Testi di
padre Giovanni
Vannucci
vol. 1 di 6
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Testi di padre Giovanni Vannucci I testi di padre Vannucci sono curati da Consalvo Fontani, che li inoltra via email a un vasto indirizzario. La grafica ed eventuali sottotitoli per lettura ipertestuale sono a cura della redazione del sito
Il Risveglio 1a domenica di Avvento, anno A Siate svegli 1a domenica di Avvento, anno B Due battesimi 2a domenica di Avvento, anno A Perchè il deserto 2a domenica di Avvento, anno B Il regno di Dio dentro di voi 3a domenica di Avvento, anno A La voce del deserto 3a domenica di Avvento, anno B Immacolata Concezione Maria e Giuseppe 4a domenica di Avvento, anno A Maria 4a domenica di Avvento, anno B Natale, messa della notte: i simboli Natale: alcuni segni Natale: il fanciullo eterno La volontà del Padre domenica dopo Natale Le cose del Padre domenica dopo Natale Il Nome di Gesù 1 gennaio La generazione dei figli di Dio 2a domenica dopo Natale Il Battesimo di Gesù: l'Uomo nuovo domenica dopo l'Epifania Epifania: i Magi Epifania: il grande sogno Epifania del Signore Il Battesimo di fuoco 2a domenica del tempo ordinario, anno A Vivere secondo il ritmo della verità, 2a domenica del tempo ordinario, anno B Signore del tempo nuovo 3a domenica del tempo ordinario, anno C Il tempo è breve 3a domenica del tempo ordinario, anno B Il combattimento invisibile 4a domenica del tempo ordinario, anno A La viva parola di Cristo 4a domenica del tempo ordinario anno B Il sale e la luce 5a domenica del tempo ordinario, anno A Pescatori di uomini 5a domenica del tempo ordinario Risposta a Giobbe 5a domenica del tempo ordinario, anno B Gli emarginati 6a domenica del tempo ordinario, anno B Il peccato cancellato 7a domenica del tempo ordinario, anno B Essere polline di gioia 8a domenica del tempo ordinario La tentazione 1a domenica di Quaresima, anno A Il sacramento quaresimale 1a domenica di Quaresima, anno B La Trasfigurazione 2a domenica di Quaresima, anno A La Croce e la Chiesa 2a domenica di Quaresima, anno B
Il nuovo tempio 3a domenica di Quaresima, anno A L'Illuminatore, 4a domenica di Quaresima, anno A La Risurrezione e la Vita, 5a domenica di Quaresima, anno A L'umile cavalcatura domenica delle Palme, annoA Il Verbo entra nella città dell'uomo domenica delle Palme, anno B Giovedì Santo: Memoria ed Eucarestia Sabato Santo: Acqua e Fuoco: purificare le radici Pasqua di Resurrezione: Vita, morte e ancora vita, anno A Pasqua La Risurrezione anno B Pasqua: le due chiese annoC Lunedì dell'Angelo: Essere continuamente nuovi, anno B Il dono dello spirito: 2a domenica di Pasqua, annoA La fede nel Risorto 2a domenica di Pasqua, anno B Il pane spezzato e gli antichi misteri: 3a domenica di Pasqua, anno A Il Redentore, 3a domenica di Pasqua, anno B La porta e la voce, 4a domenica di Pasqua, anno A Il Buon Pastore, 4a domenica di Pasqua, anno B La via, la verità e la vita, 5a domenica di Pasqua, anno A La vera vite, 5a domenica di Pasqua, anno B Il nuovo Respiro, 6a domenica di Pasqua, anno A Il grande Amore, 6a domenica di Pasqua, anno B Vita nuova nello Spirito 6a domenica di Pasqua, anno C Ascensione del Signore, Trasfigurazione dell'essere, anno B L'annuncio trinitario, Ascensione del Signore Pentecoste:Creature nuove Pentecoste: discesa dello Spirito Pentecoste: La comunicazione dello Spirito - anno A Pentecoste: La missione dell'uomo - anno B Santissima Trinità: La luce e le tenebre, anno A Santissima Trinità: La fioritura della vita, anno B Misericordia e sacrificio 10a domenica del tempo ordinario, anno A La chiamata dei Dodici 11a domenica del tempo ordinario, anno A Non temete chi uccide il corpo 12a domenica del tempo ordinario, anno A Gettare la propria vita 12a domenica del tempo ordinario, anno C Infinita coscienza 12a domenica del tempo ordinario -Anno C Corpus Domini: carne e sangue Corpus Domini: consumazione Corpus Domini: moltiplicazione dei pani Discepoli, 13a domenica del tempo ordinario, anno A Camminare con Cristo 13a domenica del tempo ordinario, anno C I piccoli 14a domenica del tempo ordinario, anno A I quattro terreni 15a domenica del tempo ordinario, anno A
La zizzania e il grano 16a domenica del tempo ordinario, anno A La parte migliore 16a domenica del tempo ordinario Sentirci tutti amati da Dio16a domenica del tempo ordinario Le tre vie 17a domenica del tempo ordinario, anno A Il vero miracolo 18a domenica del tempo ordinario, anno A La religione del Figlio 19a domenica del tempo ordinario, anno A La grande fede 20a domenica del tempo ordinario, anno A Tu sei Figlio di Dio 21a domenica del tempo ordinario, anno A La vita e la morte 22a domenica del tempo ordinario, anno A L'amore immotivato 22a domenica del tempo ordinario I primi e gli ultimi 23a domenica del tempo ordinario L'infinita Coscienza 25adomenica del tempo ordinario La morte della potenza umana 25adomenica del tempo ordinario I due figli 26adomenica del tempo ordinario Che cosa è la fede? 27a domenica del tempo ordinario La pietra scartata 27a domenica del tempo ordinario, anno A Aspirazione all'unità 27a domenica del tempo ordinario, anno B La veste di luce 28a domenica del tempo ordinario, anno A Lo spirito del mondo 28a domenica del tempo ordinario, anno B La fede e il tempio 28a domenica del tempo ordinario Pregare senza disertare 29a domenica del tempo ordinario, anno C Dio e Cesare 29a domenica del tempo ordinario, anno A Il Calice di Cristo 29a domenica del tempo ordinario, anno B L'unità dell'amore 30a domenica del tempo ordinario, anno A Corpo di resurrezione 32a domenica del tempo ordinario, anno C I tre volti dell'Anticristo 33a domenica del tempo ordinario, anno C I talenti 33a domenica del tempo ordinario, anno A L'ora presente 33a domenica del tempo ordinario, anno B Ultimo testamento 34a domenica del tempo ordinario, anno C Cristo Re 34a domenica del tempo ordinario, anno A Tutti i Santi 1 novembre, anno C La santità oggi, 1 novembre, anno A
CAMMINARE CON CRISTO Giovanni Vannucci, omelia pronunciata domenica 27 giugno 1977 durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 19 nell’eremo di San Pietro alle Stinche - Greve in Chianti, FI). in La Vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985; 13 a domenica del tempo ordinario: «Camminare con Cristo». Anno C. Pag. 145-149.
Stando alla pagina di Lc 9, 51-62, nessuno può entrare in quella nuova dimensione che Cristo ha portato alla coscienza degli uomini, se si volta indietro, se si sofferma su posizioni ormai sorpassate, se preferisce il saluto a coloro che deve abbandonare prima di seguire decisamente Cristo. Vicino a Cristo, il passato, il dietro, il superato, non hanno posto. Egli è il Figlio dell’Uomo. Su questo passo noi dobbiamo ritmare il nostro cammino personale. Egli non ha un posto dove posare il capo, né un nido dove soffermarsi per la notte (cfr. Lc 9, 58): è sempre in cammino, è l’eterno pellegrino. E così dobbiamo essere noi.
Quando i discepoli giungono nel villaggio della Samaria e si sentono rifiutata l’ospitalità per il semplice fatto di essere Ebrei e di andare verso Gerusalemme, vanno da Cristo e gli dicono: «Signore, vuoi che facciamo cadere dal cielo un fulmine che stermini tutta questa gente?». Il Cristo dice: «Non sapete con che spirito parlate», e li rimprovera severamente (cfr. Lc 9, 54-55). I discepoli non erano passati attraverso la novità del Vangelo. Erano ancora nell’economia del Vecchio Testamento: «Dente per dente, occhio per occhio. A chi ti toglie un dente, togli un dente; a chi ti toglie un occhio, togli un occhio; a chi non ti ospita, fai cadere un fulmine dal cielo perché bruci la sua casa» (cfr. Dt 19, 21). Per Cristo questo è il passato. Soffermarsi al passato è non seguirlo. Si apriva, si apre con Cristo una nuova realtà. Le contingenze della terra, di accettazione o di rifiuto, di rispetto o di disprezzo, non hanno nessun senso per colui che segue Cristo. Egli deve compiere il suo cammino sempre in avanti. E a quell’ignoto
che gli chiede di seguirlo, Cristo, leggendo nel suo cuore, dice: «Vedi, il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo. È sempre in cammino in avanti» (cfr. Lc 9, 58). Quel tale non lo accetta, perché probabilmente aveva visto, aveva sentito la forte personalità di Cristo e cercava un rifugio vicino a Cristo: un grande padre che lo coprisse e che gli desse sicurezza. E Cristo gli dice: «II Figlio dell’Uomo, l’Uomo, l’Uomo vero, l’Uomo maturo non si sofferma neppure all’ombra di una grande paternità o di una grande maternità: va sempre avanti, solitario e pellegrino nella sua strada». E all’altro, al quale Cristo dice: «Seguimi», e che gli chiede di andare a seppellire suo padre, Cristo dice: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Lc 9, 59-60). Il morto è un essere che ormai ha compiuto il suo ciclo, e attardarsi per compiere anche quelli che per noi sono atti di pietà e di amore che vanno compiuti, è un non seguire il Cristo. E all’altro che dice: «Ti seguirò. Signore, ma prima lascia che io mi congedi da quelli di casa» (Lc 9, 61), Cristo risponde: «No, Cristo è sempre avanti; seguimi». Questa è la grande consegna che Cristo ci dà e che noi dobbiamo vivere pienamente: essere con Lui sempre, oltre tutti i margini che costruiamo, oltre tutti i limiti di civiltà, di cultura che costruiamo, perché Cristo è sempre avanti. Quando poi pensiamo di essere riusciti a dare alla nostra società una forma perfettamente cristiana e guardiamo la nostra società e poi guardiamo Cristo, vediamo che Cristo è avanti. E allora dobbiamo lasciare le belle costruzioni che abbiamo innalzato, le meravigliose strutture che siamo riusciti a edificare, per seguire Cristo che è sempre avanti e sempre oltre. Attorno a Cristo non c’è niente di morto, attorno a Cristo non c’è niente di passato, attorno a Cristo c’è il presente, ma il presente che è mosso e fermentato da una speranza che ci proietta nel futuro. E con tutto l’essere noi dobbiamo riuscire a seguire Cristo: con tutto l’essere, con la nostra mente, con il nostro cuore, con il nostro sentimento, con la nostra vita, con le nostre mani, pronte a distruggere quello che dobbiamo distruggere perché ormai è soffocante per la coscienza cristiana, è soffocante per Cristo che è in noi. Ecco, c’è un punto sul quale noi dobbiamo tenere sempre vigilante la nostra attenzione: che il nostro cammino sia compiuto non da noi, ma da noi con Cristo, o «in Cristo», come dicevano gli antichi cristiani, nello spazio di Cristo. La nostra Chiesa è in un momento di grande crisi, come tutta la società; noi sentiamo sulle spalle il peso di tutta una tradizione che è invecchiata, ce la vogliamo scrollare di dosso, non con le nostre velleità, con i nostri capricci, con le nostre stranezze, con le nostre stravaganze, ma ce lo dobbiamo scrollare dalle spalle con Cristo. E se rinunciamo a una bellezza che non sentiamo più affascinante, dobbiamo rinunciarvi in nome di un’altra bellezza. Se rinunciamo a un canto che ora non esprime
più il nostro sentire, la nostra sensibilità del sacro, lo dobbiamo fare in nome di un canto che esprima perfettamente e compiutamente e in perfetta bellezza quello che sentiamo del mistero di Cristo. Ciò non significa far delle cose brutte, delle cose superficiali, affrettate e più caduche di quelle che abbandoniamo per rinnovarci nel Cristo. Ma rinnovarci in Cristo significa muoverci con tutte le nostre facoltà creative di bellezza, di amore, di libertà, di grandezza umana. Allora, camminiamo con Cristo. Adesso, se guardiamo la storia delle nostre Chiese, di tutta la cristianità, vediamo che c’è un continuo movimento. E questo movimento è sempre stato accompagnato da manifestazioni di bellezza, di libertà, di verità. A un certo momento c’è stata una chiusura e, anche dentro la Chiesa, abbiamo prodotto delle cose opprimenti, brutte, squallide, penose, perché la cristianità ha pensato di dare una definizione totale e perfetta di Cristo. E Cristo invece era al di fuori. Allora la bellezza è nata al di fuori, la libertà è nata al di fuori, la ricerca della verità è nata al di fuori di questa struttura che si è chiusa. Ora noi sentiamo tutto il peso di questa chiusura che è avvenuta secoli fa. E come dobbiamo liberarcene? Camminando con Cristo. Camminare con Cristo significa disseminare i nostri passi di crescente bellezza, di canto sempre più avvincente e più nostalgico della vita divina, di libertà sempre maggiore e più profondamente rispettosa dell’uomo, creando delle strutture talmente fragili che accompagnino il nostro cammino di pellegrinaggio come una tenda, che oggi stabiliamo in un posto, domani in un posto più avanzato. Di questo dobbiamo persuaderci: attorno a Cristo non ci sono né cose brutte, né cose passate, né vecchi fermenti, né cose morte, ma c’è un rinnovamento continuo di vita. Ora, nel rinnovamento della vita, se noi partiamo dalla nostra piccolezza umana, creiamo sempre delle cose sbagliate, delle cose opprimenti, delle cose che non ci liberano. Se invece partiamo da quest’asse centrale che è nel nostro essere e che è Cristo, allora anche le nostre costruzioni saranno vere, saranno apportatrici di bellezza, di libertà, di amore, di respiro a tutti gli uomini. Credo che seguire Cristo, oggi, imponga a noi una più profonda conoscenza della realtà di Cristo, un amore più appassionato di quello che è Cristo, non delle figure che la storia umana ha dato di Cristo, ma di quello che è Cristo nella sua purezza e nella sua essenza. E dopo dobbiamo muoverci, con questa ricchezza, con questo accrescimento di vita nel cuore, sicuri che tutto ciò che faremo sarà fatto in nome di Cristo e nella presenza di Cristo. E poi costruire sempre, ma costruire pensando al domani e non all’oggi, pensando di dare al nostro canto una latitudine che abbracci le generazioni che seguiranno, di dare alla nostra bellezza un tale respiro che possa essere comprensibile e illuminante anche per le generazioni che verranno dopo di noi. Dobbiamo muoverci nello spazio di Cristo, e lo spazio di Cristo è l’infinito tempo,
l’infinito orizzonte, il «sempre oltre». Il sempre oltre al presente, il sempre oltre a tutte le realizzazioni che noi uomini possiamo compiere anche nel suo nome. Allora le cose che facciamo avranno sicuramente, anche se legate al tempo e allo spazio, il profumo dell’eternità e avranno il profumo del non spazio, perché nascono da questa nostra comunione profonda con il mistero di vita che è il Cristo, che è nel nostro cuore. E dal cuore dobbiamo riuscire a trarre tutte le nostre ispirazioni e tutte le nostre raffigurazioni di ciò che vogliamo compiere nel nome di Cristo.
