Testi di
padre Giovanni
Vannucci
vol. 4 di 6
LA CROCE E LA CHIESA Giovanni Vannucci, 02a domenica di Quaresima - Anno B «La Croce e la Chiesa», in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 49-52.
La seconda domenica di Quaresima, nelle tre letture, pone al centro della riflessione cristiana un tema che abitualmente viene rimosso: la necessità della sofferenza per giungere alla Verità. Abramo per vivere la sua fede deve immolare il figlio Isacco (prima lettura: Gen 22, 1-18); Dio non ha risparmiato il proprio Figlio per risvegliare alla vita la coscienza umana (seconda lettura: Rm 8, 31-34); Cristo, dopo la sua Trasfigurazione, toglie ai tre discepoli, che hanno assistito alla rivelazione della sua luminosa natura, ogni illusione trionfalistica dicendo: «Non dite a nessuno ciò che avete visto, se non dopo aver superato il trauma della mia morte» (terza lettura: Mc 9, 2-10). Non dobbiamo tirarci indietro: alla realtà cristiana è unita l’idea dell’immolazione. Cristo non è il figlio della gioia, anche se porta nelle mani la gemma eterna della felicità, è il redentore e la vittima espiatrice; ciò che lo consacra sacerdote in eterno, lo consacra vittima in eterno. Egli è lo Spirito che si fa materia per dar vita alla materia; è la luce che scende nelle tenebre per illuminarle; Egli placa le belve con il suono della sua lira, non placa le violente passioni umane che lo sbraneranno per appropriarsi della sua luce e della sua vita. La realtà di Cristo è legata a quella dell’immolazione, e attraverso il sacrificio si trasforma in realtà di vita e viene a legarsi in tal maniera con quella di morte e risurrezione. Cristo è la vita che contamina la morte di se stesso, per farla vivente, perché lo Spirito è la vita della materia che ritornerà spirito quando Lui l’avrà violentata e costretta a partorire la sua forma più bella e perfetta: l’Uomo vero. La figura di Abramo, che porta sul monte il proprio figlio per immolarlo in un gesto di fede assoluta, costituisce una delle numerose figure che hanno indicato la dura necessità dell’immolazione per incontrare la Verità. Quella Verità che è al di là delle vedute personali e collettive; al di là di tutte le possibili interpretazioni e sistemazioni; al di là di ogni riduzione dottrinale e sociale. È significativa la menzione della morte, della Croce nel giorno della lettura dell’episodio della Trasfigurazione. La nostra natura si sarebbe aspettata, attorno a Cristo sfolgorante di luce, la visione di un imponente e gioioso corteggio di tutte le creature che nella carne luminosa del Redentore avrebbero sentito il compimento della loro travagliata esistenza. Sì, c’è la carne luminosa di Cristo, ma c’è anche la dolorosa figura di Abramo che sta immolando il figlio e le parole di san Paolo: «Dio non
ha risparmiato il proprio Figlio» (Rm 8, 32); e l’interrogazione dei tre apostoli prescelti: «Si domandavano cosa volesse dire risuscitare dai morti» (Mc 9, 10). L’ombra della morte, che è il contrappunto della Trasfigurazione, ci .rivela l’aspetto profondo e sconvolgente della Rivelazione, che è un incessante andare avanti della coscienza attraverso una pulsazione di vita-morte-vita. Partecipare a questa Rivelazione permette la manifestazione, in noi, della vita divina, l’incarnazione della Parola eterna nella nostra umile esistenza quotidiana. Rivelazione vivente che è oltre le immagini esteriori, fatti o oggetti storici; oltre quelle interiori: pensieri, dottrine, sentimenti, con le quali la mente cerca di esprimerla, avvolgendola inevitabilmente con le sue ombre limitatrici. Cristo deve morire per risorgere, la coscienza umana deve trovare la vita perdendola, e in questo ci è offerta l’unica possibilità di far vivere in noi la vita vera. L’episodio della Trasfigurazione, considerato dal punto di vista della Croce, si dischiude rivelandoci le costanti della nuova umanità di cui Cristo è la sorgente. L’Immagine della Trasfigurazione ha due Triadi, una celeste, archetipale: Mosè, Elia, Gesù Cristo; l’altra speculare, terrena: Pietro, Giacomo, Giovanni. Mosè, la Parola strutturata nella Legge e nell’Organizzazione; Elia, la Parola profetica che sgorga imprevedibile, il cui compito è di impedire la cristallizzazione delle istituzioni legali; Gesù Cristo, la Parola incarnata che è il frutto, la sintesi dell’incontro armonioso della Lettera e dello Spirito, della Legge e del Profetismo. L’immagine speculare dell’archetipo celeste, Pietro, Giacomo, Giovanni, costituisce la rivelazione delle componenti della Chiesa: l’energia strutturante e legalistica: Pietro; l’annuncio profetico: Giacomo; la sintesi che ambedue trasfigura in una superiore verità: Giovanni. Pietro, il punto d’origine della tradizione episcopale, è il primo che formula in espressioni razionali il mistero di Cristo: «Tu sei il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16); è lui che propone di costruire sul Tabor tre tende (Mt 17, 4); è lui che si ribella alla Croce e riceve da Cristo il titolo di Satana (Mt 16, 21-23); è lui che recalcitra all’apertura universalistica del messaggio cristiano proposta da Paolo (Gal 2, 14); è lui che rinnega e non è presente sul Calvario, e la sua missione è legata al tempo (Gv 21, 22). Giacomo, il primo apostolo martire ucciso da Erode Agrippa (At 12, 2), è il testimone dell’amore ardente e appassionato per la Verità cristiana. Non ha lasciato né parole, né scritti, solo l’esempio di una fedeltà silenziosa e totale che gli ha fatto accettare il martirio. È il rappresentante della tradizione profetica degli umili e dei silenziosi che, senza preoccuparsi di inserirsi nelle disquisizioni dottrinali del loro tempo o di compiere gesta clamorose, vivono con semplice e invitta fedeltà la verità cristiana. L’anima religiosa del popolo ha espresso la sua simpatia per
l’apostolo Giacomo nei pellegrinaggi, numerosi e frequenti, a Compostella in Galizia ove dal secolo VII si riteneva fosse la sua tomba. Giovanni, l’Apostolo prediletto, l’annunciatore dell’Incarnazione del Verbo, l’unico dei dodici che seguì Cristo fino al Calvario, l’apostolo che addita a Pietro il Risorto, sulla riva del lago (Gv 21, 7), l’apostolo che dovrà rimanere fino al ritorno di Cristo (Gv 21, 23). Pietro è la Legge e l’enunciazione dottrinale, Giacomo la santità fedele, Giovanni il fiore dell’incontro di ambedue in una conoscenza resa feconda dalla santità, e di una santità resa credibile dalla conoscenza. Pietro, la Legge e la Dottrina, deve morire nella santità, la santità è chiamata a superare il rischio dell’individualismo settario, a morire nella Legge e nella Dottrina. La Legge e la Dottrina, prive della santità, si perdono sul sentiero dei dogmatismi; la santità, priva delle conoscenze, conduce al fanatismo; il Discepolo prediletto è il frutto dell’armonioso incontro di ambedue.
LA FEDE E IL TEMPIO Giovanni Vannucci, «La fede e il tempio» in La vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985;. 28a del tempo ordinario - Anno C; Pag. 203-204.
Il testo evangelico di Lc 17, 11-19 riprende il tema del rapporto tra il contenuto e la forma della religiosità; tra lo spirito e le prescrizioni liturgiche; tra Cristo, Tempio non costruito da mano d’uomo, e il tempio, struttura e costruzione dell’uomo. L’azione si svolge tra Cristo e il sacerdozio ufficiale del tempio ebraico; i dieci lebbrosi in cammino tra questi due poli sono la figura di noi uomini. Guariti da Cristo, ricevono l’ordine di presentarsi al sacerdozio ufficiale per le purificazioni e il riconoscimento della guarigione. Nove, dimenticando l’autore della guarigione, si perdono nel tempio e nel suo cerimoniale. Uno solo ritorna a Cristo: il Samaritano, l’eretico che non si trovava a suo agio nel tempio di Gerusalemme, ma il cui cuore sensibile e grato lo riconduce a Cristo, a Colui che salva mediante la fede in lui riposta. «E Gesù gli disse: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!”» (Lc 17, 19). Noi cristiani, chiamati a edificare il Tempio dello Spirito, mai dobbiamo perder di vista l’estrema delicatezza del nostro servizio religioso. Le strutture comunitarie, rituali, ecclesiali, che danno forma e visibilità alla edificazione del Tempio dello Spirito, nascono da Cristo, dalla sua opera salvifica, e devono condurre a Cristo, alla sua Verità e Santità. Cristo è la Verità: da lui l’uomo è liberato dalla lebbra dell’errore, del falso, dell’egocentrismo, del volere negativo, e, attraverso le strutture che traducono nel tempo l’anelito cristiano alla pienezza della Verità, l’uomo deve essere aiutato a raggiungere la Verità sempre più vasta, più illimitata, più liberatrice. Cristo è la Verità che ci fa liberi; le forme che essa assume nel mondo dei fenomeni devono essere cosi sature dell’ansia liberatrice di Cristo da aiutare l’uomo a passare di liberazione in liberazione, fino a riposare in quella libertà dove il cuore non ha più timore, la coscienza non sperimenta più oppressioni e la mente esulta per aver trovato la terra che la placa nella luce gioiosa di tutto il vero. Com’è espressivo l’episodio evangelico dei dieci lebbrosi! Cristo, rimanendo fuori del tempio, costruito da mano d’uomo, guarisce l’uomo affetto dalla lebbra, lo invia nel tempio e lo attende fuori del tempio. Ritorna a Cristo colui che accetta il rito in virtù della parola di Cristo, e nell’ambito del tempio sente allargarsi il cuore per la riconoscenza e l’amore verso Colui che l’ha risanato, e per questo riceve la grande parola: «Torna nella vita; la tua fede ti ha dato la salvezza!» (Lc 17, 19). Le strutture visibili della Realtà cristiana non sono un fine, ma un mezzo, la forma che nasce da Cristo e che a lui conduce. Il Sacramento, la Dottrina, la struttura
temporale dell’Ecclesia cristiana nascono da Cristo, e a lui devono ricondurre l’uomo, arricchito di gratitudine e di amore. L’uomo, elevato dalla nuova vita, trasmessagli da Cristo e dal Sacramento, ritorna nell’esistenza dei mondi irredenti per disseminarvi la luce e la vita di quella fede che lo ha salvato e che è germe di Redenzione per tutti. La fede ha la sua manifestazione umana nel cuore redento in un amore nuovo e in una gratitudine nuova.
