a balsa raft, and the Atlantic (from Morocco to Trinidad) on a reed boat build by lake Tchad fishermen according to millennia old design. Heyerdahl [66] was also able to find in Polynesia local confirmation of the statement made by Sarmiento de Gamboa [67] that Tupac Inca once made a circumpacific voyage with a large balsa fleet carrying more than 20.000 men. Heyerdahl's work has thus shown that even boats as simple as rafts can transport over oceanic distances a great army. Boats of the simple type considered by Heyerdahl cross oceans essentially following currents (but see again Heyerdhal [66] for the remarkable flexibility offered by guara boards on balsa rafts). It is possible in present times to leave and return to a Peruvian port via Polynesia along a circular route following currents. It is presently possible to leave the Pillars of Hercules (Gibraltar) and reach America via currents in about two weeks, but not to return there, the Gulf stream moving towards Scandinavia. But during the last glaciation the Atlantic ocean was covered by ice north of a line New England-Ireland and the Gulf Stream had a different direction. In fact it has been shown, see Pinet et al. [98] and Keffer et al. [99], that the Gulf Stream during the Quaternary glaciation moved towards Gibraltar. Thus a two ways connection between America and Europe was possible even using most primitive boats. Finally, we may deduce some additional information from the Platonic story. The catastrophe happened probably between late spring and early autumn, those being the time limits for military operations in classical times and, a fortiori, in glaciation times. Presence of fresh flowers in the stomach of frozen mammoths is a confirmation. It was night when the first devastation occurred in Greece, probably due to the earthquake, the seismic waves being much faster than the tsunamic waves. It may have taken a dozen hours for the front of the tsunami to have reached Greece and there may have been many rebound waves; this would explain the night and the day of convulsions. The coastal areas of Greece and the Aegean islands must have been fully affected by the tsunami with almost complete wiping out of the population. This may explain the loss of memory of Atlantis in Greek tradition (unless a remembrance is found in the Golden Age stories of Hesiod), Greece itself having been repopulated later by populations coming from unaffected areas (central-eastern Asia?). It is worth recalling here the thesis of Vinci [153], according to whom the Miceneans came to Greece around the middle of the second millennium BC from the Baltic area, mixing in Greece with the local preexisting populations that was conquered by them. Therefore any memory the Greeks may have of very ancient events should most probably relate to events set in Northern Europe. Egypt must also have been fully devastated by the tsunamic wave. However, populations on the Aethiopian highlands (the herdsmen and shepherds of Timaeus), possibly connected with old Egyptians and other populations then thriving in the Saharian grassland, would have escaped the tsunami and probably also the following deluge. Among these populations on the margin of the great empire of Atlantis the memory of Atlantis must have survived to be transmitted to their descendants. They repopulated the Nile valley and established the first Egyptians institutions one thousand years after the great catastrophe. We conclude noting that an explanation of the Atlantis story and of the end of the last glaciation in terms of a meteoritic impact was also given by Muck [101]. However he assumed a location of the island of Atlantis in the middle of the Atlantic Ocean and its disappearance by direct hit effect. He also assumed that the presence of Atlantis in that position affected the Gulf Stream movement and was responsible of the last glaciation. These arguments are against established geological knowledge.


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6. An interpretation of the biblical and Sumerian flood stories Legends on deluges which almost destroyed mankind are found among many peoples (more than 600 such legends have been counted). Here we shall be concerned only with the biblical and Sumerian tradition. Our conjecture is that the two sources describe the survival of two distinct groups of people in the area affected by a deluge following an Apollo impact. In the first version of this essay we assumed that the Atlantis story and the biblical and Sumerian deluge stories related to the same event. Of this identification we are no more sure now and we prefer to think that the biblical-Sumerian deluge is a later event, probably the second or last of the three great catastrophes referred to by the priest in Sais. We do not discuss here the problem of dating this event, but we are sympathetic with Patten [134], who dated it at circa 2500 BC. Patten derived this date using the internal chronology of the Bible, essentially following Thiele [135], and arguments from his theory of periodic approaches of the planet Mars to the Earth, resulting by gravitational tide effects in catastrophical events on the Earth similar to those produced by an oceanic Apollo impact. Notice also that the readjustement of the Egyptian chronology advocated, as referred before, by Velikovsky, Bimson, James, Rohl, Clube and Napier, would put Menes and the first dinasty after the deluge. For arguments that the Sphinx and the great Giza Pyramids were build well before Menes, most probably at the time when the Atlantis civilization flourished, see West [129], Gilbert and Bauval [130], Hancock [131] and Schoch [155]. The biblical story of Noah is contained in Genesis 6-9, with additional references in other parts of the Bible. It is not possible here to discuss the many interpretational problems connected with biblical texts. Just remember that more than a thousand Hebraic words are known only from the Bible, where they appear only once and that new insight into controversial passages comes from the recent important work of Salibi [156, 157, 158], who has argued that the original land of the Hebrew was the Asir region in southern-western Arabia, implying that comparison with the surviving dialects of Arabic in that region is very useful for clarifying the Biblical language. We shall just state the main usually undisputed content of the story and then give our interpretation. The content of the Genesis is the following: - before the deluge mankind had multiplied on the Earth; much violence affected the human society - Noah, warned in dream by God that a catastrophe would destroy mankind, built a wooden ark, 300 cubits long, 50 large, 30 high, insulated with pitch externally and with a material called gopher internally (perhaps an eatable material, a mixture of roasted barley and water. This is a basic staple of many primitive people, for instance the ancient Guanche populations of the Canary islands, who called it, quite intriguingly, gofio. It is still the national food of Tibetans, who call it tsampa) - after Noah had taken refuge in the ark with his family and various animals, "the fountains of the great deep were broken up and the windows of heaven opened " (as in the Holy Bible revised authorized version) - "the rain was on the Earth for forty days and forty nights; the waters increased and lifted the ark"; "the waters prevailed on the Earth and the high hills were covered" - after five months the ark touched land on some mountains of Armenia, Urartu in the text (usually and probably incorrectly translated as Ararat); after four more months Noah left the ark, the land having finally dried up.


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The Sumerian story of the deluge has been found on a number of tablets with cuneiform inscriptions from Anatolia to southern Mesopotamia. The dating of the tablets varies from the beginning of the second millennium B.C. to the seventh century B.C. (the tablets from the library of Ashurbanipal in Nineveh). The languages are also various, say Sumerian, Akkadian, Hurrian, Assyrian, Hittite, old Babylonian. Despite some differences among the content of the tablets, there is consensus that they all derive from a unique Sumerian source. The first tablets were found in the second half of last century and were published in 1882. Intriguing evidence that the Sumerian flood story had also survived in the oral tradition in the Armenian region comes from the Armenian writer Gurdijeff, born in 1877 in Alexandropolis (later Leninakan, in the Armenian province of Kars). In his posthumous book "Rencontres avec des hommes remarquables" [102], he says that his father Adash was one of the last story tellers of the Transcaucasian region. One of the songs of his father was named "The Legend of the Flood before the Flood". A few years before first world war Gurdijeff read on a magazine the story of Gilgamesh. He was astounded to see that the story was almost identical with the 21st song of the Legend of the Flood before the Flood. If his testimony is true, we have a strong evidence that an oral tradition can survive accurately for thousand of years. The intriguing name "flood before the Flood" might indicate that the Sumerian flood was not the last of the (three?) great floods referred to in the Platonic text. The story of the deluge in the Sumerian tradition is imbedded in the epics of Gilgamesh, a great king of the Sumerian city of Uruk, who probably lived in the third millennium B.C. (see Kramer [68]). Briefly, Gilgamesh developed a deep friendship with Enkidu, previously a wild man living in the forests. With him he made an expedition to a far away land of great cedar trees where he killed the monster Humwawa. On the return to Uruk, the gods took vengeance of the death of Humwawa and made Enkidu die of a disease. Deeply affected by the loss of his friend and afraid of his own destiny of mortal being, Gilgamesh went on a new trip to the distant land where lived Utnapishtim (in the Assyrian text; Ziusudra in the Sumerian text), the man who survived the deluge and was granted immortality by the gods. There Gilgamesh, whose request for immortality was not accepted, was told the story of the deluge. Notice that arguments are given in Spedicato [159] that the place of Humwawa should be identified with the high valley of Baltistan, in present Pakistan, close to the Khunjerab pass and that Humwawa might have been a giant yeti; Utnapishtim place is identified with the Ani Machi Mountain Range, in present Chinghai in China, a massif surrounded on three sides by the Yellow River and traditionally a sacred mountain of the Ngolok local tribe. The story is the following (see Kramer [68] for a translation of the incomplete Sumerian text, or Sandars [69] for the Assyrian text, or Pettinato [119] for most of the survived texts): - before the deluge man had greatly multiplied and many cities were build. The incessant activity of man disturbed the gods, who decided to send a deluge - Utnapishtim, a man of the city of Shurrupak, was warned by the god Ea in a dream of the impending catastrophe. He built a large square boat, whith sides of 120 cubits, covered it with a roof, insulated it with pitch and there he took refuge with his family and various animals - at first light of dawn a black cloud appeared at the horizon and daylight turned to darkness. A tempest raged with increasing fury. For six days and nights (in the Assyrian text; seven in the Sumerian text) the wind blew and torrential rains and flood overwhelmed the world - after seven days the storm subsided; the boat touched land on the slope of the mountain of Nisir; the world was desolated and mud covered everything.


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In Critias the priest of Sais states that there were three great floods before and including the Deucalion flood, the one which destroyed Atlantis being the first and the greatest. Excavations in Mesopotamia in 1929 by Woolley [70] have shown the existence of a sedimentary layer, later shown to extend 600 km inland from the Persian gulf, which separates strata both containing archaeological artifacts; the age of the layer has been estimated at 4000 years B.C.. It is current opinion that the flood responsible for the layer is the one referred to in the Utnapishtim-Ziusudra legend and that the Noah story is just another, possibly later, version of the same event. In our interpretation the biblical and the Sumerian stories may describe the same event, but as witnessed by two different groups of survivors, in two different points of the world. Now, a basic question. Who has the best chances of surviving in the area affected by the tremendous consequences of an oceanic Apollo object impact? Surely no one in the large coastal areas affected by the tsunamic waves. Almost surely no one in the flat lands or valleys in the interior continental areas affected by the deluge following the evaporation of thousand cubic kilometers of water. Possibly someone living in caves on the slopes or top of mountains or someone navigating in a boat provided with food (or made at least partly by eatable materials...) in an inner lake or in an inner sea, where tsunamic effects could not reach. We conjecture that Noah was a man living possibly on trade along one of the several inner lakes which are found in the eastern Anatolian plateau (such as Van Golu in Turkish Armenia, Ozero Seven in Armenia, lake Urmiah in present Iranian Kurdistan, but formerly part of Armenia). According to our previous climatological considerations, Central Asia, Mesopotamia and the Mediterranean had a favorable climate during the last glaciation. Civilization most probably evolved in these regions and the natural way of transit between them was through present Armenia. Existence of boats for trasporting goods on the Armenian lakes should be expected, justifying the technological ability shown by Noah in building a large (raft-like notably) boat. We similarly conjecture that Utnapishtim-Ziusudra was a man involved in trade by boats somewhere along the eastern coast of the great inner sea which during the last glaciation connected the Black Sea, the Caspian and the Aral (or even possibly along the inner lakes extending in the Xinjang province of China). Our geographical differentiation is suggested by the following important variations between the Sumerian and biblical texts: - the Utnapishtim story tells that a great black cloud appeared on the horizon at dawn and that daylight turned to darkness. The reference to this surely impressive phenomenon is not present in the biblical text. A natural explanation is that the cloud front passed over Armenia during night, hence the sudden change from daylight to darkness did not occur. The extra time for a cloud front to reach Central Asia would well be several hours, to which a time lag for longitudinal difference should be added, thereby explaining the different time of the day the deluge locally started - in the Utnapishtim story the deluge lasts only six or seven days, much less than the forty days of the Bible, moreover the increase of the water level does not appear so impressive as in the biblical text. A front cloud bringing rain from the Atlantic would exhaust itself moving eastwards and thus a minor amount of water would be washed over Central Asia than over Armenia. Also the maximum distance reachable by the cloud front is expected to be a decreasing function of time, as the magmatic emissions responsible of the evaporation would decrease in time; this would explain the shorter duration of the deluge in Central Asia. Our conjecture that the Utnapishtim flood was witnessed in Central Asia also agrees with a possible central Asian origin of the Sumerian people that has long been suspected. Indeed the Sumerian language is not Semitic, but is related to Turkish languages of Central


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Asia (even with Hungarian). Populations with anthropocentric features similar to those of the Sumerians are found in Afghanistan and Beluchistan (Keith, quoted in Cream [71]). Connections between the Sumerian and the Harappan civilizations have been hinted and Heyerdahl [72] has shown that Mesopotamia and the Indus valley can be reached by sea using reed boats. Our conjecture then that Utnapishtim was a man of Central Asia would imply that his descendants, or some of them, moved southwards, leaving some groups along the way, and reaching finally Mesopotamia via the Indus valley and the Indian ocean (or via Iran). It is quite possible that knowledge about good living conditions in Mesopotamia before the deluge had persisted among these itinerant populations. We can also do some speculations about the descendants of Noah. In the changed conditions after the deluge the descendants of Noah probably became shepherds in the eastern Anatolian - northern Mesopotamian regions. The finding in Ebla of the largest tablets collection of the third millennium B.C. has given startling information, like the existence of personal names in Ebla of biblical type (Abraham, Esauh, David), and the existence of a city named Ur in northern Syria (see La Fay [73] for a review of the work of Mattia and Pettinato on Ebla); it should also be noticed that a fortress named Ur and located in northern Siria is referred to by Ammianus Marcellinus. The Bible states that Abraham, a man whose native land was Nacor in northern Mesopotamia, came from Ur of the Chaldeans to Canaan. Well before Ebla was discovered, Velikovsky [5] gave many arguments in favor of the thesis that the Chaldeans were people of northern Mesopotamia - eastern Anatolia to be identified with the Hittites. Thus we strongly suspect that the biblical Ur of the Chaldeans was not the Sumerian Ur (why indeed call it "of the Chaldeans") but a city of northern Mesopotamia indicated by the Ebla findings. For arguments that Abraham was not of Semitic, but of Indoeuropean stock, as Armenians and Chaldeans are, see Barbiero [127]. Notice that Abraham moved to the land given him by the Pharaoh from the city of Haran (now Harran, in southern Turkey), where he left relatives and where Jacob returned to get his two wives Leah and Rebecca. About 50 km north-west of Haran lies the ancient city of Edessa, whose role in Christianity has been very important ( his king Abgar exchanged letters with Jesus according to apocryphal sources; according to tradition the Shroud was hidden in a cavity of its walls and there rediscovered after an earthquake). The name Edessa was given by the Macedonians in remembrance of an ancient Macedonian capital. The present name is Urfa and Hurri was the name before the Macedonian conquest. It was an important city in the second millennium BC related with the Hurrite and Mitanni kingdoms. Local traditions insist that Abraham dwelt there, see Middleton [132], and a cave is still now shown where he was supposedly born (see the guidebook Turkey in the Lonely Planet series). For a location of Ur in Persia five days from Nisibis see Egeria [140], who visited Edessa around 380 AD.

7. A conjecture about the origin of the Camunian civilization We conclude this essay by considering the possibility that a group of people survived the deluge in northern Italy and that their descendants gave origin to the Camunian civilization. During the last glaciation the Po valley was free from ice, the climate there being similar to that found now in prearctic regions. Similarly free of ice were the lakes which characterize the entrance of many valleys of the Alps, the glaciers filling however most of the valleys (the situation was different in some previous glaciation, when glaciers excavated the depressions now filled by the lakes). A population of hunters and fishermen lived in northern Italy, particularly near the shores of the lakes, where villages existed consisting of huts built on poles. The winter was severe and the summer season was very important for collecting food to be preserved, dried or smoked, for the winter. Consider now the fate of these populations in the deluge which followed the impact of the Apollo object in the Atlantic considered in the framework of the Atlantis story. The Po valley is essentially protected by the Alps and the Appennines from the tsunami waves


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coming from the Atlantic, the effect of these being probably restricted to a limited area near the Adriatic. The effect of the deluge would however be totally destructive for populations living in the proper Po valley. But a peculiar geographical feature characterizes the entrance of the Val Camonica, the site where the civilization of the Camunians developed for thousands of years, from the end of the Ice Age to the Roman conquest, leaving a continuous documentation of hundred of thousands inscribed rocks (see Anati [74, 75, 76, 77] and Dufrenne [160]). The geographical feature is the following: there is a relatively large lake (Lake Iseo) at the entrance of the valley, in the middle of which lies Montisola, the largest island of the Italian lakes. Montisola, about two square kilometers, is hilly, its summit about 400 meters above the level of the lake. Most probably fishermen lived in Montisola, possibly not in pole villages, dangerous animals in relatively small Montisola having certainly been eliminated, but on caves or huts along the slopes of the island. We believe that a group of people in Montisola would have had a good probability of surviving the deluge. In fact, due to its small surface, the effects of the water washing down the slopes would have been limited; the deluge in the nearby area would have increased the level of lake Iseo, but not so much to completely cover Montisola. If the event happened in summer or early autumn (Patten [134] gives arguments for late October), reserves of food for the winter would have already been available, allowing survival during the weeks of paroxistic deluge; moreover the effect of the deluge on the lake fish on which the Montisola population lived was probably marginal. The people of Montisola found themselves possibly the only survivors in a desolated and changed world and may have attributed this fact to the special place where they lived. This belief could well explain why the Camunians did not move for millennia from the valley where their ancestors survived the deluge. Our interpretation might also shed some light for a nonstandard interpretation of the over 300.000 inscriptions on rocks found in Val Camonica, where motifs appear that can be probably related to cosmic events.

8. Final remarks and conclusion In the previous sections we have developed a scenario to explain the end of the last glaciation, the stories of Atlantis, Noah and Utnapishtim, and the origin of the Camunian civilization, in the framework of an event of extraterrestrial origin, say the impact of an Apollo object over the Atlantic ocean. We are well aware that our scenario, how apparently coherent and intriguingly fascinating it may be, cannot be considered proved, containing an unavoidable high amount of speculation. Open questions concern in particular whether the last glaciation was actually ended by an impact, whether a civilization of the Atlantis level existed in the final period of the last glaciation, whether the Noah and Utnapishtim deluges were contemporary with the Atlantidean catastrophe. Future research on Apollo objects, crater traces on the Earth and global climate models, will help in assessing the validity of our scenario. While it is improbable that archaeological research may sometimes prove or disprove the Noah and Utnapishtim stories (but additional useful documentary sources most probably are to be found in the thousands of unexcavated tells of the Middle East; see also Fasold [139] for a discussion of artecfacts related to the Noah's ark on mount Judi, about 30 km south of mount Ararat) it is not excluded that the development of deep water archaeology and radar exploration techniques able to photograph below sedimentary deposits will clarify the issue about the city of Atlantis, which we conjectured lies at least sixty meters below sea level in the southern part of Hispaniola.

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----[A presentation of the author can be found in Episteme N. 1] emilio@unibg.it


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ASTRONET (Asteroid Tracking, Reconnaissance, and Observation Network) [a game from http://www.tufts.edu/as/wright_center/impact/impactb.html]


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LA QUESTIONE DEL TEMPO NELLE CONFESSIONI DI SANT'AGOSTINO (Giuseppe Antoni) Un comune lettore delle Confessioni, abituato a considerare il tempo come qualche cosa che trascorre normalmente, può, forse, provare meraviglia nel leggere al punto 2 del Cap. XIV del Libro XI: "Quid ergo est tempus? Si nemo ex me quaerit, scio: si quaerenti explicare velim, nescio", che in italiano, suona: "Allora che cosa è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più". Dopo di che l'autore passa a denunciare le difficoltà che gli si presentano e le risposte che riesce a dare. Al Cap. XXI si può leggere:" E il tempo presente come facciamo a misurarlo, se non ha estensione?", mentre al cap. XXVI si può leggere: "E' il tempo che io misuro, lo so. Ma non è il tempo futuro, perché ancora non è, non quello presente, perché non ha estensione, non quello passato, perché non è più. E, allora, che è quello che io misuro?". Al Cap. XXVII risponde: "... non esse (le cose passate) io misuro, esse che non sono più, ma misuro qualcosa nella mia memoria, che vi rimane fissa". Mentre al Cap. XXVIII si può leggere. "Ma in qual modo diminuisce, o si consuma, il futuro, che non è ancora, o cresce il passato che non è più, se non perché nell'anima che è la causa del fatto, esistono tre stati? E, invero, essa aspetta, fa attenzione, si ricorda: per modo che quello che aspetta, attraverso a ciò che è l'oggetto della sua attenzione, passa a diventare la materia del suo ricordo. Ora nessuno nega che il futuro non è ancora. Ciò non pertanto esiste nell'anima l'aspettazione del futuro. E nessuno nega che il passato non è più. Ciò non pertanto esiste ancora nell'anima il ricordo del passato. E nessuno nega che il presente è privo di estensione, giacché il suo trascorrere è un punto. Ciò non pertanto dura l'attenzione, attraverso la quale ciò che sarà presente si affretta verso l'essere assente. Non dunque è lungo il tempo futuro che non esiste, ma il futuro lungo è l'attesa lunga del futuro. Né è lungo il tempo passato che nemmeno esiste, ma il passato lungo è il ricordo lungo del passato". Molte difficoltà, che si presentarono a Sant'Agostino nel trattare la questione del tempo, ed alle quali seppe dare una risposta, forse non gli si sarebbero presentate, se avesse tenuto presente che il tempo può essere preso in considerazione da un punto di vista matematico, oltre che da un punto di vista fisico (o fisiologico) e che è bene non fare una contaminazione dell'uno coll'altro di questi due diversi punti di vista. Può essere utile trattenersi brevemente sulla questione del tempo considerandola non disgiunta da quella dello spazio con la quale è intimamente collegata. Incominceremo col prendere in considerazione brevemente lo spazio matematico. Euclide ha inquadrato la sua geometria in uno "spazio", che va considerato infinito, dotato di tre dimensioni (lunghezza, larghezza ed altezza), intellettualmente oggettivo, formato da infiniti punti infinitamente piccoli. In tale spazio matematico, intellettualmente oggettivo, sono situate le figure geometriche, le quali pure, analogamente allo spazio matematico, vanno pensate come entità intellettualmente oggettive. Insieme allo spazio matematico può essere preso in considerazione un tempo matematico, anch'esso intellettualmente oggettivo, formato da infiniti punti (istanti) infinitamente brevi, che si distenda infinitamente verso il passato e verso il futuro, essendo il suo presente infinitamente breve, essendo, cioè, il presente un punto del tempo. Il Minkowski ha studiato il tempo considerato come una dimensione di una entità a quattro dimensioni (di cui le altre tre dimensioni sono quelle spaziali), che era stato chiamato


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cronòtopo dal Gioberti, e deve essere considerato intellettualmente oggettivo come lo spazio matematico ed il tempo matematico, che lo costituiscono. Passiamo ora ad intrattenerci brevemente sullo spazio fisico e sul tempo fisico. L'uomo é abituato a vedere che quanto si presenta alla sua attenzione ha un suo contenitore; per la qual cosa è portato ad ammettere istintivamente l'esistenza di un'entità, a cui può essere dato il nome di spazio (fisico), la quale entità contenga tutto l'universo che egli è in grado di percepire. Prendendo attentamente in esame lo spazio, ci rendiamo conto, però, che non può essere considerato come un grande recipiente, che contenga tutto l'universo. Gli dobbiamo negare un'esistenza oggettiva, perché nessun suo punto può essere considerato come un concreto punto di riferimento per la posizione di un qualsiasi oggetto, per lo studio di un qualsiasi moto, o per precisare la posizione di un qualsiasi evento. Tutto, invece, deve essere riferito ad un qualche corpo concretamente esistente. Se allo spazio non può essere attribuita un'esistenza oggettiva, dobbiamo considerarlo come una nostra intuizione, attribuendogli un'esistenza non oggettiva, ma intellettualmente soggettiva. Possiamo considerarlo, cioè, come un'entità intellettualmente soggettiva. Gli possiamo, inoltre, attribuire tre dimensioni, perché a ciò siamo portati dal senso della tridimensionalità di cui siamo dotati. Se passiamo a prendere in considerazione il tempo che interviene nelle questioni della fisica (il tempo fisico, o fisiologico), ci possiamo rendere conto facilmente che, sebbene si presenti con immediatezza alla nostra attenzione come un'entità oggettiva che scorra, anche ad esso, come allo spazio fisico, non può essere attribuita un'esistenza oggettiva. Un qualsiasi evento, infatti, non può essere riferito astrattamente ad un punto (ad un istante) del tempo, ma deve essere riferito ad un qualche altro evento che si sia già verificato e che venga considerato come evento di riferimento. Anche il tempo (fisico), quindi, come lo spazio (fisico), deve essere considerato come un'entità intellettuale soggettiva. E' frutto della nostra intuizione, e perveniamo al concetto di tempo per il fatto che siamo dotati della memoria in cui viene registrato il succedersi degli eventi. Non si può, quindi, ammettere che il tempo abbia avuto un'origine. Il soggetto che lo intuisce gli può attribuire un'origine nell'evento che più gli aggrada. Ad uno stesso fenomeno possiamo attribuire durate diverse a seconda dell'età, dello stato d'animo, o di altre condizioni. Questo prova che la durata di un fenomeno non è qualche cosa che appartenga strettamente al fenomeno osservato, ma al soggetto che lo osserva. Per convenzioni a fenomeni uguali (ad es., ai battiti di un orologio) attribuiamo durate uguali. Diciamo che due, o più, fenomeni hanno uguale durata se contengono lo stesso numero di battiti di un determinato orologio, a prescindere dalla sensazione di durata che possiamo provare nell'osservarli. L'istante (e così pure il presente) del tempo fisico non ha una durata infinitesima, come quello matematico, ma ha la durata di un atto di percezione. Il presente e l'istante del tempo fisico, o fisiologico, pensati non infinitamente brevi, sono perfettamente intuibili e vivibili. Da quanto abbiamo esposto si può dedurre che lo spazio matematico ed il tempo matematico sono adatti per inquadrare un nodello matematico del mondo, mentre col mondo della concreta realtà fisica fa comodo collegare uno spazio fisico, entità soggettiva, ed un tempo fisico, anch'esso entità soggettiva. Da quanto scrive Sant'Agostino si può dedurre che egli considera il tempo (fisico) come un'entità soggettiva e lo afferma esplicitamente quando, al Cap. XXX, sempre del libro XI, scrive: "Non può esistere tempo senza creatura". Egli però attribuisce al tempo fisico qualche proprietà che, invece, potrebbe essere attribuita al tempo matematico, o viceversa, e ciò può generare un po' di confusione di idee.


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Si può tener presente che il tempo non va pensato come un'entità che scorra, creata da Dio. Dio, infatti, può essere considerato come un punto metafisico, per il quale tutto è attuale e presente, non ha bisogno, perciò. di un prima e di un poi, né di un qua e di un là (di un tempo e di uno spazio). Già in San Tommaso, all'art. VII della questione III, della Somma Teologica si può leggere: "Dio è perfettamente semplice, non è unito ad altro e non ha parti"; ma ciò che non ha parti, secondo Euclide, è il punto. L'uomo, invece, ha bisogno di intuire (di creare) il tempo (fisico) e lo spazio (fisico), per collegarli con il mondo con i suoi eventi, che egli sa intuire (che egli sa creare) con i sensi di cui è dotato. Se il tempo fisico, entità intellettualmente soggettiva, è un'intuizione, o creazione, dell'uomo, risulterà tutto attuale nella sua mente con il suo presente, il suo passato, ed il suo futuro, ed egli potrà, quindi, misurarli.

----Giuseppe Antoni è nato a Petrella Salto (Rieti) nel 1909. Si è laureato in Matematica e Fisica a Roma nel 1932, discutendo una tesi assegnatagli da Enrico Fermi, "Lo spettro continuo dei raggi X". Ha successivamente insegnato in diversi Licei statali le predette materie, ed è stato infine a lungo Preside. La bibliografia allegata mostra un esempio delle questioni alle quali ha maggiormente dedicato studio ed interesse nel corso degli anni, tra queste in particolar modo quelle riguardanti la teoria della relatività. Via del Poliziano,7 - Montepulciano (Siena) - antonipa@bccmp.com Pubblicazioni: Presso le EDIZIONI ANDROMEDA, Via S. Allende, 1 - Bologna La relatività ristretta dedotta da considerazioni dinamiche Per capire la relatività ristretta, che può essere una evoluzione della fisica classica La relatività ed il suo spazio-tempo La relatività generale in un contesto dinamico La velocità della luce - bradioni, luxoni, tachioni Tra il serio ed il faceto (versi) Il misterioso universo Presso la CASA EDITRICE CEDAM - Padova L'uomo e la sua missione nel mondo Pensiero ed esistenza Presso la LIBRERIA QUADRI - Montepulciano (SI) (o anche Ed. Andromeda) La poesia nel vangelo Considerazioni sulla attuale (indeterminata) definizione del metro Il comportamento relativistico delle lunghezze e l'esperienza


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Le esperienze di Hafele-Keating e di Briatore-Leschiutta non provano l'esistenza di effetti relativistici Ciò che si deve capire della relatività e che (quasi) nessuno ha capito bene L'universo può non espandersi Stravaganze sui quanti di luce Il significato della relatività secondo Einstein, che sembra non averlo bene inteso Il comportamento relativistico degli orologi Lo spostamento gravitazionale delle righe spettrali L'evoluzione ed i suoi confini Il big bang in un cronotopo con metrica ellittica La necessità dell'esistenza di dio La relatività in un contesto ellittico Il vuoto ed il suo uso indeterminato nella fisica Il messia e la sua Chiesa nelle profezie L'uomo ed il suo mondo In mancanza di un progetto non può esserci evoluzione Generalizzazione della legge della gravitazione e sue conseguenze L'uno e l'altro guido del canto XI del purgatorio L'immenso ed inespansibile nostro universo L'uomo al centro del suo universo L'evoluzione a partire dal big bang Contributo per un chiarimento alla questione della causalità A Simple "Classical" Interpretation of Fizeau's Experiment (con U. Bartocci), Apeiron, Vol. 8, N. 3, July 2001


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Quattro ipotesi sulla natura del tempo (Paolo Bocchio) • • • • • • • • • • • •

Per Platone il tempo è in relazione al moto della stelle. Per Aristotele il tempo è il numero del movimento secondo il prima e il poi, ma i due istanti che determinano il prima e il poi non fanno parte del tempo, sono solo soste virtuali introdotte nel continuo del divenire dalla nostra coscienza. Per Lucrezio nemmeno il tempo sussiste come entità: sono le cose che creano il senso di ciò che succede negli anni. Per Plotino il tempo è il movimento con cui l'anima passa da uno stato all'altro. Per S. Agostino il tempo è «Distensio animæ». Per Newton il tempo vero, matematico, non è in relazione ad alcunché di esterno e scorre uniformemente per sua natura. Per Kant il tempo è un modo della comprensione umana. Per Hegel il tempo è il modo in cui si sviluppa lo Spirito. Per Marx il tempo è una convenzione sociale. Per Emo il tempo è la coscienza dell'istante. Per Heidegger è l'uomo ad introdurre la differenza tra il prima e il dopo. Per Prigogine la freccia temporale è insita nella natura.

Pretendere di dire qualcosa di nuovo sul concetto di tempo o tentare addirittura di "spiegarlo" è cosa che dimostra ingenuità ed irriverenza nei confronti dei grandi pensatori del passato. Ma quando si è di fronte a montagne che nessuno è mai riuscito a scalare, credo che ciascuno abbia il diritto e soprattutto il dovere di fornire il suo contributo per raggiungere la vetta, nonostante Shakespeare abbia scritto che «… disquisire… perché il giorno sia giorno, la notte notte e il tempo tempo, sarebbe spreco di notte, giorno e tempo» ["Amleto" II.II]. Il tempo è associato al mutamento, al divenire, al movimento, ma anche al concetto di "Individualità": per poter dire che A "diventa" B bisogna innanzitutto chiarire cosa significa che lo «stesso individuo», lo «stesso oggetto», lo «stesso ente» che prima era A adesso è diventato B. Facciamo alcuni esempi: - sia A un sasso e B lo stesso sasso in cui un atomo si è spostato; - sia A un embrione e B l'animale che ne è risultato 30 anni dopo; - sia A una persona e B la stessa persona che ha alzato un dito. In questi esempi ho dato per scontato che cambiamenti piccoli o grandi che siano (lo spostamento di un atomo o di un dito e una crescita trentennale) non modificano quella che è l'individualità di un ente. In realtà nulla ci vieta di pensare che un sasso in cui un elettrone è ruotato non sia più lo stesso sasso di prima: ovvero, se ciò che dà individualità all'ente è quella ben determinata disposizione spaziale delle sue particelle costituenti, come pure la sua relazione con l'ambiente circostante, non possiamo più dire che A diventa B, ma che A e B sono due enti quasi uguali che esistono in due distinti universi in cui il tempo non esiste! Quindi per poter dire che il tempo esiste e che A diventa B dobbiamo definire l'individualità dell'ente in maniera compatibile col fatto che quell'ente possa cambiare restando essenzialmente lo stesso ente! Immaginiamo un universo in cui esistono solo un elettrone ed un positrone che si stanno avvicinando. Immaginiamo adesso un embrione che si sviluppa fino a produrre un uomo che vive fino a 90 anni e poi muore. Cos'è che ci fa dire che


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l'elettrone ed il positrone che si muovono sono sempre gli stessi e che l'individuo concepito e vissuto fino a 90 anni è sempre lo stesso individuo? Cos'è che rimane costante per tutto il tempo? La risposta non può che essere questa: nel caso delle particelle considerate elementari, l'individualità è associata alle loro caratteristiche fisiche; nel caso di un atomo o di un organismo, l'individualità è associata al progetto unitario che assembla le parti (quello ad esempio che dà stabilità ad un atomo o che fa vivere una cellula). In linguaggio informatico si potrebbe dire che il divenire del singolo ente equivale alla successione degli output di un determinato programma. UNA PRIMA IPOTESI: IL TEMPO NON ESISTE. Sia A il signor Caio in un preciso istante del 1/1/2001, B lo stesso Caio in un preciso istante del 1/2/2001 e C sempre Caio in un preciso istante del 1/3/2001. Supponiamo di incontrarci con B: B crederà di essere stato A e che sarà C, irreversibilmente ed assolutamente! In realtà, in qualunque istante della nostra vita, non abbiamo mai una prova assolutamente certa del nostro passato (i ricordi non sono che sensazioni che cogliamo nel presente, le fotografie non sono che pezzi di carta stampata che percepiamo con il tatto e con la vista nel nostro presente…). Quindi A, B e C potrebbero benissimo essere tre realtà che esistono, immutabili, eterne ed atemporali in un universo statico e privo di divenire: B ha la sensazione di essere stato A, così come C ha la sensazione di essere stato A e B. Anzi, continuiamo ad ingannarci se pensiamo che esistano tante realtà quante sono gli istanti del tempo che passa: è sufficiente ammettere l'esistenza di un unico istante, di un'unica realtà, eterna, statica ed atemporale: l'ultima, quella corrispondente all'istante del nostro presente, qualunque esso sia!!! Eppure sembra così ovvia ed assoluta la sensazione di moto che nasce dal semplice dito mosso davanti ai miei occhi… Ma potrebbe essere tranquillamente un'illusione: istante per istante io ho una sensazione relativa alla posizione attuale del mio dito ed il ricordo delle posizioni immediatamente precedenti che sono comunque sempre ricordi posti nel presente! È come se nel mio cervello venissero attivate "contemporaneamente" più zone: una mi dà la sensazione della posizione attuale, le altre mi danno la sensazione delle posizioni precedenti! Ma quello che esiste è un unico istante: questo! Un mondo siffatto sarebbe addirittura compatibile con il libero arbitrio e la possibilità di guadagnarsi il Paradiso! Per scegliere il Bene, infatti, è sufficiente un'intenzione, e questa potrebbe essere tranquillamente istantanea ed atemporale! UNA SECONDA IPOTESI: (QUANTISTICA) DI ISTANTI.

IL

TEMPO

COME

SOVRAPPOSIZIONE

Ammettiamo adesso che il tempo esista. Consideriamo la vita di un individuo come un film: ad ogni istante corrisponde un fotogramma. Nel fotogramma A lui non sa quando gli morirà il cane, nel fotogramma B lui sa quando il cane è morto: diciamo che B viene dopo A. Per spiegare il Tempo dobbiamo capire la causa del "Trascinamento" della pellicola, causa che, evidentemente, dovrà trovarsi al di fuori del Tempo stesso! Innanzitutto non ci sarebbe nulla di scandaloso e paradossale a pensare che la pellicola giri alla rovescia, pe cui lo stato B precede lo stato A. Ecco qui emergere la differenza tra due concetti di tempo molto diversi tra di loro: il Tempo Oggettivo, che trascina la pellicola ed il Tempo Soggettivo presente solo nella nostra mente. Comunque giri la pellicola, per noi B viene sempre dopo A, in quanto quando siamo in B sappiamo cose che prima non sapevamo: quando siamo in A noi ci chiediamo comunque quando ci morirà il cane, anche se l'evento è "già successo": "Già successo", sì, ma per chi? Per chi vede la pellicola girare! Ma codesta entità deve poter vedere scorrere il tempo trovandosi a sua volta in un Tempo che ingloba e comprende il primo! E così via all'infinito…


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Pertanto essendo del tutto convenzionale il verso di scorrimento del Tempo Oggettivo, è molto probabile che esso non fluisca né verso il (nostro) passato né verso il (nostro) futuro, ma ciò significa che il Tempo Oggettivo non esiste! Anche perché per esistere dovrebbe implicare un movimento continuo ed assoluto che - come tutto ciò che è assoluto - trascende il nostro universo! Non a caso tutte le interazioni fisiche sono invarianti rispetto alle inversioni temporali (tralasciamo per ora il caso dei kaoni neutri). Tolto il concetto di Tempo Oggettivo, voglio comunque ammettere l'esistenza del movimento. È possibile spiegare un cambiamento prescindendo dal "Prima" e dal "Dopo"? È possibile spiegare come A diventa B senza scindere lo stato A dallo stato B? E d'altraparte imponendo l'esistenza di un solo stato per volta? Non è forse questo il Principio Quantistico di Sovrapposizione degli Stati? |S> = |A> + |B> |S> rappresenta l'intero film mentre |A> e |B> due suoi fotogrammi. Rispetto alla prima ipotesi (quella della inesistenza del tempo) qui siamo riusciti a recuperare tutti gli istanti (non esiste solo l'«ultimo») ma la natura del "movimento" resta altrettanto misteriosa quanto quella del Principio di Sovrapposizione degli Stati! UNA TERZA IPOTESI: IL TEMPO COME DINAMICITÁ INTRINSECA. Torniamo al concetto di movimento comunemente inteso: eliminato ormai il concetto di tempo oggettivo (che sembra essere una percezione esclusiva della mente che, dalla regolarità di certi movimenti (rotazione della Terra, aumento della sabbia dentro la clessidra, isocronia del pendolo, oscillazione dell'atomo di quarzo,…) perviene al concetto di "Tempo" e lo proietta sull'intero universo) , cosa significa che B viene dopo A? Il Tempo, come lo Spazio, sarebbe un dato strutturale del nostro universo: per spiegarli bisognerebbe uscire dall'universo stesso! Ogni sistema, ogni struttura, ogni classe di complessità, ogni «Simbolo» ha il suo "Tempo", la sua "Dinamicità intrinseca", il movimento adatto alla "Sua" stabilità. E tutto ciò viene "Selezionato Naturalmente", né più né meno come la forma di un becco o il valore di una carica elettrica. Se si fosse sviluppata la vita sulla Luna gli organismi lunari avrebbero sviluppato ritmi (motori, cerebrali, psicologici) molto più lenti dei nostri; su Giove, invece, sarebbero stati molto più rapidi. Ciò che rende un Simbolo costante nel tempo è la relazione fra le sue parti, è il "software" che ne gestisce tutte le possibili reazioni (per un neutrino è l'interazione elettrodebole, per un organismo vivente il suo DNA). J.T. Fraser ha classificato vari tipi di temporalità: la nootemporalità (tipica della mente umana), la biotemporalità (comune a tutti gli organismi viventi), la eotemporalità (tipica dei sistemi fisici reversibili), la prototemporalità (tipica della fisica subnucleare), la atemporalità (tipica dei fotoni) e la sociotemporalità (tipica delle società): nel caso dell'uomo, ad esempio, la sincronizzazione degli orologi biologici è necessaria per mantenere la vita, quella fra le funzioni cerebrali per mantenere l'integrità della mente e quella fra le funzioni sociali per mantenere la società. Il tempo sociale è quello che permette la progettazione di azioni che vanno oltre la durata della vita individuale e l'uso di idee tratte da un passato collettivo. Il tempo sociale fa sì che la società possa disporre di gradi di libertà che non sono accessibili ai suoi singoli membri. [J.T.Fraser: «Il Tempo: una presenza sconosciuta»]. Assumere la dinamicità della materia come la condizione naturale del nostro universo, è un'idea che si accorda perfettamente con i risultati della fisica moderna: ogni particella elementare, infatti, va concepita come un pacchetto di energia, come un processo al quale prende parte l'energia equivalente alla massa della particella stessa: «L'esistere e il dissolversi delle particelle sono semplicemente forme di moto del campo» [Thirring].


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In questo modo rispondiamo anche al paradosso di Zenone: «Come è possibile che una freccia si muova visto che essa in ogni istante è ferma?». Cioè, come è possibile costruire il moto partendo dall'immobilità? In realtà la domanda da porsi è un'altra: "Visto che tutto è moto, da dove nasce la nostra idea dell'immobilità?" Essa nasce evidentemente dalla limitatezza della nostra sensibilità che ci impedisce di cogliere il moto incessante che sta alla base del mondo fisico. La contraddizione che sorge dal pensare il divenire come un qualcosa di unitario e mutevole al tempo stesso, viene superata se si pongono questi due attributi del tempo su due piani diversi: nella nostra tridimensionalità esiste solo una successione statica ed atemporale di singoli "istanti" (intendendo per "istante" una determinata configurazione materiale e la sua relazione con l'ambiente circostante), ma ciò che tiene insieme questi "istanti" è un principio unificatore che appare solo nella quadridimensionalità dello spazio-tempo, dove il moto è sostituito dalla geometria pura o dalla durata pura. «Ma come si sussegue un istante ad un altro?» Nella quadridimensionalità tali istanti non si "susseguono" essendo sovrapposti e coincidenti in un unico "quadristante", ma neppure nella nostra tridimensionalità tali istanti si "susseguono", essi infatti rimangono isolati nella loro atemporalità. Se potessi vedere la caduta di un sasso nella sua quadridimensionalità, vedrei - immobili, eterne e sovrapposte in un unico "4-evento" - tutte le posizioni successive assunte dal sasso durante la sua caduta. Facendo degenerare alle sole 3 spaziali le dimensioni di questo "4-evento" non faccio altro che "sezionare" questo "4-evento", e le sezioni 3-dimensionali così ottenute sono, a loro volta, immobili ed atemporali, e sono molteplici, se viste nella loro 3-dimensionalità, ma unitarie se viste dalla 4-dimensionalità. Chiarisco il concetto con un esempio. Immaginiamo un universo unidimensionale ed un punto che si muove su di esso a velocità costante per un intervallo di tempo ∆t. Rappresentiamo questo movimento su un piano cartesiano dove l'asse Y è il tipico asse dei tempi. Bene, per l'essere bidimensionale che osserva la scena, il tempo non esiste, l'asse Y è per lui un'ulteriore dimensione spaziale e nel suo mondo atemporale il moto del punto si traduce in un segmento AB. Quindi, quello che per l'osservatore unidimensionale è un punto che si muove, per l'osservatore bidimensionale è un segmento. Il Tempo, il Movimento, non sono altro che l'interpretazione che l'osservatore unidimensionale dà, dal suo mondo, dell'unitarietà che caratterizza quel mondo bidimensionale che lo comprende! Insomma, la natura dell'osservatore è bidimensionale, ma siccome - per non so quale motivo - egli si percepisce in maniera unidimensionale, per far coincidere l'unitarietà bidimensionale degli eventi che osserva con le loro "sezioni" unidimensionali, egli introduce il concetto di "Tempo"! Passando a noi, la nostra natura è quadridimensionale, ma siccome noi ci percepiamo in maniera tridimensionale, per far coincidere la nostra unitarietà quadridimensionale con le nostre "sezioni" tridimensionali, siamo costretti ad introdurre il concetto di "Tempo" e di "Movimento". Il mondo 4-dimensionale è descritto correttamente dall'"Essere" di Parmenide, così come quello 3-dimensionale dal "Divenire" di Eraclito. In questo modo, l'unitarietà del 4-mondo che ci comprende giustifica la continuità dei nostri movimenti 3-dimensionali; ma da dove nasce la "freccia temporale"? Perché questi movimenti avvengono in un senso e non nell'altro? Se io rapporto la mia attuale sezione 3-dimensionale al mio Io 4-dimensionale, sono costretto ad ammettere un'asimmetria nella struttura di questo Io 4-dimensionale: in quest'ultimo, infatti, è "già" presente l'intera mia vita, dal giorno della nascita a quello della morte, ma allora perché la sezione 3-dimensionale che caratterizza il mio presente è in qualche modo collegata con


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una parte del mio 4-Io (il mio passato) e non con l'altra (il mio futuro)? È come se questo mio Io 4-dimensionale avesse una specie di struttura conica, con la base rivolta verso il "futuro": in questo modo una qualunque sua sezione può tenere traccia di tutte quelle comprese fra essa ed il vertice, ma non delle altre. Il perché poi sia così, bisognerà chiederlo a quella SuperSelezione-Naturale che ha ritenuto questa forma adatta all'ambiente in cui questo 4-Io si viene a trovare! Quello che ho fatto è stato "spiegare" il tempo trasformandolo in uno spazio: aggiungendo una dimensione allo spazio ordinario si è potuta eliminare la categoria temporale. Ma chi ci dice che la natura dello spazio sia più ovvia di quella del tempo? Avrei potuto fare l'opposto, considerando il tempo come concetto-base e cercando di "spiegare" lo spazio chiedendomi come si "sussegue" un punto al successivo! Sarei arrivato a considerare un "4-evento" unitario avente 4 dimensioni temporali! Se ho scelto la prima opzione è semplicemente perché un numero di dimensioni spaziali maggiore di uno riusciamo a figurarcelo, ma dal punto di vista temporale non arriviamo neppure alla bidimensionalità (non so immaginare un tempo "perpendicolare" al nostro!). Le 4 dimensioni che unificano i nostri eventi possono essere intese o come spaziali, o come temporali, ma la loro natura - per noi incomprensibile - le trascende e le comprende entrambe. UNA QUARTA IPOTESI: IL TEMPO COME SOGGETTIVITÀ ASSOLUTA. L'intrinsecità del tempo non implica quella della "freccia temporale"! La freccia del tempo sembra nascere quando le strutture materiali, diventando via via più complesse, determinano l'insorgenza di stati aventi diversa probabilità di esistere e già Boltzmann, nel 1872, affermava che i movimenti vanno nella direzione di maggior probabilità statistica (Teorema "H"). Subito dopo però, lo stesso Boltzmann ritrattò questa spiegazione della freccia temporale: infatti, come notò Zermelo, discepolo di Planck, non esiste alcuna connessione logica tra il concetto di freccia temporale e quello di probabilità: si tratta di una semplice tautologia associare la direzione del tempo all'evento "più probabile": in un universo in cui il tempo scorresse al contrario, l'evento "più probabile" sarebbe il bicchiere intero e non quello rotto. Quello che io sostengo è quindi che la freccia temporale (ovvero il tempo soggettivo) è un qualcosa di connesso alla "Logica" e quindi alla Selezione Naturale. Immaginiamo un universo in cui l'evoluzione abbia selezionato individui il cui scopo sia quello di morire. In questo universo consideriamo tre istanti differenti: - in A c'è una persona affamata; - in B c'è quella persona che mangia; - in C c'è la stessa persona sazia. Per la logica di queste persone il mangiare fa dimagrire ed il tempo fluisce quindi nel verso: C B A! Con questo paradosso (mal riuscito!) voglio solo rendere l'idea di cosa intendo quando dico che il tempo soggettivo dipende dalla logica, dalla psicologia, che a loro volta dipendono dai nostri desideri, che a loro volta seguono le leggi della selezione naturale e dell'evoluzione, che a loro volta dipendono dalle leggi di natura, che a loro volta dipendono ancora da una specie di Selezione Naturale Extra-Cosmica che seleziona l'universo più adatto per ogni punto di un inimmaginabile Iper-Spazio-Tempo. L'universo sopra descritto non è il nostro visto alla moviola, è l'opposto! Io quando sono in A aspetto C; l'anti-me quando è in C aspetta A! Il tempo soggettivo esprime il nostro mutamento in relazione ai nostri desideri. Durante la giornata, durante la vita, ciascuno di noi ha desideri


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diversi, più o meno intensi, più o meno "urgenti" ed a ciascuno di essi è associato un particolare tempo soggettivo: nel momento in cui il nostro desiderio è quello di svolgere il nostro compito sociale, tutti noi ci sincronizziamo con l'indicazione dataci dall'orologio e quel tempo soggettivo lo chiamiamo "tempo oggettivo". Mentre sogniamo o mentre siamo sotto l'effetto di alcol, sedativi o droghe, la percezione che abbiamo dello spazio e del tempo è indubbiamente molto diversa da quella "normale". Se mantenessimo anche da svegli quel tipo di percezione, avremmo vita molto breve! Questo però non significa che una percezione sia più "giusta" dell'altra: traducendo l'affermazione kantiana in termini darwiniani, possiamo dire che percepiamo il mondo secondo le modalità spazio-temporali corrispondenti al nostro stato di veglia perché questa forma di percezione programmata a livello genetico - si è dimostrata più utile nella lotta per la sopravvivenza. Non ha senso chiedersi - kantianamente parlando - se esiste effettivamente qualcosa che corrisponde a queste nostre idee dello spazio e del tempo: sono solo predisposizioni innate che contribuiscono a perpetuare la specie. E. Bellone, nel suo libro «Spazio e tempo nella nuova scienza», si chiede quali organi di senso raccolgano i segnali temporali. Visto che il tempo è moto, moto inteso anche come cambiamento, i sensori che recepiscono il tempo saranno gli stessi che recepiscono il cambiamento; cambiamento rispetto allo spazio (un sasso che cade), alla forma (un palloncino che viene gonfiato), al colore (una foglia che ingiallisce), etc. Per recepire un cambiamento occorre quindi una memoria capace di: 1. 2. 3. 4.

registrare stati diversi di un oggetto, sovrapporre questi stati, cogliere l'individualità dell'oggetto che sta divenendo, discriminare l'intensità della percezione.

