Testi di
padre Giovanni
Vannucci
vol. 3 di 6
IL RISVEGLIO Giovanni Vannucci, «Il risveglio» 01a domenica di Avvento - Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984. Pag. 15-17
L’Avvento, tempo qualitativo di preparazione alla nascita in noi della Parola Eterna, si apre con le parole gravi e ammonitrici di Cristo: il diluvio era imminente, mille segni lo preannunciavano, gli uomini continuavano a vivere la loro distratta esistenza, solo Noè e i suoi figli furono attenti e si salvarono. Siate svegli, il Figlio dell’Uomo verrà inaspettatamente, salverà chi ha gli occhi aperti ai segni che lo annunceranno (Mt 24, 44). Siate svegli! è la ricorrente parola della predicazione di Cristo. Da quale sonno dobbiamo svegliarci? Vari sono i generi di sonno, e vari i modi del risveglio. Vi è il sonno corporeo che conclude una giornata laboriosa e, nel riposo, ristora le forze necessario alla continuazione della vita. Vi è il sonno dell’abulia, dell’inerzia di chi si lascia vivere trascinato dalla corrente della vita come una pagliuzza. Vi è l’assopimento che accompagna la crisi che deciderà l’esito di una malattia grave. Ognuno di essi è seguito da un correlativo risveglio, ma non ad essi allude il comando di Cristo: Siate svegli! Egli addita un sonno sottile in cui può essere immerso l’uomo più attivo e operoso, il sonno della mente e del cuore, il sonno in cui viene a trovarsi la maggioranza delle coscienze umane, che impedisce la chiara presa di coscienza del destino eterno e divino di ognuno, e che assopisce ogni nobile anelito all’ascesa e all’elevazione. Siate svegli! nell’esperienza cristiana vuol dire: aprite gli occhi alla qualità divino-umana apparsa nell’archetipo dell’uomo, nel Figlio dell’Uomo: Gesù Cristo; aprendo gli occhi, incamminatevi decisamente a raggiungere la sua statura. Gesù Cristo, unione sostanziale della natura eterna del Divino e della peribile natura del mortale, non si differenzia né da Dio né dall’uomo, ma è insieme uomo e Dio, Dio e uomo. «Chi vede me vede il Padre, chi accoglie voi accoglie me, chi accoglie me accoglie Colui che mi ha inviato». Nella persona di Cristo immanenza e trascendenza, materia e Spirito, Dio e uomo sono posti sullo stesso piano, e questa identità degli opposti, se vissuta dall’umana coscienza, conduce al miracolo della redenzione per cui l’innocente espia per il peccatore e lo Spirito purissimo agonizza nella materia. Questa realtà ci sgomenta, lo sgomento ci fa ripiegare nel sonno. Nel sonno, come i contemporanei di Noè, non ci è dato di vedere quello che i risvegliati scorgono: «Due saranno nel campo, uno verrà assorbito dalla veniente luce, l’altro rimarrà preso dalle divagazioni dell’esistenza intorpidita. Due donne staranno
macinando il grano alla mola, una sarà assorbita dalla nuova manifestazione di Dio, l’altra continuerà a ripetere lo stesso sfibrante movimento» (Mt 24, 40-41). I non svegli rimarranno chiusi nell’indifferenza della tiepidezza, immersi in un sonno rassicurante, la loro anima non reagisce più al bene e al male e spegne in sé la scintilla divina della sua essenza personale. Il non risvegliato da questo sonno non si interessa che di se stesso; moderatamente canaglia e moderatamente buon uomo è pronto a fare il bene o il male purché non costi fatica, purché non sia rischioso. Con i paraocchi di una morale retriva e arida va per la sua strada nulla vedendo, nulla volendo vedere che non sia d’immediata utilità. I non svegli appartengono a tutte le classi, ai ricchi e ai poveri, ai borghesi e ai proletari, ai religiosi e agli atei. Nel loro quieto sonno hanno paura della vita e della morte, non vivono e non muoiono. Il risveglio alla realtà divina e umana di Cristo fa incamminare la coscienza verso il raggiungimento della pienezza della personalità dei singoli, in maniera tale che il risvegliato non può sottrarsi a ciò che costituisce la ragione della sua presenza nella creazione, cioè il compito ascensionale, evolutivo. Il risvegliato comprende di essere sulla terra solo di passaggio, e di esservi chiamato a misurare le sue forze e a esservi giudicato, ma da questa misurazione, da questo passaggio dipende tutto per lui, per il suo autentico Io, per il suo spirito. Per questo deve tendersi come arco nell’ascesa, per scagliare la freccia del suo vero essere più in alto che può, perché dove la freccia giunge ivi rimane. Il risveglio provocato dalla realtà di Cristo costituisce il passaggio difficile, la porta stretta, la cui traversata richiede la presa di coscienza del proprio torpore, della tiepidezza in cui sono immerse le energie ascensionali dell’uomo, dell’innocenza anteriore, e del destino di pienezza vitale, di fruttificazione delle proprie nobili qualità, dell’innocenza ulteriore. La coscienza risvegliata comprende che è chiamata a vincere tutti i possibili stati di sonno, a raggiungere il compimento di tutte le più alte speranze dell’uomo, a slanciarsi con eroico impegno alla conquista della realtà dei figli di Dio. Gesù dice: «Io sono la luce», e «Io ho vinto il mondo»: la coscienza risvegliata vince il mondo per diventare la luce. Allora entra nell’Arca di Noè, risponde alla chiamata divina, abbandona le volontà sbagliate per muoversi in conformità alla volontà divina, che è volontà di luce. Il passaggio dal sonno al risveglio, dalla nascita terrena a quella celeste, da figlio della terra a figlio di Dio, richiede una dura e austera lotta. Essa cristianamente consiste non nel rifiuto orgoglioso del mondo e delle passioni, ma nella risposta a Colui che invita a una totale intensità di vita, risposta che esige l’affrontamento dei rischi, delle prove, per trasmutarle in principio di ascensione. Il risvegliato deve combattere le sue battaglie, le grandi e le piccole, fino al giorno in cui la pace della pienezza di vita raggiunta regnerà nel suo cuore di vincitore «Al vincitore farò prendere il posto vicino a me sul mio trono, come Io sono vicino al Padre, sul trono» (Ap 3, 21).
IL SACRAMENTO QUARESIMALE Giovanni Vannucci, «Il Sacramento Quaresimale», in 01a domenica di Quaresima, Anno B; in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 4248.
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto ed egli vi rimase quaranta giorni, tentato da satana; stava con le fiere e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo” Marco 1,12-15 Il tempo del Sacramento quaresimale (Il termine “Sacramento quaresimale” è proprio di Vannucci, che usa qui il termine “sacramento” in senso lato. [ndr] ) abbraccia la successione di quaranta giorni a partire dal Mercoledì delle Ceneri fino alla domenica delle Palme. In questo periodo la liturgia è dominata da alcuni temi fondamentali, cui accennerò brevemente in questa riflessione: il numero quaranta, le ceneri, il deserto, il diavolo tentatore. Il numero quaranta II numero quaranta è, nel linguaggio religioso, un numero simbolico: sottolinea la fase critica che precede una trasformazione, il passo avanti nello sviluppo della coscienza, il compimento di un ciclo e il suo passaggio a un ordine differente di pensiero, di azione e di vita. L’alleanza tra Dio e Noè avvenne il quarantesimo giorno del diluvio (Gen 7). Mosè viene chiamato a iniziare la sua missione nel quarantesimo anno della sua vita (At 7, 30). Sempre Mosè dimora quaranta giorni sul Sinai prima di ricevere il Decalogo, e il popolo d’Israele erra quarant’anni nel deserto (Nm 13). Il Buddha e Maometto iniziarono la loro predicazione nel quarantesimo anno della loro età. Quaranta giorni dopo la nascita. Gesù vien condotto al tempio; vince il tentatore dopo aver dimorato quaranta giorni nel deserto (Mt 4). La sua predicazione dura quaranta mesi; la sua risurrezione avviene dopo quaranta ore di permanenza nel sepolcro e appare ai discepoli per lo spazio di quaranta giorni (At 1). I quaranta giorni della Quaresima ci sono offerti come un tempo favorevole, un tempo che ci toglie dalla banalità inserendoci nel tempo dell’anima che dà sapore e
senso al nostro quotidiano vivere. È un tempo di grazia e di ripresa cristiana della nostra personale esistenza. Viviamo il Sacramento quaresimale con intensità di partecipazione al dono che ci è offerto e alla responsabilità che ne segue.
Le Ceneri II Mercoledì delle Ceneri segna l’inizio del Sacramento quaresimale. Sulla testa di ogni fedele viene cosparsa la cenere e ripetuta la formula: «Ricordati che sei polvere e alla polvere ritornerai» (Ora la formula usata dalla liturgia è cambiata ed è: “Convertitevi e credete al Vangelo”[nd ). Gesto misterioso e formula altrettanto enigmatica. La cenere di cui veniamo cosparsi è ricavata dai rami dell’ulivo, benedetti il giorno delle Palme dell’anno precedente. L’ulivo che fu il testimone dell’estremo patire di Cristo nell’orto del Getsemani; l’albero che cresce dolorante nella pietraia, che dona un frutto meraviglioso che è nutrimento, medicina, alimento della luce. L’ulivo è il perfetto simbolo di Cristo, il cui patire è sorgente di luce, di alimento, di salvezza. La cenere è il prodotto del fuoco applicato ai rami dell’ulivo. Il fuoco li brucia, e lascia nella cenere la quintessenza dell’ulivo. In alcune culture, la cenere di certe piante indispensabili all’alimentazione veniva mescolata ai corrispettivi semi e gettata insieme nel solco, per ottenere un prodotto qualitativamente migliore. La cenere di ulivo che viene posta sulla fronte dei fedeli non è segno di cordoglio, ma è la rianimazione, attraverso il rito, della nostra vita con la quintessenza dell’ulivo-Cristo. È un gesto tendente a renderci più vivamente partecipi delle forze redentive di Cristo. La formula: «Ricordati che sei polvere e alla polvere ritornerai» va intesa in stretta relazione col gesto che l’accompagna e che comunica l’essenza dell’ulivo-Cristo e che dona nuova fecondità al fedele che coscientemente di Lui si insapora. Essa potrebbe venire così tradotta: « Ricordati che sei un’essenza spirituale e in Cristo devi risorgere in una realtà spirituale ». In Cristo siamo polvere destinata a divenire luce, se ne accogliamo le forze fecondatrici in un gesto di perfetto abbandono, come la zolla che riceve gli elementi atti a renderla fertile. La Chiesa, all’inizio del Sacramento quaresimale, ci cosparge con le ceneri dell’ulivo-Cristo per renderci coscienti del mistero della trasmutazione che accompagna il nostro quotidiano incontro con il Salvatore.
Il «deserto» II «deserto», come luogo dove lo Spirito conduce Cristo perché sia tentato dal Diavolo, costituisce l’ambiente del periodo quaresimale. Il «deserto» non è uno spazio geografico, ma una situazione concreta in cui l’uomo viene continuamente a trovarsi.
Nella religiosità biblica il «deserto» è il luogo prescelto da Dio per provare la fedeltà e la vigoria della fede dei suoi eletti che, superata la tentazione, raggiungono la statura dell’uomo vero. Nell’esperienza religiosa universale, il «deserto» è il passaggio obbligato di chiunque voglia rispondere alle sue più profonde aspirazioni umane verso la liberazione nell’Assoluto divino. Esso è contrassegnato dalla spogliazione di quanto è superfluo nella ricerca della pienezza della vita, ed è insieme la soglia di una vita differente, di un senso nuovo dell’esistenza. È l’esperienza di un’incolmabile assenza che rende inquieta ogni espressione di vita, e rende stabilmente «aperte» le coscienze verso un «oltre» e un «di più», ove le loro radicali aspirazioni trovino compimento e pacificazione. La vita è animata da un fuoco immanente che distrugge implacabilmente le forme esistenti per crearne delle nuove. Il bocciolo è mosso alla fioritura dal fuoco animatore che lo rende vitalmente teso dall’assenza del fiore. L’essere creato è costantemente condotto a un limite di consumazione e di superamento formale che, una volta raggiunto, crea una nuova forma che, a sua volta, viene spinta al suo logoramento per dischiudersi a una nuova conformazione. La vita è un processo alternato: da un segno positivo passa a uno negativo per riprendere su un piano di maggiore intensità il segno positivo. La vita è una successione ininterrotta di vita-morte-vita; un susseguirsi di oasi-deserto-oasi. L’anima umana è portata ad aderire tenacemente alla permanenza delle forme, a respingere la distruzione. Sente la dissoluzione come il male, ed essa è invece la pulsione dell’incolmabile assenza che prepara nuovi cicli di vita. Il «deserto» è il momento dell’orrore, della tentazione del Diavolo, della perdita di ogni certezza formale, il momento della rivelazione del non valore dell’esistenza, dei limiti effimeri dell’io esistenziale e della verità dell’io essenziale. È il momento della prova estrema, e insieme quello del risveglio alla voce dell’Essenziale, dell’Eterno che abolisce il tempo. Nello sfacelo di tutte le speranze, nella più deserta solitudine, l’uomo sperimenta le sottili insidie e le angosce dell’ horror vacui. Quando il cuore è saldo, dalla tenebra spunta la visione di una realtà differente, di una vita più vera: gli angeli scendono e donano il loro pane, la solitudine si popola, la tenebra si trasforma in luce. La vita di Cristo è esemplare dalla nascita alla totale spogliazione della Croce, come acccttazione eroica di tutte le separazioni per giungere all’estasi della consumazione del proprio «io» in Dio. Il suo mistero concerne tutti gli uomini, per essi il passaggio al divino è segnato dall’esperienza del «deserto», della spogliazione per raggiungere la vittoria dell’essenza sull’esistenza.
Il «deserto» è il momento del risveglio alla più completa fiducia in Dio, nella positività della vita, purché l’anima sia vigorosa e forte.