LA FEDE NEL RISORTO Giovanni Vannucci, «La fede nel Risorto» - 02 a domenica di Pasqua - Anno B; in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 71-73.
Percorrendo gli scritti evangelici e cercando di cogliere le differenze che intercorrono tra il comportamento di Gesù Cristo prima della morte e quello dopo la risurrezione, rimaniamo colpiti dall’umanità calda e misericordiosa del Risorto. Risalendo dagli inferi alla terra, ci appare come la coscienza di chi ha assunto quanto negli abissi era contenuto e, avendone sperimentata l’angosciante desolazione, l’ha risolta in un amore più intenso e consapevole. Egli entrò nel cenacolo chiuso, come un vero spirito; la densità della sua carne risorta era diversa dalla densità della carne non risorta. I più puri e ingenui accettano l’apparizione del Risorto semplicemente come un dato di fatto; i più complicati lo obbligano a un’opera di rivelazione; chi non si aspettava d’incontrarlo lungo la strada lo prende per un viandante qualunque; Tommaso, che invece l’attendeva suo malgrado, gli chiede la più elementare delle prove, quella di toccare le piaghe delle mani e del costato: « Non crederò se non metterò la mano nelle sue piaghe » (Gv 20, 25). E Cristo appare nel Cenacolo con la sua carne risorta, Tommaso corre a toccarlo sicuro di sé, incontra la carne piagata, sfiora le ferite con le dita; crede a ciò che vede, a ciò che tocca. Aveva rifiutato la testimonianza, deluso la fiducia degli altri, adesso crede perché tocca, perché vede. Cristo prova una pena profonda per il discepolo incredulo, con dolore accetta un dato di fatto: Tommaso non crede allo spirito, crede alla materia; non alla verità sempre enunciata, ma alla testimonianza dei sensi; non ciò che è, « è », ma ciò che sembra « è »! Cristo comprende che Satana, sconfitto negli inferi, lo attacca nell’anima e nella mente di un suo discepolo. Tommaso è solo un piccolo uomo che crede a ciò che vede e non indaga oltre. È abituato a idee solide: ciò che gli occhi vedono e le mani toccano è vero. Cristo lo ammonisce: « Tommaso, tu credi a ciò che hai veduto! Beato chi crederà a ciò che non vede! » (Gv 20, 29). Cioè: beato chi attua la conoscenza fuori di ogni forma corporea; beato chi vede con gli occhi dello spirito e non con quelli della materia! Sta di fatto che gli uomini evitano volentieri ogni sforzo spirituale, credere a ciò che si vede è più facile che credere a ciò che s’intuisce. Realizzare in un piano di aderenza fisica, sembra più facile che realizzare in un piano di aderenza spirituale. La gran parte degli uomini si accontenta della carne, ma ciò non significa che la scelta sia
la migliore. Cristo lo comprende e ne soffre; quando verrà qualcuno che attuerà nello spirito la pienezza della fede? Sul Calvario un ladrone l’aveva accettato e creduto; dopo il Calvario, nella realtà della vita terrena, un discepolo lo pone in dubbio, ma non dubita di Lui in quanto spirito e dottrina, dubita di Lui in quanto carne e sangue; non crede a Lui come spirito e dottrina, crede a Lui come corpo materiale. Il lungo insegnamento degli anni terreni naufraga davanti a un piccolo fatto che impegna la concretezza di una mente davanti a una realtà che la trascende: « Beato chi crede senza aver veduto ». Credere senza vedere è possibile soltanto attraverso un profondo e intimo convincimento della mente; chi potrà accogliere l’insegnamento, che Tommaso in quel momento rifiutava, potrà accogliere la testimonianza dello Spirito che non avverrà mai nel piano della materia concreta, ma nell’attuarsi cosciente di uno stato spirituale. Lo stato di coscienza cristiana non può essere raggiunto in un piano di densità corporea, ma solo puntando alle più sottili facoltà dell’anima. Per anni Cristo aveva istruito i suoi discepoli cercando di costruire nella loro mente dei supporti al pensiero spirituale, aveva. spiegato le Scritture, chiarito i Profeti, rivelato i misteri; per anni aveva parlato di un Dio che è amore e che è spirito, che è Padre dell’uomo perché in lui ha inserito una scintilla della sua luce. Ora per ora, vivendo e operando, Egli aveva testimoniato di se stesso, aveva preparato le menti a dischiudersi a una fede trascendente, le aveva iniziate ai colloqui sottili con l’Invisibile. Risorgendo dalla morte, manifestandosi nella sua gloriosa corporeità, confermò il lungo insegnamento; ora invece constatava che i discepoli credevano grossolanamente a ciò che vedevano e non indagavano oltre. Come fanciulli incantati da una fiaba, gioivano di aver vicino il corpo che amavano, senza voler vedere o intendere altro. Di tutte le possibilità di risurrezione dalla morte essi capivano solo quella del corpo vivente e respirante, che avevano sorretto senza vita e deposto nel sepolcro, e che ora stava davanti a loro. Di fronte ai discepoli, ancora legati alla mente concreta bisognosa di segni sensibili, Gesù non si perde in ragionamenti, ma comunica loro lo Spirito Santo: « Ricevete lo Spirito Santo, a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi li riterrete saranno ritenuti » (Gv 20, 22-23). E nello Spirito Santo Cristo avrebbe continuato la sua discesa negli inferi della coscienza umana, fino a quando in essa una particella mentale si protenderà verso l’infinito amore. Lo Spirito Santo si sarebbe espresso nell’anima dei discepoli, presenti, e futuri, con un insopprimibile bisogno di trasmettere il perdono divino alle coscienze ancora avvolte nelle tenebre. Si sarebbe comunicato non come un potere di giudizio discriminante, ma come un dovere impellente.
L’anima del discepolo che vive nel fuoco dello Spirito comunica le energie che liberano le anime oppresse dal male; se in lui lo Spirito non è un fuoco divoratore, il peccato rimarrà in lui e nelle coscienze che dovrebbe illuminare.
LA GENERAZIONE DEI FIGLI DI DIO Giovanni Vannucci, «La generazione dei Figli di Dio» in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; 02 a domenica dopo Natale Anno A; Pag. 34-37.
Il primo capitolo dell’evangelista Giovanni (Gv 1, 1-18) potrebbe esser definito: la generazione eterna dei figli di Dio. Leggendo attentamente possiamo vedere che in esso l’evangelista dopo aver parlato dell’eternità del Verbo, della Parola di Dio: «Il Verbo era in Dio», indica la sua discesa nel tenebroso caos di tutte le esistenze possibili. Il Verbo potenza creatrice vi discende: «tutto per Lui fu fatto», come datore della vita, come portatore di luce: «in Lui era la vita, e la vita era luce» luce non mista di tenebra. Le creature originariamente sono tenebra, in esse la discesa del Verbo risveglia la vita, vita che nella coscienza umana diventa luce: «la vita era la luce degli uomini». L’umana coscienza è, in se stessa, tenebra, accogliendo la luce diviene luce: «la luce vera che, venendo nel mondo, illumina ogni uomo». Ma quando respinge la luce e sostituisce se stessa alla luce, oscura maggiormente la propria tenebra. L’umanità si divide così in due schiere: quella che accoglie e quella che respinge la luce. L’accoglienza della luce del Verbo è il concepimento dei figli di Dio: «la Parola si è fatta carne» e la carne è divenuta il tabernacolo che l’accoglie, e in essa si trasfigura. L’esistenza concreta è un velame intessuto attorno a una particella di luce divina, essa si rivela in ogni coscienza come qualità, possibilità, archetipo di un’idea divina. La coscienza singola ha l’unico ed essenziale compito di sprigionare in sé tutto lo splendore della scintilla divina; allora, e allora solamente, diventa capace di deporre i velami esistenziali per ascendere alla natura dei figli di Dio. Unificandoci col Verbo incarnato presente e operoso nel tabernacolo della carne, Dio ci genera nella qualità di figli suoi: generando in noi l’unico suo figlio eterno, incarnandosi in noi come si è incarnato in Gesù. Allora l’essenza della coscienza individuale che è un niente esistenziale, si accorda con l’archetipo divino di cui essa è un riflesso. Il contenuto creato, per un mistero davanti al quale la ragione rimane muta, viene a contenere il contenente creatore. La creatura consapevole della sua tenebrosità si abbandona alla luce che in lei è, ma che non viene da lei, depone le spoglie tenebrose e raggiunge lo splendore della luce che in lei si sprigiona conferendole il potere di essere figlia di Dio. Può contemplare l’esistenza nell’unità del «principio», nell’istante di una visione che trascende e riunifica tutti i tempi e tutti gli spazi. Agli inizi c’è un unico sole che si riflette in un unico specchio; nell’istante successivo lo specchio viene frantumato e l’immagine del sole si moltiplica nei frammenti, un unico sole e miriadi di sue immagini. Un unico sole, la Parola eterna
creatrice, il Nome che è al di sopra di tutti gli altri nomi, un’unica sorgente di luce e uno sterminato stuolo di frammenti che ne contengono le particelle. Quando il frammento prende coscienza che la luce che ha in sé è il riverbero del sole unico ed eterno, inizia il cammino della sua nascita di figlio di Dio. La coscienza umana sente se stessa come espressione della Parola eterna, scopre la sua incarnazione come iniziazione alla conoscenza del Verbo, affronta le sue vicende come una necessaria via di ascesa e di spogliazione dalle densificazioni tenebrose. Il mistero dell’esistenza si rivelerà come la continua ripetizione della passione del Verbo incarnato, che agonizza nella materia perché nasca allo Spirito. Nasce una differente visione della vicenda umana; a tutte le dotte ipotesi sulle origini della creazione, della vita, della coscienza, essa aggiunge la verità che il Pensiero divino ha assunto la carne, rivelando il senso del nascere e del morire, del soffrire e del gioire di noi uomini: l’ascesa dei figli del sangue e della carne alla grandezza dei figli di Dio. Ascesa indipendente dalle contingenze storiche in cui l’uomo vive, e che è una realtà vitale inerente al destino sovrumano dell’umanità, e per chiunque riesca a saldare l’uomo terrestre all’uomo luminoso che è in lui, l’ascesa diventa una realtà vivente come la spiga matura è la realtà vivente del chicco di grano seminato nella zolla. L’errore dell’uomo è di credersi compiuto quando ha raggiunto la sua maturità fisica e mentale, in realtà ha portato a compimento il supporto perituro dell’Essere imperituro che in lui vuole maturare. La Parola eterna discesa nella carne è una realtà positiva, sperimentabile come energia d’ascesa, come fuoco di trascendenza che fu acceso nell’incontro dell’Eterno col tempo, dello Spirito con la materia, in Gesù Cristo Figlio di Dio e dell’Uomo. La Parola incarnata si esprime in noi con quanto in noi c’è di più puro, distrugge in noi quanto da lei non può essere informato, e quanto di se stessa informa rende onnipotente. Quando in noi matura, ci dona la fede vera, quella fede che muove le montagne, che di nulla ha paura. Quella fede che osa tutto perché certezza che in ogni cosa la Parola è presente e che la sua presenza sorregge e spinge ogni cosa verso il bene supremo. Quando questa fede si accende, allora in noi è come una primavera di spirito, viviamo della Parola che in noi s’incarna ed essa vive di noi. Allora ci è dolce ogni rinuncia a quanto in noi non è Parola e Luce. Perché abbiamo bisogno di credere nel destino sovrumano dell’uomo per cessare la schiavitù dell’esistere, abbiamo bisogno di sentirci strumenti di un regno sovrumano, di sentire che la luce che portiamo riflessa, nel breve frammento del nostro specchio, è pur sempre quella che vi ha impresso il Sole eterno, e ad essa vogliamo assomigliare!
