Testi di padre giovanni vannucci vol 6

Page 1

Testi di

padre Giovanni

Vannucci

vol. 6 di 6


LA DISCESA DELLO SPIRITO Giovanni Vannucci, «La discesa dello Spirito», domenica di Pentecoste. Anno C, in La Vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, Pag. 97-101.

Pentecoste significa cinquanta giorni, che, nella nostra esperienza, sono quelli intercorsi dalla Risurrezione alla manifestazione vivente dello Spirito nella persona dei discepoli riuniti nel Cenacolo. Gesù Cristo aveva più e più volte parlato dello Spirito e dichiarato che se non fosse tornato al Padre non avrebbe potuto inviare lo Spirito. Noi abbiamo una qualche nozione dello Spirito appresa o dal catechismo o da una più elaborata conoscenza teologica; ma ne abbiamo un’esperienza? E in noi vivente e operoso lo Spirito? Il giorno della Pentecoste segna l’ingresso dell’eternità nel tempo, di ciò che dura in eterno nel mondo dell’effimero e del transitorio. Ripassiamo con la mente il poco o molto che ci è stato insegnato sullo Spirito Santo. Sappiamo che Dio è uno, ma sappiamo che è trino; non tre dei, ma una sola essenza, una sola sostanza in tre persone: il Padre, l’Immanifesto per eccellenza, Colui che È; essendo e non essendo È, Colui che non esiste, ma È, dal quale ogni cosa ha origine, nel quale ogni cosa troverà la sua pace. Il Padre si manifesta mediante il Verbo, il Verbo è mosso dall’Amore. Un’analogia potrà aiutarci a comprendere: ognuno di noi è una mente capace di pensare; fino a che essa rimane nel suo pensiero è immanifesta, velata. Il pensiero può venire tradotto in un’immagine, in un concetto, e formulato in un’espressione esterna: parola o gesto; la forza che muove la mente immanifesta a esprimersi è l’Amore. Così l’infinita bellezza di Dio, racchiusa nella sua perfetta e solitaria forma, ha voluto che il non-esistente partecipasse alla sua pienezza. Il Verbo eterno formula le infinite parole creatrici che si condensano nella materia, manifestando la sapienza e l’amore della mente divina per le creature chiamate a essere. Il mistero divino esprime e rivela se stesso mediante una parola che è rivolta per amore dal Creatore alle creature; alla coscienza umana si rivela, per amore, come Legge che non viene impressa con prepotenza, perché Dio ha voluto l’uomo capace di pensiero, parola, azione, e quindi libero. Cosa accadde il giorno della Pentecoste? Gesù aveva promesso lo Spirito, e aveva detto che lo Spirito avrebbe compiuto nei discepoli la trasformazione, il battesimo di fuoco, la seconda nascita. I discepoli non erano degli eroi - come tali non si comportarono durante la passione del Maestro -, non erano neppure dei sapienti, e neppure dei credenti fanatici, ma dei buoni uomini, coi piedi radicati sulla terra e la testa ben piantata sul collo. Avevano seguito Cristo, assistito ai suoi prodigi, inteso le sue parole; al momento in cui venne richiesta loro una testimonianza coraggiosa questo tesoro di esperienza svanì come


fiocco di neve sull’apertura di un forno. Piangevano la morte del Maestro, soffrivano della sua separazione, ma continuavano a dimostrare di non aver capito molto. Il Risorto torna in mezzo a loro, si manifesta in modo tale da non lasciar dubbi, passeggia con loro lungo le strade, con infinita pazienza torna a spiegare loro le Scritture, ma solo allo spezzare del pane lo riconoscono. Nel Cenacolo, l’apostolo del dubbio, Tommaso, crederà quando le sue mani incontreranno la carne del Risorto; a cosa crederà: alla carne che non era più carne perché trasfigurata, o a ciò che il Maestro aveva detto alle profondità abissali dell’anima umana? Il giorno della Pentecoste, i discepoli erano riuniti con la Madre di Gesù nel Cenacolo. Mentre pregavano, un forte vento scosse la casa con rumore di tuono; apparvero delle lingue di fuoco che si posarono sulla testa di ciascuno. I discepoli si sentirono trasformati: da vili divennero coraggiosi; da ignoranti sapienti; da pavidi audaci. Aperto il Cenacolo, uscirono sulla piazza e cominciarono a predicare, e quanti li ascoltavano capivano nelle loro lingue quanto essi dicevano nella loro lingua aramaica (cfr. At 2, 1-11). Cos’era avvenuto nei discepoli? Dio derogò, in loro e in quell’istante, alla legge di rispetto per la libertà delle loro coscienze. Con mano ferma annullò tutte le resistenze che la loro mente, la loro volontà, la loro emotività opponevano all’azione dello Spirito Santo. Furono uomini nuovi, rimasero sì nel loro corpo di carne, necessario per la necessaria testimonianza, ma tutte le loro energie e capacità interiori furono bruciate dal fuoco dello Spirito e trasformate in volontà di amore, in perfetta offerta alle forze santificatrici ed elevatrici di Dio. In essi rimase solo lo splendore di una vita immersa e illuminata da Cristo che è alla destra di Dio. I discepoli divennero quello che noi tutti siamo chiamati a divenire: quello che Adamo era prima che il mondo fosse: un po’ di materia e un irraggiare e un folgorare dello Spirito. Dopo la Pentecoste ognuno di noi deve convincersi che la folgorazione dello Spirito è in atto perennemente e che può manifestarsi in ognuno di noi, se le nostre energie interiori sono protese decisamente verso l’incontro con Cristo che siede alla destra di Dio. Invocazione allo Spirito O Spirito, fa’ che possiamo essere nella materia ciò che siamo in Te, rompi le nostre barriere egoistiche, trasformaci in realtà di comunione. Rendici coscienti che Tu dimori in noi, tuo tempio; che la tua presenza illumini la nostra carne di compiuta bellezza. Tieni lontano da noi l’orgoglio, l’arroganza della differenza, dilata il nostro cuore nella comprensione della verità completa. Infiniti e diversi sono i modi dell’esistenza: in ognuno il principio di vita e di luce sei Tu. Tu sei in ogni segno d’illuminazione, in ogni anelito di vita, in ogni sogno di bellezza, in ogni rinuncia per un più grande amore. Senza lingue di fuoco, senza rumore di vento, qual intima presenza di grazia, quale principio di luce.


La tua venuta è nella certezza forte e inebriante che nel cuore di ogni essere sei Tu, Amore e Luce crescente. O Amore senza alba o tramonto,

libera noi tue creature in cammino da ogni intolleranza e durezza, da ogni incomprensione e chiusura. O Amore che tutto nell’unità ricomponi, libera noi tue creature in ascesa da ogni faziosità e separazione, da ogni ostilità e divisione. La tua luce ci riveli sempre più oggetti d’amore,

manifesti le ragioni profonde della vita di tutti.

Sposti i termini del nostro io egoista fino alla comunione perfetta;

ci immerga nell’onda della tua casta ebbrezza gioiosa.

Svuota gli abissi interiori, crea sempre più dei cuori nuovi;

sottrai la natura dal male, battezzandola col tuo fuoco d’amore.

Per Te ritrovino in noi unità e canto il cielo e la terra,

l’altissimo e l’abisso profondo.

Il giorno e la notte, la tenebra e la luce,

la gioia e il pianto, la morte e la vita. Amen!


La missione dell’uomo Giovanni Vannucci, omelia pronunciata nell’eremo di S. Pietro alle Stinche, Greve in Chianti (FI), durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 18, domenica 6 giugno 1976 (Domenica di Pentecoste), Anno B; registrata su nastro magnetico da Elena Berlanda e trascritta da Consalvo Fontani. Pubblicata da Fraternità di Romena editrice, Pratovecchio (AR), 2005, in Nel cuore dell’essere, pg. 157-166.

Il mistero che oggi celebriamo, la Pentecoste, la discesa dello Spirito santo sugli apostoli, è il fondamento eterno della nostra esperienza religiosa cristiana, della nostra esperienza della Chiesa. E vorrei in parole semplici potervi dire quello che penso sulla discesa dello Spirito santo, sulla trasformazione operata in quegli uomini dallo Spirito santo. Una delle prime cose che voglio dirvi è questa: nel Cenacolo dove erano i discepoli, secondo la narrazione degli Atti degli Apostoli, lo Spirito santo discende sopra di loro a forma di fiammelle e discende su ciascuno dei presenti. Questo è un fatto, è un’immagine della prima trasmissione del mistero cristiano. E l’eterna trasmissione del mistero cristiano è sempre fatta attraverso immagini davanti alle quali noi dobbiamo sostare in silenzio per poterne comprendere l’insegnamento che ci viene dato dalla figura, dal simbolo, che costituisce l’immagine. Così in questo primo pensiero sul mistero della Pentecoste, lo Spirito santo discende non come globo di fuoco su tutti i discepoli e neppure discende come una fiammella sul primo discepolo, fondamento della Chiesa, Pietro, ma su tutti. E discende in fiammelle distinte l’una dall’altra. Questa è una verità che dobbiamo cercare di vivere, perché lo Spirito santo nella sua pienezza, nella sua intensità di vita, viene comunicato a tutti. Nella diversità poi delle sue fiammelle, di quei quantum di luce e di calore che lo costituiscono, viene dato a ciascuno dei dodici. Non ce l’ha più il prete e meno i laici, non ce l’ha più il Papa e meno i vescovi, meno i preti e meno ancora i laici. Ma come e a chi è concesso lo Spirito santo? In una forma personale, in una forma distinta, in una forma differente da quella che viene concessa ad altri. E questo costituisce l’aspetto profondo: anche se non siamo riusciti a realizzare sempre, per un continuo affermarsi di potenza dell’uomo, questa realtà della Chiesa, tuttavia rimane l’essenza della Chiesa, l’aspetto divino della Chiesa, l’aspetto profondo della Chiesa, lo Spirito che viene consegnato da Gesù. A ciascuno è concesso lo Spirito e la pienezza dello Spirito noi la raggiungiamo mettendo insieme le piccole fiammelle, e allora riusciremo a comprendere quell’intensità di luce, di calore, di illuminazione, di verità, che viene concessa a tutta la Chiesa quando è in questo stato di perfetta umiltà e di perfetta attenzione agli altri. E questa è una realtà che dobbiamo pazientemente e faticosamente recuperare se vogliamo che la nostra Chiesa sia “una Chiesa”, cioè una comunione di soggetti, non una realtà sociale con un capo e dei sudditi. Quindi abbiamo la responsabilità di quella fiammella, di quel dono dello Spirito santo che abbiamo ricevuto.


Però vorrei portare la vostra attenzione su altri elementi della festa della Pentecoste. Ricorre il numero sette. Se voi aprite un qualunque manuale di storia delle religioni e andate all’indice, dove si parla dei numeri sacri, e prendete il numero sette, voi troverete che il numero sette ricorre in tutte le esperienze religiose dell’uomo: anche in quelle che noi chiamiamo esperienze religiose dei primitivi, per esempio gli sciamani della Siberia: è un fenomeno che viene studiato molto attentamente, perché contiene delle grandi verità. Lo sciamano, quando sale sul suo albero, un albero con sette tacche, sette segni incisi, e giunge al settimo segno, riceve la rivelazione della divinità, riceve le risposte che si attende da questa sua ascesa verso l’alto. Poi abbiamo i sette doni dello Spirito santo. Il numero sette è il numero della completezza, che non viene raggiunta astrattamente per una combinazione di concetti, ma attraverso l’esperienza dell’uomo la nostra coscienza scopre che la realtà è costituita dal sette. È il numero della pienezza divina e umana. L’invisibile non manifestato ha il numero tre, che è il numero della divinità; il divino manifestato ha il numero tre, che è il numero della divinità che si manifesta. Tre più tre fa sei, più uno... E chi è quest’uno? È l’uomo, che nel mondo del visibile è il punto in cui tutta la realtà invisibile si compendia e si esprime. Ed è l’uomo che deve attraverso la sua attività di coscienza, di pensiero, di meditazione, attraverso il suo impegno religioso - scoprire e il visibile e l’invisibile. Questa è la missione dell’uomo. L’aspetto non manifesto della divinità lo possiamo esprimere molto vagamente con dei vocaboli umani. L’aspetto manifesto è costituito dal tre, cioè dalla potenza: quando diciamo e chiamiamo Iddio onnipotente. Poi è costituito dall’amore e da una volontà che è libertà. Stamattina noi leggevamo qui un bellissimo testo di Gioacchino da Fiore (Gioacchino da Fiore. - (Celico, Cosenza, verso il 1145 - S. Giovanni in Fiore 1202). Monaco ed

eremita, appassionato profeta di una nuova visione della Chiesa (particolarmente significativa la sua fantasia escatologica che profetizza nella ricomparsa di Elìa il nuovo Battista annunciatore del regno dello Spirito). Sottile esegeta più che teologo, esercitò un’immensa influenza sui suoi contemporanei, che o lo avversarono fieramente o ne furono ardenti seguaci (gioachimiti). Vannucci ha scritto un interessante articolo su La lettura storico-ciclica di Gioacchino da Fiore, pubblicato da Servitium, II, 19-20 (1977), 188-206 e riproposto da Mistero del tempo, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG) 1996, 93-124.):

il succedersi di varie ere. L’era del Padre, che è il Vecchio Testamento, l’era del Figlio, che è l’era dell’amore. Nel Nuovo Testamento l’umanità - secondo questo grande uomo, Gioacchino da Fiore - si sta dischiudendo verso un’altra rivelazione, un’altra manifestazione del divino che è la volontà per la libertà. Quindi, il Padre è il Padre onnipotente, il legislatore, il sovrano, il re; il Figlio è il portatore dell’amore, della misericordia, della compassione; e lo Spirito santo è colui che completa l’opera del Padre e del Figlio nell’apertura della nostra coscienza a una libertà, la libertà dei figli di Dio, dove l’amore trova la sua completezza e supera tutti i suoi limiti, dove la potenza paterna trova la sua piena manifestazione nel rispetto verso tutte le infinite creature che appaiono all’esistenza. E noi uomini, la nostra coscienza, siamo quell’uno che riceve questa rivelazione, la vive e la manifesta. E allora