ACCRESCI LA NOSTRA FEDE!
Nel brano evangelico di Lc 17, 5-10 il legame logico delle parole di Gesù ai discepoli, che l’avevano interrogato sulla fede, non è subito evidente. Nella prima frase Gesù descrive il potere miracoloso di un granellino di fede: può comandare a un gelso di trasferirsi nel mare (cfr. Lc 17, 5-6). Negli altri due periodi indica la necessità di non aver pretese: il servo, compiuto il proprio dovere, è sempre un servo inutile (cfr. Lc 17, 7-10). Tenendo conto che il motivo centrale della conversazione fra Gesù e i discepoli è la fede, possiamo trovare il nesso delle sue varie frasi. Descritto il miracoloso potere della fede, il Maestro indica, realisticamente, la condizione e i doveri di chiunque cerchi la fede. Chi cerca la fede si senta come il servo che ha la mansione di lavorare un campo, o di custodire un gregge; il campo e il gregge sono la metafora della concreta realtà di ognuno; la fede dà la padronanza della vita, per raggiungerla dobbiamo prima esserne i servi. Quando ogni particella della porzione di vita affidataci sarà feconda; quando tutto il terreno, consegnato al nostro personale lavoro, sarà immacolato da istinti e passioni, allora potremo, in libertà assoluta, comandare alla vita, ordinare al gelso di trasferirsi nel mare (cfr. Lc 17, 6). La fede, la sua ricerca, accelera il processo di trasformazione della terra che ci è stata consegnata, e quando la trasformazione sarà compiuta i miracoli accadranno perché la vita verrà dominata. La trasformazione non sarà che il risultato della consapevole obbedienza a Colui che ci ha affidato il lavoro del campo, la custodia del gregge (cfr. Lc 17, 7). Ordinariamente, nella comune esperienza, confondiamo la fede con la pratica religiosa, con la religione stessa, con l’espressione ideologica di una religione storica. Di qui l’uso di parlare di fede politica, scientifica, filosofica per indicare un’accettazione religiosa di un dato atteggiamento di pensiero. Questa confusione ci può far vivere in pieno meriggio e non veder la luce perché si è ciechi; si può essere immersi nelle pratiche religiose e non aver fede; si può inventare una religione e inculcarla senza aver fede, oppure formulare un sistema di valutazione filosofico-religioso sempre senza fede. Si può credere e non aver fede, poiché la fede non è la credenza. La fede è un delicatissimo senso animico che rivela all’uomo la realtà trascendente nell’immanenza di ogni cosa; senso che rivela alla coscienza il segreto significato della manifestazione e le permette di equilibrare il richiamo che viene dal silenzio del passato e da quello del futuro. La fede sviluppa e fa crescere nell’uomo di carne l’uomo dello spirito, fa passare dal battesimo di acqua, che è riordinamento del campo di vita affidato a ognuno, a quello di fuoco, che è confermazione di un’avvenuta trasfigurazione. Per la fede l’essere che in Adamo fu separato viene riunito e con-fuso in Cristo, e assume nella figura della sua carne l’impronta dello Spirito Santo che lo trasforma e, vivificandolo, lo eterna. Nella realizzazione dell’assoluto della fede, fra il credente e Cristo si stabilisce un’unione per cui la vita di Cristo diventa la vita del cristiano, e in Cristo il cristiano si eterna e non conosce morte: «Chi ha fede in me non morirà in eterno» (Gv 11, 26). In questa
trasformazione solo l’assoluto della fede ha un senso, le varie «credenze» sono continuamente frustrate dal trionfo della morte alla cui legge ogni carne è sottoposta. L’esteriorizzazione della fede in varie forme religiose è sempre possibile e forse è una necessità, ma essa è sempre limitante. Chi pratica tutti i riti prescritti, non fa male, ma è necessaria la cautela per non confondere le pratiche con la fede: le pratiche possono esprimere la fede, ma non ne sono l’adeguata manifestazione. La fede è una tranquilla e costante sensazione di Dio, per cui l’uomo si muove nella vita con la naturalezza del pesce nell’acqua chiara, e vivendo in questa sensazione opera con sereno equilibrio e non si lascia sopraffare o turbare da cosa alcuna, per cui tutto ciò che è transitorio non occupa l’anima che di passaggio, senza turbarla o distrarla dal suo tranquillo abbandono di servo e di servo inutile. Nello stato di fede non solo tutto è possibile, ma è impossibile che qualcosa non sia possibile. Di qui le parole di Gesù: «Se avrete fede quanto un granello di senapa, direte a questo gelso: trapiantati nel mare, e il gelso obbedirà» (Lc 17,6). Chi possiede questo prezioso granello, possiede il segreto dell’anima cosmica, la formula del potere assoluto, mediante la quale tutte le creature sono soggette al Signore e gli Angeli servono gli ordini ricevuti. Niente infatti separa lo spirito singolo dallo Spirito Santo e dalla comunione con la vita; chi possiede la fede, possiede la vita e «fosse anche morto sarebbe risuscitato» (Gv 11, 25). La realtà della fede non è tanto il credere: la fede è un atto di comunicazione con tutto ciò che è alto, bello e santo; la credenza ammette invece solo un determinato aspetto. La credenza è la fede esteriore: per essa si crede in Dio, si raccoglie del materiale e pietra su pietra si innalza un tempio; si costruisce un simulacro e si prega dinanzi a lui giorno e notte. La fede si ha quando l’uomo dice: Io sento in me nobiltà e generosità, sento in me l’anelito a superarmi, sento in me l’eternità, la potenza dell’Essere. Gesù, dicendo: «Se avete fede quanto un granello di senapa, direte a questo gelso di trapiantarsi nel mare...», non si riferiva al fatto di credere a questo o a quell’aspetto della Divinità, ma al risveglio di quel senso animico per cui l’uomo vive la vita di Dio. Gli apostoli, dicendo a Gesù: «Signore, accresci la nostra fede» (Lc 17, 5), non domandano di credere in Gesù, ma di avere qualcosa di più: la fede, la comunione con quella Realtà che era l’unica ragione di essere del Maestro. «Signore! Accresci la nostra fede» implorano gli apostoli! Questa invocazione ci apre degli sterminati orizzonti. Il Signore invocato è il nato dalla Vergine e il concepito per opera dello Spirito Santo, ed è in suo potere dare e accrescere la fede. Poiché Egli è il punto vivente dell’incontro di Dio con la carne, della carne con Dio. In Lui, centro d’incrocio della materia e dello Spirito, scopriamo la nostra spirituale natura, veniamo divinamente istruiti sulla nostra origine, intuiamo la realtà trascendente del nostro compito umano che non è, ne può essere, nella manifestazione creata, ma nell’immanifesto divino. In Lui lo Spirito non è astrazione perché si fa carne, e la carne non è un penoso cammino verso il disfacimento perché supporto di una materia che ascende nello Spirito. Imploriamo anche noi: Signore, accresci la nostra fede! Perché fermamente credendo in Te, possiamo essere in Te assunti e confermati, e per Te ci sia dato di identificarci nel Padre comune!
LA CARNE E IL SANGUE Giovanni Vannucci, in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; «La carne e il sangue» Pag. 90-92. Anno A.
Le parole della lettura del Vangelo: «Io sono il Pane disceso dal ciclo... Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna» (Gv 6, 51.54), costituiscono l’atmosfera religiosa della solennità del Corpo e del Sangue del Signore, del Pane e del Vino che consumiamo nella celebrazione eucaristica. Il pane e il vino costituiscono gli alimenti basilari e archetipici dell’umanità mediterranea; Cristo, scegliendoli come il supporto della sua presenza, viva e operosa, nell’umana coscienza, ha fatto una scelta simbolica strettamente aderente all’esperienza che del pane e del vino, del grano e della vite, l’uomo mediterraneo aveva; esprimendone il significato, ha rivelato di esserne il compimento. La vita di Gesù è accompagnata da questi due elementi: a Cana trasforma l’acqua in vino, varie volte moltiplica i pani, di se stesso afferma: «Io sono il pane disceso dal cielo», nell’ultima cena distribuisce il pane e il vino designandoli come suo corpo e suo sangue. Il significato del pane condensa i quattro elementi fondamentali del mistero del cosmo: solido col glutine, liquido con l’acqua, gassoso con la fermentazione, calorico con la cottura. Il pane è un alimento così legato all’uomo che le varie tecniche della panificazione segnano le tappe che la coscienza umana, in Occidente, ha raggiunto nel suo cammino verso l’individuazione. Popoli in cui l’individualismo prevale hanno numerosi e differenti modi di panificazione; popoli, invece, in cui predomina la coscienza di gruppo e di massa, hanno una panificazione uniforme. Il pane ha un rapporto molto stretto con l’iniziazione cristiana, né poteva essere altrimenti, poiché il cristianesimo, dal punto di vista della formazione della coscienza personale, spinge l’uomo al superamento di tutti gli io legati al sangue, alla carne, alla razza, al gruppo, perché possa affermare di se stesso, in piena libertà, un io spogliato da tutte le qualificazioni: l’Io sono figlio di Dio. Il vino, che risulta dalla fermentazione alcolica degli zuccheri maturati nei grappoli, introduce, in chi lo beve, movimento, euforia, ebbrezza. Nell’antichità classica la vite e il vino erano collegati al culto di Dioniso, la divinità delle tenebre, della creatività e della libertà. Quando l’alcol agisce nella mente, essa viene disarticolata e può vedere la realtà, non più attraverso le consuete griglie culturali, ma con intuizioni che se da una parte la mettono nella paradossale situazione dell’uomo del sotterraneo, dall’altra le lasciano intravedere dei bagliori di una meno condizionata verità. Il pane ha una sua ben definita forma, il vino in sé ne è privo, e ha bisogno di vasi per non espandersi. Questo fatto è vero anche per la carne corporea e per il
sangue: il corpo fisico ha una sua forma, ben solida e strutturata; il sangue, invece, è privo di forma ed è tenuto dai vasi sanguigni e dal cuore, col suo calore rende possibile all’uomo di affermarsi nei suoi impulsi e sentimenti, il corpo e il sangue son chiamati a una stretta collaborazione se si vogliono evitare delle alterazioni; prevalendo il corpo, la forma consolidata, la mente diventa dura, rigida, priva di vita nel pensiero; se prevale il sangue, l’uomo può perdersi in bramosie, in istinti e passioni. Cristo trasforma il pane nel suo corpo, il vino nel suo sangue; consumando il pane transustanziato l’uomo accoglie nella sua carne le energie divine che la risanano, rendendola viva della vera vita; bevendo il vino transustanziato riceve una forza che trasfigura la passionalità del suo sangue. Nel sacramento del pane e del vino la mente s’imbeve di entusiasmo, in esso cuore e mente, Dio e uomo, e, nell’uomo, Dio e mondo, vengono sempre più facendosi uno. Nell’Eucaristia il pane e il vino, comune e fondamentale alimento degli umani, divengono carne e sangue di Dio. Gesù, la Parola eterna che ha assunto la carne e il sangue dell’uomo, si è trasfuso nel sacramento. Consacrando il pane e il vino, offrendo a tutti il suo corpo e il suo sangue, il Verbo incarnato ha aperto in se stesso una piaga insanabile; tutta la sua vita rifluisce verso gli uomini, diviene vita degli uomini, lo intendano essi o meno, riescano a immedesimarsi in Lui o no; l’agonia eterna di Cristo comincia nel cenacolo. Se pensiamo come reale e possibile una vita sacramentale, una vita che si annienta negli altri attraverso l’Eucaristia, non possiamo non rabbrividire. Il vero amore-passione è questo, anzi solo questo! Qual vita può vivere Cristo nel pane e nel vino del sacramento, se non una vita puramente mentale? E cosa può essere più tremendo per una mente se non il continuo esinanirsi in una frantumazione di coscienze, in un incessante spezzettarsi in frammenti di mente? Il cibo per nutrire deve essere digerito, assimilato, deve perdere la propria natura per assumere quella di chi lo consuma. Questo cibo vivente, senziente e cosciente attende chiunque voglia cibarsene, chiunque voglia avere attraverso di lui la vita vera. La transustanziazione è perennemente in atto: l’immanenza di Dio è immanenza sacramentale e sacrificale. Immanenza che comporta la perenne comunione con ogni dolore, con ogni peccato, con ogni delirio, con ogni abiezione della carne e dell’anima; eternamente presente nel turbine, eternamente se stesso nell’esistere; e insieme eternamente solitario, sconosciuto, ripudiato da quelli stessi che vivifica. In tutti i tempi vi fu nell’umanità l’aspirazione a una salvezza che significasse presenza divina, il salvatore fu visto come vittima, ma fra salvati e salvatore vi fu un dualismo, non un’identità. Col pane e col vino eucaristico, l’identità si stabilisce, il Verbo si è fatto carne, nel sacramento si fa cibo e ammonisce: «Chi non mangia la mia carne e non beve il mio sangue, non avrà la vita vera». La fame che ci fa stendere la mano al pane e al vino eucaristico è l’anelito a prendere e a essere presi, a consumare per essere consumati, a cibarsi per divenire cibo. Cibo perché se il Verbo è cibo dell’anima umana, l’anima umana è cibo per il Verbo.