Il Diavolo Nel « deserto » Cristo e con lui noi uomini incontriamo il Diavolo. Etimologicamente significa quella potenza misteriosa che attraversa il cammino verso Dio. Nella tentazione del deserto l’anima umana viene posta davanti a un bivio: o aderire tenacemente alla permanenza delle forme rifiutandone la distruzione, o accettare quest’ultima per avanzare in nuovi orizzonti vitali. Il Diavolo è il missus dominicus che accompagna la nostra vita, per mettere alla prova la nostra volontà di andare sempre oltre le forme. Quando in esse ci chiudiamo, diveniamo i servi del Diavolo. L’opera del Diavolo è essenzialmente un’opera di vessazione, di disturbo. Le vie attraverso le quali compie la sua vessazione sono quelle mentali: la fantasia sbrigliata; l’immaginazione non sorretta da una profondità e rettitudine morale; la memoria tesa a rivangare o ad abbellire il passato; l’ansia del domani che è una forma assunta dall’immaginazione. Sottili e multiformi sono le sue vessazioni. Può presentarsi all’immaginazione con le vesti della bontà, della virtù, della giustizia. Uno che lavora accanitamente per accumulare denaro, si rassicura che lo fa per provvedere al domani, alla malattia, alla vecchiaia, e non pensa che è mosso dall’avarizia. Uno lotta per la giustizia, per i princìpi morali, convinto di lavorare per gli alti ideali umani, e non riflette che obbedisce al suo istinto di potere. Uno si sente impegnato a propagare la fede e non si accorge di lavorare per l’affermazione di se stesso o delle sue ideologie. Tutto ciò che lega l’uomo a un interesse terreno, distraendolo dal suo vero destino umano, è vessazione diabolica. Si potrebbe dire che il Diavolo è il risultato della malvagia volontà di tutte le cose, il risultato del non voler guardare con occhio sereno e libero l’ombra che accompagna ogni nostra intellezione e volontà di fare. Cristo ci esorta a essere svegli, con gli occhi ben aperti, a pregare per non cadere in tentazione, a non aver paura di chi può uccidere il corpo, a temere chi può distruggerci l’anima. Nei nostri tempi, la vessazione diabolica concerne più la vita sociale che la sfera del singolo, è un modo di vivere, è la società che vive il Diavolo. L’uomo è disturbato, ossessionato, distratto dalla preoccupazione dei beni terreni, dalla paura di perderli, dall’angoscia che non siano sufficienti. Un’altra azione sottile del Diavolo consiste nel convincere gli uomini che l’impermanente è permanente, che il tempo sia l’eternità. L’uomo così sedotto pensa che le forme siano perenni, che la sua personalità e le sue opere sfidino i secoli.
Mentre, per una mente non sedotta la permanenza è irreale, impermanente è la vita, impermanente è la morte, impermanente il pensiero, impermanenti i sentimenti. Prendendo coscienza di questa particolare vessazione del missus dominicus si evita di vegetare nelle forme costituite, si risveglia in noi la scintilla divina che ci ripete: sempre oltre, sempre oltre è la tua dimora. Il Diavolo dice: «Dimora tranquillo nel tuo guscio, riposa sereno nelle tue virtù». Gesù, il pellegrino senza dimore costruite da mano d’uomo, dice: «Io sono la vita in ogni morte, la morte in ogni vita». È necessario riconoscere il Diavolo come apportatore di menzogne nell’esistenza, nelle forme, nelle apparenze, in ciò che riteniamo necessario ed è invece inutile. Il Diavolo diventa così il missus dominicus, la pietra di paragone della vita: piccole anime, piccole tentazioni; grandi anime, grandi tentazioni. Senza le tentazioni l’uomo si addormenterebbe; tentato, è spronato ad andare avanti. La bontà, le qualità, i valori veri dell’umanità l’immensa comunione dei santi compongono il corpo fisico di Dio; le chiusure, le menzogne, le falsità costituiscono il corpo fisico del Diavolo. Nell’anima dell’uomo i due grandi avversari si fronteggiano, ma l’arbitro è l’uomo: e lui che deve scegliere a fianco di chi vuole schierarsi.
IL SALE E LA LUCE Giovanni Vannucci, «Il sale e la luce», 5° domenica del tempo ordinario, Anno A, in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 104-106.
«Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo» (Mt 5,13-14). Queste parole sono un elogio rivolto ai discepoli, o l’investitura di una grave responsabilità? Questi due vocaboli, sale e luce, sulle labbra di Gesù, hanno lo stesso significato che hanno per noi, oppure contengono un senso differente da quello che noi siamo consueti dare loro? Tenendo conto che il linguaggio di Cristo è metaforico e il nostro purtroppo privo di sfumature poetiche, non possiamo che concludere che i due termini hanno un contenuto differente, e il nostro lavoro ermeneutico bisogna che sia diretto alla ricerca dei significati perduti, perché ci rivelino quello che nel pensiero del Maestro vogliono comunicarci. Il sale è insieme un elemento di vita e un principio attivo di distruzione, secondo il grado di concentrazione con cui viene utilizzato. Ogni specie animale ha conservato nel suo sangue una specifica concentrazione salina, che si rapporta, a detta degli scienziati, a quella che esisteva nel mare al momento del suo distacco dall’elemento salino. Il sale è un supporto indispensabile alla vita vegetale e animale. Applicato in stato di saturazione diventa antifìsiologico, distruttore di germi microbici e di vita organica. Queste proprietà, che rendono il sale elemento necessario alla vita e insieme principio di distruzione, furono conosciute fin dalla più lontana antichità. Il significato del sale, prima che dai suoi effetti, fu colto nella sua misteriosa origine e nella sua figura cristallina. Esso affiora dall’acqua del mare per evaporazione, è una forma che si consolida per l’azione solare; è figlio dell’acqua e del fuoco, è il cristallo che si distacca dall’acqua amorfa e acquista la sua perfetta forma, non opponendo resistenza alle energie solari. Diventa per questo il simbolo dell’essere che emerge dal caos e assume una perfetta forma individuata. Il sale in questa prospettiva è divenuto il segno della forma che emerge dall’incontro dell’acqua e del sole; della mutazione che si compie ogni volta che il pensiero caotico si riordina nella saggezza; del cambiamento della coscienza umana quando incontra la Sapienza divina. Il cristallo di sale non ha una parte esterna
distinta da quella interna, ma ha tutto intero il sapore del sale; così il mistero divino non ha interno o esterno che si distinguano, ma è interamente composto di conoscenza. Nel simbolismo del Vecchio Testamento le vittime dovevano essere cosparse di sale, la cui funzione era quella di renderle pure (Lv 2, 13). Le acque inquinate venivano rese potabili con l’introduzione del sale (2 Re 2, 20-23). L’alleanza del sale è indistruttibile, essendo fondata sulla Verità (Nm 18,11). Consumare il pane e il sale con un ospite significava amicizia presso molti popoli antichi. Rovesciare il sale davanti all’ospite era segno di discordia. Leonardo nel Cenacolo ha dipinto la saliera rovesciata davanti a Giuda; spargerlo volontariamente come fece Scipione l’Emiliano sulle rovine di Cartagine o il Barbarossa sulle macerie delle città lombarde, indicava inimicizia implacabile.
Riteniamo il senso fondamentale del sale come segno di una forma che ascende dall’acqua nella luce del sole, elemento che si distacca dall’amorfo e si individua seguendo l’attrazione delle forze dell’alto, delle forze del sole. La vittima cosparsa di sale era esclusivamente ordinata a Dio, un’amicizia stabilita col sale era sigillata nella verità divina. Cos’è la luce? La luce, sorgente di vita per ogni creatura di questo mondo, sfugge ad ogni indagine e definizione. La luce, che è una presenza dolce, continua, necessaria, è nella sua ultima realtà invisibile; ciò che vediamo e chiamiamo luce sono i suoi effetti, le sue radiazioni. La luce, pur nella sua inconoscibilità, è l’intima ragione della vita e il nome stesso di Dio. Questo nome, che pronunciamo adorando, significa, nella sua etimologia sanscrita devàh, il cielo luminoso, il luminoso. Dio è luce, ma anche l’uomo è luce, per questo d’istinto la cerca e, trovatala, se ne inebria. Assurgendo l’uomo a divenire del tutto un centro animatore di luce, rivela la sua peculiarità e capacità di riflettere il punto luminoso che è fuori di lui stesso e che pure è in lui: Dio. Il sale è tale perché ascende dalla massa acquosa rispondendo al luminoso appello del sole; la luce riveste l’uomo quando risponde all’attrazione dell’infinita luce divina per vederla, rivestirsene ed esserne consumato. Sale e luce sono due simboli che descrivono l’essenzialità della vita del discepolo di Cristo. Rivelano il necessario distacco dalla massa amorfa delle acque, dalle tenebre in cui ordinariamente viviamo. Il sale è la forma che si individua separandosi dall’acqua e, sotto l’azione calda e luminosa del sole, raggiunge la sua armoniosa manifestazione. La luce è la dimensione divina dell’uomo, e viene raggiunta quando la coscienza umana, abbandonando le imprecise dimensioni della materia, entra in quelle precise dello Spirito. Ogni iniziazione culmina nel rito della luce, e la fiaccola accesa consegnata al bimbo che nasce e all’anziano che muore è l’umile simbolo di un eterno vero: ad ambedue viene affidata quella luce che venne loro consegnata nel mondo divino, la vita.
«Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo». Questa consegna di Cristo contiene l’indicazione della responsabilità di ogni cristiano; cerchiamo di capire. Dio ci ha fatto il dono della vita e non dell’esistenza, vita ed esistenza non sono la stessa cosa. L’esistenza sono i condizionamenti della società, dell’economia, della morale, delle ideologie: è la vita condizionata. Così possiamo parlare di due tipi di verità: quella dell’esistere e quella dell’essere. La verità dell’essere è emersione dall’indistinto e immersione nella luce, è sale e luce, per questo è asociale. La verità dell’esistere è sociale, un reciproco smussamento di angoli fra uomo e uomo. La mèta dell’essere è la realizzazione, in un piano di coscienza superiore, del rapporto con l’Essere assoluto, con la Luce infinita che altrimenti gli sfugge. In questo rapporto l’uomo si risveglia dallo stato ipnotico dell’esistere, recidendo i vincoli con il piano dell’esistenza.
I discepoli ricevono dal Maestro l’ordine formale di divenire luce, di essere una sola cosa con le solari energie divine, di raggiungere il supremo punto ontologico, di divenire lampada che illumina! Nello stesso senso Buddha disse ai suoi seguaci: «Siate lampade a voi stessi».
IL SIGNORE DEL TEMPO NUOVO Giovanni Vannucci, in La Vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985; 3a domenica del tempo ordinario: «Il Signore del tempo nuovo». Pag. 115-118.
Dopo aver letto nella Sinagoga il testo di Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; mi ha consacrato e inviato ad annunziare ai poveri un lieto messaggio, a proclamare la liberazione ai prigionieri, a dare la vista ai ciechi; a rompere le catene degli oppressi, ad annunciare un anno di grazia divina», Gesù disse: «Oggi questa Scrittura si è adempiuta» (cfr. Lc 4, 14-21). Riconsegnando il rotolo del brano letto all’inserviente, Gesù volle significare che un mondo ormai veniva collocato negli scaffali del passato e un altro nuovo si apriva, e avrebbe avuto altre immagini, altri impulsi di coscienza, altri libri. L’èra della Giustizia finiva e sorgeva quella dell’Amore. L’Atteso non cavalca il destriero di battaglia del Messia Re del suo popolo, ma lo scandalo. Il Signore dei Signori non sarà il trionfatore assiso sul trono per giudicare i vinti; il suo Regno si apre agli umili; in esso gli ultimi saranno i primi; il vitello grasso rifiutato al figlio giusto sarà ucciso per il figliol prodigo; gli invitati al pranzo nuziale saranno esclusi, i mendicanti accolti; l’operaio che lavora un’ora avrà lo stesso salario di quelli che hanno lavorato otto ore; le novantanove pecorelle fedeli saranno abbandonate per la pecorella smarrita; le meretrici precederanno i virtuosi nel Regno. Il mito della Giustizia razionalizzato esige dei rendiconti accurati sul presente e sul passato; il mito della Gerarchia, al tempo di Cristo, era impersonato dal guerriero che, capo delle legioni o dittatore, fa e disfa le leggi, punisce secondo il suo arbitrio. La giustizia è niente senza il giudice; il giudice non conta niente senza il soldato. Alla giustizia il Figlio sostituisce il perdono e il comandamento di non giudicare; all’elezione del più forte sostituisce l’elezione del più umile, del più ignorato, del servo di tutti. Se l’amore non è il capovolgimento della giustizia umana e della lotta per il potere, cosa potrebbe mai essere? L’Atteso percorre le strade a piedi, vestito poveramente, attraversa le città e le campagne per avvicinare tutti gli uomini, i giusti e i peccatori, i sani e gli ammalati, gli oppressi e gli oppressori, i sazi e gli affamati, ma le sue preferenze saranno sempre per i peccatori, gli affranti, i poveri. Rifiuta i riti quando fanno dimenticare l’uomo, respinge la violenza, tutta la sua personalità è protesa ad aiutare, salvare, guarire, liberare a prezzo di tutto, anche della propria vita; agli uomini del Tempo nuovo addita qualcosa di inconcepibile, di impossibile: la morte a se stessi per vivere negli altri in una libera espansione d’amore.