si ha la completezza della manifestazione religiosa e divina e spirituale nella storia degli uomini. Ma parliamo dei sette doni. Noi, in Occidente, abbiamo perduto molte conoscenze. Per gli antichi l’uomo era composto di sette corpi; noi abbiamo molto semplificato. Cos’è l’uomo? È un animale che cammina eretto. E Cartesio ha detto: l’uomo è una macchina abitata dall’anima. Abbiamo la macchina, che è il nostro fisico, e il motore interno, che è l’anima. L’uomo è composto di anima e di corpo e noi abbiamo talmente generalizzato questo termine “anima” che non sappiamo più che cosa sia. Quindi l’uomo è composto di due realtà, anima e corpo. Per gli antichi era composto di sette corpi; era come una specie di corteo dove ci sono sette personaggi. C’è un personaggio, “il vagabondo”, che passa da un’osteria all’altra; se non è tenuto d’occhio, con facilità cade nel fosso, si smarrisce, oppure compie dei gesti irresponsabili. Poi c’è un’altra presenza in noi che si potrebbe chiamare “il lavoratore”, quello che fa, quello che compie delle azioni con grande passione; poi c’è un altro personaggio, che è “lo studente”, che si interessa, va a scuola, cerca di imparare, cerca di capire le cose della vita; poi c’è “la madre”, che accompagna questo corteo; poi c’è “il magistrato”, un giurista, un guerriero; poi c’è “l’artista”, un intellettuale, uno scultore, un poeta, un musicista; e infine c’è “il prete”. Ecco, questi sono i sette corpi della nostra realtà umana: in noi c’è un corpo che è un po’ il briaco della compagnia, il vagabondo. Quante volte ci prende la mano il corpo! Si vorrebbe fare, intraprendere, poi viene la stanchezza; oppure se devo passare una bella giornata alle Stinche, questo signore, il corpo, reagisce al polline e comincia a starnutire, è la febbre del fieno: non si può mai disporre pienamente del nostro corpo. Poi c’è la nostra intelligenza che ci fa conoscere le cose, vogliamo sapere il perché dell’esistenza dell’uomo, il perché di una cosa, come è costruita una casa, come si fa un’operazione matematica, come si chiamano le stelle del cielo. Tutte queste cose le vogliamo sapere: è la parte della nostra ragione che non crede, della ragione che vuol sapere le cose, capire le cose. Poi c’è anche una parte di noi che nel corteo, ho detto, è la madre, la misericordia, l’amore, la protezione della vita, la parte del nostro essere che ci porta a guardare con grande affetto e simpatia tutte le manifestazioni della vita, a difendere la vita, a proteggere la vita, a sostenere la vita. E, infine, ci sono altri tre personaggi: uno, vi ho detto, può essere il magistrato, l’uomo di legge, oppure un militare, un guerriero, ed è la parte del nostro essere che ci porta a organizzare, a dare una gerarchia alle nostre attività, un ordine alle attività del corpo, alle attività della mente, alle nostre attività emotive. E poi c’è un’altra parte del nostro essere che, vi ho detto, è l’artista: è la parte del nostro essere che capisce, per un movimento incomprensibile e inspiegabile, il senso delle cose, oppure che, improvvisamente, sente la bellezza di un tramonto, di un’alba, di un fiore, e le esprime in forme di arte perfetta; cioè in noi c’è l’artista, è la parte più mutevole del nostro essere perché può essere perduta, repressa. E infine in noi c’è il prete, il sacerdote, che è la parte del nostro essere che capisce il significato profondo dell’esistenza. Al


termine dei sette doni c’è la sapienza, alla base c’è Dio. Tutto questo ci deve rendere stupefatti e deve dare alla nostra vita un senso di responsabilità di fronte a tutta l’esistenza, alla nostra esistenza personale e all’esistenza di tutti gli altri esseri. Ascendendo questa scala di sette gradini si riesce a comprendere il senso dell’esistenza, perché il significato del nostro esistere è il significato dell’esistere di tutti gli altri esseri. Io mi sono domandato molte volte: che cos’è avvenuto di tutte queste cose? Nelle cerimonie del battesimo, per esempio (ieri abbiamo battezzato un bambino), vengono toccati dei punti del corpo: tre punti, la nuca, la fronte, il cuore che, secondo tutta la tradizione e orientale e occidentale, sono i tre centri sottili che, quando si risvegliano, mettono l’uomo a contatto con delle forme di conoscenza differenti. Il cristianesimo si è sempre interessato soltanto di questi tre centri superiori. Non si è mai interessato dei centri inferiori. Per esempio, tutto l’induismo, nella sua pratica dello yoga, comincia dal centro più basso, poi mano a mano sale e giunge ai tre centri superiori. Il cristianesimo si è sempre interessato di sviluppare questi tre centri superiori; e si è pensato che sia questa una delle differenze per l’impostazione della meditazione cristiana in confronto alle altre meditazioni, perché quando si sviluppano i tre centri superiori gli altri seguono inevitabilmente l’ordine di armonia. Ma io mi sono domandato: cosa è avvenuto nel Cenacolo in quegli uomini? Vi do una spiegazione che è mia, quindi non siete per niente obbligati a seguirla. Ma, cerco di indovinare perché, ordinariamente, davanti a questi misteri religiosi, a queste immagini meravigliose, ci abbandoniamo, così, a una contemplazione esteriore, oppure ci accontentiamo di spiegazioni tradizionali che non ci permettono di penetrare il mistero; non è che io voglia spiegare il mistero, ma voglio darvi delle indicazioni che, per me, sono abbastanza ragionevoli per poter capire quello che è avvenuto nella coscienza di quegli uomini nel Cenacolo. Ché prima della Pentecoste Pietro era un pavido, gli altri erano, anche loro, molto legati alla loro umanità. Improvvisamente da quegli uomini scaturisce l’annuncio della Parola e scende nel cuore degli uomini e trasforma tutto l’Occidente. Deve essere avvenuto qualcosa. Io penso sia avvenuto questo: lo Spirito, discendendo dall’alto, ha preso possesso di quegli uomini nei tre centri. Cioè, del senso del sacro, e hanno raggiunto la sapienza, hanno capito il perché dell’esistenza e quindi hanno compreso con intensità di vita e di partecipazione - non di spiegazione, ma di partecipazione - quella realtà portata da Cristo sulla terra e che loro avevano vissuto, alla quale avevano partecipato, ma che non avevano ancora compreso. Hanno capito che Cristo iniziava una nuova era per la coscienza umana, l’era dell’amore. Poi di loro è stato preso possesso anche dell’altro centro, dell’intuizione, non più abbandonata a improvvisazioni di momenti di particolare emozione, ma diretta verso la comprensione di quel mistero che era stato rivelato e che essi avevano compreso con la loro esperienza. Poi quel personaggio che vi ho descritto come il portatore dell’organizzazione, della gerarchia, e nel lavoro nostro personale e nel lavoro di società (il magistrato, n.d.r.), anche


questo è stato preso e trasformato con violenza dallo Spirito santo, perché doveva nascere una nuova società, perché l’uomo non è mai riuscito a creare una società e anche dentro la Chiesa non siamo mai riusciti a creare quella nuova società che era annunciata da Cristo. Era necessario un lavoro in serie, affidando a ciascun operaio la produzione di una determinata parte dell’opera e organizzandola entro tempi sufficientemente brevi. Questa è una capacità organizzativa che abbiamo noi uomini, che parte da noi uomini e che è un prolungamento della nostra ragione, della nostra intelligenza nella vita. Così, quando organizziamo la nostra vita, noi cerchiamo di prevedere tutto ciò che ci può capitare durante la giornata e incanaliamo in un certo ordine la nostra giornata. Quando poi viviamo in società, il responsabile della società ha una particolare immagine dell’uomo e vuole che gli uomini corrispondano ad essa nella vita sociale, imitino questo modello che lui ha dell’intelligenza dell’uomo: un militare, davanti a un esercito, ha una particolare visione del soldato e vuole che il soldato imiti questa idea che lui ha del soldato. Nel cristianesimo le cose non sono così: non è l’uomo che crea la società, ma è lo Spirito santo che crea la società. E la Chiesa non è creata dagli uomini, ma è creata, alimentata e fecondata dallo Spirito santo. Quando Cristo dice a Pietro: “Tu sei pietra e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa” - vi ho detto altre volte che chi edifica la Chiesa non è Pietro, né il Papa, ma il Cristo -, dicendo: tu sei pietra, Cristo prende un simbolo religioso che è antichissimo quanto è antica l’umanità; è forse il primo simbolo dell’umanità religiosa: la pietra. E la pietra cos’è? Cosa rappresenta? Rappresenta la Grande Madre. Quando i primi cristiani chiamarono la Chiesa “Madre”, si riferivano a questa esperienza profonda. Cioè la Chiesa è quella struttura duttile e malleabile come l’utero della donna quando porta avanti un germe, un germe che ha accolto. Questo organo femminile aumenta mano a mano che il germe si sviluppa. Quando poi il germe ha raggiunto, nei nove mesi, la sua piena maturazione, lo lascia. Questa è la struttura della Chiesa. Mi direte, non è così. Non è così perché noi uomini faticosamente arriviamo a liberarci da noi stessi. Perché se Dio nella sua manifestazione visibile è il potere, è un potere differente dal potere di noi uomini. Confrontate l’onnipotenza di Dio con il concetto che noi abbiamo di onnipotenza. Non corrisponde. È un’impotenza. Ve lo accennavo per Natale, quando noi veneriamo nel Fanciullo la manifestazione suprema della divinità. In questa immagine, in questa realtà noi non facciamo altro che dire che l’onnipotenza di Dio di fronte alle nostre onnipotenze e potenze umane è una impotenza, una non potenza. Ma questo lo abbiamo dimenticato proprio nella nostra prassi religiosa, perché ci siamo abbandonati senza distinguere chiaramente quella che deve essere la realtà cristiana da quella che è la realtà umana. Gli uomini sono portati a creare delle strutture mentre la Chiesa, essendo opera dello Spirito santo, è come il seno di Maria santissima, che accoglie la parola di Dio e cresce mano a mano che questa Parola cresce nel suo grembo. E allora le strutture


dure, nella Chiesa, sono assolutamente un’opera diabolica, un’opera antispirituale, un’opera che la cristianità viveva in un dato momento, che non è più aperta alla fecondazione dello Spirito, ma si abbandona a quelle forze che vengono dal basso; cioè l’uomo cattolico, l’uomo di un’altra Chiesa, non è più l’uomo cristiano, ma un uomo puramente umano e allora si hanno delle durezze, si hanno quelle strutture potenti e pesanti che abbiamo portato ad esempio e che ora sogniamo e aspiriamo a superare, se riusciamo ad accettare la realtà che in ognuno di noi c’è lo Spirito santo in una forma particolare e differenziata da tutte le altre forme. Questo volevo dirvi. E cos’è avvenuto negli apostoli? Dio ha preso possesso di queste capacità di uomo e ha dato loro una saggezza divina, agli apostoli ha dato un’intuizione divina e una capacità di organizzazione divina. Per noi la situazione è differente: noi dobbiamo raggiungere lo Spirito santo attraverso un faticoso cammino, lungo la vita terrena; cammino di riordinamento di tutte quelle parti che compongono il nostro essere e, una volta raggiunto questo riordinamento, possiamo sperare che avvenga in noi quella folgorazione che, imprevista e inattesa, si è compiuta negli apostoli. E allora anche il numero sette, anche i nostri sette corpi saranno unificati da questa fiamma che discende sul nostro capo e che tutto unifica, tutto illumina, tutto trasforma. E saremo in mezzo agli uomini delle creature che portano il mistero totale, non solo il mistero divino ma anche il mistero dell’uomo, rivelandone la compostezza, la pace, la luce, la creatività, l’armonia, l’equilibrio, l’amore, la pietà, la saggezza, che non nascono dall’uomo ma da Dio. In noi nascono, vi dicevo, come conquista, conquista lenta, accanita, tenace, ardente, che ci accompagna per tutta la vita. Anche noi siamo in cammino verso la nostra Pentecoste, verso la presa di possesso di quella fiammella che è discesa su di noi e che discende continuamente su di noi, che è lo Spirito santo. Di questo dobbiamo essere consapevoli. Allora vedi Carolina - riusciamo a ordinare il corteo di quei sette personaggi. Essi sanno dove vanno e, quando scopriranno dove sono diretti, capiranno che sono diretti verso la luce, cioè verso la visione completa e illuminante di tutto il mistero e della loro vita e delle vite degli altri, e dell’esistenza attuale e dell’esistenza futura. Saremo delle persone che capiscono, che comprendono, e in conseguenza di questa comprensione e di questa saggezza raggiunta, ci comporteremo come creature illuminate e santificate dallo Spirito santo.


PERCHÈ IL DESERTO? Giovanni Vannucci, «Perché il deserto?» - 02a domenica di Avvento - Anno B; in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 15-17.

«Una voce grida: “Preparate nel deserto la via del Signore”» (Is 40, 3). Perché l’uomo trova il Mistero e la Parola che lo rivela nella differente dimensione del «deserto»? Perché il «deserto» costituisce il passaggio obbligato per chiunque voglia portare a maturazione le più profonde aspirazioni umane? Forse riusciamo a focalizzare meglio queste domande se sostituiamo all’immagine del «deserto» quella, meno geograficamente determinata, dell’incolmabile assenza che accompagna ogni momento dell’esistenza dell’uomo cosciente. La vita nelle sue manifestazioni è animata da un fuoco immanente che, instancabile, distrugge le figure realizzate per crearne delle nuove. Il bocciolo è mosso alla fioritura dal fuoco vitale che lo rende proteso verso l’essenza del fiore, il fiore raggiunge la fruttificazione guidato dallo stimolante sogno del frutto, questo a sua volta è mosso alla formazione dei germi dalla nostalgia di riprendere il ciclo della pianta che l’ha generato. L’essere creato è continuamente condotto a un limite di consumazione formale raggiunto il quale nasce una nuova figura che, a sua volta, viene spinta al logoramento per cedere a un’ulteriore conformazione. In tal modo la vita, attraverso il ritmo di creazione e distruzione, adempie ed esprime il suo mistero. Questa singolare pulsazione della vita, espressa nel linguaggio simbolico con le figure del deserto e dell’oasi, dell’aridità e della terra feconda, determina due fondamentali tendenze nell’essere creato: una che solidifica le forme, l’altra che le distrugge per ricrearle. La mente umana, per la sua conformazione, è portata ad aderire alle forme, ad aver terrore della distruzione. Percepisce il momento della dissoluzione come il male, mentre è l’incolmabile assenza che la rende inquieta e protesa verso nuovi cicli vitali. Il momento della distruzione, il «deserto», con l’orrore dell’ignoto, della perdita di ogni solidità, appresta e preannuncia una più piena e vigorosa vita. Nel «deserto» vengono rivelati alla coscienza l’impermanenza di tutte le figure costruite dall’uomo, i limiti e l’aspetto effimero dell’io esistenziale e gli spazi nuovi verso i quali si dischiude l’io essenziale. L’incolmabile assenza si apre implacabilmente verso un «oltre», un più vasto cammino umano, né può accadere diversamente essendo la coscienza fatta per un’inimmaginabile pienezza e non per venir conclusa nella limitata brevità dell’esistenza. Il momento del richiamo a passare verso una crescente novità, sentita più che formulata, intuita più che definita, segna la più densa solitudine, ma da essa spunta la


visione di una realtà differente, di una vita più vera, di un amore meno deludente, purché il cuore sia saldo! Vivere religiosamente implica la costante consapevolezza che tutto è tenuto in movimento dall’incolmabile assenza che permette all’uomo di comprendere che Dio è l’ultimo futuro di quanto ha esistenza, che la vita è animata da un’inquietudine di superare i limiti del presente per placarsi in una pienezza di libertà che trascende e compie tutte le speranze. Il «deserto» è pertanto, come sentimento di un’assenza incolmabile, una esperienza esclusiva della coscienza; in questa forma stimolante è stato vissuto da chiunque abbia seguito la Voce che gli comandava di andare «oltre». La Voce che risuona nel deserto è la fiamma che brucia senza consumare, è il vivente, l’animatore e il distruttore delle forme. L’incontro con la Voce che risuona nel «deserto» esige un coraggio impietoso, poiché annulla i condizionamenti psicologici creati dalle varie culture, tradizioni e proiezioni del passato. La Voce crea continuamente attorno a chi ha orecchie per ascoltarla il «deserto», affinchè la sua inconsumabile fiamma alimenti l’espansione vitale della coscienza. Ed essa, attraverso le sue costanti manifestazioni nella storia, distrugge implacabile quelle forme che l’uomo, irrimediabilmente pigro, innalza come involucro di tranquillizzante sicurezza. La Voce che risuona nel «deserto» esige dall’uomo una vita ardente, in perenne rinnovamento, una vita libera e liberante. Non è la vigorosa vibrazione della Voce che nel nostro tempo sta demolendo le mura che impediscono alla coscienza una più autentica vitalità?