È proprio quest'ultima capacità (l'intensità della percezione) che ci induce il concetto di cambiamento, di movimento e quindi di tempo. Facciamo un esempio: all'istante t (qualunque cosa sia questo istante) mi si sovrappone nella mente la sensazione forte che ho di un certo oggetto in quell'istante e quella debole di quello stesso oggetto: bene, quest'ultima sensazione verrà interpretata dalla mia mente come "istante precedente". Se invece ci fermiamo ai primi tre punti, ovvero se la memoria ci fa sovrapporre nella mente due stati diversi di due oggetti qualsiasi (anche coincidenti) ma senza riguardo all'intensità della percezione, nasce in noi il concetto di spazio: ecco perché il concetto di spazio è più arcaico di quello di tempo (negli animali e nei sogni, dove si attiva la parte più antica del cervello, la categoria temporale è molto più imprecisa), proprio perché non necessita di un apparato aggiuntivo capace di discriminare variazioni dell'intensità percettiva. L'idea che esista uno spazio ed un tempo si riduce così a semplici sensazioni primarie (visive, tattili, uditive, olfattive, gustative, termiche, motorie, dolorifiche, etc…) che vengono raccolte, sovrapposte ed elaborate da un unico centro supersensoriale, centro che in definitiva È lo spazio-tempo. Spazio e tempo (e la nostra stessa autocoscienza), insomma, vanno intesi solo come sensazioni elaborate e non come realtà esterne (o interne) che noi percepiamo attraverso segnali caratteristici (come le immagini o i profumi) che tali realtà emanerebbero. Insomma, queste stesse percezioni che abbiamo (una luce, un suono…) non è detto che siano segnali provenienti da "oggetti posti nello spazio", ma potrebbero essere solo sensazioni indotte in "noi" da chissà che cosa e che ci portano a costruire l'idea di uno "spazio" che contiene degli oggetti capaci di inviarci tali segnali. Il buon funzionamento di questi modelli, poi, è garantito, come sempre, dalla Selezione Naturale.


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Proviamo a fare un "esperimento mentale". Prendiamo due gemelli omozigoti: Pietro e Paolo; al momento della nascita Pietro viene ibernato mentre Paolo cresce normalmente, ma con un particolare: per tutta la vita, dall'istante della nascita in poi, Paolo sarà dotato di un apparecchio collegato a tutte le terminazioni nervose che giungono al suo cervello e capace di registrare tutti i segnali elettrici convogliati dal nervo ottico, quello acustico, quelli motori, etc. Alla morte di Paolo (o magari anche prima), Pietro viene disibernato, il suo cervello viene tolto dal cranio, mantenuto in vita da una circolazione sanguigna opportuna ed alle sue terminazioni nervose verrà collegato l'apparecchio precedentemente collegato a Paolo, il quale apparecchio riverserà sul cervello di Pietro tutti i segnali elettrici registrati (ovviamente nello stesso identico ordine). Bene, benché il cervello di Pietro si trovi chiuso in una scatola dentro una stanza buia, questi comincerà a vedere, sentire, crederà di muoversi, di camminare, sentirà la pressione del terreno contro i piedi che non ha, avrà l'impressione di parlare, di ascoltare, di percepire gusti e profumi e elaborerà una concezione dello spazio e del tempo: insomma, ripeterà, a qualunque livello, la stessa identica vita di Paolo! Con questo esempio ho voluto solo dimostrare che, lungi dalla speranza di poter pervenire al "noumeno" e con la speranza di non essere solo dei cervelli cavie di qualcuno, la discussione sulle categorie fondamentali dell'essere (spazio, tempo, logica, consapevolezza…) ci deve porre in una posizione di estrema modestia ed incertezza ove non dare per scontati neppure i concetti apparentemente più ovvii ed assoluti. (Quando crediamo di spostare la mano nello spazio che ci circonda, forse non esiste né lo spazio, né la mano e forse anche noi non siamo che "il sogno di qualcun altro" (Borges "Finzioni - Rovine circolari")). -----

Paolo Bocchio è nato a Treviglio (BG), il 6/1/1961 (data ricca di simmetrie, presagio del suo amore per l'ordine e la chiarezza!). Dopo aver conseguito la maturità scientifica ad Alessandria, ha lavorato per quattro anni nel sugherificio paterno, ma, decisamente non tagliato per il commercio, ho optato per la prosecuzione degli studi e si è laureato in Fisica - indirizzo Nucleareall'Università Statale di Genova nel 1988. Ha insegnato Elettronica, Matematica e Fisica nelle Scuole Superiori e attualmente è docente di Telecomunicazioni all'I.T.I.S. "G. Ciampini" di Novi Ligure (AL). E' stato membro dell'Associazione Astrofili Alessandrini e collabora col Centro Studi Il Villaggio dell'Uomo e con l'A.I.F. (Associazione per l'Insegnamento della Fisica), dei quali è socio. Dedica il suo tempo libero all'approfondimento in campo epistemologico. pbok@libero.it


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Una conferma sperimentale delle obiezioni di Halton Arp al paradigma cosmologico corrente Episteme riceve, per il gentile tramite del Dott. Alberto Bolognesi (vedi sul N. 2 della rivista: "Dalla parte del torto: Tully & Fisher vs Hubble - Uno studio critico sul successo della cosmologia del Big-Bang"), una comunicazione del Prof. Halton Arp, che è lieta di condividere con i suoi lettori: - Two quasars in bridge NGC 7603 (Arp 92), paper submitted by young Spanish astronomer Martin Lopez Corredoira... Il Dott. Bolognesi sottolinea come la scoperta effettuata nel cielo delle Canarie di due quasar "vicini", in quanto evidentemente immersi nel braccio di NGC 7603 (z = 0.029), ma aventi red shift molto diversi tra loro e dall'"ambiente" (risulterebbe infatti z = 0.057 per il primo grande oggetto luminoso sulla sinistra, z = 0.243 per il quasar sulla sinistra, e z = 0.391 per quello sulla destra; si è misurato inoltre z = 0.030 per la "zona filamentosa" tra i due quasar, e ancora z = 0.030 per l'analoga regione osservabile alla destra del secondo), sia da considerarsi veramente "straordinaria", a conferma delle obiezioni di Arp al paradigma cosmologico corrente (il famoso big bang!): un'eventuale velocità di fuga non sarebbe l'unica, né la principale, causa fisica del red shift galattico, e soprattutto sarebbe errata la sua correlazione con la distanza, che viene effettuata attraverso la cosiddetta "legge di Hubble"... La lettera del Dott. Bolognesi si conclude con le seguenti parole: - Caro Bartocci, o QUESTA cosmologia è finita, o è la stessa astronomia osservativa che è finita!

[Alberto Bolognesi - Via Marche N. 8, 47843 Misano Adriatico (Rimini)]


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La "fuga" di Amleto, ovvero alla ricerca dell'Introduzione originaria di Hamlet's Mill (Il non detto in rapporto alla tematica centrale) (Massimo Cardellini) Newton. Scusatemi, signori, ho scritto una storia cronologica del mondo e le date mi danno qualche fastidio. Carlo. Ma l'arcivescovo Usher non ha già fissato la data di tutti gli avvenimenti del mondo? N. Disgraziatamente non tenne conto della precessione degli equinozi. Ho dovuto quindi correggere alcuni suoi errori. C. E, con buon rispetto del nostro pastore, che diavolo è questa precessione degli equinozi? […] N. È una cosa semplicissima ed anche un bambino può capirla. I due giorni dell'anno in cui giorno e notte sono d'uguale durata sono gli equinozi. In ogni anno siderale che si sussegue questi giorni hanno luogo con anticipo. Comprenderete subito che ciò involve un moto retrogrado dei punti equinoziali lungo l'eclittica. Questo è ciò che chiamiamo la precessione degli equinozi. Fox. Grazie. Signor Newton, ma ne so tanto quanto prima. (George Bernard Shaw, Ai tempi d'oro del buon re Carlo)

Quell'indiscusso capolavoro sulla cultura e la mentalità arcaiche, qual è appunto Il Mulino di Amleto1 è in realtà ancora più degno di considerazione proprio per il sapiente dosaggio usato da de Santillana, il più celebre dei suoi due autori, 2 nell'esporre quella che qui chiamerò tematica centrale, e cioè l'evidenziazione, attraverso un'ampia quanto rigorosa analisi comparativa di miti, concezioni religiose, fiabe, e poemi epici di ogni tempo e luogo, di una nozione scientifica piuttosto complessa contenuta in essi e consistente nella codificazione della precessione degli equinozi attraverso una forma narrativa che di solito ha per protagonisti personaggi e situazioni bizzarre, almeno per la nostra mentalità e senso estetico. Questa scoperta rappresenta ovviamente l'acme della ricerca intrapresa in Hamlet's Mill, dal momento che la nozione della natura astronomica di gran parte della mitologia mondiale funge sempre da supporto a questa tematica centrale. Definito sommariamente in cosa consista la tematica centrale, su cui, se pur brevemente, nel corso del presente saggio si dovrà necessariamente ritornare, è ora doveroso specificare cosa si debba intendere per non detto in rapporto ad essa, di modo che risulti chiaro il perché esista, e non sarebbe potuta esistere in Hamlet's Mill, una strategia espositiva estremamente elaborata e raffinata, da vero artista qual era appunto de Santillana. Anzi spero di mostrare che questa strategia espositiva piuttosto ricercata sia il portato stesso della indagine svolta dallo studioso italo americano, e cioè un omaggio da parte di una grande mente dei nostri tempi alle grandi menti del profondo ieri che forgiarono le più robuste strutture mentali dell'umanità, le categorie eterne dello spirito, il linguaggio del simbolo attraverso cui essi indagarono il cosmo e se stessi. Ricapitolando, la tematica centrale sviluppata da de Santillana lungo tutto il corso di Hamlet's Mill potrebbe essere concepita come lo sviluppo del tema originale di una immensa partitura sinfonica mentre il non detto come delle ingegnose variazioni che l'andrebbero a sostenere ed arricchire. Trovo assolutamente importante insistere su questa analogia di natura musicale in quanto essa non è mia ma suggerita molto sottilmente dallo stesso de Santillana per ben quattro volte nel corso della sua opera in punti oltretutto altamente significativi.


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L'ubicazione di questi quattro passi in cui la tecnica musicale della fuga viene adoperata da de Santillana come immagine analogica per la struttura del suo Hamlet's Mill è molto importante in relazione a quanto stiamo qui discutendo, in quanto essi si rinvengono una prima volta nella Prefazione, una seconda volta a brevissima distanza, nell'Introduzione, una terza volta nel fondamentale capitolo, intitolato Intermezzo. Una guida per i perplessi, ed una quarta ed ultima volta nello scritto conclusivo, intitolato Conclusione. Queste quattro parti sono le uniche, insieme al penultimo capitolo intitolato Epilogo. Il tesoro perduto, e che de Santillana ha voluto portasse addirittura la sua sola firma, a non essere stati numerati dall'autore. Nulla di strano in fin dei conti per quel che riguarda sia la Prefazione e la Introduzione che per la Conclusione il cui compito, come è ovvio, doveva limitarsi rispettivamente ad illustrare da una parte lo scopo del lavoro che l'autore presentava all'attenzione del lettore, e dall'altra a trarre un bilancio globale di quanto conseguito nel corso del medesimo. Il capitolo intitolato Intermezzo compare però nell'indice tra il quarto (Storia, mito e realtà) ed il quinto capitolo (Rivelazioni in India) senza numerazione ed in modo decentrato rispetto agli altri capitoli creando così visivamente un vuoto nell'incolonnamento riportato nell'indice che ha come risultato quello di porlo in forte evidenza (vedi Appendice B). Si viene a creare così una simmetria nel corpo dell'opera in cui la Prefazione e l'Introduzione precedono il trattato vero e proprio, costituito di ben 23 capitoli numerati, e l'ampio Epilogo. Il tesoro perduto e la Conclusione, che la seguono. Unica eccezione, come già detto, l'Intermezzo, collocato in modo evidentemente, se non ostentatamente, eccentrico rispetto al complesso dell'esposizione, succedendo ai primi quattro e precedendo i rimanenti diciannove e, reso ancora più visibile, dalla mancanza di numerazione. Il motivo fondamentale per cui de Santillana ha usato per ben quattro volte la tecnica musicale della fuga come figura atta ad illustrare la struttura profonda di Hamlet's Mill risulta in modo evidente nel terzo passo, contenuto quindi nel capitolo non numerato, in cui de Santillana scrive: "Fin dal principio avevamo pensato di intitolare il nostro saggio Arte della fuga, il che esclude, e non vi si insisterà mai abbastanza, qualsiasi “immagine del mondo”. Ogni sforzo di ricorrere a schemi è destinato a far cadere in contraddizione. È una questione di tempi e di ritmi. " [pag. 87].

Ecco quindi individuato il motivo del ricorrere per ben quattro volte di questa immagine dell'arte della fuga bachiana come idonea a descrivere la difficoltà di rendere conto dell'assenza di un piano espositivo formale rigoroso: il titolo originario di questo vasto Saggio sul mito e sulla struttura del tempo avrebbe dovuto essere quindi, per ammissione dello stesso autore, quello di Arte della fuga. Ecco spiegato anche il motivo per cui questi quattro importanti passi si ritrovano proprio nei tre capitoli non espositivi della tematica centrale bensì, come già detto nella Prefazione, nella Introduzione; nell'Intermezzo, la cui funzione è proprio quella di effettuare un primo e ultimo bilancio di quanto esposto in modo apparentemente caotico nei primi quattro capitoli dell'opera, e di ciò che si continuerà a esporre nello stesso modo ancora per i rimanenti diciannove; e la Conclusione. Ritengo che questi quattro paratesti, che posseggono una loro specifica individualità e funzione all'interno di Hamlet's Mill, dovevano essere stati in origine, quando de Santillana aveva l'intenzione di intitolare il suo lavoro Arte della fuga, un unico capitolo, probabilmente quello introduttivo, in quanto i quattro passi insistono proprio, come avremo modo di vedere più dettagliatamente, proprio sulla difficoltà di dare ad una tematica qual è quella affrontata un'adeguata forma espositiva. L'abbandono del primo titolo per quello infine prescelto, e sicuramente altri motivi (ancora, non ultimo, l'eccessiva lunghezza di questo capitolo introduttivo in rapporto alla lunghezza media dei 23 capitoli argomentativi, e il suo tono forse troppo professorale o addirittura


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eccessivamente, anzi accademicamente sicuro di sé), deve aver convinto il grande studioso a ridislocare questo lungo scritto, che presumiamo introduttivo, in diverse parti del libro, e che crediamo di aver potuto individuare grazie all'uso in ognuno di essi dell'uso della figura analogica della fuga musicale per illustrare adeguatamente la particolare struttura dell'intera composizione. Nella Prefazione, paventando che il testo potesse presentare delle serie difficoltà ai lettori, si teneva a precisare che queste non erano imputabili agli autori: "Sono le difficoltà inerenti a una scienza che fu fondamentalmente tenuta segreta, e in modi tali che noi non riusciamo bene a immaginare. Ma la difficoltà maggiore deriva dal fatto che non abbiamo potuto far uso della nostra tradizionale logica catenaria, così semplice ed onesta, in cui prima si pongono i principi e poi segue la deduzione. Non così facevano i pensatori arcaici; essi pensavano invece in un modo paragonabile forse alla fuga musicale, dove tutte le note non possono esser costrette entro un'unica scala melodica, dove si viene tuffati in medias res e si deve seguire l'ordine temporale creato dai loro pensieri. È nella natura della musica, dopotutto, che le note non possono essere suonate tutte assieme. L'ordine e la sequenza, il significato stesso della composizione, si riveleranno – con la pazienza - a tempo debito. Il lettore, suggerirei, dovrà porsi nell'antico "Ordine del Tempo" ". [pag.

20/21] Ecco definita con le stesse parole dell'autore in cosa consista la struttura profonda non soltanto della fuga come genere musicale quanto soprattutto del proprio ponderoso lavoro. Questo passaggio se ha l'indubbio merito di rendere immediatamente comprensibile la struttura del libri attraverso il suo accostamento con la tecnica della fuga musicale, presenta però il demerito di introdurre accanto a questa chiarificazione concettuale già alcune tematiche collaterali, che ho definito come non detto, e precisamente: 1] l'esistenza di una scienza tenuta segreta attraverso modalità che l'autore ammette di non riuscire ad immaginare; 2] l'esistenza di una logica che de Santillana chiama non catenaria; 3] l'esistenza di una classe di individui che de Santillana definisce come pensatori arcaici a cui detta logica catenaria va attribuita. Risultano così individuate l'una accanto all'altra, tanto per evidenziare la chiarezza con la quale de Santillana aveva affrontato non soltanto la particolarità della struttura globale della sua grande affresco, tre grandi tematiche di supporto a cui l'autore accenna ma che non tratta neanche marginalmente in nessun punto del suo lavoro. La statura intellettuale di de Santillana gli avrebbe permesso senz'altro di comporre un opera dalla mole ancora più formidabile, ma egli avrebbe dovuto trattare contestualmente alla tematica centrale, anche: 1] degli aspetti contenutistici di una conoscenza segreta, di cui egli ha rintracciato su scala mondiale le grandi coordinate; 2] degli aspetti storici ed antropologico culturali della mentalità delle civiltà che elaborarono questa scienza segreta; 3] degli aspetti da sociologia della conoscenza e sociologici veri e propri degli individui preposti alla elaborazione e trasmissione di questa conoscenza segreta. In relazione all'ampia citazione riportata sopra, va evidenziato che è soltanto dopo aver posto queste tre formidabili tematiche, che de Santillana descrive e non senza acutezza, la natura complessa della tecnica della fuga musicale, e che la attribuisce anche alla sua opera. Soltanto così intesa essa assumerebbe una sicura intelligibilità, in quanto a causa della tematica centrale affrontata (la quale è pur sempre un tentativo di ricostruzione di una produzione intellettuale elaborata da particolari individui che in ere remote la crearono


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attraverso tecniche di indagine non basate sulla logica a cui noi contemporanei diamo valore assoluto), sarebbe altrimenti condannata a non approdare ad alcun risultato certo. Ciò invece potrà accadere se il lettore sarà paziente e soltanto "a tempo debito", soprattutto se egli capirà che dovrà porsi nell'antico "Ordine del tempo". Passando ora al terzo passo, presente come già detto nell'Introduzione e contenente anch'esso l'analogia con l'Arte della fuga di Bach, dovrò necessariamente rimarcare che esso costituisce il suo inizio vero e proprio: "Questo lavoro intende essere semplicemente un saggio: una prima perlustrazione di un regno quasi mai esplorato e registrato sulle carte. Da qualunque parte vi si penetri, si rimane prigionieri della stessa sconcertante complessità circolare, come all'interno di un labirinto: esso non possiede, infatti, un ordine deduttivo in senso astratto, ma assomiglia piuttosto a un organismo tenacemente racchiuso in sé o, meglio ancora, una monumentale "Arte della fuga" ". [pag. 25]

Ricaviamo così l'assoluta certezza che in origine de Santillana aveva scritto veramente una lunga Introduzione alla sua opera, il cui titolo L'arte della fuga, lo aveva costretto ad illustrare approfonditamente i motivi che lo avevano indotto a scegliere quel titolo, adatto più ad un trattato di musicologia che ad uno studio comparato del mito. L'abbandono di quel primo titolo per il secondo, ancor più enigmatico del primo ma che per lo meno, al contrario di esso, ha almeno il merito di scaturire dalla materia stessa della ricerca, provocò così un ridimensionamento dell'analogia musicale che però deve essere dispiaciuto a de Santillana, tanto da non indurlo a rigettare del tutto quanto egli aveva elaborato per illustrare quella singolare quanto significativa analogia, e da ridistribuirla poi negli scritti che all'interno dello studio gli permettevano di recuperarla. Non mi sento di escludere a priori che lo stesso vasto penultimo capitolo Epilogo. Il tesoro perduto, facesse parte, se non del tutto (perché in uno studio di quelle dimensioni un capitolo conclusivo doveva pur essere previsto) almeno in buona parte dell'Introduzione originaria. Allo stesso modo non mi sento altresì di escludere che lo stesso Intermezzo facesse anch'esso parte di questa Introduzione originaria. Se entrambi questi capitoli non contengono più l'analogia musicale centrata sull'arte della fuga, essi comunque contengono delle indicazioni sulla logica della mentalità e del linguaggio primordiali che altro non sono che i moventi che spinsero in un primo momento de Santillana ad orientarsi a scegliere per il proprio lavoro il titolo poi abbandonato. La densità delle immagini usate dall'autore come supporto all'analogia illustrata dovrebbero risultare evidenti. L'opera viene definita innanzitutto, e non per falsa modestia, un semplice saggio e ancor più precisamente: A] "una prima perlustrazione di un regno quasi mai esplorato e registrato nelle carte"; B] lavoro che ha come propria peculiarità una "sconcertante complessità circolare" di cui "si rimane prigionieri come all'interno di un labirinto"; C] lavoro che infine non possiede, (cosa che al lettore non può che risultare strano per uno storico della scienza) "un ordine deduttivo in senso astratto". È dopo aver enumerato queste caratteristiche che de Santillana usa infatti a scopo illustrativo sintetico la detta analogia, e cioè dopo aver rimarcato nei punti precedenti: A1] l'assoluta originalità dell'oggetto dell'indagine (regno), che corrisponderebbe a quanto in questo scritto è definita "tematica centrale"; indagine per di più su cui non esisteva alcuna registrazione nel complesso degli studi sul mito (carte), prima della ricerca in oggetto;


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B1] una singolare difficoltà che la natura dell'indagine stessa porrebbe a chi la intraprende, inducendo questi a girare in circolo, cioè a vagare in modo inconcludente come in un labirinto in cui si rimarrebbe addirittura prigionieri; C1] che lo studio che l'autore sta proponendo al lettore è addirittura privo di una vera e propria struttura argomentativa progressiva, di modo che l'autore possa dirsi ad un certo punto soddisfatto della propria ricerca essendo giunto alfine alla mèta prefissatasi. In effetti de Santillana, avvertendo già il lettore nella pagina precedente del fatto che sta per intraprendere una lettura irta di difficoltà che non deve imputare all'autore, ma che sono appunto "inerenti a una scienza che fu fondamentalmente tenuta segreta, e in modi tali che noi non riusciamo bene a immaginare", aveva già anticipato quanto è stato posto in evidenza nel punto C, e chiarito in C1, e cioè il fatto che per Hamlet's Mill egli non aveva potuto far uso "della nostra tradizionale logica catenaria, così semplice e onesta, in cui prima si pongono i principi e poi segue la deduzione", caratteristica che egli riconosce essere la difficoltà principale di quelle che il lettore comunque incontrerà. La quarta ed ultima citazione in cui de Santillana usa la metafora dell'arte della fuga è contenuta nell'Epilogo, e quindi nella parte terminale della sua opera. Com'è sin troppo evidente, se le prime tre citazioni contenenti la nota metafora a carattere musicale sono poste a distanze brevi - anzi brevissima se consideriamo quella tra la Prefazione (pag. 20/21) e l'Introduzione (pag. 25), e relativamente breve se consideriamo quella tra questi due primi paratesti ed il terzo, Intermezzo (pag. 87) - nel loro complesso questi tre pezzi sono posti ad una distanza piuttosto considerevole rispetto al quarto, appunto l'Epilogo (pagina 407). Ciò rende non facile una loro individuazione ad una prima lettura, ma come accade per tutti i grandi studi è la rivisitazione che paga, soprattutto perché in genere sono gli autori di essi ad aver voluto disseminarli di indizi che, una volta scoperti, permettono a chi li ha trovati di gustarne in intensità e profondità. Allo stesso modo quando si è in grado di comprendere finalmente la complessità strutturale dell'Arte della fuga di Bach, o della sua Offerta musicale, o di qualunque altra opera non importa se letteraria, poetica, pittorica, musicale, plastica, scientifica, perfino nella stessa natura a vari livelli, fenomeno che Douglas Hofstadter - nel suo altrettanto ponderoso ma eccitante Gödel, Escher, Bach, un'Eterna Ghirlanda Brillante 3 ha saputo perfettamente illustrare sia come categoria mentale, sia come caratteristica implicita nella struttura profonda o del reale o della logica, e di cui la mentalità arcaica a suo modo era perfettamente consapevole. Chiudiamo, in bellezza con la detta quarta citazione concernente l'ultimo indizio disseminato da de Santillana, che riteniamo inutile commentare per lasciar meglio agire nel lettore le sue quasi infinite suggestioni: "La natura di questo sconosciuto mondo della forma astratta può anche venir suggerita attraverso simboli musicali. L'Arte della fuga di Bach rimase incompiuta, e le simmetrie presenti in quanto ne rimane possono solo accennare a ciò che avrebbe potuto essere l'opera completa, e comunque esse non sono nemmeno così come Bach le lasciò: le lastre incise andarono perdute e in parte distrutte, poi furono rintracciate, ricomposte e collocate in un ordine approssimativo. Ciò nonostante, se si considera la composizione così com'è ora, non si può fare a meno di credere che vi fu un tempo in cui il progetto visse nella sua interezza nella mente di Bach". [pag. 407]

Note 1 - Hamlet's Mill. An essay on myth and the frame of time, 1969. Tr. It: Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo. Adelphi, Milano, 1ª edizione 1983, 8ª edizione 2000. Le citazioni nel presente saggio corrispondono alla 4ª edizione del 1997. 2-

L'altro autore è la tedesca storica della scienza, Hertha von Dechend.


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3 Douglas R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach, An Eternal Golden Braid, 1979, Basic Book; Tr. It. Gödel, Escher, Bach, un'Eterna Ghirlanda Brillante, Adelphi, Milano, 1984. L'edizione italiana porta come sottotitolo, non in copertina ma nel frontespizio: Una fuga metaforica su menti e macchine nello spirito di Lewis Carroll.

Appendice A Alcune citazioni adeguate, e non dalla sola opera in esame, aiuteranno a comprendere meglio il senso di ciò che precede. "Per molti anni ho cercato il punto in cui mito e scienza si congiungono. Da molto tempo mi era chiaro che le origini della scienza avevano le loro radici profonde in un mito particolare, quello dell'invarianza" [pag. 15] "Tanto per cominciare, non esiste un sistema in termini analitici moderni; non c'è una chiave né vi sono principi. La struttura proviene da un tempo in cui non esistevano sistemi come li intendiamo noi, e sarebbe scorretto cercarne uno. Ben difficilmente sarebbe potuto esistere presso popoli che affidavano tutte le loro idee alla memoria. Possiamo considerarla una pura struttura di numeri" [pag. 87] "Il lettore moderno rispetta come "scientifiche" soltanto le formule di approssimazione lunghe una pagina e cose simili. Non gli vien fatto di pensare che in passato una conoscenza altrettanto importante potesse venir espressa nella lingua di tutti i giorni. È una possibilità che nemmeno sospetta, anche se le realizzazioni delle civiltà antiche - basti pensare alle piramidi o alla metallurgia - dovrebbero esser motivo probante per concludere che dietro le quinte lavorava gente seria e intelligente, che non poteva servirsi di una terminologia tecnica" [pag. 88] "[un retaggio che dobbiamo a un] quasi incredibile antenato del Vicino Oriente, che per primo osò intendere il mondo come creato secondo numero, peso e misura" [pag. 164] "Il merito principale (del linguaggio mitico) è che può essere usato come veicolo per trasmettere conoscenze concrete indipendentemente dal grado di consapevolezza delle persone che concretamente narrano le storie, le favole o altro" [pag. 364] "Era una lingua che non si curava delle credenze e dei culti locali e si concentrava invece sui numeri, moti, misure, architetture generali e schemi, sulla struttura dei numeri, sulla geometria… È di antichità che incute timore" [pag. 405] "Nulla rimane dell'antica conoscenza se non le reliquie, i frammenti e le allusioni sopravvissuti al violento attrito dei tempi. Parte del tesoro perduto può essere ricuperata attraverso l'archeologia; parte - per esempio, l'astronomia maya - può venire ricostruita col ricorso alla pura ingegnosità matematica; ma la totalità del sistema si trova forse al di là di ogni possibile congettura, poiché le menti creative e ordinatrici che lo idearono sono svanite per sempre" [pag. 409] "Un tempo gli studiosi davano per scontata l'identità del nostro passato con i "selvaggi" contemporanei… Il "primitivo" degli studiosi ottocenteschi era semplicemente "prelogico"... La scala del Progresso partiva di lì… Ma in quei decenni dell'Ottocento si fecero anche delle grandi scoperte. Sir James Frazer nel suo Ramo d'oro rivelò l'antichissima diffusione mondiale di credenze, operazioni magiche, e riti di fertilità che con ogni probabilità


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precedevano la civiltà a noi nota e dimostrò che essi sono la profonda infrastruttura universale delle nostre culture storiche, ancor vivi ed operanti ai giorni nostri. I filologi classici rabbrividirono al vedere quella Grecia unica al mondo che essi avevano vagheggiato, perdere i propri contorni contro uno sfondo barbarico; gli antropologi, al contrario, esultarono" [Le origini del pensiero scientifico. Da Anassimandro a Proclo 600 a.C.-500 d. C. (Sansoni, Firenze, 1966), pag. 14] "Quelle che ci appaiono condizioni "primitive" sono, con pochissime eccezioni solo ciò che è rimasto di antiche civiltà altamente sviluppate; quello che sembrava essere uno stadio di superstizione universale e costante da cui si sarebbe sviluppato il pensiero, non è altro che il comune denominatore nel quale versano le civiltà in decadenza" [ibidem, pag. 15] Scheda bio-bibliografica di Giorgio de Santillana 1901-1974. Nato a Roma, abbandona l'Italia nel 1938 a causa delle leggi razziali. Si trasferisce negli Stati Uniti dove insegnò a lungo al MIT (Massachusetts Institute of Technology). [1946] Compendio di storia del pensiero scientifico; [1960] Processo a Galileo; [1961] Le origini del pensiero scientifico; [1968] Fato antico e Fato moderno; [1969] Il mulino di Amleto.

Appendice B Indice de Il mulino di Amleto Prefazione Introduzione 1. Il racconto del cronista 2. La figura in Finlandia 3. Il parallelo iranico 4. Storia, mito e realtà Intermezzo. Una guida per i perplessi. 5. Rivelazioni in India 6. La macina di Amlóði 7. Il coperchio variopinto 8. Sciamani e fabbri 9. Il Titano Amlóði e la sua trottola 10. Il crepuscolo degli dèi 11. Sansone sotto molti cieli 12. L'ultimo racconto di Socrate 13. Del tempo e dei fiumi 14. Il gorgo 15. Le acque sorgenti dal profondo 16. la pietra e l'albero 17. La struttura del cosmo 18. La Galassia 19. La caduta di Fetonte 20. Le profondità del mare 21. Il grande Pan è morto 22. L'avventura e la ricerca 23. Gilgameš e Prometeo Epilogo. Il tesoro perduto Conclusione


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Appendici Bibliografia Indice analitico

----Massimo Cardellini è nato a Binche, in Belgio, nel 1958. Dal 1969 vive a Foligno. E' sposato ed ha due figli. Si è laureato in Filosofia a Perugia. I suoi interessi sono prevalentemente rivolti alla storia in generale ed a quella alternativa in particolare, ma si interessa anche ai tipi di formalizzazione del pensiero. Queste tematiche lo inducono ad interessarsi tendenzialmente della letteratura e della storia di ogni tempo e di ogni cultura. a.abdiel@libero.it


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Quattro lettere di sir Isaac Newton al Dottor Bentley, contenenti alcuni argomenti sulla dimostrazione dell'esistenza di una Divinità (a cura di Alessandro Moretti) Le quattro lettere di Newton a Bentley Nel corso della storia spesso è successo che nuove teorie scientifiche, benché notevoli e degne di risalto, non ebbero molta diffusione negli ambienti culturali, o per lo meno non con la rapidità che il loro seguente successo farebbe presupporre. Alcune di esse ebbero impatto solo su un ristretto numero di specialisti, altre invece sono assurte a ruoli che esulano dalla loro effettiva area di azione per influenzare il pensiero di intere epoche. Quest'ultimo è il caso della filosofia Newtoniana. Alcuni anni dopo la sua nascita conobbe diffusione universale (che per l'epoca significava l'Europa) negli ambienti culturali non specialistici grazie alla paziente (e veemente) opera di divulgazione fatta da personaggi celeberrimi come Voltaire. Tale filosofia ebbe (come del resto altre prima e dopo) un notevole influsso sulla concezione del mondo. L'appoggio prestato da Voltaire fu fondamentale per la fama di Newton e del suo pensiero negli ambienti culturali, ove il suo nome non era ancora così famoso come in quelli specialistici. Fu così affascinato dalla nuova filosofia che volle scrivere un libro dove ne spiegava a grandi linee il contenuto. Voltaire però non fu il solo letterato che si cimentò con la filosofia naturale. Altri avevano percorso la stessa strada molti anni prima, nel tentativo di fare un uso non prettamente scientifico della nuova e rivoluzionaria filosofia. Richard Bentley nacque nel 1662 da famiglia benestante. Studiò al Trinity College di Cambridge, dove era famoso per la sua erudizione ma anche per il suo carattere provocatore e combattivo. Nel 1691 Robert Boyle, cristiano convinto, lasciò una disposizione testamentaria nella quale istituiva un premio da assegnare a chi avesse proposto una lettura in otto parti in favore dell'evidenza della cristianità. In quell'anno, come primo oratore, fu nominato appunto Richard Bentley, la cui fama era grandissima almeno in Inghilterra. Bentley volle dare un'impostazione del tutto nuova al suo lavoro, che prese il titolo di "Una Confutazione dell'Ateismo": aveva l'intenzione di suffragare il suo discorso con prove oggettive. Con questo obiettivo in mente si rivolse verso quello che considerava inconfutabile per eccellenza: il Creato. Pensò che i Principia, da poco pubblicati, facessero al caso suo, ma non possedeva gli strumenti necessari per comprenderne il contenuto. Scrisse quindi a John Craige e gli chiese quali libri avrebbe dovuto leggere per poterli comprendere. Questi rispose con un elenco di testi troppo lungo anche per una persona brillante come Bentley. Spaventato, ma deciso a portare a termine il suo disegno, scrisse a Newton stesso chiedendo aiuto. Questi rispose con un elenco più abbordabile. Gli consigliò poi di leggere soltanto le prime sei pagine del trattato per passare direttamente all'ultimo libro, dove si trovavano le prove che cercava. Naturalmente, il testo Newtoniano non era certo di facile lettura. Bentley, che di volta in volta aveva nuovi dubbi, continuò a scrivere a Newton chiedendo chiarimenti in merito a questioni più che altro filosofiche, volendo egli portare velocemente a termine il compito affidatogli


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senza perdersi in dettagli tecnici che non era in grado di padroneggiare. Queste lettere misero Bentley nella condizione di percepire il senso generale della teoria Newtoniana, anche se non aveva le competenze necessarie per comprendere appieno la portata di tale innovazione. Decise quindi, sulla base di queste sue nuove conoscenze, di rovesciare i canoni delle dissertazioni teologiche come si erano viste sin lì. Per la prima volta non ci si affidava più ad argomentazioni puramente speculative o alla presunta autorità degli antichi, come era costume nel medioevo, ma ci si basava su argomentazioni che tutti potevano (almeno in teoria) controllare. Dedicò le prime sei letture* all'esposizione delle ragioni della fede in una Divinità, ma lasciò per le ultime due l'esposizione delle argomentazioni ricavate dai suoi studi Newtoniani. Egli tentò di dimostrare, sulla base delle deduzioni riguardanti i corpi celesti, in particolar modo i pianeti, che il puro caso non poteva essere responsabile della creazione del mondo, e che era evidente l'intervento di una mente raziocinante. Nel fare questo per prima cosa criticò le teorie cartesiane dei vortici in quanto, implicando un agente di tipo meccanico, toglievano a Dio la necessità di intervenire nel regolare i moto celesti. In secondo luogo, vista l'attualità del vuoto, discusse quale potesse essere l'agente che faceva gravitare i corpi. Seguendo la raccomandazione di Newton, affermò che tale forza fosse la manifestazione dell'azione divina sul creato, e non una qualità inerente i corpi stessi, che richiamava alla mente le qualità occulte degli scolastici. In seguito basandosi sul perfetto ordine dell'universo, dedusse che questo doveva essere il frutto del progetto di una mente raziocinante, dotata di raffinate conoscenze matematiche. Questa mente non poteva che essere Dio stesso, il quale era intervenuto nella creazione del mondo fissando le leggi che regolano il moto dei corpi celesti, contribuendo poi fattivamente alla loro osservanza. Un tale approccio, oltre ad essere estremamente moderno, ebbe un influsso enorme nello svolgersi del dibattito filosofico di tutto il secolo seguente. Tutto quadrava, ogni cosa aveva la sua ragion d'essere ed era stata creata a quel modo perché così il creatore aveva ritenuto giusto. Ogni cosa nell'universo rifletteva una profonda precisione ed un accurato calcolo che non potevano essere frutto del caso. E questa parrebbe anche l'opinione di Newton, il quale in altri luoghi era poco incline a tale ipotesi. Ora, per essere precisi, dobbiamo dire che questo scritto si inserisce in un contesto della vita di Newton che lo vedeva impegnato sotto il profilo politico più che dal lato scientifico. Non ci è dato sapere perché Newton, così poco incline alle corrispondenze, abbia dedicato tempo ad un progetto al quale non era molto interessato. A quanto pare però anch'egli partecipò alla nomina di Bentley per questo incarico. Non si può escludere che tale lavoro fosse utile più dal punto di vista dei rapporti politici che sotto il profilo scientifico; tale valenza però è molto difficile, se non impossibile, da provare. Sta di fatto però che il successo delle letture fu enorme e il loro influsso si fece sentire per molto tempo. E' curioso notare però che, oltre tre secoli dopo, gli stessi argomenti, o meglio la stessa filosofia, che tanto elegantemente Bentley usò per dimostrare l'esistenza di Dio, fungono da base per il sostanziale ateismo della scienza moderna. Le quattro lettere proposte contengono la sostanza del discorso di Bentley, e quindi si possono considerare, oltre ad una piccola finestra sulla personalità di Newton, un prototipo della divulgazione che in seguito venne fatta della sua filosofia. * Gli otto testi in oggetto vennero effettivamente letti al pubblico dal pulpito di una chiesa da parte di Bentley in persona.


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Nota - Queste lettere, a quanto mi risulta, non sono mai state tradotte integralmente in italiano. Ne viene dato qualche brevissimo stralcio in Newton, di R. Westfall, Einaudi, Torino, 1989. I loro testi completi, pubblicati per la prima volta nel 1756, possono essere reperiti in lingua originale in: ISAAC NEWTON'S Papers and Letters On Natural Philosophy and Related Documents, a cura di I. B. Cohen, Harvard University Press, 1978, pagg. 279-312. Il testo presenta una ristampa anastatica di "Four Letters from Sir Isaac Newton to Richard Bentley, containing some arguments in proof of a Deity", stampate da R. e J. Dodsley, PallMall, Londra, 1761. Nello stesso libro si possono trovare anche le ultime tre letture di Bentley contro l'ateismo, quelle direttamente influenzate dalla corrispondenza con Newton.

