....padre Giovanni Vannucci....
padre Giovanni l'evangelista che visse, soffrÏ e pagò il suo desiderio di scomporre il messaggio del Cristo per arrivare sino alle molecole della comprensione dell'Umano in Dio e del Divino nell'Uomo.
Frammenti di padre Vannucci vol. 2
N.B.: chi è INTERESSATO AI TESTI di Padre Vannucci può richiederli al seguente indirizzo http://www.servitiun.it
Il Diavolo Nel « deserto » Cristo e con lui noi uomini incontriamo il Diavolo. Etimologicamente significa quella potenza misteriosa che attraversa il cammino verso Dio. Nella tentazione del deserto l'anima umana viene posta davanti a un bivio: o aderire tenacemente alla permanenza delle forme rifiutandone la distruzione, o accettare quest'ultima per avanzare in nuovi orizzonti vitali. Il Diavolo è il missus dominicus che accompagna la nostra vita, per mettere alla prova la nostra volontà di andare sempre oltre le forme. Quando in esse ci chiudiamo, diveniamo i servi del Diavolo. L'opera del Diavolo è essenzialmente un'opera di vessazione, di disturbo. Le vie attraverso le quali compie la sua vessazione sono quelle mentali: la fantasia sbrigliata; l'immaginazione non sorretta da una profondità e rettitudine morale; la memoria tesa a rivangare o ad abbellire il .passato; l'ansia del domani che è una forma assunta dall'immaginazione. Sottili e multiformi sono le sue vessazioni. Può presentarsi all'immaginazione con le vesti della bontà, della virtù, della giustizia. Uno che lavora accanitamente per accumulare denaro, si rassicura che lo fa per provvedere al domani, alla malattia, alla vecchiaia, e non pensa che è mosso dall'avarizia. Uno lotta per la giustizia, per i princìpi morali, convinto di lavorare per gli alti ideali umani, e non riflette che obbedisce al suo istinto di potere. Uno si sente impegnato a propagare .la fede e non si accorge di lavorare per l'affermazione di se stesso o delle sue ideologie. Tutto ciò che lega l'uomo a un interesse terreno, distraendolo dal suo vero destino umano, è vessazione diabolica. Si potrebbe dire che il Diavolo è il risultato della malvagia volontà di tutte le cose, il risultato del non voler guardare con occhio sereno e libero l'ombra che accompagna ogni nostra intellezione e volontà di fare. Cristo ci esorta a essere svegli, con gli occhi ben aperti, a pregare per non cadere in tentazione, a non aver paura di chi può uccidere il corpo, a temere chi può distruggerci l'anima. Nei nostri tempi, la vessazione diabolica concerne più la vita sociale che la sfera del singolo, è un modo di vivere, è la società che vive il Diavolo. L'uomo è disturbato, ossessionato, distratto dalla preoccupazione dei
beni terreni, dalla paura di perderli, dall'angoscia che non siano sufficienti. Un'altra azione sottile del Diavolo consiste nel convincere gli uomini che l'impermanente è permanente, che il tempo sia l'eternità. L'uomo così sedotto pensa che le forme siano perenni, che la sua personalità e le sue opere sfidino i secoli. Mentre, per una mente non sedotta la permanenza è irreale, impermanente è la vita, impermanente è la morte, impermanente il pensiero, impermanenti i sentimenti. Prendendo coscienza di questa particolare vessazione del missus dominicus si evita di vegetare nelle forme costituite, si risveglia in noi la scintilla divina che ci ripete: sempre oltre, sempre oltre è la tua dimora. Il Diavolo dice: « Dimora tranquillo nel tuo guscio, riposa sereno nelle tue virtù ». Gesù, il pellegrino senza dimore costruite da mano d'uomo, dice: « Io sono la vita in ogni morte, la morte in ogni vita ». È necessario riconoscere il Diavolo come apportatore di menzogne nell'esistenza, nelle forme, nelle apparenze, in ciò che riteniamo necessario ed è invece inutile. Il Diavolo diventa così il missus dominicus, la pietra di paragone della vita: piccole anime, piccole tentazioni; grandi anime, grandi tentazioni. Senza le tentazioni l'uomo si addormenterebbe; tentato, è spronato ad andare avanti.
I TRE VOLTI DELL’ANTICRISTO Giovanni Vannucci, «I tre volti dell’anticristo», 33 a domenica del tempo ordinario. Anno C, in La Vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, Pag. 222-225.
II brano evangelico di Lc 21, 5-19 non ci annuncia ne una novità, né una scoperta: il mondo va male, ore tragiche incombono sull’umanità. Quasi due millenni or sono Cristo disse: «Del Tempio e dei Templi costruiti dalla mano dell’uomo non rimarrà pietra su pietra [...]. Vedrete popoli scagliarsi contro popoli, incontrerete opposizioni e persecuzioni, sorgeranno dei falsi profeti [...]. Non vi turbate della desolazione che vi circonderà, non pensate neppure alle parole da dire in vostra difesa; non un capello della vostra testa cadrà, vincerete con la vostra perseverante pazienza» (cfr. Lc 21, 5-19). Due millenni hanno confermato ora per ora, istante per istante, la verità di queste parole; esse sono sospese minacciosamente nei cieli, e oggi le viviamo. Segni appaiono nei cieli, segni appaiono sulla terra, gente contro gente, cristiani contro cristiani, fratelli musulmani contro fratelli musulmani, compagni contro compagni, e la desolazione di una terra che va inaridendosi. Di questo stato di cose l’uomo è responsabile e ognuno di noi ha parte in questa responsabilità. Il cristianesimo è milizia, il cristianesimo è una chiara presa di posizione nell’esistenza di fronte ai «molti che verranno in nome mio dicendo: sono io l’atteso, il tempo è giunto, ma voi non seguiteli» (Lc 21, 8). Questi molti Anticristi possono, nel nostro tempo, esser sintetizzati in tre forme, in tre nomi. Uno è l’edonismo: bramosia del benessere e del piacere, avidità del guadagno e della ricchezza, desiderio del quieto vivere, del pingue pascere, del tranquillo dormire. A esso dobbiamo contrapporre la certezza che l’uomo non è solo carne, che non è un bruto, ma che è anima, spirito, coscienza, intelletto e che non può acquietarsi nel pascolare il fango della terra. L’altro nome è la paura: paura dell’uomo, dell’aria che respiriamo, dei poteri terreni, della persecuzione, della morte. Il Maestro ci dice: «Non temete coloro che hanno il potere di uccidere il corpo, temete colui che uccidendo il corpo ha il potere di funestare la parte più vera del vostro essere, l’anima» (cfr Lc 12, 4-5; Mt 10, 28). Il terzo volto dell’Anticristo, il più atroce e il più inguaribile, è il fanatismo religioso. Quando gli uomini si scaglieranno contro gli uomini in nome di Dio che a tutti è Padre, quando la mano dei sacerdoti si alzerà a benedire le armi omicide, allora è segno che l’abominazione ultima è entrata nel Santuario.
Ognuno di noi potrà considerare in se stesso a quale di questi volti appartiene, di quale è schiavo; allora ognuno potrà liberare se stesso, e liberando se stesso libererà coloro che lo circondano. Se siamo schiavi delle ricchezze, ricordiamoci che esse sono pula che il vento spazza. Distribuiamo quanto abbiamo, procuriamo di far sorridere intorno a noi, finché sorridere si può, siamo generosi, divinamente prodighi: «Da’ a chi ti chiede, non domandare il tuo a chi te lo toglie!» (Lc 6, 30), dice il Maestro. Contro la cieca avidità del denaro, contro la folle e cieca cupidigia che muta i figli di Dio in lupi intenti a strapparsi un osso, facciamo della nostra ricchezza, del nostro benessere, un’arma per vincere la battaglia della luce. Se siamo angosciati dalla paura, dalla paura di morire, dalla paura per i nostri figli, dalla paura per i nostri vecchi, ripetiamoci: qual male massimo può recarci l’uomo se non la morte? Ma cos’è la morte se non il volo verso la verità inconcussa, verso la giustizia senza violazione? Non lasciamoci spaventare da niente e da nessuno. Se nel nostro cuore divampa lo spirito del fanatismo, diciamoci che la fede non è un segno di separazione e di discordia, che Dio è l’unione e la concordia dei cuori e delle menti. Qualunque sia la nostra religione, qualunque sia la nostra idea politica, esse valgono la religione e le idee politiche dei nostri fratelli. Guardiamoci dallo spirito fanatico, dallo spirito di violenza che ci fa guardare una parte dell’umanità come nemica di Dio. Dio non ha nemici, e nessuno potrà esserci nemico se guardiamo a tutti gli uomini con gli occhi del Padre. Questi tre aspetti dell’Anticristo dei nostri tempi vanno affrontati con perseverante pazienza. Affrontati e superati prima di tutto nell’ambito della nostra personale esperienza. La lotta nello spirito di Cristo è prima di tutto intima, completa, assoluta e ha per base il riconoscimento dell’unità spirituale dell’umanità. I falsi profeti, i nemici del padrone della messe seminano il loglio nel buon grano, acciocché classe sia nemica a classe, uomo sia lupo all’uomo. L’acquisizione della coscienza cristiana invece rende spontaneo l’atteggiamento che ci fa dire: quello che è mio non è mio, ma di chi ha bisogno; quello che io so, non lo so per me ma per comunicarlo a chi non sa; quello che possiedo lo possiedo per distribuirlo, perché io sono l’altro, perché io non conto ma conta il fratello. Nell’opposizione avviene la divisione tra classe e classe, uomo e uomo, e infallibilmente ci si incammina per la strada che conduce alla distruzione. Con la perseverante pazienza impariamo a rinunciare a noi stessi per trasfonderci nell’altro: apprenderemo ad agire secondo coscienza, in ogni uomo ci sarà volontà d’amore, l’uomo non sarà più costretto ad aver paura del fratello che gli dorme accanto, nessuno avrà torto perché nessuno avrà ragione. In quest’ora, che è una delle più tragiche della storia dell’umanità, ognuno è chiamato personalmente ad affrontare le tre forme dell’Anticristo con perseverante e ferma pazienza.