PESCATORI DI UOMINI Giovanni Vannucci, omelia pronunciata domenica 6 febbraio 1977 durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 18 nell’eremo di San Pietro alle Stinche - Greve in Chianti, FI). In Ogni uomo è una zolla di terra, 1a ed. Borla editrice, Roma, aprile 1999, «Pescatori di uomini», pag. 141-147, 5 a domenica del tempo ordinario - Anno C.

Cerchiamo di capire la pagina del Vangelo che vi ho letto conformemente ai nostri criteri. I nostri criteri sono quelli di vedere l’evento storico compiuto da Gesù, dal Maestro, proiettarsi con un’energia vitale nel corso dei secoli. E questo passaggio dalla storia alla superstoria, dall’episodio contingente della vita di Cristo a una realtà più universale, rende la lettura del Vangelo come una realtà eterna, sempre in atto e sempre immanente. Per capire questa pagina del Vangelo credo che dobbiamo prima cercare di comprendere il significato delle ultime parole di Cristo dette a Pietro e ai primi seguaci: vi farò pescatori di uomini. Cosa significa pescatori di uomini? Cosa fa il pescatore? Estrae dall’acqua il pesce. Il pesce immerso nell’acqua è - per chi sta all’esterno - come se non esistesse. Quando viene estratto dall’acqua e messo nella luce del sole, questa forma appare. E l’acqua sappiamo cos’è, nel suo significato metafisico, nel suo significato simbolico: è l’inconscio, l’indistinto. L’acqua, per noi, può essere il gruppo cui apparteniamo, può essere la Chiesa di cui facciamo parte, può essere il partito nel quale militiamo, cioè tutte quelle realtà che rendono il nostro io conforme ad altri io, tutte quelle forze che ci rendono meno liberi e ci rendono partecipi di una coscienza di gruppo, di massa. E poco importa se questo gruppo sia politico o religioso, sia Chiesa cattolica o sia Chiesa protestante. Quando noi ci inseriamo in un’onda di collettività, il nostro io perde la sua singolarità. E facciamo molte rinunce, molte limitazioni, al nostro io personale: rinunciamo a vedere le cose col nostro pensiero, con le nostre capacità mentali, rinunciamo a orientare la nostra vita in una maniera che non è conforme ai dettami del gruppo cui apparteniamo. Questa è l’acqua che ci sommerge. È una grossa tentazione, questa, perché tutti siamo portati ad assecondarla, per una spinta che è in natura, che porta l’essere vivente a ripetere sempre lo stesso atto, lo stesso gesto che ha compiuto in passato. E questa pigrizia - che è nel nostro essere come creature viventi limitate dallo spazio, dal tempo, dalla carne, dalla psiche, dalla mente - ci porta a non pensare col nostro pensiero, a non metterci in atteggiamento di sovrana indipendenza di fronte al gruppo, alla massa, alle tendenze del nostro tempo. E ci porta anche a fruire di quella atmosfera di tranquillità, di non preoccupazione, che ci vien data dalla massa. Guardate, anche nel nostro tempo, siamo ora alla ricerca di assicurazioni che riteniamo giuste. Quando io sono assicurato sulla malattia, sulla vecchiaia, su tutti i numerosi diritti che proclamiamo ogni giorno, io vengo anche esonerato da tante preoccupazioni: quando sarò vecchio comincerà a scorrere la pensione dello Stato. Ma l’uomo che vuol vivere la sua vita cerca di


distaccarsi da queste tendenze della massa e cerca di pensare con il proprio pensiero, cerca di lavorare non conformemente a delle direttive che gli vengono date dagli altri, ma conformemente alla sua natura vera, a quelle forze creative che lui possiede, che non può rinnegare senza alterare se stesso. C’è questo conflitto nella nostra esistenza. Il gruppo cui apparteniamo - che può essere la famiglia, il convento, la Chiesa, il partito, la nazione, la razza - ci condiziona, ci dà un ordine; ci dice: accetta il mio ordine, ti do una sicurezza. D’altra parte da noi nascono delle tendenze anarchiche, utopiche, utopistiche - utopoV vuol dire una tendenza che non ha posto, che non ha terra -, e sogniamo. Sogniamo e per noi, e per la società, delle realtà differenti. E c’è questo conflitto, che in fondo si riallaccia alle pulsioni più vive del nostro io personale che non vuol essere mangiato o divorato dalla grande acqua dell’umanità cui apparteniamo, o immediatamente o mediatamente. Essere pescatori di uomini vuol dire allora emergere da questo gravissimo pericolo, da questo gravissimo rischio, che continuamente noi affrontiamo; ed emergendo tu potrai aiutare altri ad emergere. Quando Cristo dice: è stato detto agli antichi, ma Io vi dico, è questo atteggiamento che noi dobbiamo riuscire ad avere. Nell’umanità è difficilissimo, perché basta esercitare una professione per essere subito soffocati dallo spirito di questa professione, basta vivere dentro un piccolo gruppo per essere continuamente fagocitati, mangiati dallo spirito di gruppo, dallo spirito di corpo. Il destino dell’uomo è invece quello di realizzare il proprio compito personale andando anche contro tutti. E quando io mi metto contro lo spirito che mi vuole opprimere e soffocare, emergo e ascendo nella chiarezza del sole, di quel cielo dove Cristo è il Sole. Allora essere pescatori di uomini non vuol dire - come l’abbiamo interpretato spesso noi preti -: gettate l’amo e poi pescate il fedele che viene nella vostra chiesa, come contribuente, non soltanto per il vostro mantenimento, ma per una certa soddisfazione, perché potrete avere le reti piene di tanti pesci buoni e obbedienti. Non è questo l’essere pescatori di uomini, ma è emergere da quest’onda di soffocamento che ci minaccia tutti, raggiungere la perfezione della nostra personalità, della nostra individualità e aiutare gli altri a emergere. Dobbiamo imparare a dire anche noi agli altri: è stato detto agli antichi, ma io vi dico. Perché il termine del cammino cristiano è l’essere figli di Dio. E Figlio di Dio è colui che ha detto: Io sono. Se confrontate un momento questa forza cristiana che Cristo ha introdotto nello sviluppo della coscienza umana, ne potete cogliere l’essenza. Al tempo di Cristo l’ebreo cosa diceva? Io sono figlio di Abramo. E se guardate la storia antica troverete che le antiche popolazioni, le antiche tribù - che poi si sono organizzate in piccoli stati, in piccole repubbliche come in Grecia, oppure in grossi imperi come Roma - hanno avuto questa preoccupazione, di riallacciarsi a un antenato mitico. Così Roma si riallaccia a Enea; altri si riallacciano ad altri antenati mitici. Questo per un bisogno di sentirsi sicuri di se stessi come appartenenti a un popolo le cui radici rimontano nella


lontana antichità, quando vivevano i grandi eroi. Il re di Roma diceva: io sono figlio di Enea; il re d’Israele diceva: io sono figlio di Abramo. E Cristo dice: chi non rinuncia al padre, alla madre, alla famiglia e non mi segue, non è degno di me. Cioè, distaccarsi, distaccarsi da tutti questi condizionamenti sociali e di gruppo che hanno avuto una loro funzione un tempo, ma che con il cristianesimo non hanno più significato, anche se noi cristiani poi siamo ricaduti in queste vecchie posizioni psicologiche: troviamo delle famiglie che hanno la grande preoccupazione di avere i fondatori della dinastia, eroi, guerrieri, e altre cose del genere; abbiamo questo bisogno nelle nostre città, di far ascendere la fondazione della città a qualche eroe mitico dell’antichità; oppure troviamo queste cose nello spirito di gruppo che condiziona la vita dei singoli in seno alle grandi o piccole chiese dell’esperienza cristiana. Ma Cristo ci dice: chi non rinuncia al padre, alla madre, alla famiglia, non è degno di me. Dobbiamo riuscire a raggiungere la totale solitudine del nostro essere per conquistare la nostra maturazione e per vivere, respirando quell’aria di libertà e di verità alla quale siamo chiamati e verso la quale siamo in cammino. Consideriamo allora la storia della cristianità in questi duemila anni in questa prospettiva, e vediamo che la realtà di quella pienezza di coscienza che si è attuata in Cristo è ancora là, imperfetta, insufficiente, incompleta, e siamo in cammino verso la realizzazione della piena coscienza di Cristo. Guardando, per esempio, il Rinascimento, noi vediamo che la realtà dell’individuo singolo, anche se noi la critichiamo, viene affermata. E questa è una maturazione della spinta fondamentale del cristianesimo che è l’impulso concesso, dato e continuamente alimentato nella nostra coscienza, di liberarsi dallo spirito di massa, dallo spirito di gruppo, dall’impoverimento della nostra personalità, non accettando le leggi vigenti, le tendenze della massa, le tendenze del gruppo. Mi direte, ma allora la Chiesa come farà a sorgere? La Chiesa sorgerà quando tutti i cristiani saranno figli di Dio, cioè uomini pienamente liberi, che insieme compiono il loro cammino cristiano in piena libertà, nel pieno rispetto delle realtà, delle qualità, delle facoltà, dei modi di vedere e di pensare degli altri. Perché è attraverso il raggiungimento di questa piena libertà, attraverso l’emersione dall’acqua del mare, che noi realizziamo in noi il grande uomo vero, il Figlio di Dio e soccorriamo gli altri perché raggiungano la vera dimensione di figli di Dio. Questo è il nostro compito. Quanto più consideriamo il cristianesimo, vediamo che esso ci impegna, proprio ci salda con l’avventura divina che Dio compie nella dimensione dell’intera coscienza dell’uomo. Quindi Dio non è al di fuori di noi, è in noi. È nelle nostre migliori e più profonde e più intense aspirazioni. Mettersi al servizio di queste aspirazioni significa trasformare la nostra natura e liberarla da tutti quegli impoverimenti e da tutte quelle imperfezioni e da tutte quelle penombre, da tutta quella non vita che viviamo finché siamo immersi in questo spirito di collettività e di collettivizzazione. Dobbiamo essere uomini che sanno dire come Cristo: Io sono. Allora emergiamo dall’onda e aiutiamo gli altri a emergere dall’onda.


PREGATE SENZA DISERTARE Giovanni Vannucci, «Pregate senza disertare» in La vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985;. 29 a domenica del tempo ordinario - Anno C; Pag. 205-208.

«Gesù disse ai discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi» (Lc 18, 1). Il senso della parabola del giudice, che cede all’insistenza della vedova implorante giustizia, è contenuto nella frase «senza stancarsi». «Senza stancarsi» è la debole e vaga traduzione di un’espressione greca che significa l’abbandono delle armi fatto da un soldato ignavo durante il combattimento; potremmo rendere meglio il testo originale traducendo «senza abbandonare le armi», «senza disertare»; l’esaudimento della preghiera dipende dalla difficoltà inerente al cammino della preghiera. La preghiera cristiana - si potrebbe dire la preghiera di tutta l’umana esperienza religiosa – non è tanto una domanda rivolta a una Divinità Onnipotente, che va importunata perché risponda, quanto l’ascesa di tutto l’essere umano a un livello più alto. Dio e l’uomo non sono allo stesso livello. Il concetto fondamentale del Vangelo è che l’uomo appartiene al livello della creazione in via di compimento, in cammino verso una completezza che l’uomo è chiamato a raggiungere con la sua totale dedizione. Il termine di questo cammino ascensionale è chiamato dal Maestro «il cielo» o il Regno dei cieli; esso non è al di fuori dell’umana coscienza, ma dentro: «II Regno dei cieli è dentro di voi» (Lc 17, 21). E dentro ogni essere umano come possibilità di un’ascesa interiore, di una seconda nascita; nella vita terrena l’uomo ordinariamente è in uno stato di sonno, di non vigilanza, di non capacità di tener gli occhi aperti alla piena realtà del mondo sensibile in cui vive. Una celebre preghiera indiana suona così: «Guidaci dall’irrealtà al reale, dalle tenebre alla luce, dalla morte all’immortalità» ( Brihadaranyaka Upanishad, I), e formula l’indomabile aspirazione dell’umana coscienza verso quella pienezza di vita, di amore, di conoscenza, di libertà, possibile soltanto a chi lacera i veli dell’illusione sensibile. Dio è in questa aspirazione; la preghiera è l’impegno umano perché essa si attui sulla terra; in questo impegno Cristo indica all’uomo la necessità di non disertare: «Pregate senza abbandonare la lotta». La preghiera è quindi aspirazione e ascesa, desiderio sconfinato di vita e liberazione dagli impedimenti che rendono impossibile la vittoria; il coronamento è l’infinita vita in Dio. L’aspirazione è il seme; la lotta per la sua crescita, la preghiera; il fiore il suo compimento. L’opera di Cristo è quella di ricollegare il seme con il fiore, di


rendere comunicanti la terra e il cielo, di dissipare l’illusione dei sensi e di aprire la porta della piena realtà che nel mondo si esprime. In questa riunificazione, l’uomo è esortato a non abbandonare per vigliaccheria, o per debolezza, il campo di battaglia. La vita, la verità, l’amore, la libertà patiscono violenza per essere conquistate; esse appartengono ai forti, ai coraggiosi, a coloro che non temono: «Pregate senza abbandonare la lotta!». Nella veglia d’armi cui siamo chiamati non troveremo consolazione, ma la gioia intensa della certezza di essere in cammino verso la verità. Uscire dal mondo dell’errore e approdare a quello della verità è la grande e universale aspirazione dell’uomo; solo i forti, quelli che non abbandonano le armi, possono giungervi. Il mondo delle illusioni dal quale è necessario evadere è costituito dall’ignoranza, dall’avidità; contro di esse è necessario fortemente e serenamente combattere. Quattro sono le avidità del corpo, della forma concreta corporea: l’avidità di mangiare, di bere, di tener gli occhi chiusi alle proprie responsabilità di esseri coscienti, di uccidere. Tre sono le avidità del corpo passionale: l’avidità di possedere, di godere, di imporsi. Tre sono altresì le avidità della mente concreta: l’avidità di conoscere ciò che accresce la potenza persona le, di essere considerato dai propri simili, di essere amato. Quattro sono le avidità della mente astratta: l’avidità di permanere nell’esistenza, come individuo o come gruppo, di essere onorato, di essere prescelto al compimento di grandi o piccole missioni, l’avidità di essere ricordato dagli uomini. Queste quattordici avidità stendono un fitto velo di ignoranza sullo spirito; contro di esse è necessario combattere incessantemente, senza deporre le armi: «Pregate senza abbandonare la lotta». La vita vera dell’uomo è nell’incontro con l’Assoluto, con lo Spirito in cui sono Verità e Vita. L’esistenza terrena dell’uomo non è che la via a questa Verità, a questa Vita. Se in questo vigile e intenso cammino ci verrà concesso di liberarci, anche per brevi istanti, dalle avidità, saremo spogli di ogni forma di ignoranza. Comprenderemo quanto sia inutile agitarsi per ciò che passa, dolorare per ciò che non rimane, quanto sia inutile e vano costruire mondi che la ragione demolirà e quanto, invece, sia necessario ascendere alla conquista della vita spirituale, dove la verità si manifesta in ciò che è: la bellezza, l’unica bellezza capace d’amore, degna d’amore. In questo incessante combattimento dimentichiamo il peso della nostra carne immersa nelle avidità, e assurgiamo alla vita nella sua pienezza; non ciò che fummo importa e neppure ciò che siamo, ma ciò che saremo. E, nell’instancabile e forte combattimento, la nostra essenziale implorazione di vita verrà esaudita. La preghiera ininterrotta è un amare, un voler essere, un desiderio insonne di unirci a Dio. Il senso intimo di questo cammino è il morire per essere, il morire a se stessi per essere in Dio. Anelito perenne dell’anima a trascendersi in Dio, non cercando Dio in noi, ma Dio in Dio, come negatore del nostro io.


