Testi di padre giovanni vannucci vol 5

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Testi di

padre Giovanni

Vannucci

vol. 5 di 6


LA VIA, LA VERITÀ, LA VITA

Gesù ci invita a un passaggio di coscienza, da servi a figli Giovanni Vannucci, «La Via, la Verità, la Vita», 05 a domenica di Pasqua. Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 75-77.

Consideriamo prima di tutto i punti salienti dell’intenso dialogo tra Cristo e i discepoli riportato in Gv 14,1-12. Poco avanti il Maestro aveva detto: «Per breve tempo ancora starò con voi; dove andrò né i Giudei, né voi potrete venire, vi devo aprire la strada» (Gv 13,33); ora soggiunge: «Non angustiatevi per quello che mi succederà. Vi precederò nella casa del Padre, nell’eternità, oltre lo spazio e il tempo, nella verità, ove la vostra umanità potrà fiorire senza impoverimenti ed errori. Vi traccerò la strada, la percorrerete dopo di me». Tommaso, ricordando le parole sull’ignoranza dei discepoli riguardo al luogo ove Cristo sarebbe andato, domanda: «Se non possiamo sapere dove vai, come potremo scoprire la strada?». La risposta che Cristo dà è del tutto imprevista: «La strada sono io, io sono la strada che va percorsa, essendo io la verità, cioè la luce che fa da guida lungo il percorso; io sono la vita, il termine cui la strada conduce. La vita infinita che troverò e troverete nel Padre, non è un luogo distinto dalla via, è identica a essa; chi si incammina per essa giunge a conoscere il Padre e a conoscere me. Non per una nuova nozione che acquisisce, ma per una misteriosa fecondazione del suo interiore essere. Io e il Padre siamo una sola cosa». La novità sottintesa dalle parole di Cristo è questa: il Padre era la via, la verità e la vita, gli uomini la percorrevano non nella qualità di figli, ma come parti di un popolo eletto, come schiavi o servi di un assoluto Monarca, come monadi di un’unica e sovrana coscienza nella quale si sarebbero fusi dopo aver assaporato l’illusione delle apparenze dell’esistenza. Ora, nella realtà cristiana, la via, la verità, la vita sono il Figlio, e il Figlio è la nuova rivelazione del Padre, gli uomini raggiungono l’Assoluto, l’Infinito assumendo la piena e chiara coscienza di essere figli di Dio. Non più schiavi, servi, ma figli e amici. Novità ostica per i discepoli; Filippo esprime la sua incapacità di comprendere: «Signore, mostraci il Padre». Con infinita pazienza Gesù risponde: «Da anni sono con voi, e pur avendo visto la novità della mia vita, delle mie parole, delle mie opere, tu ancora chiedi che ti mostri il Padre? Il Padre è nella novità della mia coscienza di Figlio. Io sono in lui ed egli è in me; le mie parole, differenti da tutte quelle che finora sono state dette, sono sue per quella novità che è in esse; le mie opere sono sue, sempre per quella novità che le insapora. Se non volete credere in me, prestate attenzione a quanto di nuovo c’è nelle mie parole e opere; allora la novità della religione del Figlio vi feconderà, armonizzando la vostra coscienza con la mia avrete fede in me. Potrete fare non solo quello che io ho fatto nel tempo che sono


stato in mezzo a voi, ma molto di più. Tra poco tempo, per la morte dell’Adamo che è ancora in me, io sarò più strettamente in lui e lui in me». Certo, le parole che leggiamo nel vangelo di Giovanni: «Io sono la via, la verità e la vita», se non teniamo presente che sottintendono un passaggio dallo stato di coscienza che caratterizza la religione del Padre, a quello che è specifico della religione del Figlio, costituirebbero un paradossale non-senso. La coscienza della figliolanza divina costituisce il punto centrale, essenziale della novità cristiana, la permanenza della religione del Padre nella cristianità è il segno del non compiuto risveglio dei cristiani dopo duemila anni dall’inizio della nuova coscienza di figli. Ciò spiega la sofferenza, la tormentosa ricerca della nostra inquieta generazione, la quale, sentendosi chiamata alla grandezza di figli di Dio, si attarda ancora su posizioni che dovevano essere spazzate via dalla religione del Figlio. Cerchiamo di capire: la religione del Figlio è costituita da uomini che, superati i legami della carne, del gruppo, della nazione, possono affermare che il loro io essenziale, ultimo, irriducibile, viene da Dio. Per esempio, il cittadino dell’impero romano trovava la sua identità di uomo nell’affermazione: io sono cittadino romano; l’Ebreo, per affermare la sua individualità, invocava il padre Abramo. Ciò significa che l’uomo prima di Cristo aveva bisogno, quale sostegno della sua individualità, della Legge o delle leggi, di capi temporali o spirituali, di usi e costumi, di tradizioni e di consuetudini, di essere, in altre parole, sostenuto dal mondo del Padre. Chi ne seguiva i dettami era pienamente integrato, chi li rifiutava cadeva sotto il giudizio dei rappresentanti del Padre. Ora Gesù afferma: «Chi non rinuncia al padre, alla madre, ai consanguinei non può essere mio discepolo» (Mt 10,37). «Mia madre e i miei fratelli sono quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Mt 12,48-50). I legami ancestrali vengono rinnegati e sostituiti con quelli dello Spirito, che abolisce ogni forma di separazione e tutto riunisce nella coscienza di figli di Dio: «In Cristo Gesù non c’è più né Greco, né barbaro; né circonciso, né incirconciso; né uomo, né donna, ma la nuova coscienza di figli» (Gal 3,28). Ogni coscienza umana, nella religione del Figlio, è chiamata a porsi in assoluta solitudine di fronte all’Infinito, a tenersi in piedi con la sola forza del suo io cosciente, per raggiungere l’affrancamento da ogni terrena costrizione e vivere la libertà dei figli di Dio. Nel mondo statico della religione del Padre, il Figlio ha introdotto il movimento, il dinamismo, la via che si apre alla coscienza di essere figli di Dio. Nessun uomo può più chiamarsi padre, maestro, uno solo è il Maestro, a lui si accede con un sostanziale cambiamento di coscienza, da schiavi a figli, richiamandosi unicamente a lui che è via praticabile, verità sperimentabile, vita vivibile, abolendo ogni rinascente sciamanesimo, in lui tutti siamo figli e fratelli, tutti siamo servi inutili. Le parole: «Chi vede me vede il Padre», sono un invito ad assumere, decisamente e coscientemente, la statura di figli di Dio, a superare il limite che separa la morale di sottomissione dall’etica di liberazione che rende inutili tutti i legami terreni.


LA VITA E LA MORTE Giovanni Vannucci, «La Vita e la morte» in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984;. 20 a del tempo ordinario - Anno A; Pag. 153-155. 1

Il brano evangelico di Mt 16, 21-27 continua quello della confessione di Pietro; nel tentativo di comprenderlo, è necessario che riprendiamo alcuni vocaboli chiave di tutto l’episodio. Gesù domanda ai discepoli: «Cosa dite che sia il Figlio dell’Uomo?». «Figlio dell’Uomo» è la traduzione letterale dell’espressione ebraica ben-Adam. Per la nostra mentalità il termine figlio designa il frutto naturale di una coppia; nella mentalità ebraica esso è, piuttosto, il portatore di un destino, di un mandato affidato al capostipite di una famiglia. Così, per esempio, i figli d’Israele sono i depositari e i continuatori della missione divina affidata a Israele. Adamo, nel linguaggio ontologico del Vecchio Testamento, indica l’essere umano distinto da tutte le altre creature per la caratteristica di portare nel suo sangue, dam, la presenza attiva dell’Iddio vivente. Infatti l’uomo, Adam, è l’essere creato destinato a spezzare i ritmi ripetitivi caratteristici degli esseri appartenenti ai vari regni della natura. Cristo, affermando di essere il ben-Adam, il Figlio dell’Uomo, sottolinea la realtà ultima della sua persona, quasi dicesse: io sono la perfetta manifestazione dell’Uomo, nella mia carne e nel mio sangue il Dio vivente è attivo, senza quelle limitazioni che l’esistenza pone a ogni altro uomo. Le mie azioni sono imprevedibili, indeterminabili, come quelle della vita che, pur essendo contenuta nelle forme della manifestazione, è incommensurabile a esse, è dentro le forme esistenti e oltre esse. La mia azione, pur esprimendosi nelle strutture stabilite, non può essere contenuta da esse, le fa esplodere dall’interno. Pietro, in un momento d’improvvisa illuminazione, comprende che la forma umana di Cristo è l’abitazione, lo scrigno dell’infinita vita divina: «Tu sei il vero Figlio dell’Uomo, in Te dimora la vita del Dio vivente». Pietro vien dichiarato «Beato», colui che è nella Verità, avendo saputo trascendere i dati della carne e del sangue in una visione che coglie l’invisibile realtà del Maestro. E a questo punto comincia la seconda parte dell’episodio. Gesù cominciò a dire apertamente che «avrebbe subito violenza da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti, degli scribi, che sarebbe stato ucciso, dopo tre giorni avrebbe ripreso la vita». Evidentemente queste parole di Cristo continuano, spiegandone l’aspetto concreto, l’affermazione di Pietro: «Tu sei il Figlio del Dio vivente». Quasi dica: «Sono il Figlio del Dio che è vita, la mia manifestazione dovrà essere strettamente aderente alla vita. Come la vita è nelle forme, le conduce alla maturazione, quindi le spezza, le uccide per riprendere la sua trionfale manifestazione, così Io, il Vivente, dovrò essere


ucciso, il mio corpo morrà, Io non morrò, il mio nuovo corpo avrà forma differente da quella che adesso ha nella dimensione terrena». Pietro, ancora beato per aver azzeccato la definizione del mistero del Maestro, di fronte all’imprevedibile quadro che egli fa della sua missione, rimane sconcertato, non capisce più. Per Pietro la vita è la vita, la morte è la morte; ora il Maestro afferma qualcosa di totalmente impensabile: «È necessaria la mia morte, perché la vita raggiunga il ritmo della risurrezione. Nella vita è la morte, nella morte è la vita, questo è l’attuale ritmo; con me l’uomo non crederà più alla morte, ma alla continua ascesa della vita, finché tutto non sia immerso nell’infinita vita divina che è in me, e che con la mia morte aprirà la sorgente gioiosa dell’amore che vince la morte». Pietro non comprende, ricorda le parole recenti del Maestro: «Tu sei Pietro, su di te fonderò il mio nuovo popolo», si sente investito dalla missione di proteggere l’amato Maestro, così indifeso e imprevedibile! «Signore, quello che stai dicendo non accadrà mai!», afferma con sicurezza. La risposta che riceve è sconcertante: «Pietro, non ti comportare da condottiero, vieni dietro a me; con queste tue parole, dettate dal modo di sentire dell’uomo inferiore e non dalla sapienza di Dio, tu sei per me un Satana e un inciampo». Satana è l’avversario, il persecutore, l’inciampo, la pietra che devia il corso della vita. Cristo postula il continuo superamento delle forme in una sempre nuova novità, Satana postula la permanenza della forma raggiunta, si oppone alla sua distruzione, vuole la permanente solidità in contrasto con la vita divina che, gioiosa, danza nell’universo e nella coscienza distruggendo ciò che non può accompagnarla nel suo crescente ritmo di vita. Cristo, implacabile, continua a rivelare il segreto contenuto della vita: «Chi vuol seguirmi, deponga le pesanti chiusure che gli impediscono di partecipare alla mia vita, si carichi della sua personale croce e cammini con me». La Croce, non soltanto la sofferenza, è l’energia che struttura, di giorno in giorno, la nostra forma psicosomatica, ne favorisce lo sviluppo vitale: caricarsela sulle spalle vuol dire presentarsi alla soglia delle continue trasformazioni della vita con tutto il peso della propria realtà, in piena maturità, per passare oltre, per gettare la propria vita nelle continue mutazioni che ci attendono e che sono le tappe della nostra ascesa. In questo cammino il Figlio dell’Uomo è la misura che misurerà tutti, il peso che tutti peserà. In tutto l’episodio svoltosi a Cesarea di Filippo, ci viene rivelata la funzione di Pietro, in parte spirituale, nella confessione: «Tu sei il Figlio del Dio vivente», e in parte temporale, nella sua opposizione a Cristo. Osare l’inosabile è la caratteristica del Figlio di Dio e dei figli di Dio, che si gettano in Dio come in un gorgo. Pietro inorridisce e indietreggia. Sarà sorpassato milioni di volte dal volo d’aquila dei veri fratelli del Signore, degli autentici figli di Dio. Che importa se non saranno sempre e tutti ortodossi? Cristo ha detto: «Solo chi perderà la sua vita per amor mio, la salverà».


LA VIVA PAROLA DI CRISTO Giovanni Vannucci, Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; La viva parola di Cristo. 4a del tempo ordinario - Anno B; Pag. 113-114.

Marco 1, 21-28 [21]Andarono a Cafarnao e, entrato proprio di sabato nella sinagoga, Gesù si mise ad insegnare. [22]Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi. [23]Allora un uomo che era nella sinagoga, posseduto da uno spirito immondo, si mise a gridare: [24]«Che c'entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio». [25]E Gesù lo sgridò: «Taci! Esci da quell'uomo». [26]E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. [27]Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono!». [28]La sua fama si diffuse subito dovunque nei dintorni della Galilea. La pagina di Mc 1, 21-28 descrive la storia di noi uomini. Tra noi ci sono alcuni capaci di stupirsi della vita in cui sono immersi, e questo stupore è sempre pronto a comprendere il mistero divino. Accanto a essi ci sono quelli che attendono il sorgere del mistero di Dio, che è sempre nuovo e sempre irripetibile: esiste una grande massa di uomini che preferiscono la ripetizione, la dottrina che riguarda ciò che è avvenuto nel passato e che viene trasmesso, le realtà che nascono da una nuova rivelazione. Questo si verifica anche nel nostro tempo, ma per nostra fortuna appaiono in mezzo agli uomini figure che annunziano una realtà nuova, che sgorga in loro per la loro partecipazione alle forze della vita e che sconvolge tutta l’umanità cui viene annunziata. I primi uomini l’accolgono, gli altri reagiscono e si domandano da dove viene tutto questo e perché viene annunziato « con autorità ». Sono gli uomini che sono immersi nella verità e rinnovano le coscienze. Non è l’autorità di Cristo che rende forte la sua Parola, ma il fatto che Egli vive nel mondo divino e da esso attinge la forza che da alle sue parole la stessa forza e autorità. È una nuova logica, che sconfigge tutte le altre passate, del vecchio insegnamento. E c’è sempre questo contrasto: quest’uomo rimane incompreso dalla massima parte degli uomini che non sentono il suo insegnamento conforme alle ideologie e alle forme con le quali noi uomini trasmettiamo il pensiero. Altri, invece, l’accettano e da questa Parola sono trasformati.