LA GRANDE FEDE Giovanni Vannucci, «La grande fede» in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984;. 20a del tempo ordinario - Anno A; Pag. 147-149.
L’episodio che leggiamo in Mt 15 , 21-28 è carico di intensa e illuminante drammaticità. Da una parte c’è Cristo, Colui che compie la millenaria attesa del suo popolo, vissuto nella sofferenza, nella dispersione, ma mantenuto compatto dalla certezza che da lui sarebbe spuntato il Germe, il Salvatore; dall’altra un’umile donna della terra di Canan, che forse nulla sa della religiosità del popolo ebraico, con il quale la sua nazione era in lotta, politica e religiosa, da secoli. Essa è angosciata dalla grave malattia della figlia; sotto la sferza della disperazione, superando tutte le ostilità di popolo e di religione, ricorre a Cristo, implorando la guarigione. La prima risposta che riceve è dura e provocatrice: «Sono stato inviato alle pecorelle perdute della casa d’Israele; non è bene togliere il pane ai figli e darlo ai cagnolini». La risposta di Gesù porta la richiesta della Cananea su un piano differente: lei domandava la guarigione fisica della figlia, lui risponde di essere stato inviato a sanare lo smarrimento delle pecorelle del popolo d’Israele. La donna comprende e la sua risposta è una confessione di fede: «I cagnolini si nutrono delle briciole che cadono dalla mensa dei padroni». Come dicesse: «Tu sei il pane per i figli del padrone di casa, ma anche il nutrimento per i cagnolini che raccolgono le briciole che cadono dalla mensa». Il cane, animale collegato al culto della Grande Madre e delle divinità infernali, era il nome con cui venivano designati gli infedeli, gli increduli, i peccatori. Quest’uso lo possiamo riscontrare anche nel Nuovo Testamento: «Non date ai cani ciò che è santo» (Mt 7, 3-13); «Guardatevi dai cani» (Fil 3, 2); «Fuori i cani,... gli idolatri» (Ap 22, 15). La risposta di Cristo trasferisce la domanda del miracolo a favore della figlia della Cananea sul piano della nuova Parola che era venuto a portare alle pecorelle smarrite d’Israele, ai fedeli di una forma religiosa che ormai era sclerotizzata e per questo si sentivano smarriti. La donna comprende e la risposta che dà è una illuminazione: «Non ci sono più figli del padrone e infedeli, degli uni e degli altri tu sei il nutrimento». Ed è questa la fede che ottiene la guarigione della figlia «crudelmente tormentata da un demonio». «Grande è la tua fede, o Donna». La fede della Cananea scavalca quella divisione tra le varie religioni che Cristo aveva trovato nel suo tempo, e va diritta a Lui proclamandolo centro e origine di tutte le forme del credere. Fede è per lei aderire a quanto nella sua illuminazione ha compreso, fede è per lei fondere se stessa, per ulteriore convincimento, con l’intuizione del vero che è Cristo stesso. I confini della fede non sono segnati dai brevi limiti delle religioni storiche, l’anima può sempre superarli se in lei arde l’intelletto d’amore che la fa aderire a
Cristo, fonte e origine di ogni anelito religioso che ricollega la coscienza con il Padre. Invano noi, piccoli uomini, ci affanniamo a creare dei compartimenti stagni per separare, attraverso sistemi e istituzioni, l’anima umana dal suo naturale principio che è Dio, Padre amoroso di tutti. Invano religioni storiche e teorie filosofiche e teologiche innalzano contro il ciclo, in una tragica battaglia di Titani, le torri delle loro affermazioni. Sopra tutti e sopra tutto si eleva la grande fede della Cananea che ha intuito che Cristo è il centro di tutte le fedi, e che chiunque abbia fede in Lui viene liberato dal carcere delle piccole fedi e lasciato volare nel libero cielo della grande fede, ove chiunque crede in Lui, avrà la vita. Quasi al termine del secondo millennio è tempo ormai che, anche da noi cattolici, la grande fede della Cananea sia proclamata e vissuta fuori dalle paratie stagne delle varie interpretazioni e ideologie. Cristo appartiene all’umanità: è il gioiello del fiore di loto, fiorito in tutto il suo splendore al vertice dell’umana coscienza. Come il sole che, unico in cielo, è visto e goduto da miliardi di occhi, così Cristo è presente, intuito da miliardi di cuori. Egli è l’aria che ogni uomo respira; è vano cercare di chiuderlo nella rigidezza di sistemi dogmatici: l’insegnamento di Cristo è quanto di più umanamente divino si trovi in tutti i tempi e in tutti i luoghi. La verità che egli insegna è fuori di ogni discussione e di ogni sofisma; non è una verità, ma la verità; la si accetta o la si rifiuta; ma per rifiutarla occorre rinnegare la stessa natura umana, rinnegare quanto ci fa signori della e nella creazione. E, allora, non potendola negare, perché sarebbe negare noi stessi, e non potendola contraffare, essa resta assoluta e piena, centro vero della natura umana. «Vera luce necessaria a ogni uomo che venga a questo mondo». Noi cristiani dovremmo, alla luce della «grande fede», rivedere le nostre correnti, confessioni, sette. La «grande fede» ci apre la via all’universalità di Cristo, mentre i provincialismi cristiani hanno sottolineato soltanto un qualche particolare aspetto del Signore. In genere si è trascurato l’aspetto illuminatore e trasfiguratore di Cristo, a vantaggio di un pietismo che, se resta confortevole al sentimentalismo, ripugna spesso all’intuito della retta ragione; così, poco per volta, si è esteso il fenomeno di un distacco dell’umanità dall’idea cristiana. La formazione cristiana è stata basata essenzialmente sul rito e ne ha smarrito la simbologia conoscitiva. L’insopprimibile aspirazione alla «grande fede» tipica di ogni uomo non si è spenta. Oggi come ieri, Cristo universale vive nel cuore degli uomini; se si perdono dietro falsi ideali, ciò accade perché i dottori dei templi hanno volutamente «smarrito la chiave e non entrano e non fanno entrare».
LA MISERICORDIA E IL SACRIFICIO Giovanni Vannucci, «La misericordia e il sacrificio», 10° domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 118-119.
Dalla religione del Padre a quella del Figlio Le parole: «Voglio la misericordia, non il sacrificio» (Mt 9, 13) segnano un importante passo in avanti della coscienza umana, di cui purtroppo pochissimi, anche dopo duemila anni, si sono resi conto: il passaggio dalla religione del Padre a quella del Figlio. Il Padre sentito come il Sovrano assoluto, il Giudice inappellabile, che promuove i buoni e demonizza i peccatori. La coscienza bisognosa di sacrifici espiatori, di capri sui quali riversare i peccati propri e quelli comunitari, la coscienza solare, creatrice e apportatrice di vita. L’albero da frutto dona con trasporto i suoi frutti, e la sua gioia aumenta con l’accrescersi dell’abbondanza dei frutti; non demonizza gli animali e gli uomini che ne mangiano, il suo compito è di sostentare le creature che abbisognano dei suoi doni. Così il seguace della religione del Figlio vive per distribuire la misericordia, non per innalzare altari su cui immolare delle vittime. L’esperienza cristiana è nel faticoso e laborioso cammino che va dalla religione del Padre, del Rigore, del Giudizio irreformabile, alla religione del Figlio, che non giudica, non condanna, non colpevolizza nessuna creatura, ma con mano generosa distribuisce amore e misericordia, non spenge la fiammella che fumiga, non spezza la canna incrinata. Mosè aveva dichiarato che l’uomo è l’immagine di Dio nel creato, Cristo ci dice che il Figlio e i figli dell’uomo son chiamati a spogliarsi dal timore e dal tremore dei servi, e dischiudersi alla gioia vitale di sentirsi figli di Dio. Il volto del Padre che Gesù ci rivela riunisce armoniosamente il Rigore e la Misericordia, il rigore inteso non nel senso di una instaurazione di processi e di tribunali per eliminare il male, ma come l’intransigente ricerca di aprirsi all’infinita misericordia divina. La vera mansuetudine L’uomo che consapevolmente vive la sua missione di immagine di Dio, comincia a muoversi verso il raggiungimento della perfezione divina: «Siate perfetti e misericordiosi come il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5, 48). «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui cui il Figlio ha voluto rivelarlo» (Mt 11, 27), cioè colui che ha raggiunto la coscienza propria della religione del Figlio. Gesù si manifesta non come il Re dalla tremenda maestà, come la nostra mente avida di potere e impaurita ama rappresentarselo, ma come l’umile e il mansueto. È Gesù mansueto e umile? Se mansuetudine e umiltà dovessero significare servilismo e vigliaccheria, certo Gesù non
lo è. Il mondo, in genere, intende così l’umiltà e la mansuetudine. Per Gesù la mansuetudine è uno stato spontaneo di misericordia, per cui si è incapaci di serbar rancore per cosa alcuna, o di scandalizzarsi ipocritamente di qualche cosa. La mansuetudine è per Gesù la natura del leone, non quella dell’agnello; è mansueto colui che ha in sé la capacità di non poterlo essere: il libero, non lo schiavo; il forte, non il debole; l’audace, non il pavido; Gesù in questo senso è mansueto. Ogni volta che s’incontrerà nel peccatore avvilito e disprezzato, Egli lo rialzerà. La vera umiltà Cosa significa l’umiltà per Gesù? L’umiltà è per Lui la coscienza dei propri limiti; è l’offerta di se stessi perché la volontà divina sia fatta nell’uomo e attraverso l’uomo; è la serena dedizione al servizio umano, sempre grande, sempre nobile, comunque sia esercitato. «Chi di voi vuole essere il primo sia l’ultimo e il servo di tutti» (Mc 10, 44). L’umiltà non è che il riconoscimento della propria posizione di creatura di fronte al Creatore e alle altre creature. Di creatura, non di giudice o sacrificatore, e la misericordia è il traboccamento di riconoscenza di quanto Dio e la vita ci hanno dato.