Così Cristo si presentò nella Sinagoga come il depositario, l’eletto dello Spirito nuovo. In ogni tempo e in ogni luogo gli uomini guardarono a un sublime ideale umano e divino che compisse le più alte aspirazioni della loro coscienza e della loro squisita capacità d’intuizione; guardarono verso un’incarnazione di verità e di amore che rendesse possibile una trasformazione dell’uomo nella realtà dell’immagine divina che è il vero volto dell’uomo. Dall’Oriente ci giungono delle illuminazioni quasi preannuncio della realtà della nuova coscienza umana che nasceva con Cristo. «Amatevi e il volto della terra sarà cambiato». «Esiste un sacrificio più accetto di quello del latte, dell’olio, del miele: la compassione e l’amore». «Riconosci la bontà di chi t’ingiuria, se non ti percuote; se ti percuote, ringrazialo di non averti ucciso; se ti uccide, glorificalo nell’Eterno perché ti ha aperto le porte della salvezza». Cristo è il Signore di un nuovo Tempo, l’Annunciatore del culto in Spirito e in Verità, il secondo Adamo, l’essenza e l’immanenza del Creatore nella creatura. Non porta un nuovo culto, ma la più sconvolgente rivoluzione nella coscienza umana che, per essa, cessa di essere legata alla carne e al sangue e assurge alla figliolanza divina. In ogni uomo è immanente un atomo dell’infinita realtà di Cristo, una particella della sua Luce sconfinata: «Egli è la Luce che necessita a ogni uomo che viene in questo mondo» (cfr. Gv 1, 9). Particella di Luce che costituisce il fulcro della coscienza spirituale di ogni uomo, e che dà a ognuno la possibilità e la capacità di essere assunto e attuato nell’essenza divina. Particella di Luce che costituisce il vero io eterno di ogni individuo umano. Particella di Luce che riguarda quel principio di vita che ognuno è libero di attuare o no, con la conseguenza che chi lo attua sarà vivo, confermato nella sua essenza divina, nella perennità della sua esistenza separata, nella santità e nell’immortalità della sua anima fusa in una unitarietà mistica, la comunione dei santi. Chi non attuerà quel principio, chi lo soffocherà con la ribellione e l’ignoranza volontaria, con la crudeltà egoistica, sarà morto. Cristo si pone come punto discriminante dell’umanità: «Chi crede in me, anche se è morto vivrà» (Gv 11, 25). Credere in Cristo è abbandonarsi alle sue energie fecondatrici, è aprire la nostra piccola coscienza nella sua infinita e divina coscienza. La scintilla della Luce nei singoli uomini, che si illumina dell’infinita Luce del Verbo eterno, vivrà anche se il corpo che l’ospitava è cenere da millenni. L’attesa dell’umanità del Cristo è l’atto di fede necessario, perché l’umanità viva nella sua essenza e superi i piani dell’esistenza nella realizzazione della suprema conoscenza. Ciò è possibile cambiando del tutto la consueta direzione mentale per vivere il Tempo nuovo portato da Gesù. Quando Cristo è in noi e noi in Lui, celebriamo ogni ora le nozze con la Luce infinita. E possiamo sperimentare che la sua Luce è giudizio della nostra colpevole
personalità , è spezzamento di tutte le catene: luce per gli occhi spenti, udito per le sordità interiori; movimento per gli arti paralitici, vita per chi giace nella morte.
«Il tempo è breve: non fermatevi» Giovanni Vannucci, Omelia pronunciata domenica 25 gennaio 1976 - 3 a del tempo ordinario, durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 18 nell’eremo di San Pietro alle Stinche - Greve in Chianti (FI). Pubblicata in Nel cuore dell’essere, 1a ed. Fraternità di Romena, editrice, Pratovecchio (AR), dicembre 2004, pag. 27-33.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo». Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando un poco oltre, vide anche sulla barca Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono. ( Mc. I, 1420)
Le parole che abbiamo ascoltato ci hanno riempito sicuramente di stupore. San Paolo ci dice che il tempo è breve: chi è sposato viva come se non lo fosse, chi attende ai commerci di questo mondo viva come se non vi attendesse, perché il Signore viene. E nel Vangelo c’è l’appello ai discepoli affinché abbandonino tutto per diventare pescatori di uomini. Queste due letture sono collegate da una realtà concreta che possiamo verificare noi stessi ogni momento della nostra esistenza. Viviamo e attendiamo a tante cose che costituiscono la nostra giornata, il nostro lavoro, i nostri impegni, le nostre professioni, le nostre occupazioni, i nostri giochi, i nostri amori, ecc. Questa è la realtà nella quale viviamo e nella quale siamo immersi. E san Paolo e Cristo ci dicono che dentro a questa realtà, la nostra realtà e la nostra vita di tutti i giorni, ci è continuamente rivolto un appello che ci spinge ad andare oltre, verso un assoluto che non è compreso dalle realtà e dalle opere che noi compiamo nell’esistenza, verso una pienezza di vita che va ben oltre i piccoli limiti delle nostre brevi vite sulla terra. E cos’è questo oltre? E’ la maturazione nella verità, nella giustizia, nell’amore, nell’infinita vita della nostra coscienza di uomini.
Un grave rischio che noi incontriamo continuamente e nel quale cadiamo sempre, o quasi sempre, o nel quale solo pochi uomini riescono a non precipitare, è quello di rendere assoluta la nostra vita, cioè di dare un significato totale e assoluto alle cose che costituiscono la nostra realtà terrena. Quando nell’esperienza della famiglia, la famiglia diventa un assoluto, oppure quando nell’esperienza del lavoro, di una professione, questo lavoro, questa professione diventano assoluti e ci prendono totalmente e noi ci identifichiamo con le cose cui partecipiamo e con le cose che stiamo facendo, ecco che rimaniamo chiusi come in una gabbia, in una prigione e non sentiamo più che le cose che facciamo devono essere fatte, ma devono anche essere fecondate da questa nostra ansia di andare oltre. Quando il commerciante o il politico o il prete o lo sposato o il maestro o l’operaio rendono assoluto il loro impegno nella vita, diventano idolatri, cioè non sentono più che il Cristo passa vicino a loro e dice: “Venite e seguitemi, vi farò pescatori di uomini”, cioè dovete essere in mezzo agli uomini dei punti di una realtà nuova, dei creatori di forme di vita umana e di vita associata del tutto differenti da quelle che vengono costruite dagli uomini che rimangono chiusi nelle loro opere e nei loro sistemi, nelle loro ideologie, nelle loro teorie, nelle loro chiese, nelle loro professioni, nelle loro vite. C’è il pericolo di assolutizzare. Assolutizziamo una teoria, un’ideologia e non ammettiamo che il pensiero possa andare oltre o possa pensare differentemente dai dati che noi abbiamo accettato come assoluti. E allora creiamo degli spazi chiusi e in ogni spazio chiuso avviene sempre una degradazione delle energie, una degradazione dell’uomo, una degradazione di quelle caratteristiche che costituiscono la verità dell’uomo. Una delle verità, direi delle forze, del cristianesimo che sono ritornate, almeno come linguaggio, nella nostra esperienza, è l’escatologia. Cosa significa escatologia? Escatologia significa la tensione del nostro essere verso realtà che ancora non sono compiute. Se guardiamo alla nostra vita di tutti i giorni possiamo constatare che quello che abbiamo costruito o che stiamo costruendo, che le cose che ci prendono come uomini nel lavoro, nella professione, negli impegni, sono tutte cose imperfette, incomplete. Se guardiamo la nostra società italiana vediamo: la scuola è imperfetta, le strutture sociali sono imperfette, insoddisfacenti, le strutture religiose sono imperfette e insoddisfacenti. Se noi assolutizziamo questa realtà, rimaniamo imprigionati e diventiamo degli idolatri. Cioè trasferiamo quella aspirazione verso più pienezza, verso più verità, più giustizia, più vita, più amore, la trasferiamo dentro i brevi limiti della nostra esperienza individuale o di gruppo, o familiare o sociale. E trasferendo questa aspirazione all’assoluto, diventiamo immediatamente degli uomini prigionieri di queste realtà che sono imperfette e incomplete e che vengono superate quando in noi sorge quest’ansia di più vita, di più verità, di più esattezza, di più giustizia, di più armonia, di
più pace. Vengono travolte quando in noi, personalmente, c’è questa forza che rompe quelle brevi barriere che abbiamo edificato e che pensiamo siano eterne. E allora in ciascuno di noi passa Cristo che dice: seguimi; lascia la barca, lascia la rete e seguimi; perché il tuo destino è oltre. Non è così la nostra vita? Siamo sempre insoddisfatti e anche quando parliamo della incompletezza della nostra vita personale, di tutte le nostre insoddisfazioni, di tutte le nostre insufficienze, di tutte le nostre frustrazioni, dobbiamo guardarci dal diventare schiavi di questi sentimenti negativi e dobbiamo riprendere la forza, sapendo che l’incompletezza deve essere superata da noi, in questo anelito verso più perfezione, verso cose più urgenti, verso cose più mature, verso cose che non imprigionino l’uomo, ma lo liberino e lo rendano autentico. Se voi riflettete sulla differenza che c’è fra l’uomo e le creature che appartengono agli altri ordini della natura, gli animali per esempio, osserverete questo: l’uomo è, nel regno della natura, l’essere vivente che è vivo perché non ripete mai, ma va sempre oltre tutte le sue creazioni. Se guardiamo la storia vediamo che l’uomo ha costruito dei grandissimi imperi: l’impero egiziano, l’impero babilonese; nell’area mediterranea l’impero romano, l’impero franco, l’impero germanico. Poi tutti gli imperi, le grandi repubbliche, tutte le grandi strutture sociali che abbiamo edificato nel corso della nostra non breve storia vengono distrutte e l’uomo va oltre, nel tentativo di creare un qualcosa di più vero e di più esatto, di più corrispondente a questa sua aspirazione verso l’infinito. Se guardate invece le api - le api le conosciamo già dalla letteratura egiziana -, le api di cinquemila anni fa ripetono lo stesso lavoro, che è meraviglioso, delle api di oggi: costruiscono il loro alveare, le loro casette, con la stessa legge di architettura che è esatta; producono il miele sempre nella stessa maniera; la loro vita sociale si svolge sempre con lo stesso ritmo ripetitivo. E l’uomo si differenzia rispetto a tutti gli altri esseri proprio per questa sua aspirazione verso un qualcosa che va oltre le realizzazioni che ha compiuto nel tempo presente. Per questo san Paolo ci dice: il tempo è breve, non fermatevi. Si sta bene in una struttura sociale, in una struttura religiosa; si sta bene nella nostra Chiesa. San Paolo ci dice: non vi fermate. E Cristo ci dice: lascia tutto e vai oltre. Questo andare oltre è la caratteristica dell’uomo. E allora noi la dobbiamo tradurre nella nostra pratica quotidiana. Non innalzare degli idoli, non mettere dei nomi eterni a ciò che è legato al tempo e quindi alla consunzione e alla distruzione. “Non nominare il nome di Dio invano” significa non porre il nome di Dio a cose che sono legate al tempo, allo spazio e alla consumazione della storia. Metti il nome di Dio soltanto all’Eterno e in te dai il nome di Dio a questa aspirazione verso l’assoluto, verso la perfezione, verso una vita più intensa e più piena. Quando noi viviamo nella nostra dimensione personale questa aspirazione verso l’assoluto, allora abbiamo una profonda fiducia nella vita. Sì, i tempi in cui viviamo sono
tristissimi, per la nostra nazione sono tempi tristissimi: qualcosa viene distrutto o con violenza o senza violenza, ma se in noi c’è questa aspirazione verso l’assoluto, sappiamo che un giorno, attraverso tutto il nostro travaglio di uomini, appariranno una terra nuova e un cielo nuovo, dove potremo respirare più libertà, più serenità, più amore; dove potremo avere una pace che ancora non siamo riusciti a stabilire per brevi istanti sulla terra. E allora il nostro impegno di uomini qual è? E’ quello di non guardare indietro ma guardare avanti, di aiutare la trasformazione nostra verso le esigenze della infinita vita e di dare una mano agli altri perché si dischiudano a questa vicenda che è meravigliosa anche se è dura, che l’uomo deve correre nell’ esistenza del tempo presente. E dire a noi: il tempo è breve, non fermiamoci quando dobbiamo camminare, non guardiamo al passato quando dobbiamo guardare l’avvenire, e sentire che Cristo passa continuamente. Vi ho ripetuto varie volte che dobbiamo leggere il Vangelo con il senso che ciò che leggiamo compiuto in un tempo si compie anche ora, nel senso del Vangelo eterno. Ecco, dobbiamo leggere il Vangelo con questa percezione, con questa certezza: ciò che leggiamo nel passato avviene nel presente. E come Cristo è passato vicino ai primi discepoli e ha detto: lasciate tutto e seguitemi, così Cristo passa vicino a me, passa vicino a ciascuno di voi e vi dice: non costruite delle dimore eterne, delle ideologie eterne qui sulla terra, perché come uomo, come coscienza umana, sei fatto per una vita di cui ora senti il sorgere, ma non ne vedi la fisionomia precisa, non ne vedi la figura ben definita e devi andare oltre. Allora introdurremo nella vita una duttilità, una capacità di adattamento alle mutevolezze del tempo che ci sorreggerà e ci permetterà di essere in mezzo agli uomini delle presenze che fecondano, che risvegliano i grandi sogni, che additano agli uomini le grandi mete verso le quali sono tesi. Perché noi ci facciamo del male quando chiamiamo eterno ciò che non è eterno, quando dichiariamo delle verità che sono mutevoli, le dichiariamo dogmi inconsumabili e da ripetersi per sempre. Vedete come tutto muta nel mondo. E noi siamo vivi perché nel nostro fisico, nella nostra psiche, nella nostra parte nervosa, in tutto ciò che costituisce la nostra realtà umana, c’è questa mutazione continua. Il giorno in cui il mio corpo si fermerà io non sarò più vivo, ma finché il mio corpo muterà attraverso il cambiamento della figura del momento presente verso la figura che avrà il momento successivo, io sarò vivo. E questo è vero per tutte le realtà che costituiscono la nostra vita di uomini sulla terra. Allora sentiamo così Cristo che ci dice: non ammassare sulla terra dei tesori, ammassali nel Cielo. Orientati verso la vita infinita e avrai una capacità di camminare sulla terra con una saggezza che altrimenti non avresti. Una saggezza che non viene dalla ripetizione di un passato, ma da una partecipazione intensa al manifestarsi di Dio, che va sempre oltre tutte le nostre definizioni e tutte le nostre raffigurazioni.
IL VERBO ENTRA NELLA CITTÀ DELL’UOMO Giovanni Vannucci, «Il Verbo entra nella città dell’uomo» - Domenica delle Palme - Anno B -, in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984 - Pag. 58-59.