«Siate svegli, non temete nessuno, nessuno potrà nuocervi se camminerete verso la verità con perseverante pazienza» (cfr. Lc 21, 19). Queste parole sono rivolte a quegli uomini che non cercano una soluzione spinti da paura, ma che, coraggiosi e forti, bruciati dal desiderio di superare se stessi, conservano nel cuore la speranza di una via d’uscita, la fiducia in una soluzione che nasca nelle menti non inquinate dalle tre forme dell’Anticristo. Questi saranno capaci di portare la loro forza per la costruzione del Tempio in se stessi; a loro la luce divina concederà ciò che bramano.
ACCRESCI LA NOSTRA FEDE ! Nel brano evangelico di Lc 17, 5-10 il legame logico delle parole di Gesù ai discepoli, che l’avevano interrogato sulla fede, non è subito evidente. Nella prima frase Gesù descrive il potere miracoloso di un granellino di fede: può comandare a un gelso di trasferirsi nel mare (cfr. Lc 17, 5-6). Negli altri due periodi indica la necessità di non aver pretese: il servo, compiuto il proprio dovere, è sempre un servo inutile (cfr. Lc 17, 7-10). Tenendo conto che il motivo centrale della conversazione fra Gesù e i discepoli è la fede, possiamo trovare il nesso delle sue varie frasi. Descritto il miracoloso potere della fede, il Maestro indica, realisticamente, la condizione e i doveri di chiunque cerchi la fede. Chi cerca la fede si senta come il servo che ha la mansione di lavorare un campo, o di custodire un gregge; il campo e il gregge sono la metafora della concreta realtà di ognuno; la fede dà la padronanza della vita, per raggiungerla dobbiamo prima esserne i servi. Quando ogni particella della porzione di vita affidataci sarà feconda; quando tutto il terreno, consegnato al nostro personale lavoro, sarà immacolato da istinti e passioni, allora potremo, in libertà assoluta, comandare alla vita, ordinare al gelso di trasferirsi nel mare (cfr. Lc 17, 6). La fede, la sua ricerca, accelera il processo di trasformazione della terra che ci è stata consegnata, e quando la trasformazione sarà compiuta i miracoli accadranno perché la vita verrà dominata. La trasformazione non sarà che il risultato della consapevole obbedienza a Colui che ci ha affidato il lavoro del campo, la custodia del gregge (cfr. Lc 17, 7). Ordinariamente, nella comune esperienza, confondiamo la fede con la pratica religiosa, con la religione stessa, con l’espressione ideologica di una religione storica. Di qui l’uso di parlare di fede politica, scientifica, filosofica per indicare un’accettazione religiosa di un dato atteggiamento di pensiero. Questa confusione ci può far vivere in pieno meriggio e non veder la luce perché si è ciechi; si può essere immersi nelle pratiche religiose e non aver fede; si può inventare una religione e inculcarla senza aver fede, oppure formulare un sistema di valutazione filosoficoreligioso sempre senza fede. Si può credere e non aver fede, poiché la fede non è la credenza. La fede è un delicatissimo senso animico che rivela all’uomo la realtà trascendente nell’immanenza di ogni cosa; senso che rivela alla coscienza il segreto significato della manifestazione e le permette di equilibrare il richiamo che viene dal silenzio del passato e da quello del futuro. La fede sviluppa e fa crescere nell’uomo di carne l’uomo dello spirito, fa passare dal battesimo di acqua, che è riordinamento del campo di vita affidato a ognuno, a
quello di fuoco, che è confermazione di un’avvenuta trasfigurazione. Per la fede l’essere che in Adamo fu separato viene riunito e con-fuso in Cristo, e assume nella figura della sua carne l’impronta dello Spirito Santo che lo trasforma e, vivificandolo, lo eterna. Nella realizzazione dell’assoluto della fede, fra il credente e Cristo si stabilisce un’unione per cui la vita di Cristo diventa la vita del cristiano, e in Cristo il cristiano si eterna e non conosce morte: «Chi ha fede in me non morirà in eterno» (Gv 11, 26). In questa trasformazione solo l’assoluto della fede ha un senso, le varie «credenze» sono continuamente frustrate dal trionfo della morte alla cui legge ogni carne è sottoposta. L’esteriorizzazione della fede in varie forme religiose è sempre possibile e forse è una necessità, ma essa è sempre limitante. Chi pratica tutti i riti prescritti, non fa male, ma è necessaria la cautela per non confondere le pratiche con la fede: le pratiche possono esprimere la fede, ma non ne sono l’adeguata manifestazione. La fede è una tranquilla e costante sensazione di Dio, per cui l’uomo si muove nella vita con la naturalezza del pesce nell’acqua chiara, e vivendo in questa sensazione opera con sereno equilibrio e non si lascia sopraffare o turbare da cosa alcuna, per cui tutto ciò che è transitorio non occupa l’anima che di passaggio, senza turbarla o distrarla dal suo tranquillo abbandono di servo e di servo inutile. Nello stato di fede non solo tutto è possibile, ma è impossibile che qualcosa non sia possibile. Di qui le parole di Gesù: «Se avrete fede quanto un granello di senapa, direte a questo gelso: trapiantati nel mare, e il gelso obbedirà» (Lc 17,6). Chi possiede questo prezioso granello, possiede il segreto dell’anima cosmica, la formula del potere assoluto, mediante la quale tutte le creature sono soggette al Signore e gli Angeli servono gli ordini ricevuti. Niente infatti separa lo spirito singolo dallo Spirito Santo e dalla comunione con la vita; chi possiede la fede, possiede la vita e «fosse anche morto sarebbe risuscitato» (Gv 11, 25). La realtà della fede non è tanto il credere: la fede è un atto di comunicazione con tutto ciò che è alto, bello e santo; la credenza ammette invece solo un determinato aspetto. La credenza è la fede esteriore: per essa si crede in Dio, si raccoglie del materiale e pietra su pietra si innalza un tempio; si costruisce un simulacro e si prega dinanzi a lui giorno e notte. La fede si ha quando l’uomo dice: Io sento in me nobiltà e generosità, sento in me l’anelito a superarmi, sento in me l’eternità, la potenza dell’Essere. Gesù, dicendo: «Se avete fede quanto un granello di senapa, direte a questo gelso di trapiantarsi nel mare...», non si riferiva al fatto di credere a questo o a quell’aspetto della Divinità, ma al risveglio di quel senso animico per cui l’uomo vive la vita di Dio. Gli apostoli, dicendo a Gesù: «Signore, accresci la nostra fede» (Lc 17, 5), non domandano di credere in Gesù, ma di avere qualcosa di più: la fede, la comunione con quella Realtà che era l’unica ragione di essere del Maestro.
«Signore! Accresci la nostra fede» implorano gli apostoli! Questa invocazione ci apre degli sterminati orizzonti. Il Signore invocato è il nato dalla Vergine e il concepito per opera dello Spirito Santo, ed è in suo potere dare e accrescere la fede. Poiché Egli è il punto vivente dell’incontro di Dio con la carne, della carne con Dio. In Lui, centro d’incrocio della materia e dello Spirito, scopriamo la nostra spirituale natura, veniamo divinamente istruiti sulla nostra origine, intuiamo la realtà trascendente del nostro compito umano che non è, ne può essere, nella manifestazione creata, ma nell’immanifesto divino. In Lui lo Spirito non è astrazione perché si fa carne, e la carne non è un penoso cammino verso il disfacimento perché supporto di una materia che ascende nello Spirito. Imploriamo anche noi: Signore, accresci la nostra fede! Perché fermamente credendo in Te, possiamo essere in Te assunti e confermati, e per Te ci sia dato di identificarci nel Padre comune!