L’uomo si ciba del Verbo per avere intensificazione di vita, il Verbo si ciba dell’uomo assumendolo in sé. L’eterna riassunzione nell’eterna generazione, la vita che esplode e implode, l’immanenza trascendente di un principio che, solo, in se stesso si perpetua, il punto nel cerchio, che comprende il cerchio e non ne è compreso!
LA CONSUMAZIONE Giovanni Vannucci, in Verso la luce
1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; «La consumazione» Il Corpus Domini Pag. 101-104 - Anno B;.
L’immagine della Trinità nella liturgia della festa della Santissima Trinità ci è stata così presentata: una Pienezza perfetta, il Nome, da cui sgorgano tre luminose correnti: il Padre, creatore e signore di ciò che esiste; il Figlio, la Parola parlata dal Padre, il contenuto di tutti i segni viventi della terra; lo Spirito Santo, la segreta e viva energia che guida il creato verso il ritorno alla sua prima sorgente. Il movimento della vita trinitaria è pura gioia che coinvolge e travolge l’universo creato. Movimento che non ha una finalità, essendo l’espressione di una vita infinita, l’ebbrezza di essere, l’ebbrezza di conoscere, l’ebbrezza di trascinare tutto il creato a una conoscenza, gioia, libertà senza fine. L’Iddio, Uno e Trino, non cerca nessuna efficienza, è; e la pienezza del suo essere travolge, nolenti o volenti, le creature. Le parole che costituiscono il centro della liturgia della festa del « Corpus Domini » sono: « Prese il pane e spezzandolo disse: questo pane frantumato è la forma della mia essenza. Prese il calice col vino e facendolo bere ai discepoli disse: questo è il mio sangue che verrà sparso come un fermento su tutta la terra, per la liberazione dell’uomo dal peccato e dal peso delle colpe » (Mc 14, 22-24). Allora Dio è pane che vien consumato dalle infinite fami dell’essere creato, Dio è vino che viene bevuto perché ogni anelito verso la gioia e il canto trovi il suo compimento. Il Padre si consuma nel Figlio, perché diventi Parola che crea e redime. Il Padre e il Figlio si consumano nello Spirito Santo, perché diventi il soffio vivo che rianima ogni espressione dell’essere creato e la urge a quella consumazione che, abolendo le opposizioni egoistiche, trasfigurerà la creazione nell’infinita luce e vita di Dio. È questa capacità di consumazione personale in Dio che è necessario riacquisire nel nostro tempo, per liberarci da quelle visioni che svitalizzano la forza trascinante della presenza del Dio, Uno e Trino, nel mondo. Consumazione che è immersione nella triplice onda dell’unica Luce, e che sospinge ogni creatura verso l’infinita vita. Immergersi in quest’onda vivente per essere immediatamente ringiovaniti, purificati, convertiti! Consumazione che non ci è imposta, ma offerta, e che richiede il porre a rischio tutto, la sicurezza, le pazienti costruzioni fatte per garantire le certezze e gli ordini costituiti, le strutture materiali e teoriche contro i dubbi e contro le aperture verso insospettate novità.
In questo tempo contrassegnato dalla fame e dalla saturazione, dalla sicurezza sociale dalle ecatombi, la Chiesa è chiamata a rivivere con semplicità e radicalismo il significato del Pane e del Vino, dell’amore incondizionato che sfugge a tutte le socializzazioni come il Pane, dell’amore del rischio che la bevanda divina alimenta di generosità e di canto, della consumazione per la vita e la gioia di tutti. Forse noi cristiani, in un tempo così condizionato, dovremmo ritrovare semplicemente la vita, la gioia, le speranze più folli, mettere da parte le dotte elucubrazioni sul mistero e divenire pane che ha una sola ragione di essere: nutrire; e divenire vino per trasmettere a tutti i cuori - minacciati da una mostruosa razionalizzazione sociale che organizza il lavoro, i piaceri, i giochi, al fine di avere gli uomini più facilmente pianificabili - la gioia, l’ebbrezza, il canto. « II nostro amore non è che una scala alle nostre anime; sempre, sempre, non siamo che in noi stessi! Ma non troviamo pace in nessuna delle nostre stanze, la più tranquilla è ancora come un grido! L’ultima non è che l’anticamera, la più santa non è che una sala d’aspetto, la più bella non è che una povera abitazione terrena! » (Gertrud von le Fort). Nella consumazione personale ritroveremo il significato dell’intima vita del Dio, Uno e Trino, del Pane alimento, del Vino elargitore di gioia e di canto; comprenderemo che la Chiesa non è un’istituzione statica da difendere e da diffondere, ma una realtà vivente che vivendo si struttura, con la partecipazione di tutte le pietre viventi che la costituiscono. Cos’è infatti l’amore senza la consumazione personale degli amanti? Non rischia di diventare un aiuto ai popoli sotto-sviluppati, un pascolo per la stampa del cuore, una liturgia che non riguarda più i fedeli? La comunione al pane e al vino, nelle nostre liturgie, non è il segno di un amore chiamato ad aprirsi alla gioia di essere vivi in un mondo di forme viventi? Nella consumazione non c’interesseremo più della salvezza personale; gioiosi di collaborare all’azione della Trinità, saremo preoccupati della trasfigurazione della terra. Le piccole virtù cristiane verranno bruciate dalla generosità di consumarsi nel dono di noi stessi. E nel dono ognuno troverà il suo posto insostituibile, grande o piccolo che sia, e ritroveremo l’armonia dei doni dello Spirito, e nello Spirito ci sentiremo collaboratori della Creazione. L’onda della vita divina avanza ancora una volta sulle rive terrestri, carica di speranza e di progetti ardenti, e si offre alla visione di chiunque abbia il desiderio di vederla, e in essa s’immerge per essere consumato e divenire vivente. Essa ci domanda la consumazione di tutto ciò che si oppone al suo libero movimento, l’abolizione di un passato che più non è per noi, di quei privilegi che ci ancorano alla terra, di quelle teorie che ci dividono in detentori dello spirito e in discepoli da istruire e dirigere. In questa consumazione l’orgoglio umano verrà bruciato dal Dio vivente, e Dio non sarà più invocato ma presente; il suo tempio saranno gli uomini e la terra in
cammino verso la loro trasfigurazione; non ci saranno più frontiere, ma solo gli uomini, la redenzione di uno sarà la redenzione di tutti, tutto apparterrà a tutti e ciascuno sarà il proprietario di se stesso. Allora sorgerà la nuova Roma, la Gerusalemme celeste, la Chiesa più bella di tutti i sogni, più bella di tutte le lacrime di chi visse e morì nella notte per costruirla. Sarà il corpo del Dio, Uno e Trino, e Lui sarà la sua vita!
IL GIUDIZIO DEL RE Giovanni Vannucci, «Il giudizio del Re», 34 a domenica del tempo ordinario - Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984. Pag. 190-193.
Celebriamo la solennità di Cristo Re. Nel prefazio della Messa il regno di Cristo, il Regno che non è di questo mondo, è cosi descritto: «Regno eterno e universale, di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace». Qualità che sicuramente non potremo mai trovare negli Imperi e nelle Repubbliche terrene, frutti sempre di più o meno gravi compromessi tra la giustizia e l’ingiustizia, l’amore e l’odio, la pace e la guerra. Non di questi reami Cristo è Re! Mi sembra di un’importanza unica la sollecitazione che ci viene dalla Liturgia a pensare alla natura e all’affascinante nobiltà del Regno non mondano di Cristo, a sognare il suo grande sogno; tornando poi nella dura terra, qualcosa rimarrà in noi del sogno, e sarà germe di vita meno banale e dispersiva. Noi crediamo che Cristo sia l’Alfa, la lettera iniziale, e l’Omega, la lettera che chiude la vicenda dell’universo creato; il primo Adamo, l’Uomo protologico, e l’ultimo Adamo, l’Uomo escatologico che in sé attua e compie l’Immagine divina dell’uomo. C’è un mondo che ben conosciamo, il mondo della storia; a esso s’interseca, anzi ne è l’essenza intima, un fuoco attivante, il mondo della storia divina che iscrive la sua operosa attività nella coscienza umana. C’è il tempo della storia empirica che fluisce, quasi sempre, attraverso dolorose tragedie; c’è il tempo sottile della metastoria divina, che è stabile, immutabile nella sua costante elargizione di pace, di amore, di giustizia, di gioia. Il mondo della storia divina, il tempo sottile e qualitativo del Divino, sono il regno non mondano di Cristo. Entrare in questo Regno costituisce per l’uomo un’esperienza trasformatrice, in quanto viene a scoprire in sé il germe della vita eterna, della vita vera, la propria personale essenza divina che non viene dalla carne e dal sangue, ma da Dio. Allora l’uomo comprenderà di non essere nella storia, ne il figlio della storia, ma che la vera storia è in lui, e in lui c’è la storia del suo esodo dal mondo divino a quello terreno e la storia del suo ritorno al principio incandescente dal quale promana. Il ritorno è certo, ma lento e faticoso; l’uomo, come il seme del loto, deve radicarsi nel fango oscuro della materia se vuol risalire e germogliare nella luce. Pur essendo nel mondo, deve continuamente ricordarsi di possedere una perla preziosa che gli è stata affidata dal Re del mondo, della Verità e della Vita. Limitandosi alla storia empirica dei regni di questo mondo, l’uomo non può che avere una visione imperfetta e dell’esistenza e del compito che vi deve svolgere. Con
approssimazione riesce a sapere che la sua vita inizia con la nascita e finisce con la morte; ma del suo vero regno cosa sa l’uomo ordinario? I più credono tiepidamente a un fantasioso «dopo morte», senza peraltro esserne fondamentalmente sicuri. Dalla nascita alla morte, ecco la vita per la maggior pane di noi! Ma dov’era la nostra vita prima della nascita? Dove va la nostra vita dopo la morte? Tutte le religioni sono sorte per spiegare questo problema. Talora la soluzione è stata affidata a una parola sola, ma siccome questa parola avrebbe potuto significare il crollo di un intero elaboratissimo edificio, si è preferito ripeterla ignorandone il significato; talora la soluzione investiva un importante gruppo di dogmi e si è ignorata o repressa; talora la soluzione si è presentata o troppo dura e non consolante e, per istinto di difesa, si è ignorata, o respinta. La Verità è in Dio, e si è fatta carne, i suoi non raccolsero, gli estranei domandarono: cosa è la Verità? Millenni hanno preceduto l’Incarnazione, millenni la seguiranno e intanto la nostra avventura nella carne e nel sangue sarà decisiva. L’avventura carnale è determinante, è la misura suprema, la suprema prova agonale per l’uomo; essa decide la vita e la morte di ognuno. Essa è all’incrocio della storia empirica, fenomenica, e della storia divina, soprasensibile, il punto d’incontro della carne e dello Spirito, del reame umano e del reame di cui Cristo è il centro e la vita. Il reame di Cristo è di natura sottile, si afferma nelle coscienze e si edifica con pietre viventi, con pietre che sono passate dalla morte alla vita per avere accolto la Parola eterna che discende nella carne e dalla carne ascende. Se la nostra personale carne riuscirà a fissare in se stessa la Parola che diviene carne, diverrà il supporto della immanenza divina nella materia stessa, e sarà un centro che irradia la vita: «Avevo fame e mi hai nutrito, ero malato e mi hai curato»; se non vorrà fissare in sé la Parola eterna che diviene carne, sarà un centro di arida negazione della vita: «Avevo fame e non mi hai nutrito, ero ammalato e non mi hai curato» (cfr. tutto il brano in Mt 25, 3146). Nel primo caso l’anima sarà nella grazia dello Spirito vivente, e la sua avventura, che avrà un punto nella morte fisica, non per questo avrà una conclusione, ma di cielo in cielo continuerà la sua corsa nell’infinito, verso la mèta unica e suprema che è Dio stesso: «Venite, benedetti, nel regno del Padre». Nell’altro caso, l’anima, avendo rifiutato di accogliere in sé, come principio di vita, la Parola, si spegnerà come scintilla caduta nel fango: «Andate, maledetti, nel fuoco eterno». Nel mondo delle forme, l’uomo effimero, ma eterno, contrasta con la perennità delle cose labili, e queste cose labili e perenni - il regno mondano - cercano in mille modi di fermare quel principio spirituale portato per sua natura a trascenderle. O l’uomo ascolta la voce del suo spirito interno e trascende la materia e allora sarà assunto in Cristo e confermato nel Figlio, come figlio di Dio lui stesso; oppure cede alle lusinghe della forma, alle suggestioni del mondo, agli inganni di Satana, allora morirà disperso nei suoi principi costitutivi: questa è la geenna, dove è davvero pianto
e strider di denti, in opposizione alla radiante certezza del possesso interiore del regno di Dio. Sì, il Regno di cui Cristo è il Re è una conquista interiore che si effettua nella carne e che, mediante il tempo, si afferma nell’eternità. La lotta per il Regno è tutta qui, come il Giudizio del Re Giudice è tutto qui!
DIO E CESARE Giovanni Vannucci, «Dio e Cesare» in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984;. 29a domenica del tempo ordinario - Anno A; Pag. 177-179.