Dobbiamo percepire la parola di Cristo nella sua vivezza originaria e sentire che scende in noi con autorità e ci persuade e ci feconda per la potenza germinale che essa possiede. Ma bisogna riuscire a fare questa ascesi, non fisica o volontaristica, liberando la nostra mente dalle interpretazioni che abbiamo dato alla parola di Cristo o da tutte le filosofie e teologie che vi abbiamo costruito intorno, distruggendo tutte queste barriere per percepire la Parola originale. Così possiamo sperare di sentire la Parola in tutta la sua potenza, forza, energia, e allora saremo uomini nuovi e capiremo cosa vuoi dire « parlare con autorità » (Mc 1, 22): alcuni venivano trasformati, altri restavano in contrasto con la parola di Cristo. Quello che ci viene richiesto è avere sempre un animo fresco, che accoglie tutte le primavere ed è pronto a stupirsi della continua novità che assume nella storia e nel nostro cuore la parola di Cristo. Così la Parola scende nel nostro essere e lo trasforma: non abbiamo bisogno di dimostrazioni razionali del mistero di Cristo ma, fecondati dalla sua Parola, capiamo che Egli è il nostro maestro e il grande simbolo che collega il nostro mondo sensibile con il suo mondo; lo scopriremo non attraverso dei ragionamenti, ma attraverso l’esperienza. Con animo verginale e mente incontaminata ne sentiremo tutta la forza e dalla nostra trasformazione capiremo il mistero d’amore che si è operato nel Cristo. Sono povere le nostre apologetiche e sono grandi le parole del Cristo che devono essere ascoltate in piena libertà e piena purezza mentale, perché trasformino il nostro essere e ci facciano capire il senso del mistero di Cristo. Vivremo così il mistero della vita cristiana che è lasciarsi fecondare dalla forza di Cristo trasmessa dalla sua Parola. E comprenderemo che Cristo è il Santo di Dio.


LA VOCE DEL DESERTO Giovanni Vannucci, «La voce del deserto» - 03a domenica di Avvento - Anno B; in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 18-20.

«Giovanni rispose: Io non sono il Cristo, io non sono il profeta, io non sono Elia, io sono la voce di uno che grida nel deserto: appianate la via del Signore» (Gv 1, 2023). La collocazione di Giovanni il Battista nel deserto è quella propria, specificamente propria, di ogni coscienza religiosa. Sappiamo più o meno cosa sia il deserto geografico; cosa sia lo spazio-deserto dove ci è possibile l’incontro con il mistero divino, lo sapremo quando avremo, con le nostre mani, compiuta quell’opera di spogliazione che ci situi in quella solitudine ove potremo contemplare faccia a faccia l’Invisibile e ascoltarne la Voce. La spogliazione che dobbiamo compiere ci è indicata dalle negazioni di Giovanni: io non sono, io non sono. È la spogliazione di tutte le maschere costruite dall’amore di noi stessi. Giovanni è ancora in mezzo a noi e ci dice: Ascoltate colui che parla nella mia parola. Nel deserto dell’abolizione di tutte le sue maschere, nello sgomento stupefatto dell’abolizione di tutte le forme, egli ci traccia la via verso l’assoluto silenzio esteriore perché possiamo ascoltare la parola del grande Silenzio e la possiamo trasmettere incontaminata. Il deserto è lo spazio ove le forme sono abolite, ove l’uomo può finalmente vivere libero da tutte le vesti che la cultura, la civiltà gli hanno imposto. L’incontro dei messaggeri delle autorità religiose di Gerusalemme è l’incontro degli uomini paludati di sottili teologie con l’uomo che attinge l’ispirazione del suo comportamento e il suo dire dalla sorgente che erompe nel deserto e lo rende fertile. Le autorità avevano bisogno di essere ragguagliate sul fenomeno «Giovanni», per sapere se corrispondeva o meno alle conclusioni delle loro dotte certezze. Ma non nei libri, non nelle dotte elucubrazioni risuona la Voce, di cui le autorità si sentono gli interpreti ufficiali, ma nel silenzio del deserto. E il deserto è il severo e intransigente spogliamento di quanto in noi proviene dall’esteriorità. Affrontando la notte amara, ma inebriante, dell’abbandono di tutto, del nostro io, delle nostre accarezzate idealità, delle nostre teorie, vivendo in un privilegiato istante l’esperienza della morte corporale, entreremo nell’immensità silenziosa e sacramentale del deserto. Giovanni continua il suo annuncio: «In mezzo a voi c’è uno che voi non conoscete». Egli, nel deserto in cui vive, lo vede, lo conosce e l’addita.


Ed è il punto giusto che ci è necessario trovare se vogliamo scorgere e accogliere l’Invisibile presente in mezzo a noi. L’apocrifo vangelo di Tommaso ci indica la via della spogliazione, quasi in un commento al testo di Gv 1, 6-28: «I discepoli chiesero a Gesù Cristo: Quando ti manifesterai, Signore? In qual giorno ti vedremo noi? Gesù rispose: Quando deporrete le vostre vesti e le calpesterete come fanno i fanciulli. Allora vedrete il Figlio di Colui che è vivente, e non avrete paura». Fatto in noi il silenzio, la Voce ci comunica il suo messaggio: «Preparate la via del Signore». Esiste la via dell’uomo e la via del Signore; quella dell’uomo passa attraverso le costruzioni della mente concreta, delle ambizioni, delle violenze, della potenza; quella del Signore è l’inversione del cammino dell’uomo e si snoda nell’umile amore offerto a tutti gli esseri, nel silenzio della ricerca di Colui che è vivente in mezzo a noi. «Preparare la via del Signore» è accettare l’imperfezione e la precarietà di tutto quello che edifichiamo, è sentirne l’illusorietà fino alla derisione, è cercare il terreno solido, percorso dal passo del Signore, con tale ardore e tenacia fino a sentire che le opere dell’uomo sono false e che tutte le descrizioni che del cammino di Dio ci vengono date sono menzognere. «Preparare la via del Signore» è provocare l’abbandono di tutte le visioni umane dei sentieri di Dio, è ricercare il silenzio fecondo dello Spirito per cogliere la Parola che vi risuona. E questo bisogna che lo raggiungiamo con la nostra personale esperienza. Sul crocevia della strada dell’uomo e della strada del Signore, Gesù il Vivente, presente e velato dai nostri rumori, ci invita ad abbandonare i porti umani ove le imbarcazioni sostano per mancanza di mète e marciscono; ci invita ad andare oltre tutte le sicurezze offerte dai padri e dalle madri che ci hanno generato, che non vogliono abbandonarci verso l’infinito cammino che ci attende e che Lui ci addita. Gesù il Vivente non è commensurabile con nessuna strada umana, con nessun edificio costruito da mano d’uomo. Gesù il Vivente non è il limite della vita, dell’amore, della libertà, ma il fondamento dell’immensa vita, del più sconfinato amore, della più assoluta libertà. Gesù è il Vivente, presente e operoso in mezzo a noi. Egli è il cuore, l’anima, l’ardore intenso di ogni essere che vive. Egli è nei sogni di pace, di bellezza, di verità che sorreggono i cuori nelle oscurità e durezze della vita. Egli è nei cuori che cercano in lui, pellegrino senza frontiere, la loro vera terra. Egli è nella parola scritta e in quella che vive in ogni creatura e che ne sigilla il personale e inalienabile destino.


Egli è nel grido vittorioso del bimbo che nasce al mondo, ed è nell’aspirazione di vita più intensa in colui che muore. Nel silenzio prepariamo la via del Signore, e nella via del Signore incontreremo Colui che viene sempre e che è sempre oltre le nostre speranze e costruzioni di uomini.


LA VOLONTÀ DEL PADRE Giovanni Vannucci, Omelia pronunciata domenica 26 dicembre 1976 durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 18 nell’eremo di San Pietro alle Stinche - Greve in Chianti, FI). In Ogni uomo è una zolla di terra , 1a ed. Borla editrice, Roma, aprile 1999, La volontà del Padre, pag. 119-124 Festività della sacra famiglia - Anno C.

La solennità liturgica di questa domenica costituisce qualcosa di nuovo nella nostra Chiesa. E credo che l’idea di questa festa sia stata determinata da un fatto che tutti conosciamo. Il disfacimento della famiglia tradizionale è un fatto che si compie nella nostra vita e che non possiamo giudicare, perché tutti gli eventi degli uomini spesso sono differenti dalle loro apparenze e spesso nascono dei grandi valori da quello che sul momento ci turba. Ma penso sia stata un’idea giusta quella di ricordarci la famiglia di Betlemme e le grandi parole che Cristo dice alla madre. La madre aveva tutti i diritti - secondo il modello ebraico della famiglia - di rimproverare il figlio di essersi allontanato dai genitori senza aver avvertito e senza aver detto dove andava. E la risposta di Cristo è una di quelle parole rivelanti che scendono nel nostro cuore come sono scese nel cuore dei suoi genitori, che - il Vangelo lo nota espressamente - non capirono quello che lui aveva detto. E anche noi lentamente comprendiamo le parole di Cristo, perché le parole di Cristo, a differenza delle parole degli altri uomini, sono come il grano che viene gettato nella terra e lentamente porta a fecondità la terra e a maturazione il grano. E lentamente le parole di Cristo maturano nel nostro spirito, anche se non sempre ne siamo pienamente coscienti. E la parola che Cristo dà ai genitori costituisce una rottura con il modello della famiglia veterotestamentaria e romantica. Nella prima lettura è stato letto un brano del Vecchio Testamento dove vengono dati dei suggerimenti puramente pratici: il figlio onori il padre, abbia venerazione e stima di lui anche quando è vecchio, quando è sclerotico. Tutti consigli che sono veri e che sentiamo, perché ormai sono penetrati nella nostra coscienza, ma la visione che Cristo ci dà del nucleo familiare è del tutto diversa. E le sue parole introducono un’apertura sconfinata. Questo ragazzo di dodici anni che dice alla madre: non sai che io sono sulla terra non per ripetere un modello, un modello di figliolo buono, ma io sono sulla terra per compiere la volontà del Padre? Se noi guardassimo in profondità tutti i movimenti di liberazione della coscienza umana, li troveremmo sempre fecondati da questa grande parola di Cristo. Siamo noi uomini che ci scopriamo sulla terra con un destino nostro personale e differente, destino che non viene da noi ma viene da sfere di coscienza differenti, più vaste, più ampie, che ci fecondano e ci nutrono. Vengono da Dio, vengono dal Padre, e quando prendiamo coscienza di quello che dobbiamo compiere come creature personali, attraverso il nostro lavoro, soprattutto attraverso la trasformazione della nostra mente, attraverso i nostri gesti nuovi, le nostre parole nuove, vediamo che questi ci pongono in uno stato di difficoltà, di sofferenza, ma di grande libertà nei confronti di quelli che possono anche non comprendere le nostre parole perché rimasti fermi su altre posizioni. E queste parole di Cristo sono alla base di tutta quella grande rivelazione che la coscienza umana ha portato avanti nel corso dei secoli attraverso lotte, attraverso convulsioni, attraverso guerre, attraverso sofferenze inaudite, soprattutto di coloro che sono stati portatori di una parola


più vera, una parola più liberatrice del divenire della coscienza umana. E queste grandi parole scendono nella materia e creano dei contrasti. Ma lentamente, attraverso il contrasto, la materia si trasforma e ascende. Come vi dicevo, se noi ben consideriamo, da un punto di vista universale - come se noi dovessimo vivere mille anni e quindi potessimo contemplare la nostra vita di cento anni fa e vedere la nostra vita ancora svolgersi per novecento anni - vedremmo che tutte queste trasformazioni sono operate da una esperienza di vita. E ogni uomo che prende coscienza di essere chiamato a “compiere le cose del Padre”, si sente differente, ma libero. Soffrirà, ma porterà la novità delle sue conquiste personali, che sono conquiste di coscienza, e che trasmetteranno agli altri uomini le grandi parole liberatrici: perché una delle più grandi tentazioni della nostra vita è quella di diventare dei ripetitori di un passato; e quando ripetiamo un passato noi siamo fermi, siamo statici, siamo morti; come un albero che cessa di crescere, è morto. Come se il nostro corpo cessasse di crescere e di subire tutte quelle trasformazioni di ricambio, sarebbe morto. E la vita è un continuo passaggio da novità a novità, e la vita della nostra coscienza è un continuo passaggio da novità a novità. Ora, queste novità non nascono da noi, non nascono da un ragionamento umano. Non siamo noi che diciamo: dobbiamo far questo perché la vita sia migliore, sia più perfetta. Perché, se osservate, anche nella storia ogni volta che si è concretizzato un movimento ideologico che ha tentato di dare agli uomini un maggiore benessere, anche una maggiore libertà, quando questo movimento si è storicizzato, vediamo che il benessere non è quello che si era sperato e con stupore notiamo che c’è un accrescimento di carcere, di persecuzioni, di polizia, come nei nostri mondi moderni di cui siamo tanto orgogliosi. Se voi fate un computo per percentuali di carcere, per percentuali di uomini fra il medioevo e i nostri tempi, rimanete molto sorpresi. Nel nostro tempo ci sono molte più carceri che non nel medioevo; nel nostro tempo ci sono più manicomi che non nel medioevo. Allora il nostro progresso è un progresso che è nato da convenzioni umane, non dalla parola di Dio. Perché vedete, la parola di Dio scende in ogni uomo e ogni uomo è chiamato sulla terra a compiere la volontà del Padre, non la volontà di un altro uomo, di nessun altro uomo. Siamo portati, noi, a miticizzare le persone: il grande santo, il grande saggio, il grande condottiero, il grande despota, il grande sacerdote. Siamo portati a miticizzare perché in noi c’è una pigrizia che ci porta a non assumerci tutte le nostre responsabilità di pensiero, e poi in noi c’è una pigrizia che ci porta a ripetere il passato. E ecco, la grande parola di Cristo detta ai suoi genitori, rompeva il modello della famiglia ebraico-romana: io, figlio dodicenne, sono sulla terra non per compiere la volontà né di Giuseppe né di Maria, ma la volontà del Padre che è nei cieli. Quindi una volontà infinita che scende nella volontà dell’uomo, e la feconda e la rende infinita come la stessa volontà di Dio. E questo forse ancora non l’abbiamo pienamente compreso, ma il fatto che ci deve dare una grande speranza è che questa parola è immanente nella coscienza umana e porta la coscienza umana a trascendere tutti i suoi limiti, tutte le sue piccole realizzazioni nell’aprirsi all’infinita coscienza della volontà del Padre. Allora saremo perfettamente liberi. E anche noi siamo sulla terra a compiere non la nostra volontà, né la volontà di un capo di partito, né la volontà di un capo di Chiesa, né la volontà di un grande uomo. Se guardate, anche i movimenti giovanili di rottura si appellano sempre al grande padre


e in questo falliscono, perché la libertà della nostra conquista personale attraverso sforzi, sacrifici e rinunce, è nobiltà di coscienza, nobiltà di animo. Quando comprenderemo questo allora sentiremo operante in noi la parola di Cristo: noi siamo sulla terra a compiere la volontà del Padre nostro che è nei cieli. Allora mi direte: la famiglia finirà? La famiglia si ricomporrà in un rispetto maggiore, in una attenzione maggiore a tutti i membri della famiglia, attenzione che nasce dalla consapevolezza che ogni figlio, come il padre e la madre, sono sulla terra non per copiare un qualunque modello, ma per compiere la volontà di Dio, e la volontà di Dio scende in ognuno di noi e vuole delle risposte nostre, personali, perché ognuno di noi ha un suo compito. Il mio compito non lo posso affidare a nessuno senza tradire me stesso e senza tradire Dio, come ciascuno di noi non può affidare a un altro il compimento del proprio compito personale. E come lo scopriamo? Liberandoci da tutte le ideologie, da tutto quel frastornamento di parole che occupa continuamente il nostro pensiero e mettendoci in silenzio per capire quel che dobbiamo fare sulla terra, come portatori del mistero di Dio e come chiamati a compiere non la nostra volontà, né la volontà degli uomini, ma la volontà del Padre nostro che è nei cieli, che è al di sopra di tutte le volontà umane, anche delle nostre, e combacia con la nostra volontà quando noi abdichiamo alle nostre piccole prospettive, alle nostre limitate vedute e ci abbandoniamo a quel volere infinito e inesprimibile che è il volere del Padre nostro che è nei cieli.