Nulla sono le nostre idee, i nostri sentimenti, le nostre opere; questo nulla bisogna che si annienti, perché in noi viva l’Essere divino. Nell’istante dell’annientamento, la preghiera senza interruzione trova il suo esaudimento.


RISPOSTA A GIOBBE Giovanni Vannucci, « Risposta a Giobbe» , in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; La viva parola di Cristo. 5 a del tempo ordinario - Anno B; Pag. 115-118.

Il libro di Giobbe, nell’esperienza religiosa ebraica, si colloca sul crinale di un profondo cambiamento di coscienza. La domanda di questo giusto sofferente compendia ed esprime gli interrogativi che l’uomo di tutti i tempi si è sempre posto di fronte ai patimenti che accompagnano la vita terrena. Una risposta consolatoria e che permetteva la sopravvivenza fu, e lo è tuttora per molte coscienze, che la sofferenza è il frutto della trasgressione della Legge divina e, per questo, va sopportata come espiazione che ricolloca in equilibrio i piatti della bilancia della Giustizia. L’amico che tentò di consolare Giobbe delle sue sciagure ricorre alla spiegazione che, non essendo proprio della natura divina deviare la giustizia, la perdita dei beni e dei figli non ha altro motivo che i peccati commessi e la loro punizione. «Se i tuoi figli hanno peccato contro Dio, Egli li ha sacrificati per il loro delitto» (Gb 8, 4). Giobbe dichiara la sua innocenza e la sua incapacità di comprendere il comportamento di Dio nei suoi confronti. «Innocente io sono! E affermo che Dio lascia perire l’innocente e il reo [...] della disperazione degli innocenti Ei si beffa» (Gb 9, 21. 23). Il capitolo settimo del libro di Giobbe rivela lo stato d’animo del giusto sofferente che, non trovando una esauriente risposta, si mette una mano sulla bocca e, non osando più interrogare, pensa malinconicamente alla fragile fugacità e insignificanza della vita umana. «I giorni dell’uomo sono quelli di un salariato. Vive nel desiderio di un po’ d’ombra e di un po’ di sicurezza. Angosciosa è per lui la notte, triste l’alba. Un soffio è la sua vita, e una volta caduto sotto la ferula dell’Onnipotente il suo occhio non vedrà più il bene» (Gb 7, 1-7). L’interrogativo di Giobbe rimane nella coscienza umana, e porterà i suoi frutti nel corso dei secoli. I libri del Vecchio Testamento, successivi a quello di Giobbe, delineano una figura che completa quella del Giudice insindacabile, padrone assoluto della vita e della morte, vindice e geloso: la figura della Sapienza, coeterna e preesistente alla Creazione. «La Madre dell’amore perfetto, del rispetto, della scienza, della santa Speranza» (Sir 24). La figura, per usare il linguaggio di Jung, di uno «Pneuma di natura femminile, personificato» nella Sapienza-Amore eterni. Che la coscienza umana abbia cominciato, a partire dalle interrogazioni di Giobbe, a vedere il Volto di Dio sotto le luci della Misericordia e dell’Amore materno appassionato verso le creature, è un fatto di cui non possiamo non tener conto, perché indica il progressivo avvicinamento dell’uomo alla perfetta rivelazione del Mistero divino. Non è Dio che si rivela in una maniera maggiore o minore, è l’uomo che riesce ad avvicinarsi in maniera più o meno perfetta alla luce di Dio. Se poi, seguendo il percorso


della Rivelazione, che potremmo chiamare l’instancabile ascesa dell’uomo verso la Luce, notiamo una costante e crescente manifestazione del Volto Amoroso di Dio quanto più ci avviciniamo alla Rivelazione cristiana, non possiamo concludere se non che la dimensione cristiana è il superamento di ogni senso di colpa, di espiazione, di giudizio, di condanna e Progresso in uno stato coscienziale di amore, di benedizione, di rispetto a tutte le manifestazioni autentiche della vita e di riguardosa attenzione a quelle che alla nostra limitatezza possono apparire aberranti. Giovanni l’Evangelista, nella sua prima lettera, descrive la grandezza cristiana dell’amore dicendo: «Nell’amore non c’è timore; l’amore perfetto annulla il timore, perché il timore presuppone il castigo e chi teme non è perfetto nell’amore» (1 Gv 4, 18). Sulla linea di un’evoluzione della coscienza umana dal timore all’amore più appassionato delle creature e, in conseguenza, di Dio, linea dimostrabilissima anche solo da un’attenta lettura comparata dei due Testamenti, possiamo affermare che l’anima umana prima di conoscere l’amore conobbe l’orrore e il terrore, l’angoscia sottile dell’esistenza e il timore derivante dal sentirsi immersa in una vita cosmica avvolta dalle insidie del capriccio di incomprensibili Potenze. Questa paura consigliò l’uomo a venire a patti con le Potenze che sentiva più forti e più crudeli di se stesso; patti che, dovendo intercorrere tra l’uomo e la divinità concepita antropomorficamente, furono quelli che regolavano il rapporto tra il signore e i servi. Nacquero, in tal maniera, i riti di propiziazione, di espiazione per placare la Divinità offesa. Lo sgomento trovò una formulazione soddisfacente: la colpa contro la Divinità è la causa di tutto il male del mondo. L’uomo si proclamò colpevole, e si sentì inferiore a ogni gioconda creatura irragionevole. Il dolore, l’ingiustizia, la morte divennero accettabili, per la coscienza che si sente colpevole, anche se come Giobbe può proclamarsi innocente. Ma approfondendo il cammino religioso sente, come Giobbe, che un Dio che punisce e condanna è l’immagine costruita da una mente non liberata, che trova placazione nel complesso di colpa. La domanda: «Può Dio, che aleggia sul caos della coscienza pronunciando le parole “Sia luce”, punire e vendicare quelle deviazioni inspiegabili, ma forse necessarie, della natura umana in ascesa? Non costituiscono forse una felix culpa, un necessarium peccatum, che permette di riprendere l’ascesa valendosi delle rovine stesse?». Il brano evangelico di Mc 1, 29-39 ci presenta Gesù Cristo come un’impetuosa onda di vita: ovunque passa, colma le deficienze vitali di nuove forze di ripresa, rianimando le anime e i corpi, e annunciando che il Dio che lo muove è potenza che non giudica o condanna, ma che risana tutto l’uomo perché possa muoversi più speditamente verso il suo glorioso destino di luce.


Confrontando il testo di Giobbe, che segna l’inizio di una nuova visione di Dio, con il brano evangelico di Marco, che presenta la nuova figura divina nella sua opera di rianimazione delle vite indebolite, riconosciamoci quali siamo: creature in ascesa. La consapevolezza della nostra miseria e debolezza ci renda dolci e tolleranti, ci ispiri un universale senso di tenerezza e di pietà per tutti, ci renda alieni da ogni atteggiamento di giudizio e di condanna. La permanenza, in seno alla cristianità, dell’antico senso di colpa e di peccato ci fa ancora erigere a giudici, non chiamati, dei nostri fratelli. E mentre ci confessiamo peccatori e imploriamo la clemenza di Dio, dichiariamo altri uomini criminali e delinquenti! Forse il senso di colpa serve al nostro piccolo « io » per fermare la sua ascesa, ma non serve a renderci migliori. Gesù passa in mezzo a noi, instancabilmente guarendo ogni infermità e male, non dicendo se non parole di vita e di ripresa di vita. San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi (9, 16-19. 22-23), sente imperioso il bisogno di annunciare a tutti la Buona Novella della Redenzione: Dio non è giudice, ma amore materno e appassionato. Per questo si pone vicino ai deboli, condividendo le loro debolezze, per aiutare tutti a passare nella pienezza della vita evangelica.


SABATO SANTO Giovanni Vannucci, omelia pronunciata nell’eremo di S. Pietro alle Stinche, Greve in Chianti (FI) la notte di Sabato 17 Aprile 1976 (Sabato Santo), durante le funzioni della veglia pasquale. Registrata e trascritta da Elena Berlanda e Consalvo Fontani. Pubblicata in Nel cuore dell’essere, edizioni Fraternità di Romena, Pratovecchio (AR), 2004.

In questa notte santa si conclude il triduo della settimana santa, che costituisce la nostra presa di coscienza dei valori profondi che Cristo ha comunicato al nostro cuore e che noi dobbiamo vivere per un dono di grazia, perché la nostra vita sia vera, sia rispondente al grande sogno che Dio ha avuto creando l’uomo. Il Giovedì Santo ci fu rivelato il grande mistero compiutosi in Cristo: Cristo che, attraverso la figura del pane, ha assunto tutta quanta la terra, tutta quanta la vita, tutte quante le manifestazioni della vita, in tale maniera che ha abolito la solitudine sulla terra. In ogni essere vivente c’è Cristo che vive. Il giovedì santo ci fu comunicata anche l’altra conoscenza: Cristo, con il suo sangue, si appropria di tutto ciò che rende nobile, grande, vero, l’uomo. Tutti i grandi sogni di bellezza, di verità, di volontà, di generosità, che spingono il cuore dell’uomo, sono il sangue di Cristo che circola in tutta l’umanità e la rende vivente della vita di Cristo. Il venerdì ci fu rivelata la grande conoscenza che sulla croce, dove Cristo pende cadavere, c’è la vita: la morte non esiste più, la sofferenza ha un senso, il nascere ha un significato, il vivere ugualmente e così anche il morire. Qui sulla terra, attraverso il dolore e la sofferenza e l’amore e la gioia, noi siamo in cammino verso la nascita dell’uomo vero. Ogni intensità di partecipazione alla vita, di cui noi siamo capaci individualmente, porta avanti verso il compimento l’apparizione dell’uomo vero nell’umanità. Stasera, in questa notte santa, in cui veneriamo la deposizione della salma di Cristo nel sepolcro e la sua risurrezione, ci viene consegnata una grande conoscenza: tutto è stato risantificato, rianimato, rivivificato da Cristo. Per questo, stanotte, abbiamo benedetto nuovamente l’acqua, abbiamo benedetto il fuoco e dal fuoco nuovo abbiamo acceso le nostre candele e il cero pasquale. Perché abbiamo benedetto l’acqua? Perché comprendiamo il mistero dell’acqua e comprendiamo anche che nell’acqua c’è la santità e la santificazione delle energie redentrici di Cristo. Che cosa è l’acqua? È la matrice della vita. L’acqua è tutto ciò da cui nascono le nostre impostazioni di vita, i nostri desideri, i nostri progetti, i nostri impegni. Tutto quello da cui partiamo per poterci muovere nell’esistenza con delle mete precise è l’acqua, è la scaturigine, è la sorgente. Abbiamo bisogno, in questa notte santa, che Cristo discenda in tutti i nostri progetti, in tutti i nostri desideri, in tutte le nostre decisioni, perché li riassuma in sé, li liberi da tutto ciò che c’è di ombra e di tenebra, li illumini in modo che la nostra azione


umana, che nascerà dopo questa notte, sgorghi da una sorgente pura, da una sorgente risantificata da Cristo. Per questo, vedete, è necessario che noi scendiamo nel sepolcro profondo del nostro essere per vedere le radici di tutti i nostri desideri, le matrici di tutte le nostre impostazioni di vita e le ragioni profonde di ogni nostra azione nell’esistenza, perché, spesso, anche l’azione più nobile ha delle radici sbagliate. Questa notte è stata ribenedetta l’acqua, sono state riconsacrate le radici profonde di tutte le nostre motivazioni umane, perché possiamo riprendere sereni e fiduciosi come il sole che riprende il percorso ad ogni alba - il nostro cammino di uomini. E poi abbiamo ribenedetto il fuoco. Che cosa è il fuoco? Il fuoco è l’intensità con la quale noi partecipiamo alla vita: bisogna che anche in questa intensità noi abbiamo la certezza che c’è Cristo presente, in modo che il nostro fuoco non sia un fuoco che brucia affumicando, un fuoco che nasce dal nostro egoismo, dalle nostre ambizioni, dai nostri desideri, ma un fuoco che nasce dall’amore di Cristo. Queste parole sono inutili perché, penso, noi dovremmo vivere in silenzio il mistero di questa notte, lasciando scendere i gesti che vengono compiuti nel nostro essere perché vi evochino le loro conoscenze che sono racchiuse nella semplice e silenziosa espressione di un gesto, di una benedizione, di un fuoco, di una fiamma che ascende, di un cero che illumina la nostra tenda. Ma vi ho detto questo perché dobbiamo continuamente ripensare alla nostra grandezza di uomini chiamati a diventare figli di Dio per poterci muovere sempre con maggiore purezza, con maggiore intensità, con maggiore verità e con maggiore libertà interiore. Allora noi saremo quello che abbiamo espresso in questa notte: dei portatori di Cristo, dei portatori della luce di Cristo. Se Cristo come luce vive in noi, se Cristo come fuoco brucia in noi, tutto ciò che è vecchio, tutto ciò che è morto deve essere superato,. Dentro questa notte affrontiamo la vita come creature nuove, risorte con Cristo.


LA FIORITURA DELLA VITA Giovanni Vannucci, «La fioritura della vita», in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Festa della Santissima Trinità - Anno B; Pag. 97100.