Una deputazione di Farisei e Sadducei propose a Gesù il seguente quesito: «Si deve o non si deve pagare il tributo a Cesare?». Odiosissimo era agli Ebrei il tributo che Roma esigeva. Nel porre la domanda i Farisei agivano con sottile perfidia: se Gesù avesse risposto di sì, si sarebbe reso impopolare agli Ebrei; se avesse risposto di no, sarebbe stato considerato dai Romani un ribelle, fomentatore di disordini. Gesù rispose chiedendo una moneta del tributo. Gli Erodiani gliela porsero, Gesù domandò loro: «Di chi è l’effigie e l’iscrizione sulla moneta?». Risposero: «Di Cesare». Allora Egli disse loro: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22, 15-21). Udita la risposta se ne andarono meravigliati; Gesù aveva sventato l’inganno da par suo e aveva stabilito una massima eterna della vita dell’uomo nel creato. Pagare il tributo a Cesare, che valore ha agli occhi di un essere spirituale? Nella vita terrena, quanti Cesari l’anima è destinata a incontrare? E ognuno esige un tributo che è giusto pagare. Dare a Cesare quel che è di Cesare, alla materia quello che è della materia, allo spirito quello che è dello spirito. Purtroppo, spesso, con il pretesto di rifiutare il tributo a Cesare, ci si esime di pagarlo anche a Dio, oppure con farisaica ipocrisia, sotto pretesto di servire lo spirito, ci si rifiuta di adempiere anche i più sacri doveri verso la materia. Doveri verso la materia? Sì. È tempo che ci si decida ad accettare la verità dell’essere: o si accetta il principio di un Dio creatore di ogni cosa, che a ogni cosa ha dato una legge e indicato un compito, e allora vedremo la materia non come qualcosa di abietto, ma come uno dei modi di essere del Creato, e vedremo nelle leggi della materia l’indirizzo supremo della mente di Dio. Oppure lo si rifiuta, e allora la creazione ci apparirà frutto di un misterioso caso e di una ancora più misteriosa necessità. E l’uomo, separato dal Creatore della materia, diviene schiavo delle leggi della creazione, perde il senso della sua presenza d’immagine divina nel Creato. Separato dal Creatore, chiuso nel suo io esistenziale, l’uomo non è più, esiste; cerca dolorosamente il paradiso perduto attraverso programmi utopici. Come sul denaro del tributo romano era impressa la testa di Cesare, così sulla moneta della forma materiale è impresso il segno augusto del Creatore della forma, della sostanza, l’impronta del Verbo di Dio, senza il quale: «Nulla sarebbe stato di ciò che è» (Gv 1, 3). Abituiamoci a venerare, nella materia, la presenza dello Spirito divino e a veder come tutto sia buono. Il male non è nella materia, è nel cattivo uso della stessa. Aderire alle leggi della materia è aderire all’essenza stessa della volontà dello Spirito,
cioè pagare a Cesare il tributo di Cesare e dare a Dio quello che è di Dio. Vivere nella legge, aderendo coscientemente alla legge, è pagare questo nobile tributo; ma vivere nella legge vuol dire esserne pienamente consapevoli, vuol dire conoscere bene di chi sia la testa impressa sulla moneta. Forse per comprendere pienamente le parole di Cristo ci è necessario abolire una falsa evidenza che da millenni portiamo incisa nella nostra mente: il dualismo tra Creatore e creatura, tra Spirito e materia. Dare a Dio ciò che è di Dio, significa ricollegare il Creato con il suo principio, vedere nella materia la veste sensibile e palpabile di Dio, sentire la materia come la parte che integra, esprimendolo, il mistero divino. Andando fino in fondo al comando di dare a Dio ciò che è di Dio, possiamo arrivare all’idea realtà che tutto il creato, il mio corpo vivente e quello dei miliardi di esseri che in questo istante esistono, sono la manifestazione visibile del mistero dei misteri, la parte integrante e necessaria perché esso venga disvelato. Cercare di comprendere il mistero delle cose create, scoprirne le leggi per rispettarle nella loro verità intima, significa vivere il proprio servizio religioso che è quello di ricollegare, nella nostra coscienza, il visibile con l’invisibile, la materia con lo spirito. Lo spirito è l’interiore delle cose, la forma ne costituisce l’esteriore. Interiore ed esteriore non hanno un senso spaziale, si tratta di un guscio che è legato al mistero della manifestazione e di una midolla che conduce al nucleo vivente delle creature. Il guscio appartiene all’esteriore, la midolla all’interiore, o anche il primo appartiene al basso, la seconda all’alto. L’uomo che è consapevole dell’impronta divina nelle cose distingue l’Interiore dall’esteriore; l’uomo che ignora il mistero velato ed espresso nelle cose, rimuove l’interiore dall’esteriore, rimanendo esclusivamente nell’esteriore giunge al non-senso della vita che, a forza di essere troppo umana, diventa disumana. L’uomo che non dà a Dio quel che è di Dio, vive nell’esteriorità, soggetto in mezzo ad oggetti con i quali comunica con coscienza dualista: io e gli altri; il suo pensiero è sempre condizionato dall’esteriorità delle cose, esteriorità che sente essere il loro tutto. L’uomo che da a Dio ciò che è di Dio, trasforma il rapporto con le cose da esteriore in interiore: esse cessano di essere degli oggetti e diventano soggetti di comunione, di scambio di vita, di mutua e gioiosa conoscenza, perché nell’intimo di ognuno c’è Dio. Nel piano interiore la materia torna a essere energia, l’uomo, conformemente al suo grado di partecipazione al mistero divino, irradia le energie divine. Riportare il nostro corpo a Dio, attraverso l’obbedienza alle leggi che ne regolano l’esistenza, ci aiuterà a comprendere il senso della presenza fisica dell’uomo nell’universo: riverberare nel Creato il mondo divino.
I MAGI Giovanni Vannucci, In La Vita senza Fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985; I Magi pg. 41-43; Epifania del Signore - Anno C.
«Vedendo la stella provarono una grande gioia. Trovarono il Fanciullo con Maria, sua Madre, e lo adorarono» (Mt 2, 10-11). Apparve una stella, dall’Oriente partirono dei sapienti, seguendone le indicazioni fino a Betlem, dov’era il Fanciullo nato. Prima di Betlem si fermarono a Gerusalemme presso i detentori delle conoscenze religiose ebraiche, ne ottennero le informazioni necessario, soli si incamminarono verso Betlem, e la stella, scomparsa nel cielo della città santa, ricomparve su quello della Natività e il loro gaudio fu grande. I primi che accolsero il mistero della Parola incarnata furono una fanciulla di Nazareth, Maria, i pastori di Betlem, dei saggi orientali, Anna la profetessa e l’anziano Simeone (cfr. Le 2, 26-37). Tutti ignari delle speculazioni che i dotti interpreti dell’ebraismo ufficiale facevano sulla Parola scritta e conservata nei libri sacri, quindi accomunati da una fresca semplicità di spirito e da una prontezza a muoversi nel cammino di Dio, mai contenuto nei libri, snodantesi invece nella vita. E tutti accolgono la Parola incarnata attraverso interventi miracolosi e imprevedibili dalle dottrine ufficiali, e senza difficoltà riconoscono la stupefacente manifestazione della Parola eterna nella forma di un Fanciullo inerme. La religiosità, nella sua essenza, è l’incontro della coscienza umana con la coscienza infinita del divino. Una religione è una rivelazione particolare, limitata a un particolare momento dello sviluppo, del divenire redentivo della coscienza umana. La prima rimane incommensurabile alla seconda, come il contenuto alla forma. Gli spiriti religiosi sono sempre aperti a seguire le nuove manifestazioni del divino che stimolano in loro una più vasta dilatazione della coscienza. Quando la religiosità si trasforma in religione storica, si complica in dottrine, in precettistiche, in riti, in caste sacerdotali autoritarie, e viene a perdere la potenza mistica della rivelazione iniziale. La Rivelazione continua il suo cammino di redenzione oltre le costruzioni che, per un tempo, l’hanno accolta e trasmessa. Il pensiero umano e i suoi edifici sono un processo di continuità nella durata; per questo non è loro possibile fissare per sempre la Rivelazione vivente sempre nuova. Le religioni storiche sono strutturazioni della Rivelazione, la religiosità è il germe che si sviluppa nell’intimo dell’uomo. L’ideale sarebbe il permanente incontro delle strutture e del germe: avremmo delle religioni viventi.
Queste considerazioni ci fanno comprendere perché i saggi dell’Oriente non si fermarono a Gerusalemme in oziose discussioni, incamminandosi subito e seguendo la stella che brillava sulla culla del Fanciullo. Entrarono nell’abitazione del Fanciullo e gli offrirono dei doni: l’oro, l’incenso, la mirra. Tre doni e tre simboli rivelanti la natura del Fanciullo. L’oro, la luce minerale, evoca il sole: fecondità, regalità, ricchezza, calore, amore-dono, irradiamento di conoscenza e di vita. Con questo dono i Magi riconoscono nel Fanciullo la manifestazione della perfetta regalità del Buon Pastore, che dona la vita e inizia il ciclo dell’amore-dono, dell’amore che crea l’amore mediante l’annientamento di se stesso nell’amato. «Se vi lascerete fecondare dall’amore che ho ricevuto dal Padre, sarete insieme trasformati nell’onda feconda dell’amore [...]. Vi comando di rimanere uniti nell’amore che vi ho affidato» (cfr. Gv 15, 12-17), dirà un giorno Gesù. La regalità del Fanciullo è una grandezza senza potere, un’autorità capovolta: l’autorità del Fanciullo, dell’inerme, del debole che domanda amore e risveglia l’amore. Una regalità che non appartiene al mondo della potenza e della violenza. L’incenso, simbolo della preghiera che unisce la terra al cielo, è l’emblema della funzione sacerdotale. Con questo dono i saggi riconobbero nel Fanciullo il sacerdote nuovo, che non offre vittime propiziatorie, ma immola se stesso nel rito definitivo dell’amore. Il sacerdote nuovo che benedice la vita, e l’infonde nell’ammalato, nel peccatore, nel debole, nella stessa morte. La mirra è il simbolo della vittima sacrificale. I saggi riconoscono nel Fanciullo la vittima che avrebbe abolito tutti i sacrifici rituali, che tutto avrebbe redento, rinnovato, riplasmato. I saggi venerarono nel Fanciullo l’incarnazione della Parola divina che riassumeva tutto il passato dell’umanità religiosa, e apriva l’èra dell’adorazione in Spirito e Verità.
IL GRANDE SOGNO Giovanni Vannucci, in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Il Grande Sogno - Epifania del Signore - Pag. 36-39, Anno B.
«Cammineranno i popoli alla tua luce, i tuoi figli verranno da lontano, le ricchezze del mare si riverseranno su di te; tu sarai raggiante, col cuore pieno di gioia» (Is 60, 1-6). È il grande sogno del popolo d’Israele: Gerusalemme inondata di luce è accolta dai popoli come il centro sacro della manifestazione divina sulla terra. Il grande sogno che ha sostenuto gli ebrei lungo il loro cammino doloroso - e che essi hanno trasmesso agli altri popoli - ha risvegliato quelle aspirazioni di giustizia e di vita che rendono l’uomo semplicemente e veramente uomo. Sogno portato da Israele lacerato da una forza più grande di lui, da un tormento che porta il nome del Dio vivente. Sogno che, nel corso dei secoli e attraverso indicibili sofferenze, ha purificata l’anima di questo singolare popolo che, nella distruzione della nazione, del tempio, nella dispersione in mezzo ad altre popolazioni quasi sempre ostili, ha continuato a sognare la Gerusalemme celeste, rivestita della luce di Dio, pronta ad accogliere gli uomini che, abolite tutte le frontiere tribali, in essa si riconosceranno uomini liberi e redenti. Del sogno della Gerusalemme celeste si è nutrito il primo cristianesimo, ne fa eco il brano della lettera agli Efesini: «II mistero nascosto alle precedenti generazioni è stato disvelato dallo Spirito Santo agli Apostoli: le nazioni non ebraiche sono chiamate, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso insieme sociale e a partecipare, nell’annuncio cristiano, alla stessa promessa fatta al popolo ebraico» (3, 2-6). Il banchetto di tutti i popoli L’ampiezza del sogno ebraico nel cristianesimo si dilata, la promessa viene estesa a tutte le popolazioni della terra, abbattendo le barriere razziali e religiose e continuando a essere il più stimolante sogno dell’umanità: non ci siano più frontiere ma soltanto gli uomini, la luce di Dio sia la terra liberata! Sogno che, per la lentezza della coscienza umana a liberarsi dagli egoismi tribali, è ancora nella lontananza degli ideali non realizzati, ma rimane inscritto nella carne e si attuerà anche se l’uomo continuerà ad aggirarglisi intorno, a costruire nuove e impenetrabili barriere. Alle numerose Gerusalemme terrene la voce del profeta ripete: «Svegliati, svegliati! Su tutte le montagne, su tutte le pianure, su tutte le valli e i golfi aperti, su tutti i mari hanno preparato la mensa dell’uomo. La tavola è in legno proveniente da tutti i boschi, la tovaglia è tessuta da tutti i telai della terra. Hanno spezzato il pane! Hanno sollevato i calici colmi! Ascolta: pregano in silenzio. La santa cena umana comincia» (E. Fleg).
Il brano evangelico che narra l’adorazione dei magi che dall’Oriente si sono recati a Betlem per ossequiare il Fanciullo, Re della nuova èra, centro del culto in Spirito e Verità, fornisce ai credenti le indicazioni del passaggio dal particolarismo all’universalità, dalle divisioni settarie all’unione dei cuori e delle menti attorno alla sua inerme e possente, umile e luminosa figura. Quest’episodio non va letto soltanto con lo spirito storico-esegetico che può aiutarci nella comprensione dell’aspetto che ha nel vangelo di Matteo (2, 1-12), ma è necessario tener presente l’arricchimento e l’approfondimento che le generazioni dei credenti gli hanno conferito. La sequela logica dei brani liturgici della festa dell’Epifania del Signore è questa; la prima lettura (Is 60, 1-6) annuncia l’orientamento di tutte le genti verso la luce di Gerusalemme; la seconda (Ef 3, 2-6) sottolinea l’estensione della promessa ai popoli non ebrei e la conseguente abolizione dei privilegi razziali; l’episodio dell’adorazione dei magi che vengono dall’Oriente pagano puntualizza il compimento del sogno messianico universale nel Fanciullo di Betlem (Mt 2, 1-12). Le generazioni cristiane che hanno riflettuto su quest’immagine l’hanno arricchita di approfondimenti che ne aiutano la comprensione e la traduzione nella vita. Esse hanno rivestito i magi di manti regali, coronate di diademi le loro fronti, dato un colore alla loro pelle e ai loro vestimenti. Ciò potrebbe spiegarsi con la curiosità della mente popolare di rivestire l’avvenimento evangelico di un colorito più pittoresco e familiare, ma non è da escludersi che i particolari aggiunti dalla successiva riflessione siano dovuti a un’esigenza di necessarie precisazioni che, esplicitando il contenuto, ne rendono possibile l’attuazione nell’esperienza personale di un cristianesimo vissuto. II nesso recondito di questo processo di arricchimento potrebbe essere il seguente: il Fanciullo di Betlem è il centro cui converge l’universale aspirazione religiosa dell’uomo, Gesù è il salvatore non solo del popolo ebraico, ma di tutti i popoli. I misteriosi personaggi in questa prospettiva si sono trasformati in re, rappresentanti degli altri popoli. Il primo ad attribuire il titolo di re ai magi è Cesario di Arles nel VI secolo. Beda il Venerabile nel IX secolo li designa con il rispettivo nome: «II primo si chiamava Melchior e offrì l’oro al Signore come al suo re. Il secondo, chiamato Gaspare, offrì l’incenso, omaggio riservato alla divinità. Il terzo, dal viso nero, aveva il nome di Balthasar, presentò l’omaggio della mirra annunciando che il Figlio dell’Uomo doveva morire». Questi elementi ermeneutici furono in seguito sviluppati, i tre re divennero i rappresentanti delle tre razze umane: la nera, la bianca, la rossa. Precisazioni che sottolineavano da una parte l’apertura della rivelazione cristiana a tutte le genti, dall’altra indicavano le tappe per raggiungerla. La nuova rivelazione è universale, l’aggettivo che la qualifica non ha nessun valore se le coscienze che l’accolgono rimangono aderenti ai loro particolarismi mentali, ideologici, razziali. Come passare dalle chiusure egoistiche alla vastità della nuova rivelazione?