----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 3 di Episteme] ----Lettera I Al reverendo Dr. Richard Bentley, al vescovado di Worchester in Parkstreet, Westminster. Signore, quando scrissi il mio Trattato sul nostro Sistema, tenevo in considerazione tali Principi per come potessero essere applicati considerando gli Uomini in qualità di Fedeli in una Divinità, e nulla può rallegrarmi più che il trovarli utili per tale proposito. Ma se in questo modo ho fatto qualche Servizio al Pubblico, non è dovuto ad altro che all'Industriosità e alla paziente Riflessione. Come nella vostra prima Questione, mi sembra che, se tutta la Materia del nostro Sole e dei Pianeti, e tutta la Materia dell'Universo, fosse uniformemente sparsa attraverso tutto il Firmamento, e ogni Particella avesse una innata Gravità verso tutto il resto, e l'intero Spazio attraverso il quale questa Materia fu diffusa era finito, la Materia al di fuori di questo Spazio dovrebbe, per la sua Gravità, tendere verso tutta la Materia all'interno, e per conseguenza cadere giù nel mezzo dell'intero Spazio, e là comporre una grande Massa sferica. Ma se la Materia fu uniformemente disposta attraverso uno Spazio infinito, potrebbe non convenire mai in una Massa, ma un po' potrebbe convenire in una Massa e un po' in un'altra, in modo da formare un Numero infinito di grandi Masse, diffuse a grandi Distanze una dall'altra in tutto questo Spazio infinito. E così potrebbero essersi formati il Sole e le Stelle fisse, supponendo che la materia fosse di Natura lucida. Ma come la Materia si divida in due specie, e che Parte di essa, che è adatta a comporre un Corpo splendente, precipiti in una Massa, e formi il Sole, ed il resto, che è adatta a comporre un Corpo opaco, si concentri non in un grande Corpo come la Materia splendente, ma in molti piccoli corpi, o se il Sole all'inizio fosse stato un Corpo opaco come i Pianeti, o i Pianeti Corpi lucidi come il Sole, come egli solo possa essersi cambiato in un Corpo splendente mentre tutti loro continuano ad essere opachi, o tutti loro siano cambiati in opachi, mentre egli rimase immutato, Io non lo credo esplicabile per mere Cause naturali, ma sono costretto ad ascriverlo all'Arbitrio ed al Progetto di un Agente volontario. La stessa Potenza, naturale o soprannaturale, che pose il Sole al Centro dei sei Pianeti primari, pose Saturno nel Centro degli Orbi dei suoi cinque Pianeti secondari, e Giove nel centro dei suoi quattro Pianeti secondari, e la Terra nel centro dell'Orbe della Luna; e perciò


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se questa causa fosse stata cieca, senza un Progetto o un Disegno, il Sole dovrebbe essere stato un Corpo dello stesso tipo di Saturno, Giove e la Terra, cioè senza Luce e Calore. Perché [per qual ragione] vi sia un Corpo nel nostro Sistema qualificato a dare Luce e Calore a tutto il resto non conosco Ragione, se non che l'Autore del Sistema lo ha pensato conveniente; e perché non ci sia che un Corpo di questo genere non conosco Ragione, se non che uno era sufficiente a riscaldare ed illuminare tutto il resto. Per quanto riguarda l'ipotesi Cartesiana dei Soli che perdono la loro Luce e poi diventano Comete, e da Comete Pianeti, non può trovare Posto nel mio Sistema, ed è palesemente erronea, poiché è certo che, tutte le volte che ci appaiono, esse discendono nel Sistema dei nostri Pianeti più in basso dell'Orbita di Giove, e qualche volta più in basso dell'Orbita di Venere e Mercurio, ed inoltre non rimangono mai qui ma se ne vanno sempre lontano dal Sole con lo stesso Grado di Moto con il quale si sono avvicinate. Alla vostra seconda Questione io rispondo, che il Moto che attualmente hanno i Pianeti non potrebbe essere scaturito solo da una qualche Causa naturale, ma fu impresso da un Agente intelligente. Poiché, dal fatto che le Comete discendono nella Regione dei nostri Pianeti, e qui si muovono in tutte le maniere, andando talvolta dalla stessa parte coi Pianeti, talvolta in modo contrario, e talvolta incrociandoli in Piani inclinati rispetto al Piano dell'Eclittica con tutti gli angoli, è chiaro che non c'è Causa naturale che possa fare in modo che tutti i Pianeti, sia primari che secondari, si muovano allo stesso modo e nello stesso Piano, senza alcuna Variazione considerabile: Questo deve essere stato l'Effetto dell'Arbitrio. Né c'è alcuna Causa naturale che possa dare ai Pianeti quegli esatti Gradi di Velocità in Proporzione alle loro Distanze dal Sole ed altri Corpi centrali, che fu indispensabile per fare in modo che essi si muovano in Orbite concentriche attorno a tali Corpi. Se i Pianeti fossero veloci come le Comete, in Proporzione alle loro distanze dal Sole (se lo fossero stati, il loro Moto sarebbe causato dalla Gravità, mentre la Materia, alla prima formazione dei Pianeti, poté cadere dalle più remote Regioni verso il Sole) non si muoverebbero in Orbite concentriche, ma in Orbite eccentriche come quelle delle Comete. Se tutti i Pianeti fossero veloci come Mercurio, o lenti come Saturno o come i suoi Satelliti, o diversamente se fossero le loro varie Velocità più o meno grandi di quello che sono se avessero avuto origine da una causa diversa che la loro Gravità, o fossero state le loro Distanze dal Centro attorno al quale si muovono più o meno grandi di quello che sono con le stesse Velocità, o fossero state più o meno grandi di quello che sono le Quantità di Materia nel Sole, o in Saturno, Giove e la Terra, e per conseguenza [anche] le loro Potenze gravitazionali, i Pianeti primari non potrebbero orbitare attorno al Sole, né i secondari attorno a Saturno, Giove e la Terra, in orbite concentriche come fanno, ma si sarebbero mossi in Iperbole, o Parabole, o in Ellissi molto eccentriche. Perciò fare questo Sistema, con tutti i suoi Moti, richiese una Causa che comprese e comparò assieme le Quantità di Materia nei diversi Corpi del Sole e dei Pianeti e le Potenze gravitazionali che da queste risultano, le diverse Distanze dei Pianeti primari dal Sole e dei secondari da Saturno, Giove e dalla Terra, e le Velocità con le quali questi Pianeti avrebbero orbitato attorno a queste Quantità di Materia nei Corpi centrali; e comparare ed aggiustare tutte queste Cose assieme in una tale Varietà di Corpi, ne fa arguire non essere tale Causa cieca e accidentale, ma molto ben edotta in Meccanica e Geometria. Alla vostra terza Questione rispondo, che può essere rappresentato che il Sole possa, riscaldando i Pianeti in maniera maggiore più gli sono vicini, causare il loro essere meglio miscelati e più condensati da tale Miscela. Ma quando io considero che la nostra Terra è molto più riscaldata nelle sue Viscere sotto la Crosta esterna da Fermentazioni sotterranee che dal Sole, non vedo perché le Parti interiori di Giove e Saturno non possano essere riscaldate, miscelate e coagulate da queste Fermentazioni come lo è la nostra Terra; e perciò questa varia Densità può avere altre cause che le varie Distanze dei Pianeti dal Sole. E sono confermato in questa Opinione dal considerare che i Pianeti di Giove e Saturno, così come essi sono più rari


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del resto, così sono vastamente più grandi, e contengono una molto maggiore Quantità di Materia, ed hanno molti Satelliti intorno a loro; le quali Qualificazioni sicuramente non sono sorte dal loro essere posti a così grande Distanza dal Sole, ma piuttosto fu la Causa del perché il Creatore le ha poste a così grande Distanza. Poiché per le loro Potenze Gravitazionali essi disturbano sensibilmente uno i Moti dell'altro, come ho trovato grazie a qualcuna delle ultime Osservazioni di Mr. Flamsteed, e se fossero stati posti molto più vicino al Sole ed uno all'altro, essi avrebbero causato, per la stessa Potenza, un considerevole Disturbo in tutto il Sistema. Alla vostra quarta Questione rispondo che, nella Ipotesi dei Vortici, l'Inclinazione dell'asse della Terra potrebbe, nella mia Opinione, essere ascritto alla Situazione del Vortice della Terra prima che fosse assorbito dai Vortici circostanti, e la Terra cambiata da un Sole ad una Cometa, ma questa inclinazione dovrebbe decrescere costantemente in Conformità col Moto del Vortice della Terra, il cui Asse è molto meno inclinato sull'Eclittica, come appare dal Moto della Luna che vi è portata dentro. [Anche] Se il Sole coi suoi Raggi possa trasportare in giro i Pianeti, ancora non vedo come possa in tal modo effettuare i loro Moti diurni. Infine, non vedo nulla di straordinario nell'Inclinazione del Asse Terrestre per provare [l'esistenza] di una Divinità, senza che Voi l'accampiate come espediente per l'Inverno e l'Estate, e per rendere la Terra abitabile tra i Poli; e che le Rotazioni diurne del Sole e dei Pianeti, [così] come difficilmente possono sorgere da una qualche Causa puramente meccanica, in modo da essere tutti determinati allo stesso modo con i Moti annuali e mensili, sembrano allestire tale Armonia nel Sistema che, come ho spiegato sopra, fu l'Effetto della Scelta piuttosto che del Caso. C'è ancora un Argomento a favore di una Divinità, il quale io considero sia di quelli forti, ma i Principi sui quali è fondato sono male accetti, [e] penso sia consigliabile lasciarlo quieto. Io sono il suo più umile Servitore, per obbedire Is. Newton. Cambridge 10 Dicembre 1692.

----Lettera II Per Mr. BENTLEY, al Palazzo a WORCHESTER. Signore, sono d'accordo con voi che se la Materia uniformemente diffusa attraverso uno Spazio finito, non sferico, cadesse in una Massa solida, questa Massa dovrebbe simulare la Figura dell'intero Spazio, purché [la materia] non sia stata soffice, come il vecchio Caos, ma così solida e dura fin dall'Inizio, che il Peso delle sue Parti protuberanti non potesse farla cedere alla loro Pressione. Inoltre, per i Terremoti, perdendo le Parti di questo Solido, le Protuberanze possono a volte penetrare un poco per il loro Peso, e perciò la Massa può, per Gradi, avvicinarsi ad una Figura sferica. La Ragione del perché la Materia uniformemente diffusa in uno Spazio finito dovrebbe convenire nel centro la concepite alla stessa mia maniera, ma che ci possa essere una Particella centrale, così accuratamente posta nel mezzo in modo da essere sempre egualmente attratta da tutti i lati, e perciò perseverare senza Moto, mi sembra una Supposizione altrettanto ardita che fare in modo che il più appuntito Ago stia in piedi sulla sua Punta sopra uno Specchio. Poiché se l'autentico Centro matematico della Particella centrale non è


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accuratamente nell'autentico Centro matematico della Potenza attrattiva dell'intera Massa, la Particella non sarà egualmente attratta da tutte le Parti. E molto più arduo è supporre che tutte le Particelle in uno Spazio infinito possano essere così accuratamente poste l'una rispetto all'altra da stare ancora in perfetto Equilibrio. Poiché io reputo questo altrettanto arduo che fare in modo che non solo un Ago, ma un numero infinito di loro (tanti quante sono le Particelle in uno Spazio infinito) stiano accuratamente posti sopra le loro Punte. Comunque lo riconosco possibile, almeno da una Potenza divina; e se fossero posizionate una volta per tutte, sono d'accordo con voi che esse continuerebbero in tale Postura senza Moto per sempre, se non sono messe in Moto dalla stessa Potenza. Perciò, quando dissi che la Materia uniformemente sparsa per tutto lo Spazio dovrebbe convenire per la sua Gravità in una o più grandi Masse, io intendevo di Materia che non riposa in una posizione accurata. Ma voi arguite nel paragrafo seguente della vostra Lettera, che ogni Particella di Materia in uno Spazio infinito ha una infinita Quantità di Materia da ogni lato, e per conseguenza una Attrazione infinita da ogni parte, e perciò deve restare in Equilibrio, poiché tutti gli Infiniti sono eguali. Ancora voi sospettate un Paralogismo in questo Argomento, ed io concepisco il Paralogismo giacere nella Posizione che tutti gli Infiniti sono eguali. La generalità del Genere Umano considera gli Infiniti non diversamente dagli indefiniti, ed in questo Senso dicono che tutti gli Infiniti sono eguali, anche se parlerebbero più propriamente se dicessero che essi non sono né eguali né ineguali, né hanno una certa Differenza o Proporzione uno all'altro. In questo Senso perciò nessuna Conclusione può da loro essere tratta sulle Eguaglianze, Proporzioni o Differenze delle Cose, e coloro che tentano di farlo, usualmente cadono in Paralogismo. Così [accade] quando gli Uomini argomentano contro l'infinita Divisibilità della Grandezza, dicendo che se un Pollice può essere diviso in un infinito Numero di Parti la Somma di queste Parti sarà un Pollice, e se un Piede può essere diviso in un Numero infinito di Parti la Somma di queste Parti deve essere un Piede, e perciò, dal fatto che tutti gli Infiniti sono eguali, queste Somme devono essere eguali, cioè, un Pollice è eguale ad un Piede. La Falsità della Conclusione mostra un Errore nelle Premesse, e l'Errore giace nella Posizione che tutti gli Infiniti sono eguali. C'è perciò un altro modo di considerare gli Infiniti usati dai Matematici, e cioè, sotto certe definite Restrizioni e Limitazioni per mezzo delle quali gli Infiniti sono determinati avere certe Differenze o Proporzioni uno all'altro. Così il dott. Wallis li considera nella sua Arithmetica Infinitorum, dove attraverso le varie Proporzioni di Somme infinite egli ha colto le varie Proporzioni tra Grandezze infinite: Il qual modo di argomentare è generalmente autorizzato dai Matematici, ed ancora non sarebbe buono nel caso tutti gli Infiniti fossero eguali. In accordo con la stessa maniera di considerare gli Infiniti un Matematico vi direbbe che, nonostante che ci sia un infinito Numero di piccole Parti in un Pollice, comunque c'è dodici volte il Numero di tali Parti in un Piede, cioè, l'infinito Numero di queste Parti in un Piede non è eguale, ma dodici Volte più grande, l'infinito Numero di essi in un Pollice. E così un Matematico vi dirà, che se un Corpo stesse in Equilibrio tra due Forze attrattive infinite qualsiasi eguali e contrarie, e se ad entrambe queste due Forze si aggiunge una qualche forza attrattiva, questa nuova Forza, per quanto piccola sia, distruggerà il loro Equilibrio, e porrà il Corpo nello stesso Moto in cui lo metterebbe se queste due Forze contrarie fossero finite, o se non ci fossero; così che in questo Caso i due Infiniti, per Addizione di un Finito ad entrambi, diventano ineguali nel nostro modo di Ragionare; e dopo queste cose dobbiamo meditare, se dalla Considerazione degli Infiniti noi potessimo sempre tracciare Conclusioni vere. All'ultima Parte della vostra Lettera Io rispondo, Prima, che se la Terra (senza la Luna) fosse posta da qualunque parte col suo Centro nell'Orbis Magnus, e stesse ancora là senza alcuna Gravitazione o Proiezione, e là le fosse infusa, tutto in una volta, sia Energia gravitazionale verso il Sole sia un Impulso trasversale della giusta Quantità per muoverla direttamente per


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una Tangente all'Orbis Magnus, la Composizione di questa Attrazione e di questa Proiezione potrebbe, in accordo alla mia Nozione, causare una Rivoluzione circolare della Terra attorno al Sole. Ma l'Impulso trasversale deve essere della giusta Quantità, poiché, se fosse troppo piccolo o troppo grande, farebbe in modo che la Terra muova in qualche altra Linea. In secodo luogo non conosco alcuna Potenza in Natura che possa causare questo Moto trasversale senza il Braccio divino. Blondell ci dice in qualche parte del suo Libro sulle Bombe, che Platone afferma che il Moto dei Pianeti è tale come se tutti loro fossero stati creati da Dio in qualche Regione molto remota dal nostro Sistema, e che quindi siano stati fatti cadere da lì verso il Sole, e nel momento in cui arrivarono alle loro diverse Orbite, il loro Moto di caduta venne cambiato in un moto trasversale. E questo è vero supponendo che la Potenza gravitazionale del Sole fosse doppia a quel Momento di Tempo nel quale tutti loro arrivarono nelle loro diverse Orbite; ma allora la Potenza divina è qui richiesta in modo duplice, ovvero, cambiare il Moto di discesa dei Pianeti in caduta in un Moto laterale, ed allo stesso tempo duplicare la potenza attrattiva del Sole. Così allora la Gravità può porre i Pianeti in Moto, ma senza la Potenza divina non potrebbe mai metterli in un tale Moto di circolazione come essi hanno intorno al Sole; e perciò, per questo, così come per altre Ragioni, sono costretto ad ascrivere la Struttura di questo Sistema ad un Agente intelligente. Voi qualche volta parlate della Gravità come essenziale ed inerente alla Materia. [Vi] Prego di non ascrivere tale Nozione a me, poiché la Causa della Gravità è ciò che non fingo di sapere, e perciò dovrei impiegare più Tempo per meditarvi su. Temo che quello che ho detto degli Infiniti vi sembrerà oscuro, ma è abbastanza se comprendete che gli Infiniti, quando considerati assolutamente senza alcuna Restrizione o Limitazione, non sono né eguali né diseguali, né hanno una certa proporzione uno all'altro, e perciò il Principio che tutti gli Infiniti sono eguali, è precario. Sir, Io sono il vostro più umile Servitore. Trinity College Jan. 17, 1692-93 Is. Newton

----Lettera III Per Mr. Bentley, al Palazzo di Worcester. Signore, poiché voi desiderate la Velocità risponderò alla vostra Lettera il più Celermente possibile. Nelle sei Posizioni che voi fate all'inizio della vostra Lettera, Sono d'accordo con voi. La vostra assunzione che l'Orbis Magnus sia ampio 7000 Diametri della Terra implica la Parallasse orizzontale del Sole essere mezzo Minuto [di grado]. Flamsteed e Cassini l'hanno ultimamente osservata essere attorno a 10'', e così l'Orbis Magnus deve essere ampio 21000, o un Numero attorno a 20000, Diametri della Terra. Entrambi i Calcoli io penso risulteranno buoni, ed io penso non sia necessario alterare i vostri Numeri. Nella Parte seguente della vostra Lettera voi ponete quattro altre Posizioni, fondate sulle prime sei. La prima di queste quattro appare alquanto evidente, supponendo voi prendiate l'Attrazione in modo così generale da comprendere ogni Forza per mezzo della quale Corpi distanti si sforzano di divenire assieme senza Impulso meccanico. La seconda non appare così


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chiara, poiché potrebbe essere detto, che potrebbero esserci stati altri Sistemi di Mondi prima dei presenti, ed altri prima di questi, e così via per tutta la passata Eternità, e per conseguenza, che la Gravità può essere co-eterna alla Materia, ed avere lo stesso Effetto da tutta l'Eternità come al presente, senza che voi abbiate provato che i vecchi Sistemi non possono gradualmente passare a nuovi; o che questo Sistema non ha la sua Origine dalla Materia esalata dai decadimenti dei precedenti Sistemi, ma dal Caos di Materia uniformemente dispersa attraverso tutto lo Spazio, poiché qualcosa di questo Tipo, Io penso, voi dite sia il Soggetto del vostro sesto Sermone; e la Crescita di nuovi Sistemi dai vecchi senza la Mediazione di una Potenza divina, mi sembra apparentemente assurda. L'ultima Proposizione della seconda Posizione mi piace molto. E' inconcepibile che la bruta Materia inanimata possa, senza la Mediazione di qualcos'altro che non è materiale, operare su, ed influenzare, altra Materia senza mutuo Contatto, come deve essere se la Gravitazione nel senso di Epicuro, fosse essenziale ed inerente in lei. E questa è una Ragione del perché Io desidero che voi non ascriviate la Gravità innata a me. Che la Gravità debba essere innata, inerente ed essenziale alla Materia, così che un Corpo possa agire sopra un altro a Distanza attraverso il Vuoto, senza la Mediazione di niente altro per, e attraverso il quale, la loro Azione e Forza possa essere convogliata da uno all'altro, è per me una tale Assurdità, che io credo che nessun Uomo che abbia una competente Facoltà di pensare in Materie Filosofiche, possa mai cadere in essa. La Gravità deve essere causata da una Agente che agisce costantemente in accordo a certe Leggi, ma che questo Agente sia materiale o immateriale, l'ho lasciato alla Considerazione del mio Lettore. La vostra quarta Asserzione, che il Mondo non possa essere formato da Gravità innata solamente, voi lo confermate con tre Argomenti. Ma nel vostro primo Argomento voi sembrate fare una Petitio Principii, poiché, mentre molti Filosofi antichi, ed altri, come i Teisti e gli Atei, hanno tutti ritenuto ammissibile che ci potessero essere Mondi ed Agglomerati di Materia innumerabile o infinita, voi negate questo, rappresentandolo tanto assurdo quanto il fatto che possa positivamente esistere una Somma aritmetica o Numero infiniti, che è una contraddizione in Terminis, ma voi non lo provate assurdo. Né voi provate, che quello che gli Uomini intendono con Somma o Numero infinito è una Contraddizione in Natura, poiché una Contraddizione in Terminis implica niente più che Improprietà di Discorso. Queste cose che gli Uomini intendono per Espressioni improprie e contraddittorie, possono talvolta esistere realmente in Natura senza alcuna Contraddizione: un Calamaio d'Argento, una Pietra Smerigliatrice di Ferro, sono Frasi assurde benché le Cose significate con ciò sono reali in Natura. Se ogni Uomo può dire che un Numero ed una Somma, per parlare propriamente, sono ciò che può essere numerato e sommato, ma le Cose infinite sono senza numero, o, come diciamo usualmente, innumerabili e senza somma, o insommabili, e perciò non dovrebbero essere chiamate Numeri o Somme, egli parlerà sufficientemente propriamente, ed il vostro argomento contro di esso avrà, Io temo, perso la sua Forza. Ed ancora, se qualche Uomo prendesse le Parole Numero e Somma in un Senso più largo, così da capire con quelle le Cose che nel modo proprio di parlare sono senza numero e senza somma (come voi sembrate fare quando ammettete un Numero infinito di Punti in una Linea) Io potrei prontamente autorizzarlo all'Uso delle Frasi contraddittorie di Numero innumerabile, o Somma senza somma, senza inferire da questo alcuna Assurdità nella Cosa che intende con queste Frasi. Comunque, se per questo, o qualsiasi altro Argomento, voi avete provato la Finitezza dell'Universo, ne segue, che tutta la Materia dovrebbe cadere dall'Esterno, e convenire nel Mezzo. Ancora, la Materia in caduta potrebbe solidificarsi in molte Masse rotonde, come i Corpi dei Pianeti, e questi, attraendosi l'un l'altro, potrebbero acquisire una Obliquità di Discesa, per mezzo della quale essi potrebbero cadere non sopra il grande Corpo centrale, ma sul suo Fianco, e descrivere un Arco attorno [ad esso], e quindi ascendere di nuovo per gli stessi Passi e Gradi di Moto e Velocità con i quali essi sono discesi prima, in Modo molto


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simile alle Comete che revolvono attorno a Sole; ma essi non potrebbero mai acquisire un Moto circolare attorno al Sole in Orbite concentriche solo per mezzo della Gravità. E benché tutta la Materia fosse divisa all'inizio in diversi Sistemi, ed ogni Sistema, per una Potenza divina, costituito come il nostro, ancora dovrebbero i Sistemi Esterni discendere verso il più Centrale, così che questo Sistema di Cose non possa sempre sussistere senza una Potenza Divina per conservarlo, che è il secondo Argomento, e alla vostra terza Io assento pienamente. Come per il Passaggio di Platone, non c'è Posto comune dal quale tutti i Pianeti essendo lasciati cadere, e discendendo con Gravità uniforme ed eguale (come Galileo suppone) dovrebbero, al loro Arrivo nelle loro diverse Orbite, acquisire le loro diverse Velocità con le quali essi ora revolvono in esse. Se supponiamo la Gravità di tutti i Pianeti verso il Sole essere della Quantità che realmente è, e che i Moti dei Pianeti siano cambiati verso l'alto, ogni Pianeta ascenderà a due volte la sua Altezza dal Sole. Saturno ascenderà finché sarà due volte così alto dal Sole di quello che è al presente e non più alto, Giove ascenderà di nuovo così alto come al presente, cioè, un poco sopra l'Orbe di Saturno, Mercurio ascenderà a due volte la sua Altezza presente, cioè, fino all'Orbe di Venere, e così via del resto; e poi, cadendo giù di nuovo dai Luoghi ai quali erano ascesi, arriveranno di nuovo alle loro diverse Orbite con le stesse Velocità che avevano in principio, e con le quali ora revolvono. Ma se nello stesso momento nel quale i Moti con i quali essi revolvono sono cambiati verso l'alto, la Potenza gravitazionale del Sole per la quale essi Ascendono è perpetuamente ritardata, essendo diminuita di una metà, essi ora ascenderanno perpetuamente, e tutti loro, a tutte le eguali Distanze dal Sole, saranno egualmente veloci. Mercurio, quando arriva all'Orbita di Venere, sarà veloce come Venere; e lui e Venere, quando arrivano all'Orbita della Terra, saranno veloci come la Terra, e così via per il resto. Se essi cominciano ad ascendere tutti in una volta, ed ascendere nella stessa Linea, essi diventeranno costantemente, nell'ascendere, sempre più vicini tra loro, ed i loro Moti s'approcceranno costantemente all'Eguaglianza, e diventeranno alla lunga più lenti di ogni assegnabile Moto. Supponiamo perciò che essi ascesero finché furono abbastanza contigui, ed i loro Moti inconsiderabilmente piccoli, e tutti i loro Moti fossero allo stesso Momento di Tempo cambiati indietro di nuovo, o, il che diventa quasi la stessa Cosa, che essi fossero solo deprivati dei loro Moti, e a quel Tempo lasciati cadere: essi dovettero tutto in uno arrivare alle loro diverse Orbite, ciascuno con la Velocità che avevano all'inizio; e se i loro Moti fossero allora cambiati Lateralmente, ed allo stesso Tempo la Potenza di gravitare del Sole raddoppiata, in modo da essere forte abbastanza a trattenerli nelle loro Orbite, essi dovrebbero revolvere in esse prima della loro Ascesa. Ma se la Potenza di gravitare del Sole non fosse raddoppiata, essi andrebbero via dalle loro Orbite nei Cieli più alti in Linee paraboliche. Queste Cose seguono dai miei Principia math. Lib. I Prop. 33, 34, 36, 37. Vi ringrazio molto calorosamente per il vostro Regalo presente, e per il resto Il vostro più umile servitore, per servirla Is. Newton Cambridge Feb. 25 1692-93.

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Lettera IV A Mr. Bentley , al Palazzo a Worchester. Signore, l'Ipotesi di derivare la Struttura del Mondo dalla Materia uniformemente sparsa attraverso i Cieli con Principi meccanici, essendo inconsistente col mio Sistema, l'ho considerato molto poco prima che la vostra lettera mi ci mettesse sopra, e perciò vi tormento con una Linea o due in più attorno a ciò, se questo non viene troppo tardi per il vostro Uso. Nella mia precedente [lettera] ho rappresentato che Le Rotazioni diurne dei Pianeti potrebbero non essere derivate dalla Gravità, ma avere richiesto il Braccio divino ad imprimerle. E benché la Gravità potrebbe dare ai Pianeti un Movimento di Discesa verso il Sole, sia direttamente sia con qualche piccola Obliquità, ancora il Moto trasverso attraverso il quale essi revolvono nelle loro diverse Orbite, richiede il Braccio divino ad imprimerlo loro in accordo alla Tangente alle loro Orbite. Io vorrei ora aggiungere, che la Ipotesi che la Materia fosse all'inizio uniformemente sparsa attraverso i Cieli è, nella mia Opinione, inconsistente con la Ipotesi della Gravità innata, senza una Potenza soprannaturale a riconciliarle, e perciò inferisce una Divinità. Poiché, se ci fosse una Gravità innata, sarebbe impossibile ora per la Materia della Terra e di tutti i Pianeti e le Stelle volare via da essi, e [ri]diventare uniformemente sparsa attraverso tutti i Cieli senza una Potenza soprannaturale; e certamente ciò che non è successo prima senza una Potenza supernaturale non potrà mai avvenire in futuro senza la stessa Potenza. Voi avete richiesto se la Materia uniformemente sparsa attraverso uno Spazio finito, di qualche altra Figura che quella sferica non dovrebbe, nel cadere verso un Corpo centrale, fare in modo che tale Corpo centrale sia della stessa Figura dell'intero Spazio, e io ho risposto 'Sì'. Ma nella mia Risposta è da supporre che la Materia discenda direttamente in basso verso tale Corpo, e che tale Corpo non abbia Rotazione diurna. Questo Signore, è tutto quello che avevo da aggiungere alle mie Lettere precedenti. Il vostro più umile Servitore Is. Newton Cambridge Feb. 11 1693.


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Il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto L'ultimo oltraggio di un monaco gnostico? (Sabato Scala) Introduzione Col presente lavoro volevo sottoporre al paziente lettore una serie di riflessioni suggeritemi da un interessante quadernetto, gentile omaggio dell'amico Francesco Corona*, dedicato ad uno dei più misteriosi monumenti del nostro patrimonio storico-artistico: il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto (vedi figure nell'ultima pagina). L'opera fu realizzata tra 1163 ed il 1165 da un monaco dell'Abbazia di S. Nicola di Casole in Otranto: Pantaleone, il cui nome appare nella parte inferiore del mosaico in corrispondenza dell'entrata principale della cattedrale. Le immagini riportate danno solo una vaga idea della grandiosità di quest'opera, che si estende per oltre 16 metri coprendo interamente il pavimento della cattedrale. L'immagine centrale attorno cui ruota l'opera è un maestoso albero che, partendo dalla porta situata nella parte inferiore del mosaico, giunge quasi fin sotto al presbiterio. Fino ad oggi si pensava, che questo simbolo inusuale per dimensioni e centralità nell'opera, rappresentasse l'Albero della Vita, ma decifrare il mosaico è stato, da sempre, un intricato enigma privo di soluzioni credibili. Quella che voglio proporre è, credo, una chiave di lettura che collega insieme in maniera limpida le principali ed enigmatiche rappresentazioni figurative contenute nell'opera.

Una panoramica Il primo dilemma che ci si trova di fronte è dovuto alla totale assenza di riferimenti neotestamentari, e la cosa è, a dir poco, inusuale per una chiesa cristiana. Le raffigurazioni sono, per lo più, tratte dall'antico testamento, ma svariati simboli e immagini appaiono, ad una prima analisi superficiale, totalmente fuori contesto: vediamone qualche esempio. Il presbiterio, ove è rappresentata, appunto, la cacciata dal paradiso terrestre di Adamo ed Eva, ospita la prima presenza inspiegabile: re Artù, raffigurato in groppa ad un caprone mentre impugna uno scettro stranamente curvo. Che si tratti di Re Artù non v'è dubbio data la presenza di una dicitura in bell'evidenza.

Sulla punta dell'albero, collocata proprio sotto la cupola della chiesa, e quindi al centro tra le navate laterali subito sotto il presbiterio, è avvolto il serpente simbolo del demonio posto tra le figure di Adamo ed Eva. Inutile dire che la collocazione appare, quantomeno, provocatoria. Scendendo in basso si incontra la raffigurazione dei dodici mesi dell'anno e ancora più sotto troviamo una vasta rappresentazione del diluvio universale. La scena va letta da sinistra a destra e mostra l'ordine impartito da Dio a Mosè, raffigurato dalla mano di Dio, fino alla costruzione dell'Arca, ed alla salita degli animali sulla imbarcazione.


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In questa sommaria analisi delle rappresentazioni musive, stiamo seguendo un percorso di lettura inverso a quello che si sarebbe portati ad utilizzare. Partiamo infatti dal presbiterio e muoviamoci verso la porta della cattedrale (come avremo occasione di mostrare, e come è stato osservato nel volumetto citato, il mosaico va letto proprio in questo modo): ci imbattiamo subito nell'episodio della costruzione della Torre di Babele. La dimensione dell'immagine e la sua posizione in chiara evidenza, ci spingono a credere che Pantaleone abbia voluto attribuire ad essa un particolare significato che va oltre quello puramente narrativo. A rendere ancora più intricata la decifrazione della simbologia, interviene uno stranissimo leone dotato di quattro corpi connessi ad un'unica testa. In posizione simmetrica troviamo un'altra inspiegabile presenza che ci segnala, se ancora ve ne fosse stato bisogno, che la chiave di lettura del mosaico non è né quella veterotestamentaria, né quella cronologica: Alessandro Magno.


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Il mosaico e la cabala La prima prospettiva interpretativa dell'opera del monaco Pantaleone è quella cabalistica. La corrispondenza posizionale tra raffigurazioni principali del mosaico e le Sefirot della Cabala non lascia dubbi sulla volontà del monaco, di segnalare questa interpretazione come canale privilegiato d'interpretazione. Vediamo in dettaglio la sequenza dei paralleli. Partiamo dai simboli cabalistici espliciti. La contrapposizione che troviamo nella parte inferiore del mosaico tra il leone con quattro corpi ed Alessandro Magno ha un omologo evidente nelle Sefirot inferiori: lo Splendore (il leone con volto solare) e la Vittoria (l'invincibile Alessandro Magno). Di pari evidenza è il parallelo tra le Sefirot centrali della cabala e la parte centrale del mosaico. Il Rigore (Severità) è rappresentata dalla punizione divina e dall'ordine dato a Mosè da Dio (la mano che appare a sinistra). La Pietà, invece, contrapposta al Rigore, è indicata attraverso la raffigurazione dell'Arca. Nella parte superiore del mosaico, l'Intelligenza è raffigurata con l'albero della vita e quello del bene e del male, di fronte a cui si pone la scelta di Adamo. Il suo desiderio di conoscenza razionale lo porta alla scelta sbagliata: quella semplicistica e quindi alla scelta dell'albero del bene e del male anziché di quello della vita.


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Su questo particolare aspetto torneremo approfonditamente in seguito. All'intelligenza è contrapposta la Saggezza (Intuizione), che viene raffigurata con Re Artù ed il gatto con gli stivali. Infine la Corona raffigurata con la cosmogenesi nella parte superiore del mosaico, rappresenta il mistero, l'illuminazione ed il massimo livello di conoscenza.

I due alberi La Cabala è tradizionalmente indicata anche con il termine Albero della Vita. Essa, ben lontana dai tradizionali pregiudizi che ne danno un'interpretazione puramente magica, rappresenta, in realtà, la chiave di lettura unica degli episodi biblici e rivela il progetto di redenzione e di amore di Dio verso l'uomo. La cabala sintetizza il percorso sapienziale che l'uomo deve compiere per giungere a Dio. Essa ha un legame stretto con gli alberi del paradiso raffigurati nell'opera musiva. Privata, come appare nel mosaico, delle Sefirot connesse al ramo centrale, sostituito dal grande albero, rappresenta l'albero del bene e del male. Le Sefirot laterali, non mediate dalle due Sefirot della Consapevolezza e della Meditazione (la Bellezza e la Conoscenza), diviene strumento di perdizione, di eterna scissione e eterna oscillazione tra il bene ed il male. Pantaleone ci vuole suggerire in maniera esplicita questo significato, raffigurando entrambi gli alberi nel paradiso e la scelta di Adamo che privilegia quello privo di tronco, l'albero del bene e del male, aprendo così il corso alla storia ed alla schiavitù dello spazio-tempo raffigurato con i dodici mesi.

Le 5 dimensioni Il significato ora esposto è solo introduttivo. Pantaleone espone, in questo modo, il problema stesso della vita, ma vedremo come, a questo problema, il monaco propone una soluzione originale e descritta in dettaglio nell'opera musiva. Prima di tutto va osservato che, un'altra delle possibili interpretazioni della cabala, è quella multidimensionale. In sintesi la cabala rappresenta una struttura multidimensionale, che alle dimensioni note all'uomo: la coppia spazio-tempo, aggiunge la dimensione della consapevolezza raffigurata dal ramo centrale. Lo spazio-tempo nasce, nell'interpretazione cabalistica, dalla contrapposizione tra le colonne laterali della cabala private del tronco (la Consapevolezza). La scelta di Adamo vincolò l'uomo alla schiavitù dello spazio-tempo, rappresentato, per questo motivo, subito sotto la cacciata dal paradiso con i dodici mesi (il tempo), e le attività dell'uomo per ciascuno di essi (lo spazio). Fin qui ci muoviamo ancora nell'ambito della descrizione del problema, ma siamo lontani dalla soluzione che Pantaleone propone.

L'immagine del frate Corona fa notare, che il monaco Pantaleone s'è rappresentato tra i dodici anelli che si trovano sotto il presbiterio (secondo a destra a partire dall'alto).

Il frate guarda un unicorno e si è collocato in un cerchio sulla cui corona sono rappresentati una serie di piccoli cerchi: tra essi, però, ne manca uno. Il cerchio mancante sembra essere quello che il monaco ha collocato all'interno della stella a 5 punte che sovrasta il cavallo.


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L'autore del volumetto citato pensa che Pantaleone stia guardando il simbolo della conoscenza (l'unicorno) e che abbia identificato il suo livello spirituale (nella scala tipica della conoscenza indiana) segnalandolo con l'anello mancante posto, appunto, nella stella .Forse Corona ha colto solo uno degli aspetti del mosaico avvicinandosi ad una verità che va ben oltre.

La chiave gnostica In un brano tratto dal Bestiario Divino (testo del tredicesimo secolo) l'unicorno viene associato al Vangelo di Verità, un documento gnostico Valentiniano sconosciuto fino al 1945 e ritrovato, insieme ad altri 3 sconosciuti Vangeli: il Vangelo di Filippo, il Vangelo di Tommaso e quello di Maria, a Nag Hammadi. Nel Bestiario Divino si legge: "L'unicorno possiede un sol corno nel mezzo della fronte. Esso è il solo animale che può vincere l'attacco dell'elefante; … L'unicorno rappresenta Gesù Cristo. Che acquista su di sé la sua natura nel grembo della vergine, che fu tradito dai giudei e consegnato nella mani di Ponzio Pilato. Il suo unico corno simboleggia il Vangelo di Verità…" (Le Bestiaire Divin, di Guillaume, Clerc de Normandie [13th century]). E' possibile che questo sia il senso dell'autoritratto di Pantaleone? La data di stesura presunta del Bestiario Divino è certamente, compatibile con quella di composizione del mosaico. E' possibile che i testi gnostici di Nag Hammadi fossero patrimonio anche della biblioteca dell'Abbazia di Casole?

Il Vangelo di Filippo ed il senso dell'albero nel pensiero gnostico Alcuni brani tratti dalla sensazionale scoperta di Nag Hammadi sembrano mirabilmente vicini ai simboli utilizzati da Pantaleone e, probabilmente, offrono quella soluzione al problema della vita, che abbiamo delineato in precedenza. Nel Vangelo di Filippo si legge infatti: "Giuseppe il falegname ha piantato un giardino, perché aveva bisogno di legna per il suo mestiere. E' lui che ha costruito la Croce con gli alberi che ha piantato. Il suo seme è stato Gesù, la Croce la sua pianta" (ver.91). La croce è, quindi, l'albero su cui è morto Gesù, che è anche strumento di conoscenza e simbolo della conoscenza stessa. A riprova, sempre nello stesso testo si legge: "Ci sono due alberi in mezzo al Paradiso: uno produce animali, l'altro produce uomini. Adamo ha mangiato dell'albero che produce animali ed è diventato animale ed ha generato animali. Per questo i figli di Adamo venerano dèi che hanno forma di animali. L'albero di cui Adamo ha mangiato i frutti è l'albero della conoscenza. Per questo i peccati sono divenuti numerosi. Se egli avesse mangiato dell'altro albero, i frutti dell'albero della vita, che produce uomini, gli dèi venererebbero l'uomo. Ma l'albero della vita è in mezzo al Paradiso, e anche l'ulivo, da cui viene il crisma, grazie al quale la resurrezione" (ver.92). C'è in questo testo un interessantissimo filo che connette: • • • • •

la cabala e quindi l'albero della vita da esso rappresentato; l'albero del bene e del male (la cabala priva dell'asse centrale o tronco); l'albero piantato da Giuseppe (metafora che identifica, tra l'altro, in Giuseppe il padre naturale di Gesù e non solo adottivo); la Croce di Gesù ed il legno con cui fu costruita; la funzione redentiva della resurrezione;


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il bestiario che pervade il mosaico riempito dalle bestie (gli uomini) generate dall'errore di Adamo: la scelta dall'albero del Bene e del Male e non di quello della conoscenza.

Il ponte tra questi elementi è presente solo nel Vangelo di Filippo ed in parte introdotto nei principi generali del Vangelo di Verità. In quest'ottica non meraviglia affatto che il monaco si sia posto di fronte al simbolo di Gesù (l'Unicorno) ed al Vangelo di Verità, il corno che ha sulla fronte. Può essere questa la chiave interpretativa e la soluzione indicata dal monaco alla schiavitù indotta dall'errore di Adamo? Che questa sia la soluzione al dilemma che Pantaleone si pone nel mosaico è chiaramente indicato sempre dal Vangelo di Filippo, in cui si legge: "Dio ha piantato un Paradiso. L'uomo viveva nel Paradiso. C'era unità e non c'era separazione [...] Beati gli uomini che in esso non desidereranno più separarsi. Questo Paradiso è il luogo in cui mi sarà detto: "Mangia di questo o non mangiare di questo, secondo il tuo desiderio". E' il luogo dove io mangerò di tutto, poiché là c'è l'albero della conoscenza. Lì esso ha ucciso Adamo, qui invece l'albero della conoscenza ha dato la vita all'uomo. La Legge era l'albero. Esso aveva il potere di dare la conoscenza del bene e del male. Ma esso né lo allontanava dal male, né lo stabiliva nel bene, ma ha creato la morte per quelli che ne hanno mangiato. Perché quando ha detto: "Mangia di questo, non mangiare di quello," è stata l'origine della sua morte" (ver.94). Interessantissima tale visione, che è sbalorditivamente simile a quella che ritroviamo negli scritti dell'apostolo Paolo e che ci spinge a chiederci se sia il pensiero gnostico ad attingere da tali opere o se tale pensiero non preceda quello dell'apostolo, configurandosi come una delle tre anime del cristianesimo primitivo: gnostica, paolina, giudeo-cristiana, ma il discorso ci porterebbe lontanissimo. La separazione del bene dal male e dell'uomo in se stesso, che pervade gli scritti gnostici della biblioteca di Nag Hammadi, è il male denunciato dalla gnosi, che ha, nella Conoscenza ottenuta grazie a Gesù ed alla ricerca personale di Dio e dei misteri del Regno, la sua soluzione. Se questa è la soluzione proposta da Pantaleone, essa può davvero essere letta nel Mosaico?

L'albero al centro della Chiesa Sempre nel Vangelo di Filippo si legge: "Quando Abramo si rallegrò di vedere ciò che stava per vedere, circoncise la carne del suo prepuzio, mostrandoci come sia necessario distruggere la carne e il resto di questo mondo. Finché le loro passioni sono nascoste, rimangono e sono vive; se vengono manifestate, muoiono, secondo l'esempio dell'uomo che è manifesto: finché le viscere dell'uomo sono nascoste, l'uomo vive; se le viscere appaiono e vengono fuori di lui, l'uomo morirà. Così pure è l'albero: finché la sua radice è nascosta, esso fiorisce e cresce; se la radice appare, l'albero secca. Così è per ogni prodotto che è nel mondo, non soltanto per quello che è manifesto, ma anche per quello che è nascosto. Infatti, fintanto che la radice dell'errore è nascosta, esso è forte, ma quando è riconosciuta, esso si dissolve. Questo è il motivo per cui il Logos ha detto: "Già la scure è posta alla radice degli alberi". Essa non sfronderà soltanto "ciò che è sfrondato germoglia di nuovo" ma la scure taglia profondamente finché svelle la radice. E Gesù ha divelto la radice di tutto il luogo; gli altri invece solo in parte. Quanto a noi, ciascuno scavi profondamente fino alla radice dell'errore, che è dentro di lui e lo divelga dal suo cuore fino alla radice. Ed esso invero sarà divelto, quando noi lo riconosceremo. Che se noi siamo ignoranti a suo riguardo, esso affonda in noi le radici e produce i suoi frutti nei nostri cuori. Esso domina su di noi, e noi siamo suoi schiavi. Ci tiene prigionieri, cosicché


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noi facciamo ciò che non vogliamo, e ciò che vogliamo non lo facciamo. Esso è potente perché noi non lo conosciamo, e finche esiste, esso lavora. L'ignoranza è per noi la madre dell'errore. L'ignoranza è al servizio della morte: ciò che viene dall'ignoranza né è esistito, ne esiste, ne esisterà. Invece coloro che sono nella verità saranno perfetti quando tutta la verità si manifesterà. Perché la verità è come l'ignoranza: quand'è nascosta, riposa in se stessa, ma quando si rivela ed è riconosciuta, viene glorificata, in quanto è più potente dell'ignoranza e dell'errore. Essa dà la libertà. Il Logos ha detto: "Se voi conoscerete la verità, la verità vi farà liberi". L'ignoranza è uno schiavo, la conoscenza è libertà. Se noi riconosceremo la verità, troveremo i frutti della verità in noi stessi. Se ci uniremo con essa, essa produrrà il nostro perfezionamento" (ver.123). La conoscenza gnostica è un albero tagliato alla radice e Gesù ha tagliato le radici dell'albero dandoci la libertà che è nella conoscenza dell'errore. Abbiamo seguito il percorso che dalla cima dell'albero posta sotto il presbiterio, intorno a cui è avvolto il serpente, porta verso la porta della cattedrale, vediamo ora la radice dell'albero raffigurata di seguito:

Si notino i due elefanti che sorreggono l'albero e soprattutto il fatto che l'albero è, in realtà, privo di radice. L'elefante è notoriamente, simbolo della sapienza ed i due elefanti che sorreggono l'albero sono contrassegnati da un cerchio vuoto ed uno contenente un cerchio pieno. Il cerchio rappresenta il serpente e quindi il male e l'altro la pienezza e quindi il bene. Le figure che suonano intorno ai due elefanti sono chiaramente simbolo dell'armonia raggiunta percorrendo l'albero dal presbiterio verso la porta, e non a caso è in questo punto che Pantaleone appone il suo nome. Ma ha un senso il fatto che il nome appaia anche oltre la soglia della porta, all'esterno della Chiesa?

L'eresia del monaco Pantaleone Abbiamo visto come il percorso dal presbiterio verso la porta della chiesa sia da un lato il problema dell'uomo (la lettura destra e sinistra del mosaico) dall'altro riveli anche la soluzione: il grande albero al centro che è il percorso della conoscenza (Gnosi) Quindi al termine della conoscenza si giunge alla soglia dell'uscita dalla Chiesa Ufficiale. Si arriva alla mediazione equilibrata della conoscenza del bene e del male e quindi alla giusta comprensione armonica degli opposti. Si giunge a quello che nella Cabala è chiamato Regno, che è proprio quello che Gesù segnalava come mèta ai sui discepoli e che è il cuore ed il senso stesso della conoscenza che Gesù declama nel Vangelo di Tommaso. A questo punto si è già fuori la Chiesa (la porta) il luogo dove Pantaleone appone la sua firma e l'anno di costruzione del mosaico.


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Ma perché, allora, partire da Artù? Artù non può che richiamare la leggendaria ricerca del Santo Graal, che è, nel mosaico, la conoscenza, la gnosi e quindi il Logos. Re Artù parte alla ricerca della Conoscenza, lì dove è la radice del male: nella violazione di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre. Il Graal è l'altro simbolo, nemmeno tanto nascosto, che troviamo nel mosaico. Si noti, infatti, come i due rami in basso, e la base dell'albero, costituita dai due elefanti, disegni una coppa: il Graal appunto. Il mosaico pullula, inoltre, dei tradizionali simboli templari, quali, ad esempio la scacchiera. I templari sono da sempre stati connessi, a torto o a ragione, con le conoscenze misteriche di cui sarebbero stati unici detentori nella Chiesa.

La Chiesa, l'albero e la Croce Un elemento che ha contribuito a rendere criptico il senso del mosaico di Otranto è, certamente, da ricercarsi nella impossibilità di avere una visione d'insieme dell'opera e delle sue topologie. La presenza nella cattedrale, di panche, di elementi d'arredo e di culto, rende praticamente impossibile una lettura complessiva del mosaico al visitatore, anche attento. Per cogliere il senso della soluzione che Pantaleone offre al problema della maledizione dell'albero del Bene e del Male, bisogna posizionarsi in alto e visionare tutto il mosaico uscendo idealmente fuori della Chiesa. E' solo così che si coglie un aspetto a nostro avviso, emblematico. L'albero del mosaico è al centro della croce formata dalla Chiesa stessa e quindi esso è il legame che è stato segnalato nel Vangelo di Filippo tra Gesù, la Croce e la Cabala: la Croce ha fornito il tronco mancante all'albero del Bene e del Male, rendendo di nuovo possibile all'uomo l'ascesa a Dio e la conoscenza dei misteri.