LA ZIZZANIA E IL GRANO Giovanni Vannucci, «La zizzania e il grano», 16a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 134-136.

Il seme del regno di Dio non chiede che di germinare, il dovere dell’uomo è quello di non porre ostacolo alla crescita; trarre il bene anche dal male è pensiero e operazione di Dio. Una delle parabole del Buddha è analoga a quella della zizzania, riportata in Mt 13, 24-43, e può esserci utile a comprenderne il senso. «Quando Dio creò l’uomo, il diavolo ne ebbe grande invidia, volle gareggiare con lui creando un altro uomo che fosse migliore di quello creato da Dio. Ma Dio aveva consumato tutta la materia, il diavolo fu costretto a cercare qualcos’altro per il suo capolavoro. Dopo aver cercato a lungo non trovò che un mucchietto di sterco d’asino: con esso plasmò una figura umana, l’intonacò con della calce, cercò di animarla soffiandovi il suo alito, come aveva fatto il creatore. Una volta animata portò il suo manufatto in mezzo agli uomini; questi ultimi rimasero stupiti perché, pur essendo simile a loro, lo trovavano diverso senza riuscire a capirne la differenza. Essendo opera del diavolo, era maligno, sciocco e chiacchierone; gli uomini si lagnarono con Dio, il quale sorrise e disse: "Aspettate la pioggia". Venne la pioggia e l’opera del diavolo si disfece e fu di concime alla terra. Siccome ci sono molti asini, continuò il Buddha, il diavolo continua a fabbricare i suoi uomini i quali, pur essendo simili agli uomini di Dio, non reggono alla pioggia e sono destinati inesorabilmente a concimare la terra; Dio riprende sempre ogni materia perché sua e lascia al diavolo il suo fiato». La parabola della zizzania e quella buddhista dello sterco d’asino s’integrano a vicenda; nell’una e nell’altra traluce quella serena bonomia di chi misura il corso delle cose non ad anni ma a millenni, non ha nessuna agitata impazienza di fronte alle opere del maligno, consapevole che la farina del diavolo va tutta in crusca, è questione di tempo; il credente è chiamato a preoccuparsi delle cose permanenti. La sapienza divina, essendo eterna, si contrappone alla povera conoscenza dell’uomo che è legata al tempo. «Vuoi che andiamo a togliere la zizzania?», domandano gli operai al padrone. La risposta è perentoria: «No! Togliendo la zizzania rischiate di sradicare anche il grano!». Agli uomini, che si agitano per l’opera del nemico, il padrone risponde semplicemente: «Aspettate che piova»; appena caduta la pioggia la creazione del diavolo si decompose e servì a concimare il campo.


Noi abbiamo sempre, regolarmente, una tremenda premura di far giustizia, di moralizzare perché il male sia sradicato, le ombre dissipate e trionfi la luce; in questo nostro zelo estirpiamo il grano insieme alla zizzania. Dio sa invece attendere, conosce il suo seme e conosce il seme del nemico. Non ha il nostro zelo frettoloso, lascia che l’uno cresca insieme all’altro sino alla mietitura, poi la zizzania servirà da combustibile sotto la pentola dei mietitori e il grano verrà riposto nel granaio. Spesso il malvagio cresce accanto al giusto, e non si può sradicare l’uno senza sradicare l’altro. A fianco dell’uomo di Dio prospera l’uomo del nemico e, colpire quest’ultimo, potrebbe significare colpire il primo. Dio comanda di aspettare la pioggia, ed è questa che deciderà sulla natura reale dei due. L’uomo di Dio, sotto l’onda della tribolazione che lo purifica, si rafforza e risplende. Il malvagio, come la creazione del diavolo, si scioglie e servirà da concime alla terra. La zizzania e il grano si nutrono di una stessa linfa sopra lo stesso terreno, ma la prima farà fuoco sotto le pentole, il secondo verrà riposto nel granaio. Se Dio punisse l’uomo ogni volta che pecca, dovrebbe ricompensarlo ogni volta che agisce bene. Dio non fa ne l’una, ne l’altra cosa, ma attende l’ora della mietitura, l’ora cioè in cui la zizzania e il grano potranno essere colti insieme e diversamente destinati. Nulla andrà comunque perduto, tutto servirà: il grano nel granaio, la zizzania nel fuoco. Il bene aumenterà il tesoro del bene, il male ardendo contribuirà suo malgrado alla sua stessa liberazione. Considerando l’insegnamento più accuratamente e portando il campo della riflessione dal piano generale della storia a quello della nostra specifica persona, dal campo dell’umanità a quello del nostro io individuale, scopriamo che nella nostra zolla coesistono grano e zizzania, bene e male, virtù e vizio, merito e demerito. L’atteggiamento ordinario che assumiamo di fronte alle forze oscure, alla zizzania che è in ognuno di noi, è quello degli operai: vuoi che estirpiamo la zizzania? La risposta del Padrone è l’invito a non aver fretta, a pensare al grano che in noi deve maturare e la cui maturazione deciderà del destino della zizzania. La nuova parola d’ordine è quella di non estirpare le ombre, i germi del nemico tenebroso, di integrare in una unità superiore l’angelo luminoso che posa sulla nostra spalla destra con l’angelo oscuro che posa sulla nostra spalla sinistra. Ognuno di noi ha la sua zizzania, la sua ombra; se non vengono illuminate da una lucida coscienza, se vengono esorcizzate, represse, affrontate con spirito manicheo, tanto più si radicheranno e si faranno dense. Se esse fossero decisamente il male, non ci sarebbe problema. Ma la zizzania, l’ombra sono qualcosa di immaturo, di primitivo, di imbarazzante, ma non il male in sé. Contengono delle qualità inferiori, puerili, che potrebbero render più bella e più viva l’umana esistenza; saranno il fuoco che scalda la pentola e le cui ceneri concimano la terra della parabola evangelica, lo sterco della parabola buddhista.


Questa necessità di integrazione condurrà l’uomo verso un nuovo eroismo, non più quello del superuomo puritano che tutto giudica, tutto moralizza, ma quello del rifiuto della eteronomia del male, della proiezione del male su un capro espiatorio, lo guiderà verso l’etica dell’abbandono deliberato di ogni dualismo. La zizzania non può essere estirpata, è falciata insieme al grano, il seme viene vagliato. La zizzania bruciando diventa terra e, ad opera del fuoco, può divenire grano!


LE COSE DEL PADRE Giovanni Vannucci, La vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985; Le cose del Padre. Domenica fra l’ottava di Natale - Festa della Sacra Famiglia - Anno C; Pag. 29-32

Quando pronunciamo la parola «Padre» riferendola al divino, il nostro cuore si riempie di tenerezza, di amore filiale e fiducioso. Dobbiamo chiederci se questa stessa parola avesse, sulle labbra di Gesù, lo stesso significato prevalentemente emotivo che ha per noi. Il vocabolo ebraico che designa il Padre è Ab, o, in aramaico, la lingua di Gesù, Abba; esso è composto da due consonanti: l’ Alef — ’A —, che indica l’unità divina, il punto sorgivo e fecondatore della creazione; la creazione nella grafia ebraica è raffigurata invece dalla lettera Beth, la B di Ab. Quindi la prima lettera di Ab — Padre — è l’Intemporale da cui sgorgano il tempo, lo spazio, l’infinito numero delle creature. La suprema Coscienza vivente è una, una e immersa nella molteplicità creata. La seconda lettera, B, è il supporto, lo sgabello della divinità creatrice, la creazione quale espressione visibile e temporale dell’Invisibile creatore. La parola Padre, nel linguaggio concreto di Gesù e del suo popolo, non è tanto un’invocazione emotiva, ma piuttosto l’affermazione che nel creato esiste una Presenza attiva e santa che stimola la coscienza, che l’afferma e spinge alla più intensa collaborazione al divenire della creazione. Il Padre non è una realtà lontana, ma la Presenza vivente, immanente nel creato e nelle creature per guidarle verso il compimento del loro specifico e personale destino. Gesù è cosciente di quest’opera fecondatrice divina e la designa con la metafora: «Padre che sei nei cieli» (Mt 6, 9), oppure con l’altra: «Io e il Padre siamo una sola cosa» (Gv 10, 30). Due esseri viventi non sono mai perfettamente una sola cosa se non nel momento della fecondazione. Gesù, designando il mistero divino col termine «Padre», rivela che la presenza attiva e fecondatrice di Dio è operante nella sua persona e, per partecipazione, essendo Cristo colui che riporta tutte le creature al loro centro originario, nelle manifestazioni particolari di ogni essere creato, È il Padre che riveste di bellezza i gigli del campo, che vigila amoroso sui passerotti, che non permette la caduta di un solo capello senza il suo volere. Gesù descrive il rapporto con il Padre col verbo conoscere: «Io conosco il Padre come il Padre conosce me» (Gv 10, 15); «Onde conosciate che il Padre è unito a me e io


al Padre» (Gv 10, 38). La conoscenza è intimamente legata all’amore: il Padre conosce il Figlio perché lo ama, il Figlio conosce il Padre perché lo ama, i discepoli conoscono il Figlio perché essi sperimentano e ricambiano il suo amore-dono. Questa conoscenza non è un riconoscimento intellettuale di Dio o del Figlio, ma uno scambio di vita attraverso un amore-oblazione; essa viene sperimentata nella partecipazione reciproca del Padre e del Figlio, del Figlio e dei discepoli nell’unione di un amore fecondante. In Gesù la consapevolezza della presenza del Padre è costante, pervade tutte le sue parole e i suoi gesti. È l’inesauribile sorgente di ogni sua azione ordinaria e prodigiosa, il fuoco centrale che anima e dà significato alle sue parole e ai suoi gesti. Egli e venuto a «compiere le cose del Padre» (Lc 2, 49): il Padre è sempre operoso, e le sue parole sono le parole del Padre, la sua vita è la vita del Padre, la sua esistenza è la manifestazione dell’intimo contenuto della realtà del Padre. Nell’agonia del Getsemani Gesù implora il Padre e si rimette alla sua volontà; sulla croce consegna il suo soffio vitale nelle mani del Padre. Ai discepoli indica come termine del loro cammino l’infinita comprensione del Padre, costantemente li richiama alla presenza del Padre che ascolta nella segretezza e vede le intenzioni dei cuori. Gli Angeli dei fanciulli vedono sempre il luminoso volto del Padre; Gesù ai discepoli vieta l’appellativo di padre perché uno solo è il loro Padre. La presenza del Padre è vissuta da Gesù come immanente nell’essere, ed è a questa forma di coscienza che vuole che i discepoli si dischiudano. Per questo Egli domanda loro la rinuncia al loro piccolo io personale per integrarlo nell’assoluto Io divino. Il discepolo di Gesù è chiamato come Lui a fare «le cose del Padre». Esse non sono le cose imposte da un io di gruppo, di popolo, di chiesa, di partito, di stato, ma dall’assoluto e incondizionato liberatore Io divino. Esso è il punto di riferimento dell’io del discepolo, in esso è chiamato a reintegrarsi se vuole raggiungere la seconda nascita. La coscienza della Presenza, liberando l’uomo dagli idoli del suo io nato dalla carne e dal sangue, dagli io creati dai numerosi maestri umani, gli fa sentire la vita in tutta la sua calda pienezza che dona fiducia lungimirante e concreta; gli fa sperimentare, come Gesù, che il Padre non è un mito, un’artificiosa densificazione di aspirazioni terrene, un oggetto di preghiera, ma una Presenza che feconda tutto l’essere umano; e il suo patto non è costituito da suppliche, ordinanze, sinagoghe, maestri, ma da un accordo di carne e di spirito. La Presenza del Padre non è mai nei templi, nelle organizzazioni, nelle parole astratte o in quelle salmodiche, ma ovunque esiste una mente aperta all’infinita


realtà divina, ovunque esista un cuore dalle ali spiegate. La luce del Padre è ovunque, ovunque è il suo Figlio e il suo tempio. Si capisce perché Giuseppe e Maria, abituati a riferire l’infinito del Padre alle precise istituzioni e figure sacre del loro popolo, non comprendano le parole del Figlio: «Essi non compresero le sue parole» (Lc 2,50). Maria, la cui anima purissima è aperta a tutte le imprevedibili rivelazioni dello Spirito, accoglie nel suo cuore le parole incomprensibili del Figlio e le custodisce con rispetto e venerazione, aspettandone la maturazione. E Maria è la figura della Chiesa, dell’umanità che umilmente attende che le parole: «Io devo occuparmi delle cose del Padre» diano i loro frutti.


LE TRE VIE Giovanni Vannucci, «Le tre vie», 17a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 137-140.