La Croce, sulla quale verrà appeso il Figlio di Dio e dell’Uomo, viene lentamente innalzata. Su di essa, anche l’iniziato al mistero del patire e del risorgere di Cristo deve essere crocifisso. La Croce, nella sua realtà materiale, è il patibolo conosciuto, usato dai popoli dell’antichità romana. Nel suo significato ultimo, è il punto d’incontro tra il cielo e la terra e della loro unione armoniosa in Cristo. Nel suo senso storico, è il segno d’abolizione tracciato su tutte le istituzioni sociali che, insensibili alla Parola Creatrice di Dio, cercano di circoscrivere l’eternità al tempo; l’ascesa continua dell’Essere, alla stasi di una determinata forma di civiltà; il rinnovarsi incessante del creato, a una forma immutabile. Il compito di ogni società, religiosa o civile, è di condurre l’uomo singolo, ordinatamente, alla sua maturità cosciente. Per non venire meno alla sua missione, la società, religiosa o civile, dovrebbe trarre continuo alimento dalla Parola Creatrice di Dio; Parola che viene comunicata dall’illuminazione dei Profeti e dei Santi che additano i tempi di Dio. Una società aperta alle albe di Dio non è insensibile all’annuncio di visioni più vaste e più profondamente umane; consapevole che l’uomo è chiamato a esser Figlio di Dio, non si chiude nella venerazione di un ordine acquisito o di un’obbedienza assoluta a una casta politica o sacerdotale. L’iniziando al mistero cristiano riceve, nella domenica delle Palme, la conoscenza che Gesù è oltre tutte le limitazioni che nascono dalla natura inferiore dell’uomo, assetata di potere; oltre tutte le costruzioni che sorgono da essa. Apprende anche che Gesù abolisce tali costruzioni non con clamorose proteste, ma amandole fino a essere annientato da esse, per trasmutarle dall’interno. Gesù ha superato la tentazione del potere; la società civile e religiosa, del suo tempo e di ogni tempo distaccato da Cristo, ha ceduto alla suggestione del potere. L’incontro di questa società con Cristo, il non-Violento, il Capo rivestito di tutta l’Autorità e privo del potere, non poteva avere altro risultato che l’innalzamento della Croce. La domenica delle Palme è l’irruzione pacifica della Gerusalemme celeste, il centro della Pace e della Comunione, nella Gerusalemme terrena, violenta e ribelle. Il popolo accoglie il Re mansueto con gioia, sventola vessilli nati dalla madre terra: rami di ulivo e di palma.
In questa domenica il potere, la fiducia nel potere dell’uomo devono cadere dal cuore dell’iniziato che, prendendo i vessilli della pace e della luce - l’ulivo -, del cibo immortale - la palma - , preparati dalla terra senza l’intervento dell’uomo, accoglie il Re pacifico, il vincitore della tentazione del potere, come l’unica e la vera Autorità che lo condurrà nella luce della città di Dio.
IL VERO MIRACOLO Giovanni Vannucci, «Il vero miracolo», 18a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 141-143.
Leggendo il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mt 14, 13-21), vengono alla mente due spontanee domande: perché questo prodigio è stato riportato dall’evangelista Matteo? Esiste in esso un significato recondito? Alla prima domanda le risposte sono varie, da quella dell’apologetica più trita che Gesù avrebbe compiuto il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci per far toccare con le mani agli uomini presenti e futuri la sua natura divina, a quelle più sottili che vi vedono indicata l’essenza della nuova èra iniziata con Cristo: l’èra dell’amore assoluto i cui simboli sono il pane e il pesce. Se dovessimo credere al mistero di Gesù Cristo per i miracoli che ha compiuto, dovremmo credere a tutti quelli che prima e dopo Cristo hanno compiuto, in buona o cattiva fede, dei miracoli. Sarebbe la logica conseguenza dell’assioma apologetico: chi si mostra Signore delle leggi della natura (il miracolo è per lo meno una sospensione del normale corso delle leggi che regolano l’universo) possiede una divina natura. E di miracoli l’umanità ne ricorda miliardi; anche tenendo conto che un buon numero sono il prodotto di ciurmatori, ne rimane una notevole quantità di compiuti in buona fede, e vediamo illogica l’equivalenza tra miracolo e natura divina di chi lo compie. Forse i prodigi di Cristo sono riportati dagli evangelisti per ben altre motivazioni, che dovranno essere scoperte caso per caso. L’impressione che si ricava dalla lettura attenta delle relazioni sui miracoli di Cristo è che non li compiva volentieri: è sufficiente notare la sua riluttanza al miracolo delle nozze di Cana, per esserne persuasi. Egli compì miracoli forzato e costretto dalle preghiere e gli affetti di chi lo circondava, e quando si arrese una grande tristezza lo invase, dovendo constatare come l’intelligenza dell’uomo preferisse essere abbagliata che non convinta. Dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani, Gesù con tristezza dice ai dodici: «Voi non avete ancora capito» (Mc 8, 21). Egli ardeva di comunicare agli uomini mortali la loro immortalità, ardeva di portare la loro mente negli spazi eterni, ove Iddio si rivela nella luce e nella vita e si manifesta come Padre e Padre amoroso. E Gesù era triste nel compimento dei miracoli, i suoi e gli altri si fermavano sull’aspetto clamoroso del prodigio e non volevano imparare ciò che con infinita pazienza stava insegnando. Ogni giorno, per colui che sa vedere, è denso di miracoli. Se ponessimo mente al perenne miracolo della vita,
saremmo in continua adorazione dell’immensa e amorosa Mente che ci avvolge; in essa troveremmo di continuo la soluzione a ogni problema della nostra vita. Se imparassimo a liberarci dall’interesse egoistico, a superare le difficoltà in un atto di confidente amore, se volessimo, scuotendo la nostra pigra ignoranza, protenderci nella nostra vera dimensione che è la divina realtà, sapremmo come chiedere a Dio ciò che Dio stesso brama di volerci dare: la compiuta sua somiglianza, la perfetta sua libertà, l’infinito suo operante amore! Ma abbiamo paura di ciò che veramente ci libera, vogliamo ciò che ci imprigiona, vogliamo la guarigione della carne che abbiamo resa inferma con i nostri disordini; vogliamo il trionfo delle nostre verità personalistiche che imprigionano lo spirito; vogliamo le ricchezze terrene che rendono quasi impossibile la salvezza eterna: questi miracoli domandiamo continuamente. Nella narrazione del miracolo della moltiplicazione dei pani c’è un particolare sul quale dobbiamo fermare l’attenzione: Cristo dice ai discepoli, preoccupati dell’ora tarda e della fame della folla: «Datele voi da mangiare. Risposero: non abbiamo che cinque pani e due pesci. Ed egli disse: portateli a me». I discepoli, con assoluta fede e altruismo totale, donano ciò che hanno, e aprono la via all’evento miracoloso. I discepoli presentano cinque pani, cinque forme di pane che sono la maturazione del grano trasformato in farina e questa, attraverso la panificazione, in un nutrimento perfetto e completo. Li presentano a Cristo senza chiedersi cosa ne avrebbe fatto, senza domandarsi come avrebbero saziato la loro propria fame, offrono con un atto di dedizione incondizionata quanto hanno, tutto quello che in quel momento avevano, e il miracolo ricopre la vallata ove erano i cinquemila uomini. Il miracolo vero è quello che in quell’istante si è compiuto nella trasformazione del cuore dei discepoli: hanno dimenticato la loro fame, il loro diritto a possedere il proprio pane, hanno abolito il prefisso «mio»; il loro pane non è più loro, ma lo ripongono nelle mani di Cristo; in quell’istante di perfetta maturità essi stessi non sono più di se stessi, ma di tutti. Noi crediamo che Gesù abbia fatto dei miracoli, ma non per i miracoli noi crediamo a Lui. Il vero miracolo che ci avvicina e ci fa credere è il rinnovamento dei tempi, la grandezza della sua rivelazione, la potenza del suo insegnamento. L’autentico suo miracolo è il discorso della Montagna, la novità e vastità del suo amore, la sua capacità di redimerci dall’interno. Crediamo in Gesù Cristo Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo, non a motivo dei suoi miracoli, ma a cagione di Lui stesso. Per questo respingiamo i falsi profeti insieme ai loro prodigi apparenti o reali, come respingiamo le seduzioni di chiunque creda di farci sognare un sogno e crede a una visione. Cristo è la verità, la verità è oltre le apparenze, è la verità che solo lo spirito può contemplare in silenziosa solitudine, e il miracolo è che ogni uomo può vivere questa verità quando ha raggiunto la totale dimenticanza di se stesso divenendo offerta pura e totale.
L’AMORE IMMOTIVATO Giovanni Vannucci, in La Vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985. «L’amore immotivato», 22a domenica del tempo ordinario. Anno C,, Pag. 178-181
Gesù, invitato a pranzo da uno dei capi religiosi del suo popolo, osservò come molti ospiti discutevano per decidere chi doveva sedere a capo tavola e chi più vicino o lontano dai notabili. Con fine senso realistico e ironico, osserva che l’invito a pranzo è un gesto di amicizia per consumare dei cibi con semplice gioia; la ricerca dei primi posti a tavola è l’espressione di una vanità che niente ha a che fare con la gioia di consumare insieme un pasto con amici, anzi ne costituisce un avvelenamento. «Quando sei invitato a pranzo, scegli con semplicità l’ultimo posto, lascia al capotavola la libertà di chiamarti più vicino a lui [...]. Se poi tu fai un pranzo, invita alla tua tavola i poveri, i reietti, quelli che non possono darti niente in contraccambio. Compi un gesto di amore disinteressato, la ricompensa ti sarà data sul piano dell’infinita coscienza di Dio, a essa la tua gioiosa liberalità ti introdurrà» (cfr. Lc 14, 8-14). La grande catena dell’amore universale viene tracciata e indicata da queste semplici parole: «Dona a chi non può contraccambiarti il tuo dono, offri i tuoi pranzi a chi non può invitarti a sua volta. Se inviti chi può restituirti il pranzo, tu non esci dai confini di un misero egoismo; invita chi non potrà renderti il contraccambio, in tal modo la tua gioiosa generosità ti aprirà un credito presso il Padre che è nei cieli» (cfr. Lc 14, 12-14). Ogni azione umana crea continuamente dei vuoti e dei pieni, apre delle parentesi che dovranno venir chiuse. Se l’uomo fa il male come reazione al male, chiude una parentesi aperta dal male inferto; se fa il male per il male, apre una parentesi creando un vuoto che gli attirerà del male. Cosi avviene per il bene. Se l’uomo usa generosità per attirare generosità, apre e chiude questa parentesi; ma se è generoso con chi non potrà ricambiarlo, apre un vuoto di bene in cui entrerà dell’altro bene per colmarlo. Quando uno fa del male come reazione a un male, chiude la parentesi del male; in questo caso vige la legge del taglione, chi è stato offeso può domandare giustizia: giustizia che è sempre una larvata forma di vendetta e, una volta soddisfatta l’esigenza di giustizia, la parentesi è chiusa, l’offensore ha pagato, non deve più nulla; l’offeso non ha più alcun diritto. Ma se chi ha ricevuto l’offesa non reagisce, l’offensore apre in sé un vuoto che sarà fatalmente ricolmato da un’altra offesa, anche se interviene il perdono dell’offeso. Una legge severa presiede a questi meccanismi; così colui che fa il bene, e di questo riceve la ricompensa e la gratitudine del beneficato, chiude la parentesi, e il
benefattore ha ricevuto la sua ricompensa; se invece la generosità è gratuita, se l’amore non è limitato da nessuna finalità, se qualcuno rivolge la sua forza di amore e di dono a chi non potrà rispondergli con altra generosità e amore, si stabilisce una corrente di vuoto che sarà colmata da altra generosità e da altro amore. Le nostre azioni, le nostre opere di cristiani dovranno essere contrassegnate dall’apertura di una assoluta gratuità: questa stabilirà un continuo flusso di bene e di grazia tra il cielo e noi. E ci libererà da tutte quelle solidificazioni create dall’ambizione vanitosa di porre una finalità alle nostre azioni, anche a quelle che riteniamo più conformi alle qualità cristiane. Amiamo «per», preghiamo «per», facciamo delle opere sociali «per»; motivare l’amore non è amare, avere una ragione per donare non è dono puro, avere una motivazione per pregare non è preghiera. Cristo ci dice: «Se dai un bicchier d’acqua a chi ha sete, nel mio Nome, non lo dai all’assetato, ma a Me!» (cfr. Mt 25, 35 s). «Nel Nome del Signore» vuoi dire nella più assoluta gratuità, nell’amore più libero e oggettivo, nella vastità della Coscienza divina che a noi si è rivelata come Pane e come Vino. La finalizzazione dell’amore porta all’affermazione di lottare perché questo nostro amore si affermi, alla necessità di essere più forti, più abili, più tortuosi per imporlo, alla necessità di apparire portatori dell’amore, alla necessità delle mille strutture per renderlo obbligatorio. Quando saremo soltanto amore, dono e preghiera, come è Dio e il suo Cristo? «Ai tuoi pranzi non invitare gli amici, i potenti, i consanguinei [...]. Al contrario invita i poveri, i reietti, gli storpi, che non avranno mai di che ricompensarti» (Lc 14, 12-14). Il tuo amore sarà immotivato come l’amore del Padre che è nei cicli, il tuo dono sarà l’offerta pura e incontaminata che è accetta a Colui che crea, ama, dona per la pura gioia della creazione, del dono, dell’amore! Altrimenti creerai delle strutture, dei modelli, delle forme che ti faranno sentire potente, generoso, buono, e perderai te stesso e le tue opere nelle strettoie del secolo presente! Ti sei mai domandato se lo sbocciare di un fiore, il canto dell’usignolo, il brillare di una stella sono motivati? Impara dai gigli dei campi, dagli uccelli dell’aria la grande lezione del dono puro e immacolato da finalità! Solo colui che ha raggiunto il senso della sua eternità può non dare importanza al tempo e alle egoistiche esigenze del tempo. Solo colui che è forte ama senza porsi dei perché; solo colui che è forte dona generosamente e instancabilmente come il Creatore della vita. Cristo ci addita la via per diventare forti, ricchi, per attuare l’essenzialità del regno di Dio, essenzialità che è potenza di spirito, e che qualcuno raggiungerà quasi a sua insaputa, come il contadino che lavorando il campo trova un tesoro, altri invece conquisterà per appassionata ricerca, come il mercante di perle.