La cosmogenesi Quindi il mistero del mosaico ha trovato soluzione? No, purtroppo, finche non si darà un senso alla parte principale del mosaico: la cosmogenesi. Abbiamo individuato, nella cosmogenesi del mosaico, la principale delle Sefirot: la Corona. La cosmogenesi appare raffigurata in 16 cerchi contenenti ciascuno un simbolo, la cui funzione è estremamente criptica. Pur non volendo affrontare l'arduo compito della interpretazione complessiva di questa costruzione, vogliamo far cenno ai simboli che per posizione e forma, ci sembrano avvalorare la pista interpretativa qui proposta.


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Chi si sia imbattuto, anche una sola volta, nel più classico dei simboli gnostici, non può non notare una notevole somiglianza tra quella che viene definita la Sirena e l'Abraxas. L'Abraxas è, nell'accezione ideata dallo gnostico egiziano Basilide, il nome oscuro dato al Sommo Architetto dell'Universo: i due serpenti che fanno da arti inferiori all'essere identificano l'unione tra la componente maschile e femminile ed hanno un chiaro significato di natura sessuale. Il valore numerico delle lettere del nome abraxas è 365 ed è pari quindi, ai giorni dell'anno (nell'alfabeto greco A = 1, B = 2, R = 100, A = 1, S = 200, A = 1, X = 60, totale 365). Il termine è probabilmente alla base della formula magica Abracadabra (abrasadabra in greco) e proviene dalle parole Ab, Padre, Ben, Figlio, e Acadsch, lo Spirito, di conseguenza racchiude in se il concetto trinitario. Tertulliano segnalava, nella sua invettiva contro Basilide, che l'Abraxas aveva una funzione centrale nella venuta del Cristo. Basilide, sosteneva Tertulliano, credeva che la venuta di Cristo non fosse dovuta a Dio ma al suo nome nascosto (Abraxas appunto) e che Cristo fosse venuto sulla terra non in forma corporea (arrivando a sostenere che fu Simone di Cirene e non Gesù ad essere ucciso sulla Croce). Che l'assenza delle rappresentazioni cristologiche nella cattedrale sia legata a questo? Ovviamente si tratta solo di un dubbio privo di alcuna possibilità di verifica, se non dopo aver approfondito similitudini reali e differenze tra la simbologia del mosaico e quella gnostica. Per chiudere sul simbolo della Sirena non possiamo non far notare una differenza interessante tra l'Abraxas e la Sirena: l'Abraxas è, in genere, un uomo, qui l'Abraxas è chiaramente una donna. Il motivo di questa sostituzione rimane ignoto, anche se va ricordata la centralità che la donna ha nella cultura gnostica (ad esempio la Maddalena su cui torneremo più avanti). Meno criptica, invece, sembra essere la forma che Pantaleone ha usato per rappresentare la Sirena: la Omega. Vediamo il perché.

Salomone L'immagine di Salomone è chiaramente e simbolicamente legata all'idea di giustizia, ma a nostro avviso la sua funzione nel mosaico non è solo questa. La forma che il seggio di Salomone assume nella costruzione sembra ricordare l'Alfa. Il fatto che l'Alfa sia disposta simmetricamente alla Sirena che è, come detto, l'Omega, simboleggia Dio e soprattutto la sua funzione creatrice. In buona sostanza, i due simboli in alto al centro della cosmogenesi rappresentano le funzioni di Dio: creatore, artefice di giustizia, ed una qualità: quella


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trinitaria. A queste, l'Abraxas aggiunge la componente gnostica dell'unione degli opposti e delle componenti maschili e femminili.

Il Leopardo alato Alla destra della Sirena, troviamo l'immagine di un leopardo alato che uccide un ariete. Al di sotto si legge l'iscrizione PASCA già decifrata da mons. Grazio Gianfreda: P(ardus) = leopardo A(latus) = alato S(ternit) = abbatte C(ornutus) = cornuto A(rietes) = ariete Pardus ha, nel senso cabalistico lo stesso valore di Pardes (Paradiso). E' quindi, il luogo della vittoria. Questo elemento completa il lato destro superiore che definisce le qualità destre di Dio: il luogo in cui risiede e le sue caratteristiche "fisiche" (la trinità, e l'unione in sé).

La regina di Saba La regina di Saba completa la parte destra degli attributi di Dio. Va ricordato che storicamente essa è strettamente legata a Salomone come componente femminile, ma ha anche altre svariate funzioni nella mitologia gnostica, prima tra tutte il suo parallelo con la Maddalena e da questa con Maria madre di Gesù. La Maddalena è una delle entità femminili più importanti negli scritti gnostici e non di rado, il suo ruolo supera per importanza, quello degli apostoli. Nel Vangelo di Maria, e nella Pistis Sophia, la Maddalena è destinataria delle rivelazioni segrete di Gesù dopo la morte, mentre nel Vangelo di Filippo viene identificata chiaramente come la compagna di Gesù. La sua funzione centrale è richiamata anche da Gesù in Matteo in chiara connessione con il Giudizio divino degli ultimi tempi e con Salomone: La regina del mezzogiorno comparirà nel giudizio con questa generazione e la condannerà; perché ella venne dalle estremità della terra per udire la sapienza di Salomone; ed ecco, qui c'è più che Salomone! (Matteo 12:42) Andrebbe anche ricordata la connessione tra la regina di Saba, la Maddalena, ed il culto della Madonna nera, ma questo ci porterebbe fuori contesto.

Conclusione Un'antica leggenda lega l'interpretazione del mosaico della Cattedrale di Otranto alla scoperta del Graal. La presenza di Artù e la figura stessa che i due rami inferiori dell'albero tracciano nel basamento del mosaico, come illustrato, possono a ragione, aver alimentato questa credenza, ma riteniamo che la leggenda nasconda , in fondo, una parte di verità. Il legame stretto che abbiamo evidenziato tra la letteratura gnostica scoperta nel 45 a Nag Hammadi (in particolare il Vangelo di Filippo), il fatto che l'Abbazia di Casole fosse un'accademia talmudica, i limpidi riferimenti alla Cabala, la leggenda che vuole ricchissimo il materiale documentale in possesso dell'Abbazia, ci fa verosimilmente ritenere che Pantaleone fosse entrato in possesso dei testi che solo oggi possiamo visionare a Nag Hammadi, e probabilmente di molti altri che ancora non conosciamo. Se, come abbiamo cercato di dimostrare, quella di Pantaleone è una estrema sintesi gnostica della cultura cristiana, protognostica ed ebraica, probabilmente dovremo fermarci sulla soglia delle interpretazioni che ho proposto nel presente articolo. La funzione di alcuni dei simboli presenti nel mosaico è


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stata interpretata solo perché letta alla luce dei testi di Nag Hammadi, ma ci sono simboli (quelli ad esempio presenti nella cosmologia del mosaico) che non trovano riscontri immediati in quella letteratura. Sebbene abbia, ad esempio, tentato l'arduo compito di un paragone tra la più avanzata e complessa sintesi del pensiero gnostico, rappresentata dalla Pistis Sophia (Pistis Sophia, di L.Moraldi, 1999, Ed.:Adelphi) ed il mosaico di Otranto, ho dovuto riscontrare spesso distanze abissali, che mi hanno portato ad escludere un riferimento diretto a quel testo. Voglio però ricordare che il prof. Moraldi, nell'appendice, propone per il mosaico di Aquileia una soluzione non distante da quella da me indicata per il mosaico di Otranto. Per certi versi, la simbologia del mosaico, appare estremamente più primitiva rispetto alla Pistis Sophia, mentre, sembra essere un'ottima e puntuale evoluzione dei principali testi della biblioteca di Nag Hammadi. In ogni caso è indubbio che il Graal, per il mosaico, è l'elevazione del pensiero dell'uomo alla Conoscenza misterica attraverso il Cristo gnostico, quindi è la gnosi stessa. La ricerca del Graal è, quindi, il percorso sapienziale che, presa coscienza dell'impossibilità di interpretare il mistero con il solo uso della Cabala, e degli scritti talmudici (es.: il Sefer Yetzirà), utilizza la rivelazione della conoscenza nel mondo: il Cristo, dando corpo al più gnostico dei Vangeli canonici: quello di Giovanni. Io sono la via (l'albero, il tronco, la via attraverso cui si arriva a Dio), la verità (l'asse che media tra gli estremi della cabala), la vita (l'albero della vita). Pantaleone, infine, ci ricorda che questo percorso porta, inevitabilmente, alla radice della croce, e dell'errore che si trova ancora nella Chiesa, e ci conduce fuori di essa. *

Il Mistero del Mosaico di Otranto - Sentieri di Crescita Interiore, di Francesco Corona, volume, temo non rintracciabile nelle librerie (se no non quelle idruntine) poiché pubblicato dallo stesso autore.

----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 4 di Episteme] sabato.scala@libero.it


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La leggenda dei Merovingi nella Corona del Mosaico di Otranto? (Sabato Scala) Introduzione Nel precedente articolo abbiamo illustrato le linee guida generali che individuano le probabili chiavi interpretative per la decifrazione della complessa simbologia del mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto, nelle tematiche tipiche del pensiero gnostico e nei testi scoperti nel 1945 a Nag Hammadi con particolare riferimento al Vangelo di Filippo. Adoperando il medesimo metro e metodo interpretativo ci proponiamo, ora, di approfondire e decodificare la parte più criptica di quest'opera: la Corona, l'insieme di 16 simboli, cioè, che campeggia nella parte superiore dell'opera al centro del presbiterio (vedi l'immagine allegata alla fine dello scritto precedente). La Torre Torniamo, ancora una volta, alla Torre di Babele, simbolo che nell'opera musiva ha dimensioni seconde solo all'Albero. Abbiamo già detto che le cospicue dimensioni della rappresentazione individuano in essa una possibile chiave per la decifrazione del significato nascosto del mosaico. Limitandoci all'interpretazione della parte centrale del mosaico come raffigurazione simbolica della cabala ebraica, non abbiamo in effetti dato finora soluzione al problema della funzione di questo simbolo. L'insistenza sulle tematiche bibliche veterotestamentarie e sulla cabala, che costituisce un mezzo necessario per l'interpretazione dei significati nascosti delle narrazioni bibliche, ci porta a pensare che la lingua ebraica possa aggiungersi agli strumenti adottati per decifrare i significati nascosti dell'opera. Infatti, gli algoritmi di decodifica esposti in opere antichissime come il Sefer Yietzirà si applicano unicamente alla Bibbia scritta in ebraico. Prima di adoperare questo strumento, vogliamo far notare un altro particolare elemento di regolarità che è insito nel mosaico: quello della rappresentazione delle coppie. Tutte le coppie, siano esse umane, animali o materiali, nel mosaico sono rappresentate con la parte femminile a sinistra: la regina di Saba si trova a sinistra di Salomone, Eva a sinistra di Adamo, sia nella Corona che nella rappresentazione del Paradiso terrestre, la Sirena è a sinistra del Pardus Alatus, e così via. Nel caso della Torre, essa è, ancora una volta, collocata alla sinistra dell'albero che troneggia al centro dell'opera. Adoperando, a questo punto, la lingua ebraica, si ottiene che essa è nel contempo: la compagna, may-ray'-ah, e la torre, mig-dawl, quindi Maria di Magdala, che rappresenta il cuore e nel contempo la sintesi del pensiero gnostico. Maria di Magdala è infatti colei che è destinata ai segreti più reconditi (Vangelo di Maria), la cui intelligenza e capacità di comprensione superano quelle dei dodici (Pistis Sophia), e che era talmente amata da Gesù da ricevere chiaramente un diverso trattamento, che suscitava non di rado le invidie dei discepoli ("la baciava sulla bocca", Vangelo di Filippo). Abbiamo così a disposizione alcune chiavi di lettura necessarie per passare all'interpretazione della parte superiore del mosaico: la lingua ebraica, la gnosi, la Maddalena ed il principio delle coppie. La Pantera e la tesi di Celso Abbiamo dianzi cercato di fornire una prima chiave di lettura della prima riga della Corona, la quale ci ha portato a individuare nella Sirena il simbolo principe della gnosi: l'Abraxas, invenzione simbolica di Basilide che raffigura la potenza dell'unione delle tre figure Padre, Figlio e Spirito Santo, ma nel contempo contiene espliciti riferimenti alla forza sessuale. Tale interpretazione dell'intera prima riga della Corona vede in essa la raffigurazione del Padre, e


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argomenteremo che la paternità è anche una possibile chiave di lettura per il livello successivo. Infatti, il nome Pardus o Pantera, associato all'Abraxas (la Sirena), simbolo principe dell'eresia di Basilide e personale invenzione dello stesso, non può non ricondurci a un'altra e ben più audace tesi: quella di Celso, secondo il quale Gesù era figlio carnale di Maria e di un soldato romano di nome Pandera. Ad alimentare questa incredibile leggenda vi sono due fatti, uno antico e l'altro recentissimo. Le Toledoth ebraiche, antichissimi scritti che polemizzavano contro i cristiani, e in particolare i giudeo-cristiani, richiamano esplicitamente questa voce, da cui attinse, probabilmente, Celso, ma a tale antico documento se ne è aggiunto recentemente un altro: un papiro ritrovato nei pressi di Qumran, sottoposto già ad alcune analisi preliminari, ma mai pubblicato, il cosiddetto Rotolo dell'Angelo [1][2]. Il papiro narra la storia di Joshua Ben Pediah (Gesù figlio di Pediah) il quale, recatosi nel deserto, viene portato in cielo dall'angelo Pnimea. Il nome di quest'angelo ritorna in un altro antichissimo testo cui spesso si ispirano le scritture essene [3] e quelle gnostiche: il Libro dei Segreti di Enoch. Anche questo elemento va tenuto in conto, per quanto diremo tra breve relativamente alla figura di Re Salomone. Tornando a noi, il Jerusalem Report, che ha pubblicato nel 1999 una sintesi del contenuto di tale papiro, non si esime dall'evidenziare l'incredibile assonanza tra il nome di Joshua Ben Pediah e Gesù figlio di Pandera, nella tesi di Celso. Ma se il Pardus è associato ad una qualità del Padre (vedi precedente articolo) e rappresenta anche il padre di Gesù (Pandera), allora ci dovrebbe essere, in qualche modo, indicato anche il Figlio, ovviamente in forma criptica, visto che mai nel mosaico Gesù viene esplicitamente raffigurato. In effetti, però, il Pardus tiene tra le mani un ariete, e sembra schiacciarlo (secondo l'interpretazione di Gianfreda richiamata nel primo scritto), ma non si comprende come questi possa essere considerato il Figlio. Qui è necessario adoperare una chiave interpretativa tipica della Corona: quella astrale, richiamata, peraltro, esplicitamente dalla scritta AUSTRI, presente nella prima riga in alto tra il simbolo di Salomone e quello della regina di Saba. La Sirena è, nel contempo, la compagna del Pardus ma anche un pesce: essa non può che rappresentare l'omonima costellazione dei Pesci, che insieme all'Ariete, quello tenuto appunto in mano dal Pardus-Pandera-Padre, segna l'inizio della nuova era marcata dalla nascita di Gesù, l'era dei Pesci, e la chiusura di quella precedente, l'era dell'Ariete. La Sirena Melusina Nel precedente lavoro abbiamo interpretato il simbolo della Sirena, riconducendolo alla gnosi, attraverso l'Abraxas. Non siamo, però, riusciti a decifrare il motivo che spinse Pantaleone a raffigurare quel simbolo con fattezze femminili invece che maschili. Proviamo, ora, a risolvere quest'enigma. Il simbolo è, come visto, collocato alla sinistra del Pardus, e tale collocazione è indispensabile per la corretta interpretazione dello stesso. La Sirena, quindi, non può che essere, ancora una volta, la compagna (may-ray'-ah), dalla meravigliosa (meged) coda (al-yaw'), ovvero Maria di Magdala, nuovamente. Secondo tale ricostruzione, Pantaleone avrebbe voluto, inoltre, denunciare l'ambiguità prodottasi nel corso dei secoli tra le due persone di Maria Maddalena e della madre di Gesù, allo scopo di offuscare l'importanza della prima imbarazzante figura, cardine della teologia gnostica. La Sirena appare come la compagna della Pantera, ma è pure compagna di colui che è rappresentato, come abbiamo visto, soltanto unendo i due simboli attraverso l'interpretazione astrale:Gesù. Ma la Sirena svolge anche un altro incredibile ruolo, indispensabile per la decifrazione delle parti successive del mosaico. Per comprendere di che si tratta, va ricordato che l'immagine in oggetto, e in particolare la presenza di una Sirena a due code, era presente spesso nelle raffigurazioni medievali associate alla leggenda di Melusina. Di essa esistono diverse varianti, ma in sintesi narra quanto segue. Un giovane re conobbe una bella fanciulla di oscura origine. La giovane accondiscese a sposarlo, a patto di disporre ogni settimana di un giorno durante il quale si sarebbe allontanata da lui, e avrebbe dovuto rimanere sola. Dal matrimonio, all'apparenza felice, nacquero però figli umani solo per metà, così il re decise di seguire la


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sposa di nascosto, in uno dei giorni in cui ella si sarebbe allontanata. Con sua meraviglia si accorse che la bella fanciulla si trasformava in una mostruosa sirena con due code, e la testa simile ad un drago. Venuta a conoscenza della cosa, Melusina lasciò l'uomo, ritornando in mare ove, si dice, aveva accumulato una grande ricchezza. Ritroviamo elaborato un analogo tema in un'altra antica leggenda medievale, che ci riporta a quello riteniamo possa essere il vero significato nascosto della raffigurazione in discussione. Secondo tale racconto, da datarsi 500 anni circa prima della costruzione del mosaico, il capostipite della stirpe dei Merovingi sarebbe stato un certo Mervee. Sua madre incinta fu stuprata da un mostro marino denominato Quinotauro. Questa storia apparentemente innocua, nasconde, ancora una volta, nel gioco di parole del nome "Mervee", un'altra leggenda legata sempre alla Maddalena, quella che vuole che ella abbia avuto un figlio da Gesù, e che sia fuggita in Francia dopo la di lui morte sulla croce. Mervee avrebbe quindi, concordemente, il significato di "figlio di Maria di Magdala", e di padre della stirpe dei primi re di Francia: i Merovingi. La nostra Melusina, nel mosaico di Otranto, sarebbe, quindi, oltre che Maria, compagna di Pandera e madre di Gesù, anche Maria di Magdala compagna di Gesù e madre di Mervee, il leggendario fondatore della stirpe dei Merovingi. Il tramite per questa correlazione è, appunto, la leggenda di Melusina, che fa del mostro a due code al contempo il Quinotauro e la madre la quale, pur umana, genera un ibrido dall'apparenza umana, ma dalle qualità soprannaturali. Non può a questo punto sfuggire la connessione con un'altra leggenda, alimentata di recente da scrittori all'apparenza estremamente fantasiosi [4], che si ricollega alla fuga in Francia della Maddalena, ed alla identificazione del termine Graal o Sangraal con Sangue Reale. Non va nemmeno dimenticata un'altra caratteristica tipica, questa sì storicamente accertata, relativa all'abitudine dei re Merovingi di non tagliarsi i capelli. Capelli in ebraico è nezer, e quindi Nazir, con possibile implicito rimando al Nazareno, loro ipotetico avo. Anche questa constatazione, che all'apparenza è una pura illazione, torna pesantemente sempre nella raffigurazione della Sirena, i cui capelli sono talmente lunghi da oltrepassare la lunghezza stessa della figura, tanto da fuoriuscire dal cerchio che la racchiude nel mosaico. Re Salomone Passiamo a un'altra emblematica figura della prima riga: quella di re Salomone. Nella prima parte abbiamo accennato alla sua funzione nella formazione delle lettere alfa e omega; ora, invece, ci soffermeremo sulla sua fondamentale e recondita funzione nel mosaico, quella di simboleggiare il più antico dei personaggi biblici, la cui storia precede la nascita stessa della Bibbia: Melchisedec. Per arrivare a questa correlazione è necessario risalire all'etimologia di Melchisedec e a una strana contraddizione esistente tra la versione riportata nel Libro dei Segreti di Enoch e quella biblica. Melchisedec è l'unione di due parole ebraiche: meh'-lek (Re) tsaw-dak (Giustizia), e quindi Re di Giustizia. Il libro dei Segreti di Enoch termina con una intrigante storia. La moglie di Nir, fratello di Noè, nonostante la sua sterilità e l'avanzata età, concepì un figlio senza l'intervento del marito. Nir non volle riconoscere il figlio e la moglie morì durante il parto. Miracolosamente essa, pur morta, generò un bimbo che aveva, sin dalla nascita, l'età apparente di 4 anni e che rimase sulla terra solo 40 giorni (gli stessi che Gesù trascorse nel deserto). Un angelo disse a Nir che il bimbo nato, cui fu dato nome di Melchisedec, sarebbe stato il più grande dei sacerdoti: il sacerdote eterno, da cui sarebbe nato un nuovo ed eterno sacerdozio e una nuova stirpe, dopo l'avvento del diluvio. Melchisedec, al pari solo di altri due personaggi come Joshua Ben Pediah nel Rotolo dell'Angelo e come Mosè sempre nella letteratura enochica, fu portato in cielo ancora fanciullo. Questa storia nella Bibbia manca, e Melchisedec viene sostituito da un oscuro re dell'oscura cittadina di Salem, spesso identificata con Gerusalemme. Perché questo marginale re biblico debba rappresentare il più grande dei sacerdoti, capostipite di una nuova stirpe di sacerdoti, che vedrà in Gesù il suo primo e unico discendente [5], resta un mistero inestricabile restando all'interno della Bibbia, ma diviene chiaro rifacendosi al Libro dei Segreti di Enoch e ricollegando il fanciullo alla prima venuta del Messia, prima ancora che nascesse la Bibbia.


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Lo stesso concetto è mirabilmente presentato anche in uno dei più interessanti papiri qumraniani: 11QMelch [3]. A questo punto veniamo a Salomone e alla sua raffigurazione nel mosaico. Salomone è, tradizionalmente, l'emblema stesso dell'associazione del potere e della regalità alla giustizia e alla saggezza, quindi per sua natura è re meh'-lek ma anche giusto tsaw-dak (Giustizia). Il suo nome, Salomone, discende dalla radice salem (Pace), la stessa di Gerusalemme (città della pace), di conseguenza egli è anche il re di Salem che è nel suo ruolo e nel suo nome. Salomone è quindi il simbolo criptico di Melchisedec, e la sua presenza nel mosaico denuncia la sostituzione di Melchisedec, nato miracolosamente da vergine e progenitore dello stesso Gesù, con l'oscuro re di Salem biblico, probabilmente mai esistito. La regina di Saba La regina di Saba, come abbiamo anticipato nella parte precedente, è chiaramente e ancora una volta collegabile alla Maddalena. Per la corretta interpretazione della sua funzione possiamo ricorrere al seguente oscuro passo del Vangelo di Matteo (12:42): La regina del mezzogiorno comparirà nel giudizio con questa generazione e la condannerà; perché ella venne dalle estremità della terra per udire la sapienza di Salomone; ed ecco, qui c'è più che Salomone! Il brano collega, manifestamente, la regina del mezzogiorno alla regina di Saba e, nel contempo, a Salomone, anch'esso raffigurato nell'opera. La regina di Saba è l'emblema della Regina Nera, la cui bellezza e intelligenza stregarono Salomone. Tradizionalmente il nome Regina Nera è associato a un altro misterioso culto, quello della Madonna Nera, diffusissimo in Europa e promosso, guarda caso, dall'ultimo re della stirpe dei Merovingi: Dagoberto, personaggio sul quale torneremo presto per l'interpretazione della seconda riga. Un passo delle profezie di Michea (4:6) sembra poter fornire il legame che nella gnosi e nella leggenda dei Merovingi collega la funzione della Torre a quella della Regina, e della donna che avrebbe assicurato continuità alla futura stirpe regale: Quel giorno, dice il SIGNORE, io raccoglierò le pecore zoppe, radunerò quelle che erano state scacciate e quelle che io avevo trattato duramente. Di quelle zoppe io farò un resto che sussisterà; di quelle scacciate lontano, una nazione potente. Il SIGNORE regnerà su di loro, sul monte Sion, da allora e per sempre. A te, torre del gregge, colle della figlia di Sion, a te verrà, a te verrà l'antico dominio, il regno che spetta alla figlia di Gerusalemme. La regina di Saba è il simbolo veterotestamentario che meglio si adatta alla figura della Maddalena nell'eresia gnostica, poiché unisce insieme la figura regale, l'intelligenza, la capacità di conoscenza e la fedeltà al suo re, di conseguenza non poteva esservi scelta migliore per una raffigurazione simbolica che, pur senza richiamare elementi neotestamentari, li riportasse nella potenza e complessità della loro interpretazione gnostica.


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La seconda riga del Mosaico e la fine della stirpe dei Merovingi Il Sagittario, che è il secondo simbolo della seconda riga del mosaico, la scritta AUSTRI, e soprattutto le stelle di cui sono costellati tutti e quattro i simboli della seconda riga, ci suggeriscono che la lettura astrologico-astronomica è quella che va ora adottata per questa riga. Le stelle, in effetti, erano uno strumento che assolveva a una duplice funzione pratica: quella cronologica e di localizzazione. Abbiamo già visto come, per la prima riga, la coppia della costellazione dei Pesci e del piccolo ariete tra le zampe della Pantera assolva a una possibile funzione cronologica. Riteniamo che anche per la seconda riga possa adottarsi il medesimo criterio di lettura. Essa è giustificata dal modo adottato da Pantaleone nella parte centrale del mosaico per raffigurare la condanna alla schiavitù del tempo dopo la cacciata dal Paradiso Terrestre. Tutti i simboli dei mesi sono stati associati al corrispondente segno zodiacale. Cominciamo col notare che il segno immediatamente successivo al Sagittario, nella sequenza astrologica, è il Capricorno, spesso identificato con il nome di Antilope del mare. Non a caso nel mosaico notiamo raffigurata un'antilope. La sequenza Capricorno-Sagittario, in linea con questa chiave interpretativa, non può che segnare il giorno in cui avviene il cambio di segno nell'anno, e quindi il 22 dicembre. Pantaleone avrebbe quindi voluto indicare una data, ma relativa a quale evento? La soluzione è nel cervo raffigurato immediatamente dopo. L'animale appare ferito alla testa da una freccia o una lancia. Il simbolo del cervo è associato, in diverse raffigurazioni, a un Santo vissuto intorno alla seconda metà dell'anno 600: Sant'Hubert. La leggenda narra che, abile cavaliere e cacciatore, durante una battuta di caccia, vide un cervo che recava una croce tra le corna. La sua storia è intimamente legata a quella dei Merovingi ed a quella di Dagoberto in particolare: egli, infatti, ne sposò la figlia Floribanne. A questo punto non può che ritornarci alla mente l'anno di morte di Dagoberto: il 22 (secondo altri il 23) dicembre del 679. Dagoberto, dopo aver perso il trono, si recò in Inghilterra, e vi rimase fino al 676, quando fortemente voluto dai suoi sudditi sebbene inviso al papato, fece ritorno dall'esilio, divenendo re d'Austrasia. Tre anni dopo, durante una battuta di caccia nella foresta delle Ardenne, fu colpito da una lancia al capo e morì. Si ritenne che la sua morte, fortemente sospetta, sia stata voluta o comunque favorita proprio in ambienti ecclesiastici. Con lui muore l'ultimo dei Merovingi. L'assonanza del nome di Sant'Hubert, raffigurato da un cervo, con Dagoberto, il fatto che questi sia stato ucciso esattamente come il cervo, il richiamo al giorno della sua morte, sono già ottimi indizi lungo questa strada, ma crediamo non siano i soli. Adoperiamo di nuovo la Sirena. Essa è collocata subito sopra il cervo. Il termine pesce in ebraico è dawg; di conseguenza la coppia dawg e Hubert rimanderebbe a Dagoberto. Ma, forse, c'è di più. Una leggenda vuole che Dagoberto avesse un figlio di nome Sigiberto, che sopravvisse all'agguato facendo perdere per sempre le sue tracce. Il cervo, nel mosaico, si volta all'indietro, e l'azione di "guardare indietro" è in ebraico indicata con il termine seeg, da cui il nome che si ottiene ancora una volta associandolo con Hubert: seeg Hubert, Sigiberto.


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Ciò che manca, a questo punto, è l'anno. Per questo veniamo all'ultimo cerchio della seconda riga che raffigura l'unicorno ed il frate. Il cerchio contiene tutti intorno 26 cerchi, e lascia un vuoto per il ventisettesimo, che è invece traslato all'interno del cerchio e circondato da una strana stella a quattro punte, distribuite secondo i punti cardinali, e una quinta posta tra la punta superiore e quella di destra. Percorrendo 26 volte il cerchio maggiore che racchiude l'unicorno, tante volte quanti sono i cerchietti, si ottiene 26x26 = 676 , e quindi l'anno del ritorno al potere di Dagoberto. La stella con le tre punte asimmetriche in evidenza potrebbe rappresentare i tre anni della durata del suo regno fino alla sua morte. Passiamo ora all'unicorno. Il termine corno in ebraico è keh'-ren, che è anche l'etimologia del termine corona. Come detto nel precedente lavoro, l'unicorno è il "nato da vergine", e rappresenta il Gesù del Vangelo di Verità, ma con la presenza del solo corno e con il legame a Dagoberto già esaminato, aggiunge a questa funzione un'altra: esso rappresenta la regalità dell'ultimo dei Merovingi di fronte al quale si inchina il frate Pantaleone raffigurato in ginocchio di fronte alla fantastica bestia. Per concludere questa intrigante ricostruzione della seconda riga del mosaico non possiamo non far notare che, probabilmente, Pantaleone ci ha voluto indicare anche il nome del mandante di quell'omicidio. Per leggerlo, ancora una volta, bisogna procedere traducendo in ebraico i simboli dall'alto verso il basso nella seconda colonna. Partiamo da Salomone che rappresenta Melchisedec, antesignano di Gesù che, a sua volta, se è corretta l'interpretazione, è padre della stirpe dei Merovingi. Tutta la prima riga rappresenta, come visto, il Padre, la paternità che Salomone-Melchisedec sintetizza in sé. Egli è quindi "padre" che in ebraico è ab. Subito sotto c'è il Sagittario, l'essere metà uomo e metà cavallo: metà in ebraico è gav. Infine ancora più in basso c'è il drago Leviathan: drago in ebraico è tan. Abbiamo allora Ab-gav-tan = Agatone, e tale è infatti il nome di colui che occupò il trono pontificio proprio nell'anno in cui morì Dagoberto. Dagoberto divenne santo, nonostante fosse avversato dal papato di allora, e a lui si deve l'introduzione del culto della Madonna Nera che, anche nel mosaico, ha riferimenti fin troppo espliciti con la Maddalena-Regina di Saba. Il mosaico sembrerebbe, a questo punto, alludere a un legame tra la gnosi e la stirpe Merovingia, proprio l'elemento che potrebbe aver determinato la rottura con il papato. E' possibile che Dagoberto avesse introdotto il culto della Madonna nera giocando sull'ambiguità Maddalena-Maria madre di Gesù, e sulla stessa ambiguità gioca Pantaleone con la sua rappresentazione della Sirena. La terza riga e la diffusione del pensiero gnostico nel mondo


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Per l'interpretazione della terza riga è necessario soffermarsi su due simboli, che paiono voler indicare esplicitamente due delle principali direttrici della diffusione del pensiero gnostico. Il dromedario (primo cerchio della terza riga), infatti, è spesso indicato come simbolo delle terre d'Egitto; in quanto prende, notoriamente, il posto del cammello arabo per gli spostamenti nel deserto africano. L'Egitto fu una delle terre ove la gnosi prese più piede, dato il fervente movimento culturale che fioriva intorno alle biblioteche di Alessandria, e che caratterizzò la nascita delle principali eresie gnostiche. Non a caso proprio in quelle terre, ed esattamente a Nag Hammadi, fu ritrovata nel 1947 la giara contenente i famosi testi gnostici cui abbiamo fatto riferimento nel precedente scritto. L'altro animale che è chiaramente legato a una precisa collocazione geografica è l'elefante indiano (terzo cerchio della seconda riga). Le terre d'India furono meta del viaggio di Tommaso, autore dell'omonimo Vangelo gnostico, e sono narrate in un altro testo di chiara ispirazione gnostica: gli Atti di Tommaso. Questa fu un'altra grande direttrice del pensiero gnostico, se vogliamo quella più naturale, per le affinità tra lo gnosticismo e le filosofie orientali (induismo e buddismo in particolare), ma anche la meno fortunata visto lo scarso seguito che ebbe rispetto alla corrente gnostica che nacque nelle terre dell'ex Impero Romano. Il più resistente dei filoni gnostici, che è stato anche il più difficile da sradicare, fu sicuramente quello medio-orientale, che faceva capo ai territori che vanno dall'attuale Grecia fino alla Turchia. Il simbolo tipico di queste terre può essere sicuramente la lince, diffusa, al tempo, nelle foreste europee e nei territori mediorientali. La lince (quarto simbolo della terza riga della Corona, raffigurato mentre schiaccia una volpe) possiede, poi, anche una particolare funzione simbolica nei bestiari medioevali [6], quella di rappresentare l'invidia. Probabilmente Pantaleone si riferisce all'invidia per le conoscenze e per l'evoluzione teologica di quella complessa filosofia che riusciva a produrre opere per altri oscure come lo stesso mosaico. Purtroppo quell'invidia scatenò una reazione violenta e durissima contro l'eresia gnostica, che però non fu mai del tutto domata, poiché trasformò la sua intelligenza in furbizia volpina. Ecco allora un possibile significato per la volpe-furbizia schiacciata sì dall'invidia-lonza, ma chiaramente non vinta. Non a caso la raffigurazione si trova subito sotto quella del monaco, che pare voler indicare la furbizia di correnti gnostiche come la sua, che trovarono riparo all'interno di monasteri quali l'abbazia di Casole, ove poterono attingere ai libri proibiti che via via venivano sottratti alla cultura mondiale dalle persecuzioni delle eresie. Resta da chiarire la funzione dell'intrigante mostro, Leviathan, che campeggia quale secondo simbolo della terza riga. Non è difficile intuire una connessione tra il mostro e la SirenaDrago alla base della leggenda dei Merovingi: quel mostro, potrebbe essere, quindi, un ulteriore rimando a quella leggenda. Il drago assume, nel mosaico, una particolare forma a cerchio che richiama un'antica leggenda che ha per protagonista un altro dei protagonisti del mosaico: Alessandro Magno. La leggenda vuole che l'arroganza e il desiderio di conquista del sapere, oltre che dei territori, portarono Alessandro a costruire un carro cui legò due grifoni, per farsi portare in cielo e svelare il mistero che in esso si celava [6]. Tale leggenda appare esplicitamente richiamata nella raffigurazione di Alessandro nella parte inferiore del mosaico. Egli, infatti, è rappresentato a cavallo di due grifoni. Un richiamo a tali animali lo si trova, forse, anche nella scritta GRIS riportata da Pantaleone sopra l'antilope. Alessandro, portato in cielo dai grifoni, vide sotto di sé il mare a forma di serpente arrotolato che tra le sue spire aveva un disco: la Terra. Leviathan arrotolato, quindi, è il simbolo del mare. La via del mare fu quella intrapresa dalla Maddalena per giungere in Francia, tanto che quel simbolo, il dragoserpente, il mostro marino, la Maddalena e Mervee divengono tutt'uno, finendo per rappresentare allo stesso tempo la Francia e la legittima discendenza al trono: quella dei Merovingi.


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L'ultima riga e la sintesi del pensiero gnostico Nell'ultima riga Pantaleone tenta una sintesi estrema del pensiero gnostico, cercando di identificarne i simboli che maggiormente rappresentano l'obiettivo e l'ambizione di quella filosofia. La scelta non poteva che ricadere, ancora una volta, su Adamo ed Eva, e la divisione da loro generata dell'uomo in se stesso. Il loro peccato di arroganza li aveva spinti a cibarsi del frutto dell'albero sbagliato, quello del Bene e del Male, e non di quello della Conoscenza. Con quella scissione in sé l'uomo divenne incapace di riconoscere la sua componente femminile, e la donna incapace di riconoscere la sua componente maschile. Una donna, Eva, aveva generato quell'errore, spinta dalla curiosità di pervenire alla conoscenza gratuitamente e senza sforzo nella ricerca e nella comprensione. Una donna, la Maddalena, riesce a comprendere il senso recondito delle parole del Gesù-Logos, strumento principe della gnosi, e mette a disposizione dell'uomo la chiave reale del suo insegnamento, che consente il superamento delle divisioni interne attraverso la ricerca faticosa e impegnativa della verità. Nella quarta riga Adamo ed Eva sono rappresentati ai due lati della punta dell'albero, ma due rami di quell'albero che rappresentano la via dell'unione e il tronco della cabala (vedi parte precedente), li tengono ancora uniti. Con quella violazione Eva assunse su di sé la componente della potenza sessuale e riproduttiva, quella che dà la vita all'uomo, ma anche al pensiero in forma di intuizione. Questa componente è raffigurata alla sinistra di Eva con un toro. La stessa componente è, se si vuole, la sintesi del ramo opposto alla posizione di Eva nella cabala raffigurata nel mosaico: il ramo destro con le foglie della Sapienza-Intuizione, dell'Amore, e della Forza. Adamo, invece, mantenne la componente dell'Intelligenza, della Costanza e della Fedeltà, raffigurate nel mosaico con il cane alla sua destra. Egli racchiude in sé le componenti rappresentate nel ramo opposto della cabala del mosaico con le foglie dell'Intelligenza, della Potenza, e dello Splendore. Conclusioni


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Vediamo, a questo punto, un quadro d'insieme di un possibile senso della Corona del Mosaico di Otranto. La prima riga traccerebbe il filo sottile che da Melchisedec (Salomone) porta all'Essenismo qumraniano attraverso la letteratura enochica che tanto ha influenzato gli scritti ritrovati nel 1945 a Qumran. Da quel punto prosegue fino alla nascita di Gesù, seguendo la tesi di Celso e l'eresia gnostica di Basilide, che lo volevano figlio del soldato romano Pandera. Prosegue, quindi, fino all'identificazione della funzione della Maddalena, cuore stesso dell'eresia gnostica, e alla leggenda che ne vuole la fuga in Francia e la fondazione della stirpe Merovingia (la Sirena), fino all'adozione del culto della Regina Nera o Madonna Nera promossa dall'ultimo dei Merovingi, Dagoberto. La seconda riga, invece, indicherebbe la fine di quella stirpe, indicando il giorno di morte di Dagoberto (con la coppia Antilope-Capricorno e Sagittario), le circostanze e modalità della morte (la battuta di caccia e la ferita alla testa a mezzo di una lancia), l'anno della morte (i 26 cerchi del simbolo dell'unicorno e la stella indicano il 679), il nome di Dagoberto (dawg = pesce + Sant'Hubert che è il cervo), e forse gli stessi nomi sia del leggendario figlio sopravvissuto (seeg = che si gira indietro + Sant'Hubert = Sigiberto), sia di colui che ordinò quell'omicidio (papa Agatone, sequenza ab-gav-tan). La terza riga segnerebbe i percorsi principali lungo i quali si diffuse il pensiero gnostico: Egitto, Francia, India e Medio Oriente. La quarta e ultima riga sintetizzerebbe l'obiettivo primo della gnosi: il superamento della divisione in sé che, se superata, consente agli Eoni la ricongiunzione con il Padre. La via per il superamento di quella scissione consiste nella meditazione sulla separazione delle diverse componenti della propria personalità alla ricerca di quelle perdutesi nell'altro sesso (sintetizzate nella foglie della cabala), fino all'inizio di quel percorso di evoluzione meditativa che porta i prescelti Eoni al ricongiungimento con il Padre. In questo percorso, la donna Eva guidò l'uomo verso l'albero errato, quello del Bene e del Male. La donna Maria Maddalena riporta l'uomo all'albero giusto, il Gesù-Logos che fa da tronco e unione dei rami opposti dell'albero del Bene e del Male, generando la nuova stirpe. A questo significato metafisico che la gnosi associa alla Maddalena, si aggiunge il significato storico che sempre la gnosi, le attribuisce. Pantaleone avrebbe mescolato allora i principi base della gnosi alle leggende sull'origine della stirpe dei Merovingi maturate nel periodo medievale in filoni di chiara origine gnostica, e tutte contenute in questa mirabile enciclopedia che è il mosaico di Otranto. Si potrebbe compiere, a questo punto, un ultimo passo per decifrare anche l'ultima leggenda cui facevamo riferimento in precedenza, intimamente legata al mosaico dalla tradizione: quella del Graal. Per farlo, ricorriamo ancora una volta ai bestiari tipici medievali, scendendo lungo l'albero, giù giù fino a giungere ai due elefanti che fungono da base all'albero senza radici che forma, con i suoi primi rami arcuati a forma di coppa, il Graal [6]. L'elefante, oltre che essere simbolo della sovranità e del potere reale, assume una funzione particolare specie se, come in questo caso, è appoggiato a un albero privo di radici o tagliato ma ancora in piedi. Secondo le leggende medievali, l'elefante riposava appoggiato a un albero. I cacciatori desiderosi di catturare l'animale, usavano l'espediente di tagliare l'albero cui questi era appoggiato, fino quasi ad abbatterlo. L'animale, appoggiatosi al tronco tagliato per riposare, finiva per cadere miseramente e, incapace di rialzarsi, diveniva facile preda dei cacciatori. Ma c'è ancora un'altra leggenda medievale che permea i bestiari di quell'epoca e che a nostro avviso potrebbe essere invocata a chiudere il cerchio sull'interpretazione del mosaico e la sua connessione con la leggenda della Maddalena e della stirpe Merovingia. Ne riportiamo di seguito uno stralcio [6]:


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"Chi ha insegnato all'elefante ad amare ininterrottamente la castità? Quando però, costretto dal comando della natura, si è unito sessualmente, volgendo indietro il capo come se non volesse e se ne fosse nauseato, non appena la femmina si ingravida esso non torna più ad accoppiarsi. Quanto a lei, come quella che, tremebonda, paventa le insidie mortali del drago, non partorisce in un luogo diverso dall'acqua purché questa arrivi fino alle mammelle. Poiché se essa partorisce fuori dell'acqua, il drago assale all'improvviso il suo piccolo nell'intento di divorarlo" (Patrologia latina 145, 783 d.c.). A questo punto abbiamo tutti gli elementi necessari oltre che la conferma finale alla nostra interpretazione. I due elefanti presenti nella parte inferiore del mosaico e raffigurati con due cerchi diversi, l'uno pieno e l'altro vuoto, sono chiaramente un maschio ed una femmina ripresi nell'atto dell'accoppiamento. La loro unione forma la coppa del Graal che è il grembo in cui nascerà la stirpe regale legata allo stesso Gesù, albero e tronco della cabala. Non si può non notare che la leggenda dell'accoppiamento casto degli elefanti è legata a quella del drago. L'elefante femmina si nasconde nell'acqua per sfuggire al drago così come la Maddalena prese la via del mare e giunse in Francia. Infine, non si può non rilevare un altro incredibile parallelo con l'Apocalisse, e con la donna che fugge nel deserto per sfuggire al drago [7] e salvare il nascituro. L'Apocalisse di Giovanni è, peraltro, un'opera che non nasconde riferimenti fin troppo evidenti con la gnosi. La nostra storia, a questo punto, ha evidenti stretti legami con le leggende adoperate nella composizione del mosaico, che esso mescola in maniera così particolare. Non può nemmeno sfuggire la singolarità rappresentata dal culto della Madonna Nera - introdotto da Dagoberto, l'ultimo dei Merovingi - ovvero forse la Maddalena, la leggenda della dinastia e alcune raffigurazioni comuni che inquadrano la Vergine nell'atto di calpestare un serpente o di sconfiggere un drago.


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Indipendentemente dall'attendibilità di queste leggende, la nostra interpretazione ha, a nostro avviso, il pregio di aver definito un tempo massimo per la loro formazione, il 1100 appunto. Inoltre, risulterebbe chiaro che il mosaico raffigura insieme, in uno schema unico compatto e cronologicamente coerente, leggende che appaiono altrimenti slegate e indipendenti. Altro suo possibile pregio è il legame che si evincerebbe tra la corrente gnostica, cui evidentemente apparteneva il monaco Pantaleone, e la stirpe Merovingia. Non è affatto da escludere che l'eresia catara abbia trovato in questa corrente di pensiero - che aveva pure evidenti risvolti politici - il suo naturale substrato. Non ci meraviglieremmo a questo punto, alla luce di quanto analizzato, che l'ordine dei cavalieri Templari, che si vuole fondato nel 1118, possa essere stato uno dei tanti camuffamenti della corrente gnostica di cui Pantaleone era solo uno dei tanti esponenti, e che probabilmente era estremamente diffusa e nascosta nei meandri e nelle pieghe degli ordini ecclesiastici. Visti gli anni (circa 500) trascorsi dalla morte di Dagoberto, la passione che Pantaleone mostra per la leggenda Merovingia, il fatto che proprio in coincidenza con la composizione del mosaico nasca il più discusso e potente degli ordini monastico-cavallereschi (appunto i Templari), il fatto che proprio da Otranto partissero le navi che portavano i cavalieri crociati alla conquista della Terra Santa, non può non far sorger l'idea che tutti questi fatti siano tra loro strettamente connessi. Una tanto complessa formazione del pensiero, e una così coerente costanza di elementi che si rilevano presenti non solo nell'architettura del mosaico, ma anche in costruzioni ben più lontane, come le cattedrali di Santiago de Compostela, di Metz e di Chartres, non sono verosimilmente dovute a una coincidenza, bensì alla presenza di un coordinamento spinto e nascosto di queste entità diverse. Ciò richiama alcune teorie sull'antica formazione della massoneria, che si vuole nata proprio, guarda caso, dalla congrega dei "maestri muratori", architetti e artisti che presero parte alla costruzione delle chiese di tutta Europa, riempiendole di simboli dal significato criptico, salvo per coloro che, come noi oggi, posseggono le scritture che questi uomini indubbiamente possedevano già, e avevano rintracciato e raccolto. Riferimenti bibliografici e note [1] S. Pfann, "The visions of Yeshua Ben Pediah scroll", Jerusalem Report, 27 settembre 1999. [2] "Annotazioni sul cosiddetto Rotolo dell'Angelo, ovvero Il Libro delle Visioni di Yeshua ben Padiah", in Bibbia e Oriente, vol. XLII (2000), n. 203, 41-48. [3] Papiro 11QMelch, in I Manoscritti del Mar Morto, Luigi Moraldi, ed. TEA. [4] Michael Baigent, Richard Leigh, Henry Lincoln, Il Santo Graal - una catena di misteri lunga duemila anni, ed. Mondadori; Christopher Knight e Robert Lomas, La Chiave di Hiram, ed. Mondadori. [5] Nuovo Testamento, "Lettera agli Ebrei". [6] Francesco Maspero, Aldo Granata, Il bestiario medioevale, ed. PIEMME. [7] Apocalisse di Giovanni, 12,13-18.