Le tre parabole contenute nel brano di Mt 13, 44-52 riguardano tre momenti distinti dell’umana avventura: il regno di Dio si può trovare per caso - il contadino che ignora che nel campo dove lavora è sepolto un tesoro, lo scopre e gioisce; - il regno di Dio si trova nella ricerca - il mercante di perle che cerca la perla preziosa perché sa che esiste - (il contadino e il mercante concordano nella necessità di vender quanto posseggono per avere il tesoro e la perla); nella parabola dei pescatori che tirano a riva la rete, essi non sono i protagonisti, lo sono invece i pesci che vengono selezionati e scelti. Il regno di Dio è uno stato di interiorità che nasce dalla percezione della presenza divina nell’intimo del proprio essere; per essa l’uomo scopre con stupore e gioia la sua somiglianza con Dio e se ne inebria. Così d’improvviso l’uomo può scoprire il regno di Dio come un tesoro nascosto in un campo, non vi è attività umana che non possa condurre alla sua rivelazione, non esiste limite umano a questa suprema sorpresa. Il contadino «compra il campo», non il tesoro. Il tesoro è in più, è gratuito. L’uomo con la virtù portata al grado eroico compra il campo, compra la vita, compra il suo «stare in questo mondo» che lo porterà al possesso del tesoro del regno di Dio. Il tesoro è sempre un dono, deve essere conquistato, meritato con la rinuncia a tutto ciò che ha chiamato «suo» fino a quel momento. Nulla Dio dà all’uomo gratuitamente, l’uomo lo deve poter guardare in faccia, deve poter affermare dei diritti. Dio ha creato l’uomo a sua immagine non per farsene uno schiavo, ma un figlio che dimostri di meritare la divina paternità. Il contadino che scopre il tesoro è l’uomo ordinario che, obbedendo al suo dovere, scopre il suo diritto alla figliolanza divina; per non perderla rinuncia a ogni suo possesso e acquista il campo. Rinuncia che è il bene praticato oltre il limite, è il rinnegamento di se stessi per possedere più che se stessi, è l’eroismo, la santità. La rinuncia viene finalizzata all’acquisto del tesoro, la valorizzazione delle opere per avere il tesoro non toglie però un intimo malessere di averlo truffato, perché il valore del campo non può essere quello del tesoro, malessere che rivela la presenza di un dualismo; il contadino vangando entro di sé scopre il regno di Dio, ma non pensa di essere lui stesso il regno di Dio, non si sente figlio, ma servo, offre la sua vita, ma non la riconosce consustanziata con quella del Padre. È la via di Pietro: «Abbiamo rinunciato a tutto, quale premio ci darai?».


Il mercante di perle è il saggio, il cercatore della verità, della perla. Per lui la vita è come un’epopea iniziatica. Ricerca audace, tensione massima, rischi enormi. Sforzo ardente verso un fine sovrumano: divenire il collaboratore di Dio, il Figlio del Padre, un dio in Dio. La sua ascesi ha un solo movente: conoscersi e conoscere, raggiungere la verità, la perla più preziosa, la verità che sola può dare un senso alla vita. Cerca la verità nelle regioni ove suppone possa trovarsi. Cercandola la trova, la sua gioia è grande, ma gioia consapevole, senza l’incanto della sorpresa, con l’intima soddisfazione di una raggiunta conferma. Chi gli ha parlato della perla non l’ha ingannato, essa esiste e può farla sua, pagando il prezzo dovuto. Il mercante lo paga rinunciando a ogni antecedente possesso, felice di barattare i suoi molti beni con l’unico oggetto della sua ricerca. A differenza del contadino non si stupisce di aver trovato il regno di Dio, scopo di tutte le sue ricerche, né rifiuta di pagare quanto gli è richiesto. Il contadino compra il campo, non il tesoro, e con perplessità possederà il tesoro, il mercante compra la perla, l’oggetto delle sue ricerche, ben ne conosce il valore. L’uno e l’altro giungono allo stesso risultato: il tesoro, la perla; il contadino è perplesso: il vecchio padrone può citarlo in giudizio, forse di fronte alle difficoltà momentanee può darsi che rimpianga le cose cui ha rinunciato; il mercante, una volta in possesso della perla, non si dà pensiero delle difficoltà. Dio, la perla, lo chiama a un incessante superamento, è cosciente dell’estrema distanza tra Dio e lui, tra la perla e i suoi beni, insieme è consapevole della parentela essenziale esistente tra i due termini e quindi della possibilità e della necessità di un’ascesi deificatrice. Il Creatore vuole dei creatori, lo Spirito vuole dei liberi spiriti, i figli di Dio hanno accesso alla vita e alle energie divine. Essi combattono per le virtù più elevate, per il più alto dono di se stessi, per la più sublime sapienza. Entrambi raggiungono la stessa mèta, possiedono lo stesso bene. Il mercante, la via della saggezza, procede con serenità e sicurezza, forse il possesso per lui è raggiungibile nella vita terrena; il contadino, la via dell’ascesi, cammina con timore e tremore, e non è mai certo di raggiungere il possesso del tesoro. L’essenza della cosa è pur sempre una: il regno di Dio è in vendita, vien comprato a prezzo di tutto ciò che si possiede. Comunque sia cercato il regno di Dio, una volta intravisto, ossessiona, riempie di sé ogni spazio, colma di sé tutto, e tutto diventa un niente davanti alla sua verità. Al Regno si può giungere per caso come il contadino, o per sapienza come il mercante, comunque vi si arriva per uno sforzo di lavoro, per un atto di buona volontà. Veniamo alla parabola della rete: in essa la rete gettata in mare cattura «ogni sorta di cose», buone e cattive; le buone verranno conservate, le cattive gettate di nuovo in mare. Mentre nelle prime due parabole viene sottolineato il lavoro, lo sforzo


individuale dei due ricercatori, il contadino e il mercante, in questa tutto avviene per una sorta di fatalità: la rete vien gettata dai pescatori, dagli Angeli, i pesci v’incappano casualmente, né i buoni né i cattivi la cercano, vi s’imbattono. Per chi ha raggiunto il Regno o attraverso la via dell’acquisto del campo per l’abbandono di tutto ciò che non sia il Regno, o mediante la via della perfetta dedizione alla verità, la legge della selezione e della scelta non è operante, egli si è liberato da ogni cosa sindacabile. La selezione vige per gli esseri comuni, che vivono nel mare della vita, incappano nella rete, la morte, e verranno scelti dagli Angeli, in conformità alle cose buone, attinenti allo Spirito, o alle cose cattive, attinenti alla forma materiale. Questa visione domanderebbe un lungo sviluppo; se teniamo presente che la parola prima e ultima del Vangelo è l’invito a risvegliarsi, comprenderemo che il contadino e il mercante sono due risvegliati alla visione del Regno che perseguono in due vie differenti: l’ascesi e la conoscenza; mentre accanto a essi continua a vivere una massa di non risvegliati, buoni e cattivi, ma non consapevolmente coscienti del loro mistero di uomini. In essi non esiste il fattore di libertà o di responsabilità, una misteriosa volontà per essi opera e decide. La rete non sceglie, raccoglie, le cose raccolte non si scelgono da sole, sono scelte dai pescatori e il loro giudizio è insindacabile, essi sanno cosa conservare. In questa prospettiva l’invito a essere svegli assume un aspetto tremendo e impellente!


LO SPIRITO DEL MONDO 1

Giovanni Vannucci, «Lo spirito del mondo», in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984. 28a domenica del tempo ordinario - Anno B. Pag. 173-175.

Gesù disse al giovane: «Va’, vendi quello che hai, dallo ai poveri, poi vieni e seguimi». Il giovane se ne andò via triste, poiché aveva molti beni (Mc 10, 21-22). Lo spirito del mondo è lo spirito di attaccamento ai beni; non è detto naturalmente che ogni ricco sia un malvagio. Il giovane che si presenta a Cristo ha tutte le qualità per venire ammesso alla sequela di Cristo. Ha già trionfato di se stesso, della sua natura, della società, osservando i comandamenti. Ma aveva molte ricchezze! Lo spirito del mondo trionfa di Gesù . Le amare parole di Gesù: «Quanto è difficile, per chi possiede delle ricchezze, il salvarsi!», riconoscono questa sconfitta. Lo spirito del mondo ha, nella ricchezza, il suo più forte ausilio. Chi ha grandi ricchezze vede la virtù come un’esplicazione elegante, un raffinamento dell’esistenza, un’esaltazione del proprio prestigio. Il giovane ricco può prostrarsi a Gesù, ma non seguirlo. Lo spirito del mondo lo tiene saldamente per il lembo delle ricchezze. Fintanto che egli possiede delle grandi ricchezze, ogni suo gesto è illuminato dal loro riflesso; l’ammirazione e lo stupore lo seguono, ma quando non le avrà più, passato il primo stupore del gesto di rinuncia, egli sarà nella massa uno dei tanti, non sarà più distinto; la sua personalità non avrà più la lusinga di emergere. Cristo non chiede i beni materiali, chiede di aver pronto quello spirito di rinuncia che solo può essere opposto allo spirito del mondo. Il giovane avrebbe fatto volentieri dei sacrifici al tempio, avrebbe dato con compiacenza il sovrappiù delle sue ricchezze, avrebbe praticato delle dure penitenze, seguito delle pratiche ascetiche, discusso sottilmente della legge, fatto lunghe preghiere, sarebbe stato ospitale, generoso con i poveri. Tutto questo l’avrebbe fatto per avere la vita eterna. Ma rinunciare ai propri beni, vender tutto per seguire Gesù come uno qualunque, uno dei tanti semplici? Questo non lo poteva fare! Lo spirito del mondo è costituito da tre peccati che potrebbero venir chiamati teologali, essendo la controparte delle virtù teologali. Essi sono: l’orgoglio, l’affermazione prepotente del proprio «io»; l’avarizia che è il desiderio di potenza o di attaccamento ai beni; l’invidia, o complesso d’inferiorità, o dispiacere dei beni, dei doni, delle qualità altrui. La superbia si oppone alla fede; l’avarizia alla speranza; l’invidia alla carità. Questi peccati sono insiti nell’anima, e lo spirito del mondo è tutto in essi. Così è lo spirito di avarizia che ridà al mondo il giovane ricco, spirito che si mimetizza in mille sottili maniere. Si può essere avari essendo generosi, prodighi addirittura; e tanto più


si peccherà di avarizia quanto più si possederanno ricchezze: ecco perché è così difficile per i ricchi salvarsi. Essi non potranno mai considerare la vita a sée stante, non potranno mai liberarsi dallo spirito del mondo, non potranno quindi mai seguire Cristo: essere, in una parola, liberi. Lo spirito del mondo non si oppone alla virtù, la virtù occorre anche a lui; è necessario averne una buona dose ed essere dei veri asceti per seguire le iniziative dello spirito del mondo; solo delle anime complete e viventi possono costituire la corte del Principe di questo mondo. Il contrasto tra Cristo e il mondo non è intorno alla virtù, ma intorno alla libertà. Cristo libera, il mondo incatena; Cristo distrugge la personalità egoica, il mondo l’esalta; Cristo vuole l’umiltà del cuore, il mondo l’orgoglio della mente. Cristo insegna le vie della semplicità, il mondo quelle della complicazione. Cristo esige il coraggio, il mondo la paura; Cristo vuole che l’uomo sia cosciente di ciò che è in lui; il mondo invece che si occupi di ciò che è fuori di lui. Cristo infine è cessazione di lotta, il mondo è esplicazione di lotta, ma i due grandi antagonisti abbisognano di uomini veramente nati e battezzati in fuoco e spirito: cioè virtuosi. L’avversario di Cristo non può essere che degno di Lui, è il vero Anticristo, e precede l’avvento e i ritorni del Messia, costruisce le personalità che Cristo dominerà. Nelle epoche in cui lo spirito del mondo costruisce i suoi grandi epigoni mentali e in cui il valore umano, superesaltandosi in oligarchie, viene a testimoniare più fortemente la separazione, il ritorno di Cristo è imminente: Cristo viene a raccogliere ciò che il mondo a seminato, non senza combattere, raccoglie. I più indicati a raccogliere Cristo che torna dovrebbero essere i ricchi; più largamente dotati di mezzi di ascesa materiale, dispongono di tempo e di possibilità istruttive. Essi sono vicinissimi alla libertà; lo spirito del mondo, come una maledizione biblica, li incatena e li schiaccia. «Com’è difficile per i ricchi entrare nel Regno dei cieli!». L’amara constatazione di Cristo rimarrà di monito a chiunque presume di trovare la libertà nell’oro. La superbia potrà essere folgorata dall’umiliazione; l’invidia vinta dall’amore; il desiderio di potenza come potrà essere vinto? Solo la povertà volontaria vince lo spirito del mondo; ma chi sa di essere povero? Povero in spirito, povero internamente, povero nell’assoluto non attaccamento ad alcun bene? Lo straccione che teme di perdere la logora veste non è da meno del ricco che trema al pensiero di perdere le sue proprietà. La povertà in spirito è una vera grazia del cielo, un vero dono dello Spirito di Dio; essa si identifica nella verità e nella libertà. Colui che è internamente povero vince lo spirito del mondo e signoreggia i cieli.


ESSERE CONTINUAMENTE NUOVI Giovanni Vannucci, omelia tenuta nell’eremo di S. Pietro alle Stinche, Greve in Chianti (FI), durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 18, lunedì 19 Aprile 1976 (Lunedì dell’Angelo), Anno B; registrata su nastro magnetico da Elena Berlanda e trascritta da Consalvo Fontani. Pubblicata da Fraternità di Romena editrice, Pratovecchio (AR), 2005, in Nel cuore dell’essere, pg. 143-148. 1

Il fatto della Resurrezione richiede da noi una grande riflessione, una riflessione che escluda tutti quegli interrogativi che ci portiamo dietro per la nostra educazione storica occidentale. È un fatto descritto dagli evangelisti, ma è un fatto religioso che trascende la storia, quindi non è per niente giustificabile con argomenti storici come - per esempio - potremmo usare per sapere quando è avvenuta la battaglia di Waterloo, come è avvenuta la sconfitta di Napoleone. Questa battaglia è un episodio storico, è un avvenimento, mentre la resurrezione è un evento. C’è una presa di possesso da parte di Dio nella storia dell’umanità, della coscienza dell’uomo, e questa discesa di Dio nella nostra storia si compie nella resurrezione di Cristo alla quale dobbiamo credere, ma credere partecipandovi. E come partecipiamo alla resurrezione? Questa è la grande novità cristiana che viene vissuta, molte volte, anche inconsapevolmente. Molte volte compie la sua opera anche al di fuori della cerchia ufficiale della Chiesa. E come possiamo vivere il mistero della resurrezione, l’evento della resurrezione? Nel Vangelo di Giovanni la resurrezione è associata al giudizio: ecco, ora, Dio giudica il mondo. E credo che questi due eventi, il giudizio che lo Spirito, attraverso Cristo, dà del mondo e la resurrezione, siano strettamente congiunti. Nella nostra vicenda personale cosa avviene? Avviene questo, che ascoltando le parole del Signore, qualcuna di queste scende nel profondo della nostra coscienza e la illumina, e ci sentiamo giudicati da queste parole. Prendete, per es. “beati i portatori di pace”. Questa parola scende in noi e vediamo tutte le nostre aggressività, le nostre violenze, i nostri comportamenti di durezza, di condanna verso gli altri. Questa parola ci giudica, ma questa parola poi ci fa risorgere in quella pienezza di vita che è Cristo. E allora ascendiamo nel mondo di Cristo come portatori di pace. E così tutte le altre parole di Cristo quando vengono ascoltate nel loro suono primordiale, al di là di tutte le interpretazioni che nel corso della storia umana gli uomini possono aver dato di esse, quando le ascoltiamo nella loro vibrazione pura e tersa del momento in cui sono state pronunziate e dei momenti in cui Cristo le ripronunzia, le ripete a noi, allora avviene questo fatto, che noi ci sentiamo giudicati, cioè vediamo la non cristianità della nostra esistenza e ci incamminiamo come creature risorte ad una nuova luce, ad una nuova vita, ad una nuova potenza spirituale, ci incamminiamo alla realizzazione di queste parole di Cristo.