L’ANNUNCIO TRINITARIO Giovanni Vannucci, «L’annuncio trinitario», Ascensione del Signore, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 81-82
«Andate, battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo tutte le genti» (Mt 28, 19). Due brevi precisazioni sulla terminologia di questa frase. Battezzare è sommergere qualcuno nell’onda vivificante e purificatrice. L’onda in cui i credenti son chiamati a sommergere l’umanità è il Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Cos’è il Nome? Per gli antichi, il nome non era un qualcosa di convenzionale o di secondario, definiva l’essenza della cosa o della persona che lo portava. Per noi che valutiamo il nome dal punto di vista delle nostre lingue esclusivamente fonetiche, è molto difficile capire questa particolarità. Il nome divino specificato nelle sue tre personali componenti, sulle labbra di Cristo indica la viva realtà di Dio, avente un legame diretto con tutta la realtà cosmica, come Creatore, come animatore di vita e di ascesa, come compimento del faticoso e glorioso cammino della creazione nello sconfinato oceano dell’Amore. Siamo chiamati a immergerci e a immergere in quest’onda divina tutto il creato! A vivere cioè nella consapevolezza che la creazione non è la risultante di un cieco impulso di cellule e di facoltà, ma il frutto di un intervento costante, atemporale, sempre nuovo, la cui natura, pur sfuggendo alla coscienza razionale tributaria com’è del tempo e dello spazio - è avvertita e creduta per la fede. A vivere nella certezza profonda che il tribolato cammino del creato non è abbandonato a se stesso, ma accompagnato da una Presenza che prende su di sé gli errori, i peccati, la morte, bruciandoli per trasformarli in germinazione di vita. A muoverci nella fiducia che l’esistenza creata, nonostante le sue tragiche ombre, le sue dure chiusure, le sue disperanti esperienze, un giorno sarà illuminata da una luce, una pace, una pienezza di gioia e di amore inimmaginabili.
Sì, il cammino è duro. La mèta sognata dalle più profonde esperienze umane è in contraddizione con l’esperienza normale. Immersi in una forma di coscienza embrionale, tortuosa, avida, aneliamo al possesso di Dio; legati a una mente incerta e oscura, sogniamo una luminosa e completa conoscenza; lacerati da guerre, ingiustizie, bramiamo trasformare le lance in aratri; aneliamo a una libertà assoluta e costruiamo delle società sempre più condizionanti; avendo un corpo fragile e caduco, nutriamo la speranza che la nostra mortalità si rivesta d’immortalità. La ragione, constatando il divario insormontabile tra l’ideale e la realtà, diffida degli elevati
sogni e preferisce l’umile e dolorosa realtà, chiudendosi in più limitati orizzonti e in uno, apparentemente giustificato, scetticismo.
Noi che crediamo, che per la nostra fede vivente siamo chiamati ad accendere nei cuori i più folli sogni, ad annunciare la parola magica della speranza, a comunicare a tutti la coppa del vino migliore, non possiamo che continuare ad attendere e ad annunciare il compimento del miracolo della trasmutazione della morte nella vita, della coscienza imperfetta nella luminosa pienezza della coscienza vivente in Dio, della carne nello Spirito. Nell’insufficienza dell’esistenza c’è il germe della redenzione e della pienezza della vita. Nelle tenebre esiste la luce che le consumerà, nelle strutture limitatrici un’energia liberante. Sono sogni di una mente esaltata? Proviamoci ad avere pensieri immensi come l’immensità divina, rompiamo i nostri piccoli amori in un amore sempre più vasto, dilatiamo le nostre piccole libertà nella sconfinata libertà dei figli di Dio. E vedremo che la realizzazione di Dio, nell’intimo e nell’esteriore, è il più alto e legittimo senso della vita umana.
L’ASPIRAZIONE ALL’UNITÀ Giovanni Vannucci, «L’aspirazione all’unità», in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984. 27a domenica del tempo ordinario - Anno B. Pag. 169-172.
«Nel principio Dio li creò maschio e femmina [...] Sicché non sono più due, ma una sola realtà vivente. L’uomo non separi quello che Dio ha congiunto » (Mc 10, 6-9). Queste parole sono state, vengono e verranno lette da punti di vista del tutto differenti, a seconda del grado di spiritualità raggiunto da chi le legge o le ascolta. Tenendo presente che Colui che le ha pronunciate appartiene alla suprema dimensione divina, esse hanno un significato che sarà sempre più evidente a quelle coscienze che costantemente si avvicinano e ascendono all’ultimo vertice dell’esperienza spirituale. Le parole della Bibbia, come ci insegna tutta la Tradizione, sono ricoperte da velami che vanno gradualmente tolti da chiunque voglia raggiungerne l’ultimo significato. « Sciagura all’uomo che nei libri sacri non vede altro che eventi storici e parole del linguaggio ordinario. Ogni parola della Sacra Scrittura racchiude un significato elevato un sublime mistero. Le narrazioni storiche sono le vesti esteriori. Sciagura all’uomo che scambia la veste esterna per la stessa Sacra Scrittura! Gli insensati, vedendo un uomo ricoperto di splendida veste, non sanno andare oltre l’abbigliamento, dimenticando che è il corpo a dare il significato alle vesti. La Bibbia ha un suo corpo: le narrazioni. Le menti ordinarie si fermano alle vesti e non vedono il corpo; quelle più penetranti vanno verso il corpo; i saggi, i servi del Re supremo, che abitano sulle altezze del Sinai, si fermano a considerare l’anima, fondamento delle espressioni della Bibbia. Nel Tempo futuro saranno preparati a contemplare l’anima di quest’anima che respira nelle parole della Bibbia » (Zohar). Per l’ascolto della parola della Bibbia ci è più necessaria l’intensità di un’attenzione silenziosa che non la lettura di commenti esegetici; essa ci permette la disarticolazione della mente da tutte le interpretazioni che si è costruita e l’avvento della Rivelazione nell’anima. « Nel principio Dio li creò maschio e femmina ». Nel principio, non all’inizio della creazione, ma nell’istante eterno della creazione, nell’atto della creazione che non ha ancora raggiunto il suo compimento, Dio crea la biunità umana, la cui vocazione è quella di ricostituire una sola realtà vivente. L’uomo non può impedire questo cammino verso l’unità senza alterare il corso della creazione. « È scritto: "Li creò maschio e femmina", ogni immagine che non sia maschio e femmina non assomiglia all’immagine celeste. Il Santo, benedetto sia sempre, non
dimora ove il maschio e la femmina non sono uniti, colma di benedizione il luogo ove sono una cosa sola. La Scrittura non dice: "Lo benedì e lo chiamò Adamo", ma "Li benedisse e lo chiamò Adamo". Dio benedice soltanto quando il maschio e la femmina sono uniti. Il maschio solitario non merita il nome di uomo. Lo merita quando è unito alla femmina; la Scrittura dice: "Diede loro il nome di uomo" » (Zohar). Il richiamo di Cristo alle parole dell’« in principio » può essere inteso e interpretato sul piano dell’istituzione dell’indissolubilità matrimoniale, e tale è la prima interpretazione letterale. Possiamo domandarci se essa è l’unica, oppure se costituisca il primo passo verso un’altra lettura che ci aiuti a comprendere l’anima vivente di questa parola. In un altro testo Cristo dice: « Chi lascia la sua famiglia, la moglie, i figli, i fratelli, i genitori per amore del regno di Dio, riceverà il centuplo e la vita eterna » (Lc 18, 29). I due, l’uomo e la donna, nel primo testo sono chiamati a costituire una sola realtà vivente, nel secondo è incoraggiata la separazione per amore del regno di Dio. Sono in contraddizione, oppure il loro contrasto ci permette di comprendere la verità profonda contenuta in ambedue e che è oltre l’immediato senso letterale? Questa seconda ipotesi tenterò di dimostrare. In ogni essere umano, uomo o donna che sia, esiste l’aspirazione verso l’unità e l’integrità del proprio essere che, risolvendo ogni conflitto in una sfera oltre il mondo fenomenico, dia alla mente quella pace suprema che è il segno della maturità della coscienza. Non è questa coscienza dell’unità che hanno cercato le grandi anime religiose dell’umanità e che è contenuta nella preghiera di Cristo: « Siano una sola realtà come Io e Tu, Padre, siamo una cosa sola »? (Gv 17, 21). La reintegrazione del proprio essere personale percorre tutte le zone della realtà umana: il corpo, le emozioni, la mente, lo spirito, e le percorre come energia unificatrice e redentrice. Essa rivela l’intenzione del Creatore sulle sue creature, la forza vitale, realmente divina, che dona un senso all’ascesa dell’uomo nella sua verità: raggiungere l’unità delle origini. È la fiamma che purifica dalle scorie ogni coscienza, e distrugge le barriere di divisione che separano l’uomo dalla donna, la creatura umana dalla parte più vera del suo essere. Ritrovare l’unità del proprio essere in Dio è la consegna che viene rivolta a tutte le creature umane, qualunque sia la loro vocazione personale. È rivolta a quelle coscienze che scelgono la via matrimoniale come la più consona per ritrovare la loro unità; ed è ugualmente indirizzata a quelle che, nella nostra Tradizione, si sentono chiamate alla via della Solitudine. Ad ambedue è richiesto di dischiudersi alla piena rivelazione cristiana, ad accogliere la presenza di Dio che si annuncia come Padre e Madre, due in uno, e che manifesta il suo vero volto, maschile e femminile insieme, e che, quando è così ricevuto, si accende in una passione ardente per tutta la razza
dell’uomo e della donna terrena che non potrà ormai né essere fermata, né respinta, né ignorata. Gesù disse: « Quando farete dei due una cosa sola, l’interno come l’esterno, l’esterno come l’interno; la mascolinità e la femminilità, farete una cosa sola, perché la mascolinità non sia solamente maschile, e la femminilità non sia solamente femminile; allora entrerete nel Regno » (Vangelo di Tommaso 22).
NOTA Sullo stesso passo evangelico si può vedere anche l'omelia di p. Balducci
L’ILLUMINATORE Giovanni Vannucci, «L’Illuminatore», 04° domenica di Quaresima, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 54-56.
L’illuminazione del cieco nato ci rivela il drammatico cammino che la Luce vera Cristo luce che illumina ogni uomo (Gv 1, 9) - compie per aprire la vista interiore nella coscienza. La chiave per comprendere questo episodio, storico e metastorico insieme, è nell’identificare noi stessi col cieco nato, nel sentirci partecipi della vicenda esemplare della sua illuminazione, narrata dall’evangelista Giovanni (Gv 9, 1-41). Consideriamo i punti salienti della narrazione. Gesù, dopo aver detto di se stesso: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8, 12), incontra un cieco fin dalla nascita; ai discepoli che l’interrogano se quella sciagura fosse la conseguenza dei peccati del cieco o di quelli dei suoi genitori risponde: «No, quest’uomo è cieco perché sia illuminato, e la luce divina splendendo in lui riveli l’azione creatrice di Dio». Così, avvertiti i discepoli del significato di ciò che stava per compiere, della duplice luce fisica e spirituale che avrebbe dato al cieco, fa con la saliva e la polvere un po’ di fango e lo applica agli occhi del cieco; quindi lo invia a lavarsi in una vasca dal nome simbolico «l’Inviato da Dio». Il cieco va e, dopo essersi lavato gli occhi, comincia a vedere. Il miracolo è compiuto senza la minima partecipazione del soggetto, egli collabora con la semplice obbedienza. La luce che si è accesa improvvisamente in quegli occhi si rivela luce che acceca gli altri, in particolare gli avversari di Cristo. I vicini di casa non sanno se egli sia o no lo stesso uomo che, seduto, domandava l’elemosina; egli afferma di esserlo: «Cosa è avvenuto che non ci vedevi e ora ci vedi?». Racconta il fatto nei suoi particolari; udito il nome di Gesù, i vicini lo conducono dai Farisei; il giorno in cui Gesù aveva ridato la vista a quegli occhi spenti era di Sabato, il racconto del cieco illuminato non può essere negato, i Farisei affermano che, essendo stato compiuto di Sabato, costituiva un’offesa dei comandamenti di Dio, chi l’aveva attuato non poteva che essere un riprovato da Dio. Il miracolato risponde: «Se egli sia reprobo o no, io non posso dirlo, una cosa è certa: prima ero cieco e ora vedo... Non si è mai sentito dire che alcuno abbia aperto gli occhi a un cieco; se non fosse amico di Dio, non avrebbe potuto far nulla». Risposero i Farisei: «Sei nato nei peccati e ci vuoi ammaestrare?». E lo cacciarono fuori. Essi, nella loro proterva chiusura, temono che la luce esteriore non si traduca in quella luce così temibile che è la luce di Dio accesa in lui, e lo cacciarono fuori dalla sinagoga, lo scomunicarono. Allora Gesù gli si rivolge: «Credi nel Figlio di Dio, nella luce di Dio in me incarnata?». Il miracolato, che aveva in sé sentita confusamente, nella luce fisica, quella spirituale, sperimenta ora l’apertura dell’occhio interiore, riconosce la presenza della luce divina in Gesù e gli s’inginocchia davanti.
Così si compie l’illuminazione del cieco: sperimenta che la luce fisica non è che simbolo e stimolo della luce spirituale. Gesù rivela il significato dell’illuminazione del cieco: la sua luce divina illumina chi a essa si offre in umiltà, acceca chi è chiuso nel proprio orgoglio di vedente. Acceca chi vede, chi non sa e crede di sapere; illumina chi è cieco, chi non sa e non riconosce la sua ignoranza; questa è la giustizia, il giudizio che compie la luce nell’uomo: «Son venuto nel mondo perché i vedenti non vedano, e i non vedenti vedano». I Farisei presenti a queste parole gli chiedono: «Forse anche noi siamo ciechi?». «Non lo sareste, risponde Gesù, se riusciste a vedere la vostra cecità. Non la vedete perché la scambiate per luce, per questo respingete la luce. La vostra cecità più si fa cieca, quanto più si crede luce». Questo è il giudizio nel mondo della Luce divina: suscita e assume quella luce creata che a lei si arrende; rende più ottenebrata quella luce creata che stima se stessa assoluta e divina; respinge le tenebre nelle tenebre. Ognuno di noi nasce dalla luce, quando nasce sulla terra è l’estrema densificazione, nella carne, della luce iniziale, da sé nulla vede. La Luce divina ci è offerta e ognuno può scegliere: o accettarla fondendosi nel suo ritmo di ascesa; o rifiutarla ottenebrandosi in un proprio ritmo chiuso e incomunicabile. Nel primo caso si ha l’assunzione, nel secondo la distruzione dell’uomo. Nell’alto, nel mondo di Dio, si ha la vibrazione massima della Luce divina, nel basso si ha la densificazione massima della stessa luce. La coscienza che diviene consapevole della densità della sua tenebra e comincia ad aspirare alla luce vera, inizia quel processo di ascesa che la farà incontrare con la sorgente della luce e della vita. Si libererà dall’esistenza, entrerà nel luminoso mondo dell’essenza, dell’Essere. Il punto della massima densificazione della luce ha una doppia possibilità, quella di accettare la densificazione come luce, quella di iniziare un movimento contrario di ascesa. Nell’ascesa sarà sorretto dalle forze fecondatrici della Parola eterna che discende e ascende, che aggrega la materia e la trasfigura nello spirito. Queste affermazioni sottintendono l’inutilità di sapere solo intellettualmente che la Luce, la Parola creatrice sono in noi, e insieme la necessità di permettere alla Luce e alla Parola divine di compiere in noi la loro opera di vita e di trasfigurazione. I Farisei pensavano in termini di ideologia, di continuità di interpretazioni, di dogmi e di riti; il cieco illuminato, nel suo cedersi alla Luce vera, non poteva che essere oggetto di scandalo e di rifiuto. Per i primi la Rivelazione era una ripetizione di formule e di consuetudini, di credenze; per l’Illuminatore la Rivelazione è, ed è attiva e operosa in ogni istante, purché l’anima riconosca le sue tenebre, e sappia morire continuamente ad ogni idea, ad ogni definizione, ad ogni rapporto immaginario con un Dio di sua proiezione. La Luce non può illuminarci che nel silenzio di una mente profondamente seria.