LA MORTE DELLA POTENZA UMANA Giovanni Vannucci, «La morte della potenza umana» e «La nuova realtà cristiana», in Verso la luce, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984. 25 a domenica del tempo ordinario - Anno B. Pag. 158-165175
Il brano evangelico di Mc 9, 31 ci ripropone le parole sconvolgenti di Gesù: « II Figlio dell’Uomo verrà ucciso e dopo tre giorni risorgerà ». Parole, come ho già detto, che vanno lette senza gli abituali paraocchi della teologia, ma prese come suonano: Gesù è la Vita, la Vita per continuare il suo glorioso corso è sottomessa a una ininterrotta serie di morti e di risurrezioni. Per comprendere le parole di Cristo nel vangelo di Marco dobbiamo spengere, o uccidere quelle interpretazioni che esse evocano in noi, anestetizzandone il contenuto; è un atto di coraggio, ma anche di onestà intellettuale. Gesù è morto ed è risorto, la vita muore e risorge continuamente se non vuole arrestarsi in una solidità cadaverica senza risurrezione. Ogni giorno è per ciascuno di noi morte e risurrezione, morte biologica e risurrezione biologica, morte emotiva e risurrezione emotiva, morte mentale e risurrezione mentale, morte spirituale e risurrezione spirituale. È solo a prezzo della morte-risurrezione che noi riusciremo a vivere in quella « novità di vita » alla quale siamo chiamati (Rm 6, 4). Non è cosa facile, ma Cristo ci dice che la Via è stretta come la cruna di un ago, e non possiamo percorrerla con tutto quel bagaglio di nozioni, a radice emotiva, che costituisce il nostro patrimonio culturale. La nostra vita è situata su due livelli, quello della forma concreta e quello dell’animazione delle forme; il primo è consistente, solido, desideroso di permanenza nel tempo, ma la permanenza nel tempo delle forme viventi è un controsenso: nessuno di noi è oggi quello che era ieri, al termine di queste linee non sarò più quello che ero all’inizio. Non solo biologicamente ma psicologicamente, mentalmente, spiritualmente. L’approfondimento di un pensiero è accompagnato da una mutazione di chi pensa. Il secondo livello è intenso di vita, aformale informa le forme, atemporale si esprime nel tempo impedendogli di fermarsi, contenuto vivente delle espressioni le tiene in movimento fino al loro esaurimento in altre, struttura vasti movimenti e li consuma per guidarli ad altre e differenti manifestazioni. Per noi cristiani il principio attivo di questa intensità di vita ha un nome: Gesù Cristo, la Parola eterna discesa nella carne e nel tempo, animatrice perenne di novità: nuovo è ogni istante di eternità nel tempo. Il primo livello assume il suo pieno significato per la sua apertura all’eterno, il secondo è l’incontro operoso e fecondo dell’eternità e del tempo, dell’infinito e del finito, dello spirito e della carne. Il preciso compito, l’unum necessarium del credente è vivere Cristo eterno nel tempo, perché al
tempo e a tutte le manifestazioni del tempo sia concesso di redimersi dalla ripetizione che è la morte senza risurrezione. L’incontro dei due livelli, dell’uomo esteriore e dell’uomo interiore, per usare la terminologia di san Paolo, nell’esperienza personale permette di superare l’incompletezza del passato e di vivere una pienezza di coscienza nel presente, che ci fa comprendere che i beni e le realtà future non sono nella Parusia, in un tempo a venire, ma nel risveglio coscienziale qui e ora, nell’Eterno presente di Dio. La Croce ove il Figlio di Dio e dell’Uomo muore, e che ogni fedele è chiamato a salire per morirvi e risorgere, nel suo aspetto storico è il patibolo che conosciamo, nella sua realtà soprastorica è l’incontro del mondo materializzante e ripetitivo con il mondo fecondatore e invisibile della Parola eterna, che s’incarna nell’uomo e in tutte le opere dell’uomo per liberarle dalla staticità della pesantezza. È il punto in cui la corposità muore e la vita riprende il suo corso in novità di vita trasfigurata. E sulla Croce devono salire tutte le opere dell’uomo per essere rinnovate nella verità di Dio. I discepoli, ancora nella sfera dell’uomo esteriore, discutono con i ragionamenti propri dell’uomo su chi di loro avrebbe avuto il primo posto nella nuova società che sarebbe nata da Cristo. La risposta che ricevono è il rovesciamento di tutti i sogni di potenza umana: « Chi vuole essere il primo sia l’ultimo e il servo di tutti » (Mc 9, 35). Risposta che capovolge ogni immagine di supremazia gerarchica: la Croce, Trono dei veri amanti della vita infinita, degli uomini che per amore si lasciano consumare in un amore sconfinato, abolisce tutte le espressioni del potere dell’uomo sull’uomo. Come i colori dello spettro scompaiono quando, concentrandosi in un punto, restituiscono la luce incolore. Curiosamente, nell’esperienza cristiana storica la figura della gerarchia, pur gloriandosi delle parole di Cristo sul servizio, non è quasi mai riuscita a spogliarsi del continuamente ricorrente fantasma della gerarchia imperiale. Osservando la storia delle Chiese cristiane possiamo constatare, a nostro conforto, che la vera Autorità, quella che fa crescere - autorità viene da augere - la vita nella cristianità storica, è sempre, in ogni epoca, rappresentata da Santi che hanno donato la loro vita perché la vita di tutti fosse nutrita dal loro servizio. La Parola incarnata è la vita che conduce al loro compimento tutte le cose esistenti. Distrugge i troni dei potenti e innalza gli umili perché si ritrovino, gli uni e gli altri, nella verità del servizio. Ai dotti ricorda di tornare fanciulli perché, con la potenza del loro magistero non uccidano la vita. ‘ La Parola eterna è nel magistero come forza di spogliazione e di umiltà, è nell’ignaro fanciullo perché nella sua crescita non perda l’ingenuità del suo Principio. Quando si pensa di averla compresa non si lascia afferrare, e il dotto si trova in mano la secca spoglia della sua vanità. La Parola eterna svuota la ragione per fecondarla col cuore, fa nascere l’intelletto nel cuore e il cuore nell’intelletto, genera delle menti nuove e fresche come
quelle dei fanciulli non ancora inquinate da teorie, Ovunque si afferma come distruzione del passato e della ripetizione, essendo Parola vivente, indeterminata e indeterminabile dalla mente umana. LA NUOVA REALTÀ CRISTIANA « Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo e il servo di tutti » (MC 9, 35). Queste parole non sono una metafora, un’etichetta con cui decorare il potere per conferirgli, almeno, una credibilità verbale. Descrivono la realtà e di Dio, e del Figlio, e di tutti coloro che le accolgono con la fede semplice e diretta del carbonaio, o con l’occhio illuminato da Cristo. Ogni parola di Gesù Cristo è un’azione; ciascuna delle sue azioni è una parola. Parola che, se ricevuta nella totale spogliazione dell’io egoista, crea, in chi l’accoglie, la nuova realtà cristiana. Tutti i seguaci di Cristo, nessuno esente, devono passare attraverso la porta stretta che introduce nel Regno, attraverso la totale spogliazione perché nessun vecchio lievito alteri la parola ricevuta. Anche coloro che presiedono alle Comunità criStiane sono obbligati a compiere questa totale spogliazione. La loro responsabilità è di portare agli uomini il Volto di Dio, e di portare a Dio il Volto dell’uomo trasfigurato. Il Volto di Dio non lo troviamo nei libri, in essi c’è sempre l’errore legato ai concetti dell’autore, il tradimento della parola scritta che mai riesce a trasmettere perfettamente il pensiero, l’incomprensione del lettore che confonde le sue equazioni personali con quelle dell’autore. Il Volto di Dio lo contempla chi, sorpassando tutte le ideazioni cerebrali, si ferma a contemplare il sole della verità nella augusta statura di Cristo. Per percorrere questo cammino, da noi a Cristo, è necessario abituarsi a muoversi con la più assoluta sincerità e ad agire nella più luminosa verità. Il Volto di Cristo è quello della Parola eterna che è discesa nelle profondità della carne per illuminarla e trasfigurarla. E come avviene là trasfigurazione? Attraverso la consegna di se stesso alle forze tenebrose, per assumerle e, lasciandosi da loro consumare, illuminarle. « La Luce risplende nelle tenebre » (Gv 1 ). Egli è venuto per i peccatori, gli ammalati, gli abitanti nelle tenebre e nell’ombra della morte, per la pecorella smarrita, per gli emarginati. Cristo è venuto e viene continuamente per essi. Non come il Grande Inquisitore, ma come l’Agnello. Le tenebre l’assalgono, si rivestono della sua tunica inconsutile, deturpano la sua bellezza e il suo fascino, « non ha più il volto dell’uomo »; Egli lascia fare, chiuso nel silenzio, sa che le gocce del suo sangue che irrorano le vesti dei ribelli, agiranno a loro insaputa, che il profumo delle sue vesti placherà col tempo
la loro furia. Egli ha l’eternità dalla sua parte. La voce della Parola eterna farà risuscitare i morti. Non agisce seguendo la propria volontà; ripete nella carne ciò che il Padre compie nell’Assoluto; per questo non violenta alcuna libertà, lascia che le coscienze agiscano, anche sbagliando; si contenta di fermarle quando stanno per precipitare nell’abisso; il suo braccio soccorrevole si chiama Angelo custode. La sua Volontà è quella del Padre, per questo tutti a Lui obbediscono; egli ama tutte le creature di una tenerezza uguale e sapiente. In conseguenza ha il diritto di giudicare tutto, ma di un giudizio differente da quello degli uomini: il suo giudizio consiste nel riportare l’ordine divino nell’universo senza scoramenti, senza collera, senza disprezzo. Per questo è il Pane che ristora le forze, ed è il Vino che riporta la gioia e il canto; senza far sentire il peso del suo servizio, non domanda riconoscenza o gratitudine, provoca col suo dono la ripresa gioiosa della vita. È il silenzioso Servo della Vita, è il cuore che conforta chi piange in segreto, il segno della fede per chi anela a credere. È l’Amore di chiunque ama e vorrebbe amare di più. È il vaglio e il timone di ogni nobile anelito, di ogni ideale purissimo, di ogni dolore profondo, di ogni volontà di pace, di ogni volontà d’azione. Ovunque raccoglie con venerazione le lagrime, ovunque suscita sorrisi di speranza. Assume in sé il male, consuma in sé ogni separazione: divenendo il centro, la confluenza di quanto si agita nelle vicende umane, distrugge i limiti e i confini di ogni egoismo, e assume ogni vita in un’unica realtà. Noi amiamo la separazione, nella nostra egoicità aneliamo a imporci in una sopraffazione di valori, invece di comporci in una musicale sintesi di armonie, rifiutiamo qualunque salvezza che ci richieda di subire delle cancellazioni. Preferiamo la toga del Grande Inquisitore alla povera veste del Servo. E Lui è in mezzo a noi, in noi col suo infinito amore, con la sua piena consapevolezza, con la sua espiazione perfetta e ci addita la via della salvezza che è poi Lui stesso. Da secoli ci ripete: « Venite a me voi tutti che siete oppressi dalle vostre colpe, affaticati dalle vostre debolezze, umiliati dai vostri difetti, afflitti dalle vostre limitazioni. Io vi consolerò, vi rianimerò. Venite a me. Io sono la Via, la Verità, la Vita ». Noi rispondiamo: « Tu sei la Via che non vogliamo seguire. Tu sei la Verità che non vogliamo credere, Tu sei la Vita che non vogliamo vivere. Perché Tu sei l’unione e noi la separazione. Tu sei l’umiltà e noi l’orgoglio. Tu sei l’amore e noi l’odio, Tu sei l’Uomo e noi siamo gli uomini. Tu sei l’Uno e noi siamo i molti, Tu sei il servo dei viventi e noi vogliamo esserne i dominatori ». La sua sopportazione è pari alla nostra caparbietà, il suo Amore supera la nostra ostinazione nel male, la sua volontà vigila il più piccolo cenno di adesione della nostra volontà, per salvare ciò che è venuto a salvare, per attuare il suo mandato, per obbedire a chi lo espresse da Sé, come la parola dalla bocca, come il pensiero dalla mente.