ALCUNI SEGNI DELLA NATIVITÀ Giovanni Vannucci, «Alcuni segni della Natività» - Natale - Anno B; in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 25-27.
La mangiatoia La grotta Il mistero della notte santa
Gli eventi commemorati nelle solennità dell’anno liturgico vanno meditati con una mente sorretta e dalla fede e dall’attenzione a quei significati che la Chiesa orante vi ha scoperto o inserito, non per obbedire a una curiosità fantastica, ma per fissare l’insieme di evocazioni che il fatto commemorato ha suscitato nell’anima dei fedeli. Gli eventi che costellano l’anno liturgico: Natività, Epifania, Risurrezione, sono dei fatti che si sono compiuti in un determinato luogo e in un particolare tempo, come momenti salienti della Rivelazione che stabiliscono un legame tra l’umano e il divino, tra il mondo della storia e quello del mistero, e non possono essere avvicinati se non da una mente contemplativa che tenga conto della loro realtà storica e soprastorica, terrena e celeste, legata al tempo e allo spazio e insieme trascendente queste due dimensioni. La narrazione della Natività che forma il canovaccio delle ulteriori aggiunte è quella dell’evangelista Luca (capitolo secondo). Maria e Giuseppe furono convocati dall’amministrazione romana a Betlem, per il censimento. Maria, al termine della gestazione, non avendo trovato posto nella locanda della cittadina, diede alla luce il Figlio e lo depose, avvolto nelle fasce, nella mangiatoia. Un Angelo, attorniato da altri spiriti che cantano, annuncia la prodigiosa nascita a dei pastori e li invita ad andare a venerare il nato Salvatore, adagiato in una mangiatoia. I pastori si recarono solleciti sul posto e trovarono Maria, Giuseppe e il neonato posto nella mangiatoia.
La mangiatoia L’immagine consueta del Presepio contiene dei particolari che in Luca non sono menzionati: la grotta, il bue e l’asino. Essi sicuramente sono racchiusi nell’immagine evocata dal vocabolo «mangiatoia», faine in greco: essa designa un bacino, una cavità ricavata dalla parete della grotta, per deporvi non solo il mangime del bestiame, ma anche il cibo degli operai e dei pastori che vi mettevano il loro pranzo che consumavano insieme.
In un resto della Mishnah che risolve alcuni problemi di casistica alimentare, si parla di un sito ove venivano appoggiate le cibarie degli operai e dei pastori: esso è chiamato ebus, mangiatoia, stalla, truogolo. In questa prospettiva, le parole dell’Angelo ai pastori: «Questo sarà il segno», il «segno» rivelatore del mistero del Fanciullo - un neonato è deposto nella mangiatoia, nell’incavo ove siete soliti appoggiare le vostre vivande durante il lavoro -, acquistano un più pertinente significato: il Fanciullo nella mangiatoia è: «II Pane disceso dal cielo. Chi mangia della mia carne, avrà la vita » (Gv 6,51. 54).
La grotta La grotta è un simbolo universale il cui significato fondamentale è quello di costituire il punto di passaggio delle forze che dal cielo scendono sulla terra e dalla terra ascendono, rinnovate e redente, verso il cielo. È il simbolo delle origini e della rinascita; della nascita e dell’iniziazione; del centro ove le forze discese dal cielo invertono la rotta per ritornare alle origini. Gesù è nato in una grotta, e in una grotta fu sepolto, da dove è risorto nella pienezza della Vita. Il simbolo precede e segue il Rivelatore. Come se esso ne fosse parte integrante e come se, senza di esso, l’azione del Rivelatore rimanesse incompleta, senza dare la pienezza della sua ragione alle coscienze in attesa. Il simbolo ferma nel pensiero un aspetto della Rivelazione, altrimenti incomprensibile e inesprimibile. Da millenni l’uomo, abituato a pensare per immagini, porta con sé l’immagine della grotta, del rifugio scavato nella roccia, del tepore della tana nascosta donde emerse lo splendore della sua mente spirituale. La grotta, nella lingua franca della simbologia, segna l’aprirsi di nuovi cicli di umanità. Così Gesù Cristo nasce durante il solstizio invernale, in cui veniva celebrata la nascita del Sole invitto, e nasce in una grotta che è sentita dall’uomo come il centro della rivelazione della Luce spirituale, della nascita della coscienza responsabile. In ogni uomo è la caverna oscura dell’inconscio, la spelonca ove tutti gli atavismi, gli istinti, le forze oscure si dan convegno nella tenebra propizia della volontaria ignoranza dell’Io cosciente e responsabile. In questa caverna nasce il Redentore, Gesù Cristo, la Luce e la vera Coscienza dell’umanità.
Il mistero della notte santa si ripete continuamente per ogni uomo ,
ogni grotta ha il suo Fanciullo che vi nasce e la Vergine che lo depone come cibo di vita vera, sulla mensa riservata al pane. Nella grotta umana non esistono solo pulsioni di morte e di distruzione, ma anche l’attesa che qualcuno la scelga a rifugio per una nascita. L’istinto di Dio che, più forte dello stesso istinto di conservazione, superiore alla stessa sessualità, spinge l’uomo a rinnegare se stesso, a rinunciare alla carne, affinchè in lui Cristo nasca e si faccia carne, e nella caverna umana nasca l’Uomo che sente in Cristo il suo stesso principio e il suo più alto fine.
In questa visuale acquistano il loro pieno significato le parole di Angelo Silesio: «Seppure Cristo nasca mille volte a Betlem, ma non in te, tu resti perduto per l’eternità».
La trasfigurazione dell’essere Giovanni Vannucci, Omelia pronunciata domenica 27 maggio 1976 durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 19 nell’eremo di San Pietro alle Stinche - Greve in Chianti, FI); registrata su nastro magnetico e trascritta da Consalvo Fontani. Pubblicata in Ogni uomo è una zolla di terra, 1a ed. Borla editrice, Roma, aprile 1999, pag. 54-59.