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Oil painting of Mozart by Saviero dalla Rosa, January 1770, formerly attributed to Felice Cignaroli. The painting was executed during Mozart's first tour of Italy. [http://www.geocities.com/Vienna/Strasse/9570/mozart/index.html]


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RECENSIONI/ REVIEWS


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Atlantide un mondo scomparso - un'ipotesi per ritrovarlo (Alberto Arecchi) (Ed. liutprand, Pavia, 2001) ******* Difficile essere originali su un argomento come quello di Atlantide, dove le ipotesi avanzate nel corso di due millenni si contano a centinaia. Quest'impresa è riuscita ad Alberto Arecchi, che nel suo libro: "Atlantide - un mondo scomparso - un'ipotesi per ritrovarlo", sviluppa una tesi per certi aspetti inaspettata e sorprendente. Il punto di partenza è analogo a quello di una serie di teorie che avevano avuto largo seguito agli inizi del secolo scorso, con autori del calibro di Berlioux, Gordon, Butavand, Charpentier ed altri, i quali localizzavano l'Atlantide nel Sahara, o sulla costa nord africana, fra la Libia ed il Marocco. Con essi Arecchi, fra le varie indicazioni storiche e geografiche fornite da Platone, ritiene senz'altro veritiera quella secondo cui Atene "distrusse un grande esercito, che insolentemente invadeva ad un tempo tutta l'Europa e l'Asia, muovendo dal mare Atlantico". Egli precisa, tuttavia, che con il termine "mare Atlantico" Platone intendeva riferirsi non all'omonimo oceano attuale, ma al Mediterraneo centrale. Ed è proprio qui, infatti, che egli colloca l'Atlantide. Stabilita l'ubicazione geografica, egli passa a determinare l'epoca in cui il mitico impero fu distrutto, che sarebbe stata non il 10.mo millennio, ma il 13.mo sec. a. C.. Questo nel presupposto che ci sia stato un errore nell'interpretazione dei dati forniti da Platone, il quale avrebbe parlato non di 9000 anni "prima del suo tempo", bensì di 9000 mesi. Fino a qui niente di nuovo; si tratta infatti di ipotesi ormai consolidate nell'ambito delle precedenti teorie, e sostenute da una serie di argomentazioni logiche e ben motivate. E' a questo punto, però, che Arecchi introduce una variante mozzafiato, proponendo uno scenario


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geografico e geologico grandioso, in cui ambientare la sua Atlantide: quello di un Mediterraneo diviso in due parti nettamente separate da un imponente "argine" naturale, posto a sbarramento del canale di Sicilia, con il bacino occidentale allo stesso livello odierno e aperto sull'Atlantico, mentre il bacino orientale era un mare chiuso, con un livello di ben 300 metri inferiore a quello attuale (pag.129). Arecchi pone l'Atlantide in questo bacino interno, identificandola con un vasto bassofondo, allora asciutto, nel mare Ionio. Non contento, egli ipotizza l'esistenza nell'entroterra sahariano di un vero e proprio mare "pensile", sopraelevato di circa 350 mt (e quindi di almeno 650 mt. rispetto al livello dell'Atlantide), con una superficie pari a quella dell'Italia, contenuto anch'esso da un argine naturale lungo un'ottantina di chilometri (p. 134). La distruzione di Atlantide e la sua definitiva scomparsa sotto i flutti sarebbero state provocate dal cedimento contemporaneo di questi due argini, con le conseguenze facilmente immaginabili. Tale catastrofe sarebbe avvenuta, secondo i suoi calcoli, tra il 1320 ed il 1167 a.C., a cavallo fra la 18.ma e la 20.ma dinastia egizia, vale a dire in epoca pienamente storica. Questa, in estrema sintesi, l'ipotesi proposta. Con quali elementi a sostegno? Il libro parte da una ricerca letteraria di tutto rispetto ed offre una ampia panoramica delle fonti antiche su Atlantide e delle varie ipotesi moderne che la collocano nel Mediterraneo e dintorni; nonché molte notizie, tratte da storici greci (in particolare Erodoto) sui popoli libici del secondo e primo millennio, che secondo l'autore si identificherebbero con gli atlantidi e con i popoli limitrofi che condividevano la stessa civiltà. Ampio spazio viene concesso a citazioni letterarie, tratte da opere classiche, anche se i legami con il mito di Platone rimangono il più delle volte inespressi e misteriosi (se non decisamente opinabili, come quando l'autore afferma che "dalla consultazione di una stele poetica del faraone Thutmosis III è scaturito quello che poteva essere il nome egizio della terra di Atlantide. Infatti vi si nomina il popolo dei Tjehenu, e si dice che una parte almeno del loro territorio era costituito dalle isole Utjentiu: un nome che rivela una fortissima assonanza con quello di Atlantide!") (pag.49). Ampia e di indubbio interesse è la bibliografia fornita dall'autore in merito a questi temi, in stridente contrasto con la totale assenza di riferimenti ad opere di carattere matematico e scientifico. Già una serie di piccoli lapsus denuncia la sua scarsa familiarità con queste discipline, come per esempio nei calcoli delle date proposte, fatti in base all'assunto che "un anno solare comprende non 12 mesi lunari, ma 13 mesi e 12 giorni" e che "l'anno egizio, comprendeva 360 giorni e 30 [sic, ma si tratta di un evidente errore di stampa: leggi in realtà 12] mesi di 30 giorni ciascuno" (pag.29). In realtà un anno solare è composto da 12 mesi lunari + 11 giorni, mentre l'anno egizio antico era di 365 giorni. Si tratta comunque di peccati veniali, che non incidono significativamente sull'insieme della teoria. Quel che lascia interdetti, invece, è la totale assenza di giustificazioni scientifiche per lo scenario geografico e geologico che ne è alla base. Vista l'enormità della proposta, che appare shockante anche a chi è digiuno di queste materie, ci si aspetta che l'Autore fornisca un minimo di prove, vuoi di carattere geologico che storico. L'attesa, però, viene immediatamente delusa. Infatti egli confessa candidamente che gli unici documenti "scientifici" su cui basa la sua ipotesi sono costituiti da atlanti e carte nautiche del Mediterraneo edite nel 1921 e liquida la questione fondamentale delle prove in due parole, limitandosi a dichiarare che quello scenario "è possibile" (pag. 53), senza peraltro fornire la benché minima giustificazione alla sua affermazione. Decisamente poco! Una regola dichiarata della ricerca scientifica è che "ad affermazioni straordinarie devono accompagnarsi prove di carattere straordinario". Arecchi non ne fornisce alcuna (e come potrebbe!!) e demanda ad altri questo compito, auspicando che qualcuno sia in grado,


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prima o poi, di fornire prove geologiche a sostegno di quella che è l'ipotesi fondamentale della sua teoria. Peccato! Perché quanto al resto il suo libro nasce da una ricerca storica e letteraria approfondita, di indubbio interesse e validità, che poteva sfociare in una riproposizione convincente delle teorie del Berlioux e Co., basate su più credibili scenari geografici e geologici.

(Flavio Barbiero - per informazioni sull'autore, si rimanda al suo articolo contenuto in questo stesso numero di Episteme) flbarb@tin.it ******* Il libro in questione ha come autore il Prof. Alberto Arecchi, specialista in storia dell'arte ed in storia medioevale in particolare del Pavese e fratello del grande fisico Tito. Il libro affronta la sempre aperta e controversa questione dell'esistenza o meno di Atlantide e della sua collocazione nel tempo e nello spazio. L'autore si basa oltre che su intuizioni ed argomenti personali su letteratura in buona parte di origine francofona e prodotta nel periodo fra le due guerre, quando le ricerche di geologia dei fondali marini misero per la prima volta in evidenza strutture sommerse di origine relativamente recente (dorsali oceaniche, etc.). Mancano invece riferimenti bibliografici a lavori più recenti dell'area anglofona, in particolare riferimenti a lavori che vedono l'evoluzione del pianeta Terra, anche in tempi recenti, non tanto come la conseguenza di lenti processi, sebbene di eventi catastrofici, anche di origine extraterrestre (ipotesi proposta da Velikovsky e poi ripresa da molti altri studiosi, fra cui il sottoscritto e l'Ammiraglio Barbiero). In tale contesto l'autore propende per una storicità del racconto platonico, spostandolo però assai più vicino nel tempo, a circa il 1300 AC, ed in una collocazione quasi mediterranea, ovvero nell'area nordafricana all'ingrosso nella regione della Tunisia. Ipotesi principale dell'autore è quella di un ponte di terra che avrebbe unito la Sicilia alla Tunisia, fatto che, legato anche ad una proposta connessione fra Sicilia e Calabria, avrebbe portato ad una divisione del Mediterraneo in due parti, di cui quella orientale avrebbe avuto un livello delle acque circa 300 metri più basso dell'attuale. Il travalicamento catastrofico delle acque del bacino occidentale in quello orientale sarebbe stato all'origine della catastrofe descritta da Platone. Le osservazioni mie sono le seguenti. - Le date e la collocazione platonica al di là delle colonne di Ercole, e di un Atlantico definito allora navigabile, sono perfettamente inquadrabili con l'epoca della terminazione brusca dell'ultima glaciazione, per cause probabilmente catastrofiche (impatto di cometa od asteroide, spostamento degli assi, collasso dei ghiacci…? Varie ipotesi si presentano per nessuna delle quali si ha una assoluta certezza). Tale scenario è stato sviluppato dal sottoscritto in un lavoro del 1984, era già stato considerato da Barbiero in un simile contesto, anche se con una diversa collocazione del centro della civiltà atlantidea (Antartide invece di Hispaniola), e vi è pure indipendentemente pervenuto Collins (che propone Cuba, e che anche appare nel film "Atlantis", dove anche il sottoscritto sarebbe dovuto apparire se problemi di email non avessero interferito). Quindi ritenere "uno zero" in più come errore fondamentale nella datazione platonica non è una necessità e l'attraversamento dell'Atlantico non è da considerarsi un problema anche per tecnologie antiche, come dimostrato dai viaggi di Heyerdahl.


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- E' importante nell'approccio di Arecchi un livello –300 metri del mare per il Mediterraneo orientale. Ora tale valore sembra eccessivo, in particolare in quanto solo nel 9500 AC circa si è avuto un sostanziale aumento del livello marino (forse 120 metri, certo non 300) ed è ormai certo, come può vedersi dai molti dati presentati nel recente libro di Oppenheimer "Eden ad Est", che nel periodo successivo alla fine della glaciazione il livello dei mari ha avuto sì una serie di variazioni ma generalmente di meno di 10 metri ciascuna, in positivo o negativo. Inoltre la città di Byblos è antichissima, risale almeno al 3000 AC, ed in essa ci sono strutture portuali antiche, antecedenti il 1300 AC, le quali di certo non avrebbero potuto servire un porto se il livello del mare fosse stato 300 metri più basso. Ci sono state certo molte catastrofi, Platone parla di tre grandi (queste ritengo associate a variazioni dell'asse terrestre, anche inversioni), di cui la prima quella di Atlantide (la cui datazione a circa il 9500 AC mi sembra la migliore) e l'ultima quella di Deucalione e Pirra, che personalmente vedo come sopravvissuti all'ultimo grande diluvio, quello cosiddetto Noachide, dove sopravvissero, a mio parere, Noè, sul monte Judi circa 30 km a sud dell'Ararat, Ziusudra-Zoroastro, sul monte Nimush = Anye Machen, Manu (Mannu in Tacito) su Montisola, e i detti Deucalione e Pirra, in località che al momento non riesco ad individuare. Dato tale evento al 3171 AC, esattamente 590 anni dopo l'inizio del calendario ebraico, databile con l'unzione di Noè come sacerdote dell'ordine di Melchisedek (Malik Sadok, principe saggio), da parte di Matusalemme… Altre successive catastrofi attorno al 2200, 1629,1447, 701… AC, ultima grande nel 536 DC, con la catastrofica esplosione che ha formato Giava e Sumatra dividendo una grande isola, vedasi gli annali dei re di Giava….

(Emilio Spedicato - per informazioni sull'autore, si rimanda al suo articolo contenuto in questo stesso numero di Episteme) emilio@unibg.it


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11500 anni fa... Atlantide nel mito platonico (Rosario Vieni) La fama del mitico continente di Atlantide si deve a due dialoghi di Platone: il Timeo e il Crizia. In essi il filosofo greco (Timeo, 24e-25abcd; Crizia, 108e-109a), in maniera agile e succinta prima, più dettagliata poi (nel Crizia) racconta di Atlantide quanto gli è pervenuto dalla tradizione e dalle fonti. La narrazione appare evanescente come può esserlo il fantasma di qualcosa che non è più, ma solo in apparenza; a ben guardare, ci sono degli elementi che in maniera indubbia possono esserci di aiuto per dire qualcosa in più su cotesta vexata quaestio. Per secoli i commentatori hanno preso per certo che al di là delle Colonne d'Ercole stesse a significare oltre lo stretto di Gibilterra. Noi, dopo aver riletto attentamente Platone, siamo certi che le cose stanno diversamente; e ne chiariremo il perché. Cominciamo dal Crizia. Si fa allusione ad un'età di ben 9000 anni anteriore a quella dell'Autore, e questi dice: "… isola di Atlantide, la quale, come dicemmo era a quel tempo più grande della Libia e dell'Africa, mentre adesso, sommersa dai terremoti, è una melma insormontabile che impedisce il passo a coloro che navigano da qui per raggiungere il mare aperto, per cui il viaggio non va oltre." E' innanzitutto interessante notare la premessa che fa il filosofo; dice a quel tempo (pote − ποτε), quasi anticipando un giudizio di visibilità che diviene evidente poi in mentre adesso. Ma non è questo il punto di maggior interesse. V'è infatti quel meizo (µειζω) che non significa necessariamente più grande ma semplicemente più potente; ciò anche alla luce di quanto dice nel Timeo quando afferma che quella potenza invadeva tutta l'Europa e l'Asia. D'altra parte il gr. megas (µεγας) si deve far risalire alla radice sscr. mag/meg da cui deriva anche machomai (µαχοµαι) che vuol dire "combattere", e questa a sua volta, in maniera agglutinata, ad un men+ago (µεν + αγω)che ci chiarisce, se mai ve ne fosse bisogno, che il combattere è attività tipica ed onorevole dell'uomo. Lo stesso Alessandro fu detto "grande" non per la sua statura, ovviamente, ma per le belle imprese che riuscì a compiere. Per cui va ridimensionata l'immagine di un'isola che a tutti appariva enorme e che ha fatto scaturire, nel tempo, le ipotesi più fantasiose (peraltro, è sufficiente analizzare le dimensioni che dell'isola ci offre lo stesso Platone). V'è poi un dato di un certo interesse: mentre adesso, sommersa dai


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terremoti, è una melma insormontabile… . Già ai tempi di Platone, quindi, era ancora possibile scorgere tracce di quanto era accaduto e di ciò che restava di quell'isola. Questo è importante, e la lingua del filosofo rispecchia fedelmente, ricostruisce, testimonia, descrive con esattezza, se non l'esatta ubicazione che noi pigri lettori moderni facciamo dei testi antichi, almeno la sua collocazione nell'alveo del Mediterraneo, di quel grande pantano su cui s'affacciano come rane sì tanti popoli. Platone dice esattamente: che impedisce il passo a coloro che navigano da qui per raggiungere il mare aperto (epi to pan pelagos − επι το παν πελαγος): meglio sarebbe rendere anche il pan (παν), con "in ogni direzione". Bisogna qui sottolineare intanto che per indicare il mare Platone usa, nei passi su citati, tre termini solo apparentemente simili: uno, generico, thalatta (θαλαττα); poi pelagos (πελαγος) ad indicare il mare aperto; infine pontos (ποντος) per designare un mare delimitato ed atto al piccolo cabotaggio. E non a caso in primo termine, primigenio, è femminile e indicativo dell'umore materno e uterino; l'ultimo maschile in corrispondenza con l'agire dei naviganti ellenici e non che osarono sfidare le acque e le incognite di nuovi viaggi; il secondo neutro perché è e rappresenta il segno della divinità e del mistero insondabile oltre l'orizzonte visibile. Orbene, nel passo in questione Platone parla di mare aperto, segno che si vuole mettere a confronto il mare interno, ad es. l'Egeo o altri mari interni, da cui era possibile con il piccolo cabotaggio raggiungere ogni isola ed ogni terra vicina con un altro mare, ben più vasto e aperto, senza riferimenti visibili immediati, cui alcuni ingenuamente oggi assegnano il nome di "oceano". Bisogna subito affermare, a scanso di equivoci, che tale termine " oceano" è tutto nostro, e che sarebbe errato leggere il passato alla luce dei nostri attuali parametri conoscitivi e simbolici. Alla stessa maniera, cercando di individuare quale poteva allora essere considerato ponto e quale mare aperto, vedremo di far luce su un altro problema che pare qui basilare: quello relativo alla denominazione di colonne d'Ercole. Per tornare un momento a quanto abbiamo appena detto, relativamente al termine "oceano", traducendo il Timeo, taluni (qui ci basti ricordare il testo tradotto di Enrico V. Maltese) dicono espressamente procedendo dal di fuori dell'Oceano Atlantico (pelagous − πελαγους)... Ovviamente sbagliano. Ma ci sia concesso, ora, fare un piccolo salto prima di ritornare al nostro immediato problema. Quando si leggeva, ai miei tempi, l'Odissea di Omero il nostro insegnante ci teneva a sottolineare, lui siculo, che parlando della Trinacria il Poeta volesse alludere ovviamente alla Sicilia. Anche in quel caso, nulla di più errato. O meglio, non si teneva conto della stratificazione onomastica dei poemi omerici; e se ciò era evidentissimo per l'Iliade (anche per altre ragioni strutturali), comunque valeva anche per l'altro dei due poemi: sicché giustamente Luigi Pareti (in Sicilia antica) potè poi chiarire la cosa affermando che per Trinacria doveva intendersi il Chersoneso tracico. Ed aveva ragione, in quanto ai naviganti d'allora questo sì che appariva dal mare come un promontorio a 3 punte, mentre per la Sicilia, e in mancanza di carte nautiche, la cosa sembra assai inverosimile; e poi anche perché le prime stazioni del profugo Odìsseo dovevano cercarsi in quel mare interno, e solo in un secondo momento fuori. A tal riguardo ci torna utile sottolineare che così come la guerra di Troia documenta, poeticamente, lo scontro frontale e periodico fra due culture e il tentativo di espansione ad est degli Elleni, alla stessa maniera il viaggio, o ritorno, degli Ulissìdi altro non è che la cronaca dell'espansione pre-greca e poi greca degli Elleni, prima verso est e di poi, ed in misura più consistente, verso ovest; non a caso sono state trovate tracce evidenti del loro passaggio in tutti i punti toccati da questo antico e "tormentato" popolo. Ora, anche per le colonne d'Ercole noi crediamo che sia giunto il momento di cominciare a fare chiarezza. Intanto diamo uno sguardo al livello submarino del Mediterraneo, e cerchiamo con le isobate di tacciarne un profilo abbastanza evidente. Quando ero laureando a Messina, nella mia vecchia tesi sugli Arvali (acquisita poi agli Atti dell'Accademia dei Lincei) mi provai a tracciare una mappa di ciò che presumibilmente c'era fra la Grecia e la Turchia alla


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fine della glaciazione del Wurmiano. Ciò, allora, sulla scorta del mito di Deucalione e Pirra; ma la cosa fu assai interessante perché ne veniva fuori che tutte quelle che adesso appaiono come isole allora altro non erano che le cime di una enorme isola posta fra le due terre. Mi è oggi di consolazione leggere, nell'ultimo libro di Castellani, che lo studioso addiviene alla medesima conclusione: anch'egli dall'analisi delle isobate, come io allora avevo fatto (cfr. p. 51 - Figg. 1 e 2). Ora, se si analizzano i fondali del Mediterraneo (nonostante quanto hanno potuto fare le correnti in questo lasso di tempo), si possono scorgere cose d'un certo interesse. Intanto, a quel tempo e durante l'ultima glaciazione del Wurmiano, il livello del Mediterraneo si abbassò presumibilmente almeno di 100 metri, o forse anche di 200; ciò dovette essere sufficiente a ridisegnare la linea delle coste. In alcune zone ciò non diede eventi di particolare rilevanza, ma in altri modificò le coste e rese più vicine alcune terre. La cosa dovette essere abbastanza rilevante nella parte mediana del nostro mare, tant'è che Sicilia e Calabria (l'attuale Calabria, ovviamente) divennero assai vicine, e così altrettanto avvenne sulla costa meridionale dell'isola. Ora del collo dell'imbuto, per dir così, assai più stretto fra Scilla e Cariddi abbiamo testimonianza anche nei poemi omerici: i due mostri riescono ad ingoiare i compagni di Ulisse e a distruggerne le navi per via del moto di flusso e riflusso dei due mari (Jonio e Tirreno), il cui livello doveva essere, anche, necessariamente diverso. La cosa accadeva anche per altra ragione, ed è giusto che qui venga sottolineata. Per quel che sappiamo, l'isola si allontana dall'Italia ad un ritmo di ca. 4 cm. l'anno. Se a quanto sopra dicevamo si aggiunge anche quest'elemento (ed è facile moltiplicare 4 per 3 millenni all'incirca: si ottiene una cifra di 120 metri), allora le cose cominciano ad apparire diversamente. Si potrebbe obiettare che 120 metri in fondo son poca cosa; ma noi abbiamo tenuto intanto conto dell'attuale moto di scorrimento della zolla, e non è da escludere che in passato tale moto fosse più veloce; ma, comunque, anche quei 120 metri aggiunti al decrescere del livello delle acque sarà stato assai incisivo e significativo. Lo Stretto, allora, era assai più "stretto" e pericoloso per i naviganti. Da qui il mito di Scilla e Cariddi. Ora, per tornare al nostro assunto, nella parte meridionale dell'isola un abbassamento del livello marino potrebbe aver portato alla luce un vasto bassofondo tale da unire la Sicilia a Malta e l'avvicinamento della linea di costa fin quasi alla Tunisia, lasciando appena uno spazio di appena una ventina di chilometri o poco più. Che i fondali, là, siano più bassi e sabbiosi lo dimostra l'osservazione diretta. Ancora oggi, nonostante l'azione e l'erosione delle correnti, a chi si avvicina all'aeroporto di Tunisi diviene visibile dall'alto una vasta zona di secche e di fondali bassissimi che caratterizzano tale antica piattaforma continentale. Ma su ciò ritorneremo più avanti. Continuiamo ad analizzare il testo platonico. Quindi, procedendo dal di fuori del 'pelago' atlantico Atlantide invadeva tutta l'Europa e l'Asia. Allora infatti quel mare era navigabile (segno, questo, che ai tempi di Platone - o di chi gli ha raccontato la vicenda- non lo era più), e davanti a quella imboccatura…Eccola finalmente! Proprio davanti a quella imboccatura (le presunte colonne d'Ercole) c'era l'isola di Atlantide. E da quella era possibile raggiungere le altre isole…e dalle isole a tutto il continente opposto che si trovava intorno a quel vero mare (peri ton alithenon ekeinon ponton − περι τον αλιθηνον εκεινον ποντον). Ecco la prima segnalazione distintiva. Si tratta di un mare interno, ma per la profondità e la pericolosità appare al filosofo, ed alle genti del tempo, come una mare vero e proprio. E qui si trovava Atlantide. E' la prima indicazione sufficientemente circostanziata. Ma davanti a quella imboccatura significa "al di qua" o "al di là" di tale imboccatura? L'unica possibilità che abbiamo, alla luce delle indicazioni del filosofo, è che le colonne d'Ercole altro non erano che lo stretto braccio di mare fra la costa sud-orientale della Sicilia e quella della Tunisia. Una ventina appena di km; o forse meno.


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Spiridon Marinatos amava credere che Atlantide fosse Santorini. Ma ciò non è testimoniato da Platone, in quanto questi ci dice più avanti che i re dell'isola governavano le regioni della Libia che sono al di qua dello stretto sino all'Egitto, e l'Europa sino alla Tirrenia; segno che tale stretto doveva trovarsi a ridosso della Libia, nella sua parte centrale; e poi sarebbe stato oltremodo strano che a combattere le genti dell'Ellade fossero popoli che stavano in un territorio a ridosso dell'Ellade. Questo è il passo più significativo di tutta la descrizione. Ma ci ritorneremo. Infatti - continua - tutto quanto è compreso nei limiti dell'imboccatura di cui ho parlato appare come un porto caratterizzato da una stretta entrata. Anche questo particolare è degno di nota: non si tratta di un semplice 'passo', uno stretto, o, come vorrebbero tutti, dell'odierno Stretto di Gibilterra, in quanto all'interno di esso appare come un porto (limen − λιµην) caratterizzato da una stretta entrata. Poi continua: quell'altro mare, invece, puoi effettivamente chiamarlo mare e quella terra che interamente lo circonda puoi veramente e giustamente chiamarla continente. Qui già comincia ad apparire l'effettiva localizzazione, se non di Atlantide, almeno dello stretto in questione e delle terre che lo circondano. L'allusione è chiara: ci si riferisce alla zona, indicata dalla cartina 2, che sta fra la Sicilia e la Tunisia. Abbiamo uno stretto, ed abbiamo un porto naturale; quindi un mare che, se pure interno, è vero mare ed una terra che interamente lo circonda e che si può definire continente. Anzi, le Colonne d'Ercole non sono il punto più vicino fra Sicilia e Tunisia bensì uno stretto budello che doveva esserci all'altezza dell'isola di Malta e che racchiudeva, assieme all'altro, quel porto naturale di cui parla il filosofo. Ma questi non si ferma qui. In quest'isola di Atlantide… dinastia regale che dominava tutta l'isola e molte altre isole e parti del continente: inoltre governavano le regioni della Libia che sono al di qua dello stretto sino all'Egitto, e l'Europa sino alla Tirrenia… (pros de toutois eti ton ntos tede Libues men erchon mechri pros Aigupton, tes de Europes mechri Turrenias... − προς δε τουτοις ετι των εντος τηδε Λιβυες µεν ηρχον µεχρι προς Αιγυπτον, της δε Ευρωπης µεχρι Τυρρη νιας). Ne vien fuori che, dal punto di vista fisico di un greco che vive nel cuore dell'Ellade, esiste uno stretto oltre il quale c'è Atlantide e che questa dominava…le regioni della Libia che sono al di qua di tale stretto; quindi l'antica Libia, ovvero l'Africa del nord, si estendeva al di là e al di qua di tale stretto. Infatti appare ovvio che, se si intendono le colonne d'Ercole per l'attuale Gibilterra, dire le regioni della Libia che sono al di qua etc…sarebbe stato tautologico, eccessivo, sovrabbondante, inutile e superfluo; perché si trovano effettivamente al di qua di Gibilterra; né si può affermare che Platone intendesse alludere a quella parte dell'odierno Marocco che sta oltre Gibilterra, in quanto la descrizione è ben delimitata geograficamente: …al di qua dello stretto fino all'Egitto. Ed allora è come se avesse detto: "nella parte centrale sino all'Egitto". Del resto, se Atlantide era così potente come giustamente dice il filosofo e visto che stava oltre le colonne d'Ercole, come mai avrebbe dovuto estendere la sua dominazione solo al di qua e non anche "al di là"? Gli è che egli vuol mettere in evidenza i quadranti su cui tale dominio si estendeva: dalla Tunisia all'Egitto, e dalla fenicia Europa sino alla Tirrenia; e cioè che Atlantide aveva la propria sfera d'influenza sull'attuale Maghre'b orientale (ovviamente per dominare i traffici commerciali che proprio là erano fiorentissimi) e poi sulla parte più ad est del Mediterraneo, e poi su su fino alle zone dell'Asia Minore che non erano state ancora colonizzate dagli Elleni. Questi erano allora relegati a nord di Creta, nell'Egeo, e da qui fino all'Ellesponto. Ma ritorniamo al Crizia. Qui (108e) si legge: …erano 9000 anni da quando, come si racconta, scoppiò la guerra tra i popoli che abitavano al di là rispetto alle Colonne d'Ercole e tutti quelli che abitano al di qua; e questa guerra bisogna ora descriverla compiutamente. Va sottolineato, qui, il tutti quelli che abitano al di qua (tois entos pasin − τοις εντος πασιν) del testo. Qui l'Autore intanto vuol mettere in evidenza come ci fosse stata un'enorme


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coalizione di tutti i popoli del Mediterraneo orientale, massime gli Elleni, per contrastare coloro che, guidati dagli Atlantidi, volevano conquistare anche quella parte del mondo allora "visibile". In quanto ai popoli che abitavano al di là rispetto alle Colonne d'Ercole è assurdo pensare, credere, ipotizzare che Platone volesse alludere… a chi?, agli Amerindi forse? Perché non si limita a dire "gli Atlantidi", ma tutti i popoli etc. etc.; ed allora tale coalizione contro gli Elleni, guidata dagli abitanti di Atlantide, doveva forse essere formata da "Americani", Cubani, abitanti di Vattelapesca e così via? Certo che no!, e la cosa mi pare fin troppo evidente per spenderci altro tempo. La descrizione dell'isola la troviamo poi più avanti (113c sqq.). Vi si legge che la parte centrale dell'isola di Atlantide, là dov'era la città del maggiore dei 10 re, intanto aveva un diametro di appena 5 stadi, ovvero di poco meno di 1000 mt (essendo la stadio att. di 177,60 mt); che attorno a questa città si fecero correre 5 cinte difensive, tre d'acqua e due di terraferma; che oltre tale cintura v'era una pianura che si estendeva sui due lati per 3000 stadi e per 2000 dall'ultima cinta fino al mare; che vi era abbondanza di fauna, e fra i tanti animali pure l'elefante. V'è poi un altro riferimento geografico: la parte più importante guardava verso il mare (aperto), mentre sull'altro lato essa guardava verso la regione Gadirica. Qui bisogna procedere con maggiore attenzione. I più intendono, per avvalorare l'ipotesi Colonne d'Ercole = Gibilterra, "nei pressi di Cadice". Il fatto è che Platone dice molto semplicemente il fratello (scil. di Atlante) gemello nato dopo di lui, che aveva ricevuto in sorte l'estremità dell'isola verso le colonne d'Ercole, di fronte alla regione oggi chiamata Gadirica (epi to tes Gadeirikes nun choras - επι το της Γαδειρικης νυν χωρας) dal nome di quella località, in greco era Eumelo (Eumelon − Ευµηλον), mentre nella lingua del luogo Gadiro, il nome che avrebbe appunto fornito la denominazione a questa regione. Non dice, difatti, presso e neppure nelle vicinanze; dice solamente verso; il che significa solo che era rivolta verso quella regione che, per qualche motivo, doveva essere assai nota; ma ciò prescinde dalla nozione di vicinanza, ovviamente. Interessante il nome greco di Gadiro che è, come s'è visto, Eumelon. Esso (cfr. melas, µηλας ma in Hom. - H104 − melopa, µηλοπα "couleur de coing"(1)) ci indica come gli Elleni avevano denominato il fratello di Atlante; inoltre se si analizza l'etimo del nome che apparentemente non è greco, come dice Platone, e cioè Gadiro (Gadeiron - Γαδειρον), e quindi quello della regione Gadirica, ci si accorge che esso ci richiama pure ad un etimo greco: abbiamo difatti un ga (γα − terra) e un deiras / deire (δειρας / δειρη − sscr. drsat) (collo, roccia, giogo, catena, collana). La prima voce è chiaramente dorica, e questo la dice lunga sull'antichità del termine (altrove abbiamo dimostrato come la prima discesa dei Dori debba collocarsi intorno al 16° sec. a.C.) (2) ; la seconda ci richiama alla probabile conformazione del territorio governato da tale Gadiro: "Una striscia di terra" o "una collana di isole". Potrebbe essere, questa, una valida ipotesi, anche al fine di localizzare il punto esatto di Atlantide. Non di certo Cadice. Ci sarebbe poi, in analogia col nome gr. Eumelo, la possibilità che Gadiro volesse anche significare "dal dorso colore della terra". Non è la prima volta, difatti, che l'etimo di un termine sia doppio, ambivalente; che racchiuda in sé, cioè, tutta la strana magia della parola. Insomma, tutto concorda a designare la zona da noi indicata come l'unica possibile per identificarvi il sito dell'antica Atlantide. Che poi la fantasia degli uomini e degli scrittori abbia fatto di tale terra un luogo arcano dello spirito e il rifugio ultimo dei sogni, ebbene questa è altra cosa che esula ovviamente dalla ricerca e dall'analisi del testo. A noi basta quanto lo stesso Platone ci dice. E non è poco.


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(Figura 1)

(Figura 2)

Bibliografia: Platone, Timeo e Crizia, a cura di Enrico V. Maltese, Newton C. ed., Roma, 1997. Fra le fonti antiche: Omero, Esiodo, Euripide, Teopompo, Diodoro Siculo, Plutarco, Strabone, Plinio, Dionigi di Mitilene, Pomponio Mela, Marcello, Arnobio, Macrobio, Eliano. A. Arecchi, Atlantide. Un mondo scomparso, un'ipotesi per ritrovarlo, Ed. liutprand, Pavia, 2001. P. Benoit, Atlantide, 1919. V. Castellani, Quando il mare sommerse l'Europa, 1999. G. D'Amato, Platone e l'Atlantide, 1990.


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R. Ellis, Atlantide, Ed.Tea, Milano, 1998. J.V. Luce, La fine di Atlantide, 1976. B. Martinis, Atlantide: mito o realtà, 1989. O.T. Much, I segreti di Atlantide, 1979. G. Perrone, Atlantide, leggenda e testimonianze, 1928. R. Pinotti, I continenti perduti, Mondadori, Oscar Saggi, 1995.

Note: (1) P. Chantraine, La formation des noms en grec ancien (p. 258). (2) R. Vieni, La lingua dei Micenei, Cz, 1990.

----Rosario Vieni è nato a Messina nel 1942, vive attualmente a Pistoia. Ha insegnato per 39 anni nei Licei, e nel 92-93 è stato ricercatore all'Università di Siena (su comando). Traduttore dei Lirici greci e di Virgilio, ha pubblicato col CNR un saggio sulla Lingua dei Micenei (90) in cui propone una nuova lettura dei testi in Lineare B e di un libello sul Disco di Festo. Ha partecipato al II Congresso Internazionale di Micenologia (91) come delegato del Presidente del CNR, e nel 98 è stato chiamato a partecipare al III Congresso Internazionale di dialettologia neoellenica, dove ha presieduto alla fase finale dei lavori (Chalimnos/Rodi) (cfr. Atti dell'Università di Atene, 2000). E' stato citato da Harald Haarmann in un testo apparso a Berlino e a New York, e al suo lavoro si fa riferimento sulla rivista dell'Università di Madison nel Wisconsin (del Dipartimento diretto da E.Bennett). r.vieni@tin.it


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Gli "Adelphi" della Dissoluzione Strategie culturali del potere iniziatico (Maurizio Blondet) (Ed. Ares, Milano, 1994 e 1999) "Non avrà bisogno di me per indirizzare le sue riflessioni su quel che nel dopoguerra ha consentitola stabilità di un certo potere: la confrontation tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Confrontation che non significava affatto inimicizia, ma un limitato containment, che era, nello stesso tempo, un sostenere l'avversario a cui si dichiarava di opporsi. Vulgus vult decipi, caro amico, ergo decipiatur; gli Iniziati non mancano di umorismo." (op. cit., I ed., p. 246)

Nel sito del curatore di questa rivista si citano spesso Maurizio Blondet, e la sua "metodologia storiografica" controcorrente, che non cede alla diffusa pratica (intimidatoria) di considerare politically uncorrect analisi di eventi storici del tipo cosiddetto "dietrologico" (si dovrebbe dire in realtà, semplicemente, causale), anzi le fa oggetto primario d'attenzione. Così si trova scritto per esempio in sede di presentazione della serie Complotti: "Può la "complottistica" assurgere a dignità scientifica? Può diventare una disciplina congetturale, superando la barriera della pura fantasia o della dietrologia? [...] Blondet analizza alcuni scenari del mondo occidentale [...] ricostruendo con passione e rigore il puzzle dei grandi intrighi internazionali. Un gioco a incastro, che va al di là della semplice fantapolitica per collocarsi in una zona grigia, dove verità e congettura si saldano in un quadro affascinante e insieme denso di inquietudini - Il lato oscuro della storia contemporanea, un mosaico di misteri che nessuno ha mai analizzato".


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Tra le opere più significative di Blondet in tale direzione è da annoverarsi senz'altro la già citata serie (vol. I: I fili invisibili del mondo - Stati Uniti, Gran Bretagna; vol. II: I fili invisibili del mondo - Europa, Russia; vol. III: Genocidi, eresie, nomenklature; Ed. Il Minotauro, Milano, 1995, 1996, 1997), oltre a I fanatici dell'Apocalisse - L'ultimo assalto a Gerusalemme (Ed. Il Cerchio, Rimini, 1993), ma quella di maggiore impatto ci appare indubitabilmente la straordinaria Gli "Adelphi" della dissoluzione - Strategie culturali del potere iniziatico*. Si è ritenuto allora di far cosa utile al lettore presentando sulle pagine di Episteme, a mo' di anomala recensione, alcuni commenti ad essa dedicati, tanto di apprezzamento che di segno contrario, a riprova che si tratta di un lavoro che non manca certo di far riflettere, e discutere. All'ampia "memoria" (anche personale, un flusso impetuoso di considerazioni e ricordi!) elogiativa di Arcangelo Papi, segue infatti un commento di Bruno d'Ausser Berrau di valenza del tutto opposta: i due scritti offrono nel complesso un mosaico variegato di opinioni su una delle intraprese di maggior "passione civile", ma non solo, nel panorama della nostra attuale tiepida storiografia. * Non è forse superfluo sottolineare che il termine "Adelphi" prende origine contingente dalla discussione della gestione, e della politica editoriale, di una piccola (nel panorama planetario che viene in realtà analizzato) e ben nota casa editrice italiana, ma che esso assume ovviamente presto, per traslato, contorni assai più ampi, finendo con il riferirsi a "fratelli" intesi in senso generale, quali membri di una (ogni) particolare "confraternita" con connotati "esoterici" (e qui val la pena di precisare che l'ultima qualificazione concerne soltanto la speciale forma organizzativa "riservata" di talune "associazioni", indipendentemente dai "contenuti" specifici che con tale "pratica" si vorrebbero salvaguardare...).

(UB) *******

Gli "Adelphi" della Dissoluzione (Arcangelo Papi) 1. Il Prof. Umberto Bartocci - in uno slancio di generosità nei miei confronti, mi ha chiesto una "recensione" (sic!) de "Gli 'Adelphi' della dissoluzione", il bellissimo ed anche sconvolgente libro di Maurizio Blondet (per chiarire subito tutto il mio apprezzamento). Uscito alla fine del 1994, presso le Ed. Ares di Milano (e ripubblicato nel 1999, in veste accresciuta e con postfazione dell'Autore), fu allora un'attenta lettrice, persona a me cara, a segnalarmi la prima edizione di questo saggio di Blondet, scrittore cattolico di grande spessore e non nuovo a libri di qualità. Possedendo soltanto la prima edizione del saggio, su questa mi baserò, anche per le citazioni ed i rinvii, del resto necessari in un testo di così rara complessità. Senza dubbio, la pubblicazione, nel 1999, del libro del Prof. Bartocci dedicato al "caso De Pretto", in cui si citano i lavori di Blondet, fu uno stimolo a riaccostarmi ad essi, per una rilettura più attenta, trascorsi ormai alcuni anni. E' bene chiarire in anticipo agli avvertiti lettori di "Episteme" che si imbatteranno in queste pagine, che una recensione vera e propria (nel senso di "giudizio critico") è compito da esperti, critici o letterati, appartenenti allo stesso genere dell'autore, la cui opera si intende presentare (anche se fortunatamente, per Blondet, non sussiste questa necessità). Paradossalmente, si tratta, invece, in questo caso, del più semplice apprezzamento di un comune lettore, che del resto non vanta prerogative e credenziali di sorta, per quanto tutt'altro che insensibile al fascino della "verità", e che (ben inteso come singola e limitata


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persona) si ritiene per di più "testimone" (secondo privata esperienza di vita, come verrà chiarendosi nel seguito), di alcuni aspetti "lato sensu" riconducibili a delimitati momenti dell'assai articolato intreccio di questo libro oltremodo suggestivo. Senza per questo voler togliere nulla alla straordinaria e sconvolgente ricchezza dell'"arcano affresco" (mi si passi l'espressione) di Blondet, che su piani diversi e distinti si dispiega, capitolo per capitolo, in una serrata trama di esplosive relazioni e rivelazioni, tracciata da una eccellente e profetica penna, che a tratti appare quasi intinta nel sangue stesso delle cronache che oggi ci circondano (con uno sviluppo eccezionalmente ricco e complesso, che ripercorre una estrema varietà di personaggi, di temi e di contenuti, in stretta connessione tra loro e sull'impervio sfondo di una sotterranea "realtà" inquietante al massimo grado), mi auguro di non apparire inappropriato e fuor di luogo se sotto pelle farò qua e là cenno a qualcosa che appartiene a me soltanto, alla mia privata memoria e alla mia storia personale, che nulla avrebbe a che vedere con il libro di Blondet, se non fosse che si tratta di echi ed evocazioni, riaffioranti nel "lettore", che pure qualcosa poté cogliere coi propri occhi in anni oggi lontani.

2. Il saggio prende le mosse da una sconvolgente ed assai significativa intervista al "filosofo nero-barbuto" Massimo Cacciari (capitolo I), in una Venezia (del resto metafisica) che fuori "si sfaceva nel suo mare fecale, sotto il cielo grigio", mentre nella "tersa stanza" di Cacciari, costellata di libri, veniva evocato il "katéchon", ciò che letteralmente trattiene l'Anticristo dal manifestarsi pienamente. Insieme a Roberto Calasso, eminenza della "Adelphi", intesa da Blondet come "casa editrice" della "mano sinistra", Cacciari è una delle figure principali del saggio stesso, quanto meno il traghettatore verso atmosfere molto più dense e misteriose. Ma, come avverte Blondet: "Attenzione, questo libro non parla di un complotto; parla di teologia" (pag. 19). E' perciò in questa chiave, del resto suggerita dall'Autore stesso, che si indirizza la mia personale "lettura", che tuttavia, per forza di cose e malgrado tutto, non potrà risultare né completa, né soddisfacente, se mai soltanto una visione personale, stante l'estrema ricchezza ed arditezza del testo, e derivandone, di necessità, più d'una rimarchevole omissione, pur nello sforzo di far affiorare una unità di fondo, raccolta, se possibile, in tanta vastità di materia, che sembra ribollire dalle più infuocate viscere del male assoluto, colto da Blondet in "flagranza di reato" nella sua vasta e radicata opera dissolutrice, che peraltro risalirebbe a più lontano che non il secolo che appena ci siamo lasciati alle spalle.

