Testi di padre giovanni vannucci vol 2

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Testi di

padre Giovanni

Vannucci

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I PRIMI E GLI ULTIMI Giovanni Vannucci, «I primi e gli ultimi» in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984;. 25 a del tempo ordinario - Anno A; Pag. 165-167.

La parabola riportata in Mt 20, 1-16, per certi particolari, e per il contenuto di fondo, si ricollega a quelle del figlio prodigo e del pastore che, lasciando le novantanove pecorelle, va in cerca di quella smarrita. Il figlio maggiore, le novantanove pecorelle, rimasti sempre nella casa paterna e nell'ovile, non hanno conosciuto le angosce, le umiliazioni, gli avvilimenti del prodigo e della pecorella smarrita; così gli operai della prima ora patteggiano liberamente il prezzo, ignorano la pena di veder passare le ore senza essere ricercati, di veder arrivare la sera e la notte senza aver lavorato; gli altri non sanno come verranno pagati, accettano il lavoro, felici di poter guadagnare qualcosa. Gli operai dell'undicesima ora avevano atteso tutto il giorno che qualcuno li cercasse; se i primi avevano durato la fatica e il gran caldo, gli altri avevano conosciuto l'avvilimento e l'angoscia dell'inutile attesa. Giustamente agisce il padrone della vigna, giustamente rimprovera gli insoddisfatti: «Vedi tu di malocchio ch'io sia buono? Non mi è lecito di fare del mio quello che voglio?». Tutta l'idea dell'annuncio cristiano è contenuta in questa affermazione. Cristo è venuto non per i giusti e i sani, ma per i peccatori e gli ammalati; non per le pecorelle sicure nell'ovile, ma per quelle smarrite; non per i vignaioli che possono contrattare il prezzo del loro lavoro, ma per quelli che accettano il lavoro senza domandarsi quale ricompensa verrà data loro. Come il malato e non il sano abbisogna del medico, il peccatore e non il giusto ha necessità del Redentore, così colui che a lungo è stato disoccupato necessita di occupazione e di lavoro, egli non discute di ricompense, è solo pago di lavorare. L'operaio dell'undicesima ora non è soltanto, come comunemente s'intende, il peccatore che si converte all'ultima ora. Ordinariamente è l'uomo buono, intelligente, spesso colto, spiritualmente disoccupato; l'uomo cioè privo di idealità, non perché ne sia incapace ma perché sino ad allora nessun vero ideale gli si è presentato. E di questi uomini ne esistono in tutte le razze e in tutte le religioni. Spesso si vive un'intera vita senza interessarsi ai massimi problemi del nostro essere. Blandamente, con indifferenza, si seguono le leggi del proprio paese e i riti della propria religione, senza preoccuparsi di approfondire gli uni e gli altri. Più che vivere si è vissuti, più che pensare si è pensati e, come gli operai della parabola, si aspetta qualcuno che ci cerchi, qualcuno che ci faccia lavorare, finché qualcuno giunga; talora il padrone che ci manda alla sua vigna può chiamarsi sventura, malattia, miseria, dolore! Giungerà colui


che ci domanderà: «Perché ve ne state ancora inoperosi?»; risponderemo: «Nessuno ci ha presi a giornata ed è già l'ultima ora del giorno». Ed egli ci dirà: «Andate anche voi nella vigna». Spesso, dopo una vita inutile e vuota, con un richiamo improvviso, come un bagliore sopra gli occhi chiusi, comincia il lavoro dello spirito. Che esso duri molto o poco non importa, importa che esso ci sia, importa che tutta la giornata terrena non sia conclusa nell'ozio. Così vediamo persone anziane, vissute fino ad allora tranquille, che di colpo, come obbedendo a un richiamo, si gettano in attività, si dedicano a studi cui mai avevano pensato, si interessano appassionatamente al mondo che le circonda, e, con uno slancio in cui è contenuta una vera gratitudine, lavorano nella vigna del Signore. L'operaio dell'undicesima ora è stato chiamato e ha risposto, avrebbe risposto prima se prima fosse stato cercato. L'operaio dell'undicesima ora non dice mai «è tardi», ma risponde sempre «eccomi!». Il premio degli ultimi sarà giustamente uguale a quello dei primi, poiché attendere di essere chiamati e mantenersi liberi con l'animo di aderire al richiamo, è già lavorare. La ricompensa dei primi come degli ultimi è unica. La ricompensa è l'indiamento, il possesso beato della pienezza della vita; vi è solo una vita divina, la quale non può darsi ai suoi fedeli se non nell'identica maniera. I brontolamenti, le proteste dei figli rimasti sempre nella casa paterna, degli operai della prima ora, attireranno solo lo sdegno del padre e la dura risposta del padrone, che testimoniano un'infinita comprensione in un infinito amore. «Tu sei sempre stato con me», dice al figlio maggiore il padre del figlio prodigo. «Amico, non ti fo alcun torto, non hai convenuto con me per un denaro?», risponde il padrone della vigna. La parabola termina con un aforisma che ci deve far pensare: «Gli ultimi saranno i primi, i primi gli ultimi». Perché questa predilezione divina verso gli ultimi? Spesso mi chiedo: verso chi andavano le preferenze di Gesù morente sulla croce, al buon ladrone o all'altro che accetta fino in fondo le conseguenze della sua vita delittuosa? Il primo, in qualche maniera, approfitta di Cristo: «Ricordati di me quando sarai nel tuo Regno»; il secondo vive fino all'estremo la sua scelta di libertà. E non è una domanda retorica questa, facciamocela e forse riusciremo a spogliarci di tutte le nostre albagie di figli buoni e di operai della prima ora! Spesso lo stato d'animo dei figli prodighi, degli operai dell'ultima ora corrisponde a quello che Ornar Khayam descrive in un suo poema: «Ho visto un uomo solitario in un luogo arido. Non era ne eretico, ne ortodosso. Non aveva né ricchezze, né religione, né Dio, né Verità, né Legge, né certezze. Chi in questo mondo è capace di tanto coraggio?». Quando questi uomini entrano nella vigna, vi portano il loro coraggio, la loro forza, la loro dedizione che hanno raggiunto in una solitudine libera e spoglia. Allora «gli ultimi saranno i primi, i primi gli ultimi».


Gli ultimi non porteranno nel Regno le meschinerie, le rivalitĂ , le ambizioni dei primi!


I QUATTRO TERRENI Giovanni Vannucci, «I quattro terreni», 15a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 131-133.

Prima di cercare di capire la parabola del seminatore, narrata in Mt 13, 1-23, sono necessarie alcune delucidazioni sopra i suoi vocaboli chiave: Gesù da una barca parla alla folla, che l’ascolta sulla riva del mare; parla in parabole; parla di un seme gettato nel terreno, di quattro specie di terreno; nella spiegazione che dà della parabola il seme è identificato all’uomo che ascolta o non ascolta. «Gesù salì su una barca vicino alla riva del mare, e alla folla rimasta sulla spiaggia parlò in parabole». Questa descrizione, oltre al suo significato storico, ha un senso psicologico. Il mare, nel linguaggio metaforico dei Vangeli, indica qualcosa di diverso dalla terra: in questa premessa al discorso in parabole, esso indica che Cristo sta parlando di cose che non appartengono all’ordinaria comprensione dell’uomo, ma di realtà che a prima vista sono oscure a un intendimento basato sui dati dei sensi. Che Egli parli da un altro livello è indicato dalla sua collocazione sulla barca nel mare. Le varie categorie delle idee dipendono dai differenti livelli di comprensione; essi, nel naturale linguaggio dei sensi, vengono raffigurati in vari modi: con i monti, in quanto distinti dalla pianura - il discorso della Montagna, per esempio -, oppure col mare, in quanto è altra cosa che la terra. Così, in questo discorso. Gesù, rivolgendo la parola a una folla che è sulla spiaggia, indica che sta parlando da un livello di coscienza differente da quello dell’uomo ordinario. «Egli parlava loro in parabole»; la parabola è il supporto che unisce un’immagine presa dalla vita ordinaria, dal livello sensibile - il seminatore e le vicende del seme sparso in differenti terreni -, con un significato che appartiene a un livello superiore. L’uomo vive fisicamente sulla terra, illuminato e nutrito dalle energie del sole; psicologicamente e mentalmente vive illuminato e nutrito da una luce che viene dall’alto, luce più necessaria e meravigliosa di quella del sole sensibile. Nella misura in cui l’uomo ascende nella conoscenza, si radica sempre di più in questa luce, sicché si può affermare che è essa a guidare l’uomo alla vera e piena conoscenza. La parabola è perciò un linguaggio che, usando i termini forniti dall’esperienza dei sensi, allude a un superiore livello di significato. Per comprenderne il messaggio non è sufficiente fermarsi all’immagine sensibile o letterale, alla percezione esteriore, ma è necessario raggiungere una percezione interiore. Gli antichi pensavano che l’uomo fosse il ponte, il collegamento tra la terra e il cielo. Tenendo presente questa


immagine possiamo comprendere le parabole; la loro differente comprensione rivela la varietà del nostro personale livello nella scala dell’essere; esiste uno stretto rapporto tra il seme e le qualità del nostro personale terreno, per questo le parabole di Gesù non sono dei temi di predicazione ma delle interrogazioni severe che ci vengono rivolte. Il seme viene sparso nel mondo a larghe mani, la parola viene comunicata a tutti, cade lungo le strade dove trova due consumatori: gli uccelli e il maligno. Gli uccelli, gli spiriti leggeri e incostanti, gli uomini superficiali che vanno errando qua e là, che cercano senza trovare e non si danno pensiero di ciò che per caso possiedono: a essi il Regno è predicato in pura perdita. Però, come gli uccelli che cibandosi di un seme lo trasportano in terre lontane, sono l’occasione della propagazione della parola loro malgrado e con il loro inconsapevole ausilio. Quanti deridendo una dottrina l’hanno resa familiare e hanno attirato l’attenzione di chi l’avrebbe vissuta! L’altro consumatore del seme sparso sulla strada è il maligno; egli assume un nutrimento atto a distruggerlo o a mutarne l’intrinseca natura. Quindi c’è il terreno sassoso, l’uomo che si rallegra alla parola di verità, ma dal godimento all’attuazione della parola il passo è difficile. La parola del Regno è una bella cosa, purché non disturbi, non ostacoli il piccolo regno che ognuno si costruisce m questo mondo. Se bastasse solo credere, tutti crederebbero! Ma è necessario operare, scomodarci e scomodare, capovolgere la comoda morale corrente in nome di una morale nuova ed eccezionalmente scomoda. Chi è privo di carattere, chi ha qualcosa da difendere non può portare la parola alla fruttificazione. II seme cade in mezzo alle spine, il seme divino è forte per natura, né aborre alcun luogo, ovunque può attecchire e germinare; né gli importa se non giungerà a maturazione. Il seme cade infine sul terreno buono, ove dà un frutto di differente abbondanza. La parola del Regno frutta il cento per uno negli spiriti liberi, pronti, generosi, incuranti di se stessi, capaci di cercare la giustizia del regno di Dio con tutte le loro energie, pronti a rinunciare a se stessi, a staccarsi da ogni terreno vincolo o desiderio. Vi sono poi gli uomini di buona volontà che cercano di fare del loro meglio per aderire alle leggi divine; per essi Dio sarà sempre Dio, un ottimo padrone, ma mai un Padre. Dio resta per loro il grande estraneo; la loro personalità conosce un solo modo di annientamento: l’umiliazione, non la trasfigurazione di se stessa. L’amore che si innalza come allodola nel cielo non è per loro, sono uccelli di gabbia, non d’aria, essi danno il sessanta per cento. Vi sono infine gli spiriti aridi ma onesti, obbedienti per natura; seguono la parola del Regno non per amore, non per timore, ma per rigido dovere; donano se stessi, ma senza ardore, senza entusiasmo. Essi rendono il trenta per cento del seme loro affidato. Nell’economia dell’universo la creazione si ribella all’inutilità, la divina


giustizia separa se stessa da ciò che l’ha respinta ..., perché Dio creatore del tempo e principio dell’eternità non disperde né l’uno né l’altra in vendette. Da saggio coltivatore distrugge quanto non ha risposto, dirà a ognuno di noi: «Ho seminato in te il mio seme perché germinasse, tu non l’hai fatto, imputa a te stesso il tuo danno. Creandoti libero ho sostituito l’istinto del bruto con l’intelligente ragione, l’impulso con la chiaroveggente volontà, la legge ferrea di causa ed effetto con l’intuitivo amore. Tu cosa ne hai fatto? Sia fatta la tua, non la mia volontà». A nessuno è chiesto più di quanto può dare, ma a tutti è chiesto di dare quanto possono dare.


I TALENTI Giovanni Vannucci, «I talenti», 33a domenica del tempo ordinario - Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984. Pag. 188-189.