La solennità di oggi ci porta la grande figura dell’Ascensione di Cristo nel cielo dei cieli e tutte le parole che abbiamo letto nelle letture. Cristo che ascende, gli apostoli che rimangono a guardare il cielo scrutando dove mai sia andato, e i due personaggi vestiti di bianco che dicono loro: “Non guardate il cielo, Cristo tornerà nello stesso modo in cui voi lo avete visto ascendere in cielo”. E poi le parole del Vangelo: andate e annunciate ad ogni creatura l’Evangelo, e il vostro annuncio sarà accompagnato da un rifiorire di vita, i demoni si allontaneranno, il veleno non nuocerà più e i malati riprenderanno a vivere. Come dobbiamo pensare al mistero dell’Ascensione del Signore? Io vi dico quello che io penso e ciascuno di voi spero che, mettendosi davanti a questo grande evento dell’Ascensione del Signore, cerchi di comprenderlo e viverlo secondo la sua sensibilità, secondo le sue capacità di comprensione e di avvicinamento a questo grande mistero. Altre volte abbiamo pensato a questo fatto, che fra noi e i grandi misteri compiutisi nella vita di Cristo o attraverso Cristo, c’è una mediazione, una mediazione di pensieri pensati da altri. Così tra noi e il mistero dell’Ascensione ci sono tutte le spiegazioni e le interpretazioni che gli esegeti e i teologi hanno dato del mistero dell’Ascensione. E noi ci possiamo fermare su questi pensieri e considerare la loro importanza, arricchire la nostra mente, soprattutto la nostra memoria, di sentenze e di interpretazioni. Ma finché ci fermiamo a queste spiegazioni, a questi pensieri pensati da altri, non avvicineremo il mistero dell’Ascensione. Bisogna mettere da parte tutti questi pensieri pensati da altri per poterci immergere nel fatto dell’Ascensione e comprenderlo con la nostra mente, con la nostra capacità di pensiero, con la nostra sensibilità e con le nostre capacità di comprensione e di apprensione del mistero. Allora il mistero dell’Ascensione diventa proprio un fatto religioso che incide profondamente nella trasformazione del nostro essere e, come vi ho detto altre volte, davanti a questi grandi misteri della vita di Cristo, misteri religiosi, noi dobbiamo sostare in silenzio, diventare capaci di ascoltare quanto ci viene comunicato attraverso questi grandi eventi. Come vi dicevo, nelle letture della Messa ci vengono date alcune indicazioni. La prima è quella degli Atti degli Apostoli; gli apostoli vedono Cristo ascendere in cielo e dileguarsi in forma di nube, come se il corpo di Cristo si fosse espanso, espanso e sparito; e i due personaggi dicono agli apostoli: Egli tornerà nello stesso modo in cui lo
avete visto ascendere al cielo. Ritornerà attraverso un’espansione silenziosa e luminosa. Tornerà nello stesso modo in cui è asceso, diventando realtà vibrante e trasformatrice nel cuore di tutti gli uomini. Questo credo che dobbiamo riuscire a comprendere attraverso una riflessione continua e assidua. Giorni fa nella Messa leggevamo le parole di Cristo: “Io sono la vite, voi i tralci; se resterete uniti a me porterete frutti, se invece vi staccherete da me non porterete frutti”. E allora comprendiamo che Cristo è quel germe di vita che con la sua ascensione è penetrato nel profondo della coscienza dell’uomo, non soltanto dell’uomo cristiano o cattolico, ma nella coscienza di tutti gli uomini e nel corso dei secoli porta avanti verso la sua verità, verso la maturazione religiosa, noi uomini. Quando gli apostoli, nella lettura, chiedono a Cristo quando instaurerà il suo regno, Lui dice: io non lo so, è il Padre. Non stabilisce una data, perché lungo il corso dei millenni Cristo è sempre operante nel profondo della coscienza dell’uomo e porta avanti ciascuno di noi, porta avanti ogni uomo, verso la sua verità, verso la pienezza di verità e di realtà, di umanità e di divinità tutti gli esseri umani, se noi rimaniamo uniti a lui che è il ceppo. E questa è l’Ascensione di Cristo. Egli siede alla destra di Dio. Cosa vuol dire? Vuol dire che ovunque c’è Dio c’è Cristo; vuol dire che ovunque nasce nel cuore dell’uomo un’aspirazione verso la verità, verso la bellezza, verso l’amore, verso la giustizia, verso la conoscenza, lì c’è Cristo come energia trasfiguratrice e trasformatrice della coscienza degli uomini e lentamente, lungo il corso dei millenni - perché noi misuriamo il tempo nell’arco della nostra vita, che è niente di fronte ai millenni che l’umanità ha percorso e ai tempi che ancora l’umanità dovrà percorrere -, Cristo opera costantemente e efficacemente alla trasformazione dell’uomo. E allora come tornerà Cristo? Cristo tornerà attraverso la maturazione di tutte le nostre esperienze più grandi, più vere, più nobili, di uomini, di coscienze. E un giorno ci accorgeremo di questo: Cristo è come il cuore del crisantemo verso il quale sono orientati tutti i petali e dal quale tutti i petali traggono la loro forza di vita e la loro bellezza. Per questo a noi cristiani è detto di non giudicare, ma di partecipare intensamente a quel mistero di vita che ci è stato rivelato in Cristo, senza giudicare strade differenti dalle nostre, ma portando il nostro contributo all’accrescimento della coscienza degli uomini, contributo che è legato alla nostra forma personale, alla nostra mentalità, alle nostre figure religiose, alla nostra storia di uomini, storia di popoli, mantenendo fedeltà a questo nucleo, a questo germe vitale che è Cristo. E allora il mistero dell’Ascensione diventa un fatto di vita per noi. Non vi sembra profondamente confortante questa visione che l’uomo nel corso dei millenni si avvicina sempre di più alla verità portata da Cristo, a quelle forze di trasfigurazione della coscienza umana, dell’opacità umana, che sono state introdotte da Cristo nella nostra realtà umana? Il cammino è lento perché Dio non fa violenza a nessuna coscienza e vuole che l’uomo maturi nel ritmo del tempo, nel corso dei tempi, nel corso dei secoli. E
allora, guardando la storia degli uomini da questo punto di vista, abbiamo una grande pace e una grande forza, e non giudicheremo nessuno, ma a tutti daremo quel contributo che viene dalla nostra trasformazione umana nella realtà di Cristo. E vi dicevo in una di queste domeniche che all’uomo è concessa la possibilità di diventare Dio sulla terra, perché noi diciamo che Dio è amore e l’uomo può amare, come Dio ama; diciamo che Dio è libertà e l’uomo può liberarsi da tutte le pesantezze, da tutti gli attaccamenti all’effimero, al tempo, al transitorio, per raggiungere la libertà nell’assoluto. E noi siamo in cammino verso questa divinizzazione della nostra vita. E ognuno di noi deve portare il suo contributo che è quello di essere intransigenti nella nostra fedeltà alle verità religiose che ci sono comunicate e costituiscono l’alimento sovrasostanziale del nostro cammino di uomini, di uomini cristiani. Ma non assumere mai un atteggiamento di separazione verso gli altri, perché nelle diversità di figure religiose, nelle diversità di impostazioni umane, c’è sempre questo germe di vita divina che è il Cristo che porta avanti l’umanità. E allora ci sentiremo pacificati e al tempo stesso ci sentiremo più responsabili di quel mistero religioso che ci è stato affidato e che deve crescere in noi e trasformarci, e più responsabili per l’umanità, perché gli altri uomini hanno bisogno della nostra trasfigurazione, della nostra luce, del nostro cambiamento da figli della terra, da figli della materia, in figli di Dio, in figli dello Spirito. E allora il nostro cammino sarà molto pacifico, molto più sereno e molto più positivo, perché radicato in quella realtà che costituisce l’oggetto centrale della nostra vita religiosa che è Cristo. Daremo agli uomini pacificamente l’annuncio della buona novella; lo daremo agli uomini e a tutte le creature. E noi saremo in mezzo agli uomini come principi illuminanti, principi di pacificazione che libereranno l’uomo veramente dal profondo, perché risveglieranno in lui quei grandi sogni senza i quali l’umanità intristisce, deperisce e diventa folle. Ecco, viviamo così il mistero dell’Ascensione. Sentiamo che Cristo è presente fino alla consumazione dei secoli e la sua Parola è operante nel momento presente come sarà operante fra millenni dopo la nostra esistenza terrena. E l’operosità della parola di Cristo accompagna la trasformazione della coscienza umana che dalla terra è chiamata a vivere nel cielo, che dalla pesantezza della vita terrena è chiamata a dilatarsi nella sconfinata realtà dello Spirito. Dalla realtà terrena ognuno di noi è chiamato, come Cristo, a vivere alla destra di Dio. Sia così la nostra meditazione sul mistero dell’Ascensione del Signore e in questo giorno, anche se i tempi nostri sono tristi e duri, cerchiamo di ritrovare i motivi della nostra grande speranza e viverla pienamente, muovendoci serenamente in mezzo alle vicende degli uomini, sapendo che qualunque aspetto essi assumano, sono condotti da Cristo, che è la presenza invisibile nel cuore di tutti gli uomini, anche nelle forme di vita che sono più difformi da quello che noi pensiamo, da quello che noi sentiamo e da quello che noi vorremmo.
Avere questo spirito di pace, questa apertura ecumenica verso tutti gli uomini, ci permetterà di essere veramente cristiani, cioè cristiani che credono che Cristo è asceso nel cielo dei cieli e è la mano destra di Dio.
CHIAMATA DEI DODICI Giovanni Vannucci, «Chiamata dei Dodici», XIa domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 120-122.
I dodici prescelti erano destinati ad apprendere direttamente dal Maestro l’insegnamento essenziale di una verità destinata a rinnovare il mondo. Il primo di loro fu Simone, che Cristo chiamerà Cefa, Pietra. Pescatore dal cuore generoso e forte, guidato più dal sentimento impetuoso che dalla lucida ragione. Di Andrea, suo fratello, sappiamo molto dalle leggende che si sono formate attorno al suo nome, ma la Scrittura non dice niente. Giacomo, il fratello di Giovanni, è menzionato nei Vangeli, insieme a Pietro e Giovanni, come testimone della risurrezione della figlia di Giairo, della trasfigurazione e dell’agonia nel Giardino del Getsemani (Mc 5,37; 9,2; 14,33). Chiamato insieme a Giovanni col soprannome di Boanerges, figlio del tuono, forse per il carattere impetuoso e ardente. Negli Atti è ricordato il suo martirio per opera di Erode Agrippa, probabilmente l’anno 42 d.C. (At 12,2). Una tradizione che rimonta al secolo VII d.C. afferma che l’Apostolo annunciò il Vangelo in Spagna; il suo corpo sarebbe sepolto a Compostella. Giovanni, il discepolo prediletto, colse l’aspetto segreto del Maestro che seguì con mente aperta e avida, con cuore fermo e fedele. È l’unico discepolo che seguì Cristo sul Calvario. Filippo, folgorato dalla grazia (Gv 1,43), nell’Ultima Cena chiede a Cristo: «Signore, mostraci il Padre, e non avremo bisogno di altro» (Gv 14,8). Bartolomeo è nelle liste dei dodici dei primi tre Vangeli; di lui nulla sappiamo. La tradizione posteriore del quarto secolo lo presenta come annunciatore del Vangelo in varie regioni dell’Asia minore; sarebbe morto martire nell’Armenia, scorticato vivo. Tommaso lotterà tutta la lunga notte della vita con l’angelo del dubbio e ne meriterà all’alba la benedizione. Il suo compito fu di essere il documentatore della Risurrezione del Maestro, tanto più convinto quanto più restio a lasciarsi convincere (Gv 20,24-28). Matteo, l’obbediente che abbandona i suoi traffici per seguire il Maestro (Mt 9, 9). Giacomo figlio d’Alfeo, chiamato Giacomo il Minore, preposto alla Chiesa di Gerusalemme, fu sottoposto al martirio nell’anno 62 d.C. dalle autorità di Gerusalemme. A lui è attribuita la Lettera che porta il suo nome.