La festa della Santissima Trinità potrebbe essere definita come la rivelazione di Dio, dell’uomo e di quanto può nascere quando la mente vive immersa nelle profondità del mistero trinitario. Purtroppo nel corso dei secoli noi cristiani abbiamo algebrizzato il Dio Uno e Trino, sì da ridurlo a una figura geometrica astratta che può favorire dei giochi di concetti e di parole, ma che lascia del tutto indifferente la nostra vita. Eppure siamo convinti che non una Parola della Rivelazione non debba esser vissuta; allora dobbiamo con coraggio liberare l’immagine della Trinità dagli algebrismi, per risentire il mistero trinitario come onda calda che ci sommerge e ci ridona la gioia di una piena partecipazione alla vita. Fermiamoci a considerare le parole che sono il centro della liturgia di questa domenica: «Andate, consegnate e fate ripetere le mie parole a tutte le genti. Immergetele nel Nome del Padre, Colui che crea parlando; del Figlio, la Parola creatrice che il Padre pronuncia sempre nella materia vivente; dello Spirito, l’energia divina vivente che guida il creato verso la sua trasfigurazione» (cfr. Mt 28, 19). Traduzione un po’ lunga, ma necessaria per la liberazione dell’immagine trinitaria dagli algebrismi che sopra vi abbiamo costruito. Ho parafrasato le parole: «ammaestrate» con «consegnate e fate ripetere le mie parole»; Gesù non conosceva altro modo di ammaestramento che quello proprio della sua gente. Ancor oggi presso i popoli semiti, ebrei e arabi, l’insegnamento della Rivelazione è basato sulla ripetizione ritmica delle parole dei testi sacri; ripetizione che fa scendere le parole in tutto l’essere del recitante e lo predispone all’ascoltazione di Colui che le ha pronunciate e che, con voce percepibile dall’orecchio interiore, continua a pronunciare. Il dovere del credente è di continuare a ripetere e a trasmettere le Parole del Maestro, non quello di ammaestrare con delle teorie o ideologie costruite attorno a esse. Le teorie e le ideologie spesso, se non sempre, camuffano una sottile o grossolana ambizione di potere, e la sete di potere fu esorcizzata dal Maestro. Le parole scendono nel profondo dell’essere, sia di colui che le ripete sia di colui che le ascolta, e vi operano le necessarie trasformazioni, per vibrazione libera, non per imposizione dottrinaria. Anni fa un arabo, professore in una università europea, mi raccontava che un giorno, ripetendo i versetti coranici della preghiera giornaliera, essi gli divennero, anche visibilmente, luminosi; da quel giorno, mi disse, ho compreso e sono totalmente cambiato.


«Battezzandole», dice la traduzione; essa limita la parola di Cristo al battesimo sacramentale; il verbo «immergetele», invece, comprende il primo ma anche molto di più: inondate il mondo con l’onda del Nome. Del Nome dal quale derivano tutti gli altri nomi, anche quelli del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. I nomi delle cose visibili e invisibili discendono dal primo ineffabile Nome; fermarsi a uno di essi è distaccarlo dalla sua sorgente, compiere atto d’idolatria, alterare l’armonia dei mondi. I credenti hanno la missione di immergersi e di immergere nell’onda trinitaria tutto il creato. Di vivere cioè la certezza di fede che il creato non è la risultante di un cieco impulso di cellule mosse dal caso o dalla necessità, ma lo straripamento di una Coscienza infinita che su tutti gli esseri amorosamente vigila: questa è la immersione nel Padre. Non possiamo fermarci al Nome del Padre, ma vivere la realtà del Figlio. La realtà del Figlio è nel sentire che la terra, la carne, la materia sono il frutto della parola pronunciata da Colui che parla e crea, la sua corporificazione: la Parola si è fatta carne. Dal Figlio nasce l’amore per la terra, il coraggio di credere al suo destino, di amarlo, di anelare alla sua luminosa realizzazione. Amore che non è fine a se stesso, ma è chiamato ad andare sempre oltre, finché tutto non approderà nell’infinita coscienza, nell’infinito amore, nell’infinita libertà dei figli di Dio, immergendo in tal modo il creato nello Spirito. Immersi nel Nome trinitario ci veniamo a porre sopra la vita, sopra la morta vita delle passioni, degli istinti, delle piccole virtù, dei limitati ideali, e sprofondiamo nella luminosa onda del più appassionato amore per la vera vita, per le certezze folgoranti, per gli ideali che trasfigurano la terra e la carne.

Preghiera alla Trinità Trinità santa. Mistero vivente, che esprimi te stessa con quanto ognuno di noi ha di più puro, che distruggi quanto di Te non è compenetrato in noi, t’invochiamo: Vieni! Avvolgici nell’onda del tuo amore, del tuo amore che dissipa l’ignoranza, vince le separazioni, spezza le catene. Donaci la fede vera; quella fede che muove le montagne; quella fede che non ha paura di nulla; quella fede che osa tutto. Quella fede che è certezza che in ogni cosa tu sei presente, che ogni cosa tende solo alla tua pienezza. Noi, ammalati di sofismi, ammalati di incertezza, resi infermi dall’ansia, paurosi di ogni novità per noi e i nostri figli, noi che abbiamo perduto la speranza, rinunciato all’amore, ti domandiamo il dono della fede. Fa’ che crediamo in Te, con ogni forza, ogni ardore, ogni dedizione; rendici credenti in umiltà profonda.


Allora sarà in noi come una primavera dello Spirito; allora vivremo di Te e Tu tra di noi; allora ci sarà dolce rinunciare a quanto non sei Tu stessa. Riconosciti in noi, perché, per avvilita che sia la tua immagine, essa è pur sempre quella che tu hai impresso in noi. Noi ti vogliamo somigliare, rendi valido il nostro volere! Dio, Uno e Trino, nostra fortezza, ricordaci e ricordati di averci creato a tua immagine! Amen.


LA LUCE E LE TENEBRE Giovanni Vannucci, «La Luce e le tenebre», Santissima Trinità, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 87-89.

Le parole: «Dio ha così amato il mondo da inviare il Figlio unigenito, non perché giudichi il mondo ma perché sia salvo» (Gv 3,16.17); «La luce venne nel mondo e gli uomini amarono più le tenebre che la luce» (Gv 1,5.11), rivelano l’immenso amore di Dio e la tragica presenza nella coscienza umana di una possibilità di rifiuto. Amore sconfinato da una parte, possibilità di non accoglierlo dall’altra: tra questi due poli si svolge la dolorosa vicenda dell’umanità; la via della liberazione è nell’accettare la luce riaccesa dal Figlio nel cuore del mondo. C’è il mondo, c’è Dio; dopo Cristo, il mondo non è più abbandonato a se stesso, nel suo profondo opera l’energia salvifica del Figlio come presenza che plasma e guida la materia amorfa verso le sue origini divine. Quando una coscienza umana l’accoglie comincia ad amare e a sognare; ad amare le realtà non sottoposte al disfacimento e alla corruzione, a sognare la casa del Padre dalla quale viene e verso la quale è in cammino, e così ritrova la sua vera natura di figlia regale. Il primo incontro con la luce di Cristo rende consapevole l’anima che la sua avventura, nella carne e nel sangue, è decisiva e definitiva. O riuscirà a fissare in se stessa la luce divina, divenendo in tal modo il veicolo della presenza redentiva del Cristo eterno e immanente; o rifiuterà di lasciarsi fecondare dalla luce e, allora, si spegnerà come scintilla caduta nel fango. Se accoglierà la luce sarà nell’onda dello spirito vivente, e la sua vicenda nel mondo, pur incontrando un termine nella morte fisica, non si concluderà per questo, ma di cielo in cielo continuerà la sua corsa nell’infinito, verso la mèta unica e suprema che è Dio stesso. La sua vita nel mondo, nella vita terrena e fisica, assumerà per lei il significato di una necessaria esperienza, che non si conclude nel giro angusto di una vita terrena, in un corpo di carne. «Dio amò il mondo tanto da dargli il Figlio unigenito, perché chi l’accoglie non perisca, ma abbia l’infinita vita». La vita nel mondo è, per ogni anima, determinante, è la misura suprema, la suprema prova agonistica; essa decide la vita e la morte, poiché le permette la valutazione esatta di tutte le sue possibilità. Se essa, durante l’avventura terrena, si mantiene unita alla sua vera luce mentale, se non perde per sua colpa il contatto con Cristo, luce del mondo, vivrà perché Cristo è l’infinita vita. Chi invece, con la volontaria ignoranza, con la volontaria adesione alle tenebre del mondo, rifiuta la luce rimane nella morte, non essendo in lui comunicazione di vita e di grazia. Esiste nell’uomo una presenza di luce che


continuamente parla, ammonisce, guida, conforta, illumina, esorta: la cosiddetta voce della coscienza, che è in realtà l’interiore rapporto spirituale che, trasformato in azione psichica, si contrappone a quanto nella materia vorrebbe arrestarne il volo. L’uomo sa ciò che è bene e ciò che è male, nel suo interiore è più che convinto della necessità di non fermare la sua marcia ascensionale. Nel mondo delle forme, nel piano dell’esistenza, niente è così sicuro, così fermo, così stabile come egli sa e sente che sarebbe necessario per rispondere alla sua vera natura. L’uomo effimero, ma eterno, contrasta con la perennità delle cose labili e queste realtà labili e perenni cercano in mille modi di fermare, di trattenere quel principio spirituale portato per sua natura a trascenderle. La lotta tra le tenebre e la luce è tutta qui: o l’uomo ascolta la voce del suo spirito interno e trascende la materia, allora verrà assunto dalla luce del Figlio donato al mondo da Dio, e in lui sarà confermato illuminandosi, conservando, nella suprema illuminazione, qualcosa di peculiarmente suo: l’individualità; oppure cede alle lusinghe della forma, alle suggestioni e agli inganni della tenebra, allora morirà, disperso nei mille suoi principi costitutivi, distrutto nella sua individuale sostanza, e questa è la permanenza nella tenebra, opposta alla luminosa certezza del possesso interiore del regno di Dio. «Questo è il giudizio: chiunque fa cose vili odia la luce, chi opera nella verità va nella luce». L’incontro con la luce del Figlio che Dio ha donato per la salvezza del mondo è un evento interiore che si effettua nella carne e che mediante il tempo si afferma nell’eternità. L’uomo da solo ben difficilmente potrebbe riuscirvi, per questo il Figlio è stato mandato, «perché non uno solo si perda di quanti a lui furono dati dal Padre». Gli ostacoli che le tenebre oppongono alla luce sono principalmente tre e tutti di natura mentale: orgoglio e presunzione di sé, in quanto io separato; chiusura egoistica a ogni altra espressione di vita; rifiuto di aderire alla verità conosciuta, in quanto implica una necessità di sacrificio. Su questi tre cardini della cattiva volontà, il potere delle tenebre cerca di agire continuamente per impedire alla luce di manifestarsi nella coscienza, cosicché venga rifiutata dalla sua dimora e l’anima rimanga in balia delle forze nemiche. Quando l’uomo, attraverso lo sforzo di ascesa, l’esercizio affinante della meditazione, perviene a eliminare questi tre ostacoli, la luce si spande liberamente in lui, gli si manifesta in pienezza di conoscimento; alla mente rapita si rivelano le cose occulte; i misteri si schiariscono; si placano, trovandosi risolti tutti i dubbi. Quando l’uomo capisce di avere in se stesso la luce divina, viene rivestito da essa, le sue opere diventano luminose, perché «in Dio sono compiute». Sia tale uomo colto o incolto, comunicativo o introverso, abbia in sé la forza che trascina o ne sia privo, quando parlerà tutti lo capiranno, quando tacerà il suo silenzio sarà più forte e più vero delle parole. Chi si abbandona alla luce che è in lui, con umiltà profonda, vive nell’amore col quale Dio ha amato il mondo, non perirà nelle tenebre e vivrà la vita eterna, l’infinita vita divina.


Sentirci tutti amati da Dio Giovanni Vannucci, omelia pronunciata domenica 17 luglio 1977 durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 19 nell’eremo di San Pietro alle Stinche - Greve in Chianti, FI). Pubblicata in Nel cuore dell’essere, collana «I mistici» Mondadori editore, Milano, 1998. «sentirci tutti amati da Dio» pag. 110-114, 16 a domenica del tempo ordinario Anno C.

La parte più giusta è quella scelta da Maria che, nonostante il grande indaffararsi della sorella Marta, rimane ferma ai piedi di Gesù e ne ascolta le parole. E Marta si lamenta. E Cristo le dice: una cosa sola è necessaria all’uomo, e Maria ha scelto la parte più giusta. In questo episodio io vedo raffigurata la storia di noi cristiani. Una parte, una gran parte di noi cristiani si agita in un’infinità di cose, anche cose buone, attività, iniziative caritative, predicazione, evangelizzazione, annuncio della Parola ai popoli dove la Parola non è stata ancora portata. E in questa agitazione siamo presi da mille cose: organizzazione, strutture, associazioni potenti, incanalazione della parola di Cristo attraverso le vie di affermazione di una idea, attraverso le vie della diplomazia, della politica, ecc. E questa gran parte di cristiani, che, credo, siamo quasi tutti noi, è raffigurata dalla persona della sorella Marta, che traffica per la casa. Poi, a un certo momento, non ne può più e dice a Cristo: manda mia sorella a darmi una mano! E sente una risposta che non si aspettava certamente: una cosa sola è necessaria, e Maria ha capito. E anche per noi cristiani una cosa sola è necessaria: mettersi silenziosamente ai piedi di Cristo per cercare di capire quello che è Cristo, per poter vivere quello che è Cristo; dopo verranno le iniziative, le agitazioni e le opere, ma prima dobbiamo cercare che il nostro essere sia trasfigurato e trasformato dalla presenza silenziosa di Cristo. E qual è - non so se vi siete mai domandati - la verità più assoluta, più importante, più essenziale, più semplice anche, che Cristo ci ha portata? Noi diciamo: l’amore del prossimo. No, l’amore del prossimo è una conseguenza di una pienezza che dobbiamo raggiungere personalmente, perché se poi guardate cos’è l’amore del prossimo di noi cristiani, c’è da rimanere piuttosto stupiti: perché basta che il mio prossimo abbia una tessera di partito differente dalla mia, che io comincio ad amarlo meno; oppure che abbia delle idee diverse dalle mie, idee religiose, anche idee scientifiche, io comincio ad amarlo meno. Se poi questo prossimo mi è antipatico oppure è in una situazione o psicologica o fisica che urta la mia sensibilità, io lo comincio a guardare come un sottoprossimo, un prossimo da amare, ma con minore intensità. Quindi l’amore per il prossimo non è la verità essenziale che Cristo ci ha dato, ma ci ha detto una verità di cui dobbiamo appropriarci, e Maria l’ aveva capita, Marta no. E la verità essenziale del cristianesimo io penso sia questa: dobbiamo sentirci tutti amati da Dio. Prima che noi esistessimo, nel silenzioso mondo del nulla, un amore ci amava e un amore pronunciava il nostro nome che poi è apparso all’esistenza. Ve lo