Il numero tre, il colore della pelle e delle vesti dei magi sono divenuti nella meditazione cristiana le tre tappe della trasformazione personale che, partendo dalla materia informe dell’io umano, giunge al vertice dell’io universale dei figli di Dio. I tre re magi nelle loro colorazioni, nera, bianca, rossa, sono divenuti la proiezione del dramma della conversione personale dell’uomo cristiano. L’apertura universale della coscienza cristiana teoricamente è un fatto; siccome non scende automaticamente nella coscienza si pone il problema: come raggiungerla? Nell’immagine dell’adorazione dei magi viene indicata la via: il primo passo consiste nell’affrontare e superare gli aspetti dell’anticristo in noi, l’ombra e la tenebra. Ciò provoca sofferenza, la morte ai valori dei sensi, la nigredo. Superata la tenebra sorge un giorno nuovo: l’ albedo, che è uno stato ideale, astratto. ha bisogno di essere ravvivato dal sangue: la rubedo, che trasforma gli ideali in un’esistenza umana integrale. L’immagine dell’adorazione dei magi è un’epifania, manifestazione nel tempo del mistero di Dio, e perché tale rivela i momenti e le modalità dell’incontro dell’uomo con il cuore della rivelazione universale: Cristo.
EPIFANIA DEL SIGNORE Giovanni Vannucci, in Risveglio della Coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Epifania del Signore - 6 gennaio Pag. 37-38. Anno A.
«Ecco, vennero i Magi dall’Oriente a Gerusalemme dicendo: “Abbiamo visto la stella del re dei Giudei e siamo venuti per adorarlo...”. Entrati nella casa videro il Fanciullo con Maria sua madre; prostrati lo adorarono, offrendo in dono oro, incenso e mirra» (Mt 2, 1-12). Il giorno dell’adorazione dei Magi è designato dalla liturgia con il termine di Epifania, cioè di manifestazione della grandezza e del potere di Gesù a tutte le popolazioni della terra. I doni offerti dai Magi al Fanciullo rivelano la natura del Fanciullo: l’oro è l’offerta in onore dei re, l’incenso il dono al sacerdote, la mirra, sostanza per l’imbalsamazione, il dono alla vittima sacrificale. Il Fanciullo è il Re e la sorgente del potere esercitato in nome della verità di Dio; è il Sacerdote e la fonte del sacerdozio conforme al pensiero di Dio; è la Vittima che sacrifica se stessa per rendere possibile, nella dura èra attuale, l’accesso alla Verità. Nella sua nascita il Figlio di Dio è apparso in una porzione di terra non profanata da mano d’uomo, lo squallore della grotta è stata la condizione richiesta perché potesse comunicare con tutte le creature in perfetta libertà e immunità di privilegi. Questo fatto rivela la sovranità assoluta di Gesù, il suo potere regale non è la conclusione di ambiziosi sogni di potenza, il risultato di abili maneggi delle masse e delle loro oscure brame; ma è il servizio umile, incondizionato, silenzioso e fattivo di un amore per la verità e la vera grandezza dell’uomo. Nel Fanciullo venerato dai Magi, come Re, è già in atto quell’insegnamento che un giorno definirà la statura del Buon Pastore che «conosce le sue pecorelle ed è da esse conosciuto perché dà per loro la sua vita» (Gv 10, 11). Il Fanciullo venerato dai Magi è anche il Sacerdote, l’origine e il compimento del vero sacerdozio, la cui missione è di ricongiungere la terra e il cielo attraverso il dono di sé e il servizio. La mancanza di ogni privilegio, la nudità più semplice, la libertà da qualunque casta terrena che poteva essere rappresentata anche dall’aprirsi di una casa per accogliere la Vergine partoriente, sono le ali che fanno volare nell’alto, nella sua opera mediatrice, il sacerdozio vero. Anche qui l’essere prevale sull’avere. E da Cristo nasce non una casta sacerdotale avida di poteri e di privilegi terreni, ma un ordine nuovo di creature che in Lui ritrovano la perduta armonia dell’amore e del servizio silenzioso e fedele, perché ogni uomo, dall’umile e spoglia presenza del sacerdote cristiano, sia condotto a vedere in se stesso, senza violenze e senza imposizioni, la luce del Signore. Il Fanciullo è anche la Vittima intatta, immolata nel punto più cruciale dell’èra in cui viviamo. La nostra èra è l’èra della forza bruta e spietata, i suoi sentieri sono
segnati dalle vittime che si sono immolate per aprire un varco alla speranza e alla verità nel cuore dell’uomo. L’unica via possibile per ritrovare il collegamento tra il cielo e la terra, tra il nostro io chiuso nelle valve dell’egoismo e l’Io divino aperto nell’infinito cielo è il sacrificio. E il sacrificio cruento è il diadema del vero Re, la corona sacra del vero Sacerdote. Questo intuirono i semplici cuori dei saggi venuti a Betlem dall’Oriente, per venerare Colui che compiva la loro conoscenza e la loro speranza, ed era il fiore sbocciato dall’attesa religiosa dell’uomo.
essere polline di gioia, di libertà, di vita per tutti gli uomini Domenica, 29 febbraio 1976 Giovanni Vannucci, «essere polline di gioia, di libertà, di vita per tutti gli uomini omelia pronunciata durante la celebrazione eucaristica delle ore 18, domenica 29 febbraio 1976, nell’eremo di San Pietro alle Stinche - Greve in Chianti (FI). Pubblicata in Nel cuore dell’essere, edizioni Fraternità di Romena, Pratovecchio (AR) 2004.
Ora i discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Si recarono allora da Gesù e gli dissero: «Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». Gesù disse loro: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. Ma verranno i giorni in cui sarà loro tolto lo sposo e allora digiuneranno. Nessuno cuce una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo squarcia il vecchio e si forma uno strappo peggiore. E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri e si perdono vino e otri, ma vino nuovo in otri nuovi». (Mc 2, 18-22)
Non so se avete mai pensato a quello che si compie ogni domenica quando ci incontriamo a pregare insieme, a ricordare le grandi parole del sacramento del pane e del vino. È una pausa nella nostra esistenza quotidiana. Ed è una pausa nella quale fiorisce il miracolo, il miracolo dell’incontro con Dio che si presenta a noi non come giudice, ma come profondo sentimento che ci collega tutti nella sua amorosa presenza. Ed è questo senso che acquistiamo nel miracolo dell’incontro domenicale, che dovrebbe sorreggerci per tutta la settimana che segue. Perché solo così potremo capire il mistero religioso, la fecondità dell’impegno religioso della nostra esistenza. Dio è con noi come presenza miracolosa che ci addita incessantemente nuove mete di vita più intensa, di gioia più profonda, che nasce da una fiducia che deriva dalla nostra partecipazione attiva, pensosa, coraggiosa, pulita al mistero dell’esistenza. E questo pensiero mi è venuto leggendo il vangelo di Marco dove Cristo ci dice che dobbiamo raggiungere questa novità per poter accogliere il vino nuovo che egli riversa continuamente nelle nostre anime. Dobbiamo avere otri nuovi. Le costumanze della vinificazione ai tempi di Cristo e nella Palestina erano diverse dalle nostre. Qui il vino nuovo si mette in otri vecchi e diventa tanto più buono quanto più l’otre, la botte, è vecchia. Ma in Palestina avevano degli otri fatti di pelle di suino o di pecora e il vino nuovo rompeva le cuciture e le faceva scoppiare. Tenendo
presente questa usanza differente dalle nostre, allora comprendiamo il significato delle parole di Cristo. Per accogliere Cristo dobbiamo essere nuovi. E in noi c’è una tendenza a tornare sempre sul vecchio. Ci identifichiamo col passato, ci identifichiamo con tutte quelle consuetudini che ci siamo portati dietro fino ad oggi e quando vogliamo passare alla verità cristiana vi riversiamo sempre il vecchio. E così i farisei e i discepoli di Giovanni non capiscono come mai i discepoli di Cristo non digiunano. Noi facciamo digiuni per raggiungere il mistero divino, per acquistare quella purezza di coscienza necessaria per poter entrare in un rapporto intimo e vitale col mistero di Dio. E Cristo dice: finché lo Sposo è in mezzo alla gente, questa gente non può digiunare. E nelle parole di Cristo c’è un’aggiunta che ci deve far riflettere. In questo senso penso che probabilmente non sia di Cristo: verrà un giorno in cui lo Sposo non sarà in mezzo ai discepoli e allora digiuneranno. E credo che questa sia una interpretazione della comunità, perché Cristo ha detto: Io sarò con voi fino alla consumazione dei secoli. E allora, pazientemente, dobbiamo riuscire a vivere nella dimensione della gioia delle nozze, dove Cristo è sempre presente come datore di vita, come dispensatore di fiducia e di conforto; e mai ripiegarci su vecchie istituzioni, perché la nostra natura è portata a creare - intorno ai nuclei intensi di vita, di gioia, di fiducia e di speranza delle istituzioni, dei gesti che ripetono il passato e dei gesti che nascono non dalla novità di vita che ci è stata offerta, ma nascono dalla nostra pigrizia, dalla nostra direi - decrepitezza. Ci sentiamo più sicuri quando camminiamo col bastone e con le stampelle. E Cristo invece ci dice: avete le membra libere, camminate. E noi ricorriamo sempre alle stampelle per paura di inciampare, per paura di cadere. E allora creiamo delle istituzioni, creiamo il digiuno, creiamo delle penitenze, creiamo dei riti, creiamo tutto un insieme di strutture religiose, rituali, morali, che ci impediscono di raggiungere la novità e la freschezza che nasce in noi quando siamo certi della presenza di Cristo in mezzo a noi. E Cristo ci vuole nuovi, vuole che il nostro io si muova liberamente in tutta la sua potenza e in tutta la sua freschezza, senza bisogno di accattare da istituzioni, di qualunque genere siano, delle norme di vita e dei sostegni. Gesù Cristo vuole che noi camminiamo liberamente, distaccati da tutti quei sostegni ai quali eravamo abituati nella nostra fanciullezza quando non sapevamo camminare. E questo è molto difficile, perché in noi c’è un attaccamento alle nostre piccolezze, c’è la paura di essere autenticamente noi stessi. Cristo dice: Io sono. E vuole che ciascuno di noi nell’esistenza sappia dire: Io sono. È difficile distaccarsi dalle etichette. Pensate quanto è difficile per noi togliere tutti gli aggettivi qualificativi che mettiamo a questa frase: Io sono. Io sono cattolico, io sono prete, io sono frate, io sono italiano, io sono occidentale, io sono di un partito,
io sono un qualche cos’altro. Ma il giorno in cui saremo riusciti a liberarci da tutte queste sovrastrutture, allora potremo dire in piena libertà: Io sono. Allora in noi nascerà quell’Io che è l’Io trascendentale, che non è un io che si sperde nelle consuetudini di massa, nelle consuetudini proprie di un popolo, proprie di una Chiesa, proprie di un gruppo. Saremo autenticamente noi stessi e incontreremo in questa libertà nostra personale altri Io rivelati. Allora si creerà quell’Io trascendentale di cui l’umanità ha sempre bisogno. E in questo senso la nostra vita avrà una forte intensificazione, perché scopriremo il mistero di colui che ha detto, primo nella storia: Io sono. E avremo gioia, perché sentiremo che questo centro di vita che continuamente accompagna il nostro cammino di uomini polarizza attorno a sé tutte le nostre forze personali e le intensifica, le rende più forti, più libere, più vere, più gioiose. E allora non avremo più tristezze e gioiremo, perché in mezzo a noi c’è lo Sposo e comprenderemo che la celebrazione delle nozze è continua e perenne e si verifica quando lo spirito, raggiunta la pienezza della sua libertà, si unisce al mistero della presenza di Cristo. Allora avremo gioia. Riflettete un momento a quanto di vecchio c’è nella nostra persona e farete delle scoperte importanti. E vedrete che spesso lo slancio verso la gioia, verso una partecipazione gioiosa alla vita, è impedito da questa sopravvivenza e permanenza di vetustà nella nostra vita. E amiamo tante cose vecchie. Io giorni fa sono andato a Ravenna per il funerale di una grande suora, Suor Giuliana (Suor Giuliana Morigi. - Madre generale del convento delle «Serve di Maria» di Ravenna.) . Il vescovo, parlando alle suore, si è commosso e ha detto: voi soffrirete dell’assenza di questa donna così meravigliosa. Io poi alle suore ho detto: non sono d’accordo col vescovo, perché la morte è un’intensificazione della presenza. Quando il fiore si dischiude e lancia il suo polline a fecondare altri fiori non crea mica delle assenze: intensifica la sua presenza, rende più forte e più fertile la sua vita. È questo che avviene anche nella morte. Vedete come i vecchi pensieri ci impediscono di partecipare a quel senso di risurrezione che è intensificazione di vita, che deve sempre accompagnarci. Allora ritorniamo ai vecchi pianti, ai vecchi lamenti, ritorniamo ai digiuni, al senso del peccato. Ci sono delle persone che si trascinano tutta la vita il senso del peccato oppure delle cose non giuste avvenute nella loro infanzia; se le trascinano dietro e le rimuginano e si sentono turbate, conturbate, appesantite nel loro cammino per queste cose che sono avvenute nel passato. Ma se si ha il senso del Cristo presente, del Cristo datore di vita nella nostra esistenza e nell’esistenza di tutte quante le creature, allora la tristezza passa, scompare, e saremo più veri, saremo più autentici, saremo più positivi, più intensi nella nostra partecipazione alla vita. Ecco, lo Sposo è sempre in mezzo a noi. Ed è dove una parola esprime qualcosa di poetico, di bello. È una verità questa che dobbiamo raggiungere con il nostro essere,
liberando le nostre cantine da tutti gli otri vecchi e lasciandoci riempire dal vino nuovo di gioia che Cristo ci ha dato. Allora parteciperemo più serenamente e più positivamente alla vita. E anche se è dura, in mezzo alle durezze noi conserveremo la fiducia nella validità della nostra presenza, della nostra fede, della nostra ascesa nella verità dell’uomo. Non per il bene nostro personale, ma per la gioia di tutti quanti gli altri esseri, perché quello che riusciamo a conquistare, poco o molto che sia, nel nostro cammino di uomini, si riversa a intensificare la vita degli altri. Quindi, quando nella nostra Chiesa nascono dei momenti di durezza, di tristezza, di rimpianto, di condanna, pensate che è la nostra Chiesa che in alcuni individui torna indietro e non vive il mistero della risurrezione di Cristo e non sente la gioia di avere in mezzo a sé lo Sposo. Allora superiamo questi momenti di tristezza e di rimpianto e di acrimonia che spesso accompagnano il nostro cammino di cristiani; intensifichiamo la nostra fiducia nella certezza che lo Sposo è in mezzo a noi. E avremo pace, avremo serenità, avremo fiducia. Vedremo le dolorose vicende dell’uomo, ma vi interverremo in una maniera positiva, come il fiore che feconda gli altri fiori. E saremo polline di gioia, polline di libertà, polline di vita per tutti gli uomini. Cristo ci ha chiamati alla gioia e non dobbiamo mai perdere di vista questa realtà: Cristo è sempre in mezzo a noi come lo Sposo che ci attende per iniziare con noi la grande danza degli uomini che dalla sua grazia, dalla sua forza, dalla sua vita, sono stati liberati. E questo è necessario che noi lo percepiamo non con il linguaggio e con la mente, ma che lo sperimentiamo attraverso la trasformazione del nostro essere, che deve spogliarsi da tutte le vetustà per essere rinnovato pienamente nella gioia e nell’ardore del vino nuovo che Cristo continuamente ci dona.