Taddeo, chiamato anche Giuda e Lebbeo, designato anche come fratello del Signore (Mt 13,55), e fratello di Giacomo il Minore (Lc 6,16). Alla Cena chiese a Gesù: «Signore, come mai ti sei rivelato a noi e non al mondo?». Il Maestro rispose: «Se uno mi ama, custodisce la mia parola, e il Padre mio l’amerà e verremo a lui e in lui dimoreremo» (Gv 14,22-23). A lui è attribuita l’ultima delle lettere cattoliche. Simone il Cananeo, che vien tradotto «lo zelante». Giuda, il più tragico di tutti gli Apostoli; il suo destino fu di consegnare il Maestro nelle mani dei suoi carnefici. Ai dodici Gesù dà due direttive: «Non andate fra i Gentili e non entrate in nessuna città dei Samaritani» (Mt 10,5). Gli Apostoli, uomini di limitata cultura, non ancora saldi nell’assoluto della fede, sarebbero stati facilmente sconfitti nelle dispute che avrebbero incontrato presso gli abitanti di quelle terre. «Andate piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. Annunciate che il Regno dei cieli è vicino. Sanate chi è ammalato, richiamate alla vita i morti, allontanate i demoni. Tutto ciò l’avete ricevuto in dono, datelo anche voi in dono» (Mt 10,6-8). Indubbiamente Gesù ha dato qualcosa di suo ai dodici. Le forze che ha risvegliato in ciascuno di loro sono forze dell’anima, che Lui ha risvegliato con lo stesso suo potere, e che per giungere all’effettuazione richiedono uno stato di tensione continua, di vibrazione appassionata; per questo invia i dodici ai poveri, agli emarginati, a coloro che, non aspettando più nulla, sono pronti ad accogliere il miracoloso annunzio della venuta del Regno. Nelle classi ricche e colte, fra gente raffinata e istruita avrebbero risvegliato una curiosità più o meno benevola, ma nelle classi infime, fra i diseredati avrebbero risvegliato una sopita speranza di salvezza, di miracolo. Chi più degli smarriti, degli emarginati da Israele era pronto ad accogliere la novità della predicazione evangelica? Il potere ricevuto di compiere delle guarigioni, di liberare gli ossessi, di ridare fiducia ai peccatori, vien dato ai dodici, perché offrendolo alla povera gente, questa ritrovasse la fede, la fiducia, l’intensificazione della vita. «Questo potere l’avete ricevuto in dono, come dono non vostro offritelo. Non portate provvisioni di oro, d’argento, di rame nelle vostre cinture, né sacca per il viaggio, né due tuniche, ne calzari o bastoni da viaggio» (Mt 10,8-10).
http://www.gesuelavita.it/i-sussurri-dellanima/4-default/91-padre-nostro-di-giovannivannucci
Padre nostro Padre nostro che sei nei cieli Santo è il Tuo nome il Tuo Regno viene la Tua volontà si compie nella terra come nel cielo. Tu doni a noi il pane di oggi e di domani. Tu perdoni i nostri debiti nell'istante in cui li perdoniamo ai nostri debitori. Tu non c'induci in tentazione ma nella tentazione Tu ci liberi dal male.
da "Appunti di Viaggio"
CHIAMATA DEI DODICI Giovanni Vannucci, «Chiamata dei Dodici», XIa domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 120-122.
I dodici prescelti erano destinati ad apprendere direttamente dal Maestro l’insegnamento essenziale di una verità destinata a rinnovare il mondo. Il primo di loro fu Simone, che Cristo chiamerà Cefa, Pietra. Pescatore dal cuore generoso e forte, guidato più dal sentimento impetuoso che dalla lucida ragione. Di Andrea, suo fratello, sappiamo molto dalle leggende che si sono formate attorno al suo nome, ma la Scrittura non dice niente. Giacomo, il fratello di Giovanni, è menzionato nei Vangeli, insieme a Pietro e Giovanni, come testimone della risurrezione della figlia di Giairo, della trasfigurazione e dell’agonia nel Giardino del Getsemani (Mc 5,37; 9,2; 14,33). Chiamato insieme a Giovanni col soprannome di Boanerges, figlio del tuono, forse per il carattere impetuoso e ardente. Negli Atti è ricordato il suo martirio per opera di Erode Agrippa, probabilmente l’anno 42 d.C. (At 12,2). Una tradizione che rimonta al secolo VII d.C. afferma che l’Apostolo annunciò il Vangelo in Spagna; il suo corpo sarebbe sepolto a Compostella. Giovanni, il discepolo prediletto, colse l’aspetto segreto del Maestro che seguì con mente aperta e avida, con cuore fermo e fedele. È l’unico discepolo che seguì Cristo sul Calvario. Filippo, folgorato dalla grazia (Gv 1,43), nell’Ultima Cena chiede a Cristo: «Signore, mostraci il Padre, e non avremo bisogno di altro» (Gv 14,8). Bartolomeo è nelle liste dei dodici dei primi tre Vangeli; di lui nulla sappiamo. La tradizione posteriore del quarto secolo lo presenta come annunciatore del Vangelo in varie regioni dell’Asia minore; sarebbe morto martire nell’Armenia, scorticato vivo. Tommaso lotterà tutta la lunga notte della vita con l’angelo del dubbio e ne meriterà all’alba la benedizione. Il suo compito fu di essere il documentatore della Risurrezione del Maestro, tanto più convinto quanto più restio a lasciarsi convincere (Gv 20,24-28). Matteo, l’obbediente che abbandona i suoi traffici per seguire il Maestro (Mt 9, 9). Giacomo figlio d’Alfeo, chiamato Giacomo il Minore, preposto alla Chiesa di Gerusalemme, fu sottoposto al martirio nell’anno 62 d.C. dalle autorità di Gerusalemme. A lui è attribuita la Lettera che porta il suo nome. Taddeo, chiamato anche Giuda e Lebbeo, designato anche come fratello del Signore (Mt 13,55), e fratello di Giacomo il Minore (Lc 6,16). Alla Cena chiese a Gesù:
«Signore, come mai ti sei rivelato a noi e non al mondo?». Il Maestro rispose: «Se uno mi ama, custodisce la mia parola, e il Padre mio l’amerà e verremo a lui e in lui dimoreremo» (Gv 14,22-23). A lui è attribuita l’ultima delle lettere cattoliche. Simone il Cananeo, che vien tradotto «lo zelante». Giuda, il più tragico di tutti gli Apostoli; il suo destino fu di consegnare il Maestro nelle mani dei suoi carnefici. Ai dodici Gesù dà due direttive: «Non andate fra i Gentili e non entrate in nessuna città dei Samaritani» (Mt 10,5). Gli Apostoli, uomini di limitata cultura, non ancora saldi nell’assoluto della fede, sarebbero stati facilmente sconfitti nelle dispute che avrebbero incontrato presso gli abitanti di quelle terre. «Andate piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. Annunciate che il Regno dei cieli è vicino. Sanate chi è ammalato, richiamate alla vita i morti, allontanate i demoni. Tutto ciò l’avete ricevuto in dono, datelo anche voi in dono» (Mt 10,6-8). Indubbiamente Gesù ha dato qualcosa di suo ai dodici. Le forze che ha risvegliato in ciascuno di loro sono forze dell’anima, che Lui ha risvegliato con lo stesso suo potere, e che per giungere all’effettuazione richiedono uno stato di tensione continua, di vibrazione appassionata; per questo invia i dodici ai poveri, agli emarginati, a coloro che, non aspettando più nulla, sono pronti ad accogliere il miracoloso annunzio della venuta del Regno. Nelle classi ricche e colte, fra gente raffinata e istruita avrebbero risvegliato una curiosità più o meno benevola, ma nelle classi infime, fra i diseredati avrebbero risvegliato una sopita speranza di salvezza, di miracolo. Chi più degli smarriti, degli emarginati da Israele era pronto ad accogliere la novità della predicazione evangelica? Il potere ricevuto di compiere delle guarigioni, di liberare gli ossessi, di ridare fiducia ai peccatori, vien dato ai dodici, perché offrendolo alla povera gente, questa ritrovasse la fede, la fiducia, l’intensificazione della vita. «Questo potere l’avete ricevuto in dono, come dono non vostro offritelo. Non portate provvisioni di oro, d’argento, di rame nelle vostre cinture, né sacca per il viaggio, né due tuniche, ne calzari o bastoni da viaggio» (Mt 10,8-10).