Diverremo gli ultimi, i servi di tutti, quando sentiremo che Egli non è il Rex regum e il Dominus domìnantium, ma la nostra più vera ricchezza, la nostra parte migliore, la nostra luce interiore che nulla può spengere, la sola ragione che può dirci: « lo devi », l’essenza vera delle nostre anime che vuol essere portata da noi come germe che diventa pane nella carestia, come lume che rischiara nelle tenebre, l’idea che prega in noi, l’idea di cui dobbiamo essere servi se vogliamo servire gli uomini.
LA PARTE MIGLIORE Giovanni Vannucci, in La vita senza fine, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1985; 16a domenica del tempo ordinario, Anno C: «La Parte migliore». Pag. 158-161.
«Gesù disse a Marta: Ti agiti per troppe cose, ma una sola cosa è necessaria. Maria ha scelto la parte migliore, e non le sarà tolta» (Lc 10, 41-42). Queste parole ci richiamano le altre parole di Cristo riferite dal vangelo di Giovanni: «Preoccupatevi non del cibo caduco, ma di quello che rimane nella Vita senza fine e che vi viene dato da me» (Gv 6, 27). Maria di fronte a Gesù Cristo, la Coscienza nuova dell’Amore assoluto e gratuito, è nel giusto atteggiamento: dimentica di tutto, ascolta con perfetta dedizione la Parola del Maestro. Dimentica del tempo concreto in cui vive, delle consuetudini dell’ospitalità, della fame e della sete di quell’ora meridiana, ascolta e accoglie la Parola, che scende in lei fecondandola e rendendola nuova; l’azione verrà dopo e sarà soltanto il segno di una compiuta trasformazione interiore. E Maria è divenuta il simbolo dell’attività contemplativa nella cristianità, dell’ascolto della Parola del Maestro nel puro silenzio, e dell’offerta integrale del proprio essere all’opera trasformatrice della Parola. L’ascolto nel silenzio della Parola incarnata in Cristo, la sua ricezione nel profondo di una coscienza, che si è posta al di là di tutte le parole, le angustie, le mire terrene, vi stabilisce il regno di Dio. Il regno di Dio che è dentro di noi, che non ha esteriori apparenze clamorose, che viene trovato da chi lo cerca, da chi lo vuole con tutto il proprio essere. Il regno di Dio che è la prodigiosa germinazione dall’interno all’esterno di una divina sostanza che è in ogni umana coscienza, e che preesiste a essa. Ogni sforzo cosciente, ogni giusta ricerca, ogni costante insistenza della buona volontà, ogni determinazione radicale di raggiungere la verità portano alla gioiosa scoperta, al beato raggiungimento del regno di Dio, della sola cosa necessaria. In questa tensione verso l’unica cosa necessaria tutto deve essere donato: speranze e desideri, affetti e interessi, dolori e gioie, vizi e virtù, avidità e orgoglio, ambizioni e vanità; tutto deve essere offerto per scoprire la propria essenzialità e vivere il mistero vivente del regno di Dio. Nella propria essenzialità si rispecchia «l’essenzialità divina» e una vita nuova e vera fiorisce nella coscienza umana, come in quella di Maria, stupefatta di vivere l’unica cosa importante, non più turbata da alcuna cosa della carne o dello spirito, non più agitata da alcuna preoccupazione, neppure dal dovere di preparare il pranzo per Cristo ospite, neppure dal desiderio di annunciare la verità accolta.
Come giungere alla silenziosa attenzione di Maria? Le coscienze che hanno seguito l’attenzione, silenziosa e appassionata, di Maria alla Parola incarnata nel Maestro unico, ci hanno affidato delle indicazioni che possono esser riassunte in queste tre direttive: elimina da te stesso: l’affanno per ciò che è effimero; l’amore per ciò che non è eterno; il desiderio di ciò che è legato al tempo e alla consunzione del tempo. Quindi non angustiarti per ciò che non appartiene alla tua essenza eterna; non creare delle forme passionali che ti possono legare alle apparenze periture; non confondere le vie dell’uomo con l’incontro con la Parola incarnata del Maestro. La consegna tradizionale: «Cerca la tua essenza eterna», che equivale al «conosci te stesso» della religiosità greca e al «cerca in te stesso il regno di Dio» della religiosità cristiana, alla nostra mentalità moderna sembra un’affermazione cinica e incoraggiante al più perverso egoismo. Un esame attento ci porta a comprenderne la saggezza e la vastità. La nostra personalità esteriore, tesa verso l’esteriorità, ci distoglie dall’attenzione interiore appellandosi alla carità, all’apostolato, al lavoro, alle attività sociali. La personalità esteriore teme ogni atteggiamento introspettivo - chiamato dai moderni cristiani impegnati con il termine denigrativo di «intimismo» -, la meditazione è per lei esiziale; per questo si oppone, con ogni mezzo, all’interiorizzazione. «Mia sorella mi ha lasciato sola a prepararti il pranzo» (Lc 10, 40). La conoscenza chiara di noi stessi è la meno piacevole, e cerchiamo con ogni mezzo di evitarla. Conoscere noi stessi significa metterci a nudo di fronte alla verità del Maestro, significa scrutare la ragione segreta di ogni nostro gesto, stare con noi stessi in una specie di narcisismo alla rovescia, applicando a noi stessi quello spirito critico e zelante che ci rende agitati fuori da noi medesimi. Non è piacevole guardare a noi stessi, vagliare sempre ogni impulso, ogni moto. Meglio occuparci degli altri, agitarci nel lavoro della carità, nella società, meglio fare del bene. «Fare del bene!». Anche Marta voleva fare del bene a Cristo, ma Maria aveva capito che l’unico modo giusto era quello di lasciarsi fecondare dalla sua Parola. L’agitazione distrugge il mondo, il regno di Dio è il regno della calma assoluta, del silenzio, della gestazione della Parola. Guai a chi non sa stare solo con il suo Dio, a chi ha bisogno di aver la camera nuziale piena di testimoni! Nell’interiorizzazione nascono il silenzio e la pace, si diviene coscienti di una grande presenza che è l’essenza divina del regno di Dio. La turbolenza mentale verrà decantata, quando il superfluo e il transitorio scompaiono, l’anima incontra una luce che sveglierà in lei il divino dormiente. La personalità esteriore sarà distrutta, e nulla separerà l’uomo da Dio, e nulla separerà l’uomo dall’uomo.