Il Signore è il creatore della vita, i servi siamo noi uomini. Nessuno, venendo in questo mondo, vi viene sprovveduto; a tutti Dio da con la vita un dono, e la vita stessa è un dono. Anche vivendo semplicemente, accettando serenamente il bene e il male della vita, anche desiderando che si attui ciò che la vita è destinata a compiere, è fare un gran bene. Dio dona ad alcuni solo il dono della vita, ad altri varie capacità, naturalmente con maggiori responsabilità dei primi. A tutti dice una sola cosa: «Trafficate i talenti ricevuti, perché dovrete rendermene conto» (cfr. Mt 25, 14-30). Non importa il numero dei talenti, ci è richiesto che siano adoperati in modo che rendano frutto. Chi ne ha dieci ne farà venti, chi cinque li moltiplicherà, chi uno lo raddoppierà. La vita deve significare produrre frutti di vita. I servi dall’unico talento sono legioni, ed è ad essi che viene oggi rivolta la parola. Se tu hai un unico talento non ti è chiesto di farne dieci, ma di farne solo due; cioè di essere compreso del tuo compito, qualunque esso sia. A nessuno è domandato di fare ciò che non può fare, ma di far bene ciò che può fare. Vivere non vuoi dire far passare i giorni come l’acqua che scorre, ma misurare ogni ora con il metro del proprio respiro, con l’energia della propria volontà, con il calore del proprio amore. Il servo neghittoso butta via la sua ricompensa, invidia chi ha ricevuto di più, giudica con rancore il padrone, seppellisce il talento, soffoca il dono della sua vita, rende inutile il soffio di vita che lo anima. Non esistono vite inutili se non per colui che rende inutile la sua vita. Dio non ci rimprovera di render poco, ci rimprovera di render niente. Il narcisismo, di qualsiasi natura sia, è tutto nel «non render niente». Narcisismo è il ripiegamento su noi stessi, l’ammirazione per la propria personalità, il compiangere se stessi, il sentirsi defraudati di qualcosa. Anche l’applauso per le opere altrui e la pigra ammirazione per l’altrui attività è narcisismo. Ognuno taccia quello che deve fare e Dio farà sì che ognuno abbia la sua ricompensa. Cosa vuol dire fare? Chi accetta di vivere con la consapevole certezza che la vita è buona in qualunque modo si svolga, fa qualcosa di grande e di meritorio. Naturalmente chi più ha più è chiamato a dare; chi più sa più insegni; chi è più forte porti i pesi maggiori e non condanni chi può portare solo dei piccoli pesi. Impariamo a esser coscienti di ciò che ci è stato affidato, nessuno risponderà per gli altri, ognuno risponderà di se stesso. Capendo questo, faremo un gran passo nella vita, avremo capito l’essenziale. La parabola dei talenti fu detta per ognuno di noi, e ad essa ognuno di noi deve imparare a riferirsi.


I TRE VOLTI DELL’ANTICRISTO Giovanni Vannucci, «I tre volti dell’anticristo», 33 a domenica del tempo ordinario. Anno C, in La Vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, Pag. 222-225.

II brano evangelico di Lc 21, 5-19 non ci annuncia ne una novità, né una scoperta: il mondo va male, ore tragiche incombono sull’umanità. Quasi due millenni or sono Cristo disse: «Del Tempio e dei Templi costruiti dalla mano dell’uomo non rimarrà pietra su pietra [...]. Vedrete popoli scagliarsi contro popoli, incontrerete opposizioni e persecuzioni, sorgeranno dei falsi profeti [...]. Non vi turbate della desolazione che vi circonderà, non pensate neppure alle parole da dire in vostra difesa; non un capello della vostra testa cadrà, vincerete con la vostra perseverante pazienza» (cfr. Lc 21, 5-19). Due millenni hanno confermato ora per ora, istante per istante, la verità di queste parole; esse sono sospese minacciosamente nei cieli, e oggi le viviamo. Segni appaiono nei cieli, segni appaiono sulla terra, gente contro gente, cristiani contro cristiani, fratelli musulmani contro fratelli musulmani, compagni contro compagni, e la desolazione di una terra che va inaridendosi. Di questo stato di cose l’uomo è responsabile e ognuno di noi ha parte in questa responsabilità. Il cristianesimo è milizia, il cristianesimo è una chiara presa di posizione nell’esistenza di fronte ai «molti che verranno in nome mio dicendo: sono io l’atteso, il tempo è giunto, ma voi non seguiteli» (Lc 21, 8). Questi molti Anticristi possono, nel nostro tempo, esser sintetizzati in tre forme, in tre nomi. Uno è l’edonismo: bramosia del benessere e del piacere, avidità del guadagno e della ricchezza, desiderio del quieto vivere, del pingue pascere, del tranquillo dormire. A esso dobbiamo contrapporre la certezza che l’uomo non è solo carne, che non è un bruto, ma che è anima, spirito, coscienza, intelletto e che non può acquietarsi nel pascolare il fango della terra. L’altro nome è la paura: paura dell’uomo, dell’aria che respiriamo, dei poteri terreni, della persecuzione, della morte. Il Maestro ci dice: «Non temete coloro che hanno il potere di uccidere il corpo, temete colui che uccidendo il corpo ha il potere di funestare la parte più vera del vostro essere, l’anima» (cfr Lc 12, 4-5; Mt 10, 28). Il terzo volto dell’Anticristo, il più atroce e il più inguaribile, è il fanatismo religioso. Quando gli uomini si scaglieranno contro gli uomini in nome di Dio che a tutti è Padre, quando la mano dei sacerdoti si alzerà a benedire le armi omicide, allora è segno che l’abominazione ultima è entrata nel Santuario.


Ognuno di noi potrà considerare in se stesso a quale di questi volti appartiene, di quale è schiavo; allora ognuno potrà liberare se stesso, e liberando se stesso libererà coloro che lo circondano. Se siamo schiavi delle ricchezze, ricordiamoci che esse sono pula che il vento spazza. Distribuiamo quanto abbiamo, procuriamo di far sorridere intorno a noi, finché sorridere si può, siamo generosi, divinamente prodighi: «Da’ a chi ti chiede, non domandare il tuo a chi te lo toglie!» (Lc 6, 30), dice il Maestro. Contro la cieca avidità del denaro, contro la folle e cieca cupidigia che muta i figli di Dio in lupi intenti a strapparsi un osso, facciamo della nostra ricchezza, del nostro benessere, un’arma per vincere la battaglia della luce. Se siamo angosciati dalla paura, dalla paura di morire, dalla paura per i nostri figli, dalla paura per i nostri vecchi, ripetiamoci: qual male massimo può recarci l’uomo se non la morte? Ma cos’è la morte se non il volo verso la verità inconcussa, verso la giustizia senza violazione? Non lasciamoci spaventare da niente e da nessuno. Se nel nostro cuore divampa lo spirito del fanatismo, diciamoci che la fede non è un segno di separazione e di discordia, che Dio è l’unione e la concordia dei cuori e delle menti. Qualunque sia la nostra religione, qualunque sia la nostra idea politica, esse valgono la religione e le idee politiche dei nostri fratelli. Guardiamoci dallo spirito fanatico, dallo spirito di violenza che ci fa guardare una parte dell’umanità come nemica di Dio. Dio non ha nemici, e nessuno potrà esserci nemico se guardiamo a tutti gli uomini con gli occhi del Padre. Questi tre aspetti dell’Anticristo dei nostri tempi vanno affrontati con perseverante pazienza. Affrontati e superati prima di tutto nell’ambito della nostra personale esperienza. La lotta nello spirito di Cristo è prima di tutto intima, completa, assoluta e ha per base il riconoscimento dell’unità spirituale dell’umanità. I falsi profeti, i nemici del padrone della messe seminano il loglio nel buon grano, acciocché classe sia nemica a classe, uomo sia lupo all’uomo. L’acquisizione della coscienza cristiana invece rende spontaneo l’atteggiamento che ci fa dire: quello che è mio non è mio, ma di chi ha bisogno; quello che io so, non lo so per me ma per comunicarlo a chi non sa; quello che possiedo lo possiedo per distribuirlo, perché io sono l’altro, perché io non conto ma conta il fratello. Nell’opposizione avviene la divisione tra classe e classe, uomo e uomo, e infallibilmente ci si incammina per la strada che conduce alla distruzione. Con la perseverante pazienza impariamo a rinunciare a noi stessi per trasfonderci nell’altro: apprenderemo ad agire secondo coscienza, in ogni uomo ci sarà volontà d’amore, l’uomo non sarà più costretto ad aver paura del fratello che gli dorme accanto, nessuno avrà torto perché nessuno avrà ragione. In quest’ora, che è una delle più tragiche della storia dell’umanità, ognuno è chiamato personalmente ad affrontare le tre forme dell’Anticristo con perseverante e ferma pazienza.


«Siate svegli, non temete nessuno, nessuno potrà nuocervi se camminerete verso la verità con perseverante pazienza» (cfr. Lc 21, 19). Queste parole sono rivolte a quegli uomini che non cercano una soluzione spinti da paura, ma che, coraggiosi e forti, bruciati dal desiderio di superare se stessi, conservano nel cuore la speranza di una via d’uscita, la fiducia in una soluzione che nasca nelle menti non inquinate dalle tre forme dell’Anticristo. Questi saranno capaci di portare la loro forza per la costruzione del Tempio in se stessi; a loro la luce divina concederà ciò che bramano.


IL BATTESIMO DI FUOCO Giovanni Vannucci, «Il battesimo di fuoco», 02 a domenica del tempo ordinario - Anno A. In Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984. Pag. 95-97.

La successione degli episodi nel quarto Vangelo, che riferisce la predicazione del Battista lungo le rive del Giordano e il suo incontro con Gesù Cristo (Gv 1, 19-34), è la seguente: Giovanni purificava immergendo nell’acqua chi andava a lui pentito dei propri peccati. Le autorità religiose di Gerusalemme gli mandarono degli inviati a chiedergli chi egli fosse, e in nome di chi battezzava. Giovanni risponde di non essere il Messia atteso, né un profeta, ma uno che grida: «Raddrizzate le vie del Signore», il suo battesimo è la preparazione al battesimo dello Spirito Santo che verrà amministrato da uno che è già in mezzo al popolo. Il giorno dopo Gesù andò da Giovanni, che ancora non lo conosceva, e gli si rivelò come «l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo», il peccato che insidia radicalmente l’uomo: la ricaduta nel nulla. Lo riconobbe come l’Atteso perché Colui che l’aveva inviato a battezzare gli aveva detto: «Tu va’ a battezzare con l’acqua, quegli su cui vedrai discendere lo Spirito e rimanere su di lui è Colui che libera dal peccato non più simbolicamente con l’acqua, ma realmente con lo Spirito Santo». Giovanni vide plasticamente, come colomba, discendere e posarsi su Gesù lo Spirito Santo, e lo riconobbe e lo annunciò come «il Figlio di Dio». Nelle narrazioni dell’incontro riportate dagli altri evangelisti ci sono dei particolari che mostrano gli avvenimenti sotto una luce differente, quasi delle contraddizioni; mi soffermo su di essi perché dal contrasto appare, così mi sembra, che Giovanni ha colto il significato soprastorico dell’incontro del Battista con Gesù, significato che diventa emblematico di quella interiorizzazione del mistero di Gesù Cristo che caratterizza il quarto Vangelo, sì da renderlo il Vangelo che indica le tappe da percorrere per il nostro personale incontro e la nostra personale unione con la Parola che vuole incarnarsi in noi, per renderci figli di Dio. Negli altri evangelisti, lo Spirito Santo scende su Gesù dopo che è stato battezzato. Matteo e Marco dicono che fu a Gesù che i cieli si aprirono e che fu Lui a vedere lo Spirito Santo che scendeva. Nel vangelo di Giovanni, non è negato, ma neppure affermato che la discesa dello Spirito Santo abbia fatto seguito al battesimo di Gesù, di cui l’evangelista non fa parola. Il punto in cui concordano è il fatto che il Battista inizia la sua predicazione di penitenza che precede la manifestazione di Gesù come portatore dell’immersione nello Spirito Santo; nella prospettiva dell’evangelista l’episodio costituisce la rivelazione dell’uomo che dopo il suo ritorno alle sue origini divine, il battesimo nell’acqua, scopre che il suo compito, unico e inalienabile, è quello di divenire come Gesù, uomo dello Spirito Santo.


Soffermiamoci sulla predicazione del Battista, quale è riportata dagli altri evangelisti; ai Farisei e Sadducei, chiusi e sicuri nei loro sistemi dottrinali e rituali, vengono rivolte delle dure parole: «Razza di vipere, cambiate la direzione dei vostri pensieri. Cessate di dire: abbiamo Abramo per padre. Dio può suscitare da queste pietre i figli di Abramo» (Mt 3, 7-9); alla folla, agli esattori del fisco, ai soldati vengono date queste indicazioni: «Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha, non esigete niente di più del dovuto, non fate violenza a nessuno» (Lc 3, 10-14). Il battesimo del Battista è un vigoroso richiamo a Dio, sorgente dei valori che informano l’attività umana. Ai dotti viene detto di rivedere nella verità divina le loro teorie, agli altri di regolare i loro rapporti con il prossimo non seguendo le proprie aspirazioni egoistiche, ma l’apertura di coscienza che solo Dio può dare. Il battesimo nell’acqua è nella chiara presa di coscienza delle origini divine dell’uomo, è il fermo distacco da tutte le forze istintive e passionali. È la nascita all’io cosciente e responsabile. Quando questo battesimo è portato a compimento, l’uomo può accedere al secondo battesimo, quello dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo scende come forza distruttrice e rinnovatrice di tutto l’uomo che, in questo bagno purificatore e trasfigurante, comprende con stupore gioioso di essere il figlio prediletto di Dio. È la nascita dell’io spirituale, dell’io consapevole del proprio destino sovrumano, la più alta coscienza personale. Il passaggio dall’io cosciente, quello che nasce nel battesimo dell’acqua, all’io spirituale, quello che nasce dalla discesa dello Spirito Santo, è compiuto dal battesimo del fuoco. Quello in cui l’uomo deve sperimentare la passione, la morte, la totale purificazione della carne e del sangue, la rinunzia a tutto ciò che viene dal basso per ritrovare l’unità nell’Origine divina. Questo battesimo è indicato da Cristo: «Il Figlio dell’Uomo dovrà soffrire, essere rinnegato e disprezzato dagli uomini prima di morire e risorgere». La nostra risurrezione nella vita divina deve essere preceduta, come quella di Cristo, dalla passione e dalla morte.

Questo è il battesimo nel fuoco che media il superamento dell’io cosciente allo stato dell’io spirituale. L’io spirituale, ultima tappa della realizzazione cristiana, richiede il superamento dell’umano con l’eliminazione di ogni particolarismo, di ogni separazione attraverso l’identificazione con il mistero divino, la «volontà del Padre». Allora il cristiano, come Gesù Cristo, potrà salire «alla destra del Padre». Questo ritorno alla destra del Padre, nell’esperienza religiosa cristiana, a differenza di altre esperienze religiose, non è un annientamento nell’Assoluto, ma uno stato attivo di coscienza universale, la coscienza dei figli di Dio, arricchito dalla coscienza acquisita dall’io cosciente unita e fusa nell’io spirituale.