siete mai detto questo nella vita, che siete amati da Dio? E che dovete rispondere a questo amore di Dio? C’è un certo pudore nella nostra vita intima cristiana, che ci impedisce di dirci chiaramente queste grandi cose: io sono amato da Dio. Proprio io, nella mia realtà, intelligente o non intelligente, dotato o non dotato, abile o non abile, forte e vigoroso fisicamente oppure non vigoroso fisicamente, libero nei miei movimenti fisici oppure handicappato. Comunque sia la nostra realtà, noi siamo amati da Dio. E nella forma che abbiamo qui sulla terra, con la nostra intelligenza, con la nostra volontà, con i nostri sentimenti, con la nostra realtà fisica, qualunque essi siano, noi siamo il frutto di un amore infinito, che è l’amore di Dio. E quando cominciamo a sentire profondamente nel nostro essere questa verità, allora il nostro modo di comportarci con gli altri è diverso. Perché se io so di essere amato da Dio e so che ogni uomo che viene all’esistenza e ogni creatura che appare all’esistenza è il frutto di un amore infinito, il mio comportamento cambia. Ma per capire che gli altri sono amati da Dio come io sono amato, bisogna che io mi persuada e compenetri quest’idea. Dopo possiamo agire. E allora la nostra azione sarà l’azione di uomini illuminati da questa certezza di fede, da questa certezza interiore. E io penso che una delle regole per poter capire veramente e sentire e vivere veramente questa elementare verità cristiana che Cristo ci ha portato, è dovuta anche alla nostra ragione. Come può lo storpio essere amato da Dio? Come posso io nei miei limiti, con le mie ombre, con le mie insufficienze, essere amato da Dio? La nostra ragione allora avvolge questa percezione di fede da una infinità di dubbi, di incertezze, e rimaniamo fermi. E nonostante questa nostra mancata persuasione, di essere amati da Dio, vogliamo operare cristianamente nella vita. E non possiamo operare perché non abbiamo questa certezza profonda che ci rende sereni, ci rende fiduciosi, ci rende pieni di speranza. Qualunque sia la nostra realtà umana nella vita. E allora abbiamo attorniato Cristo, che sta sempre in mezzo a noi - “Io sarò con voi fino alla consumazione dei secoli” -, lo abbiamo attorniato di teologie, di interpretazioni, di leggi, di codici di morale, di direttive di comportamenti umani, lo abbiamo attorniato di politiche, lo abbiamo attorniato di una infinità di cose che nascono da noi. E per poter ritrovare la vivezza di questa verità che Cristo comunica continuamente a noi uomini, bisogna spogliarci di tutte queste cose e riavvicinare Cristo con la semplicità della sorella di Marta, in silenzio, per ascoltarlo. Non so se vi siete mai posti questa affermazione: io sono amato da Dio! Perché se in noi c’è questa certezza, allora avviciniamo gli altri al di là di tutte le definizioni, di tutte le etichette che ordinariamente vi appiccichiamo noi uomini. Non mi interessa di sapere se uno è bianco o nero, rosso o giallo. Non mi interessa di sapere se uno appartiene a un movimento politico o a un altro movimento politico, perché il mio rapporto si fa immediato e punta verso l’essenza dell’altro, che non sono le idee, i pensieri, gli orientamenti religiosi o altro del genere, ma è l’essenza, è l’uomo, ed è amato da Dio come io sono amato da Dio. Allora nasce una nuova socialità, che abbatte


tutte le barriere e tutte le divisioni. Il nuovo rapporto fra uomo e uomo è stabilito da questa certezza di fede profonda. E credo che nel nostro tempo noi cristiani siamo chiamati ad avvicinare Cristo con quella semplicità e quel silenzio con cui Maria lo ha avvicinato. Mettersi al di fuori di tutte le faccende, di tutte le nostre preoccupazioni di apostolato, di evangelizzazione, di affermazione del cristianesimo o del cattolicesimo, e andare dritti ai piedi di Cristo e ascoltarlo in silenzio, perché la sua realtà scenda in noi e perché nella nostra coscienza nasca questa certezza vivificante e trasformatrice: noi siamo amati da Dio e ogni essere umano che incontriamo sulla terra è un frutto dell’amore di Dio, nelle sue differenze, nelle sue ombre, nelle sue diversità. E’ un frutto che è apparso nella vita come atto di un amore infinito, dell’amore infinito di Dio. E allora fra noi uomini sicuramente nascerà una nuova socialità, un nuovo rapporto di amore e allora potremo veramente cominciare ad amare, ma sarà un amore che scaturisce, spontaneamente, da una trasformazione che viene operata in noi da questa certezza: che noi tutti siamo amati da Dio. E credo che il nostro tempo, come vi dicevo, richieda, da noi cristiani, questo ritorno silenzioso vicino a Cristo per apprendere questa grande verità, che tutti siamo figli di Dio. Come ogni figlio è frutto di un amore, così anche noi siamo il frutto dell’amore di Dio, senza nessuna distinzione, senza un più o un meno. Ecco, questa grande verità la dobbiamo vivere, e vivendola troveremo i modi giusti per annunciare la rivelazione cristiana che non deformeremo più con visioni, mete, organizzazioni umane, ma la trasmetteremo da cuore a cuore, silenziosamente, perché sostenuti dalla certezza che siamo amati da Dio. Tutti, senza distinzione.


SIATE SVEGLI ! Giovanni Vannucci, «Siate svegli», 01 a domenica d’Avvento - Anno B; in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 11-14.

Gesù disse: «Abbiate gli occhi aperti, siate svegli! La venuta del Figlio dell’Uomo non vi trovi addormentati» (Mc 13, 35). Il Figlio dell’Uomo è venuto e ha avuto la sua perfetta manifestazione in Gesù Cristo; il Figlio dell’Uomo viene continuamente, nella silenziosa ascesa di ogni coscienza nella verità e nella grandezza dell’uomo. Ascesa che rivela l’inconsistenza, la presunzione, la mancanza di saggezza di tante nostre limitazioni. Siamo noi cristiani? Per rispondere non guardiamo i registri di battesimo, le idee religiose, le pratiche devote; interroghiamo la nostra ascesa nella verità di figli dell’Uomo e di figli di Dio. Il sussiego che caratterizza troppo spesso la nostra professione di fede cristiana è un impedimento alla nascita in noi dell’Uomo vero, figlio della terra e del cielo. L’Uomo vero è in cammino, ed è la silenziosa incarnazione della Parola eterna nell’umana coscienza, la non violenta, tenace come la forza della vita, regale presa di possesso degli uomini che le appartengono per quelle qualità che non sono di questo mondo, ma del mondo futuro, del tempo nuovo. «Verranno dall’Oriente e dall’Occidente uomini silenziosi e illuminati, che non appartengono alle ufficiali file dei cristiani, e prenderanno il loro posto». Gesù è venuto a portare il tempo nuovo, tempo equinoziale per tutta l’umanità. Come l’equinozio separa la stagione, cosi il tempo nuovo portato da Gesù separa la pesantezza della carne dell’uomo dalla santità della sua natura spirituale. Come il gallo del mattino, Egli chiama i dormienti; quelli che si sveglieranno e che sapranno restare svegli, saranno la sua eredità; coloro che terranno chiusi gli occhi, che entreranno dormendo nel tempo nuovo, resteranno eredità della bestia che è in loro. Egli fu innalzato per essere un segnale alle genti perché il suo grido venisse udito da tutti i dormienti. Siate svegli! È il segreto della potenza e della vittoria umana. Siamo convinti di essere svegli, in realtà dormiamo un sonno profondo e siamo tormentati da sogni di incubo. Con fili di sogni ci siamo costruiti una rete ove siamo rimasti impigliati, più ci impigliamo e più ci addormentiamo, e più ci addormentiamo, più l’elemento bruto della nostra natura si risveglia. E così, ottusi, indifferenti al bene, incapaci di pensare autonomamente, molti di noi vanno per le strade della vita come mandrie verso l’ammazzatoio; altri, sognando e agitandosi nel sogno, credono di essere svegli, in realtà dormono ancora più profondamente, posseduti più profondamente dal torpore, e questi non sono affatto i poeti, i contemplativi, i dotati d’immaginazione creatrice,


sono invece gli attivi, gli zelanti, i costruttori, gli iniziatori di movimenti di massa, i dominatori di popoli, i vari messia bruciati e distrutti dalla mania di agire; quelli che han sempre da fare, gli agitati. Pensano di essere svegli, di sapere quel che fanno, di volere ciò che vogliono, in realtà il sogno è il loro padrone, non essi i padroni del sogno. Essere svegli significa partecipare con pensiero cosciente e vigile a ogni istante della vita, per avvertire i segni che vengono dall’alto e dal profondo, dalle dottrine stabilite e dalle coscienze viventi che tali dottrine sentono ormai legate a un passato che più non è per l’uomo. C’è il tempo dell’apparizione delle gemme e il tempo della fioritura, il tempo della fruttificazione e quello del ritorno del germe in seno aIla terra, per poi risorgere alla vita. E ogni tempo ha la sua parola e il suo annuncio; quando è l’ora dell’interramento, il rimpianto e la nostalgia dei fiori e dei frutti non hanno più senso, sono sogni dell’uomo che non è sveglio. Essere svegli è l’atteggiamento richiesto a ogni coscienza lungo le tappe che costeggiano il cammino della Rivelazione, che ascende trascinando con se le anime vigilanti. Per noi, creature umane, il mistero religioso vien celebrato nell’essere svegli; dobbiamo imparare a passare da un risveglio all’altro, se vogliamo vincere la morte. La morte s’inizia a vincere superando il torpore, il sonno, il sogno. Il primo passo è vincere il primo nemico, il corpo, con le sue esigenze di vita comoda e protetta, di ricerca di beni confortevoli e di mura calde e protettrici; il secondo è l’anima con le sue richieste di essere stimata e applaudita, amata e considerata; il terzo è la ragione concreta, quella che da l’illusione della veglia, che identifica le sue conoscenze con la sapienza divina, i suoi piani con i valori divini, le sue ideologie con i pensieri divini. La vittoria sul primo dischiude il pensiero cosciente; quella sul secondo apre il dono del discernimento del proprio personale compito; quella sul terzo ci offre la grandezza dell’umiltà. La consegna evangelica a chiunque lotti per essere sveglio è di gettare allo sbaraglio la propria vita, la propria anima, per possederla. Lo stato di veglia è la cosciente apertura mentale al mistero divino infinitamente lontano da noi, ma che ci avvolge dentro di sé, ed è in noi più assai che il battito del nostro cuore. Sempre avanti alla sua creazione, che guida alla perfetta fioritura di tutti i germi di vita che instancabilmente vi dissemina. Essere svegli vuoi dire aver raggiunto l’apertura dell’occhio interiore che scorge il cammino di Dio nel creato e spinge tutto l’essere umano a seguirlo. Nello stato di vigilanza il corpo viene mutato nello spirito; il cuore si spoglia dalla cupidigia di prendere e di ricevere e si dischiude nella qualità divina del dare senza misura, senza tornaconto, senza bramosia di premio; la mente comprende i limiti, le angustie delle proprie visioni e con umiltà si offre alla vastità del pensiero di Dio. Il tempo nuovo avvolge l’uomo vigilante, e attraverso di lui si rivela Colui che è venuto e che verrà sempre, nelle coscienze che aprono gli occhi al suo eterno ritorno.


L’ASCESA CRISTIANA Giovanni Vannucci, «L’ascesa cristiana» - 01° novembre - Festa di tutti i santi - Anno C - in La vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985; Pg. 234-237.

Per iniziare l’ascesa cristiana bisogna porre il piede sul primo scalino che è, nell’enunciazione delle Beatitudini, l’ottava beatitudine: essa è il primo segno sul quale siamo invitati a misurare la nostra fedeltà alla parola evangelica. «Beati quando vi insulteranno e vi perseguiteranno per causa mia» (Mt 5, 11). L’evangelista Luca precisa questa beatitudine con più vigore: «Guai a voi quando gli uomini parleranno bene di voi!» (Lc 6, 26). Il regno di Dio è il rovesciamento del regno del Principe di questo mondo, il cristiano cittadino del primo è emarginato dal secondo, mentre il cittadino del mondo vi è accolto e applaudito. «Il mondo non odia voi, odia me e chi odia me, odia colui che mi ha mandato» (cfr. Gv 15, 18-24). Non vi è innocenza, purezza, virtù, non vi è prodigio che muti questa ferrea legge. L’opera dello Spirito è esiziale alle forme che reagiscono e si oppongono. Accettando questa posizione possiamo conoscere se siamo con Cristo o se siamo del mondo. Se siamo con Cristo, respinti dal mondo, né la morte, né l’inferno ci separeranno da Lui; se non siamo con Cristo, applauditi dal mondo, la stessa virtù ci allontanerà da Lui. Il mondo che è cristallizzazione di forme ed è ovunque, anche dentro la nostra Chiesa, non potrà vedere nella sconfinata libertà di Cristo e di chi è con Lui nulla di più che un’ingiuria all’ordine costituito. La sola presenza del discepolo di Cristo è un insopportabile biasimo a quelli che camminano in conformità ai principi del mondo. Seguire Cristo vuoi dire vivere in accordo con una giustizia differente da quella della carne e del sangue, la quale è diretta dall’egoismo: «Ciascuno per sé, Dio per tutti»; la giustizia del Regno dei cieli è animata, invece, dall’altruismo: «Amatevi gli uni gli altri» (Gv 15, 17). Esistono due giustizie: quella della materia ed è la legge del taglione; la giustizia del cielo ed è lo slancio dell’Amore. Le armi della seconda non sono la durezza dei dispotismi, o l’astuzia delle passioni possessive, ma la dolcezza, la pietà, la pazienza, la tolleranza. Esteriormente i suoi seguaci sono destinati all’insuccesso, il mondo li calpesta; sul piano della verità trionfano del mondo, e la loro vittoria è certa perché combattono


per lo Spirito. A essi basta la certezza di servire il Padre, che attraverso Gesù Cristo è venuto loro incontro come amico, che dona loro tutto quello che è suo, perché a loro volta lo partecipino ai loro fratelli scoraggiati. Il dono primo che ricevono nella loro ricerca della giustizia è la pace in se stessi, pace che riversano a larghe mani sugli altri. Pace che nasce dalla presa di coscienza che l’uomo è immerso nella guerra tra la materia e lo spirito. Pace che discende continuamente nei cuori pronti a riceverla. Pace che invade i cuori che hanno raggiunto la pazienza che tutto tollera, l’umiltà che li guida a scegliere sempre gli ultimi posti. Pace che li rende instancabilmente oranti, e dona loro un comportamento comprensivo e sorridente, che non è coinvolto nelle passionalità che incontra, perché animato dalla passione delle cose eterne. Pace che, distaccando il cuore da tutto ciò che trae verso il basso, trasformando tutte le energie di una coscienza, rende chi la possiede figlio del cielo. Il gradino superiore e la purezza del cuore. Puro è l’incorruttibile, l’integro, l’intatto, il metallo non alterato da altre leghe. Puro è il cuore che non cerca alcuna gioia per se stesso, che vede il mistero divino in tutte le cose che incontra, e in ogni creatura scorge un segno della Presenza invisibile. Puro è il cuore che tende con tutte le sue forze verso Dio, verso il suo Cristo, orientamento assoluto che rende capace di accogliere in sé l’Infinito, l’Inesprimibile, l’Inconcepibile, l’Assoluto, di vedere Dio. Il puro di cuore entra nel Regno della Misericordia divina. Il Regno della Misericordia è la pietà estesa a tutto ciò che vive ed esiste, a tutti gli uomini senza giudicarli, ma comprendendo le loro tragedie oscure, vedendole come via verso la luce. È l’oblio spontaneo degli inganni, delle offese, delle noie che le creature possono recarci. Il Regno della Misericordia è l’impossibilità di reagire alle offese, non perché non colpiscano la sensibilità, ma perché in esso l’uomo diventa così minuto da non essere centrato da nessun colpo. L’invulnerabilità del discepolo nasce dalla sua ricerca totale della giustizia, delle qualità essenziali della vita divina. La terra a questo punto apre le sue porte al discepolo fedele e fermo che ha raggiunto la mitezza, la perfetta spogliazione da ogni forma di opposizione e di chiusura egoistica. Accoglie tutta la vita con indulgenza comprensiva, con tolleranza e fiducia. Il mite indirizza tutte le sue energie verso la bontà essenziale e costante del Padre che è nei cieli. Vivendo in Dio, nel permanente, è indulgente con tutti gli smarrimenti del transitorio, avvolge di serena mansuetudine le manifestazioni dell’essere creato; essendo fondato nell’onnipotenza divina, non teme alcuna ribellione; vivendo nella verità, orienta con mitezza chi è smarrito verso la verità. Agli occhi del mondo appare come un rovinato: non cerca il successo, la violenza, il potere, non è avido di beni esteriori, avendo la consolazione, la pace armoniosa che lo


Spirito porta a chi è divenuto suo tempio. «Beati quelli che piangono» (Lc 6, 21; Mt 5, 4). Il termine dell’ascesa, scandito dalle Beatitudini, è il raggiungimento dello Spirito, della scintilla divina, del germe della seconda nascita, del punto di tangenza con l’assoluto, nella sua essenza liberata da quelle incrostazioni che l’esistenza vi ha depositato, la conquista della nudità dello Spirito, spoglio di quelle vesti che la carne, la volontà, la ragione vi hanno costruito sopra. Il cammino delle Beatitudini è la perfetta legge dell’identificazione della materia e dello Spirito, la legge dell’unità, perciò della giustizia e dell’amore. La perfetta sinfonia che assomma i valori e i ritmi del ritorno dell’uomo nell’unità, semplice e spoglia, della sua origine divina.