Se voi guardate la storia della cristianità alla luce della risurrezione di Cristo, operata attraverso la presenza di Cristo nella coscienza dell’uomo e comunicata dalle grandi parole che sono custodite nei Vangeli, voi noterete questo: che spesso la cristianità si trova soddisfatta di se stessa, come chiusa in una organizzazione ben formulata teoricamente e praticamente, con delle dogmatiche perfette ed ineccepibili, con delle direttive morali e giuridiche esatte, con una perfetta sistemazione gerarchica. E improvvisamente, questa società così tranquilla e soddisfatta che identifica se stessa con il regno di Dio compiuto sulla terra, improvvisamente comincia a muoversi e ad esplodere. Nascono delle interpretazioni nuove, delle parole che i cristiani si sono ripetuti per secoli e secoli. Prendete, al tempo di San Francesco, la Chiesa gloriosa e ricca di Innocenzo III, comincia a muoversi perché la parola della povertà “Beati i poveri ché di essi è il regno dei cieli”, questa parola della povertà comincia a vivere nella coscienza di questo umile e grande uomo. E si opera una resurrezione, non soltanto in Francesco, ma in tutta la cristianità. E potremmo leggere la storia della cristianità, del Cristianesimo, alla luce di queste continue reviviscenze della parola di Cristo, di queste continue resurrezioni. Ciò ci dice che la Parola Incarnata è Cristo e la parola pronunziata dalla Parola Incarnata, dal Verbo incarnato che è Cristo, sono germi di resurrezione e non possono essere racchiusi in nessuna formulazione umana, perché ogni formulazione storica e concreta della parola di Cristo, è sempre inadeguata alla vastità ed alla grandezza della stessa parola. Ed allora, rivivendo in alcune coscienze, la parola di Cristo porta e la coscienza e la ricerca, e le altre coscienze che, tramite questa coscienza illuminata ricevono la parola, portano alla resurrezione e ... .... E questo è un fatto che possiamo constatare e possiamo verificare e al quale noi dobbiamo partecipare. Perché quale è lo scopo di noi cristiani? Mica quello di organizzarci in una società perfetta? Le generazioni che ci hanno preceduto hanno sognato il regno di Dio sulla terra, mentre Cristo ha detto: “il mio regno non è di questo mondo”. È nel mondo dell’anima il regno di Cristo, è nel mondo delle profondità della coscienza umana il regno di Cristo, ed è in continuo divenire, perché la nostra coscienza è sempre al di sotto di quella grandezza che Cristo ha portato nella sua persona e alla quale assume lentamente, nel corso della storia, tutte le coscienze degli uomini attraverso questa fioritura di cristiani perfetti, di cristiani che hanno avuto il coraggio di vivere fino in fondo la Parola Incarnata. Ed è il nostro scopo questo, di cristiani, di vivere quella parola di vita “le mie parole sono vita”, quella parola di vita che ci è stata consegnata, viverla nella nostra dimensione personale. E tutte le altre mete che appartengono all’uomo e che appartengono quindi anche a noi come uomini viventi in un determinato tempo, sono secondarie per noi cristiani. L’essenziale non è salvare la nostra coscienza ma l’essenziale è diventare i portatori vivi, con tutto il proprio essere, della parola che abbiamo ricevuto, della parola eterna che è germe di vita senza fine, che è germe di resurrezione. Ed allora l’evento della resurrezione noi lo viviamo, lo viviamo insieme alla nostra Chiesa, portando la nostra Chiesa che, come tutte le istituzioni umane,


tutte le istituzioni di gruppo, è portata fatalmente a indurirsi, a chiudersi, a essere soddisfatta di se stessa. Ma, credendo nella resurrezione, sappiamo che Cristo non può essere racchiuso in nessun sepolcro, in nessun palco come uomini illustri vengono messi, può essere racchiuso Cristo. E il suo sepolcro è sempre vuoto, e è sempre oltre. E qualunque formulazione, o personale o sociale noi possiamo dare alle parole di Cristo, è sempre imperfetta, è sempre insufficiente a trasmettere tutta la verità della parola che contiene perché è vita e, come una pianta vivente, non esprime mai tutta la potenza di vita che possiede. Guardate questa quercia che è qui vicino,... avrà un mezzo secolo..., fra altri cento anni sarà ancora più poderosa. Ha la vita, e la vita distrugge sempre la sua forma portandola a più grande vastità, a più grande manifestazione, più potente manifestazione di se stessa. E così è il cristianesimo. È la parola che noi abbiamo ricevuto, e il nostro impegno - vedete - personale, non è né quello di criticare le istituzioni cristiane, né quello di voler portare dentro strutture sociali sempre più affascinanti la parola cristiana, ma è quella di viverla noi personalmente, perché attraverso la continua incarnazione della parola di Cristo, la parola di Cristo si comunica agli altri e opera la trasformazione in seno all’umanità. Quindi il mio compito di cristiano è quello di accogliere, mettendo da parte tutte le interpretazioni, le teologie, le ideologie, che si sono formate nel corso dei secoli, attorno alla parola di Cristo, per poterla cogliere nel suo momento originale, nella sua purezza, nella sua vibrazione prima, e viverla. Allora sperimenterò in me stesso una resurrezione, una resurrezione continua, cioè una trasfigurazione continua del mio essere, perché ogni realizzazione che posso dare della parola di Cristo è sempre insufficiente. Io devo andare sempre oltre le mie insufficienze per giungere personalmente alla pienezza della realtà umana e divina di Cristo. Ognuno di noi deve giungere alla grandezza di figli di Dio e la grandezza di figli di Dio è del tutto più vasta, più immensa della grandezza dei figli dell’uomo. Questo è il nostro compito: vivere incondizionatamente, appassionatamente e affrontando tutti i rischi possibili, le parole di vita e di resurrezione che ci sono state consegnate. Allora crederemo veramente alla resurrezione di Cristo e sperimenteremo l’evento della resurrezione di Cristo sentendo che il Cristo è vivente e che quando si innesta con la nostra vita, porta la nostra vita a più forza, a più verità, a più saggezza, a più equilibrio, a più potenza. E il Cristo, allora, risorto in noi, si comunica agli altri attraverso la trasformazione, la trasmutazione della nostra persona singola della nostra individualità che da figlio della carne diventa figlio di Dio. Ecco, questo mi sembra che sia, almeno per me, il senso di vivere la resurrezione di Cristo: esser continuamente nuovi ma non di una novità che nasce dalla nostra fantasia e dalla nostra immaginazione, di una novità che nasce dalla nostra partecipazione sostanziale, equilibrata, forte, coraggiosa, alle parole grandi, di vita, che ci sono state consegnate. Allora noi risorgiamo, usciamo da quei sepolcri dentro i quali spesso ci troviamo così bene e apprendiamo che Cristo è la vita ed è la resurrezione di noi e di tutti gli altri esseri. E questo è il compito specifico - come si


dice oggi - di noi cristiani: di vivere la parola di Cristo, nella sua purezza e nella sua integrità con fedeltà assoluta. Allora comunicheremo agli uomini che, come le donne del Vangelo di oggi, che Cristo è risorto e l’abbiamo incontrato, e lo viviamo. Quindi per me l’essenza del mistero cristiano è vivere la resurrezione, accogliendo con semplicità quelle energie di vita e di ripresa di vita che Cristo ci comunica attraverso le grandi parole che egli ci ha consegnato. E ci dovremo abituare a metterci in silenzio davanti al Vangelo, senza commenti, al Vangelo, nella sua purezza. Chi ha la fortuna di poterlo leggere nella lingua originale, lo legga nella lingua originale, ma l’importante è mettersi in silenzio davanti alle parole di Cristo e ascoltarle perché discendano in noi e vivifichino tutto il nostro essere in modo da renderlo sempre più corrispondente alla verità luminosa e alla vita ardente di Cristo.


MARIA E GIUSEPPE Giovanni Vannucci, «Maria e Giuseppe», 04a domenica di Avvento - Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984. Pag. 24-26.

Penso che il testo di Mt 1, 18-24 debba esser letto soltanto nell’ottica della fede concreta e vissuta dalla Chiesa Orante, altrimenti non si spiegherebbe l’importanza che hanno tuttora Giuseppe e Maria nell’esperienza cristiana. Un filone del pensiero moderno, che ancora si muove alla periferia della cultura ufficiale, nutrito della Storia delle Religioni, del linguaggio dei simboli, delle conoscenze della psicologia del profondo, ci fornisce un’immagine che può aiutarci ad avvicinare meno irrispettosamente il misterioso rapporto fra Maria e Giuseppe. L’immagine è quella della complementarità del femminile e del maschile fin dall’Inizio, del principio mascolino che cerca il suo vero femminino e del principio femminino che cerca il suo vero mascolino. Gli eventi storici del Vangelo si muovono nel tempo sottile della Rivelazione; se li si riduce esclusivamente alla storicità perdono la loro verità e diventano degli inspiegabili calembour. Cerchiamo di avvicinarci al senso di questo episodio tenendo conto dell’immagine archetipale della femminilità e della mascolinità quale principio metafisico, ultrasensibile, che soggiace a tutta la Manifestazione e a tutta la Rivelazione. Negli uomini e nelle donne comuni non esiste, come ci mostra la scienza attuale, che una mescolanza di principi maschili e femminili; ma nella loro espressione superficiale, in un maschio vi sarà qualcosa di femminile, ma non la femminilità; in una donna vi sarà qualcosa di maschile, ma non la mascolinità. Questi due principi vengono espressi dagli esseri umani, solo nella materialità concreta; nel piano più sottile dell’anima, questi principi sono a sé stanti, e l’amore vero nasce solo quando ogni maschio trova la sua Donna Eterna, la Donna che fu tratta da lui, che partecipa di lui, che è una sola realtà con lui. Maria era la Donna eterna di Giuseppe; l’unione perfetta dei due principi era quindi per avvenire e avvenne. La parte spirituale di Giuseppe si esteriorizzò, si materializzò presso Maria che, a sua volta, aveva esteriorizzato lo stesso principio. Matteo, nella sua genealogia di Gesù, afferma che Gesù è figlio legittimo di Giuseppe: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, detto Cristo» (Mt 1, 16). Nessun figlio dell’uomo fu mai figlio di suo padre come Gesù lo fu di Giuseppe. Mentre ogni nato di donna, più che figlio del padre è figlio degli avi, che nel genitore vivono nella potenza cromosomica. Gesù è generato fuori di ogni cromosoma, privo di ogni segno di ereditarietà, perché Maria e Giuseppe lo generarono fuori della forma, nell’energia primigenia che originò il creato. Ecco perché egli stesso, più tardi, si indicherà come Figlio dell’Uomo! Il Concepimento in Maria è immacolato; una nuova terra e un nuovo cielo presiedono all’incarnazione del Verbo; la carne, il corpo fisico di


Maria e di Giuseppe non sono che veri pretesti formali: la loro vera vita non è nella carne e nel sangue, ma nello Spirito divino che li anima e li aggemella. La pronta obbedienza di Giuseppe alle parole dell’Angelo testimonia del come abbia capito le cose e come si sia piegato al Volere divino che li aveva scelti per venire in mezzo agli uomini per patire, morire, risorgere, per condurli a un nuovo stato di coscienza. Maria tace, accanto al suo silenzio vi è quello di Giuseppe, suo sposo, trepidi e verginali custodi del nuovo ordine che doveva instaurarsi nel mondo. Essi si amarono di un casto e illuminato amore, in nessun tempio Iddio fu adorato davvero in spirito e verità come nella casetta di Nazareth. Per nove mesi nel grembo verginale di Maria crebbe la forma purissima, alimentata dalla vocazione sacerdotale di Maria e di Giuseppe. Nel nascondimento di un lavoro artigianale, la nuova coppia umana custodiva la luce che avrebbe illuminato gli uomini. In questo stato di ascesa mistica è logico pensare che i rapporti sessuali siano stati del tutto trascesi. Gesù fu l’Unigenito di Maria e di Giuseppe; il miracolo di questa fusione di principi non si può ripetere nel tempo: chi questa fusione una volta ha compiuto, ha, con essa, bruciato ogni possibilità di operare nella carne e nel sangue. Strana è l’incomprensione di tanti del concepimento verginale di Maria, e strane sono le spiegazioni assurde e fantastiche che ne sono state date. Come dalla mente di Dio fu generato il primo Adamo, così fu generato il secondo dopo millenni dalla caduta del primo. L’azione di Dio è semplice, perciò è sublime. Cristo stesso ci dirà che l’opera generativa del Padre non si compie nella carne e nel sangue, ma nello spirito e nella verità. L’unione celeste di Maria e di Giuseppe, nel seno stesso dell’essenza spirituale, è un atto che ne impedisce ogni altro: non vi è più casualità per chi ha attuato la causa; non vi è più desiderio per chi ha consumato la brama del possesso indicibile; non vi sono fuochi nel fuoco! Così Gesù rimane l’Unigenito di Maria e di Giuseppe e non avrà altri fratelli e altre sorelle che non siano gli uomini e le donne che ascolteranno la sua parola e la metteranno in pratica.


MARIA 1

Giovanni Vannucci, «Maria» - 04a domenica di Avvento - Anno B; in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici

Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 21-24.