GETTARE LA PROPRIA VITA Giovanni Vannucci, omelia pronunciata domenica 19 giugno 1977 durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 19 nell’eremo di San Pietro alle Stinche - Greve in Chianti, FI). In Ogni uomo è una zolla di terra , 1a ed. Borla editrice, Roma, aprile 1999, «Gettare la propria vita», pag. 193-197, 12 a domenica del tempo ordinario - Anno C.
Come altre volte vi ho detto, penso che la realtà di Cristo sia la realtà di tutti gli uomini in lui compiuta nella perfezione, nella totalità. E quando Cristo domanda ai discepoli: “Chi dite voi che io sia?” e Pietro risponde: “Tu sei il Cristo, il Cristo di Dio, il Consacrato di Dio”, egli ingiunge due cose ai discepoli: la prima, di non dirlo a nessuno; e la seconda, spiega cosa significa il Cristo, il Figlio di Dio, cioè l’essenza consacrata dell’uomo che in Cristo si è verificata pienamente. “Non ditelo a nessuno”. Dovremmo riflettere molto, noi, su questa parola di Cristo perché, a mio parere, prima di dire quello che è Cristo, lo dobbiamo scoprire e vivere in noi. Una delle grandi illusioni di noi uomini, quella di credere che possiamo raggiungere l’essenza del mistero delle cose, la verità ultima delle cose attraverso le parole. Le parole sono un grande inganno perché ci persuadono, distraendoci dalla nostra ricerca essenziale, di aver raggiunto la verità, di aver raggiunto l’essenza del nostro essere e di tutte le cose. E allora parliamo molto, ma queste parole ci annegano, ci affogano e ci impediscono di giungere a contatto diretto con il mistero profondo dell’esistenza del tutto, col mistero profondo dell’essere. Se voi osservate, nella vostra vita, le vostre parole, noterete questo: quando uno di noi pensa di avere una qualche esperienza spirituale o religiosa, ha subito il bisogno di parlarne, di dirlo, di ricoprirla di teorie, di comunicarla attraverso dei discorsi incessanti. Dall’ultimo Concilio Vaticano ad oggi, noi siamo inondati di parole, di libri su libri, per spiegare il mistero della Chiesa, il mistero del cristianesimo, di Cristo, dei sacramenti, e tutto questo parlare ci allontana dalla riflessione essenziale che noi dobbiamo fare e che ci è possibile realizzare e attuare soltanto quando ci mettiamo di fronte al mistero, personalmente. E questo mettersi di fronte chiede a noi un grande silenzio. E, forse, abbiamo dimenticato troppo, con le parole, il mistero del Cristo. Se avessimo conservato la consegna di Cristo: non lo dite a nessuno! Perché prima di dirlo dobbiamo attuare quello che è il mistero del Figlio dell’Uomo: il Figlio dell’Uomo verrà consegnato in mano dei custodi di tutte le tradizioni, delle tradizioni solidificate, che lo uccideranno, ma la morte non sarà che morte apparente, perché risorgerà a pienezza di vita. Sempre in questo contesto di rivelazione è la natura profonda dell’essere, questo morire incessante per risorgere e questa sperimentazione alla quale noi siamo chiamati. Cristo dice: anche voi dovete rinunciare al vostro io, perché chi non rinuncia alla propria vita, la perde, e chi rinuncia alla propria vita, trova la vita; chi getta allo sbaraglio la propria vita, trova la vita; chi invece la conserva avidamente per sé rimane chiuso in questo possesso della vita e la perde. Se voi prendete un fiore e lo
solidificate con un processo chimico, una rosa, la rosa che è qui fuori della pieve; è bella, la prendete e la solidificate, cosa succede? La rosa non è più viva, perché la rosa deve appassire, deve morire, deve fare un nuovo germe per continuare la sua vita di rosa. Questo noi l’abbiamo fatto quando abbiamo dato una definizione del nostro cristianesimo, della nostra religiosità, e viviamo bene dentro questa definizione, ma siamo già morti, perché la vita, come vi ho detto altre volte, è un continuo passaggio di forma in forma, di figura in figura, è un implacabile andare avanti, è un costante gettare la propria vita per ritrovare la nostra vita in una risurrezione sempre nuova e sempre infinita. Allora il portare la croce che indica il mistero di Cristo - e il mistero anche di noi cristiani - significa accettare la vita in questa rinnovazione e mutazione continua, perché quando ci chiudiamo o quando la nostra esperienza personale si chiude in se stessa, allora il germe vitale del nostro essere viene soffocato. Quando l’artista pensa di aver raggiunto la perfezione della forma e comincia a ripetersi è finito. Così, quando noi, nella nostra vita mentale, psicologica e anche fisica, crediamo di aver raggiunto la bellezza, è il momento in cui moriamo. Non è così nell’amore umano? Se due sposi non vivono ogni giorno la morte e la risurrezione del loro amore, il loro amore finisce. Se la nostra amicizia con gli altri non è continuamente rinnovata, l’amicizia finisce. Se la mia vita fisica continuamente non si rinnova, la mia vita finisce. Questa è la grande legge dell’esistenza. Dobbiamo sentire così il mistero del Cristo, il mistero del Figlio dell’Uomo. Il mistero di Cristo è il nostro mistero, questo continuo andare avanti senza mai solidificarsi, questo rinnovamento continuo dell’esistenza. Ogni giorno deve essere per noi il primo giorno dell’esistenza. Ogni nostro sentimento che abbiamo avuto ieri deve morire oggi per rinnovarsi con maggiore intensità, maggiore purezza, maggiore verità. Ogni nostro pensiero bisogna che sia continuamente rinnovato, rinfrescato, rivivificato, perché la vita è questa. Ecco, il Figlio dell’Uomo - e qui dovremo liberarci da ogni interpretazione posteriore che è stata fatta del mistero di Cristo, di riscatto, di redenzione - il Figlio dell’Uomo ci ha rivelato così l’essenza della vita, il mistero stesso di Dio. Dio si consuma continuamente nella creazione, muore ogni giorno e risorge ad ogni alba, sempre nuovo, sempre nuovo. E questo è apparso in Cristo, lo possiamo verificare in Cristo: incontra le tradizioni religiose e civili del suo tempo, solidificate, vogliono opprimerlo e Cristo rompe il sepolcro e risorge. Questa è anche la vicenda quotidiana del nostro esistere: dobbiamo essere sempre nuovi, nuovi nel pensiero, nel sentimento, nella volontà, nell’amore per le cose; continuamente dobbiamo essere pronti a gettare tutto il nostro passato, perché l’alba ci ritrovi freschi e puri per ricominciare la nostra esistenza e la nostra vita. Ora, questo va contro la nostra natura; è questo l’egoismo che dobbiamo vincere, perché la nostra natura è portata a costruire le case comode e a starci bene dentro, è portata a costruire delle strutture perfette dentro le quali stiamo molto comodamente. E invece la verità profonda del nostro essere ci spinge ad andare oltre.
Il Figlio dell’Uomo non ha una pietra dove posare il capo né una tana dove pernottare. Perché, vedete, se questo diventa un fatto cosciente della nostra vita, allora non abbiamo paura della vita. Se guardate la nostra società, vedete che la molla fondamentale che la muove è la paura: paura della novità, del domani, di quello che ci succederà domani. Se invece in noi c’è la forza di scrollarci di dosso questa paura, allora vivremo una continua risurrezione, cioè una risurrezione che non conosce morte. Noi cristiani siamo chiamati a vivere la nostra vita con piena partecipazione e con una continua apertura alle realtà che avvengono nell’esistenza di cui facciamo parte. Perché noi ci possiamo chiudere, possiamo costruire tutti i nostri edifici, possiamo costruire le nostre società di assicurazione più perfette, possiamo costruire gli imperi più grandi e all’apparenza più duraturi, e poi improvvisamente si solleva un soffio misterioso nella coscienza di tutti gli uomini, che travolge tutte le nostre strutture più perfette. Quante cose abbiamo visto tramontare durante la nostra esistenza, e le credevamo permanenti! Se comprendiamo che questa è la legge profonda del mistero dell’esistenza, un rinnovarsi continuo, un andare avanti continuo, un gettare sempre oltre i confini la nostra vita, allora possiamo vivere con più pace, con più serenità e con più partecipazione al mistero di morte e di risurrezione che è il mistero cristiano, il mistero di Cristo e il mistero della nostra vita di uomini. Così, concludendo queste poche riflessioni sulle parole di Cristo, finisco col ripetervi quello che vi ho letto: chi ritiene avidamente la propria vita, la perde; chi getta la propria vita, la trova, potenziata, per una risurrezione e per un rinnovamento di vita.
GLI EMARGINATI Giovanni Vannucci, 6a domenica del tempo ordinario - Anno B - «Gli emarginati», in Verso la luce; 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 115-118.