L’UOMO NUOVO Giovanni Vannucci, «L’Uomo Nuovo», Domenica dopo l’Epifania (Battesimo del Signore) - Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984. Pag. 39-41.

Gesù andò sulle rive del Giordano per essere immerso nell’acqua. Giovanni gli si oppose: «Sono io che ho bisogno di essere immerso da te nell’acqua, e tu vieni da me?». Gesù gli rispose: «Lascia che sia così; bisogna che portiamo a compimento tutta la giustizia!». Allora lo immerse nell’acqua (Mt 5,13-15). Gesù non compie dei gesti inutili, le sue parole: «Bisogna che noi portiamo a compimento tutta la giustizia» sottolineano l’importanza della sua immersione nelle acque del Giordano. Il periodo che con Gesù si chiudeva era quello della giustizia. La giustizia che stabilisce i doveri e i diritti sia nei rapporti con Dio sia con gli altri. Quando il dovere non viene compiuto, il responsabile deve pagare, compiere qualcosa che stabilisca l’ordine turbato. «Chi avrà battuto suo padre o sua madre sia fatto morire... Chi avrà maledetto suo padre o sua madre sia fatto morire» (Es 21, 15-17); «Quando uno avrà peccato per errore... offra al Signore per il suo peccato un giovenco sano» (Lv 4, 4); «Aronne sgozzi il capro in espiazione dei peccati del popolo, così purifichi il tempio dalle immondezze e dai peccati dei figli d’Israele» (Lv 16, 15-16). La purificazione di Giovanni - il più grande dell’èra della giustizia, ma inferiore al più piccolo della nuova èra (Lc 7, 28) - è ispirata alla giustizia: «Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha» (Lc 5, 11). Gesù discese nelle acque dove i battezzati da Giovanni deponevano i propri peccati riemergendone purificati. Lui, l’incontaminato, immergendosi nelle acque assumeva su di sé il peso dei peccati dell’uomo, aboliva tutte le forme di riscatto rituale espiando per ogni uomo, liberandolo in conseguenza dalle facili purificazioni, e indicando che il peccato si espia con il risveglio del germe divino disseminato nella coscienza, portandolo a maturazione nella grandezza dei figli di Dio. Da quel momento la penitenza sarà la seconda nascita nel fuoco e nello Spirito, le opere espiatorie saranno l'indefessa ricerca del cambiamento di mente. Appena riemerso dalle acque, i cieli si aprirono, lo Spirito di Dio discese sopra di Lui come una colomba e una voce disse: «Questo è il mio Figlio amato» (Mt 3, 17). Un nuovo ciclo di vita iniziava per gli uomini. Il passaggio dal vecchio al nuovo non sarebbe avvenuto in un miracoloso istante, ma lentamente con movimenti da ère geologiche; continui risvegli dei vecchi modi avrebbero cercato di dare forma e permanenza alla novità, questa sarebbe andata oltre tutte le


possibili formulazioni, oltre tutti i tentativi di accaparrarla, fino ai nostri giorni, nei quali sentiamo, nel crollo di tutte le costruzioni, più forte la nostalgia di vivere la vita dell'uomo nuovo senza contaminanti deformazioni. Lo Spirito di Dio fu su Gesù che riemergeva dalle acque. Lo Spirito di Dio è l'energia creatrice e redentrice; alita sulle acque del caos producendovi le infinite forme della vita; soffia nel cuore degli uomini e vi risveglia i più nobili sogni, le più ardue imprese che portano avanti verso la libertà e la verità la coscienza. Lo Spirito di Dio è sopra Gesù, per comunicare a tutti gli esseri nuovi impulsi di grandezza, di nobiltà, di bellezza. Gesù è al centro dell'annoso cammino dell'uomo. In Lui l'umanità sofferente, caotica, deformata dallo spirito di avidità, di potenza, di non-verità, ritrova il suo cammino verso un armonioso equilibrio e una matura illuminazione. Gesù è al termine delle ère che lo hanno preceduto e all'inizio di quelle che verranno dopo di Lui. Con Lui principia l'èra dell'amore-comunione, dell'amore gratuito, non deformato da nessuna finalità, dell'amore in sé come modo di essere e come dimensione di pura gioia. L'amore libero e immotivato, come il canto dell'usignolo nelle notti di maggio, amore che si offre senza domandare ricompensa, riconoscenza, gratitudine; amore che annulla la giustizia come il fiore che muore nel frutto: «Date senza richiedere indietro» (Lc 6, 30); «A chi ti chiede la tunica da anche la camicia» (Lc 6,29); «Sii in comunione con i tuoi nemici» (Lc 6, 28); «Getta continuamente allo sbaraglio la tua vita se vorrai conquistarla» (Mt 10, 39); «Quando sei nel tempio per presentare i tuoi doni, non fermarti a pensare a Dio, ai tuoi peccati, alle tue necessità: interrogati se sei in comunione con gli uomini» (Mt 5, 24). L'offerta continua di noi stessi dilata la coscienza al di là dei suoi limiti, la riempie di fame e di sete dell'infinito, fino a renderla una sola realtà con l'immensità divina portata da Gesù all'uomo.


IL CALICE DI CRISTO Giovanni Vannucci, «Il calice di Cristo», in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984. 29a domenica del tempo ordinario - Anno B. Pag. 176-179.

Fra Gesù e i suoi primi seguaci vi fu sempre, palese o latente, questo dissidio: Egli, assertore e predicatore del Regno dei cieli; essi, aspiranti al regno della terra. Egli, glorificatore in ogni occasione del Padre celeste, loro glorificatori di Lui stesso, ma per goderne di riflesso i vantaggi. Palese e latente il contrasto Gesù-Satana continuava. Egli predicava il distacco da ogni cosa materiale; loro immaginavano delle nuove forme per nuovi attaccamenti. Egli invitava a cercare il regno di Dio e la sua Giustizia affidando il resto nelle mani del Padre; loro si affannavano per avere i primi posti in un immaginario regno terreno. Quante volte l’occhio di Gesù dovette velarsi di tristezza, guardando il gruppo litigioso dei suoi discepoli! Eppure quegli uomini meschini erano il seme dei secoli futuri, erano i peccatori che avrebbero generato dei santi. Quando Giacomo e Giovanni domandarono di avere i posti più onorifici nel suo Regno (cfr. Mc 10, 37), gli altri discepoli si indignarono. Gesù, con mansuetudine, dà, agli uni e agli altri, la stessa mirabile lezione. Il regno di Dio può essere conquistato effettivamente; ma l’energia di coloro che lo vogliono raggiungere deve dirigersi in senso contrario alla loro naturale tendenza. L’Assoluto e il relativo sono due modi contrari, nessuno può viverli insieme, è necessario scegliere. Lavorando per se stessi, per la propria gloria, per avere i primi posti, si lavora per Satana; lavorando per il regno di Dio, nella più assoluta generosità, senza attendersi alcuna ricompensa, si lavora per Iddio. Questa scelta è la crocifissione del proprio io e delle sue limitate ambizioni, è il calice della passione che deve essere bevuto da chiunque compia il pellegrinaggio verso l’Assoluto. Il Regno dei cieli è il rovescio dei regni terreni: il sovrano del primo è colui che dà la sua vita per gli altri; quello del secondo domina ed esercita il suo potere sugli altri. Gesù, mostrando la vanità delle ambizioni dei discepoli, dice: «Se volete esser accolti dal Padre, conoscere la gioia inesprimibile del suo amore, siate gli ultimi, lasciatevi calpestare, lasciate che la gente vi prenda e vi getti, come un fanciullo che butta via il frutto che l’ha saziato; lasciate che le vostre mani, ricolme di doni di vita, vengano ferite. Siate i servi, gli schiavi di tutti, sarete i primi nel regno di Dio. Il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita per la salvezza di molti». « Bere il calice di Cristo »


II punto di passaggio tra l’Assoluto e il relativo, tra il Regno dei cieli e il regno della terra è indicato da Gesù con la metafora di « bere il calice » (cfr. Mc 10, 38-39), che, al termine del colloquio, spiega direttamente: «II Figlio dell’Uomo non è venuto per esser servito, ma per servire all’elevazione di molti, dando la vita» (Mc 10, 45). Dare la vita per gli altri è il nuovo lievito portato alle coscienze perché sia formato il pane nuovo per l’eterna Eucaristia. I discepoli erano la prima pasta in cui il nuovo fermento veniva immerso, le loro chiacchiere e litigi appartenevano a un tempo ormai tramontato, a loro era richiesto l’attivo silenzio del concepimento della novità cristiana. La loro fecondazione, una volta compiuta, sarebbe stata l’annuncio nuovo, la buona novella, l’apparizione di creature umane nuove che avendo, nel dare la vita per gli altri, abolito tutti gli incubi di potenza, sarebbero state l’inizio di una vita più intensa, di una gioia più inebriante per tutti i viventi. Dare la vita, devolversi con tutte le forze al servizio della vita e della gioia degli altri, è l’essenza della novità cristiana; accrescere la propria personale vita, involversi in se stessi per attuare i propri sogni di potenza e di ambizione è l’essenza del mondo che non vuole concepire la Parola eterna. Donare la vita all’Assoluto, all’assoluta Verità, all’assoluto Amore, all’assoluta Libertà, costituisce il principio segreto, vitale, esoterico della novità cristiana che, una volta capito e attuato, opera i più grandi prodigi, il massimo dei prodigi: l’incontro fecondo della materia e dello spirito, della parola e del silenzio che, separati dal peccato antico, ritrovano unità in Cristo e nei suoi discepoli. L’apostolato dei discepoli nasce e nascerà sempre nel silenzio del concepimento della Parola eterna; allora la loro bocca dirà parole vere, le loro mani compiranno azioni giuste. «Bere il calice di Cristo» allora è, non tanto il subire le incomprensioni, le persecuzioni, la morte del corpo fisico per mano dei persecutori, ma la trasformazione interiore nella realtà del Maestro, l’abolizione di tutte le mète e aspirazioni dell’uomo naturale ed estroverso, per assurgere all’unità assoluta in Cristo e per mezzo di Lui nel Padre. Il discepolo che raggiunge l’unità con Cristo non può più separare se stesso dagli altri, vive una fraternità superiore a quella della carne e del sangue, cessa di essere un frammento, e quanto l’uomo naturale infranse ritorna in Cristo alla semplicità dell’unità, fuori dalla complicazione della molteplicità. «Bere il calice di Cristo» ha, come primo compito, quello di riportare la frammentarietà degli umani alla semplice unità del tralcio con la vite, e quindi di demolire ogni costruzione personalistica ed egoista che in ogni uomo tende appunto a separare, a dividere, a moltiplicare. Ogni sentimento di essere o voler essere il primo, il più elevato, il più elogiato, tramonta nella nuova realtà di sentirsi strumento, servo, supporto di una vita protesa nel dono di sé e che, quando è percepita, risveglia negli altri l’assopita dignità di figli di Dio.


«II calice di Cristo» è bevuto da coloro che sanno dare la propria vita. Con questo dono, silenzioso e vivo come un concepimento e una nascita, vengono creati nell’umanità dei nuovi ritmi, dei nuovi mondi. Senza primi o ultimi, senza maestri e discepoli, senza capi e sudditi, il mondo si rinnova, nuove prospettive nascono, nuove sensibilità ridonano fiducia al cuore umano. E i discepoli apprenderanno che il più grande dono di Cristo, non sono i primi e più onorati posti nella nuova umanità, ma quello che li rende capaci di donare se stessi, liberamente, spensieratamente, con gioia.


IL BUON PASTORE Giovanni Vannucci, «Il Buon Pastore» - 04 a domenica di Pasqua - Anno B; in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 78-81.

Tra le tante voci che risuonano nel cuore della vita quella di Cristo rimane quasi sempre la meno ascoltata, la più respinta, la pietra scartata dai costruttori. Eppure su di essa e per mezzo di essa viene promossa e attuata la Redenzione. A noi cristiani che ci consideriamo i costruttori del nuovo tempio, il testo di Gv 10, 11-18 pone una ben precisa domanda: ascoltiamo la voce del Buon Pastore, ci riconosciamo in essa? Il Buon Pastore chiama per nome le sue pecorelle, e queste rispondono alla sua voce. Ciascuna risponde al nome che il Buon Pastore le ha dato, nessuna risponde per un’altra, e a nessuna è stato dato l’incarico di nominare le altre. Questo fatto rivela il profondo tessuto della nuova umanità redenta: il Buon Pastore, quale madre per i propri figli, ha dato la vita alle e per le sue pecorelle, le ha concepite nell’Eternità, le ha nominate col loro nome essenziale, le ha fatte nascere nel tempo, e Lui solo le può nominare con il loro vero nome, che non è quello delle anagrafi. Le pecorelle, sentendosi chiamare con il loro nome, lo seguono, perché in esso scoprono il proprio mistero personale, il loro insostituibile compito nella vita. Il nome gridato dal Buon Pastore risveglia l’io immortale di ciascuna, ne accende l’essenza e le apre la via, senza violentarla, verso l’ovile ove ciascuna sarà se stessa e, insieme alle altre, danzerà la gioia della ritrovata unità in Dio. Il tessuto esteriore della nuova umanità che nasce da Cristo non può che essere una trama ordita da un rispetto amoroso per i singoli fili, ognuno dei quali viene percepito, nell’esperienza profonda, come voluto e creato dal Buon Pastore. Osservando invece l’ordito storico della cristianità, vediamo che alla voce del Buon Pastore e ai nomi da lui gridati si sono sostituite altre voci, altri nomi e in conseguenza la stoffa si è dilacerata. Perché le interpretazioni umane della voce di Cristo, le ideologie che attorno vi sono state costruite, le forme che affermano di trasmetterne il contenuto, sono l’opera di altre voci che spesso rendono incomprensibile la voce del Buon Pastore che chiama. Guardando bene gli orditi della veste inconsutile di Cristo, vediamo che essi non sono intessuti da fili formati dalla mano del Buon Pastore. Tutti o quasi si dicono pecorelle fedeli e seguaci di Lui, protestano di non voler riconoscere altro pastore che Lui, ma in quanti sentono e ascoltano la sua Voce? Quale voce sentiamo e ascoltiamo realmente nel nostro cuore, noi cristiani tutti, dal primo all’ultimo? È la domanda che