Le figure di quelli che per primi, secondo il Vangelo, accolsero la Parola vanno considerate con pensiero contemplante, immersi nel più totale silenzio. In esse si compiono dei tempi, e se ne dischiudono altri di più perfetta rivelazione divina. Se rompiamo questo silenzio con i concetti di una teologia cerebrale, o con problematiche storiche o esegetiche, rischiamo di non comprendere nulla di quanto questi segni viventi, immersi nel divenire della Rivelazione, sono destinati a comunicarci. Due parole ci additano il significato di Maria, Madre di Cristo: quella detta in risposta all’annuncio dell’Angelo: «Sia fatto di me secondo la tua parola» (Lc 1, 38), e l’altra rivolta al Figlio alle nozze di Cana: «Non hanno più vino» (Gv 2,3). Eva accolse la parola del serpente, il principio separativo, dualizzatore; Maria, accogliendo con tutto il suo essere la Parola eterna, divina, abolisce la separazione tra cielo e terra, tra uomo e Dio, tra materia e spirito, e apre i tempi della pienezza della vita. Nel suo grembo il creato e il Creatore ritrovano il loro antico e perduto Amore. La capacità di offerta, di totale abbandono all’immensa vita che compenetra ogni cosa, espressa nelle parole umane di Maria: «Sia fatto di me secondo la tua parola», rendono feconda la Vergine e ne rivelano il mistero. Ella è insieme creatura umana ed espressione personale simbolica della Matrice ricettiva dell’universo; del Nulla che contiene tutti i possibili e che, rispondendo alla Parola creatrice, si adorna delle infinite forme che appaiono nella festa della vita; dell’abisso sul quale alita lo Spirito divino; dell’utero ove la Parola divina diventa carne. La Vergine-Madre è il «Nulla» che, offrendosi senza opposizione alla potenza germinale divina, rende possibile l’apparizione delle cose dalla più infima alla più eccelsa: Gesù, Figlio di Dio e dell’Uomo. La Chiesa orante ben a ragione riferisce le parole della Sapienza a Maria: «Prima che i monti si ergessero con la loro mole, prima che l’onda erompesse dalle sorgenti, ero con il Creatore, componendo con lui le armoniose forme dell’universo. Con lui ero da tutta l’eternità, posseduta da lui; partecipando alla formazione del creato. La mia gioia è di essere sulla terra, mia delizia dimorare tra i figli dell’uomo. Chi scopre me trova la vita, il mio pane vien mangiato e il mio vino bevuto da chi ha raggiunto la semplicità» (Pr 8, 22-31). Il significato della figura della Vergine-Madre è nella sua qualità di «essere nulla», terra totalmente devoluta alle energie dello Spirito Santo. Il suo «io» non è separato, la sua azione non è affermazione di sé nella conquista, ma offerta e abbandono di sé al volere divino. Enodio, in un suo inno cristiano, dice di Maria: «Gioisci, o Vergine, Madre di Dio, tu concepisti la Parola attraverso l’orecchio». L’orecchio era per gli antichi il simbolo della recettività, la sua capacità uditiva è proporzionata alla sua passività, quindi è simbolo della materia passiva che non si oppone alla Parola; come il suono è il principio attivo dell’udito, così la Parola eterna è il principio attivo che rende vivente la materia, e, nell’Incarnazione,


trasforma la Vergine in Madre del Verbo. Mediante il simbolo vivente di Maria ci viene rivelato che prima del peccato originale esiste la santità e l’unità dell’origine, l’Immacolata Concezione. La Parola prese in lei la carne umana, e con la Parola in lei si rese attiva l’essenza di ogni vita, e tutti gli esseri viventi, nell’attimo dell’Incarnazione, divennero suoi figli. In lei l’intera umanità e l’intero creato vennero ad assommarsi, perché in lei si adempì il mandato di Eva/la madre dei viventi. Così quel sentimento dell’unità di tutti gli esseri nel divino, un tempo intuito e vissuto da alcune menti illuminate, attraverso il «sì» di Maria è divenuto un diritto di nascita per tutti. Ogni nato di donna, morendo al proprio «io» individuale, ha il potere di vivere nell’immensità della coscienza divina dei figli di Dio. L’altra parola di Maria che ne rivela l’intima essenza, è quella che rivolse al Figlio alle nozze di Cana; «Non hanno più vino». Fermiamoci sui punti base dell’episodio. Le nozze, la Madre e Gesù presenti, il vino mancante, l’acqua nelle anfore. Le parole di Maria: «Non hanno più vino», la risposta del Figlio: «Niente c’è tra me e te, o donna! Non è ancora arrivata la mia ora!». Infine la trasformazione dell’acqua nel vino migliore. La Vergine-Madre - nei momenti cruciali dell’ascesa della coscienza umana - indica che il contenuto delle forme è svanito, che la festa della Vita, le Nozze, sta trasformandosi in tristezza per deficienza di elementi che diano gioia, fiducia, canto: «Non hanno più vino, nelle anfore c’è solo dell’acqua!». La Vergine-Madre non può che segnalare la deficienza, non può introdurvi i germi di una vita più intensa. Addita l’attesa di una nuova ebbrezza da parte delle forme esauste; solo la Parola divina che s’incarna può compiere quest’opera. «Niente c’è tra me e te, o donna. Tu sei la matrice che attende la fecondazione, tu sei la misericordia che trepida e si dona quando la vita vien meno. Io sono la vita fecondante, tu attendi e accogli, dal nostro incontro nasce una più ardente vita». Nella liturgia orientale la terra è spesso il simbolo della Madre di Dio. Maria, come la terra, è degna di generare la vita per il dono totale di se stessa alla Parola-germe. L’azione generatrice della terra, la maternità che permette l’ininterrotta catena delle nascite nel mondo vivente, in Maria diviene maternità divina. «In questo senso Maria è al vertice del mondo creato, il compimento di tutto il suo destino, la realizzazione di tutta la sua speranza. La terra non è soltanto chiamata a generare le creature, è chiamata a generare Dio portando in se stessa la possibilità dell’Incarnazione divina. Così può venir compresa la santità della terra e per questo può essere un oggetto d’amore e si può commettere peccato contro di essa e si può domandarle perdono» (L. A. Zander, Dostoievsky, Paris 1946 pp 69-70).


IL FANCIULLO ETERNO Giovanni Vannucci, «Il Fanciullo Eterno», Natale - Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984. Pag. 27-29.

Le celebrazioni natalizie tornano, ogni anno, portando il loro incantesimo, la loro grazia, le loro conoscenze espresse con simboli inesauribili: la Vergine Madre, la notte profonda, il volo canoro degli Angeli, i pastori, i re magi, la greppia, gli animali che fanno corona al Fanciullo eterno, l’annuncio della pace. Essi passano davanti al nostro sguardo commosso, il cuore ne sente il fascino, e rientriamo nella banalità dell’esistenza con un sentore di poesia arcana, che releghiamo nel mondo dell’immaginazione fiabesca e niente di più. Eppure l’arida volgarità del nostro tempo dovrebbe spingerci a sostare più a lungo e in raccolto silenzio davanti ai simboli della nascita del Fanciullo eterno, per afferrarne il contenuto, per viverlo con sensi che ne scoprono la verità e la bellezza, per capire che il loro messaggio concerne ogni uomo e gli da la forza di vivere la sua vicenda personale nella linea dell’ascesa e della trasfigurazione. Il ritorno alla riflessione su questi simboli, che ci trasmettiamo di stagione in stagione con riti ormai stereotipati e consuetudinari per disattenzione, significherebbe un’evangelizzazione attiva per tutti noi che dobbiamo riconoscere con coraggiosa umiltà di essere ormai dei pagani e degli idolatri. Non avendo l’insegnamento religioso contemporaneo saputo riconoscere il valore immanente e insieme trascendente dei grandi simboli della nostra tradizione, ha lasciato la psiche dell’uomo occidentale in preda a tanti demoni, in maniera tale che per liberarsene è tentato di trovare altrove delle tipologie più nutrienti. Sarebbe così importante se ci fosse dato di leggere uno studio sull’Incarnazione della Parola eterna, preceduto da un esame delle figure della notte santa, alla luce di tutta l’umana tradizione religiosa e degli approfondimenti compiuti dalla psicologia moderna sugli archetipi eterni della coscienza umana. La nostra Chiesa stabilì nel quarto secolo la data della Natività, e in essa vide il compimento della festività pagana che era celebrata nel mondo circostante e che commemorava il giorno natalizio del Sole invitto. Il rito cristiano sostituì la solennità pagana della rianimazione della luce solare al solstizio invernale; in essa veniva festeggiata con gioia la ripresa della vita sulla terra: il seme, sotterrato nell’autunno, dopo aver vinto il dragone infernale delle tenebre riprendeva vita con la crescita della luce solare. In Egitto Osiris era il simbolo della natura vegetale che nasce, cresce, vegeta e muore per rinascere perpetuamente. In alcune tombe di Osiris si trova il disegno di una conifera che è l’antenato del recente abete natalizio. Il Natale cristiano non sottolinea la rinascita della vita vegetale sulla terra, ma la nascita del Figlio di Dio nell’umana carne, la possibilità offerta ad ogni uomo di


trasformarsi da figlio della terra in figlio del cielo, riunificando in sé ciò che nell’esistenza è separato: visibile e invisibile, finito e infinito, carne e spirito. Nel Fanciullo della notte santa ci viene rivelata l’ultima e l’essenziale realtà di ogni uomo: Egli è luce da luce, ognuno di noi porta nella veste terrena, carnale, grazie alla quale possiamo dar forma a qualche cosa come la storia, una scintilla di quella luce che in Lui è discesa nella sua pienezza (cfr. Gv 1, 4). La notte santa, presentandoci l’Incarnazione della Parola eterna nel Fanciullo del presepe, rivela la natura vera dell’uomo: in ogni uomo vive una scintilla di luce che appartiene al mondo dell’invisibile, della pienezza dell’Essere. Se l’uomo non percepisce la scintilla divina che è in lui, non può capire la vita, la storia diventa per lui un concatenamento irrisolubile di necessità, di costrizioni, di schiavitù. Quando i suoi occhi si aprono alla luce che illumina ogni uomo, il suo occhio percepisce la realtà terrestre e sopraterrestre, come specchio che riflette non l’irrealtà del mondo delle forme ma la pienezza del reale. Riconoscendo in se stesso la luce, fonte e origine del suo essere personale, sperimenta in se stesso lo stato di colui che sa, e trova il suo destino, il suo compito nella storia e, come Cristo, si darà tutto all’adempimento delle «cose del Padre». In lui la scintilla divina, esiliata nel mondo della dimenticanza e dell’ignoranza, riconosciuta, è salva e diviene attiva, operando la nascita dell’uomo eterno, dell’uomo vero. Ritrova in sé la Parola non profanata, e si incammina verso l’adempimento del suo compito personale: ricollegare la pluralità del mondo con l’Unità divina. Perché questo avvenga ognuno prenda coscienza del proprio caos, del proprio stato personale indifferenziato, se ne separi per nascere alla luce, per divenire una nuova creatura. Quando l’uomo eterno nasce nell’uomo terreno, mediante l’offerta sacrificale del proprio essere caotico alla luce in lui racchiusa, non è più sottomesso al divenire e all’invecchiamento del tempo cronologico: il Fanciullo eterno è nato in lui. Alla sua nascita presiedono la terra pura, la Vergine Madre incontaminata, la notte illuminata da luci e rallegrata da canti del mondo delle origini. La nascita del Fanciullo eterno nell’uomo è un’incarnazione: di essa l’Incarnazione della Parola eterna in Gesù Cristo costituisce il prototipo e l’esemplare. Essa si compie quando ognuno di noi nasce in Dio e Dio nasce in noi, e coincide con la fioritura dell’individualità spirituale di ciascuno. «Cristo può nascere mille volte a Betlem, ma se non nasce in te la sua nascita è inutile».


ALCUNI SEGNI DELLA NATIVITÀ Giovanni Vannucci, «Alcuni segni della Natività» - Natale - Anno B; in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 25-27.

La mangiatoia La grotta Il mistero della notte santa

Gli eventi commemorati nelle solennità dell’anno liturgico vanno meditati con una mente sorretta e dalla fede e dall’attenzione a quei significati che la Chiesa orante vi ha scoperto o inserito, non per obbedire a una curiosità fantastica, ma per fissare l’insieme di evocazioni che il fatto commemorato ha suscitato nell’anima dei fedeli. Gli eventi che costellano l’anno liturgico: Natività, Epifania, Risurrezione, sono dei fatti che si sono compiuti in un determinato luogo e in un particolare tempo, come momenti salienti della Rivelazione che stabiliscono un legame tra l’umano e il divino, tra il mondo della storia e quello del mistero, e non possono essere avvicinati se non da una mente contemplativa che tenga conto della loro realtà storica e soprastorica, terrena e celeste, legata al tempo e allo spazio e insieme trascendente queste due dimensioni. La narrazione della Natività che forma il canovaccio delle ulteriori aggiunte è quella dell’evangelista Luca (capitolo secondo). Maria e Giuseppe furono convocati dall’amministrazione romana a Betlem, per il censimento. Maria, al termine della gestazione, non avendo trovato posto nella locanda della cittadina, diede alla luce il Figlio e lo depose, avvolto nelle fasce, nella mangiatoia. Un Angelo, attorniato da altri spiriti che cantano, annuncia la prodigiosa nascita a dei pastori e li invita ad andare a venerare il nato Salvatore, adagiato in una mangiatoia. I pastori si recarono solleciti sul posto e trovarono Maria, Giuseppe e il neonato posto nella mangiatoia.

La mangiatoia L’immagine consueta del Presepio contiene dei particolari che in Luca non sono menzionati: la grotta, il bue e l’asino. Essi sicuramente sono racchiusi nell’immagine evocata dal vocabolo «mangiatoia», faine in greco: essa designa un bacino, una cavità ricavata dalla parete della grotta, per deporvi non solo il mangime del bestiame, ma


anche il cibo degli operai e dei pastori che vi mettevano il loro pranzo che consumavano insieme. In un resto della Mishnah che risolve alcuni problemi di casistica alimentare, si parla di un sito ove venivano appoggiate le cibarie degli operai e dei pastori: esso è chiamato ebus, mangiatoia, stalla, truogolo. In questa prospettiva, le parole dell’Angelo ai pastori: «Questo sarà il segno», il «segno» rivelatore del mistero del Fanciullo - un neonato è deposto nella mangiatoia, nell’incavo ove siete soliti appoggiare le vostre vivande durante il lavoro -, acquistano un più pertinente significato: il Fanciullo nella mangiatoia è: «II Pane disceso dal cielo. Chi mangia della mia carne, avrà la vita » (Gv 6,51. 54).

La grotta La grotta è un simbolo universale il cui significato fondamentale è quello di costituire il punto di passaggio delle forze che dal cielo scendono sulla terra e dalla terra ascendono, rinnovate e redente, verso il cielo. È il simbolo delle origini e della rinascita; della nascita e dell’iniziazione; del centro ove le forze discese dal cielo invertono la rotta per ritornare alle origini. Gesù è nato in una grotta, e in una grotta fu sepolto, da dove è risorto nella pienezza della Vita. Il simbolo precede e segue il Rivelatore. Come se esso ne fosse parte integrante e come se, senza di esso, l’azione del Rivelatore rimanesse incompleta, senza dare la pienezza della sua ragione alle coscienze in attesa. Il simbolo ferma nel pensiero un aspetto della Rivelazione, altrimenti incomprensibile e inesprimibile. Da millenni l’uomo, abituato a pensare per immagini, porta con sé l’immagine della grotta, del rifugio scavato nella roccia, del tepore della tana nascosta donde emerse lo splendore della sua mente spirituale. La grotta, nella lingua franca della simbologia, segna l’aprirsi di nuovi cicli di umanità. Così Gesù Cristo nasce durante il solstizio invernale, in cui veniva celebrata la nascita del Sole invitto, e nasce in una grotta che è sentita dall’uomo come il centro della rivelazione della Luce spirituale, della nascita della coscienza responsabile. In ogni uomo è la caverna oscura dell’inconscio, la spelonca ove tutti gli atavismi, gli istinti, le forze oscure si dan convegno nella tenebra propizia della volontaria ignoranza dell’Io cosciente e responsabile. In questa caverna nasce il Redentore, Gesù Cristo, la Luce e la vera Coscienza dell’umanità.