3. Si tratta certamente di un saggio vero e proprio (non di un "romanzo" - cfr. bene pag. 222, capitolo XXI, per la provocazione, in questo senso, da parte di un Innominato, autorevolissimo "personaggio", "seduti al tavolino di un bar a Wiesbaden"). Quanto a me, oserei dire scritto con "spirito sacro", se non proprio con ansia profetica; dove, in sostanza, si contrappongono e fronteggiano il Paraclito (o Paracleto) e l'Anticristo. O, se vogliamo, lo "Spirito Santo"(quello stesso del "Veni Spiritus" intonato in gregoriano), contrapposto al "numero" della "bestia", che starebbe divorando il mondo. Afferma, testualmente, Blondet (pag. 17): "Questo libro è in qualche modo, il risultato della ricerca di quell'idea che mi sfuggiva (si riferisce ai contenuti evocativi dell'intervista-colloquio con Cacciari, che apre il saggio stesso)."Una ricerca - prosegue - che mi ha orientato dapprima verso la casa editrice Adelphi, presso cui Cacciari pubblica i suoi libri. Dell'Adelphi sapevo ciò che tutti vedono: che questa editrice tenacemente recupera per così dire "a sinistra" autori dell'irrazionalismo reazionario, del "sacro" e della "Tradizione", che prima erano letti soltanto in ristretti ambienti della "destra": da Guénon a Simone Weil a Bhome, da Coomaraswami a Gurdjieff". Ma


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l'Adelphi ha una genealogia. Risalire questa genealogia, significa imbattersi in personalità, circoli, storie che si situano tutti - sia caso, deliberata volontà o inclinazione culturale - in una singolare faccia oscura, che si dovrebbe definire esoterica, della storia recente". "Spiegare che cosa si muova in questa faccia oscura è difficile anche solo da enunciare". Dunque, Blondet, colpito da certe parole di Cacciari, che possono anche nascondere ben altro di più arcano, remoto ed inquietante - alle quali è costretto a ripensare quasi a caldo (in treno, nel viaggio di ritorno a Milano) - scorge l'ombra cupa di una luna nera, il profilo di una Lilith stagliarsi all'improvviso, un'oscura divinità, (sono queste le Sue parole) "Kali o un dio-femmina", che ridonda poi in Dioniso, nella Shakti, o nell'Anticristo, e adddirittura nei riti del sangue, da quello del culto azteco del "Dio scuoiato" - cuori strappati con coltelli di ossidiana - fino a "Il silenzio degli innocenti": metafore e non solo tali, del pensiero della "dissoluzione ", che sembra aver infettato come un virus demoniaco le basi stesse di una "cultura" che si protesta tale (di "sinistra", e viene qui in mente il rito romano della "fiducia", la "iunctio dexterarum"). In questa "ricerca" di sotterranee e celate "relazioni ", si spende tutto il ben riposto talento polemico di Blondet, che esplode nello scandalo portentoso della rivelazione del male assoluto. Si viene così componendo l'"arcano affresco" di una invisibile dialettica dello "spirito" di tutte le "negazioni", colto nella sua opera distruttrice. "Shiva, Kali, Dioniso esistono: sono numina, forze che dormono nella psiche, nel sesso, nel corpo. Il loro silenzio secolare - mai completo, del resto - non inganni: come sapeva Plutarco, "desinunt isti, non pereunt". "Vanno risvegliati, e torneranno a compiere stragi" (pag. 19). E' sul filo dell'Anticristo (identificato, al limite del paradosso, col Paraclito: cfr. Léon Bloy, pag. 211 qui apprendiamo, infatti, che "I cristiani saranno prodighi verso il Paraclito di ciò che è al di là dell'odio. Egli è talmente il Nemico, talmente l'identico a quel Lucifero che fu chiamato Principe delle Tenebre, che è quasi impossibile separarli. "Chi può comprendere comprenda""), che risalta in effetti il motivo conduttore di questa coraggiosa ricerca, tutt'altro che visionaria, anzi rivelatrice delle oscure trame della dissoluzione che, come anticipato, arrivano persino a toccare, partendo dalle radici stesse della cultura occidentale (del resto "decidere" è come uccidere), accanto ai moderni riti "woodo" della psicanalisi ("eros" e "tanatos" a braccetto come Dioscuri) e ad una certa variegata cultura della "mano sinistra" della dissoluzione meglio articolatasi in quest'ultimo secolo, persino "sacrifici umani" e "cuori strappati" (con allusione diretta all'immagine al Sacro Cuore di Gesù), nel "mysterium" apocalittico della vita-morte, compreso il film "Il silenzio degli innocenti" e la stessa interprete femminile Jodie Foster. Evocazioni metaforiche, queste, di quanto già accade o potrebbe accadere nei tremendi guasti della nostra civiltà attuale, che è anche "storia" del "pensiero" e delle sue "perdizioni". Quanti livelli di "realtà" coesistono? "Verità" così profonde, così "terribili", non le trovereste mai e poi mai ad es. - lo affaccio paradossalmente ne "Il provinciale" di Giorgio Bocca (settant'anni di vita italiana) o in "Atlante italiano" di Alberto Ronchey, tanto per citare due saggisti più che attenti e competenti, e due loro opere tra le tante da essi scritte, di carattere completamente diverso dal saggio di Blondet (la prima un diario di vita politica e sociale ripercorso attraverso la propria memoria e la seconda un saggio illuminato sulle questioni che rendono particolare il caso Italia). Ma se scorrete "La sera andavamo a Via Veneto" di Eugenio Scalfari (grande personaggio mediatico, citato da Blondet a pag. 144) ritroverete soltanto Mattioli da vivo, e non la sua tomba a Chiaravalle, nel sepolcro che ospitò un'eretica medievale, che predicava la fede in un Dio-femmina. Né avrete modo di stabilire occulte connessioni tra sesso, politica, finanza, poteri iniziatici, riti e società, che non sospettereste mai e poi mai, e di cui invece abbonda, in modo straordinario, il saggio di Blondet, che percorre piste interdette e fa affiorare trame sconvolgenti da un impasto di misteri e di manipolazioni. E quel poco che qui si riporta in un'impropria e riduttiva sintesi, è nulla al confronto di ciò che emerge dal libro, che per l'appunto non si può non leggere, se si vuole capire fino in fondo a qual punto ormai siamo giunti, se ci si vuole cioè addentrare nell'orribile "foresta" dantesca del mistero "teologico" di questa sotterranea lotta di potenze occulte, dove nomi e fatti sono anch'essi parte limitata di uno scontro totale, che addirittura


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attinge a vertici escatologici, quelli quantomeno della "parusia" concreta del male. Sicché, il nostro, è davvero un silenzio da innocenti, il silenzio di chi non sa, e neppure può immaginare, quanto si elevi l'abisso nella sua orribile profondità (malgrado ciò cui assistiamo ogni giorno).

4. Nella diffusa collana della "biblioteca" dei "maestri cattolici" innocentemente si allineavano una volta - negli anni '60 - anche i libri di Leon Bloy, romanziere e giornalista francese (18461917), inizialmente pittore, indirizzato poi verso la letteratura e la fede da Barbey d'Aurevilly, col quale condivise intransigenza religiosa e odio feroce contro ogni forma di pensiero e di ideale del suo secolo. (Su Leon Bloy, capitolo XX, pag. 208 e ss., vedi in particolare il libello "Dagli ebrei la salvezza", scritto nell'arroventarsi in Francia del famoso processo Dreyfus, ripubblicato di fresco nel 1993 dalla editrice "Adelphi"). La polemica di Blondet, nel suo scavo sulle "strategie del potere iniziatico", sottotitolo specificativo del libro, è in buona sostanza condotta contro questa Casa editrice, alla cui fraternità o fratria sodale tra "adepti", potrebbe essere larvatamente ricondotto un preciso disegno, volto per l'appunto alla "dissoluzione". Ma torniamo a Bloy. Blondet: "Palesemente, nessuno ha letto Bloy fino in fondo, nessuno ha visto il vero suo aculeo di scorpione, il motivo autentico per cui Calasso (figura principale dell'Adelphi) l'ha ripubblicato". "Come altri mistici (basti pensare a Giocchino da Fiore), Bloy scandiva la storia in tre fasi: riteneva Cristo - "il Figlio" - solo la penultima rivelazione, attendeva e propugnava l'avvento della terza figura, il Paracleto" (pag. 210). Anche l'apocalittico "clochard super-cattolico" Leon Bloy, monarchico e reazionario, credeva insomma che Cristo "deve essere superato". E annunciava l'albeggiare di una nuova era, votata a un nuovo dio oscuro. Un dio che Bloy chiama "il Liberatore vagabondo" (vedi direttamente il saggio per altri particolari interessanti). In questo contesto, per la cui chiarezza si deve necessariamente rimandare alle pagine del libro stesso, compare a margine anche lo scrittore Guido Ceronetti, che non disconosce l'interpretazione cattolica (pag. 220) della frase "la salvezza viene dagli Ebrei" che Gesù rivolge alla Samaritana (Gv. 4,22), volgendola tuttavia, Ceronetti, a ben altro significato (pag. 221), afferma Blondet, "con coerenza adelphiana". Insomma, "il Paracleto che Bloy attende è Lucifero" (vedi pag. 211). E come a me sembra, già da questi pochi assaggi (nella pur estrema ricchezza di contenuti e di sviluppi che si dipanano di capitolo in capitolo, in una sorta di "ventaglio" che al termine si disvelerà in un "disegno" ancor più inquietante, al quale tutto sommato l'Autore deve alludere soltanto), il tema fondamentale, che Blondet affronta sulla "dissoluzione" ed anche nei "mysteria" dei tempi presenti, è proprio quello dell'Anticristo (questione, questa, essenziale per i cattolici, che conoscendo una creazione divina "ex nihilo", procedente da Dio "insieme al tempo", come chiarisce S. Agostino, sono pure vincolati ad una non importa se "vexata" escatologia dei tempi ultimi, se non altro con riguardo al momento del suo verificarsi, più o meno lontano nel tempo a venire, senza dover ricorrere alla visione religiosa e cosmica di un "tempo ciclico", o agli "eoni" del "kali yuga" o "epoca oscura": cfr. pag. 105, nota 9). "Nel Kali Yuga il ruolo dell'iniziato è di agire nel senso della determinazione divina. Noi non abbiamo da curarci degli uomini. L'ora è suonata di fare la loro disperazione in una rivolta universale, salasso cosmico" (vedi R.Guénon, cit. pag. 105). La densità di "cifra" di questa "cultura" della "dissoluzione", i cui implicati personaggi Blondet snida uno a uno, annovera, riunisce e giustappone in un serrato sviluppo (del resto basta scorrere il folto indice dei nomi), è tale che sembra impossibile renderne un'idea, se non rifacendosi, brevemente, a qualcuno di essi a titolo di esempio. Tale scelta - tutta mia personale, e con gli stessi limiti che, in queste pagine, vi si accompagnano - è nient'altro che poca cosa rispetto all'affollatissimo affresco di cui si diceva. Un affresco del male che sembra ripercorrere talvolta la vena polemica degli antichi scrittori latino-cristiani, ad es. un Tertulliano o un Lattanzio.


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5. Ho così brevemente profilato una prima possibilità di "lettura" del libro di Blondet, che io stesso lettore e non recensore, inframmezzerò, incautamente e forse indebitamente, di ricordi personali. Ceronetti, citato poco sopra, ha scritto tra l'altro, per i tipi della Einaudi, "Albergo Italia", una raccolta di brevi articoli, in cui si parla anche delle "Pietre di Assisi" (una rapida visita turistica estiva tra gelati spiaccicati a terra, folle di pellegrini e bidoni pieni di spazzatura, dopo il terremoto del 1984, e molto prima di quello distruttivo del 1997, che tirò giù la volta dei "quattro dottori" della Chiesa, sfigurò i volti accostati di Chiara e Francesco, e inflisse la perdita irrimediabile dell'allegorica rappresentazione cimabuesca della "chiesa del deserto"). Commentai rapidamente con Vittorio Sgarbi, subito accorso sul sagrato della Basilica, il sabato pomeriggio dopo le grandi scosse del 25 e del 26 settembre, i "simboli" per me evidenti di questa sorta di "dissoluzione", entro la quale poteva essere colto un estremo significato "allegorico" del catastrofico evento naturale, trovandolo consenziente in questa lettura apocalittica, ben si intende a caldo, e nello strazio delle vittime restate sotto le macerie, due laici e due sacerdoti francescani. Francesco, non scordiamolo, è secondo la "lectio" agiografica bonaventuriana della "Legenda Major", non solo l' "Alter Christus", ma anche l'Angelo del "sesto sigillo", con veste di "diaspro e d'oro", come appunto viene perfettamente rappresentato - quasi sicuramente per mano di Giotto - nell'allegoria delle vele dell'altar maggiore della Basilica inferiore, quell'umbratile e genuinamente romanica "chiesa della sofferenza", rimasta indenne, a differenza di quella goticheggiante ed assai slanciata della "gloria", che su di essa si eleva. Il "Paracleto" (letteralmente "colui che chiamo a me vicino", e per estensione colui che è chiamato per difendere, cioè il difensore o l'intercessore), nel Nuovo Testamento ha due significati: il primo indica lo Spirito Santo nella specifica funzione di sostenitore e di difensore dei cristiani nel mondo (Gv. 14, 16-17; 15,26; 16, 7-11; e 13-15) ; nel secondo significato, lo si ritrova nella prima epistola di San Giovanni (2, 1), per indicare Gesù Cristo, intercessore o avvocato (così traduce la Vulgata latina) tra Dio e gli uomini. All'"Anticristo" accennano con vari appellativi S. Paolo (II Tess. 2,1-12) e S. Giovanni nelle Lettere (I,18-22) e nell'Apocalisse (11 e segg.), oltre che gli antichi profeti in vari luoghi. La tradizione giudaica ce lo presenta in genere come una potenza politica persecutrice dei fedeli: così il Gog e Magog di Ezechiele, le quattro bestie di Daniele, il tiranno del libro di Esdra, fino al Nerone redivivo degli oracoli sibillini. L'opinione dei Padri della Chiesa e in generale degli esegeti, se pure è concorde nella descrizione delle caratteristiche dell'Anticristo, ne dà interpretazioni diverse. Si tratterebbe, secondo alcuni, della raffigurazione simbolica in cui si nasconderebbero i tanti avversari della fede e della chiesa. Secondo altri si tratterebbe di un potentissimo e malvagio eresiarca, destinato a comparire verso la fine dei tempi per tentare di sedurre il genere umano, perseguitando chi gli resisterà. San Paolo predice che l'Anticristo sarà vinto da Gesù nel suo glorioso ritorno alla fine dell'epoca presente, nella "parusia". La Chiesa non ha definito nulla su questa misteriosa figura, il cui numero è "666", e che continua ad incombere da "L'Anticristo" di Nietzsche (1888: vedi le moltissime citazioni di Blondet, tra le più numerose per i nomi richiamati nell'indice, dopo Cacciari e pochi altri). Di sicuro, quest'Anticristo non può essere Monsignor Milingo, genuino "stregone" africano di Lusaka, pecora smarrita di ormai 71 anni, fresco sposo di una sorta di "domina phitonys" nei panni di una grassoccia "dottoressa coreana" quarantunenne dal viso rotondo, i denti radi e belloccia a suo modo, probabile "ostaggio" della setta del reverendo Moon ("quantum potuit religio suadere malorum", ovvero "religio mater superstitionum", secondo Lucrezio). A parte l'inevitabile "scandalo" per la Chiesa (oportet ut scandala eveniant), che ovviamente si è cercato di tamponare con una dissuasione preventiva e un possibilissimo ed apertissimo perdono "ex post", traspare dalla vicenda tutto sommato una più che ironica tragedia, dove però non si rinuncia affatto alla "spes prolis", a differenza degli alti prelati pedofili (come anni fa il cardinale di Vienna), e per quanto il cardinal J. Daniélou (fratello di Alain, per il quale


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cfr. pag. 76-83 e passim), celebre teologo di Santa Romana Chiesa ed autore di testi fondamentali, fosse stato a suo tempo sorpreso a Parigi, in una casa d'appuntamenti d'alto bordo, già assai su cogli anni, come raccontarono allora i giornali. Molto più tragico e straziante, se fosse vero, l'episodio terribile, riportato nel libro "anonimo" "Via col vento in Vaticano ", ediz. Kaos, 1999, della morte di Don Orione, prima denigrato in tutti modi e poi, si sostiene, ucciso da un barbiere prezzolato, con l'infissione di un ago sul cranio. Ma torniamo ad Alain Daniélou, fratello del cardinale. Nato nel 1907 da una madre cattolicissima, musicista e pittore, praticante danza classica, è un omosessuale dichiarato. Non a caso si stabilì a un certo punto in India, dov'è più facile, nella grande povertà e senza rischi legali, trovare "Gitoni a pagamento " (evidente in questo caso il riferimento di Blondet al Satyricon di Petronio). Dopo il 1956, torna in Europa, dove fonda l'Istituto Internazionale per lo Studio Comparato della Musica, sedi Berlino e Venezia (pag. 81: in particolare la Venezia di Toeplitz e di Volpi di Misurata. Venezia, aperta ad ogni influsso orientale, e dove oggi si colloca Cacciari). Sembra che tutto si rimescoli nella dissoluzione di Shiva. Ma il Dio del perdono assoluto di tutti i peccati, il vero ed unico Padre, è vero Amore: "Pater noster qui es in coelo". Dopo "Gog e Magog", forze bibliche scatenate, l'ultimo Papini, avvolto quasi nella cecità, concepì (1953) "Il Diavolo ", nella luce di una assoluzione paradossale, degna di un Dio supremo. Ma non terminò il "Giudizio universale", cui lavorò per decenni, nel tentativo di realizzare un giudizio critico-religioso dell'umanità intera. Per noi, nati quasi alla fine della guerra, soppesando questo lungo volo del tempo, che ci ha visti crescere sotto il grande paracadute bianco del partito di De Gasperi, le vesti immacolate di Pio XII (che nel 1950 "incontrò "Gesù nei "giardini vaticani") e l'intelligenza di un Einaudi (vedi pag. 85 - 86: io mi limito soltanto a ricordare "L'arte del buongoverno", una splendida raccolta in due volumetti Laterza di saggi e di brevi articoli giornalistici, ancor oggi attualissimi), stranamente i versi di Pasolini - personaggio che Blondet non cita, forse anche perché P.P.P. si dissolse da solo, in particolare quelli de "La ricchezza del sapere", o "Alla bandiera rossa", o de "Il canto popolare" (Improvviso il mille novecento / cinquanta due passa sull'Italia: / solo il popolo ne ha un sentimento / vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia / la modernità, benché sempre il più / moderno sia esso, il popolo spanto / in borghi, in rioni, con gioventù / sempre nuove nuove al canto …), ci fanno venire la pelle d'oca. L'ultimo Pasolini, quello degli "Scritti corsari" (1975), articoli comparsi via via sul Corriere della Sera, egli, inizialmente "deceptus ", che apparve alla fine "redemptus". Ma anche lui un "dissolutore", suo fratello partigiano barbaramente assassinato da altri "partigiani"? Visse una sua fede P.P.P., la fede del suo tempo. Giancarlo Zizola, scrittore cattolico come Blondet, che iniziò da giornalista col Giorno di Mattei muovendo dalla Cittadella di Assisi, noto vaticanista ed autore di fortunati libri, nella biografia di Don Giovanni Rossi, il fondatore della Pro Civitate Cristiana, altro bellissimo libro cui mi sento legato da una sorta di memoria "testimoniale", racconta di quando Pasolini, caduto nel bel tranello "da prete" di Don Giovanni, che gli lasciò sul comodino, ospite occasionale a Assisi per una notte, il Vangelo di Matteo, si infervorò talmente nella lettura, restando sveglio tutto il tempo, sì da concepire il famoso film in bianco e nero, che gli valse il premio O.C.I.C. nel 1963 (nella sala di proiezione, alla prima mondiale, ero presente, consapevole di questa sorta di miracolo avvenuto in terra di Francesco). Quel Cristo delle pietre e del deserto, arringatore aramaico dei "loghia", appariva parimenti dotato del pienissimo carisma del sacro. La politica intesseva le sue trame di riconciliazione democratica tra le diverse componenti di un sol popolo. Era quella l'epoca del Cardinal Siri (pag. 112, 113 e 114) e del giovane Baget Bozzo (ibidem), suo diretto collaboratore in curia vescovile a Genova. Dopo la temperie "marxista", che come un ciclone sconvolse la Cittadella a seguito della contestazione del '68, e che alla fine fu spenta per forza di cose nel "dopo Moro", venne il turno ecclesiastico di Baget Bozzo a correggere canonisticamente l'istituzione della Pro Civitate, e qui l'incontrai piccolo e grassottello "katéchon", dai capelli neri divisi e spalmati sul cranio. Negli anni "folli", che pena Dom Franzoni, l'Abate di San Paolo, compostissimo "eretico" in perfetta buona fede, contornato da pii fedeli uomini e donne (mi


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facevano tenerezza), meno assai gli esagitati dell'Isolotto, nel desiderio di rivincite dopo i fatti del vescovo di Prato. E qual passione di straordinaria cultura e dono di parola, in Padre Ernesto Balducci, scolopio di Fiesole ed allievo di Papini, o la poesia autentica di un Padre David Maria Turoldo, anche lui di casa, qui ad Assisi, in quegli anni tutt'altro che formidabili. Erano quelli gli anni in cui una certa Italia si disfaceva, e un'altra si stava facendo, all'inizio con un avvio lento e controllato. Col "Festival della Canzone Nuova" (che intendeva promuovere la canzonetta tra il "popolo cristiano" ad imitazione del festival laico e profano di Sanremo) si videro in "anfiteatro" - si chiama così uno dei giardini più ampli della Cittadella cardinali paonazzi e cerimoniosi, ossequiati da cantanti di grido che si esibivano sul palcoscenico in nome di Dio in persona (gli stessi di Sanremo, dopo il successo di "Vola colomba bianca vola", altrettanto ben pagati coi soldi del munifico dott. Furio Cicogna, allora presidente "cattolico" di Confindustria, con la tragedia alle spalle della perdita dell'unico figlio). E qui voglio ancora introdurre, brevemente, due piccole note. Su di un numero del settimanale Oggi, anno 1950 mese di agosto, allora diretto da Edilio Rusconi, comparve un pezzo di colore sul festival dell'Unità di Umbertide, di rara efficacia. Tutti mobilitati, si attendeva il comizio in piazza dell'onorevole Pajetta, vivacissimo personaggio di assoluto rilievo del Partito. Il segretario della locale sezione del Pci, un maestro elementare, inforca la sua moto rossa, con sidecar e moglie al seguito incinta, la quale sballonzolata per via delle buche stradali (la scena sembra quasi aver ispirato un episodio di un noto film di Tognazzi), finisce per partorire in mezzo a un campo. Intanto, Pajetta, fa sapere di non poter essere presente. A tenere il comizio viene infatti suo fratello. Nella ressa di bandiere e di canti nessuno si accorge di nulla. Più duro, quel servizio di costume a puntate, sempre su Oggi, in cui un sacerdote cattolico fa presente ai lettori che il satanismo gli sembra sempre più diffuso, anche tra persone insospettabili, considerando la drammatica ipotesi di una sempre maggiore diffusione in futuro. L'ordito terribile del saggio di Blondet ignora quisquilie del genere, e va dritto al suo scopo. Il mosaico dei personaggi è quello delle realtà superiori, che trascendono ogni cronaca, anche se qua e là traspare lo scandalo dell'aneddoto (ad. es. il latinista e filologo Concetto Marchesi, comunista e massone, che avrebbe diramato l'ordine di esecuzione contro Giovanni Gentile: pag. 140, nota 2. Il che sempre attinge ad una "visio" del "sangue" che percorre il libro "profetico" di Blondet, considerati i fatti di cronaca che tutti i giorni grondano di orribilità macabra dai telegiornali e pervadono le nostre case. Il Prof. Marchesi, quello che nel 1969 diede da tradurre in latino agli studenti contestatori di Valle Giulia un brano dei pensieri di Mao, in cui si citavano banchi e arredi scolastici non da sfasciare).

6. E siamo al punto. Blondet introduce meglio il ritratto di Cacciari (pag. 115-116), personaggio fondamentale nel libro per attualità ed importanza: "Lungo gli anni '80, si tiene in Italia tutta una serie di convegni filosofici assai significativi. Destinati all'intelligenza del Pci che vi partecipa numerosa, questi convegni sono spesso diretti, o animati, da Massimo Cacciari. L'enfant prodige è ben accolto a sinistra: militante negli anni '60 di Potere Operaio e amico di Toni Negri che allora insegna all'Università di Padova e lo presenta ad Alberto Asor Rosa, Cacciari è versato nello studio del pensiero negativo, ma al contempo operaista". Qui in Assisi, in Cittadella, io stesso incontrai Cacciari, "filosofo nero-barbuto" come lo definisce Blondet, durante un convegno assai animato, in cui i partecipanti si divertirono un mondo a costruire, il primo giorno, un muro di mattoni, e poi a distruggerlo, l'ultimo. Si era ben lontani dall'idea del crollo del comunismo, e l'evocazione era per l'appunto da intendersi tutto il contrario. Non ricordo l'anno esatto di quel convegno "cattolico", sicuramente antecedente al delitto Moro. Qui in Cittadella, avevo incontrato, forse nel 1969, il contestatore Liguori, attuale direttore del TG di "Italia 1", e molti altri personaggi allora assai noti durante la contestazione. Nell'anno di Cacciari (non ricordo quando), mi tolsi subito di mezzo da un seminario mediatico (come al solito stavo curiosando), tenuto come in una sorta di circolo


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magico tra "maestro" (Cacciari) ed "allievi" (giovani silenziosissimi), nell'auditorium assai vasto della Cittadella, come tra cospiratori esordienti autorizzati ad apparire, alle cui attentissime orecchie il giovane filosofo "sussurrava" verità assolute. Di Toni Negri (pag. 115) sapevo dalle confidenze dell'ottimo Prof. Sabino Acquaviva, personaggio impagabile, di grande umanità e modestia, autentica testa pensante e grande sociologo di Padova, suo stretto collega. Furono, quelli, gli anni "terribili", derivazione e conseguenza del '68. Il giorno stesso del rapimento Moro mi trovavo per caso proprio a Roma, appena poco lontano dal luogo. Avevo un appuntamento con la Signora X, affascinante intellettuale, cara amica, che sapendo della mia passione per la poesia e il cinema volle presentarmi a Pasolini (una sera a Ostia Antica) e a Federico Fellini, suoi amici. Del resto aveva conosciuto molto bene Cesare Pavese durante il periodo romano (vedi Blondet pag. 236), fornendomi una versione disperata del suo suicidio, in parte metafisico e per il resto sentimentale. Mi narrò, quanto a se stessa, di un'aura di "magia sexualis" che pervadeva i salotti romani della cultura di allora (qualcosa che Fellini poi recupera e trasmuta in ben altro sfondo nella sua "Dolce Vita"), nel cui ambito potrebbero collocarsi anche il delitto Montesi o lo scandalo dei balletti rosa (con la danzatrice turca Aiché Nanà che si spoglia in un locale notturno di Roma), lei, la mia amica, insidiata allora, per lungo tempo, dallo sguardo torbido ed inquietante di un affascinante uomo di chiesa, un misterioso teologo spagnolo di cui non mi fece mai il nome, un'eminenza della Curia. Scampammo dal caos e dal coprifuoco a Preneste, visitando il Tempio della Fortuna, in una tersa giornata d'aprile. La mia bellissima accompagnatrice era stata, assai giovane, confidente anche di Cardarelli, il leggendario e tristissimo poeta intabarrato, che scriveva seduto sui tavolini di Via Veneto (a mio avviso il più grande poeta italiano del '900. Eugenio Montale pag. 68, 84 e 130 - celebrò, invece, come "Clizia", un'Irma Brandeis, della famiglia "frankista" del giudice della Corte Suprema U.S.A., e siamo negli anni '30. Molto più "poeta", Cardarelli, devoto in vecchiaia ad una pura bellezza, destinata ad apparire soltanto in trasfigurazioni tra le piaghe dei suoi ultimi anni). Su Jakob Frank, nato nel villaggio polacco di Korolowka nel 1726, fondatore della setta che si ispirava ai riti licenziosi della Grande Madre, vedi pag. 60 e ss. Per i collegamenti del "frankismo" con Giuseppe Toeplitz, banchiere della Banca Commerciale Italiana a partire dal 1915, fino a Mattioli, vedi in particolare pag. 41 e ss. Ma come giudica Blondet il '68, visto che trascura ogni accenno agli anni del piombo? La rivolta del 1968 è invece ben presente (ad es. pag. 167 e pag. 171). Attraverso Blondet e con riferimento alla "Via della Mano Sinistra" (pag. 166), da (e con riguardo a) Georges Bataille, che ha recuperato Nietzsche al gauchisme, sappiamo finalmente come, dall'essere "di sinistra", si giunge ad incontrare "la parte sinistra del sacro" (pag. 166). E' l'irrazionalità distruttiva che deve essere scatenata. "Bataille vuole che la sinistra si armi delle stesse forze irrazionali, che rendono forte il fascismo". E dunque, "il movimento del '68 ci ha dato pur qualche esempio di questa liberazione". E ancora oltre: "E' fin troppo noto come il "movimento collettivo" del '68, e la "società permissiva" che ne è nata, si siano iscritti in questa sfera batailliana: la perdita di intimità e di separatezza dei corpi nelle "comuni" o nelle bathrooms degli omosessuali di San Francisco, e persino la messa in comune del sangue nello scambio "rituale " delle siringhe infette tra i tossicomani - tutto messo "in comune" nella festa crudele e necrofila della "rivoluzione culturale" tesa a sradicare furiosamente il fascismo che è dentro di noi, la superiorità gerarchica della volontà sugli impulsi primari". "Sappiamo a cosa ciò ha portato: non ultimo il virus Hiv, che non attendeva altro che il contatto diretto di sangui…". "Nella sinistra, il lato nefasto, l'arma del sacrificio cruento; a destra, lato fasto, una torcia simile al sacro cuore: non il cuore di Cristo ma quello di Dioniso" (con riferimento all'immagine dell'Acefalo concepito da Bataille e disegnato da Masson). Quanto a me (genuino e sconosciuto inventore della contestazione "cristiana" pacifica e dialettica nell'ottobre del 1962 a Milano, l'anno in cui vidi morire in Galleria lo studente Ardizzone travolto da una jeep della polizia, poi l'anno dopo venne Capanna) non presi mai parte alla contestazione Neppure ritornato agli studi dopo il servizio militare anticipato (da ufficiale di complemento, presso la caserma dove era radicata la "Rosa dei venti", dove strinsi la mano -


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al circolo ufficiali - al Generale De Lorenzo, e dove mi capitarono, in pochi mesi, alcuni incidenti sicuramente un po' strani. Poco dopo il "cadavere" eccellente del Generale Ciglieri, comandante di quel Corpo d'Armata, affabile e gentile come io lo conobbi). Il sangue delle trame politiche è ignorato da Blondet. Il suo è un argomento superiore, di potenze assolute, che sovrasta ogni aspetto minore e ogni dettaglio. La signora Z di cui dirò dopo, aveva conosciuto molto bene e frequentato Daniel Cohn Bendit a Parigi, il principe dei rivoluzionari del "maggio francese". Anni dopo, in viaggio turistico nella Capitale, fui ospitato nella "péniche" ormeggiata sulla Senna (un'enorme chiatta di cemento risalente alla prima guerra mondiale) appartenente a un noto pittore di quei tempi folli, che ancora coniugava "angeli" e "sangue", ed impastava colori e versi. Qui conobbi la più famosa attrice del teatro francese comunista del dopoguerra, con suo marito soggettista di Alain Resnais, cultore di "patafisica". Il mio piccolo spaccato già rende l'idea di quale fosse il melograno. Nulla al confronto dell'immagine dell'Acefalo richiamata da Blondet (o una sorta di "dio-asino", graffito su un antico muro a Roma).

7. L'articolatissimo saggio di Blondet, che svaria rapidamente da un richiamo all'altro, non può che essere letto e gustato direttamente (talvolta con raccapriccio), tanto è ricco di "materia", di nessi e di relazioni. Sospesa tra Cristo e Dioniso, la nostra età potrebbe scivolare ancora nelle spire di Shiva, il dio della devastazione. Per capire questo sfondo, basta andarsi a leggere la sapida locandina di presentazione. "Inquietante" come non mai, questo saggio completamente al di fuori dai canoni, "descrive il lato d'ombra d'una battaglia" che come spiegava San Paolo agli Efesini, "non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro Principati e Potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti". L'avvio, con l'intervista a Cacciari (e col tantissimo che sta in mezzo, disposto nei vari capitoli), è la chiave stessa che dovrebbe condurre a soluzione, che per quanto nascosta, traspare a mio sommesso avviso tutt'altro che criptica, proprio nell'ultimo capitolo, abbondantemente preparata ed argomentata per chi abbia orecchie per intendere. Siamo, come detto, alla fine del 1994, ben dopo tangentopoli, e nessun Di Pietro (per altro da me conosciuto a Roma appena ai suoi esordi) è mai citato. Non c'è posto nel saggio di Blondet per questi aspetti che attengono alle vicende politiche e giudiziarie più o meno recenti del nostro Paese. La trama d'ombra, che prende avvio da questa intervista con Cacciari risalente al 1993, è però "politica" per eccellenza, in quanto essenzialmente e paradossalmente "teologica", stagliandosi in un ambito metafisico superiore, dove campeggia, in definitiva, la soprastante, fondamentale e preordinata questione dell'"etica", il vero oggetto d'"afflizione" in questo turbine delle dissoluzioni, che andrebbe dunque meglio vista, nel suo più corretto significato di verità cristiana. Per me credente, giovane matricola un anno avanti negli studi, "borsista" alla Cattolica di Milano, ammesso a mensa accanto al direttore Umberto Pothosnig e in conversazione con Giacomo Vaciago, allora al terzo anno di Economia e Commercio, la Banca Commerciale Italiana era appena un nome, un luogo dove poter cambiare gli assegni allo sportello. Ma i fatti erano lì. C'era la trama invisibile che dal banchiere Toeplitz, che nel 1915 era divenuto il capo supremo della Banca Commerciale Italiana, porta dritto a Mattioli e al suo successore Enrico Cuccia (con tanto di tomba profanata). Nel 1986 l'affascinante Signora Y, con superattico nel centro di Milano e di sovente Bettino Craxi ospite a cena, che appunto avevo conosciuto ad un convegno su Pasolini, e che sapeva dalle mie confidenze di me studente (da allora non ero più tornato a Milano!), mi diede un appuntamento proprio a Piazza S. Ambrogio e di lì mi condusse subito con la sua auto all'abbazia benedettina di Chiaravalle, tenendo in particolare a mostrami il cimitero. Il suo piacevolissimo sorriso mi indagava curiosamente, io completamente ignaro e sprovveduto. Un'iniziazione inconsapevole? Soltanto leggendo il libro di Blondet ho collegato questo "ricordo" con il "fatto", che allora mi colpì inesplicabilmente, per una sua certa atmosfera sfuggente, senza


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una ragione plausibile. Del resto, come ho sempre fatto, sono sempre vissuto isolato, via quell'infezione che purtroppo incontravo non appena fuori delle mie piccole abitudini, "in parvis quies", come si legge sullo stipite di una porta d'ingresso sulla via appena sopra l'Istituto di Matematica del Prof. Bartocci. Cacciari ama venire spesso a Assisi (l'ho incrociato l'ultima volta durante le scorse vacanze di Natale) e ci deve essere una ben forte attrazione tra i luoghi francescani e una certa parte politica e ideale, se la Cavani girò qui il suo primo Francesco, sulla scia del Francesco giullare di Dio di Rossellini, ambientato invece nel Lazio (direttore del Festival di Venezia fu per un certo periodo un assisano, il giornalista di "Epoca" Meccoli, che poi si preoccupò, molti anni dopo, del perfetto restauro della pellicola di Rossellini, ormai del tutto logora). Cacciari, qualche anno fa, fece un'altra comparsa in Cittadella, discutendo, in occasione di un convegno cattolico, con un approccio assai negativo ma spalleggiato da un teologo d'apertura a lui decisamente concorde, dell'assai complesso e difficile libro del fisico teorico americano Frank Tipler, "La fisica dell'immortalità" (Dio, la cosmologia e la resurrezione dei morti), in un contesto che si richiamava ai rapporti tra scienza, politica e società. Chi ricorda la trasmissione "Satyricon" su Rai due, appena qualche tempo fa, in costanza di elezioni (non dico il romanzo di Petronio scritto nell'età della dissoluzione neroniana, un misto di prosa e versi in forma di menippea, e neppure il film di Fellini, che ben prima di "Prova d'orchestra" ed in anni meno sospetti, sembrava anch'esso alludere ad una sorta di larvata censura al regime), sa bene che nella seconda puntata di questa trasmissione, dopo l'artificiale e voluto scandalo, subito rientrato, seguito alla prima puntata, Daniele Luttazzi introdusse l'ospite Cacciari, che per un buona mezz'ora si mise a parlare del "katéchon"! Ed ecco che finalmente ci siamo. Nella fecale Venezia, segnata poi dal rogo della Fenice, che ancora non risorge dalle sue ceneri, Cacciari esclama davanti a Blondet, che l'intervista: "Il Papa deve smettere di fare il katéchon!". Questo Papa polacco, devoto alla Vergine che schiaccia il serpente, sangue del sangue polacco, schiacciato dal nazismo e poi dal comunismo, il grande ostacolo, il "trattenitore" dell'Anticristo (vengono i brividi al pensiero della sequenza profetica dei "papi " secondo Malachia). Il senso nascosto del libro di Blondet, si raccoglie nell'ultimo capitolo (cfr. pag. 249): "La demonologia dei giorni nostri può essere solo un genere letterario". L'innominato interlocutore del bar di Wiesbaden, infatti, gli suggerisce direttamente: "Scriva un romanzo, un racconto fantastico, non un saggio". Il misterioso personaggio di chiusura non è certamente Cacciari, che parla invece all'inizio - "Voglio dire che Lei, come cattolico, sa come finirà. Verrà l'Anticristo e trionferà, ma sarà sconfitto". Ebbene, il motivo del "katéchon" è riaffiorato integro, ex verbis et tota substantia, a Satyricon, segno evidente della coerenza di Cacciari, ed anche delle verità di Blondet. Senza dover chiamare in causa Spengler (citato a pag. 143), siamo per davvero al "tramonto". L'Anticristo sarebbe per Cacciari questo capitalismo onnipervasivo (alla Mac Luan, mediaticamente entrato nel vivo delle coscienze), con l'oltraggiosa moltiplicazione di pani e di pesci (ben inteso sintetici), a danno dei sazi e dei tantissimi affamati, coi suoi tanti logoteti territoriali. "Quindi esso deve sparire". Singolare versione, che vorrebbe giustificare la "dissoluzione", come pura antitesi - fertile e benefica - in un processo triadico, in vista della liberazione finale dell'uomo. Come dire: un altro Vangelo (il quinto per l'esattezza secondo Pomilio - neppure lui citato). Però a suo tempo ampiamente snidato, nella "sua" inaffidabilità, sia da Armando Plebe che da Augusto del Noce (quest'ultimo filosofo cattolico presente nel saggio di Blondet, pag. 11, 88 e 247). I tempi ultimi dell'escatologia cristiana (pur confusi nelle diverse versioni temporali, ma non quanto ai modi) non possono certo risultare schiacciati sull'asse delle ascisse, poiché possiedono la formidabile ordinata spirituale della resurrezione, unica promessa di un Dio vero, e cioè di un Dio di salvezza. Scordandosi che i cristiani non accolti scuotono la polvere dai calzari e riprendono il cammino, Cacciari, che pure riconosce una chiesa "pellegrina in terra", ritiene che Cristo abbia casa dovunque. Ergo, se "per anni la minaccia comunista ha causato un'alleanza forzata tra la Chiesa e il sistema laico borghese" (pag. 11), "ora quest'alleanza, che era finta fin dal principio, non è più possibile". "Nessuna composizione tra la Chiesa e lo spirito borghese, con la sua etica laica".


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"Il cristiano deve mettere in discussione ogni sistemazione puramente terrena. Lui pellegrino su questa terra sa che ogni sistemazione della Città dell'uomo è transeunte, che deve essere superata". "Il sistema borghese tollera di essere discusso solo al proprio interno", sancì infine Massimo Cacciari. "Verso ciò che è esterno ai suoi valori, non ha pietà". I passi assai più ricchi ed articolati dell'intervista a Cacciari, con la quale si apre il libro di Blondet, furono nuovamente ripercorsi a Satyricon, ovviamente secondo una "vulgata" televisiva, destinata a tutti gli ascoltatori. Una tale coerenza si spiega soltanto con un'altra coerenza sulla quale è bene tacere.

8. Una bella "teoria", quella del filosofo Cacciari, che riduce l'etica a costume, confondendo la morale col prodotto storico della società e dei suoi rapporti di produzione, ignorando di sana pianta ad es. "il discorso della montagna", in cui Gesù Cristo, "salvatore di tutti figli", con un argomento, questo sì rivoluzionario, rovesciando ogni prospettiva della vana ragione, benedice letteralmente gli ultimi in tutti sensi. Il chicco di grano destinato a risorgere in spiga, deve macerare sotto terra. Tra il fatto della morte e la speranza della resurrezione, corre l'abissale distanza del "regno". Nel Protovangelo di Tommaso, si legge: "Se qualcuno vi dirà, ecco il Regno è nell'aria, Io vi dico che gli uccelli vi precederanno. Se qualcuno vi dirà, ecco il Regno è nei mari, i pesci vi precederanno. In verità Io vi dico che il Regno è in voi e fuori di voi". Come diceva Catone il Censore, con colorita espressione di sdegno: "Laudant arvolas (gli sparvieri che volteggiano sui campi arati), censent columbas". La dissoluzione è il sovvertimento del vero. E' la menzogna, il nemico. I veri "adelphi" della dissoluzione sono in questo senso alchimisti e teurgi della politica dell'uomo, che trascurando la pietra filosofale dell'etica cristiana, trasmutano l'oro della vita - santificato dall'esempio sublime di San Francesco - in piombo, con ciò ingrigendo la luce stessa del sole. Ad essi darebbero mano uno stuolo di allievi "sapienti", costruiti in laboratorio, come forse fu negli anni della nostra giovinezza, quando all'improvviso dal "Christus vincit" che si elevava nelle ali sonore delle cattedrali, in quell'Italia "spanta" nei borghi, si passò ad altri cori di guerra, in città sempre più convulse, che inneggiavano tempestosi e scomposti a santi stellati ed a certissime "promesse" di autentica "liberazione". Sicché la straordinaria definizione che Dante dà del " diritto": "Ius est hominis ad hominem proportio, qua servata societatem preservat, corrupta corrumpit" è posta in non cale. Ancora Blondet: "E' già accaduto: ogni rivoluzione - la francese, la bolscevica, quella rivoluzione dei costumi che fu il '68 - sono state a lungo preparate con libri, diffusione di idee, miti sentimenti collettivi; ciò che oggi si chiama "industria culturale", e nel linguaggio della magia, si chiamava evocare "le potenze dell'aria"" (pag. 20 - Adorno è anche lui citatissimo, ben 14 volte). Shiva, il distruttore, è dunque tra noi? "Le parole di Massimo Cacciari sembravano iscritte in un cattolicesimo estremo, in certo senso estremamente "puro"; in realtà, mi parevano alludere a un progetto radicalmente contrario alla fede" (pag. 14). "Rammentai la maledizione di Isaia (5,19): "Guai a coloro che dicono: "Si affretti, si acceleri l'opera sua/ affinché possiamo vederla; / si avvicini, si realizzi il progetto del Santo d'Israele / e lo riconosceremo". / Guai a coloro che chiamano il male bene e bene il male/ che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre"". E' questa la traccia che il supercattolico Blondet ripercorre. La traccia della dissoluzione. Del resto è scritto nei Vangeli che si sarà perseguitati nel Suo nome.

9. Federico Caffè decide un bel giorno di sparire. Nessuno sa se possa essere ancora vivo oppure se è già morto da tempo. Forse fu a causa delle terribili amnesie che lo stavano distruggendo. O forse fu la delusione di non vedere realizzati i suoi nobili progetti di economista. Nel libro


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di Blondet compaiono anche degli economisti (non certo Caffè), ma ad es. Piero Sraffa, l'autore della "Produzione merci a mezzo merci", figlio del Rettore della Bocconi, scappato dall'Università di Cagliari ed approdato alla corte di Lord J. Maynard Keynes (pag. 72,73,74 e 86). Perché proprio Sraffa? "E' noto che Sraffa aprì al suo amico Mattioli un contatto privilegiato con il Pci". "Sraffa fu il trafugatore dei Quaderni dal carcere di Gramsci per conto di Togliatti". E ancora: "George L. Mosse ha affermato che Sraffa e Keynes erano omosessuali. La stanza di quest'ultimo era piena di quadri erotici con soggetti gay". Uno strano ambiente l'Università di Cambridge. Nella sessione di febbraio del primo anno d'università, rientrato da Milano a Perugia, mi imbattei per l'esame di economia politica nell'allora giovanissimo Prof. Luigi Spaventa al suo straordinariato, proveniente dalla scuola liberale di Giuseppe Ugo Papi, ma scopertamente di sinistra, che mi interrogò proprio su Sraffa e la sua teoria (un famoso saggio di meno di cento pagine) che gli è valsa la notorietà. Col centro sinistra erano caduti certi steccati. Il nuovo Papa contadino, dotato di immensa carità, aveva benedetto eccezionali folle di pellegrini. "Quando tornate a casa, date un bacio ai vostri figli!". Fu Papa Giovanni XXIII a sostenere teologicamente che si deve perdonare agli erranti, non però all'errore. Erano quelli gli anni giusti. E perciò, non soltanto la fede salva, ma anche la buona fede. Negli inquietanti "personaggi d'affresco" di Blondet, ci può essere una larvata loro "buona fede"? O incarnano essi il male assoluto, totale, irrimediabile? Mi sembra questa una domanda non trascurabile. Per trovare una risposta all'interrogativo (che in buona sostanza può derivare dallo stesso punto di domanda col quale il libro di Blondet si chiude: - "Sbaglio?"), dobbiamo ripercorrere le vie dell'Anticristo. Io mi sono formato leggendo Carl Adam e Padre Giuseppe Ricciotti, il fondatore dell'Enciclopedia Cattolica. Si dirà: roba superata. Ma che c'è di più e di meglio dopo? "Dio esiste" di Hans Küng, o la teologia del "Dio è morto"? La Chiesa è una "societas" nel tempo, ma anche fuori dal tempo. Storicamente fallimentari furono tutti tentativi (come una volta in Paraguay) di una società politica in mano a religiosi cattolici. La Chiesa non ha questo bisogno e questa vocazione, così come nessuna metafisica ha a che fare (se non indirettamente) con la prassi. Dal Vangelo, ben inteso, si possono ricavare tutte le norme "agendi" della vita economica e sociale, nessuna esclusa. Ma è la centralità dell'individuo davanti alla propria coscienza, il mistero della vita e della morte, che impegnano, molto più direttamente, dinanzi al limite teologico del peccato. Il Regno non è di questa Terra. Giorgio Caproni ("seguita a pullulare vita-morte, tenera ed oscura, chiara e inconoscibile") incita in un'altra sua poesia il "vetturale" ad andare oltre, ma la strada è terminata. I dubbi religiosi di Caproni, concisamente resi in versi straordinari, per chi conosce le sue poesie, sono i dubbi di ciascuno. Nessun uomo ha vera fede. Ma tutti la possono trovare, a un certo momento. Nessuno può quindi scagliare la prima pietra, né di questo si tratta. Gesù non predicò virtù straordinarie e impraticabili, si rivolse ai semplici, agli esseri comuni. La libertà di Francesco venne quindi da una prigione che lo teneva astretto come persona, ed evaso dal sé, senza però dimenticarsi come uomo, si ubriacò di beatitudini, ricercandole con quella tenacia assoluta di chi si condanna ad una disciplina di libertà e fede assolute, che impone ad ogni giorno tutta la sua pena. Il male si traveste. Il menzognero combatte per una unità o identità cui non potrà mai pervenire. Il suo dramma è l'impossibilità di essere se stesso, diversamente dalla dolce colomba, simbolo del paraclito (e di cui lo stesso nome di Jahweh sarebbe un acronimo). Chiedo agli "Atti degli apostoli" di Ricciotti, Lettere di San Paolo, (1958, vol. II), di venirmi incontro e di lasciarmi copiare liberamente il suo commento (ai Tessalonicesi 2, 6 e seguenti). Sulla "parusia" non c'è alcun accordo tra le fonti. Paolo respinge l'opinione che sia imminente il giorno del Signore, per la ragione che ancora non sono avvenuti i fatti che devono precederlo come segni precursori. Questi fatti sono l'apostasia, certamente religiosa e non politica, e la comparsa dell'uomo del peccato. Quest'ultimo è il figlio della perdizione: è anche colui cui fa resistenza il "katéchon", ma questi, secondo la "profezia", sarà, negli ultimi tempi, "tolto di mezzo" (II Tess. 2,6). Egli si sta insediando nel santuario spacciandosi per vero Dio. L'uomo del peccato ancora non può rivelarsi perché esiste ciò che (al neutro) lo trattiene dal rivelarsi. Esiste colui che (al


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maschile) "trattiene adesso". Verrà un giorno che questo ostacolo verrà tolto di mezzo. Al mistero dell'iniquità corrisponde il mistero opposto, ossia quello dell'equità e della giustizia (idem nei manoscritti del Qumran). Ma frattanto il mistero dell'iniquità, sebbene ostacolato, opera internamente per preparare la rivelazione dell'uomo del peccato. Quando sarà tolto di mezzo l'ostacolo, allora si rivelerà l'iniquo, e avverrà la "parusia" di colui che rappresenta l'iniquità. Ma all'iniquo e alla sua parusia si contrapporrà Gesù con la manifestazione della sua parusia. Gesù ucciderà l'iniquo con un semplice soffio della sua bocca e distruggerà la parusia di lui mediante la propria. La parusia dell'iniquo è conforme all'operazione interna di Satana con ogni possanza, in quanto l'iniquo si manifesterà fra ogni sorta di prodigi menzogneri. La parusia dell'iniquo guadagnerà a costui tutti coloro che si perdono, ed essi otterranno tal sorte perché non possedevano l'unico mezzo per salvarsi, cioè l'amore per la verità. Ho svuotato le molto più belle e ricche parole del Ricciotti, senza però far torto ai significati. Blondet si accosta al tema della parusia del male, ci fa sentire il fiato velenoso e sanguinario dell'uomo di menzogna.