LA PIETRA SCARTATA Giovanni Vannucci, «La pietra scartata» in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984;. 27 a del tempo ordinario - Anno A; Pag. 171-173. 1
I termini chiave della parabola drammatica riferita da Mt 21, 33-43 sono indicati da due frasi: «Il regno di Dio vi sarà tolto e verrà dato ad altri», e: «La pietra scartata è divenuta pietra angolare; questo è il miracolo compiuto dal Signore». L’interpretazione più diffusa, direi quasi unica, della prima è la seguente: il regno di Dio è stato tolto al popolo ebraico, i primi lavoratori della vigna; essi hanno ucciso molti dei primi inviati, i profeti, e il Figlio prediletto, il loro regno è stato dato alle genti del paganesimo che ne ha realizzato i frutti. A parte la genericità di questa spiegazione, osservando la storia dei duemila anni di cristianesimo dobbiamo concludere che non corrisponde alla verità dei fatti. Sì, il popolo eletto è stato espulso dalla sua terra, è vissuto in una diaspora dolorosa sempre, tragica quasi sempre, ma, a ben guardare, essa ha costituito il tempo dei migliori frutti che Israele abbia mai dato. A Israele il regno terreno fu tolto, il regno inteso come suolo veramente suo, come patria che potesse guardare con sicura certezza. Ma il Regno vero non è stato tolto a Israele, il regno della testimonianza dei valori trascendenti che rende unico questo popolo in mezzo agli altri popoli. Un mistico ebreo del secolo scorso scrive: «I Russi ripetono: il nostro imperatore è lo Czar! I Tedeschi dicono: il nostro regno è il regno. Gli Inglesi affermano: il nostro regno è il regno. Io, Levi Isaac, figlio di Sarah, ripeto: Sia glorificato, sia santificato il tuo grande Nome, o Eterno!» (Rabbi Levi Isaac di Berditchev). Nel nostro ciclo culturale il popolo ebraico è l’unico ad avere, come collettività, il senso della trascendenza. Le sue iniziative sono volute e ispirate da un Dio personale e trascendente, a Lui sono subordinate le sue attività spirituali e temporali. I valori che afferma sono oggettivi, indipendenti da qualunque altra determinazione temporale o spaziale. Vivendo, nello spazio e nel tempo, i valori oggettivi vi devono esser testimoniati dal popolo che crede in essi. Gli altri gruppi sociali non cercano la verità, ma l’utilità; l’efficienza, non la purezza; l’ordine, non la giustizia. La verità, la giustizia, la purezza tendono alla realizzazione su un piano escatologico. Israele, esule in nazioni straniere, ove l’efficienza e l’ordine erano affidati ad altri, ha attuato il fenomeno prodigioso della diaspora, avendo avuto la libertà delle piccole comunità, ove la verità, la purezza e la giustizia avevano una maggiore possibilità di attuazione. «Il Regno vi sarà tolto»: queste parole concernono i discepoli, e i loro discendenti, quindi anche noi. Anche a noi viene richiesto: dove sono le tue opere? Sì, abbiamo innalzato templi di marmo e di elaborate costruzioni ideologiche, ma non
abbiamo rinnovato la nostra natura e dato il frutto che da noi si attendeva. Abbiamo perduto quel vigilante senso del ritorno di Cristo, che dovrebbe essere il nostro segno di riconoscimento che ci permette di separare i valori immanenti da quelli trascendenti, i valori di Cesare da quelli di Dio. Discutiamo sulle Scritture invece di viverle, e mentre discutiamo i falsi profeti e i falsi cristi imperversano. La generale indifferenza religiosa trova la sua giustificazione in una ancor più generale ignoranza. Un vago sentimentalismo sostituisce la vera religiosità che è vita vissuta dello Spirito, umile e gaudiosa certezza del divino che è in ognuno. In queste condizioni dobbiamo chiederci se il Regno non verrà tolto anche a noi! Il regno di Dio è fuori dal tempo, e noi vogliamo trionfare nel tempo. Il regno di Dio è rinuncia e abnegazione, e noi vogliamo possedere e imporre la nostra personalità. Il regno di Dio è amore e noi pratichiamo, di continuo, se non l’odio di certo il malvolere, e siamo divorati dall’invidia. Il regno di Dio è giustizia, e noi siamo parzialissimi in ogni nostro moto interiore. Il regno di Dio è armonia, e noi siamo disarmonici. Il regno di Dio è quiete, e noi siamo agitati. Il regno di Dio è verità, e noi scegliamo la menzogna, più piacevole. Il regno di Dio è conoscenza, e noi ci rifugiamo nell’ignoranza volontaria. Il regno di Dio è mente, e noi vogliamo essere corpo. Il regno di Dio è essenza, e noi vediamo solo l’esistenza. Soffriamo e sappiamo di soffrire, abbiamo in noi i mezzi per uscire dalla sofferenza e aspettiamo dal di fuori quello che solo può giungerci dall’interno. Parliamo di post-cristianesimo, e non avvertiamo che il Regno ci viene tolto! Quando mai siamo stati cristiani? «La pietra rifiutata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo». Affermazione di portata storica universale, è una legge che regola l’ascesa della coscienza umana verso la libertà e la verità. I tanto ripetuti «segni dei tempi» dove dobbiamo vederli? Negli enunciati degli intellettuali, nelle raffinate ermeneutiche dei dotti, nelle mode cangianti? Cristo ci indica la direzione in cui guardare per scoprire i «segni dei tempi», nelle pietre rifiutate dai costruttori. Costruttori di società, di partiti, di chiese. Pietra di rifiuto: i perseguitati, gli emarginati, i maledetti per la novità che li ha accesi e li rende portatori di vita. Nell’Egitto faraonico il segno dei tempi furono i nomadi ebrei, respinti e perseguitati; Cristo reietto e gli schiavi furono i portatori della parola dell’Amore; nel nostro tempo dove guardare per scoprire il segno della novità? Guardando senza passionalità la storia attuale, superandone l’aspetto formale per penetrarne le più vive pulsioni, vediamo che certi termini di grande successo ieri, come proletariato e borghesia, sono ormai «démodés»: l’operaio è oggi un piccolo borghese, il borghese non è abbastanza ricco; ad essi stanno sostituendosi i nuovi concetti di interni, gli integrati in un dato sistema sociale, e di esterni, i non integrati nel sistema. Gli interni sono quelli che partecipano e profittano del gioco sociale; gli esterni sono quelli che ne rimangono fuori, sentendone tutta la costrizione e,
sognando, preparano nuovi cieli e nuove terre: la pietra scartata dai costruttori e che diverrĂ la pietra angolare del tempio futuro.
LA PORTA E LA VOCE Giovanni Vannucci, «La porta e la voce», 04 a domenica di Pasqua, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 72-74.
Due espressioni, nella pagina del vangelo di Giovanni (10,1-10), colpiscono la nostra attenzione. La prima è la porta: «Io sono la porta»; la seconda è la voce: «Le pecore ascoltano la sua voce». La porta è l’apertura che segna il passaggio tra due spazi distinti; varcare una porta, anche della più umile casa, costituisce qualcosa di grave e di solenne per uno spirito sensibile: attraversando una soglia, abbandona il suo consueto ambiente ed entra in un altro differente. Questa è la più elementare esperienza che sta alla base delle parole di Cristo, e di tutto il simbolismo della «porta». La porta separa e unisce due ambienti, due spazi, due gradualità dell’essere, due matrici, due mondi distinti da strutture fisiche, psicologiche, mentali. Il varcare la soglia costituisce il passaggio da un modo d’essere a un altro; nell’esperienza religiosa le varie iniziazioni, che accompagnano le tappe della crescita fisica e psicologica dei credenti, sono vissute come il varco da un modo d’essere a un altro; la soglia presenta quel carattere di angoscia, di timore sacro che segna la linea di demarcazione tra un mondo conosciuto e quello sconosciuto che si apre al di là del limite. Giacobbe, dopo l’esperienza della sacralità del luogo ove aveva avuto il sogno iniziatico, esclama: «Questo luogo è tremendo, qui c’è la dimora di Dio e la porta del cielo» (Gen 28,17). L’aspetto angoscioso della porta, come ingresso in uno spazio differente, viene manifestato nel grande portale che introduce negli edifici sacri attorniato da «guardiani della soglia», draghi, leoni, sfingi, personaggi divini o semi-divini. Questi pochi accenni al simbolo della porta ci aiutano a comprendere il significato della parola di Gesù che leggiamo nel Vangelo: «Io sono la porta, il pastore vero passa per la porta, il prezzolato e il ladro entrano nell’ovile attraverso altre aperture». «Io sono la porta», il punto di passaggio da uno stato di coscienza vecchio e conosciuto, a un altro nuovo e sperimentabile. Cerchiamo, avanti di aggiungere altro, di comprendere il contenuto dell’affermazione di Cristo: le porte dei templi, i riti di passaggio costruiti e ordinati dall’uomo sono dei simboli, palpabili e misurabili, di un altro itinerario che la coscienza compie dentro il gesto, l’immagine esteriore; itinerario che sfocia in una mutazione qualitativa dell’anima, dell’interiorità. Le porte e i riti sono dei segni di qualcosa che si compie nell’intimo della personalità che varca la soglia dello spazio nuovo. Le strutture architettoniche, le azioni rituali perdono ogni valore quando si viene a vivere il contenuto qualitativo del nuovo spazio.
La frase: «Io sono la porta» può venire interpretata: Io sono la soglia che separa la vecchia coscienza dalla nuova, il significato di tutte le iniziazioni che altro non sono se non riti, cerimonie, costruzioni, dita puntate verso la novità, segni di un significato da scoprire. Io invece sono il significante e il significato, la forma e il contenuto, la materia e lo spirito. Le antiche porte sono tarlate, «quelli che sono venuti prima di me ormai sono ladri e briganti, la loro voce non risveglia le coscienze mature per la novità». Cristo è la porta e l’ovile; l’iniziazione e la nuova vita che essa trasmette; è il pane che dona la vita, non il cesto che lo contiene; è il pane ed è la vita; è la via che conduce alla verità ed è insieme la verità consegnata agli iniziati; è la luce del Santo dei Santi, che ha dilacerato ogni velame. Luce offerta senza interruzione, Luce che accoglie chiunque ne senta il richiamo e deliberatamente lo segua. Questo rapporto diretto tra la singola coscienza e il Pastore è necessario venga vissuto con intensa generosità da ogni credente, se vogliamo che tutta la Chiesa ritrovi la vita, la Chiesa interiore e quella esteriore, se vogliamo che le porte iniziatiche, le parole di passo, i riti che introducono nella novità perdano la loro pesantezza e siano trasfigurati nella luce del vero e unico iniziatore. Il passaggio dalla porta che è l’«Io sono» di Cristo fa fiorire Cristo nell’anima e fa ascendere l’anima, la personalità di ognuno, nel suo Io vero, che è Cristo, «non io vivo, ma Cristo vive», Cristo che è il vero Io di ognuno di noi, è il vero Io di tutti gli Io. Con l’«Io sono la porta» le antiche porte cadono, la verità liberatrice dilegua le corposità dei moralismi dogmatici, la ricerca personale della luce mette in seconda linea ogni preoccupazione pastorale e sociale; l’offerta di se stessi a Cristo perché ci unisca a sé ci rende fermi, senza timore di orgoglio, in questo pellegrinaggio verso la nostra deificazione, che ci renderà certi della nostra nascita nella nuova coscienza di Cristo e nella quale sperimenteremo che Cristo è Dio per noi e noi per Dio. Fino alla novità sbocciata con l’Incarnazione, morte e risurrezione della Parola eterna, i templi erano i depositari dei segreti e delle verità nascoste sotto i simboli, il velo copriva il Santo dei Santi, solo agli iniziati veniva, dopo opportuna ascesi, dischiuso. Con la venuta di Cristo la verità diventa il pane e il vino di tutta l’umanità, è data a tutti perché tutti ne traggano il necessario alimento alla loro ascesa personale. Il velo è squarciato. Dio entra nel cuore degli uomini, lo Spirito discende nella carne degli uomini. E ciascun uomo è capace di prender coscienza di essere stato pensato ed espresso da una parola irripetibile e singolare, parola pronunciata dal Verbo nell’eternità, parola che il Verbo incarnato ripete nel tempo entro il cuore di ogni pecorella: «Le pecore riconoscono la sua voce». Parola che rende la persona umana più grande delle stelle del cielo, più gloriosa di tutte le leggi unificatrici e ordinatrici del cosmo. Prendere coscienza del nostro Io divino, dell’Io divino di ogni nostro fratello, significa varcare la porta iniziatica che è Cristo, essere assunti dalla sua grazia trasfiguratrice, rispondere personalmente al nome col quale da tutta l’eternità ci chiama, nascere la seconda volta. Il motivo della nostra tragedia, della nostra
disarmonia, è il non volerci riconoscere in Lui, il seguire la voce della nostra personalità separata, invece di quella del Buon Pastore che passa per la «porta» che è Cristo.