Il mistero della notte santa si ripete continuamente per ogni uomo ,

ogni grotta ha il suo Fanciullo che vi nasce e la Vergine che lo depone come cibo di vita vera, sulla mensa riservata al pane. Nella grotta umana non esistono solo pulsioni di


morte e di distruzione, ma anche l’attesa che qualcuno la scelga a rifugio per una nascita. L’istinto di Dio che, più forte dello stesso istinto di conservazione, superiore alla stessa sessualità, spinge l’uomo a rinnegare se stesso, a rinunciare alla carne, affinché in lui Cristo nasca e si faccia carne, e nella caverna umana nasca l’Uomo che sente in Cristo il suo stesso principio e il suo più alto fine. In questa visuale acquistano il loro pieno significato le parole di Angelo Silesio: «Seppure Cristo nasca mille volte a Betlem, ma non in te, tu resti perduto per l’eternità».


I SIMBOLI DELLA NATIVITÀ Giovanni Vannucci, «I simboli della Natività» - 25 dicembre, Notte di Natale - Anno C, in La vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985; pag. 25-28.

La grotta La Vergine Il Fanciullo

I particolari della nascita del Figlio di Dio sulla terra affiorano spontanei alla memoria: la grotta, la mangiatoia, la vergine, gli angeli e i pastori, il supremo silenzio della notte santa. La loro presenza nella memoria commossa e pensosa si è talmente impressa in noi che possiamo in piena onestà domandarci se quanto si compì circa duemila anni or sono non si attui anche in noi, in maniera tale che i segni della notte santa non operino in noi l’evento della nascita della Parola eterna: come a Betlem così nei cuori consapevoli il Fanciullo eterno nasce, seguendo gli stessi ritmi della sua nascita nella grotta.

La grotta Il simbolo precede e segue il Rivelatore, come se ne fosse la parte integrante, come se, senza di esso, l’opera del Rivelatore rimanesse incompleta e non potesse dare il suo pieno significato alle coscienze in attesa. Da millenni l’uomo è abituato a pensare per immagini, anzi spesso l’immagine precede il pensiero; così da millenni l’immagine della grotta, della spelonca è familiare alla mente. Nella storia simbolica dell’umanità la grotta segna l’aprirsi di nuovi cicli umani, collettivi e personali. La grotta di san Benedetto, le grotte di Greccio e della Verna, le grotte dei numerosi eremiti segnano l’inizio di trasformazioni compiute nella coscienza di alcuni figli predestinati dell’umanità e insieme di nuovi rapporti dell’uomo e delle cose. Per atavismo l’uomo porta in sé la memoria della cavità nella roccia, del tepore protettivo della tana dove fu accolto e protetto nei primordi della sua esistenza. Mentre dalla spelonca ancestrale uscì l’uomo figlio della terra, da quella di Betlem uscì il Figlio di Dio e dell’Uomo, il portatore del regno di Dio. Il piano divino nel suo svolgimento non prevede il caso, ma predispone gli eventi, così che ogni cosa sia pienamente concatenata perché sia rivelata alla mente la


certezza che tutto è pieno di significato, di una recondita armonia prestabilita da una volontà sapiente. Nella grotta il Fanciullo nasce fuori della civiltà costruita dall’uomo, fuori della cultura ufficiale; il sacerdozio, detentore delle conoscenze che preannunciavano e indicavano il luogo della nascita, non si muove nel momento della nuova rivelazione, il potere politico si agita e cerca di sopprimerla. E dobbiamo tornare alla grotta di Betlem per ripensare che le vie di Dio non sono le nostre. La grotta è la disarticolazione di quella fiducia che ci fa ritenere assolute le nostre culture e le nostre civiltà. Dalla grotta l’Inatteso, il Nuovo erompe improvvisamente, riempiendo il mondo di vita non immaginata né immaginabile per novità di forme e intensità di vigore trasformativo.

La Vergine L’immagine della vergine ricorre, nelle tradizioni di tutti i popoli, collegata con la grotta, dal cui interno scorre una sorgente dai poteri miracolosi. Basta per noi cattolici pensare alle non rare grotte che segnalano l’apparizione della Vergine, e alle acque sorgive salutari che sgorgano o dentro o nelle vicinanze. Anche questo segno ha preceduto la Rivelazione cristiana e nel momento in cui si compie ve lo troviamo in una forma che raccoglie tutte le prefigurazioni e le esprime in una maniera insuperabile. La Vergine è la terra pura, incontaminata, non inquinata da germi umani, cosicché in essa e da essa la Vita può riprendere il suo intenso e fecondo corso. Come la grotta è l’archetipo di ogni rinnovamento dei cicli della vita umana che in essa ritrova il principio e un nuovo abbrivio, così la Vergine è quello della spoliazione totale di ogni pregiudizio, egoismo, di ogni opera dell’uomo per raggiungere una completa offerta nella purezza di un desiderio interamente devoluto allo Spirito. La Vergine è la terra intatta che diventa perfetta ricettività delle energie divine, e insieme attività trasformatrice e generatrice della Verità. Il significato della Vergine-Madre è nella sua qualità di «essere niente» - «Sia fatto di me secondo la tua parola» (Lc 1,38), dice la Vergine all’angelo -; il suo io non è separato, la sua azione non è affermazione di se stessa nella conquista, ma offerta e abbandono di sé al volere divino.

Il Fanciullo Nella grotta incontriamo la Vergine-Madre e il Fanciullo adagiato nella «mangiatoia». La mangiatoia di cui parla l’evangelista Luca non è la greppia delle nostre stalle, ma la cesta che serviva ai pastori per portarsi dietro il cibo per le lunghe soste nei pascoli. La Vergine-Madre depose il Figlio nella sporta per il cibo dei pastori, e anche questo è un «segno» di riconoscimento del nuovo uomo, la cui novità si rivelerà nell’essere pane e vino per la fame e la sete dei cuori umili, dei pastori.


Nell’umile e necessaria sporta degli alimenti troviamo un Fanciullo fragile e indifeso. Egli rappresenta l’annullamento di tutte le immagini, di tutti i nomi con i quali l’uomo, potente e assetato di potenza, aveva rivestito il mistero di Dio. L’Onnipotente diventa impotente, Fanciullo indifeso e bisognoso del tepore di un senso di Donna, di una culla; il Tremendo diventa dolcissimo; il Condottiero di eserciti, un Fanciullo fragile, attorniato di luce e di canti che invitano alla pace. Così la grotta, la Vergine-Madre, il Fanciullo sono i simboli dell’annullamento di quanto l’uomo ha tentato di costruire negando la semplicità e la sanità della vita. La grotta, la Vergine-Madre, il Fanciullo sono il rovesciamento dei templi, dei riti, delle ideologie che nascono dall’affermazione di sé e dall’avidità. In questa grotta vogliamo entrare anche noi per riconoscere il Fanciullo e la vergine che vi si rivelano. Nella grotta non ci sono soltanto dei complessi di distruzione e di libidine, di crudeltà e di paura, ma anche un complesso divino, un complesso immacolato e verginale. Complesso questo più forte dell’istinto di conservazione, superiore alla sessualità: per esso l’uomo rinnega se stesso, rinuncia alla carne e al sangue perché in lui Cristo divenga carne.


NON TEMETE CHI UCCIDE IL CORPO Giovanni Vannucci, «Non temete chi uccide il corpo», 12a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 121-122.

La parola di Cristo scende nei profondi recessi dell’anima umana, e vi compie la trasformazione dell’uomo, la carne riceve la parola e la parola fa fiorire la carne. Ogni cellula della carne vibra di nuova vita, appare l’uomo nuovo e in lui tutto è annuncio. I due momenti sono essenziali: ascoltare nel silenzio, nell’oscurità del proprio essere la parola; quando nell’uomo tutto si dischiude alla vita della parola allora, e solo allora, può annunciare all’aperto quello che nell’oscura trasformazione del suo essere è stato compiuto dalla parola. Ogni discepolo è chiamato a vivere il mistero dell’incarnazione della parola, non a gustare lo zucchero ma a divenire lui stesso zucchero. Se questo non è compiuto, il suo annuncio viene inquinato dalle parti irredente del suo essere. Fintantoché la Parola incarnata non ha posto radici in tutto il nostro essere, l’annuncio della parola evangelica è inquinato. Chi ha sperimentato la Parola, e ad essa si è offerto totalmente, può parlarne «sui tetti e sulle piazze», perché allora diviene tutto Parola. Nessuno può parlare dell’elefante se non l’ha ancora visto, si riferirà sempre a ciò che ha letto, a ciò che gli è stato riferito da altri. La Parola evangelica è via, verità, vita. Via che va percorsa, verità che va scoperta, vita che, se non è vissuta, diventa una dannosa verbosità. Pronunciare delle parole sulla Parola senza la corrispondente esperienza, riunire intellettualmente delle parole non vissute, deforma e inquina l’annuncio. Gli Evangeli suggeriscono continuamente di sperimentare la Parola. «Sperimentate la Parola, non limitatevi ad ascoltarla, ingannandovi con falsi ragionamenti» (Gv 1,22). «Chi ascolta le mie parole e non le sperimenta nella pratica sarà come un insensato che costruisce la sua casa sulla sabbia» (Mt 7,26). Il peccato di Pietro fu l’aderire rapidamente al senso letterale delle parole del Maestro e il diffondersi in parole che non nascevano dall’esperienza; pecca quindi contro la Parola. Quando cammina sulle acque (Mt 14,18), quando riprende il Signore (Mt 16,22 e 8,32), alla lavanda dei piedi (Gv 13,6), parla prima di avere sperimentato la Parola. Nel triplice rinnegamento non pecca tanto per essersi eclissato, ma per le parole: «Io non sono del gruppo dei discepoli» (Mc 14,71); Pietro si è lasciato trascinare dalle parole, pecca pronunciando delle parole che non nascono dal profondo silenzio dell’esperienza. Forse anche l’annuncio odierno della Parola è lontano dalla terra del vissuto e si dissolve in una fumosità di parole. Il discepolo che diviene tutto Parola, si troverà in un mondo che lo beffeggia, lo emargina, lo uccide. «Non temete quelli che uccidono il corpo, temete colui che può far perire e l’anima e il corpo nella geenna» (Mt 10,28). Chi può far perire l’anima se non la tendenza alla superficialità e alla verbosità che ci caratterizzano come uomini? Nel Canone della Messa diciamo: per Cristo, con Cristo, in Cristo. Per Cristo è finalizzare


la nostra vita alla Parola incarnata, ma non basta, un ulteriore passo ci è richiesto: sperimentare la Parola come unica compagna della nostra vita; anche questo non ci è sufficiente, dobbiamo vivere, fonderci nella Parola, divenire una sola cosa con Lei. Allora non ne gusteremo più il sapore, saremo anche noi la dolcezza della Parola. L’annunciatore sarà allora come il Maestro, perfetto come il Padre che è nei cieli. Vivrà l’amore pieno e libero che ama non perché è amato, perché l’amore è la stessa natura di Dio. Chi ama secondo la carne e il sangue, non fa nulla di diverso dal bruto, la cavalla ama il suo puledro, la cagna il suo cucciolo; chi ama nella completa trasformazione del suo essere, ama come il Padre stesso sa amare.


ESSERE CREATURE NUOVE Giovanni Vannucci, omelia pronunciata domenica 29 maggio 1977, Festività di Pentecoste, Anno C, durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 18, nell’eremo di San Pietro alle Stinche - Greve in Chianti - FI. Registrata su nastro magnetico e trascritta da Consalvo Fontani. Pubblicata in Ogni uomo è una zolla di terra, Borla editore, Roma, 1999. «Essere creature nuove» pag. 186-191.

Ricordiamo oggi l’evento della Pentecoste, della discesa dello Spirito santo sugli apostoli riuniti nel cenacolo a Gerusalemme. Dobbiamo riflettere su alcuni punti che mi sembrano importanti ed essenziali di questo evento. Prima di tutto dobbiamo domandarci: cosa è avvenuto negli apostoli? Prima del giorno della discesa dello Spirito santo vediamo gli apostoli con delle caratteristiche prettamente umane, li vediamo entusiasti e pavidi, pronti a seguire Cristo e pronti a tradirlo; anche dopo la sua risurrezione li vediamo chiusi nel cenacolo per paura, non ancora aperti a quell’evento che si era compiuto in Cristo e non ancora pronti ad annunciarlo a tutte le genti. Dopo la Pentecoste sono totalmente trasformati. Hanno la certezza che il Cristo, col quale hanno vissuto e col quale hanno avuto una consuetudine di amicizia e di discepolato, è la nuova immagine di Dio che è apparsa sulla terra. E allora non paventano più né le autorità religiose del loro popolo, né le autorità civili, non paventano più i sacrifici, non hanno più timore delle persone e questi pescatori indotti vengono lanciati ad annunciare la nuova verità che si era manifestata in Cristo. Come mai questa trasformazione? Io penso sia stata una violenza che hanno subìto da Dio: la loro mente pavida e incerta è divenuta solida, sicura, non fanatica, ma sicura di quello che annunciavano. Il loro coraggio diventa intenso e forte, senza tentennamenti, e infatti vediamo che poi, nel corso del tempo, operano con coraggio, con una dedizione che non ci saremmo aspettata da questi uomini. E sanno affrontare serenamente la morte. Poi in loro avviene anche un altro cambiamento: da uomini singoli legati a una razza, a un paese, a una cultura, diventano uomini universali. La loro lingua è compresa da tutti: c’erano degli arabi, dei romani, dei greci, degli ebrei di diverse provenienze, quindi di diverse lingue, e quando gli apostoli parlano tutti li comprendono. È il miracolo della trasformazione dell’uomo interiore che è stato compiuto, come ho detto, con un atto di violenza da Dio. E quando gli apostoli presenti nel cenacolo parlano, hanno la certezza che Cristo è la nuova rivelazione di Dio e lo comunicano senza trepidazione, senza incertezze, senza lotta, senza sofferenza. Se voi confrontate le lettere di Paolo con le lettere di Pietro, di Giacomo o di Giovanni, troverete questa differenza: le lettere dei tre apostoli che hanno vissuto la trasformazione operata dallo Spirito santo nel cenacolo, non contengono dubbi. Sono affermazioni impersonali di certezze che vivono nella coscienza di uomini. Leggete invece le lettere di Paolo. Ci troverete una lotta, un dramma continuo, dello spirito di Paolo col mistero divino. E si può seguire, attraverso l’epistolario di Paolo, una