ci interroga nel brano riportato dal vangelo di Giovanni attraverso la metafora del Buon Pastore. Tra il piacere e il dovere, tra la facile soddisfazione e il sacrificio per il rispetto dell’altro, tra la sete di potere che reclama tutto per sé, anche il possesso esclusivo di Dio e del suo Cristo, e l’amore umile e rispettoso che tutto dona e nulla vuole, quale preferiamo, amiamo e seguiamo? Quante volte preferiamo per ambizione, per debolezza, per cedimento al modo di pensare del gran numero, le voci umane a quella del Buon Pastore? Eppure sentiamo, nei momenti più gravi della vita, l’inanità delle altre voci, nessuna esclusa. Sentiamo per un infallibile senso del divino, che ogni luce, veramente grande e feconda, di vita si è accesa solamente là dove la voce del Buon Pastore è stata accolta e seguita, che nessuna grandezza è comparabile a quella che la voce del Buon Pastore indica e costruisce. Solamente chi pienamente e veramente vive può udire la voce del Buon Pastore; mentre la nostra vita, ordinariamente, è mutilata di ciò che le è assolutamente necessario: è un’energia che si disperde non avendo in sé la sorgente che la nutre e la rinnova. In noi c’è una profonda disarmonia, per cui le varie forze si elidono e paralizzano a vicenda. In alcuni vivono i sensi e lo spirito dorme; in altri lavora e domina l’intelletto e svolge la sua tela sull’astratto, non vibra sull’intensità piena e concreta del pensiero che si accende in sentimento e diviene volontà, attiva ed efficace; altri operano indefessamente, ma non sono illuminati dal pensiero, non sorretti dalla volontà nutrita di conoscenze profonde, e l’azione è più distruzione che costruzione e rinnovamento. Accettiamo una formula, una definizione, una direttiva e in essi chiudiamo l’immenso universo di Dio, che da nessuna mente è concepibile, da nessuna formula esprimibile nella sua vastità. Poi neghiamo ogni formula o comportamento che non siano precisamente i nostri, o quelli che per imposizione accettiamo; respingiamo i nomi delle altre pecorelle perché non conformi a quelli che attribuiamo al Buon Pastore. Siamo simili a chi dissolva il raggio solare nelle sue varie vibrazioni e affermi che il sole intero è contenuto in una sola di esse, a chi analizzi e disciolga un organismo nelle sue componenti e pretenda di trovare l’intero organismo vivente in una di esse. Cristo è l’unità, la vita nella sua infinita e ricca complessità, l’Espressione, la Parola, la Voce di Dio Uno. La sua voce è voce dell’unità: come intenderla, raccoglierla, realizzarla se rimaniamo nella nostra falsità di separazione e di morte? Facciamo in noi l’unità, dentro non fuori; viviamo con umile amore l’unità reale con tutti i nomi delle altre pecorelle. Cristo ha le sue pecorelle in tutti i monti, sotto tutte le bandiere, dentro tutte le più divergenti ideologie. Le ideologie, i sistemi sono frutti della mente umana, il nome delle singole pecorelle viene dal pensiero, dall’amore, dalla volontà di Dio, ed esso, anche quando è differente dal nostro personale, viene sempre da Dio e non possiamo alterarlo senza uscire dall’unico ovile. Allora sentiremo


la sua Voce di amore e di sacrificio che tutto e tutti chiama all’unico ovile del Padre, e vivremo!


IL COMBATTIMENTO INVISIBILE Giovanni Vannucci, in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 101-103. Anno A.

Il discorso della Montagna, riportato in Mt 5,1-12, costituisce l’ottuplice sentiero cristiano: le otto beatitudini sono l’indicazione delle tappe da percorrere e, insieme, la manifestazione di quella rettitudine della mente, della coscienza, della volontà che è l’espressione della verità cristiana vissuta. Il perfetto raggiungimento della statura cristiana si rivela nella perfetta liberazione dello spirito, in quel sorridente distacco che nasce dal lasciare le cose prima che queste ci lascino, nella mitezza, nella luce del cuore, nella compassione verso tutti gli esseri, nell’accettazione serena delle inevitabili sofferenze e opposizioni. Sentiero di ascesa e, perciò, di inflessibile separazione da quanto si oppone alla verità e alla luce, di trasfigurazione del regno umano in quello sovrumano, ove viene celebrata l’unificazione della piccola coscienza dell’Io nell’infinita coscienza dello Spirito.

Il regno umano costituisce la materia informe da fare ascendere nella grandezza dello Spirito , ne è il punto di partenza e di continuo confronto, finché non si giunga alla perfetta trasfigurazione. Il regno umano ha una sua serie di beatitudini: beati i possidenti; beati quelli che cercano le gioie dell’esistenza effimera; beati quelli che affermano se stessi nella ricerca degli interessi temporali; beati quelli che sono impegnati nella conquista dei primi posti sociali e mondani; beati quelli che induriscono il proprio cuore per affermare i propri interessi; beati quelli che impongono la propria volontà di possesso; beati quelli che lottano per abbattere gli ostacoli che si oppongono alla loro volontà di comando; beati quelli che accettano le opinioni comuni, per adagiarsi in tutti i sistemi dominanti e attuare i loro desideri di successo e di comodo vivere.

Il regno sovrumano della redenzione cristiana

capovolge tale serie di beatitudini, determinando, nella coscienza degli individui e della società umana, un processo di combattimento implacabile che cesserà quando il regno umano sarà trasfigurato in quello sovrumano dello Spirito. Il regno sovrumano apparterrà a chi, attraverso la più impietosa spogliazione, ha raggiunto il proprio io spirituale, ed esso è conquistato da chi lotta, nel pianto e nella sofferenza, per i valori assoluti; a chi si arrende alle forze dello Spirito offrendosi ad esse in totale dedizione; a chi, con fame e sete, cerca l’amore della realtà invariabile; a chi diffonde a piene mani l’amore, generoso e regale come figlio di Dio; a chi apre il proprio cuore alla conoscenza che scende dallo Spirito; a chi, superando


ogni particolarismo, ama la vita, per il principio stesso della vita; a chi, avendo raggiunto il supremo stato di coscienza, rimane serenamente impassibile in mezzo a tutte le opposizioni.

Chi s’incammina verso lo Spirito

non è chiamato a impugnare le armi contro il regno umano, ma ad ascendere serenamente finché non abbia raggiunto il vertice della prima e ultima beatitudine, della completa nudità nello Spirito, della spogliazione di tutte le maschere che fatalmente tenteranno di dare una figura alle tappe dell’ascesa; conquistata la cima, sarà nel regno sovrumano e il Regno sarà in lui e, attraverso di lui, illuminerà di luce benevola e amorosa gli esseri che si risveglieranno. Egli sarà come gli angeli che, nella notte santa, cantano la riconciliazione della terra con l’altissimo cielo, e annunciano la pace agli uomini che ritmano il loro passo sul buon pensiero divino. Per essere in pace al regno umano occorrono molte cose: ricchezza, onori, potenza, bellezza, salute, forza, seduzione; esse esistono, ma in numero limitato; chi le ha non le cede, chi non le ha le vuole avere, fa ogni sforzo per impadronirsene, ogni sforzo per conservarle; di qui le guerre continue, gli odii inestinguibili, le cupidigie sfrenate, le invidie feroci, i rancori furenti. Come può il regno umano capire, in queste condizioni, la pace che solo Cristo sa e può dare? La pace del regno sovrumano richiede altre cose: la rinuncia alla ricchezza, alla vanità, all’orgoglio, alla carne, alla casa, alla propria personalità. Domanda di essere nella vita del corpo come se già fossimo assunti alla vita dello Spirito; di passare sulla terra come pellegrini e mercanti alla ricerca del tesoro nascosto e preservarlo in luogo sicuro, e vivere in quella perfetta pace che nasce in chi cerca soltanto la verità. Le guerre, le fazioni hanno tutte un’unica origine: la dimenticanza che il destino dell’uomo è di tendere verso il regno sovrumano. Dimenticanza che regna nella maggioranza degli uomini: tra gli umili e i superbi, tra i poveri e i ricchi, tra gli oppressi e gli oppressori. Dimenticanza che rende impossibile di vivere la vita in quello spirito di gioconda rinuncia che è la caratteristica peculiare del cristianesimo, e impedisce la volontà di essere coscientemente figli di Dio.

Il viandante verso il regno sovrumano vive nel mondo come di passaggio, senza attaccamenti, senza guerre, senza urti, senza contrasti. Ciò che non è suo, beni e legami materiali, agevolmente cede; ciò che è suo, fede, coscienza, libertà spirituale, tenacemente difende. Non teme i persecutori, ma le passioni e le avidità; teme lo spirito del mondo, non i potenti che lo rappresentano! Per questo possederà la terra, raggiungerà la vera consolazione, troverà la pace e la sua fame e sete di giustizia saranno saziate. Per essere viandanti verso il regno sovrumano, occorre molta forza e coraggio, occorre la spogliazione di ogni viltà; pur non avendo nulla da


difendere, essi sono chiamati a battersi strenuamente per la giustizia del regno sovrumano; per questo a loro sarà sempre richiesto molto.

L’invito di Cristo è continuo e costante: seguimi, rinuncia a te stesso, prendi la tua croce, seguimi! senza guardare indietro, senza rimpianti, né desideri, né speranze, seguimi! Perché là dove io sono solo, attendo solo chi mi raggiunge da solo. E verrà un tempo in cui l’umanità rinnovata e redenta dai viandanti verso il regno sovrumano, erediterà una terra santificata dall’amore!


IL CORPO DI RISURREZIONE Giovanni Vannucci, «Il corpo di risurrezione», 32a domenica del tempo ordinario. Anno C, in La Vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, Pag. 218-221.

Gesù Cristo, rispondendo al curioso dilemma postogli dai sadducei che non credevano alla Risurrezione (cfr. Lc 20, 27-38), li riporta alle origini: la sorgente della vita, Dio, è il Dio dei viventi, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, che sono scomparsi dalla terra, però sono sempre viventi; è il Dio dell’uomo. Dobbiamo credere solo nella vita. Nel nostro pellegrinaggio terreno incontriamo tante cose: un corpo che cambia continuamente perché vive, delle vesti, delle case, degli oggetti che diventano nostra proprietà; a un certo momento qualcosa di noi andrà oltre e tutti questi oggetti, queste realtà - vesti, case e altre cose - rimarranno sulla terra, diventeranno proprietà di altri, i quali a loro volta le lasceranno. Anche il nostro corpo un giorno lo deporremo nel seno della terra, ma se noi abbiamo fede nella vita lentamente in noi si forma un altro corpo, che tutte le tradizioni chiamano «il corpo di Risurrezione». Il nostro impegno qui sulla terra è di tessere vigorosamente, generosamente, in un amore sconfinato, questo nostro corpo sottile che andrà oltre, lasciando poi alla terra il piccolo corpo, che una volta deposto in essa farà il suo cammino: si scomporrà nei suoi elementi biochimici, entrerà a far parte di altre esistenze e di altre forme. Ma l’Io eterno che è in noi e che ci viene da Dio andrà oltre. Il cristiano non dovrebbe mettere sulla tomba: «Qui giace...», perché non vi giace nessuno; il nome eterno che ha rivestito quel corpo - corpo che viene lasciato, come tutte le cose della terra, alla terra – è in cammino verso l’infinita vita e l’infinita luce di Dio. Allora nella tomba non giace nessuno. Pensare questo è faticoso, perché millenni di esperienze di paura della morte hanno talmente inciso in noi la figura della morte che non riusciamo a liberarcene. Ma Cristo ci dice: il tuo punto di partenza è la vita infinita di Dio e tu non muori, i tuoi cari non muoiono, gli uomini non muoiono, ma vanno oltre; il pellegrinaggio terreno è importante, perché sulla terra possiamo sviluppare quei germi di vita eterna che abbiamo ricevuto con il nostro discendere sulla terra e partecipare a una vita incarnata. Allora la preoccupazione centrale del nostro essere deve consistere proprio nello sviluppare, nel far crescere in noi il corpo di Risurrezione; tutto il resto non conta. E se vogliamo sapere se noi veramente crediamo alla Risurrezione, dobbiamo domandarci: «Credo alla morte?». Se la risposta è no, vuol dire che crediamo alla Risurrezione.