L’IMMACOLATA CONCEZIONE Giovanni Vannucci, «L’Immacolata Concezione». 08 dicembre - Festa dell’Immacolata Concezione della Beata
Vergine Maria. - Anno C; in La vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985; Pag. 242-246
Il 23 settembre, all’equinozio autunnale, il sole sembra vinto, le tenebre si prolungano; la diminuzione della luce durerà tre mesi zodiacali, fino al 21 dicembre, il solstizio invernale, quando la luce solare riprende il suo corso. In questo periodo la Chiesa ha collocato la festa dei morti, e 1’8 dicembre, tredici giorni prima della rigenerazione della luce, la solennità dell’Immacolata Concezione. Mentre la terra sembra venir sommersa nelle tenebre e nel gelo del primo Caos, la solennità dell’Immacolata viene a ricordarci che, al di là dello spessore della materia, delle tenebrose e confuse energie che l’intessono, c’è una luminosa e intatta Concezione che, movendosi dalla mente divina, si è densificata nella materia e ha avuto la sua perfetta manifestazione nella figura umana della Vergine, prescelta a generare il Sole eterno.
Non è facile per noi, abituati a esprimere i grandi misteri della Rivelazione con l’ordinario linguaggio della ragione - operazione questa assimilabile al gioco del fanciullo che tenta, sulla spiaggia, di introdurre l’acqua del mare nella buca che ha scavato -, afferrare il contenuto delle figure portatrici della Rivelazione. Ma, ponendoci davanti alla Donna rivestita di sole, qualcosa riusciremo a intravedere del suo mistero servendoci di una tradizionale metafora, conosciuta dai pensatori religiosi di altri tempi. Essa raffigurava la creazione come il risultato di quattro tappe successive: partendo dall’ultima, il mondo sensibile, e risalendo attraverso la penultima, il mondo della formazione; la seconda il mondo dell’ideazione; e la prima, il mondo degli archetipi o finalità ultime. Prendo un esempio: ho nelle mani un orologio, esso è un meccanismo visibile, palpabile, il mondo sensibile; questo meccanismo è stato formato dal lavoro dell’uomo, il mondo della formazione; il lavoro è stato diretto da precisi concetti meccanici e matematici, l mondo dell’ideazione; questi tre mondi sono sintetizzati nell’archetipo mentale dell’orologiaio, che ha pensato di costruire uno strumento per la misurazione del tempo quantitativo. Viviamo in un mondo fatto di materia palpabile, controllabile, misurabile, definibile; questa materia viene intessuta da un infinito numero di energie, energie che hanno delle precise leggi concettuali, leggi che sono state pensate nell’infinita mente di Dio e amate e volute da un amore e una volontà ugualmente infiniti. Nel primo stadio la concezione del divenire della creazione è immacolata, intatta. Questo primo istante è la mente di Dio, la
Sapienza divina, ed è il principio archetipico di tutto ciò che è manifesto; è anche l’idea di questo principio, la prima speculazione della Prima Mente; vi è il Padre e vi è la creazione nel tumultuoso divenire, e nella creazione vi è la Luce. Questa Luce è l’Immacolata Concezione che in sé compendia quanto di Vero, di Bello e di Buono è nel divino sogno creatore, e anche quanto di Vero, di Bello e di Buono verrà attuato nella creazione. La Chiesa nella Liturgia, per esprimere l’istante che precede la creazione, si serve delle parole del libro dei Proverbi: «Prima che si ergessero con la loro mole i monti, prima che erompesse l’onda dalle sorgenti, io ero con il Creatore. Con Lui ero da tutta l’eternità, posseduta da Lui, partecipando alla formazione del creato. La mia gioia è di essere sulla terra, mia delizia dimorare tra i figli dell’uomo. Chi scopre me trova la vita; il mio pane viene mangiato, il mio vino viene bevuto da chi ha raggiunto la semplicità» (cfr. Pr 8, 22-31), e attribuisce queste parole a Maria. La creazione nella coscienza umana è stata infranta, l’uomo si è separato dal mondo archetipale divino, e ha voluto usare del creato come se avesse in se stesso, immanente, la propria ragione d’essere. Ma la ribellione non ha infranto il profondo tessuto delle cose. Il principio archetipico di tutto ciò che è manifesto, l’incontaminato piano della Prima Mente, la Sapienza divina ha continuato a emanare la sua Luce: questa Luce è l’Immacolata Concezione.
Cercate di vedere il nulla assoluto, e in questo nulla la Trinità Santa, imprincipiata e dalla quale tutto principia, che pensa ciò che esteriorizzerà, ciò che manifesterà, ciò che creerà. La visione della creazione prima del suo inizio è l’Immacolata Concezione. Nel tempo della più densa tenebra dell’anno qualitativo, l’anno liturgico, quando tutto sembra ritornare tenebra nel caos primordiale, viene celebrata la solennità della Luce incontaminata, dell’Ideazione incorrotta del creato, della Concezione Immacolata. La manifestazione dell’incorrotta Luce è la Vergine-Madre che, il 25 dicembre, contempleremo immersa nella luce e nel canto degli Angeli dopo aver dato alla Luce il Salvatore. Nella teofania dell’Immacolata Concezione la creazione è stata riplasmata, ricostruita, ripartorita. Nel suo seno la natura umana ha ripreso il suo destino divino, e agli uomini è stata restituita la facoltà di divenire «figli di Dio». L’Immacolata è un concetto che prelude a un altro, quello dell’Assunta. L’Immacolata e l’Assunta non costituiscono soltanto la gloria di Maria Madre di
Gesù, ma anche la gloria dell’umanità esprimente Gesù, e riassunta e riespressa in Cristo. Maria è la prima creatura che ha realizzato il suo corpo immacolato e glorioso, ma essa non è che una caparra, una promessa, un invito. Tutti ritroveremo l’Immacolata Concezione e tutti saremo assunti. Maria è l’atomo infranto attraverso il quale la creazione passerà. Maria è l’archetipo umano per eccellenza, come Cristo è l’archetipo cosmico per eccellenza: misteri che il linguaggio umano può sfiorare, ma non spiegare.
Salmo in lode della Vergine Maria
Dio si è unito all’umana natura, la parte si annienta nel tutto, il finito nell’infinito, il tempo nell’eternità. La Parola si è fatta carne, viva è la carne per l’abbraccio dello Spirito, la terra ritrova il suo perduto ritmo. Nell’unità è abolita la separazione, alba è la Vergine del tuo eterno giorno, o Signore, per l’umanità infranta nella notte dei tempi. Il peccato antico, densità della forza separatrice, è abolito dal “si” della Vergine, al folgorante bacio dello Spirito. Eva è tornata nel fianco di Adamo, gli opposti principi riuniti nell’unum, il serpente separatore ha perso il veleno. L’inquieta ricerca è placata, un canto nuovo intonano i cieli, la Parola vive nella carne, la carne nella Parola. L’uomo non è più figlio solitario della carne, figli non genera più il sangue, erompe la vita nell’estasi dell’unum. La tua discesa nella carne, o Parola eterna, rivela la purità dell’amore immanente nel creato, la verità di ogni sogno di vita, il compimento di tutte le attese.
L’INFINITA COSCIENZA 1 Giovanni Vannucci, «L’infinita coscienza», 12a domenica del tempo ordinario. Anno C. In La Vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, Pag. 142-144.
In un’ora di grande intimità con i discepoli. Gesù domandò loro: «Cosa dice la gente che io sia?». Ed essi risposero: «Per qualcuno tu sei Giovanni il Battista, per altri Elia, per altri ancora un antico profeta tornato nella vita». «Ma voi chi dite che io sia?». Pietro prese la parola e disse: «II Cristo di Dio». Gesù proibì loro di dirlo ad alcuno. Quindi disse chi era lui stesso e chi sarebbero stati i suoi seguaci: «II Figlio dell’Uomo deve soffrire, venir riprovato, essere ucciso e risorgere il terzo giorno». Dopo aver descritto la sua realtà personale continua il discorso con delle affermazioni che, a prima vista, possono sembrare fuori contesto: «Chi mi vuol seguire, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua. Chi vuoi salvare la propria vita, la perde; chi la perderà, la salva» (cfr. Lc 9,18-24). La sequela delle parole di Cristo è questa: proibizione ai discepoli di dire che egli è il Cristo, il Messia, il che equivale a un suo rifiuto di tale titolo; affermazione della sua sconcertante realtà: egli è colui che dovrà essere ucciso dalle autorità della sua terra, ma che risorgerà il terzo giorno; i suoi discepoli lo seguiranno nella sua paradossale via: faranno gettito, come lui, della propria vita al fine di possederla veramente. Cristo nasce alla vera vita accettando la morte, il discepolo trova la vita gettandola allo sbaraglio. Quasi abbia detto: io sono il mistero della morterisurrezione; voi, miei discepoli, siete chiamati a vivere il mio dramma di rinuncia alla vita per ritrovarla nella sua verità. Tenendo conto di questa novità di coscienza possiamo comprendere il motivo della proibizione di rivelarlo alla gente come il Cristo, il Messia. La figura del Messia nella tradizione ebraica, e quindi nel pensiero dei discepoli, era quella di un condottiero con la corona e la spada, di un capo di eserciti, oppure come una recente esegesi ama presentarlo - di un agitatore, di un ribelle poco fortunato. La proibizione ai discepoli di rappresentarlo come il Messia condottiero, e la descrizione che fa di se stesso: dovrò affrontare la morte per risorgere, vogliono dire che Gesù Cristo non ha alcun mezzo di azione fisica; se l’avesse, o se volesse servirsene, non sarebbe «colui che getta la propria vita per veramente possederla» (Lc 9, 24). L’episodio evangelico riportato in Lc 9, 18-24 è uno di quegli avvenimenti della vita di Cristo che rimangono eterni, nella successiva storia della coscienza umana. Egli è ancora, in questo momento, in mezzo a noi suoi discepoli e ancora continua a chiederci: «Chi dite che io sia?» (Lc 9, 20). E continua a proibirci di nominarlo con delle figure di potenza terrena: non dite che io sono il Messia trionfatore e guida di
eserciti, prendete la vostra croce come io prendo la mia, gettate la vostra vita allo sbaraglio come io getto la mia, e comprenderete che io sono il senza Nome; ponete fine a tutte le designazioni potenti della mia realtà, comprenderete che con la mia venuta non inizia un nuovo regno terreno, ma un nuovo stato di coscienza, che distruggerà dalla vostra mente tutte le immagini acquisite del mistero divino e vi ricondurrà nell’infinita, incondizionata coscienza divina. Nell’incontro personale con l’annuncio evangelico i nomi con cui viene designato sono relativi, spesso impropri, in quanto esprimono, accanto al mistero essenziale, delle proiezioni di coscienze non pienamente illuminate; ciò che invece ci attrae e ci rende inquieti è l’invito ad andare oltre, il necessario morire per rinascere in forme di coscienza sempre più vaste e in un continuo superamento dei limiti. L’annuncio evangelico esige da noi un radicale cambiamento di coscienza, che, una volta iniziato, non si fermerà nel suo movimento di distruzione e di creazione finché non contempleremo faccia a faccia il mistero divino. Dare un nome al mistero della Parola eterna incarnata in Gesù Cristo è limitarlo, solidificarlo, togliergli ogni energia vitale. La Parola incarnata è l’assoluta coscienza divina in atto, che nel mondo sensibile appare come energia che distrugge per creare, crea per distruggere, il cui moto si placherà quando tutto e tutti saranno ritornati nell’unità della prima sorgente. Anche la Risurrezione è la distruzione del corpo fisico di Gesù e il suo passaggio a una diversa dimensione, dove anche la carne è trasfigurata in una libertà che non conosce nei limiti delle cose sensibili. Gesù Cristo è un Nome, anzi il Nome, il cui contenuto è di non poter essere espresso da nessun nome, la cui realtà ultima e inesprimibile costituisce il punto in cui convergono tutte le figure religiose e ove si depotenziano trasfigurandosi in lui. «Chi vede me, in questo rapporto essenziale, vede l’incommensurabile coscienza del Padre, e in essa vede anche il più ignorato dei fratelli nel suo valore esatto di creatura chiamata a raggiungere l’infinito di Dio». Quando questa illuminazione, l’incontro con il mistero del Figlio di Dio e del Figlio dell’Uomo, si compie, scende nell’umana coscienza un’onda di vita esaltante, che distrugge quanto la mente ha formulato con le sue misure limitanti, quanto la nostra inerzia ha potuto costruire in dottrine, istituzioni, ripetizioni di riti e di preghiere, di false evidenze, di idolatrie, e, con anima piena e libera, possiamo contemplare l’innominabile realtà di Dio e del suo Cristo.
L’INFINITA COSCIENZA 2 Giovanni Vannucci, «L’Infinita Coscienza» in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984;. 23 a del tempo ordinario - Anno A; Pag. 159-161.