progressiva trasformazione e ascesa dello spirito di quest’uomo verso il mistero divino. Il timbro personale delle lettere di Paolo è molto pesante e, alle volte, dà noia. Nelle altre lettere, invece, non c’è timbro personale. Leggete il vangelo di Giovanni e vedrete: la figura di Giovanni scompare di fronte alle parole che annunzia. C’è una saggezza che ha invaso la mente di questi uomini e che si comunica direttamente, tramite la loro mente, la loro parola, i loro scritti, ma indipendentemente dalla loro personalità, a differenza, invece, delle lettere di Paolo. Potete fare questo confronto che, oltre a farvi leggere una parte notevole del Nuovo Testamento, vi aiuterà a comprendere il miracolo che si è compiuto il giorno della Pentecoste: Iddio si è quasi sostituito all’io personale di questi uomini, e quando essi parlavano, non parlavano in nome di un loro pensiero, del risultato di una serie di loro pensieri, ma annunciavano una conoscenza che in loro era discesa dall’alto. E poi c’è un altro aspetto che mi sembra importante e che noi cattolici dobbiamo recuperare per amore della nostra Chiesa: lo Spirito santo discende sugli apostoli non come un grosso globo di fuoco, una massa luminosa che tutti investe, ma discende come tante fiammelle, sul capo di Pietro, della Vergine, di Giovanni e degli altri apostoli, come tante fiammelle. Ciò significa che il dono dello Spirito concesso a ciascuno è proporzionato alla capacità recettiva di ciascuno, è rispettoso della personalità di ciascuno. Chi possiede, nella Chiesa, lo Spirito santo? Tutti noi, dal Papa fino all’ultimo dei fedeli. E ognuno ha una porzione dello Spirito santo. Lo spirito di massificazione distrugge la Chiesa e se questo è avvenuto nel corso dei secoli per necessità storiche, debolezze umane, lo dobbiamo riuscire a superare, perché in me c’è lo Spirito e in ciascuno di voi c’è lo Spirito, in ogni uomo che crede in Cristo c’è lo Spirito, e questo Spirito è commisurato alla personalità di ciascuno. Noi, non come gli apostoli ma come san Paolo, dobbiamo faticosamente conquistare questo Spirito attraverso il dominio di tutta la nostra realtà umana, dal corpo al sentimento, all’intelligenza, all’immaginazione, al nostro io. Quando saremo riusciti a conquistare la nostra personalità, a un certo momento ci dovremo scrollare di dosso il nostro io personale perché in noi discenda lo Spirito. Ma lo Spirito discenderà in noi secondo la misura della nostra personalità e non altererà la nostra personalità. Allora il mio pensiero diventa il pensiero di Dio, il pensiero dello Spirito, il mio sentimento è il sentimento dello Spirito, il mio amore è l’amore dello Spirito e il mio corpo porterà inevitabilmente quella luminosità che vive nell’interno del mio essere. Io sarò riordinato nello Spirito. Non sarò l’unico possessore dello Spirito, anche se l’ho conquistato faticosamente attraverso una dedizione, una ascesi, un continuo controllo di me stesso. Non sarò l’unico possessore dello Spirito nella Chiesa, ma tutti coloro che riescono ad ascendere sono i portatori dello Spirito. E allora i nostri rapporti tra cristiani non sono i rapporti che sono necessari in un esercito che ha un compito di conquista o di difesa, un compito che deve essere ben ordinato e deve poi ascendere e


rimontare al generale in capo. Tra noi cristiani i rapporti sono differenti: ognuno deve venerare i doni dello Spirito che sono nell’altro, il Papa deve venerare i doni dello Spirito che sono in me, che sono in ciascuno di voi. Allora i nostri rapporti non devono essere rapporti di autorità, di violenza, ma devono essere rapporti di profondo rispetto, perché la Chiesa non è una società autoritaria, ma è una società chiamata ad annunciare un mistero che trascende tutte le visioni e le possibili realizzazioni immaginate dall’uomo. Siamo tutti annunciatori dello Spirito e lo Spirito lo annunciamo in una maniera sempre più perfetta e viva conformemente alla nostra ascesa nel mistero dello Spirito. E allora si ha la Chiesa, perché la Chiesa è una cattedrale ben composta, non è una massa di pietrame, e nella cattedrale ogni pietra è al suo posto. San Pietro ci dice: voi siete le pietre viventi del tempio di Dio. Ecco, di questo dobbiamo riprendere coscienza, non per contestazione o per ribellione ma perché la nostra Chiesa deve costruirsi su questi rapporti di rispetto profondo, di attenzione profonda agli altri. Infatti, quando la nostra Chiesa si è chiusa nell’autoritarismo, cos’è avvenuto? Noi ci siamo chiusi anche nei nostri piccoli particolarismi: la Chiesa latina, la Chiesa inglese, la Chiesa germanica, la Chiesa greca, la Chiesa copta, la Chiesa russa. Ci siamo chiusi. Ma lo Spirito invece universalizza e l’universalizzazione significa che io, italiano, devo rispettare l’io russo, devo rispettare l’indiano, l’egiziano, l’arabo, perché anche in loro c’è lo Spirito e anche loro ascendono verso la pienezza della verità dello Spirito. Allora il nostro linguaggio diventerà un linguaggio universale: io parlerò italiano, però il russo sentirà che in me c’è uno sguardo, c’è un amore, c’è un’attenzione, c’è una partecipazione al suo modo differente di essere che non lo respinge, ma lo abbraccia, perché insieme al russo, insieme all’americano, io devo costruire questo nuovo tempio per il corpo vivente dello Spirito. Sono alcuni pensieri che vi ho comunicato in questo grande giorno della Pentecoste ed è questo evento sopra il quale noi dobbiamo continuamente ritornare per poter comprendere la nostra funzione, la nostra missione dentro la Chiesa, che è personale prima di tutto, cioè io devo raggiungere lo Spirito e devo vivere nello Spirito. Una volta trasformato dallo Spirito, la mia azione poi diventa collettiva, di rapporto con gli altri, ma se io rimango chiuso nei miei particolarismi, nel mio io egoistico, posso ben pensare di essere un membro della Chiesa, ma non sono un membro vivo della Chiesa, non sono una pietra vivente, sono un sasso che ancora aspetta la mano del costruttore perché lo collochi nel suo posto preciso. E il costruttore non mi prenderà mai fin tanto che io non dirò: sono pronto. Ecco, dobbiamo prepararci a questa disponibilità totale nelle mani dello Spirito per poter diventare il grande tempio, che non è costruito da mano d’uomo, e che Dio costruisce nello svolgimento dei secoli, nell’umanità, lentamente e pazientemente, attraverso tutti gli individui che rispondono al suo appello di grazia e di vita. Allora la Chiesa diventa una Chiesa vivente, dove ci sono scambi di vita e scambi d’amore, dove l’egoismo cessa di separare, di dividere gli uomini e dove regna un solo soffio, un solo respiro, dove la respirazione dell’uno è la respirazione dell’altro, dove uno respira lo


stesso soffio divino e dove tutti respirano lo stesso soffio divino e in tutti c’è una circolazione animata da uno spirito che viene dallo Spirito santo. Allora tutti saremo delle creature nuove e la nostra Chiesa sarà una creatura nuova. Cerchiamo di raggiungere pazientemente il vertice dello Spirito e, se vogliamo sapere se siamo persone dello Spirito, guardiamo, confrontiamoci con l’umanità. Se siamo divisi dagli altri, noi ancora non viviamo lo Spirito. Se io sono diviso dall’altro per un’idea religiosa, non partecipo allo Spirito. Se io sono diviso dagli altri per una mia idea politica, non partecipo allo Spirito. Se io sono diviso dagli altri perché ho dei possedimenti, ho delle ricchezze, ho qualcosa che mi fa sentire potente in mezzo agli altri, io non partecipo allo Spirito. E la demolizione di tutte queste pareti che ci separano dagli altri deve compiersi personalmente. Avremo una Chiesa nuova e un’umanità nuova, quando lo Spirito sarà il legame profondo che unisce tutte noi creature alla sorgente dalla quale lo Spirito discende, che è la sorgente divina.


LA COMUNICAZIONE DELLO SPIRITO Giovanni Vannucci, «La comunicazione dello Spirito», Domenica di Pentecoste, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 83-86.

Due sono i temi di riflessione del breve testo giovanneo (Gv 20,19-23) sulla Pentecoste: l’elezione dei discepoli a essere degli inviati; la natura del loro mandato: respirare col nuovo Spirito comunicato da Cristo, trasmetterlo come la manifestazione della misericordia divina che perdona il peccato dell’uomo. L’annuncio dei discepoli è essenzialmente una comunicazione di un fuoco nascosto, ma realmente divoratore. Fuoco che da Cristo è chiamato lo Spirito Santo. Allo Spirito Santo Cristo sempre si riferisce quando, prospettando le cose future, fa di esse l’oggetto più prezioso delle sue promesse: «Se mi amate, sarete resi fecondi dalle mie parole; il Padre, ascoltando la mia preghiera, vi darà un Consolatore che rimarrà sempre con voi... Vi insegnerà tutto richiamando alla vostra memoria quanto vi ho detto» (Gv 16). Altrove accenna alla rinascita dallo Spirito (Gv 3,5), condizione necessaria per entrare nel regno di Dio. Alitando sui discepoli Gesù ripeté il gesto divino della Creazione del primo Adamo: «Il Signore Iddio formò l’uomo dalla polvere della terra e alitò nelle sue narici un soffio vitale, e l’uomo divenne un’anima vivente» (Gen 2,7). Comunicando ai discepoli lo Spirito Santo, il nuovo respiro, li rendeva uomini della coscienza nuova che con lui era nata. Un nuovo sangue nasceva in loro, una nuova mente, un nuovo cuore. È indubbio che l’insufflazione dello Spirito, da parte di Cristo, produsse una sostanziale mutazione nel loro intimo: da uomini divennero l’Uomo; da esseri separati divennero esseri in comunione; da egoisti si aprirono a un amore nuovo. Lo Spirito Santo chi è, dove lo troviamo, come identificarlo? L’evangelista Giovanni lo designa col nome di Consolatore, per il fatto che una sua prima illuminazione alla mente rivela l’inutilità di tutte le cose transitorie alle quali l’uomo si afferra per errore e, convincendolo a distaccarsene volontariamente, lo conduce su un’altissima balza ove gli mostra non le ricchezze della terra, ma le conquiste della mente e l’inizia al segreto della contemplazione in cui solamente e veramente l’anima si acquieta. La pietà cristiana lo chiama il Settemplice, il donatore dei sette doni, dei sette modi di essere della mente spirituale che non nascono dalla carne e dal sangue, ma dalla diretta comunicazione dell’essenzialità divina.


Essenzialmente lo Spirito Santo è l’Amore, è l’Eros del mondo. Nella creazione l’Amore costituisce una necessità, la ragione stessa della creazione e il tramite per cui la creazione si effettua. L’Amore è il modo d’essere dello Spirito per identificare se stesso fuori di sé. L’Amore è la realtà dell’immensa libertà dell’essere e, infine, è l’unico sostanziale modo di essere della mente dell’uomo. Così che possiamo affermare che dove non è amore non vi è mente, dove è mente ivi è sempre amore. La natura dello Spirito Santo è amore, lo spazio in cui possiamo collocarlo è la mente umana. Attraverso l’amore, l’uomo giunge alla conoscenza; attraverso la conoscenza egli identifica l’Amore, quindi lo Spirito Santo è intelletto. Attraverso l’intelletto, la mente dell’uomo giunge a individuare i massimi segreti dello Spirito, per cui lo Spirito Santo è Sapienza. La Sapienza insegna all’uomo la necessità del distacco da tutto ciò che non è immutabile ed eterno; ecco, quindi lo Spirito Santo è semplicità e purezza. La comunicazione dello Spirito Santo conduce i discepoli a scoprire in se stessi lo Spirito, la divina scintilla, il respiro divino dato al primo Adamo e rinnovato in loro da Cristo. Divina scintilla, latente in ogni uomo che viene all’esistenza, che si risveglia al contatto degli inviati rinnovati dal soffio creatore di Cristo. I primi discepoli al contatto del nuovo respiro divennero uomini nuovi. E questa la novità portata da Cristo sulla terra: la comunicazione di quella essenzialità spirituale cui tutti gli uomini possono e debbono accedere. La pratica delle nobili qualità della mente umana, lo sforzo per elevarsi, il rinnegamento di ogni vincolo terrestre in vista dei vincoli celesti, di tutto ciò che separa l’uomo dalla bestialità e lo spinge verso l’accoglienza dello Spirito, sono plasmazione, formazione, rinascita per opera dello Spirito Santo. Gli uomini vengono dalla materia, dal fango della terra, ma plasmati da Cristo possono ricevere quello Spirito immortale che è peculiarità del Padre, che è atto, più che di adozione, di riconoscimento che Dio fa di se stesso nella sua creatura. L’uomo, nella novità di Cristo, si rinnova di continuo come sotto l’azione di un infuocato battesimo. La trasformazione interiore dei discepoli li rende atti a portare il grande annuncio della remissione dei peccati. Cristo comunica loro il mandato con due frasi: «Saranno rimessi i peccati a coloro cui li rimetterete; non saranno rimessi a coloro cui non li rimetterete». La nostra mentalità giuridica ci ha portato a intendere queste parole negli schemi del linguaggio della giurisprudenza romana. Domandiamoci se lo Spirito Santo, insufflato da Gesù Cristo sui suoi discepoli, è l’Amore limitato che discrimina i degni e gli indegni, i giusti e i peccatori, oppure è l’Amore assoluto che feconda senza distinzione i campi dei figli dell’uomo? Nella prima accezione, le parole di Cristo conferiscono ai discepoli un potere di giudizio; nella seconda invece indicano insieme e una grandezza di anima sempre pronta a rimettere l’errore e il peccato, e un avvertimento che, qualora tale grandezza non venga raggiunta, il peccato rimarrà insoluto. Potremmo tentare questa


traduzione: «Vivendo uniti dallo Spirito Santo con l’Amore illimitato del Padre, attraverserete l’esistenza diffondendo onde di amore e di riconciliazione; se non assurgerete alla grandezza dello Spirito Santo, e voi e chi avvicinerete rimarrete legati al peccato». Lo Spirito Santo è Amore; l’Amore che non si esprime nel perdono, nella pietà, nella misericordia, non è amore. L’Amore senza parzialità, separatività, inimicizia, è l’Amore perfetto, l’espressione più perfetta dello Spirito Santo, e insieme la più elevata esplicazione della mente umana; essa è infatti lo spazio dello Spirito Santo. La mente umana può amare tutti i tre regni della natura e immergersi, sino all’oblio di sé, nel quarto regno che è l’umano. I doni dello Spirito Santo raggiungono la loro perfetta manifestazione nella capacità che la mente umana possiede di scoprire sempre più oggetti di amore, d’intuire sempre meglio le ragioni del cammino ascensionale della coscienza, fino a raggiungere quello stato di ebbrezza spirituale che scopre in modo misterioso la fratellanza di tutte le cose e di tutti gli esseri. In questo stato di ebbrezza, la mente fecondata dallo Spirito Santo perviene a comprendere l’eternità del proprio essere in Dio e in tutte le cose che Egli ha creato. A questo punto sarà sorgente di pacificazione e non di giudizio.



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