Il cristianesimo è l’èra della religione del Figlio: il Figlio accetta la morte che è nella vita, ma l’accetta liberamente e generosamente, non per morire, ma per risorgere, per andare oltre. La nostra ragione di fronte a questo vien meno, ma c’è qualcosa di più forte della nostra ragione che ci dice: credi nella vita e nella infinità della vita. Quando passiamo da un confine all’altro, anche qui sulla terra, da una nazione a un’altra, sorpassato il confine, noi rimaniamo gli stessi: portiamo il ricordo del paese che abbiamo abbandonato, ma entriamo in un’altra realtà; e così è la vita. «Io sono la Risurrezione e la Vita» (Gv 11, 25): Cristo con la sua vicenda ci ha mostrato che la morte non esiste, e questa è una cosa che riguarda anche noi. Crediamo nella vita, nella vita senza fine, nella vita eterna, e sentiamo importantissimo il nostro momento nella vita terrena: qui, sulla terra, possiamo acquistare tutta l’ossatura necessaria perché il nostro corpo di Risurrezione viva e ci accompagni nell’infinita vita di Dio. C’è una pulsione nella vita: una forma, la fine di una forma, e il passaggio a una nuova forma. Questa è la Risurrezione: è la continuazione della vita; ma c’è un cambiamento di forme. Ed è importante anche la deposizione della forma, perché ogni nostra cellula ha un doppio aspetto: un aspetto biologico, misurabile, eccetera, e un aspetto invisibile. L’aspetto invisibile è lo Spirito presente in noi, che nella nostra vita - se è generosa, se è aperta, se è positiva, se è creativa - si sviluppa, ma lascia un’impronta anche nelle nostre cellule. Quando andiamo vicino alla tomba di un uomo grande, ci sentiamo presi da qualcosa; questo qualcosa è legato ai miliardi di cellule che sono state deposte in terra. Io credo che lentamente tutta la terra, attraverso questa deposizione di una carne santificata, si trasfigurerà. E cosi, di fronte a una persona cara morta, noi dobbiamo continuare a credere alla vita di questa persona, che non è nella forma che ha deposto. Credere alla Risurrezione è questo. «Coloro che avranno creduto seriamente alla Risurrezione risorgeranno» (cfr. Lc 20, 35-36). Io penso questo: quando varcheremo la soglia della terra ed entreremo nella dimensione dell’aldilà, ognuno porterà con sé la gradualità del suo essere. Un essere infimo, che non ha conquistato niente sulla terra, nella vita eterna rimarrà infimo. Un essere nobilissimo entrerà a servizio delle grandi idee che dirigono la formazione e l’ascesa del cosmo. C’è un linguaggio razionale che non può penetrare in queste cose, ma ci sono dei momenti di contemplazione, di silenzio assoluto, nei quali queste cose scendono in noi e diventano certezze. Allora le sveliamo attraverso l’immagine, attraverso un linguaggio del tutto insufficiente; confrontando poi la nostra esperienza con l’esperienza di altri spiriti, abbiamo una buona possibilità di certezza.

Preghiera


Ridonaci, o Signore, il senso della tua Risurrezione, aiutaci a superare tutta la nostra mortificante inerzia, a vivere la tua Vita. Riaccendi nel nostro cuore il tuo amore-passione, il tuo folle amore per il rischio, la tua incrollabile fiducia nella vita. Ridonaci la passione per la vera vita dell’uomo, l’ardimento di anteporre a tutto il compimento del tuo amore. Liberaci da ogni tiepidezza, perchÊ possiamo portare a tutti gli esseri il tuo annuncio di pace e di fiducia.


IL DONO DELLO SPIRITO Giovanni Vannucci, «Il dono dello Spirito», Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 66-68.

I discepoli erano chiusi nella loro casa per timore dei Giudei. Gesù venne in mezzo a loro e disse: «Pace a voi. Come il Padre inviò me, così io mando voi». Alitò su di loro, dicendo: «Prendete lo Spirito Santo, a chi toglierete le colpe saranno tolte; a chi non le toglierete saranno trattenute» (Gv 20,21-23). Prima di passare a considerazioni di commento, fermiamoci su un aspetto importante di questo episodio che ne costituisce la chiave. Esso descrive il primo incontro del Risorto con i discepoli: questi avevano tutti, eccetto Giovanni, tradito e abbandonato il Maestro alla sua tragica sorte. Nell’incontro non una parola di rimprovero, di condanna del loro operato, ma solo l’offerta di un nuovo dono di vita: lo Spirito Santo, che li avrebbe resi portatori della misericordia divina a tutti gli uomini. Ed è bene sottolineare l’aspetto di questo dono: non è il potere di discriminazione tra i giusti e i non giusti che viene loro concesso, ma l’onere gioioso di trasmettere il perdono dello Spirito; esso attraverso di loro si diffonderà nel cuore degli uomini: i cuori disposti ad accoglierlo troveranno una più intensa vita, i cuori non disposti ne rimarranno esclusi. Chi l’accoglierà avrà la pace di Cristo, della nuova vita; chi lo rifiuterà vivrà fuori dall’onda di pace. Gesù conferisce ai discepoli lo Spirito Santo, la forza vitale della nuova creazione, e lo fa alitando sul loro viso, come fece l’Eterno quando rese anima vivente il primo uomo di creta. Comunicando loro lo Spirito Santo, congiungendoli mediante lo Spirito Santo col Padre, li rende apostoli, inviati dallo Spirito che in loro è disceso. Portatori e irradiatori della nuova vita, come lo specchio che riflette la luce del sole e ne è insieme portatore e irradiatore, portatori di una vita che è in loro ma non è loro, la vivono e la manifestano, non la manipolano, ne sono il supporto, lo strumento, nient’altro, la loro fondamentale preoccupazione sarà di vivere la nuova vita, di illuminarsi della nuova vita. La luce e la vita si comunicheranno a chi è pronto ad accoglierle, lasceranno nella non vita e nella tenebra chi non vuole risvegliarsi. In altre parole, gli inviati dello Spirito Santo non hanno ricevuto l’investitura di erigere dei tribunali, ma la responsabilità di illuminarsi della luce dello Spirito per irradiarla, come dono di pace, a tutte le creature. Essi sono mandati nel mondo non per giudicarlo, ma per comunicargli il nuovo soffio vitale della misericordia e della pace. Chi accoglierà lo Spirito sarà liberato dal peccato della separazione, della discordia, dell’opposizione; chi non l’accoglierà rimarrà nella sua condizione di creatura distaccata da Dio e dalla redenzione. È lo Spirito che toglie o trattiene i peccati, che lava o macchia ancora di più a seconda che uno l’accolga oppure no.


«Prendete lo Spirito Santo, a chi toglierete le colpe saranno tolte; a chi non le toglierete saranno trattenute»: sono parole che additano un mandato, un impegno affidato agli uomini nei quali lo Spirito nuovo di Cristo è presente. Spirito che, simile al respiro, domanda di venir accolto e vissuto, non teorizzato, ma respirato perché discenda e ravvivi totalmente chi l’accoglie. Dal modo di vivere il dono dello Spirito dipende la remissione o la non remissione dei peccati. Chi l’accetta con fede, chi immette nel dono dello Spirito la parte migliore di se stesso e, rinnegando tutte le separazioni egoistiche, assurge alla novità della vita insufflata da Cristo, diviene luminosa realtà spirituale, l’arioso tempio eretto nello Spirito. Per chi non ha questa fede, per chi questa fede non sente, per chi non è pronto a morire per questa fede, il dono dello Spirito non ha significato alcuno. Noi che abbiamo vissuto il dramma della morte-risurrezione di Cristo e aneliamo a una realizzazione spirituale, dobbiamo, scendendo nel profondo del nostro essere, domandarci: crediamo nello Spirito? La risposta è impegnativa, perché credere nello Spirito vuol dire attuare la nuova vita del Risorto, respirare il suo respiro, rinnovarci nel suo alito creatore. Non si può vivere la vita di Cristo senza morire al vecchio uomo, all’uomo plasmato di inerte creta. Alla nuova vita si giunge attraverso la morte a tutte le vetustà, a tutte le opposizioni che sono in noi, per immetterci nella nuova realtà della vita portata da Cristo che ci forma e ci rende una sola cosa, attraverso l’ardore dello Spirito, con il Figlio e con il Padre. Allora l’uomo apprende ciò che è: nato di terra, terra; nato di spirito, spirito, e, puntando tutta la sua energia nella sua terribile natura, raggiunge la conoscenza della sostanziale realtà di essere spirito immortale, spirito eterno. Figlio del Padre, l’uomo di creta si trasforma in uomo dello Spirito. Non giudicherà le opere degli uomini, ma tutti esorterà a raggiungere la nuova vita dello Spirito insufflata dal Risorto nei suoi discepoli. Come lo Spirito Santo irradierà pace, perdono, fiducia nella vita. Avrà in mano la chiave di tutte le chiavi, la conoscenza di tutte le conoscenze perché conoscerà nel proprio mistero il mistero che tortura l’anima del fratello che gli sta accanto; farà del tormento del proprio fratello il proprio tormento, farà della gioia altrui la propria felicità. Il peccato verrà annullato, la luminosa realtà dello Spirito irradierà le anime. Non vi sarà più né giudizio, né assoluzioni; né padrone, né servo; né medico, né ammalato; né oppresso, né oppressore; non vi sarà più il male, essendo uno solo il male: quello che soffre l’altro e che nessuno, per alcuna cosa al mondo, vorrà causare all’altro. Lo Spirito Santo non avrà preso possesso di tutti finché ci sarà una coscienza da illuminare, una miseria da riscattare, un dolore da consolare, un peccato da comprendere. Fino a quando l’uomo non riconosca nell’uomo un fratello suo e, come tale, l’abbracci, lo difenda e lo onori; fino a quando l’uomo sarà separato dall’uomo dalla fazione, dalla parte, dal pregiudizio, dal preconcetto, dalla setta; fino a quando l’uomo non identificherà il suo dolore nel dolore che piange al suo fianco. Illuminare le coscienze, riscattare le miserie, comprendere il peccato, liberare l’uomo da tutte le


divisioni e separazioni, significa ritrovare lo Spirito Santo oltre i rituali e le dotte interpretazioni e insufflarlo nella vita perchĂŠ abbia finalmente la pace di Cristo.


Sentirci tutti amati da Dio Giovanni Vannucci, omelia pronunciata domenica 17 luglio 1977 durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 19 nell’eremo di San Pietro alle Stinche - Greve in Chianti, FI). Pubblicata in Nel cuore dell’essere, collana «I mistici» Mondadori editore, Milano, 1998. «sentirci tutti amati da Dio» pag. 110-114, 16 a domenica del tempo ordinario Anno C.

La parte più giusta è quella scelta da Maria che, nonostante il grande indaffararsi della sorella Marta, rimane ferma ai piedi di Gesù e ne ascolta le parole. E Marta si lamenta. E Cristo le dice: una cosa sola è necessaria all’uomo, e Maria ha scelto la parte più giusta. In questo episodio io vedo raffigurata la storia di noi cristiani. Una parte, una gran parte di noi cristiani si agita in un’infinità di cose, anche cose buone, attività, iniziative caritative, predicazione, evangelizzazione, annuncio della Parola ai popoli dove la Parola non è stata ancora portata. E in questa agitazione siamo presi da mille cose: organizzazione, strutture, associazioni potenti, incanalazione della parola di Cristo attraverso le vie di affermazione di una idea, attraverso le vie della diplomazia, della politica, ecc. E questa gran parte di cristiani, che, credo, siamo quasi tutti noi, è raffigurata dalla persona della sorella Marta, che traffica per la casa. Poi, a un certo momento, non ne può più e dice a Cristo: manda mia sorella a darmi una mano! E sente una risposta che non si aspettava certamente: una cosa sola è necessaria, e Maria ha capito. E anche per noi cristiani una cosa sola è necessaria: mettersi silenziosamente ai piedi di Cristo per cercare di capire quello che è Cristo, per poter vivere quello che è Cristo; dopo verranno le iniziative, le agitazioni e le opere, ma prima dobbiamo cercare che il nostro essere sia trasfigurato e trasformato dalla presenza silenziosa di Cristo. E qual è - non so se vi siete mai domandati - la verità più assoluta, più importante, più essenziale, più semplice anche, che Cristo ci ha portata? Noi diciamo: l’amore del prossimo. No, l’amore del prossimo è una conseguenza di una pienezza che dobbiamo raggiungere personalmente, perché se poi guardate cos’è l’amore del prossimo di noi cristiani, c’è da rimanere piuttosto stupiti: perché basta che il mio prossimo abbia una tessera di partito differente dalla mia, che io comincio ad amarlo meno; oppure che abbia delle idee diverse dalle mie, idee religiose, anche idee scientifiche, io comincio ad amarlo meno. Se poi questo prossimo mi è antipatico oppure è in una situazione o psicologica o fisica che urta la mia sensibilità, io lo comincio a guardare come un sottoprossimo, un prossimo da amare, ma con minore intensità. Quindi l’amore per il prossimo non è la verità essenziale che Cristo ci ha dato, ma ci ha detto una verità di cui dobbiamo appropriarci, e Maria l’ aveva capita, Marta no. E la verità essenziale del cristianesimo io penso sia questa: dobbiamo sentirci tutti amati da Dio. Prima che noi esistessimo, nel silenzioso mondo del nulla, un amore ci


amava e un amore pronunciava il nostro nome che poi è apparso all’esistenza. Ve lo siete mai detto questo nella vita, che siete amati da Dio? E che dovete rispondere a questo amore di Dio? C’è un certo pudore nella nostra vita intima cristiana, che ci impedisce di dirci chiaramente queste grandi cose: io sono amato da Dio. Proprio io, nella mia realtà, intelligente o non intelligente, dotato o non dotato, abile o non abile, forte e vigoroso fisicamente oppure non vigoroso fisicamente, libero nei miei movimenti fisici oppure handicappato. Comunque sia la nostra realtà, noi siamo amati da Dio. E nella forma che abbiamo qui sulla terra, con la nostra intelligenza, con la nostra volontà, con i nostri sentimenti, con la nostra realtà fisica, qualunque essi siano, noi siamo il frutto di un amore infinito, che è l’amore di Dio. E quando cominciamo a sentire profondamente nel nostro essere questa verità, allora il nostro modo di comportarci con gli altri è diverso. Perché se io so di essere amato da Dio e so che ogni uomo che viene all’esistenza e ogni creatura che appare all’esistenza è il frutto di un amore infinito, il mio comportamento cambia. Ma per capire che gli altri sono amati da Dio come io sono amato, bisogna che io mi persuada e compenetri quest’idea. Dopo possiamo agire. E allora la nostra azione sarà l’azione di uomini illuminati da questa certezza di fede, da questa certezza interiore. E io penso che una delle regole per poter capire veramente e sentire e vivere veramente questa elementare verità cristiana che Cristo ci ha portato, è dovuta anche alla nostra ragione. Come può lo storpio essere amato da Dio? Come posso io nei miei limiti, con le mie ombre, con le mie insufficienze, essere amato da Dio? La nostra ragione allora avvolge questa percezione di fede da una infinità di dubbi, di incertezze, e rimaniamo fermi. E nonostante questa nostra mancata persuasione, di essere amati da Dio, vogliamo operare cristianamente nella vita. E non possiamo operare perché non abbiamo questa certezza profonda che ci rende sereni, ci rende fiduciosi, ci rende pieni di speranza. Qualunque sia la nostra realtà umana nella vita. E allora abbiamo attorniato Cristo, che sta sempre in mezzo a noi - “Io sarò con voi fino alla consumazione dei secoli” -, lo abbiamo attorniato di teologie, di interpretazioni, di leggi, di codici di morale, di direttive di comportamenti umani, lo abbiamo attorniato di politiche, lo abbiamo attorniato di una infinità di cose che nascono da noi. E per poter ritrovare la vivezza di questa verità che Cristo comunica continuamente a noi uomini, bisogna spogliarci di tutte queste cose e riavvicinare Cristo con la semplicità della sorella di Marta, in silenzio, per ascoltarlo. Non so se vi siete mai posti questa affermazione: io sono amato da Dio! Perché se in noi c’è questa certezza, allora avviciniamo gli altri al di là di tutte le definizioni, di tutte le etichette che ordinariamente vi appiccichiamo noi uomini. Non mi interessa di sapere se uno è bianco o nero, rosso o giallo. Non mi interessa di sapere se uno appartiene a un movimento politico o a un altro movimento politico, perché il mio rapporto si fa immediato e punta verso l’essenza dell’altro, che non sono le idee, i pensieri, gli orientamenti religiosi o altro del genere, ma è l’essenza, è l’uomo, ed è