Il brano evangelico di Mt 18, 15-20 richiede, per una giusta lettura, che venga letto, come diceva san Francesco, sine glossa, senza alcuna griglia interpretativa o esegetica. Noi cattolici siamo, da quasi due millenni, abituati a intendere questo testo attraverso una prassi giudiziaria invalsa nella nostra Chiesa. Quando un fratello, o un gruppo di fratelli, seguono una via non corretta, per richiamarli sul giusto sentiero la prassi vigente è quella di ammonire il deviante, di avvertirlo di fronte ad altri, infine di convocarlo davanti ai tribunali ecclesiastici. I primi due momenti ordinariamente vengono ignorati, la terza procedura non è sempre correttamente cristiana. La procedura giudiziaria indicata da Gesù Cristo alla sua assemblea termina con questa norma: «Se il deviante non ascolterà l’assemblea, consideralo come un pagano e un pubblicano». Per capire e applicare questa norma, in sé vaga e ambigua - può, infatti, significare l’espulsione dall’assemblea dell’imputato oppure un comportamento che ci è necessario scoprire nella vita di Gesù Cristo -, bisogna osservare il suo atteggiamento di fronte ai pagani e ai pubblicani. Una delle accuse ricorrenti degli avversari contro Gesù Cristo è stata quella di andare a mangiare con i peccatori e i pubblicani. «Perché il vostro maestro mangia con i peccatori e i pubblicani?», chiedono i Farisei ai discepoli; ad essi Cristo risponde: «Gli ammalati hanno bisogno del medico, non i sani. Sono venuto per i peccatori, non per i giusti» (Mt 9, 10-11). «Il Figlio dell’Uomo mangia e beve ed è l’amico dei pubblicani e dei peccatori» (ivi 11-14). Riguardo ai pagani basterebbe l’episodio della Cananea - (commentato nella meditazione: La grande fede) - per indicarci il rispetto e l’onestà con cui Cristo li avvicinava. Di un soldato pagano dice: «Non ho trovato in Israele una fede tanto vigorosa come la sua» (Mt 8, 10). Sul Calvario, il centurione e i soldati di guardia si dicono, stupefatti da quanto avveniva attorno a loro: «Costui è veramente Figlio di Dio» (Mt 27, 54). Tenendo conto dell’umanissimo e nuovo modo seguito da Gesù Cristo con i pagani e i pubblicani, riusciamo a comprendere il senso della norma finale della procedura processuale che ha affidato alla cristianità: dialoga prima con l’eretico e il peccatore; se non riesci, o non riuscite a convincerlo, amalo con quell’amore preferenziale che io ho avuto verso la pecorella smarrita e il figliol prodigo. Altrimenti «i pubblicani e le meretrici vi precederanno nel Regno» (Mt 21, 31). Come il medico non scomunica né
manda al rogo il paziente affetto da malattia ribelle, così il cristiano accresce il suo amore verso il fratello aberrante in proporzione alla sua ribelle pervicacia. La procedura processuale, tracciata dalle essenziali indicazioni di Cristo, manifesta chiaramente che i suoi discepoli non sono chiamati a organizzare tribunali, ad accendere roghi o a pronunciare solenni ostracismi, ma a intessere la grande catena dell’amore universale, dell’amore illimitato che attui nell’umana coscienza il grande amore del Padre. Non i piccoli tribunali, non gli ostracismi è venuto a portare agli uomini, Gesù Cristo, ma un cuore misteriosamente vivo, che palpita nel creato, e i cui battiti non sono compresi da quelli che ne sono l’oggetto. Un amore che non vuole il giudizio, la condanna, ma la misericordia; che non tollera le durezze dei sempre risorgenti puritanesimi, ma vuole cuori forti e ardenti in cammino per il raggiungimento di una mente, di un amore sempre più liberi e puri: liberi da chiusure, puri da istinti di potere. Amore più terribile della morte, più forte della vita: a esso Egli ha immolato la sua essenza divina, per esso si è annientato nella forma, attuando la piena conoscenza dell’amore e del dolore umano; per esso si è fatto tenebra per comprenderla e redimerla; è passato primo per la strada di tutti ed è rimasto sulla strada ad attendere tutti, anche quelli che in suo nome innalzano tribunali e scagliano condanne. Amore di Cristo, amore forte e combattivo, generoso e pronto; amore obbediente, servizievole e leale; amore che non rende deboli, ma fa forti i deboli; amore sincero che rende sinceri perché fuori di ogni egoicità e che esige la pienezza del contraccambio. Solo un Dio poteva portare sulla terra questo amore e, solo un Dio, poteva esigerne il contraccambio, rendendo la fragile natura umana capace di tanto. Gesù Cristo è venuto a rivelarci il «mistero da secoli velato»: Dio è amore, amore cosciente e appassionato, coscienza infinita e amore infinito, e insieme ci ha rivelato che la nostra piccola coscienza, il nostro limitato amore possono fiorire e dilatarsi nell’infinita coscienza e amore divini. Tenendo presente questa rivelazione dell’infinita coscienza-amore divina alla quale siamo chiamati, le parole «tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato nel cielo, tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche nel cielo», acquistano il loro luminoso e sconvolgente significato. Ciò che ciascuno di noi avrà tenuto legato, ostacolato, incatenato in una coscienza, sarà legato, ostacolato, incatenato nella universale coscienza-amore; qualunque cosa ciascuno di noi farà per sciogliere, liberare, svincolare una coscienza, sarà compiuto nella coscienza-amore universale. Questo è l’unico senso che possiamo dare a queste parole di Cristo, che si è identificato con gli ultimi degli uomini e perfino con i prodotti della terra, con il pane suo corpo, con il vino suo sangue. Non è un potere giudiziario che viene conferito da queste parole ai credenti, ma la rivelazione dell’unicità della coscienza-amore, e della responsabilità che ognuno di noi ha di fronte a essa: di liberarla, amando al di là di tutte le nostre durezze
egoistiche; di ritardarne la manifestazione, amando male e limitatamente. Quando due o tre sono uniti in questa coscienza-amore, nel nome, nella sostanza di Gesù, diverranno onnipotenti cooperatori di Dio, perché la nuova coscienza di Cristo è in loro. E più gradita al Signore la danza gioiosa di un popolo, che non il giudizio e la condanna di un peccatore.
L’ORA PRESENTE Giovanni Vannucci, «L’ora presente», 33a domenica del tempo ordinario - Anno B; in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 189-191.
«In quei giorni, dopo la tribolazione, il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore [...] Allora il Figlio dell’Uomo verrà sopra le nubi e riunirà i suoi eletti dai quattro venti » (Mc 13, 24-27). È ormai un luogo comune l’affermazione che, in questa tumultuosa fine del millennio, stiamo vivendo un’ora importante e tragica, non tanto per eventi apocalittici e catastrofici, di cui sentiamo l’incombenza, quanto per il declino di ogni reale valore, per cui l’uomo, pur vivendo nel miracolo della vita, il miracolo disprezza, e avendo molto di più che nelle passate generazioni, si sente miserabile come non mai. Ci sentiamo smarriti in un angosciante scetticismo che cerchiamo di colmare con riti religiosi e civili più o meno superstiziosi, con bricolages spiritualistici, con ritorni a vecchi miti o a posizioni di intransigente fideismo che ci fanno perdere quella chiarezza di intelligente coscienza che ci dovrebbe sorreggere. L’aspetto più rilevante del nostro tempo è quello di una contraddizione insolubile e spiegabile solo con l’avvenuta inversione del significato dell’avventura umana. Qual è il senso del nostro esistere? Quello di porre mano allo sviluppo reale della coscienza, o quello di moltiplicare il benessere terreno? L’ora presente, nonostante le affermazioni di tanti pessimisti, offre all’uomo maggiori possibilità di ascesa che non per il passato. Le applicazioni tecniche della scienza hanno semplificato la vita, dando a ognuno delle possibilità che ieri erano sognate solo nelle fiabe. Le comunicazioni, rapide come non mai, sono un mezzo di reciproca fecondazione per liberarci da ogni angustia di provincialismo, razziale e religioso; l’uomo scopre di essere uomo in ogni latitudine e sotto qualsiasi colore di pelle. Uomo con le stesse immense speranze, con gli stessi aneliti fondamentali, con le stesse aspirazioni alla bellezza, alla gioia, all’amore, alla pace. Constatazione questa che dovrebbe abolire ogni solitudine, far scomparire tutte le disperazioni, facendoci toccare con mano che ovunque esistono uomini di buona volontà, quali primizie di un mondo nuovo. Da dove viene la generale insoddisfazione, l’ansia, l’inquietudine che opprimono le anime e offuscano le menti? Come mai l’uomo odierno ha assai meno tempo che non mille anni or sono? E come mai, nonostante tutte le divulgazioni, sono così diffuse e l’erudita ignoranza e l’appiattimento dei valori morali? L’uomo vive a caso, ignora il senso dell’eterno, mostra di ignorare la gioia delle opere che non servono ai loro immediati costruttori, di seminare nella gioia ciò che
altri più tardi raccoglierà con gratitudine. L’uomo vive oggi la povertà nell’opulenza, e rischia di lasciare dietro di sé dilapidazione e miseria. In alcun luogo risplende il fuoco dell’entusiasmo, l’ideale presta il suo nome alle menti più abiette. In fondo a questo smarrimento troviamo la perdita del senso del divino, il sapore di Dio è stato oscurato dalle vitamine sintetiche, e la vita sta sempre più appiattendosi. Sembra che s’avvicini l’ora in cui popoli, nazioni, chiese, individui, chiamati a giudizio, dovranno rispondere dell’uso dei talenti loro affidati. Nella storia e nella leggenda ogni epoca è stata definita dal nome di un uomo. Con quale nome definiremo l’attuale? Non ci soccorre in essa, che dovrebbe definirsi cristiana, il nome stesso di Cristo, che pur presente, anche troppo, sulle labbra mortali, è del tutto avulso dalla vita umana. Se così non fosse avremmo compreso il nostro mandato di uomini, e opereremmo in conseguenza, e non saremmo curvi a cercare un benessere che non ci placa e che ci sfugge, ma avremmo le fronti levate a scrutare i misteri del cielo e a ricevere dall’alto il mandato dello Spirito Santo. Il brano evangelico di Mc 13, 26-27 ci ricorda una parola che non passerà: «Vedrete il Figlio dell’Uomo venire sopra le nubi e riunire i suoi eletti dai quattro venti». Non ricordiamo questa parola per creare delle psicosi di fine del mondo, ma per dirci, con tutta la forza che l’ora presente esige, che non fummo creati a immagine di Dio per sbranarci come lupi famelici; non abbiamo avuto in dote ragione e libertà per conoscere il bene, e appigliarci al male; non fummo riscattati dal sangue di Cristo per continuare a dissipare le nostre vite; non viviamo sulla terra per trasformarla in uno stadio di ludi gladiatori; l’uomo è sulla terra per trasfigurarla nella pienezza della vita. I tempi incalzano, i cicli precipitano verso il loro termine, la sera si avvicina; che ne sarà dell’opera di chi non ha compiuto il suo lavoro? Il Figlio dell’Uomo tornerà, avrà davanti a sé tutta l’umanità, spoglia di ogni privilegio terreno; ognuno avrà in mano il suo cuore di uomo, e verrà interrogato sull’Amore. Questa immagine è così densa di riflessioni e di severi esami! Ci troveremo davanti all’Amore assoluto, non solo al consumarsi dei tempi, ma sempre, in ogni momento della vita, siamo davanti a Lui! Quante volte lavoriamo per le strutture, le ideologie densificatesi attorno a Lui, e Lui, la verità immanente, dimentichiamo! Non perdiamo più tempo di quanto ne abbiamo perduto, scuotiamoci da ogni inerzia, pensiamo che ogni istante della nostra giornata è pesato e misurato dalla Verità e dalla Luce di Cristo. Questa immagine acuisca la nostra responsabilità di creature umane, e ci rammemori che l’ora presente non tornerà più per noi e non dobbiamo perderla.
L’ULTIMO TESTAMENTO
Giovanni Vannucci, «L’ultimo testamento», 34a domenica del tempo ordinario. Anno C, in La Vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985, Pag. 226-229.
L’ultima consegna che Cristo affida all’umana coscienza Sul Golgota Cristo è agonizzante sulla Croce: è la fine! Due delle sue ultime parole, riportate dall’evangelista Luca, esprimono l’ultima consegna che Cristo affida all’umana coscienza. La prima è l’invocazione: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34); l’altra è rivolta al ladrone pentito: «Oggi sarai con me in Paradiso!» (Lc 23, 43). La prima indica una misericordia, una comprensione verso i limiti della natura umana, e vieta ogni giudizio, ogni condanna sulle opere dell’uomo, anche le più mostruose; la seconda ci indica che mai dobbiamo disperare dell’uomo, ne di noi, ne di nessuno: le più incomprensibili strade possono condurre all’istante della suprema liberazione. Il ladro ha incontrato Cristo compiendo i suoi misfatti, come l’adultera ha ottenuto il perdono sbagliando nell’impostazione del suo amore. Queste due parole, ultimo testamento di Cristo alla nuova umanità, rivelano le qualità essenziali, indispensabili del suo Regno che non è di questo mondo violento e vendicativo. Comprensione e rispetto per gli errori dell’ignoranza umana, sospensione di ogni forma di giudizio e di condanna per le esperienze dolorose del male che ogni figlio dell’uomo può compiere. Esse sono le due componenti specifiche del glorioso Regno di cui Gesù Cristo è il Re.
Se pretendiamo di imporre Cristo, che senso ha per noi la Redenzione? Cosa c’è infatti dietro le intransigenze moralistiche, la volontà di imporre agli uomini dei particolari canoni di bene e di male, se non la sete di potere, l’imperiosa passione di dominare gli altri, considerati come pecorelle prive di discernimento e di senso morale? La sete del potere, la volontà di imperare sugli altri, anche se giustificate con teorie di investitura divina, costruiscono il regno di questo mondo, non il regno extramondano di Gesù Cristo. Se Gesù nel suo ultimo anelito chiede perdono per i suoi crocifissori, per il popolo ingrato da lui beneficato, per i sacerdoti che non seppero dire la parola di verità, per i dottori che non lasciavano entrare nel Tempio, per tutti gli infelici avvolti nella colpa suprema di uccidere l’innocenza, se introduce nel Paradiso il ladrone pentito senza chiedergli alcuna pena espiatoria, possiamo noi suoi fedeli promuovere il suo Regno con i tribunali, i giudizi inappellabili, gli autodafé, le inquisizioni, gli ostracismi, le condanne che spesso non tengono conto dei diritti di chi condanniamo? Possiamo aver ombra di rancore verso chi ci ha calpestato e spezzato il cuore? Se non
perdoniamo, se conserviamo rancore, se ricordiamo ciò che ci è stato fatto, che senso ha la Redenzione che dobbiamo diffondere a tutte le creature? Non è col difendere una particolare e contingente figura del regno di Cristo che possiamo annunciare la Buona Novella, ma col viverla nelle sue componenti di amore per tutte le creature, di compassione e di pietà per tutto ciò che esiste e vive. La posizione di difesa di una transitoria figura del regno di Dio ci rende combattivi, intransigenti, giudici e moralizzatori, e questo è il nostro male che ci incatena, ci lega, ci rende aridi e intolleranti. Le grandi energie di amore, di perdono, di pietà che sono scaturite dalle ultime parole di Cristo, rimangono sterili e infeconde finché rimaniamo chiusi nella nostra empietà e durezza. Come Cristo si è consumato nell’amore, i sudditi del suo Regno non hanno altra missione che quella di consumarsi nel più generoso amore. La celebrazione della festa di Cristo Re, che quest’anno cade dopo il vangelo della fine dei tempi (vedi meditazione precedente), ci presenta l’immagine del nuovo Re, mentre morente ci affida la misericordia e la pietà come eredità ultima ed essenziale e assume l’aspetto di un severo giudizio delle nostre opere come cittadini e costruttori del Regno extramondano.