LA VERA VITE Giovanni Vannucci, «La vera vite» - 05a domenica di Pasqua - Anno B; in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 82-84.
«Io sono la vera vite, voi i tralci» (Gv 15, 5). Nella frazione del pane, che è la partecipazione immediata alla viva realtà di Cristo ieri, oggi, domani, Gesù ci ha rivelato che la sua parola, la sua persona, costituiscono un’energia che accresce, in estensione e in profondità, i nostri rapporti di comunione e di amore con ogni concreto essere; non solo con gli uomini, ma con tutto ciò che esiste sulla terra e nel cielo. Essere uniti nella comunione-manducazione del Pane disceso dal cielo significa che l’amore di Cristo, discendendo nella nostra coscienza, la dilata oltre tutti i possibili limiti, personali, razziali, religiosi, morali entro i quali nell’esistenza può trovarsi coartata. Unendoci a Cristo ci uniamo a tutti gli esseri che la Parola creatrice ha chiamato all’esistenza. «In Cristo Gesù non c’è più l’Ebreo e il Greco, lo schiavo e il libero, l’uomo e la donna, ma tutti siamo in Lui un’unica realtà vivente» (Gal 3, 28). Parole che, vissute nella loro forza liberatrice, hanno raggiunto, in alcuni cristiani, la definitiva apertura liberatrice: fratello o sorella sono il sole, la luna, il vento, il fuoco, l’acqua, la morte per il Poverello di Assisi; e Giovanni della Croce, emergendo dalla notte oscura, dice: mio è il sole, mia la luna, mie le stelle, mia la Madre di Dio, mie tutte le creature. Il senso dell’ascesi o dell’ascesa cristiana non è forse nella dilatazione della propria coscienza personale in un abbraccio vivente con tutti gli esseri, il buono e il malvagio, l’uomo e la donna, l’ortodosso e il peccatore, la luce e l’ombra? Il mistero del pane è nella sua apertura universale senza tesseramenti, a tutte le fami; il pane ha l’universalità dell’amore di Cristo, e il cristiano nel suo impegno indefesso è chiamato a rimuovere i pali della sua tenda fino all’estensione infinita dell’Essere. Viviamo in Cristo se abbiamo, o se cerchiamo di avere, in un implacabile rinnovamento interiore, l’apertura universale dei figli di Dio. La metafora della vite e dei tralci ci descrive questo complesso scambio tra Cristo e i fedeli, tra i fedeli e gli altri esseri creati. Vivere della linfa di Cristo vuol dire accettare il rovesciamento da Lui operato di tutti i particolarismi e di tutte le chiusure. Gesù è il punto di inversione di ogni movimento limitante o settario. «Io sono la vite», dice Cristo; ciascuno di noi è chiamato a ripetere, nella vastità della coscienza dei figli di Dio, «io sono il tralcio che vive della linfa di Cristo». Cioè io non sono di Pietro, di Paolo, di Giovanni, di Abramo, di Buddha, di Maometto... ma io sono universale come il Figlio di Dio.
Possiamo dire «io sono di questa nazione», e nasce la limitata coscienza razziale; oppure «io sono di questa famiglia» e nasce la coscienza di clan; ovvero «io sono di questa religione storica» e nasce la coscienza di ghetto. Ma quando diciamo «io sono il tralcio della vite che è Cristo» nasce la coscienza universale dei figli di Dio. Nelle altre affermazioni, l’io individuale è sottoposto e coartato dalle costumanze e leggi del gruppo di cui afferma di essere membro. Quando asserisce con piena adesione alle sue parole, «io sono il tralcio che vive della linfa di Cristo», assurge a un piano di piena libertà e universalità. È libero dai vincoli dell’anima-gruppo. «L’uomo che non ha ricevuto lo Spirito di Dio non è in grado di accogliere la verità che lo Spirito di Dio fa conoscere. Colui che ha ricevuto lo Spirito giudica tutto in modo spirituale, ma lui, nessuno può giudicarlo» (1 Cor 2, 14-15). Tale ascesa nella libertà dello Spirito non significa che uno divenga legge a se stesso e agli altri; la vastità della sua coscienza è alimentata e nutrita dalla linfa della Vite-Cristo. La Redenzione operata da Cristo ci affranca da ogni forma di schiavitù, di gregarismo. Redenzione significa assunzione cosciente delle nostre responsabilità di figli di Dio, identificazione di noi stessi nello sconfinato amore di Cristo, capacità d’intendere e di volere propria di uomini consapevoli dell’elemento divino che in loro opera: la linfa della Vite-Cristo. Capacità di intendere e di volere significa intendere e volere la verità, anche se si dovesse andare incontro a grossi guai, compresa la perdita della libertà e della vita, perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà, chi non vorrà la troverà salva. La linfa di Gesù alimenta un’umanità di uomini forti e liberi che da Lui hanno e riconoscono non solo le leggi, ma, essenzialmente, il principio vitale dell’apertura della loro coscienza. Gesù è l’Iddio dei forti, è l’Iddio che solo i veramente forti possono riconoscere e adorare. Allora si vive nella Chiesa, il Corpo mistico di Cristo, non per paura della solitudine, non per desiderio di essere inseriti in un gruppo che ci protegga, o per un’accomodante accettazione della Chiesa, giustificata con il «non si sa mai». Colui che sente salire nelle proprie vene la linfa della Vite-Cristo sente risvegliarsi nel suo profondo la divina scintilla, la sente sostanzialmente reale e vuole, con tutto il cuore, redimerla, riscattarla, aiutarla a raggiungere la statura dell’UomoFiglio di Dio, non nato da volontà di carne o di uomo ma da Dio. Forse per essere redenti bisogna rendersi conto che si è schiavi finché rimaniamo separati dalla ViteCristo.
LA RISURREZIONE Giovanni Vannucci, «La Risurrezione». Domenica di Pasqua - Anno B -, in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984 - Pag. 67-70.
Il flusso del tempo è simile a una spirale ascendente, lungo la cui linea troviamo dei momenti identici, ma trasferibili su un livello più alto. Questi momenti, per l’umanità in generale, costituiscono delle epoche, delle ère il cui contenuto viene condensato nelle grandi metafore che guidano, per un lungo tratto di tempo, un determinato comportamento qualitativo della civiltà. Per l’uomo concreto, che vive in un limitato segmento del più ampio ritmo metaforico, tali momenti vengono riassunti nelle ricorrenze liturgiche o cultuali che segnano le stagioni dell’anno rituale. Così, mentre la vita individuale è scandita nel corso dell’anno dalle celebrazioni liturgiche, il tempo cosmico è ritmato dalla successione delle metafore che segnano le ère della Creazione, della Giustizia, dell’Amore, della Libertà, della Conoscenza... Momenti che si avvicendano come il motivo fondamentale di una sinfonia musicale. Se i musicisti nell’esecuzione non vi partecipano pienamente, c’è scadimento nel banale; così la ricorrenza liturgica, se non è vissuta intensamente, viene banalizzata nell’accessorio, nel marginale, nel folkloristico. In tal maniera il Giovedì Santo finisce con l’essere il giorno del pane di ramerino, il Venerdì Santo quello della processione di Gesù morto, il Sabato Santo quello dello Scoppio del Carro, la Pasqua la domenica dell’uovo benedetto! Possiamo celebrare la Risurrezione in due maniere: o partecipando con tutto l’essere al suo contenuto, o vivendola nelle sue forme esteriori e decorative. Chi partecipa con tutta l’anima alla celebrazione pasquale immette la parte migliore di se stesso nelle energie che il Risorto ha inserito nell’umana coscienza, per assurgere, attraverso la morte e il rinnegamento di se stesso, alla Vita nuova che sgorga dal sepolcro vuoto, e incamminarsi verso l’arioso tempio dello Spirito Santo. Vivere la Risurrezione è attuarla in se stessi, risorgendo, superandole, da tutte le mortificanti banalità del nostro personale esistere. Se prima non si muore non si può risorgere, non vi è risurrezione senza morte, come non esiste riscatto senza schiavitù, luce senza tenebre, bene senza male. Per vivere la Risurrezione è necessario morire, chi non muore non risorgerà. Molti sono i modi di morire, uno solo in verità costituisce il preambolo alla risurrezione: la morte del rinnegamento di se stessi; questa morte ci inserisce nella corrente della risurrezione, nella rivelazione consustanziale che ci rende una sola realtà, mediante l’ardore dello Spirito, con il Figlio e con il Padre.