Vita nuova nello Spirito – Domenica di Pasqua Giovanni Vannucci, «La vita nuova», 6a domenica di Pasqua. Anno C, in La Vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, Pag. 89-92.

Quando l’uomo, anche per un solo istante nella sua vita, raggiunge la piena coscienza della presenza dello Spirito in se stesso, scopre una nuova forma di esistenza. Tutto è riunificato nella forza santificante dello Spirito che in lui è disceso mediante l’opera redentrice di Cristo. L’amore sconfinato di Cristo è passato dalla sua manifestazione visibile, nella storia, nello spazio e nel tempo, ed è penetrato nelle profondità dell’essere creato, alle sorgenti della vita, di tutta la vita e si esprime in maniera più cosciente, più visibile, più chiara nell’uomo. E il vino nuovo che scende risvegliando entusiasmo e gioia nel cuore creato. L’uomo ha piena coscienza di possedere una nuova qualità di forza, più elevata e più intensa. Attorno a lui l’aria stessa è impregnata di pace, di dolcezza e forza. Pace, dolcezza e forza che non vengono da lui, ma dallo Spirito. L’uomo, che fino a Cristo si sentiva la vittima di tutti i mali terrestri, prende sulle sue spalle l’essere per portarlo alla piena redenzione, alla liberazione perfetta, alla fioritura completa e assoluta in Cristo. L’uomo che si sentiva solo, separato dalle creature, per un’eredità malefica, ora si trova riunito al visibile e all’invisibile da un amore che è Dio stesso. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23). La mente non segue più un processo puramente razionale perché in essa c’è un amore nuovo: le sue forze sono ora, dopo la risurrezione di Cristo, dopo la discesa di Cristo nel profondo dell’essere umano, nutrite perpetuamente da un amore che detta le sue volontà all’intelligenza. Tutto è possibile all’uomo, nessuna creatura gli è più ostile, perché ha trovato le sorgenti del vero potere: «Chiedete e riceverete, la vostra gioia raggiungerà la pienezza. Come Io sono venuto dal Padre sulla terra e dalla terra concludo il mio cammino nel Padre, così voi, attraverso me, vi ricongiungerete alla sorgente del vostro esistere» (cfr. Gv 16, 24-28). La natura dell’uomo che crede nella risurrezione di Cristo per l’offerta totale di se stesso alle energie che da Cristo scendono, viene trasmutata dall’azione fecondatrice di Dio. Le tendenze inquinate del suo essere sono lentamente abolite; le aridità mentali, fecondate; le ferite, contratte nel duro combattimento dell’esistenza, guarite; le durezze emotive, portate verso l’intransigente giudizio e condanna,


disciolte dal nuovo alito di amore; la rigidezza implacabile della ragione, disgelata dalla luce calda dello spirito; il deviamento dei sensi, attratti dal fascino dell’esteriore, corretto dall’intima luce. Quando il miracolo della trasformazione è compiuto, l’uomo di fede ritrova il linguaggio perduto, la lingua nuova del primo giorno della creazione. Comprende l’essenza delle realtà create, gli è dischiuso il mistero delle cose, percepisce il senso del nascere e del morire, della gioia e del dolore. Libero da ogni inquinamento stende le sue mani radiose di pace e di gioia su tutto il creato, benedice ogni creatura, distribuisce vita a tutti gli esseri. In questo momento il miracolo della Chiesa sorge nella sua luce incontaminata, onde di verità, di speranza, passano nel cuore delle creature che riprendono il cammino fiduciose verso la città celeste che, bella come sposa, muove loro incontro danzando. Preghiera del mattino La tua luce scenda in noi, o Signore, come pace e gioia. Aiutaci a esser uomini di pace, o Signore. Se in noi non è pace non daremo pace, se in noi non è ordine, non creeremo ordine. Ricomponi le nostre forze, o Signore, nell’anelito di incontrarti negli esseri che oggi formeranno la nostra giornata. Aiutaci a scoprire la terra che hai affidato alla nostra fatica; aiutaci ad amarla e a portarvi ordine. Con Te la terra diventa il segno della tua presenza, con Te lo smarrito ritrova la via. Il nostro passaggio sia segno di vita e di bellezza, come il volo delle colombe che segna di candore l’azzurro. Insegnaci che noi apparteniamo agli altri, che la felicità degli altri sia l’unico nostro pensiero, o Signore. Le nostre labbra cantino il nuovo canto del cuore da Te liberato, o Signore.

Preghiera allo Spirito Consolatore Donaci, o Signore Gesù, il tuo Spirito Consolatore, la sua presenza ci riveli la verità delle cose create, l’effimero e l’eterno, l’illusorio e il permanente. Il tuo Spirito ci manifesti le conquiste della mente, ci inizi alla vita di contemplazione, e in essa trovi pace il nostro cuore inquieto. Il tuo Spirito illumini la nostra mente,


la renda attenta alla tua Parola e docile alla presenza silenziosa. O Signore, vogliamo comprendere sempre di più che lo Spirito Consolatore è Vita, non arida e lontana dottrina. I suoi doni non sono parole ma modi possibili di essere, che rendono spirituale la mente che vive di loro. La Sapienza sia per noi viva comunione con il Padre, unione con noi da parte di Dio, unione con Dio da parte nostra. L’Intelletto sia l’apertura del fiore mentale, la mente concreta si dischiuda allo Spirito e la Verità ci offra le sue perle preziose. La mente dischiusa dall’amore, libera dalla legge degli istinti e degli impulsi, raggiunga il dono del Consiglio e abbia pace nella conoscenza illimitata. Il nostro cuore abbia la Forza, non tremi per le avversità e per le tentazioni, e domini nell’amore le forze della natura conoscendole nel loro profondo. La Pietà sia la sicura guida per condurci al segreto cuore delle cose, per rispondere a tutte le domande di amore. O Spirito Santo, rivestici del Timore di Dio, insegnaci che il dono del Timore non è la paura, ma l’umile amore per il Padre e le sue creature. Canta in noi, o Spirito, il canto nuovo, il canto che nasce dai cuori puri,

il canto dell’uomo che ha ritrovato l’immagine e la somiglianza divina.


vivere secondo il ritmo della verità Giovanni Vannucci, «vivere secondo il ritmo della verità» omelia pronunciata durante la celebrazione eucaristica delle ore 18, domenica 18 gennaio 1976, nell’eremo di San Pietro alle Stinche - Greve in Chianti (FI). Pubblicata in Nel cuore dell’essere, edizioni Fraternità di Romena, Pratovecchio (AR) 2004.

Domenica, 18 Gennaio 1976 (IIa del tempo ordinario). .

In quel tempo, Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’Agnello di Dio!». E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: «Che cercate?» Gli risposero: «Rabbì (che significa maestro), dove abiti?» Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio. Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)» e lo condusse da Gesù. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)». (Gv I, 35-42)

Prima di parlarvi del vangelo di Giovanni che vi ho letto, volevo dirvi, per sincerità, che non condivido - e non vi scandalizzate di questo, abbiamo tutti la libertà dei figli di Dio -, non condivido un brano della lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi dove dice: “Fuggite la prostituzione! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impudicizia, pecca contro il proprio corpo”. Non condivido questo pensiero, perché mi sembra che il peccato nasca nell’anima, nasca dall’interiore. E ogni peccato si serve sempre dello strumento del corpo: non uccidere! è un peccato che si commette col corpo, sia pure se l’azione è diretta verso un altro corpo. L’impudicizia naturalmente coinvolge un’attività sessuale personale che si svolge anche attraverso il proprio corpo, ma limitare l’impudicizia unicamente a un’azione fisica, inquinante, mi sembra un ritornare verso dimensioni che il cristianesimo ha superato. Quello che deve preoccupare noi cristiani, e direi tutti gli uomini dopo Cristo, è la pulizia dell’anima, l’avere un’anima corrispondente al ritmo della verità. Quando io, dentro, sono vero, allora anche il mio corpo è vero; quando io, dentro, sono sbagliato,


allora anche il mio corpo è sbagliato. Ecco, non credo che esista un peccato che parte dall’esterno e che inquini l’uomo perché parte dall’esterno; ma in san Paolo è comprensibile, perché c’è tutta una mentalità puritana veterotestamentaria - che, purtroppo, ha continuato poi anche nel corso della storia del cristianesimo -, che non ci ha permesso di cogliere, in tutta la sua forza e verità, quella conversione dell’anima e di mente che Cristo domanda incessantemente a tutti i cristiani. Quando Cristo dice alla Maddalena - sapete, era una donna che aveva sbagliato nella direzione dell’amore, ma aveva amato -: tu hai amato molto e ti è molto perdonato, vuol dire che la grazia, la mondezza dell’uomo viene da una qualità che anche attraverso vie sbagliate l’uomo può raggiungere; e questa qualità è l’amore. Hai amato molto e ti è perdonato molto. Che grandi parole ha affidato a questa donna Cristo! e come dovremmo pensarci attentamente per poterle capire e per poterci liberare da certi atteggiamenti di giudizio, di condanna, che sono frequenti nel cristianesimo. Ora volevo parlarvi del Vangelo. Giovanni è insieme a due dei suoi discepoli; vede passare Cristo e addita Cristo ai discepoli dicendo: “Ecco l’Agnello di Dio”. Cosa significa l’Agnello di Dio? Noi siamo abituati, specialmente a Firenze, a vedere l’Agnello che porta la croce o Giovanni Battista che annuncia l’Agnello di Dio e abbiamo dato a queste parole di Giovanni tutta una nostra interpretazione, ma dobbiamo domandarci se è veramente l’interpretazione che nel pensiero di Giovanni era racchiusa nella metafora, nel simbolo dell’Agnello di Dio. E io penso di no. E lo penso stando ai documenti del tempo, a quel poco che ci è rimasto dell’epoca di Cristo. Nella bocca di Giovanni “Ecco l’Agnello di Dio” significava: ecco colui che si metterà a capo del popolo di Israele per distruggere il peccato. Ma il peccato non era un fatto soltanto morale, era un fatto, direi, sociale. Gli Ebrei erano i giusti. Al di fuori dell’ebraismo c’era il peccato: le nazioni erano i peccatori. E l’Agnello di Dio che abolisce il peccato, nel pensiero di Giovanni, è il condottiero del popolo santo che guida il popolo santo a sconfiggere il male, perché tutti i popoli confluiscano nella venerazione dell’unico Dio a Gerusalemme. Nella nostra esperienza religiosa, invece, l’Agnello di Dio ha un significato diverso e l’abbiamo visto nella vita di Cristo. Egli non conduce nessun esercito, ma è colui che dà la vita perché dalla coscienza dell’uomo, il rimorso, le conseguenze del peccato, le pesantezze del peccato vengano totalmente aboliti e l’uomo cominci a respirare in un’atmosfera nuova, dove non diventa impeccabile, ma dove il peccato non lo opprime, come nel periodo della legge opprimeva la coscienza dell’uomo. Non vi dico altro su questo; il discorso andrebbe molto in lungo. Dobbiamo sentire questo: nella nostra realtà umana il peccato che ognuno di noi commette non deve gravare il nostro cammino di uomini, perché l’innocenza è Cristo. È inevitabile che sbagliamo, ma dobbiamo riprendere con serenità il nostro cammino ogni volta che sbagliamo. I nostri sbagli sono delle gesta, delle azioni, dei pensieri, che ci rivelano la nostra immaturità, la nostra incompletezza di uomini. Ma sappiamo che in noi c’è una


spinta che ci porta a essere sempre più vicini alla verità dell’uomo. E anche l’errore deve dare a noi un principio di vita, di ripresa di vita, in quanto, misurando la nostra piccola statura, cerchiamo di compiere dei passi più decisi verso la totale liberazione del nostro essere dalle insufficienze, dagli smarrimenti, dalle immaturità. Quindi il peccato rivela semplicemente quello che noi siamo, ma non è un qualcosa che deve incidersi profondamente nella nostra coscienza in modo da renderci degli eterni piagnoni e degli eterni recitanti del miserere. Cristo è risorto, Cristo ha vinto la morte e ha superato il peccato, e noi in Cristo abbiamo questa forza, di liberarci da tutte le nostre ombre, da tutte le nostre pesantezze di anima, di mente, di carne, e un giorno saremo luminosi come il Cristo sul monte Tabor, quando le forze che Dio ha disseminato nel nostro essere saranno totalmente assimilate. Ma volevo dirvi anche un’altra cosa. Avete mai pensato che il tempo che viviamo noi uomini ha un doppio aspetto? C’è un tempo esteriore, quel tempo della nostra vita per cui ci alziamo al mattino, compiamo delle azioni, poi lavoriamo, viviamo e misuriamo questo tempo col nostro orologio e col nostro calendario. Questo è il tempo storico, è il tempo della vita esteriore degli uomini. Ma c’è anche un altro tempo e questo è molto più importante: è il tempo in cui, quando veniamo a esserne consapevoli, entriamo nella pienezza della vita reale dell’uomo. È il tempo dell’anima. È il tempo nel quale Iddio ci comunica le sue grandi rivelazioni e le nuove visioni. E questo tempo è differente dal primo tempo, perché il primo è misurabile, è quantitativo: un’ora, sessanta minuti, lavoro quattro ore, lavoro otto ore, dormo otto ore, dormo quattro ore. Vedete, tutto misurabile secondo dei dati di quantità. Il secondo tempo, invece, non è quantitativo ma qualitativo. E questo è importante per noi: sapere la qualità del nostro tempo, cioè cosa ci viene richiesto in questo momento, cosa viene richiesto a me in questo momento e in questo posto dal tempo dell’anima, dal tempo di Dio, dal tempo reale, per essere veramente uomo, veramente in corrispondenza con tutti quegli appelli che mi vengono rivolti da tutta l’esistenza di cui faccio parte. E la mia esistenza non è soltanto l’esistenza esteriore, percepibile con i sensi, ma è anche un’esistenza interiore, un’esistenza di anima. Così la nostra esistenza, così l’esistenza di tutte le creature. C’è questa doppia dimensione. Quando i due discepoli vanno dietro a Cristo e gli domandano: dove è la tua casa? hanno capito un fatto importante, hanno capito che con Cristo iniziava un nuovo tempo qualitativo. Il tempo di Giovanni è il tempo del giudizio. Se leggete tutte le parole riferite dal Vangelo a Giovanni, sono parole di un profeta duro, che dice: ormai la scure è alla radice dell’albero; fate penitenza, perché il giorno della punizione divina è giunto. Quindi, come vi dicevo, l’Agnello di Dio sulle labbra di Giovanni significava: ecco il Messia, colui che verrà a giudicare, a ristabilire la giustizia fra gli uomini che vivono