10. Blondet insegue, ripercorre, smaschera un possibile e ben radicato e ramificato filone della dissoluzione, quello che si cela nei fatti della cultura e del pensiero iniziatico, destinati ad influire enormemente e per risonanza in una società di massa, oggi pervasa dal consumismo sfrenato e da una notevole perdita di identità dopo le vicissitudini terribili di questo intero secolo alle spalle. Vi si aggiunge il peso stesso delle contraddizioni umane, legate ad una antropologia intrinsecamente limitata e alle condizioni di vita sociale in certe parti del mondo ancora drammatiche e disastrose. Su questo scenario, già di per sé catastrofico (e sub signo contradictionis), si innesta il duello metafisico di Blondet (ma nella loro innocenza lo sanno anche i bambini), tra bene e male. Ciò che, da adulti informati, possiamo convenire di chiamare (credenti e non credenti), Paraclito ed Anticristo. I cattolici, che possiedono come detto una fondata prospettiva verticale, hanno ragione di cogliere, con preoccupazione, i segnali di Shiva e di Dioniso, entità disgregatrici, e metafora del male, che sono all'opera sulla ribalta del tempo, e sul palcoscenico della storia. I marxisti, nello loro escatologia monodimensionale, ritengono o hanno ritenuto invece che i tutti segnali della dissoluzione fossero comunque l'avvisaglia di tempi migliori a venire, del realizzarsi ultimo della storia umana per sorti magnifiche e progressive, per poi finire a propria volta in un bagno di sangue nei lager del paradiso promesso. Una terza componente (distruttiva, satanica, nihilista, soltanto figlia di se stessa e del male, in quanto privato del bene), sarebbe del resto emersa in questi anni di apparente "pace augustea", dalle condizioni stesse dei tempi moderni, che sono sotto gli occhi di tutti. C'è poi l'umanità gemente, la più parte di noi che si trascina come cosa, quasi nulla avendo da sperare. Ma il "là" dove si muore di fame, sembra sempre più corrispondere al "qui" dove si muore di vita. Troppe componenti diverse, e su piani distinti, interagiscono violentemente, passando dalla sfera del corpo alla sostanza dell'anima. Blondet potrebbe aver individuato, in questa terribile scissione rimescolante se stessa di una certa cultura iniziatica (ben oltre il "cui prodest"), una radice metafisica esplicativa, il che farebbe parte del "serpente" e non della "colomba", senonché è l'essere infidi come serpenti la virtù stessa che permette di restare colombe. Il gap è di quelli tremendi. I tempi sembrano consumarsi senza l'aria di un rinnovamento. Anzi l'alito della morte stagna sulle nostre soglie. L'Anticristo (che opera da dentro tutti gli " idola", compresi quelli baconiani) è il veniente, e lo si teme, se non fosse che fede, speranza e carità, indichino anche il "katéchon" o il "defensor pacis". Il capitalismo ha, può avere, un volto umano? Una tale domanda, che è poi quella di Cacciari, emerge chiara dal libro di Blondet, il quale si abbandona, forse anche per una disperazione della ragione, a visioni di sangue, che indubbiamente quest'epoca evoca e quasi invoca, in un crescendo rossiniano. Sono quasi giunto al termine di questo scritto, che a questo punto non posso neppure ritenere passabile. Ciò nonostante cercherò di essere chiaro,


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almeno nelle mie intuizioni soggettive. Il satanismo affligge d'un male sotterraneo questa società occidentale, racchiusa nelle sue prigioni di cemento, non più a contatto con la magia naturale delle cose e gli antichi spiriti animistici, che pure un tempo agitavano altri terrori. Blondet cita (pag. 182) Massimo Introvigne, che in Italia è riconosciuto studioso del fenomeno satanista. Delitti inauditi. Il maligno sembra dunque scatenato. E c'è chi lo invoca in fedi e riti rovesciati. Fu una volta che mi trovai a Neûchatel, a casa di una ragazza che lavorava nella locale Università, Facoltà di Filosofia, con un fratello traduttore di testi assirobabilonesi. Saltando una bassa finestra, si era subito dentro il giardino di Monsieur Du Peyru, l'amico di Montesquieu, uno dei luoghi magici della città, sulle rive dell'omonimo lago. Bene, non so perché, in quella casa silenziosa e come in ascolto, si trovava appesa ad una parete una grande e straordinaria effigie satanica in legno, molto più che a mezzo rilievo. Mi disse che era un lavoro artistico, per altro di assai bella fattura (pur nella sua indubitabile simbologia) del folklore del Jura. Ma anche per adorare Satana bisogna avere una fede. E può essere che simili fedi siano in effetti un bisogno, quale esso sia, di questa povera umanità smarrita, in passato più che altro avvilita nel corpo, e forse oggi molto più percossa nell'anima. Blondet affronta, nell'intervista a Cacciari d'apertura, il problema - a mio avviso fondamentale in tutto il contesto del saggio - cioè quello dell'"etica", che una volta raccolto con straordinaria efficacia nel primo capitolo, poi per così dire si interra, e diviene nel resto del libro un filo sotterraneo, sopra al quale seguiterà, invece, ad emergere, con pieno risalto, il tema scoperto dell'Anticristo. L'etica (o meglio il problema etico) ricompare alla fine, nel dialogo con l'innominato personaggio dissuasivo (una sorta di "alter ego" dialettico? - pag. 226), nei terribili accenni all'epoca moderna. Secondo quanto asserisce lo sconosciuto: "L'uomo e il danaro non hanno più bisogno l'uno dell'altro. Il danaro si produce da solo. E l'uomo verrà speso o sarà investito come lo è stato il danaro in passato. Il rischio allora era di perdere tutto il danaro. Adesso il rischio è di mettere in pericolo moltissima gente". Siamo nello sprofondo, più assoluto e cupo, dell'abisso dell'Anticristo. L'uomo non è più lo sfruttato produttore di un "plus valore", è divenuto cosa, materia informe, carne e spirito "cose". Per Cacciari esiste soltanto l'etica dell'"ethos" greco, corrispondente al "mos" latino. Da buon marxista, che sembra aver scambiato Atene per Sparta, pur citando Erodoto, che aveva tutt'altre origini, Cacciari si rifà al mito più che altro linguistico (dal momento che è in effetti una concezione distorta e irreale la sua), che appunto negando ogni soggettività dell'etica, sia dunque la "dimora" - ethos in origine - a radicare l'uomo alle proprie radici, a una stirpe, a una polis, a un linguaggio. Pertanto si tratta di destini segnati, di condizioni oggettive fissate dalla realtà e dalla necessità. Equivocando in modo assoluto un passo di Erodoto ("la legge della polis è l'immagine di Dike"), di tutt'altro significato, e portando come esempio di rottura la figura di Socrate, Cacciari argomenta che soltanto con il cristianesimo furono sovversivamente spezzati in maniera definitiva i legami fra gli dèi e la società. Gli dèi di ferro della "polis" radicavano l'uomo, lo riparavano dalla "de-cisione" (dal taglio). Fu il cristianesimo a dare una "tragica libertà" all'uomo, di cui la Chiesa è pienamente consapevole. "Per questo - secondo Cacciari tutta la cultura cristiana è un correre ai ripari contro la tragedia che ha provocato, una tensione disperata a riparare il pericolo che viene dalla frattura tra la Città di Dio e la città dell'uomo". Blondet afferra (ripensando all'intervista - pag. 14) il reale significato di queste parole, celato nelle ambiguità e nella copertura " verbale". In realtà esse riflettono un "progetto radicalmente contrario alla fede". Se esistesse una dimensione autenticamente individuale, di autentica responsabilità personale nella scelta, com'è nella religione cristiana, cadrebbe ogni collettivismo. In questo, senso l'etica individuale sarebbe dirompente, assolutizzerebbe la persona, com'è tuttavia in realtà, pur nei doveri verso gli altri sempre pari a se stessi. Cacciari aveva preteso di cancellare, di abrogare, i primi due comandamenti della tavola della Legge, per sostituirvi il vuoto. Ed eccolo qui, il primo zampino della "bestia" che relativizza l'assoluto, e assolutizza il nulla. Una stessa umanità-merce era nei plumbei sogni di prometei illusi, che avevano ucciso la ragione, pur partendo dalle cose. Domandiamocelo davvero visto che il distruttore del comunismo sovietico recava sul cranio l'enorme voglia rossa del colpo


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mortale di piccone che sfondò il cranio di Trotsky! E' andata proprio così. Cosa ci ha mostrato veramente la "storia" con le sua antistorie, ed il mio riferimento è qui fatto al forse dimenticato Fabio Cusin e al più attuale Bruno Giordano Guerri? Forse che si aveva ragione? Cosa ci daranno poi le tanto deprecate " democrazie" di massa, mediatiche ed orgiastiche? Ci potrà essere una vera coniugazione tra socialismo, capitalismo e democrazia, come argomentava l'economista Schumpeter? Ed ecco che il " lettore" che sono e che ha molto apprezzato il libro di Blondet, per colmo pretende di avere una sua risposta, non dopo aver evocato un altro dei suoi modesti ricordi. Sotto un affresco di Giotto conobbi la Signora Z, un'esperta di linguistica che parlava correttamente più di una mezza dozzina di lingue straniere, compreso il greco moderno, che si definiva "prussiana", con casa sui Pirenei non lontana da Lourdes e l'altra a Berlino. Scopersi per puro caso che una sua valigetta di considerevole mole, era ricolma di valuta pregiata, marchi, dollari, sterline. Mi chiarì, allora, di essere un "ambasciatore" della "massoneria internazionale" (sic!), non dopo avermi mostrato uno sguardo feroce, per me terrificante. Fatto è che ricevetti una sua lettera da Cipro durante la famosa crisi cui presto seguì il conflitto greco-turco. Nel libro Blondet parla di massoneria e di intrecci legati all'argomento. Lascio ad altri questa materia, rivisitata da Blondet. Poco sopra ho appena accennato al problema "politico" dell'etica. Chiarisco adesso il richiamo. S. Alberto Magno (1193-1280) scrisse, tra l'altro, un'opera di etica, intitolata "De Bono". Contemporaneo di Innocenzo III, il Papa delle "decretali", un Magister Rufinus (canonista benedettino all'Università di Bologna a metà di quel secolo, le cui decretali sono state raccolte in Germania in un corposo volume pubblicato negli anni '50), che fu anche vescovo di Assisi, scrisse in quest'epoca, forse un po' prima della nascita di San Francesco, uno straordinario trattatello, il "De Bono Pacis", collocabile senza dubbio dopo la pace di Costanza tra i Comuni e il Barbarossa. Magister Rufinus è stato canonico dell'omonima Cattedrale romanica di Assisi (la cui facciata risalente a quest'epoca potrebbe essere ispirata ad un'opera profetica di Gioacchino da Fiore). Tenne il discorso d'apertura del Concilio Lateranense III, fu intimo dell'Abate Pietro di Montecassino (il famoso monastero benedettino distrutto nella seconda guerra mondiale, nella cui biblioteca si conservò il prezioso manoscritto numero 238 di questo straordinario trattatello), e molto probabilmente fu egli stesso abate del soprastante monastero del Monte Subasio, di antichissima e meravigliosa struttura architettonica, non lontano dall'Eremo francescano delle Carceri. In vecchiaia Rufino si ritirò presso il monastero di Fonte Avellana (si consideri l'etimologia del nome, che richiama direttamente la "colomba" del Paraclito). Si può azzardare, con buona probabilità, un rapporto diretto tra il giovane Francesco e Rufino, ancora in vita. Si salderebbe, così, un misterioso "circuito" dello Spirito, su pochi acri di terra assisana, che dal poeta latino-etrusco Aulo Sesto Properzio "fervente poeta d'amore" (è di Properzio il verso che "Amore è un Dio di pace"!), porta alla famosa benedizione francescana del "Pax et Bonum". L'operetta è di quelle straordinarie. Si tratta di un meraviglioso testo letterario, politico, morale, giuridico, teologico e metafisico, il cui "incipit" si diparte dall'interpretazione simbolica della stessa parola PAX ("come dunque per pronunziare la lettera P le labbra si spalancano di più, affinché la voce stessa formata sia profferita, così tutte le cose, che erano nascoste nel segreto dei disegni divini, quasi suono della voce concepita nel cuore, hanno incominciato a formarsi e ad aprirsi per l'opera della creazione") per arrivare alla pace perfettissima della "Gerusalemme celeste" (libro primo), e, attraverso la serrata analisi della "Pace tra gli uomini" (libro secondo), alla riconciliazione nel bene del consorzio storico. In un'epoca come la nostra, dove l'ONU ha emesso numerose risoluzioni sul c.d. capitalismo etico, il trattato di Rufino giunge attualissimo, attraverso la distinzione, assai coerentemente argomentata con una grande mole di richiami biblici nonché a fonti classiche greche e romane, tra la "pace d'Egitto", quella di "Babilonia" e la "pace di Gerusalemme". Inutile chiarire oltre che la pace d'Egitto è quella delle potenze del male, la pace di Babilonia è quella dei mercati, la pace di Gerusalemme è invece quella storicizzata dell'umanità in concordia, quella pace che sarà la stessa di San Francesco. Occorrerebbe leggere direttamente questo eccezionale trattatello, per


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rendersi conto della sua stupefacente ricchezza ed assoluta modernità, tali da non credersi. Il male che insidia l'uomo dall'interno stesso della storia è come il male dei non vedenti. "Frapponendosi tra eletti e reprobi immensi spazi, ed essendosi rafforzato in mezzo il grande caos, come ad opera degli eletti non potrà essere alleviata l'infelicità dei malvagi, così ad opera dei malvagi non potrà essere inquinata la felicità degli eletti". Questa chiusa finale del "De Bono Pacis" riflette direttamente il "super vos non praevalebunt", nell'intelligenza serpentina del male e nell'afflato d'aria della colomba che s'innalza.

11. Potrebbe Blondet aver esagerato nella sua "visio sanguinis", estremamente cruda e diretta. Ma potrebbe anche aver visto giusto, al di là della folla dei personaggi chiamati in causa e delle trame d'ombra del male assoluto, che ritiene di aver snidate. Chiudo con le sue stesse parole (pag. 238) e con un invito a leggere questo saggio "portentoso" e "allucinato": " - Ma quale mondo è? (l'Innominato del penultimo capitolo, "Sospira e guarda l'orologio") - Il mondo della Potenza. Il concretissimo mondo della Shakti. Ma il mio treno sta per partire. Lei pensi a dare al suo libro forma di romanzo [come appunto nel caso di Marc Saudade, lo pseudonimo dell'ignoto autore di "Bersagli mobili": vedi pag. 223]. E' il solo modo per diffondere notizie non deformabili, mi creda".

----Arcangelo Papi è nato nel gennaio del 1944 ad Assisi, città dalla quale non ha mai voluto distaccarsi, venerando San Francesco. Per parte materna ritiene di discendere (secondo tradizione familiare) dal Conte Alberto Boschetti, primo ministro a Ferrara del Duca Alfonso D'Este, che lo fece processare e condannare a morte nel 1512, a seguito di una congiura di palazzo dai risvolti assai intricati, sventata durante una festa di carnevale. I discendenti del Conte Boschetti si rifugiarono in Umbria , in terra pontificia, dove acquistarono il feudo di Casteldarno, nei dintorni di Assisi e al confine con il territorio di Perugia, appartenuto alla famiglia fino all'inizio del secolo scorso. Borsista all'Università Cattolica di Milano, si è laureato poi con lode in giurisprudenza, presso l'Università di Perugia. Vincitore di svariati concorsi pubblici, dopo una lunga carriera che lo ha portato a prestare servizio in varie amministrazioni (nel 1980 ha frequentato la Scuola Superiore di Polizia insieme ad Antonio Di Pietro ) è poi divenuto dirigente dell'Amministrazione Finanziaria dello Stato (allora il più giovane d'Italia). Da moltissimi anni a questa parte svolge, come avvocato, attività di consulenza giuridica e legale alle dipendenze della Regione Umbria. Astrofilo dilettante munito di osservatorio computerizzato, ama altresì occuparsi di "storia delle idee" ed ha in progetto anche un lavoro originale sul poeta latino Properzio. donatellacina@libero.it


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Strategie inquisitoriali del potere controiniziatico (Bruno d'Ausser Berrau) Uscito per la prima volta nel 1994, il libro di Maurizio Blondet, Gli Adelphi della dissoluzione (sottotitolo: Strategie culturali del potere iniziatico), è stato pubblicato dalle Edizioni Ares di Milano. Nel frattempo, esso ha avuto varie ristampe e, quella qui commentata, del 1999, è stata accresciuta da una postfazione dell'autore. La tesi di quest'opera è che la casa editrice Adelphi sia retta da una specie di camarilla occultista - il Blondet scrive <<iniziatica>> - fatta di personaggi (impunemente nominati uno per uno) ambigui e diciamo pure dissoluti, il cui scopo sarebbe, attraverso ben mirate pubblicazioni, quello di far rivivere l'antica gnosi, vista dall'autore come la summa d'ogni perdizione e negazione del sacro. Obiettivo di questi supposti, temibili accoliti: la distruzione della Chiesa. Da quest'istruttoria inquisitoriale, nessuno si salva: letterati, saggisti, studiosi di storia delle religioni, politici, cantanti ed anche un'attrice sono tutti chiamati alla sbarra e caricati dei peggiori sospetti. Neppure rispettati organismi internazionali sfuggono al fumus suspicionis che denso sale da queste pagine fantasiose ed ambigue. <<E che la mente nostra, peregrina Più dalla carne e men da' pensier presa, Alle sue visïon quasi è divina>>1 Nell'inopinato succedersi della costruzione indiziaria, s'avverte, nelle pagine de GLI ADELPHI DELLA DISSOLUZIONE, uno strano afflato di veggenza che trascende lo stesso ragionamento razionale e che permea di sé le pagine di quest'insolito libello, il quale, pur non volendo, in alcun modo, essere opera di fantasia, quant'invece di mero e crudo giornalismo, ci trasporta in un inquietante universo sotteso da un'aura preternaturale. È come se dietro la scena di questo nostro mondo, contesto di fatti banali e squallidi, da altro, apparentemente motivati se non dal guadagno o dalla spasmodica ricerca di effimeri successi, ci fosse fatta intravedere una sotterranea presenza di tenebra. Nella, di certo, declinante luce di quest'autunno dello spirito, che tutto rende incerto e fungibile, il lettore è costretto a trasalire per l'ombra e il freddo che sente levarsi da quel Cocito, il cui abisso indicibile, dietro i veli delle nebbie cinerine ed eleganti che lo nascondono ed opportunamente ne mascherano l'intima, orrifica natura, avverte a lui prossimo ed inquietante per la quasi familiarità del suo presentarsi sotto nomi che, per chi abbia consuetudine con la vita finanziaria e culturale del nostro paese, tante volte, ha letti, ascoltati e, sempre, per l'autorevolezza delle persone, trovati citati. Da cosa trae dunque forza evocativa ed apparenza d'incisività, l'analisi dovuta alla penna del Blondet? Non ci sono nelle sue pagine lunghe citazioni di encicliche papali, non riferimenti tomistici di rilievo, non c'è un particolare ricorso ai temi frusti e spuntati della devozionale apologetica cattolica ma, fin dal titolo, nel quale domina il concetto di dissoluzione, per costruire il suo j'accuse, egli non ha potuto fare a meno, per affrontare quello che gl'appare il nemico assoluto e totale d'ogni spiritualità, di reperire tutti gli strumenti dell'argomentazione, in quell'ambito appartato e negletto dalla cultura ufficiale, che è il punto di vista tradizionale, così com'è stato espresso nell'opera di René Guénon. È in quest'autore che, il concetto di dissoluzione, centrale nell'indagine del Blondet, tanto da annunciarsi sin dal titolo, trova una sua precisa concettualizzazione e collocazione temporale nella fase terminale di questo ciclo d'umanità. È in questo momento storico che, il materialismo, ultimo avatar del razionalismo inaugurato da Cartesio e del pragmatico


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utilitarismo di Bacone, si trova a dover fronteggiare assalti inusitati che solo animi ingenui e sprovveduti sentimentali possono scambiare e, pieni di speranza, salutare per un'autentica, rinata quête del sacro e del vero. Le attuali teorie scientifiche e filosofiche abbandonano l'idea stessa di materia polverizzandola nei paradossi della fisica quantistica e la solidità della vita ordinaria, si perde nel relativismo d'ogni appartenenza e nella discutibilità d'ogni gerarchia come di qualsivoglia ordinato assetto sociale. Nella corsa secolare, inauguratasi con l'inizio del cosiddetto mondo moderno, il processo di tutto ricondurre alla quantità è ormai giunto al suo limite ed il transito, sul piano scientifico, è rappresentato proprio dal passaggio, in ogni settore dello scibile, a teorie puramente matematiche. Per esemplificare: la <<bella scienza>>, come nel secolo scorso ancora, collettivamente, si definivano le discipline volte a investigare la natura nelle sue molteplici forme e che tanto infiammava il sentimentalismo positivista, si è dissolta in un pulviscolo di cifre e formule che altro non è se non uno dei tanti segni dell'avvenuto, epocale balzo (non solo teorico) dalla quantità continua alla quantità discontinua. È per questa ragione che, oggi, niente di "solido" può ormai più sussistere e qui il Blondet anche se c'è da dubitare ch'abbia potuto apprezzare questi sottili sintomi dei tempi, tenuto conto della probabile fiducia che ripone nel positivo giudizio sul <<progresso>> della pedissequamente allineata Pontificia Accademia delle Scienze - avrebbe potuto, convenientemente citare, con Guénon,2 il cattolico <<solvet sæclum in favilla>>. Nell'opera di distruzione del katecon tradizionale, il lavoro soltanto nichilista del razionalismo materialista non avrebbe ormai potuto progredire più di tanto: chiuse all'uomo moderno le vie della vera spiritualità per condurre davvero al rovesciamento di qualsivoglia ordine, si rendeva, a questo punto, necessario far irrompere ben altre forze. E sono queste che salgono da quel Cocito che la dialettica del sospetto di Blondet ci fa intravedere con raccapriccio. È dunque la sua un'analisi giusta e davvero sono quelli i responsabili di tanto male? Prima di valutare un poco più da presso l'oggetto di questi interrogativi, s'impone il rilievo di un'enormità metodologica che sconfina nella disonestà intellettuale: tra gli addebiti da lui mossi alla casa editrice Adelphi c'è proprio quello di aver pubblicato qualche opera di Guénon ovvero alcuni degli studi di colui che, di fatto, gli fornisce tutti gli strumenti intellettuali indispensabili per imbastire la sua istruttoria. Naturalmente il suo lavoro di vampirismo è più articolato; ad un certo punto insinua, del tutto gratuitamente, che Guénon fosse legato ai servizi de renseignement del suo paese e poi, più avanti, con toni sibillini, lo definisce un <<infiltrato>>. È questo un sistema di procedere che, nel libro, si ripete con continuità e non solo ai danni dell'autore francese. Poi, nella postfazione, il Blondet, assurdamente, si lamenta che nessuno, alle sue accuse, abbia portato convincenti prove a discarico. È il suo, un modo di procedere caratteristico anche di certa magistratura: si fanno lanciare, da equivoci personaggi, gli addebiti più infamanti e da essi le vittime sono chiamate a discolparsi quando - recto jure l'onere della prova spetterebbe invece all'inquirente. Ma cosa pretendeva, che la famiglia Mattioli si difendesse dall'accusa di magia nera? Perché non è lui a fornirci i riscontri documentali di chi ha permesso quella strana sepoltura? Ci sarà bene un placet dell'autorità ecclesiastica competente sull'Abbazia. E pur ci saranno, a testimoniare come il richiedente fosse conosciuto quale buon cattolico, tutte le attestazioni e le simili referenze che, in tali delicate circostanze, sono sempre state richieste. Perché non intervistare qualche ecclesiastico coinvolto? Ed allora, se l'intera vicenda non l'avesse ancora convinto, perché non trascinare nel sospetto pure questi? Ma, evidentemente, per il Blondet, quell'ambiente è sempre al disopra di quei sospetti di cui, con altri, è così prodigo o, più semplicemente, lì, la sua indagine capziosa non ha spazi autorizzati per espandersi. Ed ancora: cosa voleva, che i Cuccia, gli scrivessero per rassicurarlo: <<No! Ma che dice Dottore! Stia tranquillo: lo scopo della pratica domenicale non era assolutamente quello di trafugare la particola eucaristica per domestiche pratiche sataniche>>? Ma chi gli ha mai detto che il laicismo (politico) sia per forza vissuto disgiunto dall'osservanza religiosa? Non gli sembra coerente? No, forse non lo è


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se vuole fino in fondo la nostra opinione (però su questo tema, si potrebbe discutere davvero a lungo) ma da questo ad ipotizzare quello che lui scrive e, soprattutto sottintende, ce ne corre. Non è egli al corrente come, nel passato e nel presente, importanti cariche istituzionali della nostra Repubblica, abbiano conciliato un passato azionista ed una militanza laica, con la pratica del Cattolicesimo? Satanisti anche loro? Ma non è informato che ci sono sconsiderati "razionalisti", i quali, accesi dalle sue catene sillogistiche e seguendolo sulla via dell'assolutamente impropria demonizzazione della Shakti, hanno individuato, in negativo, qualcosa d'analogo nel culto mariano?3 Il problema vero, accennato sin dall'inizio, è che il pericolo dissolutorio è ben reale ma non è certo nelle pubblicazioni dell'Adelphi - dove si può trovare di tutto 4 - che può davvero intanarsi il corpo dell'Idra. Assurde sono anche quelle storie sull'UNICEF: ma non sa il Blondet come, senza negare la possibilità degli episodi raccontati dal supposto Furio Colombo (alias Marc Saudade), negli USA, la Chiesa Cattolica sia costretta, ogni anno, a spendere miliardi per risarcire le famiglie dei bambini vittime delle non spirituali attenzioni di troppi suoi sacerdoti? E con questo? Nessuno s'è sognato di scrivere che sia lì, in quegli atti devianti, uno dei suoi scopi, non diciamo istituzionali ma almeno nascosti e meno che mai passa, a noi, pel capo di pensarlo. Però il Blondet, a tutto carico di questi, per tanti versi benemeriti, organismi internazionali, vuole evidentemente suggerirci il peggio. Ma si sa cosa circola in certi ambienti: la piovra del mondialismo…sono tutti istituti d'invenzione massonica … ci sono dietro i soliti ebrei ancorché frankisti…. e via insinuando. Svariate pagine sono poi dedicate alla povera Jody Foster contro la quale solleva luridi sospetti: fermo restando che di questa persona niente sappiamo, viene da chiedersi ma come si permette? Ma cosa mai l'autorizza a dedurne il ruolo d'oscura, piccola shakti (ripetiamo che l'accezione negativa del termine è solo sua) cinematografica, soltanto partendo dalla modesta origine sociale di lei e collegandola a quella che ritiene la pertanto impossibile frequentazione di un'università prestigiosa della ivy league…salvo che….e lì ricomincia col solito criptico alludere. Già, l'università di Yale ... la storia del goliardico club dei rampolli dell'establishment, cui appartenne George (the first) Bush, lo Skull and Bones, diventa un tormentone che, evidentemente, può permettersi chi sia o voglia essere à tout prix refrattario a certo pur discutibile humor anglosassone. Viene da chiedersi: è possibile che questo censore non ricordi le grevi, fescennine feste matricolari delle nostre università ante '68? Perché i "papiri", di una pornografia postribolare, non attirano le sue ire di muffita sagrestia, avendone magari scovato (non sarebbe difficile) qualche remoto autore tra i rispettabili e più attempati soci del suo entourage ... eh no! ... quella, si sa, era una sana vitalità latina, eredità di tempi lontani ma conservatasi nei decenni anche grazie a quel periodo di sana autarchia non solo economica (altro che mondialismo!) m'anche culturale ... niente a che vedere con le straniere, perfide ed algide "iniziazioni" della vecchia e Nuova Inghilterra. E qui si giunge ad un'altra perla di questa serie di fantasticherie; il termine <<iniziazione>> ricorre continuamente nel testo in un'accezione totalmente negativa. Ora è noto che, tecnicamente, uscendo cioè dal semplice etimo che lo riconduce ad un generico initium, la parola sta ad indicare il rito d'ingresso in un'organizzazione esoterica. Questo discorso vale per tutte le religioni e forme tradizionali e non è mai connotato al di fuori del sacro o contro di esso. Non solo sono esistite iniziazioni cristiane 5 sino a tutto il Medio Evo ma se il restio Blondet riesce a superare i suoi blocchi mentali, vista la fiducia che dimostra pel cattolico CESNUR (si fa riferimento ad una sua positiva citazione di Massimo Introvigne), può trovare una valida documentazione di qualcosa6 che è giunto sino ai nostri giorni nel lavoro di Stefano Balzani e PierLuigi Zoccatelli,7 HERMÉTISME ET EMBLÉMATIQUE DU CHRIST, DANS LA VIE ET DANS 8 L'ŒUVRE DE LOUIS CHARBONNEAU-LASSAY. Considerato poi anche il suo reiterato, assillante riferirsi alla Gnosi in termini ereticali e diabolizzanti sembra il caso che egli, nello stesso libro, vada a controllare, nel foglio di risguardo, dopo il frontespizio, la dedica tratta da un Padre della Chiesa, Clemente d'Alessandria,9 che, per sua comodità, traduciamo: <<I contenuti della gnosi, in parte noi li possediamo già, in parte, con ciò che noi abbiamo li speriamo


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fermamente; noi non abbiamo ricevuto tutto ma nemmeno siamo privi di tutto, ma siamo in possesso di una sorta di pegno sui beni eterni e sulla ricchezza del Padre: e le provviste per il viaggio sulla via del Signore sono le Beatitudini del Signore>>. Per farsi un corretto giudizio sulla Gnosi, si ritiene senz'altro miglior cosa porre fiducia in un Padre della Chiesa piuttosto che nelle esagitate ossessioni del neo-fondamentalismo controriformista. Poiché, comunque, chi scrive non ha gli stessi suoi scrupoli di parte, gli si fa notare come il Sommo Pontefice non sembri ritenere satanisti o assimilabili i cristiani di fede riformata pur sapendo che, presso di loro, l'iniziazione massonica (è quello il mostro che egli vuole far sempre intravedere con l'inflattivo uso del sostantivo) è cosa talmente diffusa da essere quasi scaduta ad impegno di massa. Impegno al quale non si sottraggono nemmeno quei prelati di varie confessioni così ben in vista negli incontri ecumenici: satanista anche la Curia? C'è però una strana contraddizione nell'ineffabile Nostro: a p. 156, dopo una serie di giuste riflessioni su Nietzsche, conclude dicendosi preoccupato che lo sciagurato possa avere <<imboccato coscientemente la via della contro-iniziazione, la via luciferina>>. Strana cosa davvero se l'iniziazione ed il suo contrario sono entrambe malvagie. Questo riferimento è però importante: come nel famoso falso, denominato I PROTOCOLLI DEI SAVI ANZIANI DI SION, è un'infamia l'attribuzione al popolo ebraico del piano eversivo lì delineato, quello stesso piano corrisponde però all'effettivo modus agendi di ciò che Guénon chiama <<controiniziazione>>. Proprio perché, essendo l'iniziazione, nella concezione guénoniana, il cuore effettivo di ogni sacralità, il nemico di essa non può che esprimersi ed agire attraverso la sua contraffazione. Curioso è quindi questo qui pro quo del Blondet; che senso avrà mai dunque l'odio contro-iniziatico, espresso attraverso la girandola degli equivoci semantici e delle sconcezze attribuite, per tutto il libro, senza scrupoli di sorta? Perché molte delle cose che riporta su persone, movimenti ed autori, sono, sulla falsariga metodologica dei PROTOCOLLI e come già accennavamo anche nel nostro incipit, certamente vere ed allarmanti. Diciamo meglio che vero ed allarmante è l'assalto, da più parti, portato contro ogn'autentica espressione della spiritualità tradizionale ma quello che qui colpisce è l'indiscernibile hotchpotch di vero e di falso, il quale sembra artatamente predisposto per la maggior confusione dell'incauto lettore. Colpisce, inoltre, l'apparenza di costruito a freddo percepibile in tutto l'insieme. Non sa il Blondet che il mondo è una mistione di bianco e nero e che se c'è davvero qualcuno dietro la scena agirà, quasi senza eccezione, per vie indirette, attraverso suggerimenti e propalatori di confusione non sempre coscienti del ruolo che viene fatto loro giocare ma mai si potrà incarnare in toto in un qualsiasi organismo (ente, nazione o stato) pubblicamente conosciuto qual è, nella fattispecie, la casa editrice chiamata in causa e che, tra l'altro, (sono parole sue) ha <<sdoganato>> proprio l'opera di René Guénon? Non vede che le forze antitradizionali sono in azione ovunque e che anche nella Chiesa, 10 non solo si manifestano attraverso i numerosi cedimenti sul piano dottrinario ma che proprio le ripetute chiusure exoteriche, il ribadito storicismo letteralista, così come le assurde cacce (la "fissa" antignostica ad es.) alle streghe quali la sua, non fanno altro che renderne, per la mutata strategia dell'avversario, vieppiù fragile il millenario, già inattaccabile fest Burg? Ma non si rende conto che il suo castello accusatorio è grottesco? Però, forse, l'incauto non è cosciente di come proprio il grottesco sia uno dei marchi dai quali può riconoscersi l'opera del maligno…. <<perché mai avvenga che si convertano e sia loro perdonato>>!11 Ancora qualcosa riguardo a Guénon: le citazioni blondettiane da L'ERREUR SPIRITE sont, vraiment, très déroutantes. Per chi non conosca l'opera in questione, sembra, da come esse sono montate e presentate, che il Nostro stia carpendo all'autore un qualche vergognoso segreto (i.e. l'arte del governo occulto) e del quale egli ne sia, in certa misura, colpevolmente partecipe (l'<<infiltrato>>, l'<<agente>>!). In effetti, il discorso, letto nella sua interezza, è una precisa accusa di Guénon verso coloro che, deliberatamente, si prodigano per diffondere opportuni états d'esprit. Ovvero proprio quello che il Blondet, per tutto il libro, s'ingegna a fare, col gettar fango sull'idea stessa d'iniziazione e su chiunque con essa, a diritto ed a rovescio, venga, in qualche modo, coinvolto dal suo suggestivo argomentare.


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Per concludere, qualche precisazione massonica; non inutile, tenuto conto che il Blondet, si considera tra i ben informati e, quindi, in grado di molto far conoscere di quest'organizzazione: (p. 246) l'azzurro è sì il colore dei grembiuli delle obbedienze anglosassoni (e non solo di quelle) ma l'<<Arca Reale>> semplicemente non esiste. C'è il completamento del grado di Master Mason, che si chiama Royal Arch e la cui traduzione è, con evidenza, diversa. Poi, tra gli High Degrees, si trova un sistema - e nemmeno dei più frequentati - denominato Royal Ark Mariner facente riferimento alla Prima Alleanza (Noè). 12 Ma da questo a considerarlo un emblema dell'Occidente ce ne corre! Infine (p.260), c'è il richiamo alla torinese RIVISTA DI STUDI TRADIZIONALI della quale, sporadicamente, abbiamo letto e possediamo qualche numero ma quello con l'articolo in questione ci manca. Definirla <<periodico della Massoneria torinese>> è veramente risibile. Intanto la Massoneria italiana è talmente frammentata in decine e decine di Obbedienze, sempre rivali se non nemiche tra loro, da rendere ridicolo, ancorché riferito ad una sola provincia, quest'attribuzione unitaria. 13 Nello specifico; quella rivista - è cosa nota in città - è redatta da massoni assai particolari. Essi sono, infatti, parte di un gruppo di remota filiazione dal Grande Oriente, il quale poi, da molti anni uscitone, è andato a costituire una Loggia del tutto autonoma. Ad accrescere l'originalità di questa comunità, si dice che i sui membri appartengano al Tasawwuf. Questa precisazione non è una critica nei loro confronti - una delle caratteristiche massoniche è appunto la tolleranza, virtù evidentemente spregiata dal Nostro - ma può servire, sia a dare la misura dell'eterogeneità degli indirizzi presenti sotto lo stesso titolo associativo, sia a palesare l'incongruenza delle favole sulla ben temperata congiura mondiale. Ma ciò dà pure la misura del senso delle proporzioni che il Blondet dimostra: se, su obiettivi molto vicini e facilmente classificabili, spadella tanto facilmente figurarsi quando se la prende con i Bush! Una precisazione finale: ci siamo sottoposti alla lettura di questo libro ed infine, dopo varie perplessità, abbiamo acconsentito a scrivere quanto precede, perché, proprio da coloro, pei quali la stessa esperienza è stata, per loro stessa ammissione, una specie di bomba psicologica, <<una vera rivelazione>>, siamo stati esplicitamente sollecitati ad esprimere, senza infingimenti, la nostra opinione. Tale lettura, in questi sventurati, ha, naturalmente, mosso i mai sopiti demoni dell'antisemitismo,14 dell'antimassonismo e di quella sciovinistica diffidenza verso il mondo anglosassone (<<la perfida Albione!>>) che, storicamente, l'Italia si ritrova a covarli tutti e tre, ben stretti in solidale compresenza, sotto la cenere delle, in apparenza, più diverse e contrastanti couches politico-ideologiche. Per un devoto giornalista dell'AVVENIRE, non c'è che dire: davvero un bel risultato ecumenico!

Note 1

PUR. IX. 16-18

2

R. Guénon, LE RÈGNE DE LA QUANTITÉ ET LES SIGNES DES TEMPS, Gallimard, 1945 ; Ch. XXIV. Tutta l'opera gli ha fornito amplissima materia di riferimento. 3

Le connessioni dei suddetti sono queste: il culto mariano s'è sviluppato grazie ai cavallereschi ordini medievali, ergo tutto nasce con i Templari, i quali eretici, gnostici, criptogiudaici … fanno parte del complotto … e via farneticando. Comunque, se il Nostro vuol capire qualcosa del vero ruolo della Shakti, farà bene a rileggersi le litanie lauretane. 4

Tanto per dare un'idea della demenza delle tesi accusatorie, tra gli autori "malvagi", la cui pubblicazione è messa tra le prove del complotto adelphiano c'è anche Hugo von Hoffmannsthal mentre un vero "diabolico" come Bataille, per quei tipi, pur mai apparso né annunciato, è, gratuitamente, considerato l'occulto persuasore, che inspira i cuori del perverso Calasso e soci. 5

Vorremmo ricordargli che, nell'Ortodossia, l'Esicasmo è tuttora vitale e ben presente.


336 6

Si tratta dell' Estoile Internelle e della Fraternité des Chevaliers du Divin Paraclet; entrambe organizzazioni ermetico-cavalleresche <<en parfait accord avec la plus stricte orthodoxie, tout en détenant parfois [...] des secrets séculaires étrangement troublant…>> p. 61 del testo citato infra e in nota 8. 7

Quest'ultimo è del CESNUR.

8

Archè, Milano, 1996.

9

ACLOGÆ PROPHETICÆ, 12.1 [LE DÉVOLOPPEMENT DE LA FOI ET DE LA GNOSE].

10

Ribadiamo come, anche a noi, stia a cuore l'indispensabile funzione di katecon della Chiesa ma non è certo con paladini quali il Blondet che tale presidio spirituale potrà resistere a lungo. 11

MC. 4.12. Il brano, nella sua interezza, è davvero esplicito, sul senso esoterico o gnostico che dir si voglia, che sta alla base del messaggio cristiano: <<A voi [è ai Dodici che Gesù parla] è stato dato il mistero del regno di Dio, ma per quelli che sono di fuori, tutto si fa mediante parabole; affinché guardino bene, ma non vedano, odano bene ma non intendano, perché mai avvenga che si convertano e sia loro perdonato.>> (Ed. Paoline, 1958). Cfr. anche MT.13.13 e LC. 8.10. 12

Tale specifica struttura non pare, in questo momento, attiva in alcuna delle Obbedienze italiane.

13

Per rendere la natura del legame massonico - anche se il paragone ha tutti i limiti insiti in questa figura retorica - si potrebbe equipararlo a quello esistente tra le varie comunità in cui si suddividono i cristiani: protestanti, cattolici, ortodossi (con tutte le risse e le eventuali simpatie del caso)…fermo restando che, in realtà, di quello massonico, si deve sottolineare che trattasi di un ambito esoterico ancorché molto deteriorato ed esteriorizzato specie nelle obbedienze "latine". Tutto ciò fa ben capire quale valore debba darsi alle continue accuse di cospirazione universale che, alla Massoneria, rivolgono i complottisti di varia estrazione. Fantasiose e risibili, per chi conosca le cose dall'interno, sono anche le leggende sulla cogenza di una gerarchia il cui senso o è puramente amministrativo, o, nella quale, i "gradi" hanno un ruolo che esula dall'accezione disciplinare secondo la quale possono essere intesi da coloro, che si fanno carpire dall'umbratile gioco di personaggi quali il Nostro. 14

Ma non lo sa il Blondet che alla defunta setta frankista, della quale tanto insiste nel far intravedere supposte, criptiche sopravvivenze (non solo di sangue intende m'anche teologico-operative) tra famiglie di eccellenti ebrei occidentali, si potrebbe - avec sa méthode - essendo stati i capi del frankismo, al momento del battesimo, ricompensati con l'anoblissement, attribuire, volendo, anche analoghe, sospette continuità cospiratorie in cattolicissime famiglie dell'aristocrazia polacca? Basti pensare come lo stesso poeta nazionale Adam Mickiewicz fosse di stirpe frankista. Non solo, dunque, Eva Frank ed i cugini Dobruska godettero di questa promozione sociale ma numerosi altri la cui discendenza - qui non vorremmo scaldare troppo il Blondet - si prosegue anche a livello di alcune case reali. Un ultimo dettaglio: non è l'Austria a proteggere Frank e famiglia e lui non muore a Brunn in Moravia ma dov'egli si trasferì con tutta la sua corte ovvero in Germania, nel castello di Offenbach, presso Francoforte, nelle terre del Principe di Ysemburg (cattolico), al quale pagava regolare, cospicuo affitto.

----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 1 di Episteme] ausserberrau@hotmail.com */*/*/*/*/*/*


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L'assassinio di Mozart (Giorgio Taboga) (Ed. Akademos, Lucca, 1997) I lettori di Episteme hanno già avuto modo di conoscere, sin dal fascicolo precedente, i lavori di Giorgio Taboga, e di apprezzare l'amore disinteressato di questo ricercatore della "verità storica", e il suo sdegno per coloro che cercano invece di dissimularla, ispirati da finalità extra-scientifiche che non possono non ricordare il passo che citavamo nel N. 3 della rivista, nel corso della recensione al libro "colombiano" di Vittorio Giunciuglio: "Nel corpo di questa 'humus' percettiva del tutto amorfa la diffusione delle conoscenze, anche le più concrete, si snodava lungo il filo esilissimo di un'assoluta minoranza di scribacchini colti osservanti delle prescrizioni religiose prima che del reale. Essi hanno manovrato le leve del sapere che grazie al maggior ascendente, forza impressiva e stabilità della cultura grafica ha trasmesso la sua interpretazione del passato" (Emilio Michelone, Il mito di Cristoforo Colombo, Varani Ed.,

Milano, 1985 - enfasi aggiunta). Tale osservazione si riferiva a una situazione antecedente la cosiddetta "rivoluzione moderna", e che quindi tutti riterrebbero ormai morta e sepolta da un pezzo - e certamente lo è in ordine all'evidenziata "minoranza" - ma le vicende di cui Taboga ci rende edotti (che si vanno peraltro ad aggiungere a numerose altre che la nostra pubblicazione non manca quando può di segnalare), mentre illustra le sue contestate "ipotesi", gettano seri dubbi sui fondamenti di una siffatta "fiducia": non sembra essere sufficiente un aumento di "quantità", laddove resti la sottomissione a qualsiasi tipo di "osservanza". Con queste poche righe vogliamo proporre all'attenzione dei lettori un'ulteriore opera dello studioso in parola, affidando all'autore stesso, con l'articolo di seguito riportato, la parte più ardua della recensione, e cioè l'illustrazione sintetica del contenuto, compito che del resto non poteva essere assolto meglio da altri che da lui. Diamo però sempre, come d'uso, il Sommario del volume, per fornire maggiori elementi d'informazione ai potenziali interessati a un approfondimento. Presentazione di Luigi Della Croce Prefazione La morte di Mozart di Piero Buscaroli Quello che si vuol far credere I capisaldi La morte di Mozart: miti e falsità Il timore dello scandalo: la nomina a S. Stefano Franz e Magdalena Hofdemel: due vittime dell'ira Intermezzo tragico: il "caso Salieri" Conclusioni Considerazioni finali Epilogo Appendice - Documentazione scientifica e letteraria: descrizioni dei vari autori Bibliografia

Aggiungiamo solo qualche altra parola di nostro, esprimendo tutta la stima per chi ha l'avvedutezza (l'autonomia di pensiero) di rendersi conto, e il coraggio di denunciare, l'"impotentia ratiocinandi che coglie gli studiosi davanti ai mostri sacri" (loc. cit., p. 33), e


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risponde in anticipo alle prevedibili osservazione pedanti dell'"accademia" (di solito assai "schizzinosa", e poco disponibile a un dialogo vero) affermando che: "Chi alla fine della lettura vorrà chiedermi dei chiarimenti può contare su una mia risposta alla sola condizione che le contestazioni siano espresse in forma urbana. A chi trovasse da ridire sul mio stile posso solo opporre che fare dello stile non era il mio scopo. Mi appello quindi all'autorità di Giuseppe Carpani, che ricorre per difesa a S. Agostino (De Doct. Christ. IV. II): "quelli che sono schizzinosi riguardo allo stile degli scrittori, tanto più si mostrano imbecilli, quanto più vorrebbero parer dotti; dè buoni ingegni l'indole essendo questa, che nelle parole amano il vero, e non le parole" " (loc. cit.,

Prefazione). Una citazione complementare, infine, a conclusione della presentazione di un testo che affronta, e smaschera, un'altra delle tante "congiure del silenzio" di cui abbonda la vulgata storica che ci viene messa a disposizione, per rimarcare, da "cartesiani", una sorta di professione di fede dello scrittore, che è anche, si potrebbe dire, un "manifesto metodologico", del tutto condiviso da Episteme. Si tratta precisamente di alcuni versi ripresi dalle pagine che seguono ("L'ode al dubbio", Bertolt Brecht). Migliore riflessione non avremmo potuto trovare prima di passare la mano (o la penna) al diretto interessato: "Salutiamo serenamente e con rispetto chi, come moneta infida, pesa la nostra parola. (…) Com'era difficile accorgersi che era così e non diverso. (…) Sono coloro che non riflettono a non dubitare mai".