Per essere cristiani è necessario liberarsi dal complesso di colpa che da millenni grava sulla coscienza umana. Non la paura ma la Carità, non il rimorso ma l’Amore devono guidarci nella nostra vita. Chi vive non pensando a se stesso, non ha tempo per pensare ai propri peccati. E ancor meno si occuperà delle altrui colpe. Il penoso aspetto del bigottismo cattolico scomparirà il giorno in cui la parola di Gesù; «Non giudicate» verrà presa in tutto il suo valore e rigorosamente applicata. La morale comunitaria, per l’astensione di ogni giudizio sull’altrui condotta, acquisterà una nuova spontaneità e innocenza. La Chiesa, liberata da ogni apparato giudiziario, tornerà a essere il supporto della vita collettiva che non si appoggerà più sul: «cosa dirà la gente?». E i cristiani saranno più fratelli tra di loro di quanto non lo siano oggi. Le letture della sesta domenica del tempo ordinario propongono due temi: uno della necessità del fare, del risolvere le situazioni di carenza vitale senza perder tempo a giudicarle e a isolarle; l’altro del dovere cristiano di comprendere tutti per non creare, con l’incomprensione, ostacoli di separazione fra gli uomini. Il Levitico (13, 1-2.45-46) descrive il procedimento processuale nei confronti di chi aveva contratto la lebbra. Doveva essere condotto davanti al sacerdote che, riconosciutolo malato, gli ingiungeva di portare delle vesti stracciate, il capo scoperto, la barba lunga, di dimorare fuori degli abitati e di gridare la parola: «Immondo!» ogni qualvolta venisse avvicinato da qualcuno. La società si difendeva dal contagio mediante una imposizione giudiziaria che dichiarava emarginato il lebbroso. Cristo al lebbroso dice: «Voglio che tu sia libero dalla lebbra» (Mc 1, 41), e lo guarisce, senza giudicarlo e reinserendolo sano nella convivenza umana. Sono due episodi esemplari, sui quali sarebbe necessario, per noi cristiani, riflettere a lungo per cancellare decisamente dal nostro vocabolario le parole «giudizio» e «giudicare», e dalla organizzazione ecclesiale ogni struttura giudiziaria. Dietro i giudizi pronunciati sugli altri e gli apparati necessari per formularli c’è lo spirito del potere e del dominio che appartiene a Satana e non a Cristo. San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi (10, 31 – 11, 1), ci ricorda che il cristiano è chiamato a non opporsi a nessuno come pietra d’inciampo, ma a lavorare perché il sentiero che dovrà portare alla salvezza sia percorribile per tutti. Cristo è più grande di tutti noi, lo Spirito soffia ove vuole e spesso soffia oltre i limiti costruiti da noi cristiani. Da qui la necessità di una vigilanza aperta, senza interferenze personali, ai
segni dei tempi, ai passi in avanti che lo Spirito compie. Queste qualità bisogna che siano sempre operose nei membri della Chiesa, gerarchia e popolo, per evitare quelle tante emarginazioni compiute, ieri e oggi, e che non di rado sono state un soffocamento dello Spirito. Quante volte abbiamo dichiarati «immondi» e invitato a riconoscersi «immondi» uomini che portavano le nuove manifestazioni dello Spirito, perché l’uomo fosse più vero e la terra più vivibile e la Chiesa più comprensibile! E tutto questo non sarebbe avvenuto se avessimo preferito l’umile e rispettosa attenzione al rigido giudizio. Come il lebbroso, nell’episodio riportato in Mc 1, 40-45, poteva o esser respinto con la dichiarazione di «immondo», o guarito per esser nuovamente accolto nella società, Cristo, il Rivelatore del tramonto della vecchia Legge e dell’alba della nuova Legge, dice: «Voglio che tu sia guarito, non un emarginato». Le sue parole costituiscono per noi cristiani una severa e inalienabile consegna, che si estende e alle infermità fisiche e morali, e a quelle manifestazioni nuove e differenti di coscienza che spesso sono le antesignane di maturazioni umane in atto. Il rimanere tranquilli nelle Gerusalemme terrene a consultare le Scritture e gli oracoli profetici può farci correre il rischio di non riconoscere la Verità che è apparsa, o sta apparendo in mezzo a noi; come pure l’andare incontro al Fanciullo nato, mossi da calcoli e da ambizioni di potere, provoca delle inutili stragi e la Verità emigra altrove. Quante verità cristiane sono espatriate dalla cristianità sotto la ferula di intransigenti dogmatismi e moralismi; e poi vi sono state reintrodotte con abilissime, ma non oneste, manovre di recupero! Una lettura attenta della storia delle novità creatrici e rivelatrici ci fornisce un’indicazione sorprendente: esse sono state annunciate dai gruppi dei reietti, degli emarginati di ogni tempo di crisi e di esaurimento delle mitiche al loro tramonto. I Patriarchi, Mosè, i Profeti della vecchia alleanza trovarono credito presso le tribù nomadi che circolavano attorno alle grandi strutture sociali e civili del loro tempo. Cristo ci appare attorniato dai reietti, dai paria, dagli scomunicati della società religiosa e civile dei suoi giorni. Il Cristianesimo è stato accolto e vissuto dai più oppressi e sfruttati uomini della civiltà romana, gli schiavi. Quali sono i «peccatori» del nostro tempo, le cui inquietudini, agitazioni, non conformismi manifestano il sorgere di una novità che informerà gli uomini di domani? Non potrebbero essere le giovani generazioni che sperimentano nella loro carne il tramonto dell’ormai consunto tessuto degli ordinamenti vigenti, e l’alba di un nuovo ordine commensurato alla nuova realtà vivente? Non potrebbe il Giovane incarnare la vita come in altri tempi l’hanno incarnata i Nomadi e gli Schiavi, di fronte ai cittadini e agli adulti soddisfatti delle loro creazioni religiose e sociali? I responsabili della Chiesa dovranno spogliarsi della mentalità che li porta a confondere la loro autorità carismatica con i mezzi di governo, rendendola strumento di oppressione spirituale. Spogliazione che permetterà loro di ripetere la parola
vivificante di Cristo: «Voglio che tu sia perfettamente sano» e non quella del vecchio codice: «Tu sei un immondo!». I responsabili della Chiesa allora faranno nel volto dei venienti la luce, trasmettendo loro, ai nuovissimi, la fiaccola accesa dall’Amore di Cristo, e un mondo veramente nuovo concluderà questo millennio, con la luce, la speranza di operare per un meglio non più nemico del bene.
I DISCEPOLI Giovanni Vannucci, «I discepoli», 13a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 125-127.
Tre cose vengono richieste a chi vuol seguire Gesù Cristo: un amore più grande di quello che naturalmente si porta ai genitori e ai figli; l’assunzione della propria croce; il dono della propria vita (cfr. Mt 10,37-42). L’evangelista Luca riproduce il testo più forte: «Se chi vuol seguirmi non odia il padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle e anche la sua vita, non potrà essere mio discepolo» (Lc 14,26). Parole dure, ma vanno intese nella prospettiva che Cristo ci dischiude: il raggiungimento di Dio, il divenire figli di Dio, mèta assoluta che non può esser raggiunta se non da un fermo desiderio di allontanarsi da tutto ciò che non è l’Intemporale, per vivere in comunione con l’Io divino che è in ogni uomo, in una partecipazione vitale alla realtà di tutti gli esseri esistenti nel tempo. In modo da amare gli altri, padre, madre, moglie, figli, eccetera, non per noi stessi ma per se stessi, senza personale attaccamento. Nel versetto trentaquattro del capitolo 10 di Matteo Gesù dice: «Non crediate che sia venuto a portare la pace sulla terra, ma la spada». La pace non è l’inerzia, la vita del discepolo di Cristo è combattimento continuo contro se stesso e contro tutti i legami della carne e del sangue, contro le catene dell’egoismo. Egli rinnova la vita, ma la rinnova nell’urto coraggioso, nel coraggioso andare contro corrente. Certo da quest’angolatura l’insegnamento di Cristo è asociale. La società, in quanto tale, non interessa a Cristo; ogni uomo è solo e deve portare se stesso al Padre. Società indica compromesso, legami, impedimento al raggiungimento del fine supremo che è la perfetta rinuncia, che è in ultima analisi la morte dell’uomo vecchio, dell’uomo nato dalla carne e dal sangue; dell’uomo separato, separante e causa di divisione. L’insegnamento di Cristo non concepisce un ordinamento sociale, basato sulla carne e sul sangue, che rende gli uomini ostili tra di loro, concepisce l’ordinamento sociale basato sulla motivazione della divina paternità, per cui, non la carne e il sangue, ma la carità, e il misterioso amore divino, uniscono i cuori e le coscienze in un’aspirazione comune. Chi amerà il padre, la madre, i figli più del Cristo, non potrà uscire dal cerchio del sangue né adire alla divina figliolanza. Questa trasformazione dei nostri piccoli amori nell’amore universale dei figli di Dio costituisce la croce sulla quale giorno per giorno il discepolo dovrà salire per morirvi. I presupposti della nuova coscienza che nasce con Cristo rendono necessario la rottura dei vincoli carnali e la sostanziale mutazione del ritmo naturale dei nostri legami affettivi. Il padre e la madre sono il passato, i figli sono il futuro; ma per il figlio di Dio non esiste passato o futuro, non
esistono ricordi o speranze, ma un eterno presente, una realtà immanente e partecipe a tutto il mistero divino caratterizzano la coscienza cristiana. Il Padre che è nei cieli rende fratelli i figli che sono sopra la terra. Non esiste il ricco o il povero, il colto o l’ignorante, il buono o il cattivo, il libero o lo schiavo: esiste l’Uomo ed esso è il figlio del Padre. Un mondo nuovo, un ritmo nuovo, e, in questo mondo, in questo ritmo, il padre, la madre, i figli secondo la carne e il sangue, diventano essenzialmente fratelli in Dio, nel Padre, l’unico Padre, l’unico principio e il fine ultimo di tutto e di tutti. Certamente tutto ciò travolge ogni cosa, rinnova ogni cosa. Sono infranti i vincoli della corruzione, vengono spezzati i legami della separatività, distrutti i limiti dell’odio, aperti i campi infiniti dell’amore. Nella morte della carne, si assiste al prodigio della nascita dello spirito; tutto ciò non può avvenire senza lotta e senza strazio. Logico quindi che Cristo sia venuto a portare la spada, logico che Egli sia geloso del possesso assoluto del discepolo, logico che il discepolo che vuol seguirlo porti, come Lui, la croce. Cristo dona se stesso, non trattiene egoisticamente la sua vita, la dà; Egli si dona e prende, si distrugge nel dono di sé e crea, come il pane che vien mangiato, si distrugge e alimenta la vita. Egli ama e vuole essere amato, esigenza assoluta di vita e di bellezza, più del padre e della madre, più dei figli, oltre la carne e il sangue, nello spirito; assoluto nell’Assoluto, eterno nell’Eterno. Nella nuova coscienza di Cristo, nel riconoscimento del Padre comune, nella religiosità del Figlio, la separatività scompare, gli uomini svaniscono, solo l’Uomo resta, i famigliari hanno la loro ragione d’essere nella separatività, non nella coscienza di essere tutti figli di un solo Padre, il cristiano che rinnegherà la tradizione avita, che rifiuterà di sacrificare alle apparenze, che, cercando la verità suprema, rivelerà l’inganno delle menzogne dei sensi e dei sentimenti, della personalità singola e della personalità collettiva, verrà considerato un pessimo membro della famiglia, un essere antisociale, un cattivo patriota. Questa è la spada che Cristo ha portato, e insieme la croce su cui deve salire chi vuol essere suo discepolo. Nonostante questo al cristiano è richiesta una virtù più che umana. Il cristiano è colui che ascolta la parola di Dio e la mette in pratica; è colui che non è da più del maestro, ma è perfetto come il Padre che è nei cieli, che «manda la pioggia e fa spuntare il sole sul giusto e sul peccatore». L’amore che trova nella coscienza nuova di Cristo è un amore pieno e libero; ama, non perché è amato ma perché l’amore è la natura stessa di Dio; chi ama secondo la carne e il sangue non fa nulla di diverso dalle altre creature; chi ama nella nuova coscienza di Cristo, ama come il Padre sa amare. Nel discepolo quindi è richiesta una forza d’animo serena e ferma, che costituisce una vera investitura di generosità.
In questo cammino il cristiano è solo; difficile è comprendere questa interiore solitudine, essa lo rende un silenzioso e nascosto portatore della vera vita. Inoltre il cristiano è sulla terra un orfano, nulla è sulla terra di cui possa onestamente gloriarsi, tutto è per lui riferibile al Padre celeste. Queste sono le indicazioni della via silenziosa del discepolo e non è facile poterle eseguire; per questo siamo sempre invitati a salire sulla croce.
I DUE BATTESIMI Giovanni Vannucci, «I due battesimi», 02a domenica di Avvento - Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984. Pag. 18-20.
Il Battista Prima un pellegrinaggio alle origini dell’Essere Alla coscienza, riunita alla sua origine, la terra si rivela come il mondo dell’amore Il primo battesimo nell’acqua Il battesimo di fuoco Il Battista, una delle Figure centrali del tempo dell’Avvento, torna ogni anno a ripetere due fondamentali consegne religiose: «Tornate alle origini dell’Essere» (Mt 3, 2) - la traduzione ordinaria «fate penitenza» rende insufficientemente l’idea del termine semitico «teshubah», il ritorno a Dio, cuore dell’Essere - e l’altra: «Io vi battezzo nell’acqua, ma il vostro vero battesimo avverrà nel fuoco e nello Spirito Santo, e l’amministratore di questo battesimo è in mezzo a voi» (Mt 3, 11). Prima un pellegrinaggio alle origini dell’Essere, a Dio, per ritrovare la nostra verità di creature; poi l’immersione nel fuoco e nello Spirito Santo che consumerà la nostra riunificazione con Dio. Ritornare alle origini dell’Essere: è come se venissimo trascinati dal vento del deserto che tutto spazza e devasta senza riguardo a cosa alcuna. Distruzione delle nostre costruzioni umane, concrete e teoriche, distruzione dei nostri sistemi di pensiero, delle nostre interpretazioni mentali del visibile e dell’invisibile, per contemplare con occhi puri la purezza della luce e della vita. Ritorno alle origini dell’Essere, all’assoluta nudità del nostro essere per fissare lo sguardo, non mediato ne alterato dalle nostre immagini e teorie, sulla nudità dell’Essere che è senza nomi, senza forme, senza immagini. L’appello al ritorno alle origini nasce non da esigenza emotiva o moralistica, ma dalla consapevolezza che l’esistenza separata dal cuore dell’Essere è l’immagine sfigurata dell’ordine armonioso nel quale l’uomo trova la sua verità e la sua armoniosa gioia. Una volta ricongiunta al suo vero centro divino, la coscienza riesce ad accettare la vita di tutti i giorni come un sicuro pellegrinaggio di ritorno alla sua grandezza originale. Accetta la vita terrena con passione attiva, accetta gli austeri doveri che essa impone e che non sono sempre divertenti, pesi non sempre facili a portare, il bene e il male che con la sua azione ha seminato e che viene a raccogliere. Accetta la vita concreta con le sue piccole luci e il suo vasto cerchio d’ombra, con le lodi e il biasimo,
con l’onore e il disonore, con la ricchezza e la povertà, con il riposo e la stanchezza che l’accompagnano. Accetta la vita sempre e comunque, anche quando chiede alle sue possibilità lo sforzo supremo. Ricollegata al suo centro sorgivo, accetta e adempie quei compiti che le vennero assegnati l’istante in cui ricevette dall’Onnipotente l’ordine di preparare la via della sua venuta, di scendere nel mondo delle forme per lottare e combattere, per soffrire e amare. Alla coscienza, riunita alla sua origine, la terra si rivela come il mondo dell’amore, come l’unico luogo ove è possibile amare con libertà piena. Sulla terra il giusto e il peccatore si tengono per mano, colui che sa è a fianco di chi è ignorante, il servo di Dio è vicino al servo dell’anticristo. E la terra ci affratella nel dolore e nel peccato e per questo ci offre la possibilità di redimerci nell’amore. Nella terra, separata dal suo principio, l’uomo non è più, esiste soltanto; avendo perduto la tensione dinamica che l’unisce al suo prossimo e a tutta l’umanità, non conosce più i suoi fratelli e li combatte per continuare a esistere. Così, pur continuando sulla terra a esistere sperequazioni e ingiustizie, caos e disordine, l’uomo che ha ritrovato il cuore dell’Essere combatte la sua battaglia, perché tutti si risveglino all’amore, tutti possano conquistare lo Spirito. Sulla terra l’amore è conquista, non un modo d’essere ma una conquista. Così l’uomo che ha percorso il pellegrinaggio alle sorgenti ama il suo nemico, colui che non può sopportare; ama e non si stanca di amare, non gl’importa non essere riamato, per lui non esiste offesa o peccato, esiste solo l’amore che tutti riavvicina. Dà ad ogni cosa il suo giusto valore e distrugge solo quanto non può purificare. Amore: è il tema supremo della terra; amare, volere il bene; comprendere, non preoccuparsi di essere compresi; vivere l’occasione di dare tutto, senza nulla ricevere in cambio. Offrire ardentemente, teneramente la propria vicinanza a tutti. Amare, perché l’amore tutto riceve e tutto dona, perché è il sale della vita, perché senza l’amore la vita non avrebbe senso. Nell’amore ogni passione si placa, ogni squilibrio ritrova il suo equilibrio. Amare fiduciosamente, limpidamente, credere nel bello, nel giusto, nel nobile, nel puro, credere ad ogni costo, credere sempre; credere ai confini della vita e della morte, ai confini dello spirito e della materia. Perché l’amore è un supremo atto di fede, e nell’amore l’uomo redime se stesso e ascende nelle altezze dello spirito. Il primo battesimo nell’acqua, separandoci dalle forme inquinate dell’esistenza, ci ricollega all’onda fecondatrice dell’Essere, l’uomo si trova rivestito solo di amore. Amore che lo pone di fronte a tutto il male che è nell’esistenza e che gli impone di affrontarlo, per assumerlo e trasfigurarlo. Contrasto che permette all’uomo di esaurire tutte le sue possibilità di amare, di portare a maturazione tutti i suoi poteri d’amore. Il battezzato nell’acqua non teme alcuna potenza contraria, accetta tutte le prove, perché in lui sia compiuto, all’alta temperatura del dolore, il cammino che lo conduce alla nascita dell’uomo vero.