amato da Dio come io sono amato da Dio. Allora nasce una nuova socialità, che abbatte tutte le barriere e tutte le divisioni. Il nuovo rapporto fra uomo e uomo è stabilito da questa certezza di fede profonda. E credo che nel nostro tempo noi cristiani siamo chiamati ad avvicinare Cristo con quella semplicità e quel silenzio con cui Maria lo ha avvicinato. Mettersi al di fuori di tutte le faccende, di tutte le nostre preoccupazioni di apostolato, di evangelizzazione, di affermazione del cristianesimo o del cattolicesimo, e andare dritti ai piedi di Cristo e ascoltarlo in silenzio, perché la sua realtà scenda in noi e perché nella nostra coscienza nasca questa certezza vivificante e trasformatrice: noi siamo amati da Dio e ogni essere umano che incontriamo sulla terra è un frutto dell’amore di Dio, nelle sue differenze, nelle sue ombre, nelle sue diversità. E’ un frutto che è apparso nella vita come atto di un amore infinito, dell’amore infinito di Dio. E allora fra noi uomini sicuramente nascerà una nuova socialità, un nuovo rapporto di amore e allora potremo veramente cominciare ad amare, ma sarà un amore che scaturisce, spontaneamente, da una trasformazione che viene operata in noi da questa certezza: che noi tutti siamo amati da Dio. E credo che il nostro tempo, come vi dicevo, richieda, da noi cristiani, questo ritorno silenzioso vicino a Cristo per apprendere questa grande verità, che tutti siamo figli di Dio. Come ogni figlio è frutto di un amore, così anche noi siamo il frutto dell’amore di Dio, senza nessuna distinzione, senza un più o un meno. Ecco, questa grande verità la dobbiamo vivere, e vivendola troveremo i modi giusti per annunciare la rivelazione cristiana che non deformeremo più con visioni, mete, organizzazioni umane, ma la trasmetteremo da cuore a cuore, silenziosamente, perché sostenuti dalla certezza che siamo amati da Dio. Tutti, senza distinzione.


IL NUOVO RESPIRO Giovanni Vannucci, «Il nuovo respiro», 06a domenica di Pasqua, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 78-80.

Potremmo definire il brano di Gv 14,15-21, insieme ad altri brani naturalmente, la genesi, la nascita dell’uomo nuovo nella nuova realtà coscienziale di Cristo. «Se mi amate, custodite le mie parole-germi». Amare Cristo significa rispondere attivamente all’Amore infinito che ci avvolge e ci feconda; custodire le parole di Cristo, vuol dire preparare loro la matrice adatta ad accoglierle, farle germinare e nascere, riceverle nella loro originaria forza, con forte umiltà che ci aiuti ad allontanare qualunque altra energia germinativa che nasca dalle zone egoistiche del nostro essere personale. L’opera di ascesi, di purificazione, di offerta totale di se stessi alle forze santificatrici della grazia, richiesta ai fedeli di ogni verbo religioso, risponde alla necessità di proteggere, in una matrice incontaminata e adatta, le parole-seme di ogni rivelazione; solo quando esse trovano una terra gentile, pura, nasce l’uomo generato da Dio. Quando la matrice è pronta, allora Cristo nasce e l’uomo nasce, la parola si fa carne, la carne si fa luce e l’uomo impara ad amare. In questo abbraccio fecondo, luminoso, senza ombre, la suprema invocazione di Cristo: «Pregherò il Padre che mandi il Consolatore», si rivela energia trasformatrice che dinamizza la terra, la carne, il sangue e li fa fiorire in uno spazio nuovo: lo Spirito; lo Spirito si fa carne, la carne diviene Spirito. Il respiro dell’uomo è unito a quello di Dio, il respiro di Dio è unito a quello dell’uomo, nasce il nuovo soffio, il nuovo alito divino-umano. Il fango sale verso la luce, la luce si riveste di materia. Questo è lo Spirito di verità, il vero respiro di Dio e dell’uomo. L’uomo che non si apre al nuovo ritmo gioioso, non può vedere, conoscere la novità: rimanendo chiuso nelle vecchie mura, non può aprirsi alla luminosa vita del nuovo respiro. L’uomo non è più orfano, il nuovo respiro lo rende fecondo, la sua fioritura e crescente fruttificazione sono il perenne ritorno di Cristo. Cristo torna quando il tempo umano cessa, quando lo spazio umano si infrange nell’infinito divino; quando il tempo si spoglia della sua caducità, la terra perde i suoi pesanti limiti e l’uomo comprende che non c’è più la morte, la risurrezione ha trasformato la morte in una provocazione assoluta alla vita. Nel nuovo respiro la terra dona i frutti attesi da millenni, luce visibile, luce che tutto compenetra, amore per la terra e per il cielo, per ogni essere esistente, amore che disvela l’universo nel suo vero significato di gloriosa manifestazione dell’Invisibile: il cielo è ormai sulla terra fino alla consumazione delle ère.


Nel nuovo respiro l’uomo potrà vivere la vita, quella vita che si apre il varco attraverso tutte le morti, e avanza, potente e gioiosa, finché rimarrà una morte da oltrepassare. Allora sapremo che Cristo, il Vivente, è nel Padre, che gli uomini viventi sono nel Figlio e il Figlio è in loro nella sconfinata gioia di aver ritrovato la loro vera natura di figli dell’unico Padre. I viventi, fecondati dalle parole-seme del Figlio, ameranno, il loro amore sarà illimitato come l’amore del Padre. Vivranno; non parleranno della vita, vivranno. Le vecchie gloriose istituzioni crolleranno tarlate, rimarranno un esercizio per i dotti cultori del passato, trionferà la vita che dal Padre trabocca nel Figlio, dal Figlio ai figli, dai figli risale gioiosa alla sua prima sorgente. I figli, che respireranno il nuovo respiro divino, andranno incontro all’uomo, a ogni uomo di qualunque colore sia la sua pelle, l’inviteranno a costruire la novità, ove ciascuno è se stesso e tutti si sentiranno destinati a vivere l’amore per l’amore, saranno una nuova stirpe di uomini animati dalla fede fino all’abbandono, alla totale rinuncia della propria volontà, stirpe chiamata a edificare, in un impeto travolgente di amore, il nuovo tempio. Il nuovo soffio divino, energia essenziale e totalizzante, coinvolgendo tutto l’uomo, rivelerà la verità delle cose create, l’eterno nella caducità delle cose e degli eventi, il permanente nelle forme illusorie ed effimere, manifesterà le conquiste della mente nel doloroso svolgersi delle vicende umane, inizierà le coscienze alla vita di contemplazione e il cuore inquieto vi troverà la pace. Il nuovo respiro illuminerà la mente rendendola attenta alla parola eterna, docile alla sua silenziosa operosità. Il nuovo respiro si rivelerà come vita, non arida e lontana dottrina; le sue impulsioni vitali appariranno non astratte parole ma modi possibili di essere, tendenti a rendere spirituale la mente che vive di essi. La Sapienza rivestirà le coscienze, attuandosi in una viva comunione con il Padre, unione con noi da parte di Dio, unione con Dio da parte nostra. L’Intelletto sarà l’apertura del fiore mentale, la mente concreta sarà fecondata dal nuovo respiro, la Verità ci offrirà le sue preziose perle. La mente dischiusa dall’amore, libera dalle leggi degli istinti e degli impulsi egoistici, sarà dotata del dono del Consiglio e avrà pace in una conoscenza illimitata. La Forza abiterà nel cuore che non tremerà più per le avversità e le tentazioni, e sarà nell’amore il signore delle forze della natura conoscendole nel loro profondo. Una nuova qualità colmerà l’uomo interiore, la Pietà, guida sicura verso il segreto cuore delle creature, risposta instancabile a tutte le domande d’amore. Il Timore verso l’Assoluto silenzioso perderà il suo terrificante aspetto, si libererà da ogni forma di paura, e manifesterà il suo vero volto di umile amore verso il Padre e le sue creature. Il nuovo respiro, rinnovando l’uomo intero, sarà l’inizio di un canto nuovo, il canto che nasce dal cuore che crede soltanto nella vita, il canto del cuore che ha ritrovato la figliolanza divina. Non ci sarà più morte, ma vita; non più dolore, ma gioia; non più disperazione: ogni uomo saprà di essere una viva pietra del nuovo tempio che lo Spirito innalza nell’uomo e con l’uomo.


IL NUOVO TEMPIO Giovanni Vannucci, «Il nuovo tempio», 03a domenica di Quaresima, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 51-53.

Le parole consegnate da Cristo alla donna samaritana: «È giunta l’ora in cui adorerete il Padre né su questo monte, né a Gerusalemme... È giunta l’ora in cui i veri adoratori adoreranno Dio in spirito e verità» (Gv 4, 21.23) costituiscono, per la nostra attuale coscienza, un enigma e insieme uno stimolo di superamento di quelle forme di chiusura idolatrica che tuttora ci caratterizzano. Le parole di Cristo non ci furono consegnate perché dottamente indagassimo sul loro significato palese o recondito, ma perché le vivessimo penetrando nel loro significato con tutto il nostro essere. Come Gesù ha vissuto il suo insegnamento, così noi cristiani, se vogliamo comprendere la sua parola, dobbiamo viverla. Le parole di Gesù non costituiscono il campo di erudite ermeneutiche, ma sono lo stimolo creatore di un profondo cambiamento di coscienza, senza il quale la più accurata e complicata ermeneutica rimane un sottile gioco di parole. Detto questo, dovrei fermare la penna e smettere di osare l’interpretazione di queste parole; anche il mio tentativo non può che cadere sotto il rifiuto di ogni sforzo ermeneutico. Tuttavia oserò, facendo appoggiare le parole di Cristo non su ciò che altri dotti hanno detto, ma sulla vita di cui e io e i lettori possiamo avere esperienza. Adorazione in spirito e verità! Cos’è lo spirito, cos’è la verità? Da chi l’apprenderemo se non guardando la vita e quel disvelamento che della vita ci danno i testi sacri? La Bibbia è ricolma delle nozioni dello Spirito: è la presenza fecondatrice sulle acque caotiche; è l’energia divina che muove i profeti e gli eroi del Vecchio Testamento; è la forza che rende feconda la Vergine; che guida Cristo nel deserto per affrontare la prova dell’avversario, che lo dichiara Figlio prediletto dopo il battesimo; che rende portatori della novità cristiana gli apostoli il giorno della Pentecoste. Presenza che agisce nella vita nella precisa direzione di trasformazione qualitativa, e della vita dei singoli e di quella dell’umanità. L’adorazione in spirito è resa possibile ad ogni coscienza che si arrende alle forze creative di Dio, sempre in essa operose. Lo Spirito discende sempre nei cuori di quegli uomini che, come Maria, possono dire: non conosco uomo! L’adorazione in spirito è nell’assunzione, senza opposizione o rimpianti di un passato ormai tramontato, di quelle qualità che segnano, nella successione delle ère, la manifestazione dello Spirito. Nel momento in cui furono pronunciate, queste parole contenevano una precisa indicazione che ora, a distanza di due millenni, possiamo afferrare nella sua piena portata: l’adorazione di Dio nei templi costruiti dall’uomo è stata diretta da Cristo