nell’ingiustizia, nella maggioranza perché non riconoscono l’unico vero Dio portato come tesoro inalienabile dal popolo di Israele. Questi due discepoli capiscono che inizia una nuova qualità. È la qualità dell’amore, del non giudicare, del non intervenire nella vita con dei principi assoluti o dogmatici o moralistici o legalistici. Cristo dice: non giudicate. Cristo ci dice: amate. E amandovi risolverete tutto, cambierete il mondo. Questa è la qualità che nasce con Cristo, già preannunciata e nell’ebraismo e fuori dell’ebraismo, ma questa qualità nasce con Cristo. E cosa fanno questi due discepoli? Seguono Cristo. Lasciano Giovanni e seguono Cristo. Cioè si inseriscono in quella nuova verità che scaturiva da Cristo, in quella nuova qualità che, attraverso Cristo, Dio determinava nella coscienza di tutti gli uomini. Ed ecco che i primi discepoli di Cristo vivono pienamente nel reale, non soltanto nel tempo storico - l’anno primo dell’era cristiana -, ma vivono nel tempo della qualità, nel tempo che rende l’uomo veramente reale. Ora, cosa succede nella nostra vita di uomini quando noi usciamo fuori da questa intensità che ci viene data dall’essere dentro la nuova qualità di un tempo? Cominciamo a definire questo spazio mitico, questo spazio di spirito, questo spazio di anima con delle proposizioni precise, con delle verità astratte, con delle leggi sempre più accurate e sempre più esatte, con delle forme di vita morale che vengono imposte. Quando nella storia religiosa di qualunque momento dell’umanità avviene questo secondo momento riflesso, possiamo dire che esso è il momento della decadenza, della degradazione del mito della religione. Questo sapete perché ve lo dico? Ve lo dico per un pensiero che mi ha molto rattristato in questi giorni. Leggendo la dichiarazione dei vescovi riguardo ai problemi sessuali dell’umanità presente (Il 15 gennaio 1976 la Congregazione per la difesa della fede, l’ex Sant’Uffizio, diffuse un documento sui problemi della sessualità nel mondo, che condannava una serie di comportamenti e pratiche sessuali.)

ho capito sempre più dolorosamente un fatto che si verifica nella cristianità, non soltanto cattolica, ma in tutta la cristianità: abbiamo ridotto la qualità dell’amore cristiano a delle casistiche, a delle leggi che vogliamo sempre più precise, ma che sono sempre delle astrazioni. Io, leggendo con una certa cura e con una certa sofferenza questo documento dei vescovi, mi sono domandato: ma sono inseriti nella realtà? Le cose che denunciano sono sempre avvenute. Ci sono sempre stati degli smarrimenti, sul piano dell’esperienza sessuale degli uomini, sempre. Ci sono degli uomini che seguono delle vie che noi non dobbiamo giudicare, perché non sappiamo a quale esposizione di luce la mela sull’albero matura. Non dobbiamo giudicare, ma dobbiamo vivere intensamente la liberazione dal male, personalmente, e senza giudicare. Ecco, mi domandavo: ma tengono conto di una gran parte di umanità che soffre, soffre per essere fedele a una vita ideale, a un ideale di vita più pulita, più nobile, più elevata? Oggi avevamo qui da noi dei giovani. Hanno fatto dei discorsi serissimi - erano tutti ragazzi sui venti, ventidue, ventitre anni -, discorsi serissimi anche su questi problemi.


Ora, bisognerebbe che i nostri pastori vivessero talmente a contatto con la realtà umana da non avere soltanto delle visioni tenebrose, dolorose, di una umanità che persegue delle strade aberranti. Se vedessero la realtà si accorgerebbero che su mille giovani aberranti ce ne sono diecimila che non lo sono, su mille uomini che possono sbagliare ve ne sono diecimila che non possono sbagliare. E poi, questa ossessione continua, sempre sul sesso. È un fatto importante capire il sesso e maturare le proprie forze sessuali, è un fatto importante, direi fondamentale nella vita. È anche un fatto di tale delicatezza che deve rimanere chiuso nella nostra dolorosa vicenda umana, nella nostra maturazione lenta e faticosa di uomini. Ma quando vediamo una religione che si degrada in questi piccoli annunci, in queste piccole casistiche, in queste piccole e limitate visioni della realtà, non possiamo avere che tristezza. Io tante volte penso o desidero di poter avvicinare il Papa e dirgli: guardi gli uomini con un viso più sorridente; lei che è vestito di bianco, come Cristo sul monte Tabor, non guardi soltanto le ombre che ci sono nell’umanità, come ci saranno in lei, ma guardi le luci, guardi il cammino che fa l’uomo, anche attraverso delle teorie che possono sembrare sbagliate, aberranti, ma che comportano una ricerca dolorosa e che sicuramente daranno poi i loro frutti nella vita. Ecco, questo volevo dirvi. E qual è il nostro impegno di cristiani? È vivere dentro la qualità cristiana dell’amore. Sarebbe così bello se ci venissero sempre date delle indicazioni che alimentassero in noi la speranza e la fiducia nella vita! Ma se Cristo è risorto, se la grazia di Dio opera nel profondo delle coscienze di tutti gli uomini, non possiamo che avere speranza, e io vorrei che gli annunci che ci vengono da quelli che hanno la responsabilità della nostra Chiesa fossero sempre annunci di pace, di vita, di serenità, di fiducia nella vita. E se ci fossero delle denunce dovrebbero essere delle denunce, direi, globali, non per giudicare, ma per additare certi mali che fioriscono continuamente in seno all’umanità. Stasera è venuta una ragazza che ha fatto da interprete al Tribunale Russell (

Tribunale Russell (War crimes tribunal). - L’organismo istituito nel 1966 dal filosofo, matematico, pubblicista inglese e libero pensatore Bertrand Arthur William Russell (Trelleck 18 maggio 1872 - Minffordd, nel Galles, 2 febbraio 1970) a seguito della guerra nel Vietnam, contro le atrocità compiute dai governi in nome della ragion di stato. Bertrand Russell è stato l’alfiere di un impegno militante in tutti i grandi temi civili del sec. XX. Con Albert Einstein firmò il manifesto per il disarmo mondiale. Per le sue molte opere ottenne, nel 1950, il premio Nobel per la

sono affiorate delle cose dolorosissime che si compiono nell’umanità e che sono molto peggiori di certe aberrazioni sessuali, perché certe aberrazioni di crudeltà, di sadismo, di violenza, di sfruttamento vengono pagate dagli innocenti e da chi non ne è responsabile e si trova dentro a queste forme mostruose, a queste qualità negative e ne soffre. letteratura.)

Scusate se vi ho intrattenuto su questo documento, ma credo che noi cristiani dobbiamo avere profonda fiducia nell’uomo e nell’uomo singolo, perché l’uomo cammina e porta con sé una sanità e una nobiltà di ricerca che troppo spesso dimentichiamo.


Io spesso mi domando: se l’adultera non avesse commesso adulterio, avrebbe incontrato Cristo? È una domanda che viene così, con semplicità, dalla lettura di quel meraviglioso episodio del Vangelo. Perciò: liberare la nostra coscienza da ogni indurimento e sentire che Cristo è l’Agnello di Dio, l’Agnello come l’abbiamo interpretato noi cristiani; cioè l’innocenza che porta su di sé il peso di tutti gli uomini, il peso delle colpe e delle malvagità di tutti gli uomini, bruciandole e rivelandole. Se non ci fossero degli innocenti che soffrono - e non vi paia paradossale la mia frase come potremmo noi cogliere tutti quei germi di sadismo, di cattiveria, di durezza, che sono nel nostro spirito? Nella vita faremo di tutto perché la nostra presenza non arrechi sofferenza a nessuna creatura. Nella vita associata noi interverremo perché queste forme di immiserimento della grandezza dell’uomo non si verifichino o si verifichino in una misura sempre minore. Ma nella nostra vita personale di cristiani, inseriti nel mito di Cristo, inseriti nella qualità di Cristo, noi continueremo a vivere nell’amore e sperando con profonda fiducia, direi, con certezza, che un giorno tutta l’umanità fiorirà nell’amore. E allora avremo pace, saremo più forti, saremo più precisi nei nostri interventi, più esatti nella nostra partecipazione alla vita e avremo questa unica preoccupazione: di amare come Cristo ci ha amati. Allora tutto sarà risolto, per noi e per le persone che sono intorno a noi.


LA RISURREZIONE Giovanni Vannucci, «La Risurrezione». Domenica di Pasqua - Anno B -, in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984 - Pag. 67-70.

Il flusso del tempo è simile a una spirale ascendente, lungo la cui linea troviamo dei momenti identici, ma trasferibili su un livello più alto. Questi momenti, per l’umanità in generale, costituiscono delle epoche, delle ère il cui contenuto viene condensato nelle grandi metafore che guidano, per un lungo tratto di tempo, un determinato comportamento qualitativo della civiltà. Per l’uomo concreto, che vive in un limitato segmento del più ampio ritmo metaforico, tali momenti vengono riassunti nelle ricorrenze liturgiche o cultuali che segnano le stagioni dell’anno rituale. Così, mentre la vita individuale è scandita nel corso dell’anno dalle celebrazioni liturgiche, il tempo cosmico è ritmato dalla successione delle metafore che segnano le ère della Creazione, della Giustizia, dell’Amore, della Libertà, della Conoscenza... Momenti che si avvicendano come il motivo fondamentale di una sinfonia musicale. Se i musicisti nell’esecuzione non vi partecipano pienamente, c’è scadimento nel banale; così la ricorrenza liturgica, se non è vissuta intensamente, viene banalizzata nell’accessorio, nel marginale, nel folkloristico. In tal maniera il Giovedì Santo finisce con l’essere il giorno del pane di ramerino, il Venerdì Santo quello della processione di Gesù morto, il Sabato Santo quello dello Scoppio del Carro, la Pasqua la domenica dell’uovo benedetto! Possiamo celebrare la Risurrezione in due maniere: o partecipando con tutto l’essere al suo contenuto, o vivendola nelle sue forme esteriori e decorative. Chi partecipa con tutta l’anima alla celebrazione pasquale immette la parte migliore di se stesso nelle energie che il Risorto ha inserito nell’umana coscienza, per assurgere, attraverso la morte e il rinnegamento di se stesso, alla Vita nuova che sgorga dal sepolcro vuoto, e incamminarsi verso l’arioso tempio dello Spirito Santo. Vivere la Risurrezione è attuarla in se stessi, risorgendo, superandole, da tutte le mortificanti banalità del nostro personale esistere. Se prima non si muore non si può risorgere, non vi è risurrezione senza morte, come non esiste riscatto senza schiavitù, luce senza tenebre, bene senza male. Per vivere la Risurrezione è necessario morire, chi non muore non risorgerà. Molti sono i modi di morire, uno solo in verità costituisce il preambolo alla risurrezione: la morte del rinnegamento di se stessi; questa morte ci inserisce nella corrente della risurrezione, nella rivelazione consustanziale che ci rende una sola realtà, mediante l’ardore dello Spirito, con il Figlio e con il Padre.


Morire è necessario per risorgere, ma in questa morte non è la carne che muore. Niente è più immortale della carne, nulla più vincolante della carne. Pensiamo di fare la nostra volontà, invece si eseguiscono i comandi dello stomaco, del sangue, del sesso, dei nervi, delle voglie. Fintantoché eseguiamo gli ordini dell’organismo, esistiamo e non siamo né tenebra né luce, né bene né male, né verità né menzogna. Quando invece orientiamo le energie della nostra tremenda natura verso la conoscenza della sostanziale verità di essere spiriti immortali, spiriti eterni, figli del Padre, allora è possibile la morte che precede la risurrezione, allora moriamo e risorgiamo. La carne, il sangue, i nervi, le velleità non dominano più, e veniamo a conoscere quello che nella realtà siamo: terra perché nati dalla terra, spirito perché nati dallo spirito, e perché tali chiamati a trasfigurare la terra in una pienezza di luce e di vita. Le opere della carne nella carne si esteriorizzano, le opere dello spirito nello spirito si sublimano. Se nella carne, nel perenne gioco della vita che fluisce, c’è una perennità di mutazioni, questa non può esistere nello spirito. Ogni avanzamento nello spirito è una conquista da cui non possiamo tornare indietro; i ponti e le navi sono bruciati. Sempre oltre, la gloria della risurrezione è continua, la sua animazione è costante. Nel profondo dell’essere nostro, laddove il cuore osa far sentire il suo palpito, dove siamo soli, più soli di ogni solitudine, sentir ascendere la vita nel profondo abisso della morte, e vivere totalmente in questa realtà, comprendendo che essa sola ha un significato. Vivere la Risurrezione! Ma essa non si vive riflettendovi per pochi istanti, per ritornare al più presto alle vecchie cose. Non si vive la Risurrezione ricordandoci ciò che fummo e turbandoci di ciò che saremo domani. La Risurrezione annulla l’ieri e ignora il domani. È l’oggi perenne, continuo, costante; in essa tutto è bruciato, ciò che rimane brucia della propria natura. Vivere la Risurrezione nella inebriante certezza che il passato è un vuoto sepolcro! Vivere la Risurrezione nell’esperienza esaltante che Cristo è la Parola eterna vivente e operante nel tessuto denso della nostra esistenza. Egli scende nella nostra carne per farla vivere della vera vita; entra nelle nostre menti, nei nostri cuori e vi libera l’Eterno che vi era tenuto legato da morte ideologie, da limitato amore; varca le soglie dei nostri amati templi e li distrugge, per iniziare la costruzione del tempio non manufatto, ove Dio non sia invocato ma presente. Penetra nelle nostre idee di razza, di popolo, di patria, di religione, e brucia i loro elementi caduchi ed egoisti, per far brillare la visione dell’Uomo vero, dell’uomo eterno non più vincolato a mète terrene, ma in cammino verso la vita senza fine, ove l’uomo finalmente si sentirà figlio di Dio. Avvicina le nostre tradizioni venerabili e plurisecolari, e vi risveglia un’inquietudine di vita e di verità che farà dileguare tutto ciò che in esse è sorpassato e morto. Vivere la Risurrezione è immergersi nell’ebbrezza della vita che è oltre tutte le possibili morti; è sperimentare che il Risorto è il movimento vitale che sprona le


coscienze verso più verità, più amore, più libertà; è sentire che il Risorto, non più contenibile in nessuna forma, è la piena fioritura di ciò che è, è l’eterno rinnovamento della coscienza, la risurrezione di tutti gli istanti della nostra esistenza di uomini.



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.