Il battesimo di fuoco opera la trasformazione del metallo misto della natura umana in oro puro. Il battesimo dell’acqua ci salda alla sorgente dell’Essere; il battesimo del fuoco, immergendoci nell’esistenza con un cuore nuovo, nell’implacabile rigore, richiesto dal contrasto con le opposizioni dell’esistenza, ci conduce a essere una sola realtà col Signore della vita, con Dio. Con Dio, l’immenso amore che tutto avvolge e conduce, che tutto illumina verso la mèta suprema ove, vive scintille di un rogo inconsumabile, tutti ritorneremo.
I DUE FIGLI Giovanni Vannucci, «I due figli» in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984;. 26a del tempo ordinario - Anno A; Pag. 168-170.
La parabola dei due figli, quello che dice di voler andare a lavorare nella vigna e poi non va, e l’altro che si rifiuta ma poi si reca al lavoro (cfr. Mt 21, 28-32), sconvolge tutte le nostre valutazioni morali, e ci fa comprendere che i criteri che sostengono la morale del regno di Dio sono ben differenti da quelli che reggono le nostre piccole morali umane. Cristo accresce il nostro stupore con le parole conclusive di questa parabola: «I pubblicani e le prostitute vanno innanzi a voi nel regno di Dio» (Mt 21, 31). Non lasciamoci giocare dalla solita scappatoia, che da tempo usiamo per non essere presi di petto da queste sconvolgenti parole, e che ce le fa intendere come rivolte agli «increduli» Ebrei. Esse sono rivolte a chi non ha compiuto il passo necessario per seguire Cristo: il cambiamento di mente, di valutazione della vita non più misurata con criteri umani, ma vista e interpretata con gli occhi nuovi dell’uomo che ha capovolto le sue misurazioni consuete in quelle divine. Il più ricorrente cambiamento di mente di noi cristiani è quello di seguire le consuetudini della nostra Chiesa così per abitudine, come qualcosa che accompagna le nostre azioni ordinarie, aggiungendovi la consolazione di essere in pace con Dio. Come quel vecchio frate che, finendo la recita giornaliera dell’ufficio divino, del breviario, ripeteva: «Ora sono in pace con Dio!». I pubblicani e le meretrici andranno avanti a noi nel regno di Dio, se continueremo a esser soddisfatti di questa consolante conversione che poi è quella del primo figlio. Negli scritti di quel gran santo indiano che è stato Sri Ramakrishna, c’è una bellissima storia di un asceta; la riferisco sembrandomi il migliore commento alle parole conclusive di Cristo. «Viveva, nelle vicinanze di un tempio, un asceta. Davanti alla sua casupola c’era la capanna di una donna di facili costumi. Ogni giorno l’asceta vedeva uomini entrare e uscire da lei, ne era molto rattristato. Un giorno si fece coraggio e, chiamata la donna, le disse: “Peccatrice! giorno e notte stai peccando, cosa farai quando arriverà la morte?”. Queste parole toccarono il cuore della donna, pianse sulla sua sorte e cominciò a pregare Dio; angosciata, ripeteva: “Mio Dio, salvami dai peccati”. Ogni giorno pregava Dio, ma non avendo mezzi per vive-re, continuò il suo mestiere. Notte e giorno pregava: “Signore, salvami! Tu sai che non ho altri mezzi per vivere, così continuo nella mia vita sbagliata!”. L’asceta, dal canto suo, diceva, scuotendo la testa: “Inutile è stato il mio ammonimento, lei non deve continuare nei suoi traffici, cercherò di contare gli uomini che vanno da lei!”. Per farne il conto usò dei ciottoli. Mano a mano che i giorni passavano, il mucchio dei ciottoli cresceva.
Un giorno l’asceta chiamò di nuovo la donna e, mostrandole il mucchio, le disse: “Guarda questo mucchio di sassi, è l’esatta misura dei tuoi peccati. Non tenendo conto del mio primo ammonimento, hai continuato nelle tue male azioni. Il mucchio di ciottoli ti indica la massa di tormenti che ti attende!”. Vedendo il monticello di sassi, la donna fu presa da tremiti e, piangendo, tornò alla sua casupola. Non potendo sopportare il suo dolore, principiò a gridare: “O Signore Krishna, prendimi con te , liberami dai miei peccati. Prendi, se credi, la mia vita!”. Così gridando, cadde al suolo priva di sensi. Dio ebbe pietà della donna, la notte stessa la tolse dal mondo. In quella notte morì anche l’asceta, la sua vita abbandonò il corpo. Scandalo degli scandali!, i messaggeri della morte trascinarono l’anima dell’asceta all’inferno; l’anima della peccatrice pentita, invece, ascese nel cielo del Supremo Dio. L’asceta vide l’anima della meretrice mentre saliva al cielo e gridò: “Tu, meretrice! Com’è che te ne stai andando in cielo? Hai commesso un gran numero di peccati; il grosso mucchio di ciottoli ne è la testimonianza! Io, invece, fui un puro asceta, mai commisi peccato. Ora, Dio mi manda all’inferno e trasporta te in paradiso; certamente Dio non conosce la legge!”. I messaggeri di Dio pacificarono l’asceta col dirgli: “Uomo, non t’agitare; Dio non è incerto nella sua sapienza. La tua vita è stata una continua ostentazione di te stesso, l’abito d’asceta ti dava fama e teatralità! Guarda laggiù sulla terra il tuo corpo, sì, fu veramente puro! La gente lo sta ricoprendo di fiori, e salmodiando lo conduce alla sepoltura. Il corpo sta ricevendo il suo premio, l’anima tua va all’inferno. Il corpo di questa peccatrice è scarnificato dagli avvoltoi, nessuno pensa a lui. Lei aveva l’anima pura, e la portiamo alla presenza di Dio. Quando tu ti impicciasti nei suoi peccati, la loro impurità è venuta su di te. Il suo cuore, cercando rifugio in Dio, e piangendo i propri peccati, si liberò da ogni macchia; mentre tu, che ti sei messo a contare i peccati della donna, te li sei tirati addosso!”». Così avviene nell’umanità, ci sono uomini che rifiutano l’obbedienza con la bocca, ma non col cuore; altri dicono di sì, con molto rispetto, poi non si curano della promessa fatta. I peccatori e le meretrici saranno, per virtù del pentimento e lo strazio di esperienze, infinitamente superiori a chi nulla mai provò e in nulla si distinse. Molti credono che basti non fare il male, ma non facendo il bene, fanno già il male; se non si opera, altri opereranno per noi, e non come vorremmo noi. In un creato perennemente in opera, trasformante perennemente se stesso, non è lecito ad alcuno lasciarsi vivere. Tutti devono vivere in proprio, anche e specialmente se vivere è soffrire; anche peccare è soffrire. Ecco perché i pubblicani e le meretrici potranno, nel regno di Dio, precedere i pigri discepoli che stanno lontani dalla colpa, non per avversione e orrore, ma per evitare di faticare, di soffrire. Meglio la protesta del figlio ribelle seguita dall’obbedienza per amore, che non il tiepido ossequio di chi dice e non fa. Dio non ama l’ossequio verbale: «Non chi dice: Signore, Signore, ma chi ascolta la parola di Dio e la mette in pratica avrà parte nel Regno».
I PICCOLI Giovanni Vannucci, «I piccoli», 14a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 128-130.
La commovente pagina di Mt 11, 25-30 è preceduta da una serie di parole di condanna che Gesù rivolge al suo popolo, indifferente ai richiami austeri di Giovanni Battista, e a quelli più umani da lui rivoltigli: «È venuto Giovanni, non mangiava e non beveva ed è stato considerato come indemoniato; sono venuto io che mangio e bevo e mi dite che sono un mangione e un ebbro, l’amico dei pubblicani e dei peccatori. Allora prese a maledire le città dove aveva compiuto prodigi e non si erano convertite». Le città incredule, che suscitarono lo sdegno di Cristo, fanno da sfondo oscuro a una nuova società che avanza e che si raccoglie intorno a Lui: i piccoli, gli affaticati, gli oppressi, ai quali rivela le cose nascoste ai saggi e agli intellettuali. Chi sono i piccoli, i fanciulli alla cui statura i discepoli sono chiamati ad adeguarsi? Il piccolo è l’umile, l’uomo pronto ad amare e a credere, l’uomo che ha il cuore aperto allo stupore di ogni fiaba, di ogni vera rivelazione, che, nelle manifestazioni della vita, scorge la presenza del sogno e della poesia, dell’armonia e della meraviglia, che di fronte all’erba verde non pensa alla clorofilla, ma alla mano invisibile che l’ha resa bella di quel colore. Il piccolo è il meraviglioso costruttore del Regno dei cieli. Ai piccoli Gesù dice: «Venite a me». Per avere la vita è sufficiente andare a Cristo, ma per andare bisogna voler andare! La volontà umana, la capacità di rispondere a un appello, è l’arbitra del cammino verso Cristo. Per credere a Cristo bisogna voler credere, per andare a Cristo bisogna volerci andare. Cristo non ci vuole per forza, non ci lusinga con facili ricompense, non ci violenta, non ci salva nostro malgrado. Ognuno deve avere il suo piccolo e indiscutibile merito; ognuno deve, rispondendo alla chiamata, dimostrare di avere un nome e di non essere un bruto incosciente che attende un maestro qualsiasi pronto a iniziarlo. «Venite a me che sono mite e umile di cuore». Cristo sintetizza la sua persona in queste due qualità: dolcezza e umiltà. Non confondiamo la dolcezza con l’untuosità e la smanceria ritenute, ordinariamente, le note che qualificano la persona devota! Quando un frutto è dolce? Quando è maturo, quando tutto in lui ha raggiunto il grado della perfezione. L’umiltà non è la sottomissione ai potenti, ai dotti, ai superuomini, ma l’estrema libertà del cuore che si è scrollato da tutte le prigioni costruite da mano umana e che può dire, in piena verità, «non conosco uomo», sono solo davanti al mistero divino.
La dolcezza di Cristo è bontà aggressiva, combattiva, è la bontà del Buon Pastore che va a cercare la pecorella smarrita, ma è anche il pastore che spacca la testa al lupo, e nella lotta al principe di questo mondo è senza debolezza, lo aggredisce ovunque lo trovi. È umile, la sua indipendenza dai potenti è assoluta fino alla morte di croce per obbedire al suo mandato. A ben considerare, la dolcissima pagina del vangelo di Matteo si appoggia su una realtà di tensione profonda tra la violenza dei potenti e la mitezza dei piccoli, tra la forza brutale degli integrati nel regno di questo mondo e gli oppressi che conservano intatto nel cuore il sogno di un Regno diverso e sono sensibili alla poesia delle cose. Noi siamo perpetuamente nel mezzo di questa tensione, siamo dei poveri cuori minacciati dalla sclerosi, ci è necessaria una continua vigilanza sugli egoismi sempre risorgenti, per superarli conservando lo stupore, l’attesa del miracolo, dell’incontro con Cristo. Attesa che accende in noi una luce certa e pura che di niente si inquieta, che è in se stessa slancio, offerta, dono. Abituandoci a muoverci in questa luce, l’universo lentamente cambierà di senso e di aspetto, avremo la sapienza dei semplici, non quella dei dotti e degli intelligenti! Incontreremo la dolcezza, maturità piena, di Cristo, l’umiltà , donazione al più assoluto ideale, del Maestro. Orienteremo in maniera corretta le nostre energie vitali per raggiungere la maturazione del nostro personale io, la più totale offerta di noi stessi alle energie divine. Evitando di far decadere, come fanno i dotti e gli intelligenti, la pienezza di vita, che ci viene comunicata, in oggetto di speculazioni, di ideologie, di parole, di precetti. Schivando quella degradazione della fede ai pregiudizi, agli interessi sodali volgari, alla manipolazione della psiche. Le parole violente di Cristo contro i Farisei, che avevano miniaturizzato il mistero divino, contro i dottori della legge che avevano «fatto sparire le chiavi della conoscenza» (Lc 11, 52), contro le città che, chiuse nel loro benessere, avevano perduto l’attesa della rivelazione, conservano anche oggi il loro peso. L’umile non dice mai di no allo Spirito che lo muove e lo conduce al giogo dolce e leggero di Cristo, è il no che alimenta le fiamme dell’Inferno. Ritrovare la pochezza dei piccoli, mi sembra l’urgente consegna del nostro tempo. Vi è fame e sete di conoscenza spirituale nel nostro mondo, ma ancora una volta i dottori della legge, gli intelligenti, avendo la chiave non la vogliono usare, e loro non entrano né lasciano entrare altri nel Regno, simili al cane che dorme nella mangiatoia, non mangia il fieno e impedisce ai buoi di mangiarlo! Eppure il seme divino germoglia e le messi biondeggiano, ma non sono gli operai del padrone quelli che mietono, e non è nei granai del regno di Dio che il grano viene raccolto! Una divina sete d’amore è seduta sul parapetto del pozzo umano e supplichevole chiede: «Dammi da bere, dammi l’acqua deperibile della tua natura umana, in cambio ti darò quella viva della mia natura divina!».
ÂŤTi benedico, o Padre, perchĂŠ hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli!Âť.