Il giudizio di condanna su Cristo potrà essere cambiato Su Lui, il misericordioso, il pietoso, l’innocente, si riflettono la nostra violenza, i nostri insindacabili tribunali; i genocidi compiuti nel suo nome, i linciaggi morali vengono misurati e condannati. Il giudizio di condanna potrà essere cambiato solo quando un immenso amore abiterà nelle nostre anime, un infinito desiderio di reciproca pietà ci renderà mansueti e misericordiosi, quando soffriremo della sofferenza di chi ebbe la sventura di bagnare le mani nel sangue e nelle lacrime. Allora nel mondo ci saranno la pace e la giustizia, allora le sparse membra del Corpo divino saranno unite in un unico essere vivente e respirante, allora il Regno extramondano della misericordia e della pietà apparirà sulla terra. Liberati da tutti i sogni di potenza, di dominio, di intransigenza nel giudicare, di trionfalismo, avremo un gran vuoto intorno a noi e in questo vuoto una strana pace, la pace di Dio, la pace del regno di Dio in mezzo agli uomini. Il regno di Cristo non è di questo mondo, è vero, ma è compito dei cristiani di operare in maniera che il suo Regno possa avvenire. Regno che è spirito d’amore, di concordia, di reciproca remissione delle offese, di comprensione, di pietà. Davanti a Cristo che muore, immerso in una compassione e pietà immense, tutti abbiamo errato, tutti fummo colpevoli; perdoniamoci e perdoniamo, rivestiamoci della compassione di Cristo che nasce dalla conoscenza del dolore, dalla completa e assoluta comprensione verso tutto e verso tutti.
L’amore del nostro Re divino sia nelle nostre anime come la rugiada notturna che ravviva i fiori, e ci guidi a diffondere i suoi doni di misericordia e di pietà , ci aiuti a riconoscerlo nei nostri fratelli, ad amarlo nei nostri fratelli, a essere orgogliosi di servirlo nei nostri fratelli, perchÊ il suo Regno venga attuandosi nella nostra compassione e comprensione di uomini.
L’UMILE CAVALCATURA
Giovanni Vannucci, in La vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985; Domenica delle Palme, Anno C: «L’Umile cavalcatura». Pag. 70-72.
inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metaforico e quello razionale; il primo è il veicolo della religione, della poesia, il secondo della s
I modi con cui la Rivelazione si esprime sono delle Immagini, concrete e palpabili, dense di significati e stimolatrici di mutazioni di coscienza. Per questo nella lettura dei libri che trasmettono la Rivelazione, nella sua forma scritta, è necessario notare le immagini e meditare su di esse, tenendo conto di tutto l’insieme culturale nel quale sono state formulate. Nel Vangelo della domenica delle Palme si hanno queste immagini: Gesù sale a Gerusalemme cavalcando il puledro di un asino, i discepoli e la folla l’acclamano, i farisei, i custodi della tradizione vetero-testamentaria, sono scandalizzati, ed esortano il Maestro a far tacere l’entusiasmo del popolo; Gesù risponde: «Non potete fermare l’avanzamento della Rivelazione; se gli uomini tacessero, le pietre l’annuncerebbero» (cfr. Lc 19, 28-40). L’immagine di Gesù che cavalca l’asino colpisce la nostra immaginazione e la fa riflettere. La prima spiegazione che ci soccorre è quella consueta, a tinte sentimentali: il Messia ha scelto l’umile cavalcatura per esprimere la mitezza, l’aspetto dimesso del Regno che avrebbe instaurato tra gli uomini. E questo il significato che dava la folla alla figura del Messia cavalcante l’asinello? O piuttosto aveva compreso qualcosa di più vasto e di più profondo nel gesto di Cristo? I Greci presenti all’ingresso trionfale di Gesù avranno sicuramente pensato all’asino, animale sacro, che portava sul dorso la culla di Dioniso e che era collegato al culto della Grande Madre. Nel vangelo di Giovanni è riferito, nella circostanza dell’ingresso a Gerusalemme, il colloquio di Gesù con i Greci presenti, e i termini usati da Gesù alludono ai Misteri di Dioniso e Demetra: «Se il seme di grano non muore non da frutto» (Gv 12, 24). Gesù che cavalca l’asinello si rivela ai Greci come il celeste Dioniso dei Misteri, agli Ebrei come il vero, spirituale non militare, Messia che introduce nella religiosità virile vetero-testamentaria della Giustizia e del Giudizio, le qualità femminili della divinità: la misericordia e l’amore appassionato per tutto ciò che vive. La reazione dei farisei, in questa prospettiva, diventa più comprensibile; non sono mossi da gelosia ma da un’oscura intuizione che qualcosa di nuovo, di
sconvolgente, di non ortodosso stava avvenendo in quello strano e rumoroso corteo. L’ingresso di Gesù in Gerusalemme è l’ingresso nel grande, dolente utero della natura terrena; si può dire che Gesù, in questa sua giornata trionfale, nasce davvero, per davvero morire! Gesù è il portatore dei Misteri divini, il portatore dello Spirito che distrugge e rinnova, rinnova distruggendo, è l’ebbrezza dionisiaca della creazione che avanza trionfale verso il suo compimento, perseguendo un percorso che è segnato da un’incessante pulsazione di morte e di risurrezione, aborrente ogni solidificazione e staticità. E in questo sta l’aspetto tragico, dionisiaco del Cristianesimo: l’uomo in Dio deve negare se stesso per vivere la vera vita. L’opera misteriosa dello Spirito, anche se invocata dalla materia, è esiziale alle forme, che reagiscono, si difendono e offendono. I farisei non erano certo dei criminali, dei malvagi; chiusi nella loro formale giustizia, difesi dal baluardo di una tradizione cristallizzata, non potevano vedere nella sconfinata novità di Cristo nulla di più di una ingiuria alla legge, di una aperta professione di anarchia. La virtù del mondo si opporrà sempre alla virtù dello Spirito, l’onestà della forma rifiuterà sempre la verità dell’idea. La giustizia degli uomini, in netta opposizione a quella di Dio, errerà per non volere errare, peccherà per voler essere giusta. Questa lotta affiorerà sempre: fra Cristo, distruttore delle forme in nome della vita, e Satana, consolidatore delle forme, l’impegno e la lotta sono assoluti. Contro l’escatologia cristiana Satana susciterà il mondo; e quando la Chiesa si sarà affermata e vorrà riposare, offrendosi alle lusinghe del successo, Cristo susciterà gli entusiasmi degli eresiarchi e la costringerà a combattere contro se stessa per debellare il diavolo dell’ignavia, dell’acquiescenza, della tiepidezza, del pietismo.
L’UNITÀ DELL’AMORE Giovanni Vannucci, «L’unità dell’amore» in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984;. 30 a domenica del tempo ordinario - Anno A; Pag. 180-182.
Cristo ha portato la Legge alla sua perfetta maturazione dischiudendo alla coscienza l’immenso orizzonte in cui l’amore di Dio, l’Invisibile, e del prossimo, il Visibile, si unificano in un’unica espressione nel cuore dell’uomo. «Ama il Signore tuo Dio con tutto te stesso; ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22, 37-39). Al comandamento e, in conseguenza, all’impulso di Cristo, il cuore umano oppone due formidabili resistenze: «l’egoismo», nelle sue molteplici sfumature, e «la grettezza morale», cioè la mancanza di generosità nelle piccole e grandi cose. L’egoismo è il primo nemico dell’amor di Dio, chi ama appassionatamente se stesso non può logicamente amare Dio: chi ama cerca sempre cosa può dare all’amato; l’egoista si domanda sempre cosa può ancora ricevere. L’amore verso l’Invisibile è un amore del tutto altruista. Chi ama Dio vuole unicamente piacere a Lui solo, per piacere a Dio niente è mai troppo duro da compiere, troppo amaro da sacrificare, e dona se stesso totalmente, senza mezze misure, senza meschine preoccupazioni. Per lui amare è tutto, che importa se il suo amore sarà corrisposto o meno? Egli è pago d’amare con tutto il cuore, con tutte le sue capacità; a questa divina ebbrezza mai arriverà l’egoista, in lui la preoccupazione di se stesso ostacolerà ogni slancio. In lui l’amore di Dio diverrà timore; la volontà di ascesa si trasformerà in ricerca di meriti; il pentimento delle colpe commesse si muterà in penosa attrizione di rimorso, causata dalla paura; l’Iddio misericordioso diverrà il Dio tremendo; l’egoista, misurando sul suo metro lo stesso Dio, verrà a trovarsi nelle condizioni di antagonista; per l’egoista una sola via è possibile: quella del più nero pessimismo e scetticismo. Ripiegato su se stesso, non pecca, ma solo per non rischiare, perciò non acquisisce neppure del merito. Potrà osservare tutti i dieci comandamenti di Mosè, ma gli sarà impossibile aprirsi al comandamento dell’amore, perché il suo cuore è colmo solo della preoccupazione di sé. Infinite sono le sfumature dell’egoismo: si nascondono in ogni crepa della coscienza, si valgono di ogni farisaica impostura; chi ama sa scoprirle in se stesso e spietatamente le distrugge. Una delle più pericolose maschere dell’egoismo è il vittimismo. Chi passa il tempo a compiangersi, chi va in cerca di motivi di malcontento, chi si sente il centro d’attrazione di ogni possibile disgrazia, non raggiungerà mai l’amore. Per lui non esiste alcuna possibilità di volo; ripiegato in se stesso, autoirrorantesi di lacrime, si ritiene oggetto dell’universale interesse e non capisce come la vita lo sorpassi in corsa.
Se l’egoismo si oppone all’amor di Dio, la grettezza morale si oppone a quello del prossimo: «Ama il prossimo tuo come te stesso». La farisaica domanda sorge subito: «Chi è il mio prossimo?». L’egoista è anche gretto, ingeneroso, non può amare Dio, perché troppo occupato ad amare se stesso; non può amare il prossimo suo, perché non ha prossimo. Chiuso nella torre di avorio delle sue personali preoccupazioni, può giungere alla falsa generosità dell’elemosina, traendo da essa un piacere, ma non perché senta il bisogno del prossimo come un suo bisogno, come una diretta relazione di Carne e di Charitas. Il gretto può essere formalmente virtuoso, austero puritano, ipocritamente religioso, non solo per la stima che gli altri possono avere di lui, ma per un suo interiore compiacimento. A lui sono ignote tutte le generosità, le coraggiose imprese, tutti i rischi. L’uomo è chiamato ad attuare l’amore, non il timore. Amore giocondo verso l’invisibile Iddio, senza sottigliezze metafisiche, amore grato per ogni cosa bella, per ogni cosa buona, amore sereno e fiducioso, paziente e generoso verso tutte le forme di vita, non esclusa la propria, considerata come una potenza spirituale in ascesa; amore forte e coraggioso che trae dalle avversità l’alimento per la sua nutrizione e per il suo sviluppo; amore naturale che non costa sforzo, che non si esaurisce nel dare, ma trae dalla sua stessa grandezza sempre nuovi doni. L’uomo si matura sotto il raggio dell’amore, come il frutto sotto quello del sole. Il «siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli» non è più un poetico dolcissimo comandamento, ma diviene un semplice modo di essere nella vita. Vinto l’egoismo, annullata la grettezza nel raggio di una meravigliosa luce spirituale, l’«altro», l’estraneo» diviene totalmente noi stessi, perché «nell’Amore» siamo nell’altro, chiunque egli sia. L’altruismo si estende a tutta la creazione; non si può amar poco perché la natura dell’amore è di non aver limiti. L’altruista ama con generosità e, non curandosi di un ricambio d’amore, innalza la sua canzone nel cielo come l’usignolo solitario pago di cantare. Quando l’amore si accende in un cuore, esso lo invade tutto e finisce per alimentarsi di se stesso. Quando l’uomo avrà fatto dell’amore verso Dio e dell’amore per il prossimo un solo amore, l’umanità realizzerà se stessa nella pienezza della Luce. Ogni amore che non saldi i due amori in un solo amore è limitante, soffocante e null’altro è se non amore di sé. Quando diciamo d’amare e, in nome di quest’amore, violiamo la personalità dell’altro, consumiamo solo una rapina, anche se col beneplacito del rapinato. Afferriamo per le ali la farfalla, invece di contemplarla, con amore, libera sui fiori; imprigioniamo in gabbie, non importa se d’oro, gli usignoli creati per la dolcezza delle notti. La prima lettera dell’amore si chiama «libertà»; Dio amandoci ci dona questa libertà, totalmente; ci dà tutto, si affida a noi senza difesa, non ci impone il suo amore, lo mette alla nostra portata, attendendo che impariamo a viverlo per la nostra gioia e la gioia di tutti gli esseri. La conoscenza di tutte le conoscenze, la chiave di tutte le chiavi è questa: conoscere nel proprio mistero il mistero che tortura l’anima del fratello che ci siede
accanto; fare della tortura del nostro fratello la nostra tortura, fare della gioia del nostro fratello la nostra gioia. Allora la divina realtà dell’amore trionfante irradierà le coscienze, non vi sarà più né mio né tuo, né padrone né servo, né oppresso né oppressore, non vi sarà più il male perché il male è uno solo: quello che soffre l’altro e che tu, per nessuna cosa al mondo, vorresti causare né causerai.
inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metaforico e quello razionale; il primo è il veicolo della religione, della poesia, il s inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor inguaggio umano si differenzia in due forme distinte e complementari: il linguaggio metafor