(UB)

Oil painting of Mozart as a Chevalier of the Golden Spur, executed in Salzburg in 1777 by an unknown artist and showing Mozart wearing the Order of the Golden Spur awarded him by the Pope in 1770. [http://www.geocities.com/Vienna/Strasse/9570/mozart/index.html]


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Un falso bicentenario: l'assassinio di Mozart (Giorgio Taboga) Dal 1984 sono impegnato in una ricerca difficile ed osteggiata sullo sconosciuto musicista veneto Andrea Luca Luchesi <Motta di Livenza (Tv) 23.5.1741 - Bonn 21.3.1801> che fu il vero maestro di Ludwig van Beethoven a Bonn e fornitore di musiche a Joseph Haydn e Wolfgang Mozart [vedi Episteme N. 4]. Il mio tentativo di eliminare gli effetti della cancellazione di cui il Luchesi è fatto oggetto da due secoli mi rende interlocutore scomodo perché contesto i miti codificati ed evidenzio, con le mie tesi "rivoluzionarie", la necessità di riscrivere la storia della musica della fine del ‘700 nel rispetto dei documenti e della logica laddove oggi imperano i miracolismi e le falsità. Mi rivolgo a tutti, me compreso, perché vi sia la disponibilità a ridiscutere le proprie certezze, parafrasando "L'ode al dubbio" di Berthold Brecht: "Salutiamo serenamente e con rispetto chi, come moneta infida, pesa la nostra parola. (…) Com'era difficile accorgersi che era così e non diverso. (…) Sono coloro che non riflettono a non dubitare mai".

Non sono il primo a scoprire che le biografie degli artisti vanno riscritte ed aggiornate alla luce delle nuove acquisizioni e che queste revisioni possono portare a conclusioni diverse da quelle per secoli codificate. Basti pensare alla nuova immagine di Johann Sebastian Bach ancora in gestazione1 ed alle tante edizioni aggiornate del "Mozart" di Otto Jahn prima che H. Abert decidesse che era giunta l'ora di dare vita ad una nuova visione. Tutte le biografie "classiche" dei grandi musicisti tedeschi nascono in un ben preciso clima culturale contro il quale ci mette in guardia Anthony Grafton quando scrive: "Gli studiosi tedeschi del tardo diciottesimo secolo e primo diciannovesimo secolo furono dei veri maestri nel credere e diffondere elaborate ipotesi, alcune delle quali fondate, al pari di traballanti piramidi rovesciate, su un unico elemento di prova. Molti di essi furono bravissimi nel credere con estrema facilità finanche le cose più inverosimili ".2

E' stato anche affermato che per smentire una tradizione se ne deve dimostrare l'intima debolezza mentre, per sostituirla, è doveroso presentare una documentazione se non più ricca, almeno maggiormente attendibile. Sono due problemi distinti con i quali mi sono dovuto confrontare per ricostruire la verità su Andrea Luchesi 3, cancellato come maestro di cappella per vent'anni a Bonn e come autore di musiche oggi circolanti sotto nome altrui. Proprio indagando sugli scomparsi lavori di Luchesi ho potuto constatare l'illogicità di certe "spiegazioni" di avvenimenti e l'inattendibilità di molte attribuzioni ai tre "mostri sacri" della cosiddetta Wiener Klassik, Haydn, Mozart e Beethoven, che tutti ebbero rapporti con Andrea Luchesi4. Oltre quindici anni di ricerche mi hanno condotto al motivato rifiuto delle "tradizioni" che gabellano Joseph Haydn e Wolfgang Mozart per autodidatti e creatori di soli capolavori. Falsa è anche la "tradizione" ottocentesca che vuole Beethoven a Bonn allievo di Christian Gottlob Neefe, mentre lo fu di Andrea Luchesi, come ha confermato il dr. Luigi della Croce al convegno berlinese del luglio 1999. 5 Quanto a Wolfgang Mozart, che il dr. L.della Croce ha presentato proprio qui al Sancarlino come allievo di Luchesi nella sua conferenza del 25 gennaio 2000,6 ancora nel 1956 il grande direttore d'orchestra Bruno Walter esternava per primo quello che Piero Buscaroli definisce oggi "un disagio acutamente mozartiano", un dubbio di fondo mai risolto in maniera accettabile che dimostra la debolezza


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intima della "tradizione" corrente: "Nulla di quel che conosciamo dell'uomo Mozart corrisponde al creatore che fu".7 Gernot Gruber8 è ancora più esplicito: "Nulla caratterizza maggiormente l'ascesa di Mozart e ha influito di più sulla storia della sua fortuna delle grandi lacune nelle nostre conoscenze, come anche in quelle delle generazioni immediatamente successive. Come era da aspettarsi, subito dopo la morte di Mozart, insieme alla fama crescente, cominciò a nascere la leggenda. E' sorprendente che molti informatori che conobbero Mozart ed ebbero contatti con lui, abbiano scritto le loro memorie solo molto tardi, in alcuni casi trenta o quarant'anni dopo, vale a dire che i testimoni oculari - sia reali, sia presunti, - tacquero ancora a lungo, persino quando la fama di Mozart si era da tempo consolidata. Il perché lo abbiano fatto costituisce un tema su cui riflettere. Gli stessi memorialisti amavano dare l'impressione che per decenni a nessuno fosse venuto in mente di interrogarli su Mozart. Lo scettico penserà che sapevano molto bene perché avevano atteso fino al momento in cui nessuno era in condizione di correggerli ".9

Nella biografia del primo marito, apparsa nel 1828 a nome del secondo Georg Nikolaus Nissen morto due anni prima10, Constanze Mozart inserì un avvertimento mafioso per dettare le direttive alle quali dovevano attenersi (e la storia dice che si attennero) due secoli di "ricerca mozartiana: "Non si vuole e non si deve mostrare in pubblico il proprio eroe così come egli stesso si sarebbe forse descritto nell'intimità delle serate familiari. Dire tutta la verità può nuocere alla Sua fama, alla Sua rispettabilità, al successo della Sua stessa musica".11

Una dichiarazione programmatica di cui Bernhard Paumgartner tenta di incolpare unicamente Nikolaus Nissen: "Questo voler tacere per amore della sua fama praticato da Nissen fu la causa di sensibilissime lacune proprio nella descrizione dei periodi più critici e fatali nella vita di Mozart. Le narrazioni della vedova così delicatamente ammannite da Nissen favorirono poi quella rigogliosa fioritura di fronzoli romantici nell'ulteriore letteratura biografica che dovevano imperversare fino ai nostri giorni. Ed ancor più doloroso è dover constatare che molte informazioni giudicate da Nissen con grandiosa disinvoltura inadatte all'immagine dolciastra dell'Immortale (…) sono andate perdute per sempre. Molti tratti, molti nomi (perfino nelle lettere originali di Mozart!) vennero cancellati, soprascritti - e quindi falsificati - da Nissen. E questo è certamente soltanto una piccola parte delle molte cose occultate a nostra insaputa".12

Per impedirci di conoscere la verità sono state fatte sparire 27 lettere di Mozart al padre posteriori al giugno 1784 (ne sopravvive solo una) e 67 lettere di Leopold alla figlia Nannerl degli anni posteriori al 178113. Ne sono state invece coniate delle false, attribuite volta a volta a Mozart, ad Haydn ed a Beethoven. Le informazioni sui "momenti critici e fatali" della vita di Mozart troppo spesso ci giungono per vie traverse perché taciute dagli agiografi mozartiani. Nessuno ci dice le vere ragioni per le quali Melchiorr von Grimm cacciò Mozart da Parigi il 26 settembre 1778. Solo l'americano Alexander Weelock Thayer, biografo di Beethoven, ci informa che nel 1784 l'elettore di Colonia Maximilian Franz d'Austria, l'ultimo figlio di Maria Teresa, tentò di liberarsi del Kapellmeister "a vita" Andrea Luchesi per far posto a Bonn al suo protetto e coetaneo Mozart14, al quale furono poi intestati i lavori strumentali e teatrali che in precedenza Luchesi intestava al proprio cognato Ferdinand d'Anthoin 15. Solo dalla biografa di Luchesi Claudia Valder-Knechtges abbiamo saputo che Mozart suonava ancora nel 177778, a Mannheim e Parigi, il concerto per pianoforte in Fa maggiore che Luchesi gli aveva dato a Venezia nel 177116.


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La costruzione della "tradizione" che presenta Mozart come un genio impareggiabile della musica si deve principalmente al barone Gottfried van Swieten, che agì per conto dell'establishment asburgico, in particolare dell'arciduca Max Franz elettore di Colonia 17. Una tradizione destinata a scomparire, intaccata da ogni parte con documenti che oggi non regge più. E' mia personale opinione che disponiamo già degli elementi sufficienti a confutarla in toto; solo gli enormi interessi coinvolti continuano a condizionare la critica impedendo alla verità di farsi luce. E veniamo all'assassinio di Mozart. Nel breve spazio concesso, devo limitarmi alla confutazione di un falso che da duecentonove anni esatti - Mozart morì alle ore 0.55 di lunedì 5 dicembre 1791 - sconcerta chi, dotato di senso critico e rispettoso della logica, rifiuta le enormità inconcepibili che vengono oggi gabellate per verità. La morte di Mozart costituisce la cartina al tornasole rivelatrice di quali e quanti interessi siano coinvolti nel falso, dalla fama della musica tedesca all'economia di una città e forse di un'intera nazione. Dalle falsità disseminate sulla morte apparirà chiaro il bisecolare tentativo di manipolare i fatti di tutta la vita di Mozart, imporre delle false tradizioni, cancellare il ricordo dello scandalo che seguì il suo assassinio e tacere la sua sepoltura anonima e segreta. Così Gottfried Kraus riassumeva nel 1989, a quasi duecento anni dai fatti, la versione governativa della morte di Mozart e degli eventi che la precedettero e la seguirono:18 "Sulla morte di Mozart si sono costruite innumerevoli speculazioni, dicerie e leggende. Già i suoi diretti contemporanei formularono le più astruse supposizioni sull'origine ed il decorso della sua malattia mortale, ma queste leggende trovarono ancor più nutrimento nel 19° secolo: che Mozart fosse stato avvelenato per invidia dal maestro di cappella di corte Salieri, o per gelosia da Franz Hofdemel, il geloso marito di una sua allieva, che soprattutto Constanze non si sia molto afflitta per la sua morte e Mozart, impoverito e dimenticato, sia stato sotterrato in una tomba per poveri ed ogni altra storia scandalistica di questo tipo. (…) Malgrado ciò, la morte di Mozart ed anche le origini mediche della sua morte, sono certificate in modo assolutamente credibile ed a prova di contradditorio. (…) Georg Nikolaus von Nissen scrisse nella sua biografia (…): La sua malattia mortale, dalla quale fu costretto a letto, durò quindici giorni. Iniziò con enfiagione delle mani e dei piedi ed una quasi totale immobilità degli stessi. (…) La sepoltura ebbe luogo il 7 dicembre con la benedizione a Santo Stefano. Anche su questa sepoltura sono state costruite numerose speculazioni e leggende. (…) La sepoltura ebbe luogo dopo le 6 di sera nel cimitero di S. Marco mentre, in base alle leggi sulle sepolture allora vigenti, non era previsto alcun cerimoniale. Solo il becchino ed il suo aiutante provvidero all'inumazione, probabilmente il giorno successivo. Il cadavere di Mozart (…) fu posto in una bara personale ma inumato in una tomba comune, secondo l'uso del tempo. Singoli sepolcri, lapidi o perfino monumenti funerari erano allora riservati alle famiglie nobili ".

Già da questa "panoramica" risulta chiaro che nessuno fu presente all'inumazione di Mozart e che nessuno sa dove sia stato sepolto. Si citano le leggi sulle sepolture emanate da Giuseppe II non più in vigore mentre si tace la disposizione, non rispettata nel caso di Mozart, di attendere 48 ore prima dell'inumazione del cadavere. Ma c'è molto di più e di certo: nessuna delle affermazioni di Gottfried Kraus corrisponde a verità. La "tradizione" che la censura asburgica e la posteriore agiografia mozartiana tentarono di cancellare era di tutt'altro tenore. Claudio Casini ci informa che la morte di Mozart divenne subito un "caso politico" e come tale venne trattata dalla censura:19 "Quanto ai loschi intrighi in cui si mescolavano dissolutezza e politica, si disse con insistenza che Wolfgang Amadeus fosse stato l'indiretto responsabile di un orribile fatto di sangue accaduto all'indomani della sua scomparsa. Un cancelliere di tribunale, Franz Hofdemel, aggredì con un rasoio la moglie Magdalena, incinta, la deturpò senza riuscire ad ucciderla e si uccise egli stesso, in preda ad un raptus. Magdalena prendeva lezioni di pianoforte da Mozart; Hofdemel conosceva Mozart e nel 1789 gli aveva anche prestato del denaro. Tutta Vienna giurava che Magdalena era incinta di Mozart e


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che il marito lo sapeva. A queste voci credeva anche Beethoven, che invece non voleva credere al pettegolezzo su Salieri".20

Piero Buscaroli è molto più preciso: "Secondo una tradizione orale ancor viva a Vienna alcuni decenni orsono, Mozart sarebbe morto di emorragia cerebrale, per una bastonata di Hofdemel. Simile fine, brutale ed impoetica, spiegherebbe la riluttanza a rievocarla, ed il diffuso proposito di cancellarla. Metterebbe a posto, letteralmente, ogni quesito, ogni lacuna. Ma nessuna vera prova l'ha mai confermata ".21

Casini, Buscaroli e chissà quanti altri musicologi, così come Francis Carr, autore di un documentato dossier sulla vicenda,22 sono giunti alle soglie della verità ma non sono riusciti a superarle per l'imprinting conseguente alla loro preparazione musicale o per l'impotentia ratiocinandi che coglie anche i più agguerriti critici dinanzi al "mostro sacro". Buscaroli in ispecie aveva anche pienamente colto la falsità della "tradizione" ufficiale perché accusa Otto Jahn di essersi lasciato intimidire dalla pruderie fino al punto di alterare, minimizzare ed alla fine espungere dalla sua biografia il legame tra Magdalena, Franz Hofdemel e Mozart e scrive: "Il signor Robbins Landon non ha torto quando afferma : "non c'è assolutamente alcuna prova che la tragedia Hofdemel sia, direttamente od indirettamente, riferibile a Mozart". Dovrebbe aggiungere che non c'è più alcuna prova, perché tutte le prove furono soppresse e lui lo sa.23 E si continua a sopprimerle, come può constatare il lettore della raccolta Die Dokumente di Otto Erich Deutsch (…) Questa raccolta, per altri versi ed in altri campi tanto meritevole, offre un esempio di falsificazione brutale e priva di qualsiasi serietà storica dove, commentando l'Attentat del 6 dicembre (sfregio e suicidio di Hofdemel) intima: "Porre questo "Affaire" in connessione con la morte di Mozart, ed attribuire a lui la paternità del bambino messo al mondo il 10 maggio 1792 dalla signora Hofdemel appare infondato. Tutto al contrario, infondata è la pretesa di mantenere al loro posto le falsificazioni ottocentesche e le fisime della censura asburgica in un clima morale e perfino in un gusto romanzesco talmente mutati".

Buscaroli non ha capito che per l'immagine che si vuol mantenere di Mozart è essenziale falsificare gli eventi relativi alla morte. Eppure Aloys Greither lo aveva ben evidenziato scrivendo: "Attribuendo a Mozart una salute robusta ed una morte improvvisa, inattesa e violenta, si sottrae alla sua opera il suo significato trascendentale. Ciò non vuol dire che Mozart, mortalmente malato, abbia scritto musica malata; ma egli, che conosceva il suo corpo come uno strumento fragile e consacrato alla morte, nelle ultime opere tracciò dietro di sé confini che i comuni e sani mortali non potranno mai oltrepassare. L'ultimo linguaggio di Mozart, semplice, sobrio, immune da ogni superfluo ornamento, è di una bellezza sovrannaturale che ha già superato la morte ed impresso all'arte il sigillo di ciò che non è destinato a perire bensì a durare in eterno. Mentre Mozart avvertiva in sé la morte e l'accettava con fidente rassegnazione nella sua opera, ci rivelava un regno nel quale lo spirito immateriale parla in assoluta bellezza a noi mortali".24

Già Wolfgang Hildesheimer aveva contestato la falsificazione di Constanze-Nissen: "Vista da una prospettiva biografica e con lo stacco temporale di un paio di secoli la morte di Mozart non fu un progressivo andare spegnendosi ma uno spegnersi improvviso, non un lento logoramento ma una fine repentina; senza apoteosi finale, senza "ultima fiammata". (…) Lo stadio finale (…) sarebbe quel coma uremico che una terza voce medica descrive come ultima fase di un'altra malattia: la nefrosclerosi risultato di un'affezione ai reni, latente in Mozart già al tempo dei viaggi in Italia. (…) Non siamo autorizzati ad accantonare una teoria che scaturisce da una seria disamina delle fonti primarie eppure ci sembra troppo scarsamente documentata. (…) Se ci risolviamo, data l'ambiguità del


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materiale, ad eliminare tutti quei fattori la cui origine proviene da ipotesi speculative, allora siamo propensi (…) a ritenere che Mozart sia morto improvvisamente, per un male acuto, forse un'epidemia".25

Buscaroli sapeva dunque che la censura asburgica aveva lasciato trapelare soltanto informazioni false sulle circostanze della morte di Mozart e che quella che circola non è la verità, ma al momento di trarre le conclusioni fu distradato dall'imprinting musicale e da A.Greither. Superando fideisticamente l'inspiegato divario tra persona ed opera, che ancora cinquant'anni orsono creava tanto disagio in Bruno Walter, scrive: "L'evidente assenza di superiori doti morali e culturali non intralcia la meteora miracolosa, un uomo assolutamente ordinario può essere abitato dal genio della musica. Dopo quarant'anni il disagio è divenuto baratro; documenti sconosciuti eruttati da archivi e biblioteche hanno demolito le poche certezze, moltiplicato gli enigmi. Tutto quello che credevamo di sapere su quella morte è prodotto di falsificazioni che i biografi continuano a ricopiare e truccare. Circostanze conosciute ai contemporanei furono accanitamente cancellate. Perché?".26

Ed alla fine Buscaroli, condizionato dalle falsità correnti, accetta con Greither come concause della morte naturale di Mozart la nefrosclerosi ipotetica, un'epidemia non dimostrata e dei salassi inesistenti, con il timore per il suicidio/scandalo di Franz Hofdemel che agisce a ritroso; una soluzione che lui stesso riconosce del tutto insoddisfacente. Tornando alle affermazioni di G.Kraus, è falso che la malattia sia durata quindici giorni e che Mozart fosse in condizione di cantare il Requiem la sera prima della morte. 27 Manca un certificato del medico curante che attesti la causa mortis, non fu chiamato un prete per l'estrema unzione28, non esiste prova della benedizione della salma a S. Stefano. Si ignora dove Mozart sia stato sepolto e se sia stato sepolto il giorno 7 o non addirittura lo stesso giorno della morte.29 Nel 1960 si è rivelata falsa l'informazione che le intemperie avevano impedito a parenti ed amici di seguire il feretro: il tempo era mite, forse c'era un po' di nebbia.30 Nel 1971 si è avuta conferma che il cadavere di Mozart era stato rivestito con la tunica nera di una confraternita di cui non era membro, con il cappuccio tirato sulla fronte 31 ad impedire la visione dei danni provocati dalle bastonate di Franz Hofdemel. G.Kraus tace che Constanze attese 17 anni prima di recarsi alla presunta tomba del primo marito nel cimitero di S. Marco ad un'ora di strada da Vienna e questo, oltre a darci la misura del suo disamore per Mozart, autorizza a dubitare che a S. Marco il cadavere di Mozart sia mai giunto. Lo stesso lunedì 5 dicembre può essere finito nel Danubio con una palla al piede, vista l'urgenza del barone van Swieten di sbarazzarsi della salma in via rapida e definitiva onde evitare una possibile riesumazione. Il barone era stato espressamente sollevato dal suo incarico ministeriale dallo stesso Imperatore Leopoldo II per dedicarsi a soffocare lo scandalo che minacciava di lambire il trono. Le voci sulla malattia durata 15 giorni, le tempestive calunnie ai danni di Salieri ed altri, furono diffuse ad arte dal barone e dal suo entourage al preciso scopo di inquinare il ricordo, rimasto vivo a Vienna per quasi due secoli, delle bastonate mortali di Franz Hofdemel. Le leggi in vigore non imponevano sepolture comuni ed anonime. La mia ricostruzione della morte di Mozart fa giustizia dei lacrimevoli racconti relativi i presagi di morte, all'uomo in nero che avrebbe commissionato il Requiem 32 ed alle favole sull'avvelenamento da parte di Salieri o della massoneria. La certezza dell'avvelenamento ed i presagi di morte sono un'invenzione della vedova: Mozart passò repentinamente da uno stato di perfetta salute alla condizione di moribondo. Rimangono pochi dubbi sulle modalità dell'assassinio. Il più importante riguarda l'intenzionalità, che tenderei ad escludere. Informato dalla moglie delle non gradite "attenzioni" di Mozart, Franz Hofdemel decise di dargli una lezione che non potesse dimenticare facilmente, ma senza intenzione di ucciderlo. Fu l'ira a fargli perdere il controllo ed eccedere nella punizione e Mozart morì a causa delle percosse. E' dubbio anche il tempo impiegato da Mozart a morire. Poiché la commozione cerebrale si


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manifesta in genere entro 48 ore dal trauma e la crisi finale avvenne la sera del 3 dicembre, la "lezione" mortale di Hofdemel potrebbe risalire ad un paio di giorni prima. E' però del tutto esclusa una data precedente: non ci vogliono 15 giorni per morire di bastone. Il giorno stesso della morte Constanze pretese la vendetta su Franz Hofdemel, il pagamento degli ingenti debiti del marito ed una pensione di 800 fiorini, pari allo stipendio annuale percepito da Mozart.33 In cambio Constanze diede il consenso alla sparizione del cadavere 34, si impegnò a tacere la causa mortis ed il fatto che i debiti del marito nascevano in gran parte dall'acquisto dei lavori di Andrea Luchesi, che dal maggio 1784 si intestava per volere di Max Franz ed a maggior gloria della musica austriaca35. Hofdemel, ancora ignaro della morte di Mozart, fu convocato ed indotto a suicidarsi dal barone van Swieten, distaccato da Leopoldo II, per la sua competenza musicale, a soffocare uno scandalo che vedeva coinvolti altri due suoi fratelli, il defunto imperatore Giuseppe II ed il più giovane Max Franz di Colonia, e minacciava di coprire di ridicolo le pretese di supremazia della musica austriaca. Tutti i debiti di Mozart furono pagati, compresi i 1435 fiorini dovuti al principe Carl Lichnowsky, che il 9 novembre aveva ottenuto dal Landrecht un decreto ingiuntivo ai danni di Mozart.36 Per ulteriori dettagli rinvio al mio libro "L'assassinio di Mozart", nel quale dimostro come non una delle molte e fantasiose soluzioni proposte per gli enigmi relativi alla morte di Mozart possa essere accettata. Ricapitolando: il 3 dicembre, o qualche giorno prima, Mozart ricevette dal geloso Hofdemel una bastonata che gli sfondò il cranio e causò l'emorragia cerebrale. Sintomi rivelatori furono l'emiparesi che lo colpì dovuta alla massa intracranica, le difficoltà respiratorie (i rantoli gabellati per imitazioni dei timpani del Requiem) e la paralisi incrociata dagli occhi. La versione "governativa" descrive un impossibile quadro clinico e parla di coma apparso soltanto nelle due ultime ore, ma il figlio maggiore di Mozart si ricorda del padre immobile per almeno due giorni ed incapace di controllare le funzioni corporali. 37 Il dr. Thomas Closset lo visitò la notte del 4 dicembre e rifiutò di rilasciare un certificato di morte naturale perché tutta Vienna era ormai al corrente delle bastonate di Hofdemel. Il barone Gottfried van Swieten venne chiamato a soffocare lo scandalo perché Giuseppe II aveva protetto Mozart e Max Franz di Colonia-Bonn, allora presente a Vienna, aveva scorrettamente imposto al Magistrat di Vienna la nomina del "dissoluto" Mozart ad aiutante del Kapellmeister di S. Stefano, la chiesa più prestigiosa dell'intera Austria.38 Convinto dell'impossibilità di sfuggire al boia, il 6 dicembre Hofdemel accettò di suicidarsi per amor di patria contro l'impegno di riconoscere alla moglie una pensione che venne poi quantificata in 560 fiorini annuali39. L'accurato piano di depistaggio studiato da Swieten che prevedeva un suicidio "asettico" con Magdalena affranta che, scoperto il suicidio, chiede aiuto, fu scombinato all'ultimo momento da Hofdemel, che in un impeto di ribellione per la sua sorte ingiusta sfregiò la moglie e rese così evidente il legame tra le due vicende, che poi invano Swieten e la censura asburgica cercarono di separare. Il cadavere di Mozart fu fatto sparire rapidamente e senza autopsia per impedirne la riesumazione, rivelatrice della causa mortis. Solo van Swieten sapeva dove fosse finito il cadavere di Mozart e portò il segreto nella tomba. Benché esposto in modo nuovo, tutto ciò era noto da tempo. Che l'assassino fosse Franz Hofdemel lo sapevano Beethoven, Czerny, Koechel, O.Jahn, naturalmente Constanze, sua sorella Sophie, Suessmayr, Swieten e tutti coloro che, a Vienna, tramandarono il ricordo dei fatti. In tempi moderni l'ha riscoperto Francis Carr, attirandosi le ire dei musicologi austrotedeschi, convinti di essere riusciti a modificare in via definitiva la verità, e degli integralisti mozartiani. Ma Carr, che pure ha ricostruito la vicenda nelle sue linee essenziali, è inattendibile quando accetta che Mozart sia stato avvelenato da Hofdemel mentre morì di trauma cranico dovuto ad una bastonata. Dello sfregio subito da Magdalena - perché tale fu e non un mancato omicidio - e del suicidio di Franz Hofdemel parlarono i giornali del tempo, ma non quelli viennesi. Malgrado la


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pesante censura risulta chiaramente che Hofdemel venne accompagnato a casa con l'obbligo di non uscirne vivo, sorvegliato a distanza da un incaricato di fiducia di Swieten. Solo così si spiega il tempestivo intervento dello sconosciuto che, subito dopo il suicidio ed in assenza delle previste reazioni della moglie, si presentò a casa Hofdemel con due testimoni ed un fabbro, fece abbattere la porta e giunse appena in tempo per salvare Magdalena, svenuta e quasi dissanguata.40 Ecco dunque spiegati, dopo 200 anni di falsi, in modo attendibile e completo gli avvenimenti relativi alla morte di Mozart, il collegato sfregio /suicidio di Hofdemel, il silenzio mantenuto dalle due vedove, le pensioni che ebbero senza averne diritto, gli interventi falsificatori di Swieten e della censura asburgica, le calunnie ad Antonio Salieri. Dall'indagine è emerso che Constanze provava per il primo marito solo noia e disprezzo; l'unico motivo di gratitudine fu la sua singolare dipartita che mise Constanze in condizione di ricattare principi ed imperatori, ricavandone di che vivere con larghezza lei ed i due figli. Swieten ed i suoi epigoni si adoperarono per nascondere la verità ed ancora oggi si continua a mistificare per sfruttare la "gallina dalle uova d'oro" in cui si è riusciti a trasformare Mozart. Sulla morte di Mozart si sono sbizzarriti musicisti, medici, sociologi, letterati, psicanalisti, filosofi ai più diversi livelli di serietà. Sono in particolare da segnalare tra i musicologi un paio di "utili idioti", gli studiosi americani H.C.Robbins Landon e M. Solomon, attardati su posizioni di retroguardia che la "ricerca mozartiana ufficale" ha da tempo abbandonato per rifugiarsi su linee più difendibili.41 Nessuno di coloro che ha indagato sulla morte di Mozart ha menzionato i suoi particolari rapporti con Max Franz di Colonia ed i suoi legami artistici con Andrea Luchesi, risalenti alla sosta veneziana dei due Mozart nel febbraio-marzo 1771. Allora Wolfgang ebbe dal maestro veneto il concerto per cembalo che suonò il 28 ottobre 1777 ad Ellwangen an der Jagst, sulla via di Monaco e Parigi, e sua sorella Nannerl usava per istruire se stessa ed i giovani di Salisburgo.42 Poiché Luchesi è menzionato nelle superstiti lettere di Leopold Mozart, incontrò almeno due volte Haydn a Bonn sulla via di Londra (1790 e 1792 43) e Beethoven fu suo allievo a Bonn fino a 22 anni, le biografie dei tre "grandi" che non menzionano Luchesi non meritano i soldi spesi per l'acquisto. Questi accertati rapporti rendono evidenti i motivi che impongono alla musicologia tedesca la difesa ad oltranza delle falsità oggi correnti: la ricomparsa di Andrea Luchesi in rapporto ad uno qualsiasi dei "mostri sacri" avrebbe un effetto-valanga anche sugli altri due e questo obbliga tutti gli agiografi dei tre musicisti a coalizzarsi per nascondere la verità. Lo dimostra il mancato seguito alla segnalazione dell'attività didattica svolta a Bonn da Luchesi da parte di Luigi della Croce al congresso beethoveniano di Berlino del luglio 1999 ed il silenzio che su Luchesi ancora manteneva nel giugno 2000 Sieghard Brandemburg, il direttore del Beethovenarchiv di Bonn. E la verità che mi propongo di dimostrare, ora che la demolizione delle false tradizioni sta creando lo spazio e l'interesse per una nuova realtà, è molto semplice. Spiega logicamente il "disagio mozartiano", l'incompatibilità tra la persona e l'opera di Mozart e la presenza di elementi stilistici comuni nei lavori dei tre autori della Wiener Klassik. La fama di Joseph Haydn è costruita con i lavori sinfonici di Giovan Battista Sammartini e di Andrea Luchesi; molti dei lavori di livello elevato circolanti sotto il nome di Mozart sono in realtà di Luchesi e Ludwig van Beethoven potè divenire un grande della musica perché fino a 22 anni, a Bonn, ebbe a maestro Luchesi44. Di conseguenza la Wiener Klassik, lungi dal dimostrare la conquistata supremazia della musica tedesca sulla musica italiana, è un fenomeno quasi unicamente italiano, una "appendice" della musica italiana. Lo confermeranno i controlli non più rifiutabili sui lavori luchesiani oggi presso la Biblioteca Estense di Modena, in particolare sulle cinque messe "di Joseph Haydn" e sui due gruppi di 28 e 10 sinfonie che l'8 maggio 1784 l'organista di corte Ch. G. Neefe inventariò a Bonn come "de differents Auteurs" ed oggi troviamo intestati il primo a Haydn ed il secondo a Mozart. 45 Tra le sinfonie in parti di questo secondo gruppo vi sono K.504 Praga e l'anonima K.551 Jupiter datate da Mozart rispettivamente 6 dicembre 1786 e 10 agosto 1788. Poiché Luchesi era partito per Venezia nell'aprile 1783, le due sinfonie erano state da lui composte tre anni e mezzo e cinque anni


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prima delle date indicate da Mozart nel suo catalogo personale. Completati questi controlli, alle false "tradizioni" potremo finalmente sostituire una documentata verità.

Note 1

P.Buscaroli. La nuova immagine di J.S. Bach. Milano 1982.

2

A.Grafton. Falsari e critici. Torino 1996 p.73. Alla luce degli elementi emersi dai miei studi, la capacità di credere e far credere anche le cose più inverosimili è ancor oggi prerogativa dei musicologi tedeschi ed affini. 3

Vedi G.Taboga. A.Luchesi. L'ora della verità, Ponzano V.to (Tv) 1994 e "A.Luchesi e la cappella di Bonn" in "Restauri di Marca n.3 (speciale) Ed. Coop. DiEmmeCi, Villorba (Tv) Dicembre 1993. 4

Preciso che la responsabilità delle false attribuzioni non è sempre dei musicisti in questione. Le leggi del tempo consentivano ed a volte tutelavano il "cambio" di paternità ed a questo si aggiunge la mancanza di scrupoli di molti editori. Ma nemmeno così si esaurisce il problema. 5

L.della Croce. Der junge Beethoven und "sein"Kapellmeister Andrea Luchesi. Intervento al congresso beethoveniano tenutosi presso la Hochschule der Künste Berlin organizzato dal Verein Beethoven-Haus Bonn e dalla Freie Universität Berlin. Il dr. L.della Croce mi dà atto di aver usato gli elementi di prova da me fornitigli. La traduzione italiana dell'intervento è stata pubblicata dalla RMI (Riv. Mus. Ital.) anno IV n.15 Luglio/ Settembre 1999 pp.13-16. 6

L.della Croce. Andrea Lucchesi maestro di Mozart e di Beethoven, Brescia. Teatro Sancarlino 25.1.2000. Anche questo incontro era stato organizzato dall'Associazione Mozart-Italia di Brescia. 7

Citato in P.Buscaroli. La morte di Mozart. Milano 1996. Presentazione

8

G.Gruber. La fortuna di Mozart, Torino 1987 p.6.

9

Per un'idea precisa delle informazioni che ci vengono ammanite, ricordo che uno dei capisaldi della "tradizione mozartiana" è costituito dalle "Memorie di un uomo del popolo" attribuite a Joseph Deiner, il cameriere di Mozart morto il 29 maggio 1823. L'articolo apparve sul "Morgen Post" del 28 gennaio 1856, a 65 anni dalla morte di Mozart ed in occasione del centenario della sua nascita, e H.C.Robbins Landon lo definisce "famigerato" (vedi L'ultimo anno di Mozart Milano 1988 p.217 n.12). Contiene "una sapiente miscela di verità e finzione"; "lo stesso O.E.Deutsch restò preso in questa burla incredibile e usò le informazioni tratte dall'articolo per gran parte del proprio testo". 10

P.Buscaroli definisce la biografia lo "Pseudo-Nissen".

11

Citato in B.Paumgartner . Mozart Torino 1978 p.10.

12

Ibidem.

13

Buscaroli cit. p.41.

14

A.W.Thayer. Beethovens Leben. Leipzig 1866 I 142 ss.

15

Almeno 10 sinfonie, diversi singspiel e inserti musicali come i cori per la tragedia "Lanassa o la vedova del Malabar" oggi a Francoforte sul Meno. 16

C.Valder-Knechtges. Die weltliche Werke A.Luchesis. Bonn 1984 p.100.


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Dopo l'assunzione della reggenza a Bonn nel maggio 1784 Max Franz rese accessibile a Mozart tutta la musica di Luchesi e gli fece intestare quella che in precedenza Luchesi intestava al cognato. Naturalmente a fianco gli assicurò la copertura finanziaria per gli importi degli acquisti. 18

G.Kraus. Musik in Oesterreich. Eine Kronik in Daten, Documenten, Essays und Bilden. Wien 1989 pp.145 ss. 19

C.Casini. Mozart Milano 1990 p.13.

20

Mi chiedo come C.Casini possa definire "pettegolezzo" l'infamante calunnia fatta volutamente circolare ai danni di Antonio Salieri di aver avvelenato Mozart per invidia artistica. 21

Buscaroli cit. p.205 n.10. B. e J. Massin. Mozart. Paris 1990 p.580 scrivono: "Magdalena est l'élève de Mozart et se trouve enceite. Pour les conteporains la question ne se pose pas: c'est la liaison de Magdalena et de Wolfgang qui a causé le drame, Magdalena ayant trahi son chagrin à la mort de son amant. Et toute Vienne se jase avec scandale". 22

F.Carr. Mozart & Constanze. Genova 1991.

23

Il grassetto è nostro. Non mi pare che Buscaroli potesse rivolgere a Robbins Landon un'accusa più esplicita di falso. 24

Aloys Greither. Mozart. Torino 1968 p.61. E' evidente che se risultasse provato che Mozart morì all'improvviso di bastone, tutto ciò risulterebbe soltanto un cumulo di sciocchezze. 25

W.Hildeshaimer. Mozart Milano 1987 p.388.

26

Buscaroli cit. presentazione

27

Cioè la sera del 4 dicembre 1791. L'enormità di simile affermazione di Constanze Mozart è tale che i Massin, per restituirle un minimo di credibilità, si riferiscono al 3 dicembre perché, dato che Mozart è morto alle ore 0.55 di lunedì 5, per loro il giorno 5 non conta e la vigilia della morte diviene sabato 3 dicembre. Massin cit. 572 n.2 28

Sophie Heibl, la cognata di Mozart presente alla sua morte, afferma che i preti non vollero venire, il che può essere solo falso. Ogni prete ha l'obbligo canonico assoluto di recarsi presso il moribondo in qualsiasi circostanza e qualsiasi sia la sua reputazione. Non venne un prete perché non fu chiamato. 29

Il decesso fu registrato due volte nel registro dei morti di S. Stefano; una prima volta in data 5 dicembre, poi la registrazione fu cassata e riportata in data 6 dicembre. Vedi M.Solomon cit. p.452 ss e p.557 note 60 e 61. Le leggi imponevano un intervallo minimo di 48 ore tra il decesso e la sepoltura. 30

Dal diario del conte Carl Zinzendorf citato da E.Komorzynscki in "Wiener Figaro" XXVIII 1960 n.1

31

Testimonianza di Ludwig Gall (5.12.1791) citata in "Epilegomena mozartiana" da Karl Pfannhauser, MozartJahrbuch 1971/72 p.284. 32

Il Requiem era stato commissionato a Mozart dal conte Franz von Walsegg zu Stupach senza sotterfugi, davanti all'avvocato Johann Nepomuk Sortschan di Vienna. L'accordo prevedeva che il conte si intestasse il lavoro con l'obbligo di Mozart di non rivendicarne la paternità. Buscaroli cit. pp.266 ss. 33

La pensione le fu promessa dall'imperatrice ma si ridusse poi a soli 266 fiorini annui. Evidentemente vennero erogati i restanti sotto altra forma, meno rivelatrice del ricatto che Constanze era in condizione di esercitare sui membri di casa Asburgo. Dal 6 novembre al 18 dicembre 1791 vi era a Vienna anche l'elettore Max Franz, il protettore di Mozart, e sicuramente contribuì alla definizione


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degli accordi con la vedova. Forse una parte dei debiti di Mozart era già stata da lui pagata in precedenza. 34

A garanzia Constanze chiese una copia della maschera mortuaria del marito che testimoniava i danni provocati dal bastone di Hofdemel. La maschera fu distrutta da Constanze dopo che ogni pendenza era stata risolta; dell'originale tratto dal conte Deym (alias Mueller) si ignora la sorte. 35

Nessuno aveva finora dato una spiegazione se non esaustiva, almeno soddisfacente dei debiti di Mozart e di chi li pagò. Vedi Buscaroli cit. pp.407 e 438. Nessuno parla dell'ingiunzione per 1435 fiorini che era stata notificata a Mozart a favore del conte Carl Lichnowsky e del fatto che era stata decisa la trattenuta sullo stipendio di Mozart, che poi documentatamente non venne attuata. Evidentemente il debito era stato pagato, probabilmente da Max Franz. 36

Naturalmente i documenti relativi sono scomparsi. Ce ne informa M.Solomon cit. p.395. I verbali della Corte della Bassa Austria rivelano però che a Mozart doveva essere trattenuta metà dello stipendio fino a concorrenza dell'importo ma non risulta che la misura sia stata adottata sul salario trimestrale relativo ai mesi di ottobre, novembre e dicembre percepito da Constanze agli inizi del nuovo anno. 37

Karl Thomas Mozart Lettera s.d. (1824?) cit. in Paumgartner p.504.

38

Carr. Cit. 116 ss. Max Franz intendeva così creare le condizioni per intestare a Mozart anche i lavori sacri del suo Kapellmeister Andrea Luchesi. Le messe sinfoniche finirono invece intestate a Joseph Haydn dopo il 1795. 39

Lo stipendio di Hofdemel era di 400 fiorini. Constanze ebbe solo 266 fiorini contro gli 800 di stipendio di Mozart. Anche Magdalena era quindi in condizione di ricattare l'establishment e con più argomenti legali di Constanze. 40

Carr. Cit. p.145. Se Hofdemel non avesse gravemente ferito la moglie per sfregiarla, sarebbe stata la stessa Magdalena ad aprire la porta e chiedere aiuto appena scoperto il suicidio del marito. 41

In merito a Robbins Landon vedi Taboga. L'assassinio cit. p.67 n.27 e diverse altre "perle" segnalate da P.Buscaroli. Per M.Solomon vedi in particolare a p.455 ss del suo Mozart il tentativo di giustificare la sepolura anonima e frettolosa con una volontà espressa da Mozart di cui non esiste alcuna prova. 42

C.Valder-Knechtges. Die weltliche Werke A.Luchesis. Bonn 1984 p.100. Il rapporto, iniziato nel 1771, sia pure con diversa intensità, durò fino alla morte di Mozart e giustamente il dr. Luigi della Croce ritiene che una simile influenza, lunga e qualificata, autorizzi ad annoverare Luchesi tra i maestri di Mozart. 43

Vignal cit. p.338. Haydn fu a Bonn con J.P.Salomon nel Natale 1790 per prendere le sinfonie di Luchesi necessarie alla prima tournée londinese e nel 1792 da solo per poter avere con sé per due anni il giovane Beethoven. 44

Dei tre "mostri sacri" Ludwig van Beethoven è il solo plausibile perché ebbe l'insegnamento giusto nei tempi giusti da un maestro come Luchesi, che manca nella biografia degli altri due pseudo-geni. 45

Confronta A.Sandberger. Die Inventaere der Bonner Hofmusik in Ausgewaelte Aufsaetze fuer Musikgeschichte. Muenchen 1924 Band 2 (falsato), l'originale presso lo Staatsarchiv di Duesseldorf ed il catalogo di Pio Lodi delle giacenze musicali della Biblioteca Estense. Edito nel 1924. (Rip. anast. A.Forni Editore - Bologna).

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Il presente studio condensa e completa il mio intervento del 5 dicembre 2000, 209° anniversario della morte di Mozart, al Teatro Sancarlino di Brescia sul tema "L'assassinio di Mozart". Ringrazio il dr. Luigi della Croce di Dojola, il presidente dell'Associazione Mozart-Italia di Brescia ing. Franco Donina ed il prof. Ottavio de Carli per la possibilità offertami di parlare del mio libro "L'assassinio di Mozart" edito da Akademos-LIM di Lucca nel 1997 e delle mie ricerche sul musicista veneto Andrea Luchesi. Brescia 5 dicembre 2000 Silea (Tv) 4 marzo 2001

----[Una presentazione dell'autore si trova nel numero 4 di Episteme] gtaboga@tiscalinet.it ----Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) Life - Born Salzburg, Son of Musician Leopold Mozart. Until 1773 Wolfgang was completely under the direction of his father. He did not go to school. Wolfgang was a child prodigy and his father sought to develop that great musical talent. He began to travel early in life. In January 1762 Mozart was taken to the Court of Maximilian III in Munich. Half a year later he went to Vienna to exhibit his musical genius at the Imperial Court. As a teenager he traveled to the famous opera centers of Italy. Started to compose music before age five. By age 12 he had written sonatas, concertos, symphonies, opera (Bastien and Bastienne). He rebelled against social restrictions imposed by the patronage system. At age 25 he moved to Vienna to be free artist. Married in 1782. His last work was the Requiem, or Mass for the Dead, he had the notion he was writing it for himself. He died in 1791, and because of his debts he was given the poorest class of funeral, and was buried in a paupers grave.

Music - A. Instrumental Music (In chamber music he favored the string quartet, but also wrote divertimentos, serenades. He is known for his concertos for piano, his favorite instrument. He wrote more than forty symphonies, his last three were probably never performed during his lifetime). B. Vocal Music (Opera was the central current in his art: La finta semplice 1768, Bastien und Bastienne 1768, Mitridate, Re di Ponto 1770, Lucio Silla 1772, La finta giardiniera 1775, Il re pastore 1775, Idomeneo 1781, Die Entfuhrung aus dem Serail 1781, Lo sposo deluso 1784, Le nozze di Figaro 1786, Don Giovanni 1787, CosĂŹ fan tutte 1790, La Clemenza di Tito, Die Zauberflote 1791).

[From: http://www.edinboro.edu/CWIS/Music/Cordell/comp-Mozart.html ]


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