Morire è necessario per risorgere, ma in questa morte non è la carne che muore. Niente è più immortale della carne, nulla più vincolante della carne. Pensiamo di fare la nostra volontà, invece si eseguiscono i comandi dello stomaco, del sangue, del sesso, dei nervi, delle voglie. Fintantoché eseguiamo gli ordini dell’organismo, esistiamo e non siamo né tenebra né luce, né bene né male, né verità né menzogna. Quando invece orientiamo le energie della nostra tremenda natura verso la conoscenza della sostanziale verità di essere spiriti immortali, spiriti eterni, figli del Padre, allora è possibile la morte che precede la risurrezione, allora moriamo e risorgiamo. La carne, il sangue, i nervi, le velleità non dominano più, e veniamo a conoscere quello che nella realtà siamo: terra perché nati dalla terra, spirito perché nati dallo spirito, e perché tali chiamati a trasfigurare la terra in una pienezza di luce e di vita. Le opere della carne nella carne si esteriorizzano, le opere dello spirito nello spirito si sublimano. Se nella carne, nel perenne gioco della vita che fluisce, c’è una perennità di mutazioni, questa non può esistere nello spirito. Ogni avanzamento nello spirito è una conquista da cui non possiamo tornare indietro; i ponti e le navi sono bruciati. Sempre oltre, la gloria della risurrezione è continua, la sua animazione è costante. Nel profondo dell’essere nostro, laddove il cuore osa far sentire il suo palpito, dove siamo soli, più soli di ogni solitudine, sentir ascendere la vita nel profondo abisso della morte, e vivere totalmente in questa realtà, comprendendo che essa sola ha un significato. Vivere la Risurrezione! Ma essa non si vive riflettendovi per pochi istanti, per ritornare al più presto alle vecchie cose. Non si vive la Risurrezione ricordandoci ciò che fummo e turbandoci di ciò che saremo domani. La Risurrezione annulla l’ieri e ignora il domani. È l’oggi perenne, continuo, costante; in essa tutto è bruciato, ciò che rimane brucia della propria natura. Vivere la Risurrezione nella inebriante certezza che il passato è un vuoto sepolcro! Vivere la Risurrezione nell’esperienza esaltante che Cristo è la Parola eterna vivente e operante nel tessuto denso della nostra esistenza. Egli scende nella nostra carne per farla vivere della vera vita; entra nelle nostre menti, nei nostri cuori e vi libera l’Eterno che vi era tenuto legato da morte ideologie, da limitato amore; varca le soglie dei nostri amati templi e li distrugge, per iniziare la costruzione del tempio non manufatto, ove Dio non sia invocato ma presente. Penetra nelle nostre idee di razza, di popolo, di patria, di religione, e brucia i loro elementi caduchi ed egoisti, per far brillare la visione dell’Uomo vero, dell’uomo eterno non più vincolato a mète terrene, ma in cammino verso la vita senza fine, ove l’uomo finalmente si sentirà figlio di Dio. Avvicina le nostre tradizioni venerabili e plurisecolari, e vi risveglia un’inquietudine di vita e di verità che farà dileguare tutto ciò che in esse è sorpassato e morto. Vivere la Risurrezione è immergersi nell’ebbrezza della vita che è oltre tutte le possibili morti; è sperimentare che il Risorto è il movimento vitale che sprona le
coscienze verso più verità, più amore, più libertà; è sentire che il Risorto, non più contenibile in nessuna forma, è la piena fioritura di ciò che è, è l’eterno rinnovamento della coscienza, la risurrezione di tutti gli istanti della nostra esistenza di uomini.
PASQUA DI RISURREZIONE Giovanni Vannucci, «Pasqua di Risurrezione», Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 63-65.
Ogni anno incontriamo, agli inizi della primavera, la celebrazione della risurrezione di Cristo. Dobbiamo esser grati alla Chiesa che, continuamente e insistentemente, dischiude al nostro sguardo, distratto e spesso incredulo, la visione delle realtà essenziali e ultime. Possiamo vivere il mistero della risurrezione in svariate maniere: o considerarlo come un’assurda e commovente fiaba che evoca delle memorie, dei sentimenti che ci mettono fuori, per qualche istante, dalla durezza e insignificanza dei tempi; oppure possiamo vedervi la proiezione di una speranza cieca, che è nel fondo di ogni cuore, di vedere un giorno la morte abolita da un’onda di vita piena e luminosa; infine possiamo sentire e vivere il mistero di Cristo e della sua vittoria sulla morte come qualcosa che ci concerne, perché sperimentiamo che dalla morte e risurrezione di Cristo discendono quelle energie che intessono il nostro destino di coscienze redente. Quest’ultima maniera di vivere la risurrezione, penso sia l’unica per chiunque abbia fede e senta che le tappe della vita, morte, risurrezione di Cristo segnino i non evitabili passaggi della coscienza che vuole raggiungere la pienezza della propria vita. «Cristo abiti nei vostri cuori mediante la fede - le forze spirituali introdotte da Cristo nelle coscienze - e possiate esser radicati nell’amore - nella partecipazione alla vita, alla luce, al fuoco che Cristo ha donato all’uomo», ci ricorda san Paolo nella lettera agli Efesini (3,17). L’idea fondamentale dell’esperienza del cristianesimo vissuto è quella del Cristo interiore: quando si tratta di Cristo è di me stesso che si tratta, di Cristo che abita nei nostri cuori come forza trasfìguratrice. Questa certezza, raggiunta per una mutazione di coscienza, rende comprensibili alcune espressioni del primo cristianesimo: «Non sono io che vivo, ma Cristo che vive in me» (Gal 2,20); «Finché non dirai di te stesso che sei mio, Io non sarò pienamente ciò che Io sono; ma se mi comprendi, con questa cognizione esatta, tu sarai come Me. E per opera mia che tu divieni ciò che Io sono» (Atti di Giovanni). Cristo, la Parola incarnata, è la Persona in sé, l’Uomo interiore, il nostro vero Io. Nella prospettiva di questa possibile esperienza di fede, cerchiamo di penetrare, per quanto le insufficienti parole umane lo permettano, nel mistero della morte e della risurrezione di Cristo. La vita è una successione ininterrotta di vita e di morte e nuovamente di vita. Il corpo fisico continua a vivere grazie al meccanismo del ricambio che elimina le parti consunte e ne assimila di più fresche. La mente, la psiche continuano a esser viventi per la capacità di rinnovarsi che hanno. La morte è la spinta che conduce ogni aggregato verso l’indifferenziazione, la stasi, l’omogeneità; la vita invece è la pulsione
verso la differenziazione e l’eterogeneità. La prima favorisce la formazione di sistemi chiusi in se stessi; la seconda moltiplica gli scambi e le aperture con altri sistemi. Il tessuto dell’esistenza è composto dalla perenne lotta tra la morte e la vita; la vita che invade i campi devastati e li rende nuovamente fecondi, la morte che si adagia sui nuovi virgulti e lentamente li estingue. Questo su tutti i piani dell’esistenza: la pianta vive e muore, nel seme riprende il suo ciclo vitale; l’animale vive e muore, nella generazione la sua vita continua; la mente vive nei pensieri, i pensieri vengono spenti dalla ripetizione, riprendono vigore in nuove formulazioni; il cuore vive nei sentimenti, a loro volta questi vengono usurati dall’abitudine, e riprendono vita quando appaiono nuove visioni, nuovi ideali. Le creazioni dell’uomo, dopo un tempo di intensità, si affievoliscono, e ciò che prima era stata l’attuazione di grandi speranze, si trasforma in rattristanti istituzioni, finché non vengano rianimate da nuovi e più intensi ideali. Sembra che tutto il fluire dell’esistenza sia condannato all’annientamento, se non intervenissero, quando i processi vitali declinano verso l’uniformità della morte, dei nuovi fattori di intensificazione. Essi nel mondo organico sono i modelli informativi che risolvono nel senso della ripresa della vita un corso di degradazione; nel mondo della coscienza umana sono gli interventi della Rivelazione che la salvano dal decadimento. Il punto centrale nella meditazione della morte e risurrezione di Cristo è questo: Gesù Cristo è, nella nostra certezza di fede, la Parola di Dio che presiede alla creazione di tutti gli esseri, il modello informativo sul quale tutto ciò che esiste viene a configurarsi, ed è la Parola di Dio che si è fatta carne, che dopo l’evento dell’Incarnazione non risuona più dall’esterno, ma vibra nel profondo della creazione che, per questa nuova e interiore sorgente di vita, si dischiude e decisamente s’incammina verso la rigenerazione. Le creature, una volta nate, entrano nel regno della morte, lo superano con la moltiplicazione delle generazioni, alla morte immanente oppongono le nascite. Alcune forme religiose hanno radicato la fede nell’immortalità nella successione dei padri, dei figli, dei nipoti; altre nella considerazione del non-valore dell’esistenza storica e nel valore assoluto del ritorno delle scintille divine, coniugate con la materia, nel loro incandescente e immateriale fuoco originario. Gesù Cristo scende dal seno del Padre nella carne e, per la sua natura umana, è come tutti noi condannato alla morte, accetta liberamente e volontariamente la morte. La sua morte è stata voluta dalle leggi costrittive di una società, e ha rivelato la crudeltà delle leggi della religione del Padre e insieme l’ingiustizia della morte. L’accettazione volontaria della morte da parte di Cristo ne rivela l’aspetto necessario ma non assoluto, e insieme sposta l’accento dalla morte alla vita. La morte da realtà terrificante acquista il significato di passaggio obbligato a una più intensa vita. Con la morte-risurrezione di Cristo, la continua morte, cui tutti siamo sottoposti, viene
trasformata in un’assoluta provocazione verso la vita, e diventa libera accettazione della propria vita e della propria morte. La verità soprarazionale delle due nature, divina e umana, di Gesù Cristo è il simbolo dell’eternità della vita congiunta alla fatalità della morte. Nella morterisurrezione di Gesù Cri sto, la morte è il punto luminoso verso il quale tutti siamo in cammino e al quale porteremo i nostri frutti di vita e di luce. L’evento della morte-risurrezione di Gesù Cristo si rivelerà l’inizio di un immenso movimento ascensionale di un imperativo creatore che ci impone la necessità di accettare la nostra vita e la nostra morte positivamente, l’ascesi di tutto l’essere nostro personale per integrare e sublimare ogni energia, per intensificare la vita della coscienza, che farà passare l’uomo e il suo universo nella pienezza della luce della risurrezione.