LA RELIGIONE DEL FIGLIO Giovanni Vannucci, «La religione del Figlio», 19a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 144-146
Due simboli nella narrazione di Mt 14, 22-33 ci indicano che si tratta di un evento rivelatore: il monte ove Cristo passa la notte in preghiera, il mare sconvolto sulla cui superfìcie cammina impavido e sereno. La montagna come luogo di incontro del cielo con la terra si trova in tutte le tradizioni religiose. In India troviamo il monte Meru, la cima più alta della terra, il centro di tutto l’universo; nell’Iran il monte Alborj, considerato il centro del mondo attorno al quale si muovono il sole e i pianeti; in Cina la montagna di giada ove cresce il pesco dell’immortalità; nell’Islam la montagna Kaf, che ha per base uno smeraldo che si estende a tutta la terra; un po’ ovunque alla montagna santa approdò l’arca del diluvio, l’arca di Noè si fermò sulla cima del monte Ararat, e da lì iniziò la seconda creazione dell’uomo. Nelle regioni ove non esistono montagne vennero costruite delle colline artificiali, oppure i templi furono costruiti in forma di montagna: così in Babilonia le torri-tempio erano a forma conica a sette scaglioni raffiguranti i sette cieli; in Egitto la piramide era il centro di congiunzione del cielo con la terra e della terra con il cielo, la rampa che conduce alla sua cima simboleggiava l’ascesa della vita, dal verme all’uomo regale che domina tutti gli aspetti della natura. Nella Bibbia numerose sono le montagne sacre: il Sinai il Garizim, l’Horeb, il monte di Sion, che è il fondamento della città santa, il monte Moriah; nel Nuovo Testamento il monte della trasfigurazione, il Tabor, il monte Calvario, il monte degli Ulivi, luogo dell’ascensione; nell’Apocalisse l’Agnello sta sul monte Sion (Ap 14, 1). Il valore simbolico della montagna è stato usato ovunque nella cristianità; ogni volta che era possibile le chiese venivano costruite su delle alture. L’altare, la cui radice è altus, alto, quindi luogo alto, i cui gradini venivano, nell’antica liturgia, saliti dal sacerdote che recitava il salmo «ludica me», «manda la tua luce e la tua verità, esse mi condurranno sul tuo monte santo». Il mare è simbolo di tutte le possibilità delle manifestazioni delle forme viventi e della loro distinzione. Nel pensiero biblico l’acqua, il mare, è l’elemento che contiene una vita tumultuosa, confusa, prodigiosamente ricca, feconda e tenebrosa. Su di essa lo Spirito di Dio compie la sua opera creatrice. Il mare è il simbolo dell’inconscio personale e collettivo, sotto le cui profondità insondabili son racchiusi la vita e i mostri. Il popolo ebraico, separandosi dallo spirito di massa delle popolazioni egiziane,
attraversa con piede asciutto il mare, raggiunge cioè l’individuazione di se stesso come popolo, chiamato a vivere un suo preciso destino in mezzo agli altri popoli. Il passaggio del mar Rosso costituì la distinzione del popolo ebraico da quello egiziano, che venne sommerso e assorbito dall’onda marina; sul monte Sinai Mosè ricevette la Legge che avrebbe dato la forma religiosa, morale, sociale al popolo eletto. Confrontando le figure di queste strutture simboliche, monte e mare, nella narrazione evangelica, possiamo osservare alcuni particolari che sottolineano l’aspetto specifico della religione del Figlio che con Gesù Cristo cominciava. Nell’esodo dall’Egitto è tutto un popolo che attraversa il mare senza esserne travolto; Mosè ascende sul monte insieme ad Aronne, mentre il popolo era alle sue falde. Nella nostra narrazione: Cristo,dopo aver rimandato la folla alle sue case e ordinato ai discepoli di andare nel mare con la barca, sale solo sul monte, e solo attraversa il mare in tempesta incontro ai discepoli sgomenti per la burrasca. Gesù è solo sul monte e sul mare, la folla sicura nelle sue case, i discepoli protetti dall’imbarcazione. La solitudine eroica e feconda di Gesù Cristo, in questo episodio del monte e del mare, ci rivela la natura singolare e unica della religione del Figlio. Gli uomini non sono più chiamati, per vivere la loro aspirazione all’Assoluto, a unirsi in gruppi di popoli eletti o di Dio, a rifugiarsi in imbarcazioni che, sicure, attraversano il mare agitato dell’esistenza. Ma a sentire la propria vita personale come un’avventura iniziatica, un audace impegno di trasformazione del proprio essere, che li porta a de porre le sicurezze, le protezioni che cullano la personalità e a risvegliare la propria essenzialità divina, il proprio «io» vero, non nato dalla carne e dal sangue, non formato da idee di gruppo o di società, ma che è il principio e l’assoluto psichico, l’io cosciente che, nell’esperienza della religione del Figlio, tende a rifondersi con l’io cosciente di Cristo. «Siate in me come io sono nel Padre» (Gv 14, 20). «Non io vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). L’io cosciente dell’uomo, per quanto piccolo sia, ha il potere di contenere e riflettere l’intero sole, Cristo, e il sole, Cristo, riflesso e contenuto negli altri frammenti dell’umanità. Chi vive la religione del Figlio affronta i rischi dell’inconscio personale e collettivo, ne attraversa le onde scomposte e violente con lucida coscienza, resa ardente dalla tensione verso uno scopo sovrumano: divenire il figlio di Dio, tendere verso la conoscenza di sé, dell’universo e di Dio, cercare la coscienza e la luce assoluta, evitare ogni passività dell’intelletto, ogni eccitazione passionale del corpo e dell’anima. I discepoli nella barca, presi da passionale sgomento, sono incapaci di vedere con lucidità mentale e scambiano Cristo per un fantasma, e Pietro affonda per deficienza di quella fede che è propria dei figli di Dio. Le onde dell’inconscio, personale e collettivo, arretrano dove l’io cosciente, l’io cristico avanza. Solo nell’io cosciente e consapevole, nell’io costruito da virtù e intelletto, risiede la libertà di scelta e di orientamento; fuori di esso non vi è scelta di fronte ai vari stimoli delle forze inconsce personali e collettive. L’io cosciente e consapevole raggiunge il potere
dei figli di Dio, potere di creare mentalmente, non di ripetere i pensieri pensati da altri; potere di esplicare il creato, di dominare le leggi della natura, di portare la pace nei flutti sconvolti del mare; potere di ricollegare la terra e il cielo.
LA RISURREZIONE E LA VITA Giovanni Vannucci, «La risurrezione e la vita», 05 a domenica di Quaresima, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 57-59.
Il punto centrale del brano di Gv 11,1-45 non è tanto il ritorno alla vita di Lazzaro morto, quanto le parole rivolte da Cristo a Marta: «Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se morto, vivrà». Il miracolo della rivivificazione del corpo fisico del morto è un corollario, una verifica delle parole di Cristo, nulla di più; non possiamo fondarvi la prova della natura divina del Maestro, essa può essere oggetto di fede solo in colui che ne sperimenta la risurrezione e la vita. Cosa sono la risurrezione e la vita, cosa significa credere in Cristo, cosa vogliono dire la morte e la vita di chi in Lui crede? Prima di tentare una risposta a questi interrogativi, esaminiamo le figure dell’episodio della risurrezione di Lazzaro. Mentre Gesù era con i discepoli in una località oltre il Giordano, gli fu recata la notizia dell’infermità del suo amico Lazzaro. Egli fa questo commento: «Questa infermità non è perché Lazzaro muoia, ma perché in essa e per essa venga manifestato il mistero del potere infinito di Dio». Dopo due giorni dalla notizia, Gesù decide di recarsi da Lazzaro. I discepoli gli ricordano il pericolo che per lui e per loro c’era nel tornare nella Giudea, ove l’attendevano gli oppositori. La risposta di Gesù è simile a quella che diede ai discepoli a proposito del cieco nato: «La mia giornata non è ancora terminata, ed è necessario che io agisca; la mia luce, finché sono sulla terra, è necessario che risplenda... Lazzaro è morto. Io ne godo per voi, perché vi sarà rivelato che Dio, e io in Lui, siamo la vita». Tommaso segue Cristo dicendo: «Andiamo a morire con lui!». A Betania Gesù trova Lazzaro già da quattro giorni sepolto; Marta, la fede impulsiva e attiva, gli va incontro, e la sua fede, ancora legata alle credenze del suo popolo, afferma di credere alla risurrezione che avverrà nell’ultimo giorno, quando gli scheletri usciranno dai sepolcri e si rivestiranno di nuovo di carne. Gesù la richiama alla novità risurrezionale che Lui era venuto a portare all’uomo: «La risurrezione e la vita sono io, chi accoglie e vive questa novità anche se morto vivrà, e se è vivo non morrà». Marta si risveglia alla novità di Cristo e dice: «Credo che tu sei il Portatore del nuovo Tempo divino, che tu sei il Figlio di Dio». Marta, la fede attiva, corre a casa, dalla sorella Maria, la fede sicura e silenziosa che aspetta, e le dice: «Gesù ti ha chiamato». Maria balza in piedi e corre da Gesù, con lei si muovono i Giudei che le stavano vicino. Davanti al gruppo guidato da Maria Gesù esplode in uno scatto d’ira, vede davanti a sé una donna che crede e ama e una folla di saccenti, attaccati alle vecchie visioni religiose, che dubita e si oppone: «Non avrebbe potuto fare che Lazzaro non morisse?». Fa rimuovere la pietra dal sepolcro e grida: «Lazzaro, esci... E colui che era morto uscì». Molti dei Giudei presenti credettero, alcuni di essi, invece, andarono ad avvertire i Farisei della nuova provocazione compiuta da Gesù. Il quadro si presenta in tal maniera come la teofania di Gesù, portatore di risurrezione e di vita:
Lazzaro morto ne ascolta e riconosce la voce che lo chiamava alla vita; i Giudei e i Farisei, vivi, non odono tale voce; la medesima voce che disseppellisce Lazzaro, seppellisce i Farisei, vivi, nella loro sordità. «Io sono la risurrezione e la vita»; cos’è la risurrezione, cos’è la vita? Sono due termini che si oppongono alla morte come suo superamento, la risurrezione, o come sua negazione, la vita; oppure essi ci aiutano a una comprensione più accurata e profonda delle realtà della vita che tutti stiamo vivendo? La vita non potrebbe essere senza la morte, come la luce non è senza l’ombra, la vita è un’implacabile successione di morte e risurrezione. La pianta cresce, fiorisce, produce frutti, appassisce e muore depositando in terra il seme che riprenderà il ciclo vitale. Il fiore è insieme la morte della gemma e la risurrezione di questa in una più affascinante forma. Il ciclo della vita di ogni vivente è un’incessante successione di vita-morte-risurrezione. La vita è permanente, le forme sono periture ed effimere. A questa visione concreta ci richiama Cristo. Nel contesto egli sottolinea l’aspetto psicologico, mentale della vita-morterisurrezione. I Farisei sono paralizzati dalle loro vedute dogmatiche, dai loro sistemi di pensiero, ora la vita è sempre nuova, non ha né passato, né futuro, è indipendente dal tempo e dallo spazio. Gesù portava il Tempo nuovo, non poteva esser compreso da menti solidificate in sistemi di pensiero: «Io sono la risurrezione e la vita, Io sono la vita in tutte le morti, e la morte in tutte le vite». È il rinnovatore della coscienza, della volontà, del pensiero, dell’azione. Il grande disturbatore che ci tormenta e ci spinge all’ ascesa, che si nasconde nella coscienza per renderci inquieti. Pone la sua mano nel frutto che vorremmo consumare, vietandocene l’accesso. Frappone la sua carne piagata tra noi e il tormento che ci agita il sangue. Mette il peso della sua Croce tra noi e l’oro, tra noi e l’avidità e la superbia. Senza la sua presenza stimolatrice, è questo il senso di «Io sono la risurrezione e la vita», l’umanità più non sarebbe, né sarebbe mai stata. «Io sono la risurrezione e la vita», significa che l’opera redentrice di Cristo è immanente, è continua, e consiste nel redimere, rinnovare, rendere liberi gli schiavi; nel trasformare gli incoscienti in persone coscienti, i deboli in forti, i miseri in uomini felici, i malati in creature sane. La sua via è la Croce; su di essa sale chi ha gettato la sua natura corrotta e corruttrice; di essa è degno chi, in purezza e pazienza, sopporta il destino dell’uomo, chi sa che la cenere del tempo ricopre i troni, eguaglia le piramidi alla tomba dello schiavo, il cui nome fu noto solo alla madre. La polvere del tempo non si è posata sulle croci, la loro luce ha abbreviato le tappe d’ascesa dell’uomo. Il tempo della Croce non è finito, perché non tutti sentono che Cristo è la risurrezione e la vita.