verso la crescita dell’uomo interiore; l’uomo cessava così di essere nel tempio, il tempio si stabiliva nell’uomo. Lo Spirito ormai non poteva più essere chiuso e monopolizzato dalle istituzioni, inevitabilmente parziali e settarie. La religione della Paternità cedeva il posto alla religione del Figlio, l’uomo non era più chiamato ad adorare Dio nella casa del Padre, fosse essa costruita sul Garizim o sui monti di Gerusalemme, ma nel Figlio dell’Uomo e di Dio, lo spirito di sudditanza tramontava e nasceva il senso della figliolanza e della fraternità. «La Parola si fece carne, e in noi costruì il suo Tempio» (Gv 1, 14). Quando entriamo nel nuovo Tempio, ad occhi aperti, in piena consapevolezza, adoriamo Dio «in verità». L’uomo, dopo Cristo, è chiamato ad assumere questa nuova rivelazione dall’interno, a trasformarla in se stesso mediante una trasfigurazione del suo essere interiore che accoglie e compie lo Spirito Santo che la stimola e la promuove. Nel nuovo Tempio entra chi ha gli occhi aperti, chi è pienamente cosciente e della novità che lo Spirito ha in Cristo comunicato agli uomini, e della novità che da Cristo è stata attuata per la redenzione della coscienza umana. Cristo non è venuto nel mondo per essere una bella riproduzione, una bella immagine di Dio da essere posta sugli altari all’adorazione dei fedeli. Egli è venuto per risvegliare in noi la verità della figliolanza divina, per ricordarci la generazione divina dell’umanità. Vi è un Padre comune che è nei cieli, non in un cielo, non nel cielo, ma nei cieli, in tutto l’universo degli universi, nell’essenza stessa dell’universo, e questo mio Padre, Egli ci ricorda, è vostro Padre. Se vostro Padre è Dio, voi siete esseri divini, se siete esseri divini, dovete vivere di conseguenza della vostra generazione divina. Prender coscienza di questo fatto ci rende adoratori in spirito e verità. «In spirito» in quanto con Cristo s’inizia un nuovo ritmo di rivelazione che ci fa sentire figli di Dio e fratelli, figli di un unico Padre, eredi di un’unica eredità. «In verità»: prendendo pienamente coscienza di questo fatto, cominciamo a comprendere che Cristo è insieme Dio per noi e noi per Dio, l’Emmanuele. Dio in noi e noi in Dio, l’Io profondo di ciascuno di noi, e l’Io di tutti gli io umani. «Non sono io che vivo, ma Cristo che vive in me» (Gal 2, 20). Comprendere questo è divenire ciò che Cristo è, e, insieme, divenire ciò che ciascuno di noi è realmente. La generazione di Cristo in noi è la nascita di ciascuno di noi a se stesso; essere cristiani non significa essere seguaci di Cristo, ma essere seme, speranza di Gesù Cristo. Ciò che Egli ha donato all’umanità, l’umanità deve restituirglielo. L’adorazione in spirito e verità è compiuta da quella parte di umanità che con disciplina severa di volontà, di intelligenza, cerca di ricomporre il corpo divino che è stato dilacerato. Se vogliamo che Cristo nasca in noi, dobbiamo distruggere ogni cristallizzazione che di Lui le nostre coscienze hanno fatto ripetendo un modello di adorazione con Lui e da Lui abolito; se non sentiamo con urgenza questa necessità è perché la nostra statura umana non può ancora comprendere l’Uomo, creato a


immagine di Dio. Cristo è l’Uomo, il Figlio dell’Uomo e il Figlio di Dio, noi uomini siamo i vari punti che intercorrono lungo la linea di cui Lui è il Principio e la Fine. Prender coscienza di questo fatto e realizzarlo è adorare Dio in spirito e verità.


IL PANE SPEZZATO Giovanni Vannucci, «Il pane spezzato», 03° domenica di Pasqua, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 69-71.

Sulla strada di Emmaus i due discepoli incontrano Cristo, non lo riconoscono, disputano sulle Scritture lungo tutto il tragitto, ma i loro occhi rimangono ottenebrati. Cristo parla il loro stesso linguaggio, essi fissi sull’idea messianica della loro fede ebraica, nulla intendono. Durante la cena, quando Cristo spezza il pane, lo riconoscono e gli dicono: «Signore, resta con noi perché si fa sera» (Lc 24,29). Dopo la frazione del pane Cristo scompare. Il «pane spezzato» è il punto centrale e risolutivo dell’episodio narrato in Lc 24,13-35; i discepoli non hanno bisogno di toccare le piaghe del Risorto per riconoscerlo, è loro sufficiente il pane spezzato. L’episodio sembra la traduzione in termini cristiani, quindi di pienezza di rivelazione, della scena rituale culminante nella celebrazione dei misteri eleusini, dell’attesa della suprema rivelazione. La celebrazione dei misteri era preceduta dal digiuno, da riti austeri, che aiutavano gli iniziandi a sorpassare i limiti della loro coscienza ordinaria, a raggiungere una capacità percettiva ultrasensibile. Nell’ultima notte veniva celebrata l’epopteia, la visione soprasensibile; in essa il celebrante mostrava agli iniziandi una spiga matura di grano. Questo gesto non era la semplice allusione alla periodica morte-risurrezione del grano seminato nei solchi, ma faceva interiorizzare negli iniziati il processo della vegetazione del grano: essi sperimentavano di essere il seme che, caduto sulla terra, muore e risorge moltiplicato (Gv 12,24), non temevano più la morte avendo visto nascere il frutto eterno dell’anima, l’Io superiore, e acquistato la certezza dell’esistenza sempre nuova dell’Io umano. «Beati quelli che, partecipando alla celebrazione dei misteri, vi trovano quella vita che altri inutilmente cercano» (Sofocle). Il grano, come l’olivo e la vite, hanno accompagnato ed espresso il divenire e le formulazioni della cultura spirituale e sociale dell’umanità mediterranea e occidentale in genere. Essi non sono stati soltanto i tre doni che la divinità ha fatto all’uomo, ma sono gli alimenti vitali che hanno richiesto un assiduo lavoro di generazioni di uomini. Il frumento ha richiesto, prima di raggiungere la forma del pane mediante la fermentazione e la cottura, un assiduo lavoro di generazioni. Dalle primitive elaborazioni dei nomadi, consistenti in farina spenta nell’acqua o in gallette cotte sulla pietra arroventata, al pane fermentato e cotto, l’umanità ha compiuto un lungo cammino di incivilimento. Osservando l’elaborazione della farina di frumento si possono cogliere le caratteristiche di un gruppo; un clan non ancora organizzato improvvisa la cottura in farinate o gallette, un gruppo invece strutturato elabora il suo pane ritualmente; quanto più una collettività si differenzia in famiglie e


individui, tanto maggiore sarà la diversità di panificazione; quando invece una società subisce un processo di massificazione, prevale un unico tipo di pane imposto dall’autorità centrale. Cosicché il pane è il più sicuro simbolo per valutare la libertà personale esistente in una cultura. Questa constatazione ci aiuta a comprendere il significato della spiga nelle celebrazioni misteriche e del pane spezzato nella religione cristiana. Cristo solleva non la spiga, pane in divenire, ma il pane che conclude il processo di morte-vita del grano, e infrange la forma finale della trasformazione del grano. Tenendo presente lo stretto nesso simbolico tra il grano-pane e il processo di individuazione della coscienza umana, ci è dato di comprendere il significato del gesto di Cristo: l’uomo-grano deve morire per raggiungere la sua maturazione nel pane, raggiunta la quale è chiamato, cristianamente, a frantumarsi perché un’onda di più potente vita erompa dalla maturità conquistata. E il pane spezzato rivela l’essenza del mistero cristiano che è consumazione per l’altrui vita, frantumazione delle forme perché la vita ascenda in ritmi più vasti e grandiosi. Il pane spezzato è l’icona che Cristo ha lasciato di se stesso e insieme la rivelazione del mistero ultimo dell’Essere increato e creato. Il mistero divino è pane che si spezza per la fame di tutti, il mistero di ogni vita è frantumazione di forme perché il fluire della vita non sia fermato. Tutto nasce da una forma che si frange. La gemma muore e risorge nel fiore, il fiore nel frutto, il frutto nel seme che, a sua volta, muore e risorge. La morte non esiste, solo la vita esiste e si afferma nella consumazione di tutte le forme raggiunte e nel passaggio ad altre più belle e vigorose. La bellezza della fanciulla sfiorisce nella maternità, si spezza per generare esseri nuovi. I figli migliori dell’umanità vengono perseguitati e abbandonati perché nella solitudine e nella consumazione creino cicli nuovi di umanità. Il pane spezzato è la suprema rivelazione della vita, i discorsi sulle Sacre lettere possono commuovere il cuore, riscaldare la mente, il gesto della frazione del pane sconvolge l’essere totalmente. E il gesto del grano che ha raggiunto il compimento della sua natura nel pane, è il gesto del Figlio di Dio e del Figlio dell’Uomo, è il gesto di ogni io umano che ha raggiunto l’ultimo gradino dell’ascesa. Cristo è sempre dietro questo gesto vivente e pieno d’amore, nessun tradimento, nessuna delusione lo fanno desistere, il suo gesto rimarrà fino alla consumazione del tempo, essendo la legge profonda e stimolante della vita in ascesa. Non rifiuta il suo corpo a chi lo vuole consumare, anche quando l’uomo non vuol più saperne di lui. La rivelazione del pane spezzato, di vivere la nostra personale vita amando, servendo, consumandoci, affrontando tutti i rischi e le morti che vi sono incluse, è il più grande dono che Cristo ci ha dato. In virtù di questo dono, anche noi possiamo dare. Legge severa della vita è il dare; nella natura il dare è necessità,


nell’uomo è frutto di libera scelta. Chi getta la propria vita allo sbaraglio la troverà; dando la vita, il nostro piccolo io fiorisce nell’infinita vita di Dio.


IL PECCATO CANCELLATO Giovanni Vannucci, 07a domenica del tempo ordinario - Anno B - «Il peccato cancellato», in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 123-126.

Il brano di Is 43, 18-25 costituisce un testo misterioso: Dio annuncia al popolo di aver dato l’avvio a una cosa nuova. Il vocabolo « nuovo » nei testi biblici indica un evento che risolve, capovolgendole, le realtà vigenti. La «novità» è in atto e sarà come una nuova pista nel deserto, come una corrente d’acqua che renderà fertile la steppa. Essa è costituita dalla cancellazione dei peccati d’Israele, prospettiva che può avere due sensi: quello, tradizionale, di riduzione a zero delle anteriori passività tra Israele e l’Altissimo con il rilancio di una nuova contabilità, le cui partite, passive o attive, cadano sempre sotto il giudizio divino; quello, nuovo, non mai visto fino a quel momento, dell’inizio di una inaudita corrente di vita che, abolendo ogni senso di colpa e di condanna, avrebbe iniziato una partecipazione più ardente e gioiosa alla creazione divina. Ambedue i sensi sono possibili; nel primo il vocabolo «nuovo» non avrebbe il suo pieno significato di abolizione del passato. Il testo di Mc 2, 1-12, che è quello della Buona Novella, del compimento delle promesse e delle attese antiche, ci indica che la novità promessa da Dio è quella del secondo senso: «Figliolo, i tuoi peccati sono condonati, essi non pesino più né davanti a Dio né davanti a te stesso, alzati e riprendi la vita con nuove forze» (Mc 2, 5. 11). Parole che risvegliano l’opposizione dei dotti che le avevano ascoltate: «Costui sta ingiuriando Dio. Solo Dio può perdonare i peccati» (Mc 2, 7). E nella mente dei dotti il perdono dell’Altissimo, causa prima del condono, avrebbe dovuto passare attraverso le loro prescrizioni e i loro rituali, cause seconde, strumentali, dell’azione divina. Gesù, nella sua solitudine di uomo nuovo, con un gesto, la guarigione, e una parola, «i tuoi peccati ti sono condonati», crea la nuova realtà coscienziale, la certezza che Lui, l’Agnello che toglie il peccato del mondo, ha abolito il peccato, il complesso di colpa, il peso di sentirsi condannato. Non nega, Gesù, il peccato, ma, essendo lui l’atteggiamento positivo di fronte a tutte le manifestazioni dell’esistenza, il «Sì», l’attuazione affermativa delle promesse divine (2 Cor 1, 18-22), induce un nuovo stato di coscienza nell’uomo, quello che guarda con serena saggezza le proprie deficienze e colpe, non per angustiarsene, ma per considerarle nelle loro profonde radici, per capire le immaturità e involuzioni che le causano, e per riprendere il proprio cammino assumendo i peccati come indicazione delle ombre che ancora dominano l’intimo di ognuno.


Placato dal sacrificio di Cristo il nostro bisogno di perdono e di espiazione, rinnovati dal suo sangue a una vita diversa, dobbiamo vivere in quella gioia, in quella fiducia mediante la quale «sale a Dio il nostro “ Amen” per la sua gloria» (2 Cor 1, 20). Nota di gioia e di confidenza che ha costituito la caratteristica spirituale dei primi cristiani e che si è perduta mano a mano che la parola evangelica si è concretata in dogmi e in prescrizioni moralistiche. Se il sacrificio di Cristo ha abolito ogni altra forma di espiazione che convogliava il nostro complesso di colpa, dobbiamo gioire vivendo questa novità che ci urge a partecipare sempre più intensamente all’ascesa gloriosa delle creature umane, senza fermarci in inutili rimpianti, a cercare con la possibile energia quella compiuta maturazione che ci farà sollevare sopra la miseria della nostra carne, e sopra i limiti dell’anima nostra. Assurgendo verso la piena partecipazione dell’onda dello Spirito Santo, usciremo dai limiti di una malintesa inferiorità cui ci persuade il nostro immaturo «io». La novità cristiana non è concessa ad alcuni e negata ad altri, è partecipata a tutti. In essa viviamo, ci muoviamo, respiriamo e siamo. È essa che ci rende consapevoli degli altri, come pellegrini verso lo stesso destino: l’apparizione dell’uomo vero, non più impoverito da inutili timori, da soffocanti complessi di colpa o di inferiorità. Nessuno è maggiore o minore, tutti abbiamo una dimora nella casa del Padre. In questa prospettiva ognuno vede il suo compito e il suo posto come ugualmente onorevole, meritorio e ugualmente faticoso. Il filo d’erba non pensa a competere con la quercia, esso è perfetto come filo d’erba e la quercia come quercia. Non vi è ingiustizia nella distribuzione dei compiti, purché ogni compito sia perfettamente eseguito. Solo chi sa fiorire ove fu seminato obbedisce al mandato! La gioiosa partecipazione cristiana alla vita è materiata di questo: sentirsi a servizio dell’ascesa della vita. In questa prospettiva, cristianamente, non possiamo che accogliere con gioia quanto nelle scienze umane, dalla psicologia alla tecnica, cerca laboriosamente di aiutare l’uomo a essere più libero, ad affrancarlo dai pesi di una coscienza colpevole e di una vita oppressa dal male. Liberandoci dal complesso di colpa e dai suoi derivati, ci avviamo all’adorazione di Dio in spirito e verità che sola può ricolmare di luce infinita la nostra mente creata. Chi nel suo intimo ha provato, anche una sola volta, la vibrazione gaudiosa della novità cristiana, non potrà che dare ragione a queste parole. In quegli istanti tutto è limpido, sereno, armonioso, puro; si è in pace con l’intero creato, ben disposti verso ogni creatura. Sono attimi che indicano che la bontà divina diventa umana nell’uomo. Questo Cristo ci ha comunicato con le parole: «Alzati, prendi il tuo fardello, e non ricadere più nell’intricata maglia delle colpe e delle espiazioni, e cammina gioioso verso la casa del Padre!». Sentiremo che la vita è un grandissimo dono, che va accettato con gratitudine, per creare in noi degli esseri armoniosi, equilibrati e forti; capaci di vivere, di soffrire, di lottare e di vincere sempre, anche quando, apparentemente, saremo


sconfitti. La vita non ha complessi, ha solo dei problemi che la ferma pazienza sempre risolverà. Un’ideale risurrezione è annidata nella coscienza di ogni uomo; Cristo risorgente ne è la causa e il simbolo più vero. Nessuno giaccia nel sepolcro dei complessi, rovesci la pietra degli inutili sconforti, degli inutili malinconici ricordi delle colpe, esca nella gloria del mattino, fuori del sepolcro è la primavera! Chi ama, chi crede, non morirà giammai!