TU SEI IL FIGLIO DI DIO Giovanni Vannucci, «Tu sei il Figlio di Dio» in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984;. 20 a del tempo ordinario - Anno A; Pag. 150-152.
Fermiamo la nostra riflessione sulle parole di Pietro: «Tu sei il Consacrato, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16, 16). Alla domanda: «La gente chi dice che sia il Figlio dell’Uomo?», i discepoli rispondono: «Alcuni affermano che tu sei Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». Giovanni, Elia, Geremia, un profeta, sono semplicemente uomini; Cristo precisa di più la sua domanda: «Per voi chi sono?». Pietro, senza ombra di incertezza, afferma che Cristo è totalmente altro dall’uomo: «Tu sei il Consacrato, il Figlio del Dio vivente. Tu sei il Figlio dell’Uomo, ma su di Tè c’è un sigillo sacro, quello del Figlio del Dio vivente». Questa affermazione è la spada che divide l’umanità in due schiere, quella che accetta la professione di Pietro, quella che non osa accettarla perché in contrasto con la ragione, oppure perché vi vede un’affermazione pagana, oppure perché, negandola, rifiuta una Chiesa troppo umana e potente che delle parole di Pietro si è fatta uno strumento di dominio e di tirannia. Mettendoci oltre tutte le contese, nel più profondo rispetto verso chi, onestamente, non accetta la divinità di Cristo, cerchiamo di comprenderne in noi, in coloro che hanno fatto di questa affermazione vita della loro vita, il significato. Pietro afferma: «Tu sei il Figlio del Dio vivente», quindi non un ideale di alta nobiltà di vita, non il Maestro unico e inimitabile, ma «il Figlio del Dio vivente»; il Figlio che si presenta a noi, non per essere oggetto di raffinati sistemi di pensiero, ma per esser vissuto in tutta la sua forza, in tutta la sua novità, in tutta la sua grandezza. Realtà non di speculazione, ma di vita. Forse, in questo momento della storia, a ognuno di noi è richiesto di mettersi al di là di quanto fino ad ora è stato detto, speculato, scritto sulla divinità di Cristo, e, in questo deserto mentale, di porsi davanti alle parole: «Tu sei il Figlio del Dio vivente», in silenzio, perché discendano in noi, ci illuminino, ci aiutino a vivere il loro mistero divino e umano. Non è facendo di Gesù Cristo un semplice uomo che si glorifica l’ascesa umana, bensì è dimostrando come l’umana pochezza abbia potuto innamorare Dio, che si esalta davvero quel principio che fa dell’umana natura il prototipo dell’ascesa e della trasfigurazione universale della materia. Se noi, piccoli uomini, abbiamo potuto con le nostre sofferenze, lotte, sforzi, virtù, ottenere che un più puro aspetto della divinità rivestisse le nostre spoglie, allora noi, piccoli esseri effimeri, abbiamo un qualche valore agli occhi del Dio vivente.
Non è il fatto che l’uomo ascenda a Dio che è importante, bensì quello che Dio discenda nell’uomo. Se l’uomo ascende a Dio, vedi tutti i genii religiosi di prima e dopo Cristo, Dio diventa simile all’uomo; ma se Dio discende nell’uomo, vedi Gesù il Cristo, l’uomo è costretto a divenire simile a Dio. Può sembrare assurdo che dopo duemila anni dalla redenzione, siamo costretti a ri-iniziare la difesa della divinità di Cristo, eppure è così, ma facendolo noi difendiamo l’intrinseca divinità dell’uomo. Per Gesù, è l’uomo che ascende all’adozione divina, non solo, ma che diviene veramente figlio di Dio: «Non per volere di carne o di sangue, non per volontà di uomo, ma per operazione dello Spirito Santo l’uomo diventa figlio di Dio». Gesù è la nuova norma umana, il nuovo ordine di cose, la nuova fondazione dell’umanità, il nuovo possibile uomo. Gesù, con la sua nascita, creò i postulati per una nuova forma di vita veramente umana. Come Gesù nacque, gli uomini dovranno nascere «non per volere di carne, non per volere di uomo, ma per opera dello Spirito di Dio, e gli uomini saranno chiamati figli di Dio». Il Verbo si è fatto carne, Dio si è fatto uomo in Gesù Cristo! Questo occorre che l’umanità acquisisca, questo è il vero secolo nuovo, la grazia del terzo millennio! Strappando a Cristo il nimbo della divinità, strappiamo dalla nostra fronte l’aureola dell’immortalità che il nostro martirio terreno ci ha conquistato. Noi invertiamo i tempi, torniamo indietro invece di andare avanti e, dopo avere scoperto Dio, scopriamo miserevolmente la scimmia. Chi oggi libererà lo schiavo, chi oggi farà grande il piccolo e piccolo il grande? Non certo la carne e il sangue, ma il Padre che è nei cieli. Possibile che l’umanità, dopo aver sognato uno splendido sogno, scopra di doversene vergognare? Se è vero che i sogni rivelano l’inconscio represso, nell’inconscio dell’umanità Dio è represso e vuol giungere alla luce della coscienza. Se l’umanità sognò sempre degli dei umanati, ciò è perché essa è capace di umanare Iddio. E noi alla bellezza del sogno inchiniamo riverenti il pensiero e, presi dalla sua grandezza, non temiamo di errare affermando che esso, come si è avverato in Gesù Cristo, si avvererà nell’uomo. Gesù, vero uomo e vero Dio, è il segno del nostro riscatto, la caparra dell’eterno commercio con il cielo. «Tu sei il Figlio del Dio vivente!». Quante volte nei secoli questo grido dell’umana coscienza echeggiò! Questo grido esprime e contiene quanto il cuore umano ha di più alto, di più umile, di più puro come anelito e come idealità: il Cristo. L’umanità può aver trascinato nel fango la sua veste regale, può aver deviato da tutte le sue vie, ma basta a redimerla, a glorificarla, a ricondurla al suo cielo l’inconscia e potente aspirazione che, quasi istinto caratteristico dell’uomo, fa sì che essa possa concepire il Cristo come salvezza divina realizzata e attuata nell’uomo. Gesù, vero uomo e vero Dio, è il segno della nostra ascesa: «In verità vi dico che chiunque creda in me, anche se è morto, vivrà». Noi crediamo in Te, per Te crediamo in tutti i tuoi fratelli: gli uomini nati da donna.