IL REDENTORE Giovanni Vannucci, «Il Redentore» - 03 a domenica di Pasqua - Anno B; in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 74-77.

Le tre letture della terza domenica di Pasqua insistono sulla necessità di un’intima conversione da parte dei singoli uomini, se vogliono rendere operosa in loro la liberazione dal male portata da Gesù Cristo. «Pentitevi e cambiate vita» (At 3, 19); «Chi dice: Lo conosco, e non osserva i suoi comandamenti è menzognero» (1Gv 2, 4); «Nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati» (Lc 24, 47). L’insistenza sulla necessità di unire il cambiamento della vita personale all’accoglienza della Parola di Cristo merita un approfondimento. La linea di ricerca è questa: è l’accoglienza mentale della Parola che provoca il cambiamento della mente, oppure sono le energie vitali del Risorto, mediate dall’annuncio della Risurrezione, a risvegliare e a trasformare la coscienza personale? Stando alle frasi scelte dalle letture di questa domenica si può avere un’accettazione mentale delle Parole del Risorto senza che il desiderato mutamento di coscienza avvenga; «Chi dice: Lo conosco, ma non traduce nella vita il contenuto della conoscenza è un ipocrita». Possiamo quindi stabilire l’itinerario che va dall’accoglienza della Parola al risveglio coscienziale nelle seguenti tappe: ascolto e recezione mentale della Parola, accoglienza delle energie di risurrezione di cui la Parola è il supporto, trasformazione della coscienza. Tenendo conto di questo itinerario si possono chiarificare due termini con i quali ordinariamente designiamo l’opera redentrice della Parola incarnata: Salvezza e Redenzione. Usiamo indifferentemente i due termini, nel nostro linguaggio ordinario, senza pensare che indicano due momenti di un’azione separata. Colui che salva può benissimo non redimere, colui che redime può non salvare con la sua azione. Sosteniamoci con un esempio: se uno schiavo cade nell’acqua e non sa nuotare, annegherà di certo. Se qualcuno, capace di nuotare e di trarlo in salvo, si fermasse a trattare con il padrone il riscatto dello schiavo non farebbe ciò che quest’ultimo richiede: esser tirato fuori dall’acqua. Anche noi siamo nelle identiche condizioni: stiamo annegando nelle nostre debolezze, negli smarrimenti, nelle avidità, nei condizionamenti in noi indotti fin dal seno di nostra madre. Mentre stiamo annegando in questa desolazione, abbiamo bisogno di qualcuno che ci salvi, che ci tiri fuori dal gorgo; salvezza che è, in questo caso, coercizione, violenza che ci viene fatta dall’esterno. Ad esempio, Mosè che fa uscire il suo popolo dall’Egitto è un salvatore. Sotto questo aspetto, tutti gli istruttori che hanno preceduto Cristo, si possono considerare dei salvatori: essi lanciano un gavitello allo schiavo che annega, qualche volta l’afferrano per i capelli e lo portano di forza alla riva. Quando dei riflessi


vengono sostituiti con altri riflessi, delle abitudini con altre abitudini, dei comandamenti con altri comandamenti, viene esercitata una coercizione, sia pure a fin di bene. Ma lo schiavo strappato all’onda rimane schiavo, una volta tratto in salvo non si sentirà allo stesso livello del salvatore, rimarrà schiavo. In questa luce vanno intese le parole di Gesù: «Tutti quelli che sono venuti prima di me, sono ladri e assassini» (Gv 10, 8). Quelli che sono venuti prima della Buona Novella hanno operato e operano in questo modo: salvano la vita dell’anima, sostituendo un riflesso condizionato con un altro riflesso, mutando un atteggiamento esteriore con un altro, non rendendo l’anima cosciente di se stessa. Il salvatore esercita un sottile potere sui salvati, il redentore paga il riscatto consumandosi nella vita dei redenti. La Redenzione opera su un differente piano: perché possa compiersi in tutta la sua pienezza, richiede una risposta, una collaborazione. Bisogna che ci sia il redentore, ma anche colui che vuole essere redento; perché se lo schiavo è inveteratamente schiavo, il redentore non potrà mai farlo crescere a sua immagine e somiglianza. In questa luce vanno intese le parole di Cristo: «Non vi chiamo più servi, ma amici» (Gv 14, 15). La Redenzione non può avvenire senza la volontà di chi deve essere redento, chi è schiavo difficilmente vuole essere liberato. Chi nella schiavitù trova sicurezza, difesa, appoggio, tranquillità, respinge il redentore come un nemico del suo quieto vivere, del suo benessere. Il dramma del Calvario non si è concluso duemila anni or sono: è tuttora in atto! La Redenzione è insita nella natura stessa dell’anima che porta in sé un frammento della luce divina: «Egli è la luce che illumina ogni uomo che viene all’esistenza» (Gv 1, 9). Se nell’uomo non vi fosse questa luce divina, la Redenzione sarebbe priva di significato. Se eliminiamo la presenza di questo quantum di luce divina dall’anima umana, tutta l’attesa della Redenzione, l’azione stessa redentrice cade, non ha significato; può averlo la salvezza, non la Redenzione. Il dramma redentivo è questo: la luce della Parola eterna e creatrice viene accolta dalle tenebre e in esse rimane coperta, soffocata, nel maggior numero delle coscienze. L’oscuramento della luce toglie qualcosa di essenziale alla creazione e alla manifestazione divina in essa. La Redenzione è la rianimazione dei frammenti di luce, l’azione rinnovatrice nella materia, per la materia, contro la materia perché essi tornino a costituire la luminosa rivelazione di Dio nel creato. La Risurrezione ha reso Cristo presente in tutti i punti oscuri della coscienza per rianimarvi la fiammella che stava spegnendosi. Cristo, scendendo nelle tenebre, opera la Redenzione lasciando alle tenebre ciò che è loro, risvegliando e riassumendo la Luce che in esse fu deposta. L’uomo interiore alla presenza di Cristo si rinnova. Cristo distrugge i sogni e le chimere, potenzia l’intelletto e suscita l’entusiasmo del più alto sentire dello spirito.


La Redenzione è illuminazione, è la Luce da Luce che si attua, è il risveglio della propria interiore luce che segna l’inizio del compito umano di crescere alla statura di Cristo. Soltanto chi sente veramente la densità della propria tenebra può attuare in sé la Redenzione, e soltanto chi, per lo sgomento delle tenebre, ha sognato il Redentore può trovarlo.


IL REGNO DI DIO È DENTRO DI VOI Giovanni Vannucci, «Il Regno di Dio è dentro di voi», 03a domenica di Avvento - Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984. Pag. 21-23.

«Dai giorni di Giovanni il Battista fino a questo momento il Regno dei cieli è sottomesso alla violenza, e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11, 12). Con questo versetto, posto quasi a conclusione delle pericopi relative a Giovanni il Battista, il testo acquista un più compiuto senso. In esso vengono riportate le parole di Cristo che stabiliscono una netta separazione tra i modi di conquista del Regno dei cieli propri dei profeti fino a Giovanni, e quelli iniziati da Cristo. Fino a Giovanni, che viene in tal modo a essere il punto di discriminazione tra la vecchia e la nuova economia, tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, i modi di trasmissione e di consolidamento dell’antico patto avevano in comune la nota della violenza. Giovanni è l’asceta, il severo e implacabile predicatore della penitenza, della via del ritorno a Dio contrassegnata da austerità; egli non mangia ne beve - i suoi discepoli digiunano e praticano delle corporali mortificazioni -, rifugge da ogni mollezza, non è vestito di morbide vesti, ma di un cilicio intessuto di peli di cammello. Il principale ostacolo al ritorno a Dio è per lui il corpo fisico che va domato con austerità e digiuni, le passioni vanno imbrigliate con le direttive della giustizia, l’albero umano deve dare frutti buoni se vuole evitare la scure e il fuoco. Di lui Cristo dice: Giovanni è «il più grande dei profeti»; i profeti avevano annunziato il Regno che avrebbe avuto la sua manifestazione nel futuro, il Battista invece fu il messaggero della presenza del Regno. Nonostante questa sua grandezza. Cristo osserva che il più piccolo che viva nel Regno dei cieli è, per questo fatto, più grande di Giovanni. Per afferrare il contenuto di questa frase di Cristo, è necessario che teniamo conto dei tre tipi di Regno ai quali Cristo riferisce il suo pensiero nelle parole concernenti: i profeti, il Battista, il più piccolo del Regno dei cieli. I profeti annunciarono il Regno come futuro, Giovanni come già presente in Colui di cui è l’annunciatore. Cristo rivela lo spazio del Regno dei cieli; dentro di voi, dentro ogni uomo la cui anima si apra alla novità resa manifesta in Lui. I profeti annunziarono il Regno futuro, Giovanni il Regno presente, Cristo il Regno che non è in nessuno spazio terreno, ma nell’intimo di ciascun credente; il Regno è fuori dello spazio, nella dimensione spirituale dell’uomo, fuori del tempo, esso è raggiunto nell’istante della nascita dell’uomo nell’eternità; «È giunta l’ora in cui gli uomini offriranno la loro adorazione in Spirito e in Verità». Così ora possiamo comprendere le parole del versetto citato all’inizio: «Dai giorni del Battista fino a oggi il Regno dei cieli è sottomesso alla violenza». I giorni del Battista sono il passato permeato da elementi di violenza: la legge, i precetti, le


austere istituzioni, la lettera. «Oggi» è il nuovo tempo del Regno di cui Cristo è la perenne sorgente che tutto il passato travolge, instaurando un nuovo rapporto tra la singola coscienza del credente e tutto il reale in cui è inserita. Il Battista, in carcere, sente con turbamento la novità portata da Cristo, e invia i suoi discepoli a chiedergli: «Sei tu l’Atteso o dobbiamo ancora vivere nell’aspettativa?». La risposta inviatagli da Cristo è concreta e affascinante: «I ciechi stanno riacquistando la vista, i muti la favella, i sordi l’udito, i morti la vita; ai poveri, cioè a quelli che hanno deposto e calpestato tutte le vesti, quelle morbide dei benestanti e quelle austere degli asceti, ritrovando in questa spogliazione la pura nudità delle origini, è annunciata la Buona Novella. Ed è sulla via della novità chiunque non vede in me un invalicabile muro per andare oltre». L’ascesi, la legge, i riti, le austerità vengono travolte dall’impetuoso amore di Cristo per la vita e le sue manifestazioni, dalla sua non sopportazione verso tutto ciò che altera, impoverisce la vita. A questo punto sarei tentato di passare in rassegna le numerose opere cristiane a favore dei minorati, degli oppressi da ogni sorta di male, sorte entro l’ambito della cristianità; così facendo perderei di vista il punto essenziale della realtà di Cristo: il regno di Dio è dentro di voi. Ricordandomi questo essenziale aspetto della fede, sono spinto a portare l’onda redentrice in me stesso, prima di tutto, perché rianimi quanto in me c’è di morto, di paralizzato, di alterato, perché rompa le rigidezze, le intransigenze, le opposizioni che sono ancora in me e che rendono la mia presenza in mezzo agli altri ancora contrassegnata dalla violenza. La violenza appartiene al tempo che in Giovanni è giunto al suo termine. Cristo è la Vita, il suo e nostro Dio non è un dio di crudeltà, ma un dio che dona se stesso perché la vita nelle sue manifestazioni avanzi senza impoverimenti o deformazioni. La più alta moralità è nel dono costante, silenzioso, alla vita perché produca i suoi frutti di matura gioia. Abbiamo noi cristiani, dopo duemila anni, varcato, senza inciampare, il muro di separazione? Siamo certi che la sua figura è quella veramente sua, o l’abbiamo ricoperta di lineamenti non suoi? Egli è venuto in mezzo a noi a indicarci che la sua presenza è nella materia, nella carne, nel cuore, nella mente di ogni essere. Egli è venuto in mezzo a noi, perché imparassimo che la sua presenza è nella parola, nei sacramenti, nell’unione dei cuori. Egli è venuto in mezzo a noi, perché vivessimo la sua vita, ci amassimo del suo amore. Egli è venuto in mezzo a noi, perché riempissimo le anfore vuote, inebriassimo, col suo vino, di amore gli esseri. È venuto in mezzo a noi, perché avvolgessimo la terra di canto e di gioia. E le nostre mani hanno costruito le sbarre delle prigioni, hanno imbavagliato le bocche che parlavano liberamente, hanno lacerato la dignità di tanti nostri fratelli, hanno messo in catene tanti fratelli, le nostre mani ancora torturano, uccidono e devastano.



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