LA SANTITÀ OGGI
Giovanni Vannucci, «La santità oggi» 1° novembre - Festa di tutti i santi - Anno A; in Risveglio della coscienza, 3a ed. Servitium, Sotto il Monte (BG), 1997; pag. 193-195.
Vorrei tentare di trovare una risposta a una grave domanda che ci vien posta dal nostro tempo: «È possibile esser santi oggi?» e se sì: «Qual è la forma di santità possibile nel nostro tempo?». Comincio col precisare il concetto di santità e di santo, seguendo, naturalmente, quello che l’esperienza vissuta del Mistero divino può dirci. In tutti i tempi si è sempre ritenuto che Dio potesse compiacersi di qualche mortale, colmarlo di doni e favori speciali, così da separarlo dai suoi simili e da porlo in una situazione più vicina a Lui stesso. Anzi, si finì per ritenere il prescelto come un valido intercessore presso la divinità; si pensi, per rimanere nell’ambito della nostra religiosità, alle figure di Abramo, di Mosè, di Elia. Questa scelta fatta da Dio nei confronti di un mortale fu chiamata santificazione, e santità la qualità peculiare che lo rendeva differente, separato, in una posizione di privilegio, dai suoi simili. A seconda dei tempi, delle idee religiose, le qualità che rendevano preferito un mortale di fronte alla divinità sono differenti. Uno Sciamano è differente da un Profeta, uno Stregone da un Santo indù; con raffinarsi dell’intelletto d’amore, del senso morale, il concetto di santità fu individuato nella virtù, nella dedizione all’affermazione dei diritti dello spirito sopra la materia, nello sforzo costante e tenace per esprimere più e meglio l’interiore somiglianza divina, impressa in ogni uomo come un sigillo di predestinazione. Vale a dire: l’uomo deve compiersi in Dio, deve ascendere a Dio per poter assumere fino a Lui la materna materia. La santità è perciò la separazione dalla natura bruta. L’uomo è per sua natura predestinato alla santificazione e alla santità. Lentamente, ma sicuramente, assurgerà ad esse, anche suo malgrado. «La parola di Dio non torna alla sua sorgente senza aver recato i suoi frutti» (Is 55, 10). Oggi l’uomo non è per niente migliore, nei suoi istinti e nelle sue passioni, dell’uomo di mille anni fa, ma ha in sé alcuni istinti, alcuni modi d’essere sconosciuti allora. La violenza oggi non passa più per coraggio, l’astuzia non è più lodata come intelligenza. Nella valutazione generale non sopportiamo la tortura, la privazione della dignità e della libertà umana; gli stessi tiranni cercano di coprire i loro soprusi di fronte all’opinione pubblica e, quando ne hanno l’occasione, parlano con disinvoltura dei diritti dell’uomo! Ieri san Francesco e sant’Antonio suscitavano commozione predicando agli uccelli e parlando con i pesci; oggi, pur permanendo l’antica ferocia nei cacciatori, si moltiplicano le associazioni a carattere protettivo degli animali e delle piante. Il gesto di san Francesco è divenuto atto spontaneo in tanti uomini che lo compiono con naturalezza, come inerente ormai alla loro natura. La compassione, fuori da ogni isterismo sentimentale, è diffusa nelle coscienze, e con la compassione è sempre più esteso uno dei peculiari caratteri della santità che
consiste in una maggiore identificazione con Dio. Se Dio è buono anche l’uomo deve esserlo; se Dio è giusto, l’uomo del pari deve esercitare la giustizia; per l’uomo l’unico modo di esercitare la giustizia è quello di astenersi dalla vendetta. Ecco, quindi, le stesse leggi umane trasformarsi da punitive in preventive; ecco una nuova volontà riguardare alle carceri, ai patiboli come a cose che è necessario superare; ecco sorgere numerosi tribunali, costituiti da uomini e donne di matura coscienza, che condannano gli abusi del potere compiuti dai tiranni, e costoro non si sentono santi o eroi, ma semplicemente uomini. La compassione dell’uomo per l’uomo si unisce a quella dell’uomo per la creazione. Tutto dolora nel creato e l’uomo sta imparando a far naturalmente suo l’altrui dolore, e a non dare a questo suo nobilissimo sentimento un’importanza di virtù. La virtù, sotto questo aspetto, diventa per l’uomo un modo d’essere naturale, così lo spazio della santità si sposta, gli elementi della santificazione si complicano. Occorre assai più oggi che non ieri per santificarsi. Se ieri visitare i poveri, gli infermi, i carcerati era un gesto meritorio, oggi la società, con l’assistenza sociale e sanitaria, ne ha fatto addirittura una professione. Se ieri il lavoro dell’operaio era affidato alla coscienza del datore di lavoro, oggi, in ogni nazione civile, un contratto nazionale tenta di salvare, per tutti, i limiti di una dignità umana e impedirne gli abusi. Se ieri masse umane venivano tenute nella soggezione e nell’ignoranza, oggi ad esse viene, più o meno bene, spezzato il pane della conoscenza, mentre scompaiono i tuguri e la società affronta i ricettacoli del vizio. La coscienza di essere si affaccia in tutti gli esseri umani, e la voce dell’Uomo si fa sentire nel cuore e nella mente delle moltitudini. Mentre la società umana è ascesa a nuovi orizzonti, la singola individualità sembra stazionaria o regredita. Un tempo 1’individuo era migliore della società, oggi è la società che impone all’individuo una linea evolutiva. La bontà collettiva, 1’anelito collettivo alla giustizia, l’attuazione su vasta scala dei più urgenti postulati della carità portano l’individuo su una via di santità più sicura, ma anche più difficile. Oggi il santo non deve più, né può farlo, distinguersi per singolarità di costumi e di comportamenti, deve fare ciò che il vivere sociale impone e in più procedere a un interiore lavoro di trasformazione. Oggi il santo è veramente solo con Dio, talmente solo, come nessun eremita lo fu mai nel deserto. Raggiungere la santità significa procedere attraverso l’intrico delle interiori e spesso sconosciute deformazioni personali. Lavoro faticoso, non conosciuto da altri che da Dio, lavoro di discesa nei propri personali inferi, perché l’Uomo vero risorga in ognuno. Chi sente l’appello a quell’aggiunta di apertura all’essere che è la santità, deve inoltrarsi per la via della sua personale liberazione, con generosità, senza speranza o desiderio di premio alcuno, al fine di giungere alla perfetta statura di Cristo: l’Uomo vero. Il premio è insito nel compimento perfetto dell’opera, nella libertà sconfinata e consapevole dei Figli di Dio che, partecipando all’esistenza, se ne sentono indipendenti, che, di fronte a tutte le sollecitazioni di intrupparsi sotto qualche vessillo, rimangono se stessi, liberi da ogni richiamo idolatrico.
Oggi il santo è chiamato alla solitudine del suo interiore laboratorio, ove può sperimentare che la trasfigurazione del corpo nello spirito e la corporificazione dello spirito non sono un concetto ma una possibilità. Orgoglio? Più probabilmente coraggio e fedeltà al divino che è in ogni uomo.
LA TENTAZIONE Giovanni Vannucci, «La tentazione», 01a domenica di Quaresima, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 45-47.
Oltre al contenuto delle tre tentazioni, il brano del vangelo di Mt 4, 1-11 sottopone alla nostra indagine alcuni temi che è necessario approfondire prima di passare all’enucleazione del significato della prova cui Gesù vien sottoposto dallo Spirito; essi sono: la tentazione i quaranta giorni il numero tre delle suggestioni demoniache il Diavolo.
La tentazione Lo Spirito spinse Gesù perché si trovasse di fronte all’Avversario e con lui si misurasse; nel battesimo di Giovanni, Gesù aveva ricevuto l’investitura di Figlio prediletto, nel deserto la sua Coscienza Umana, consapevole della grandezza raggiunta, subisce e supera la tentazione di servirsene per il proprio dominio personale. La tentazione nasce dalla presenza di una nuova luce nella coscienza, e dalla necessità che questa invada e occupi tutti gli strati, dalla carne allo Spirito, dell’individuo che ne ha ricevuto il dono. Il Figlio di Dio, spinto dallo Spirito, va incontro al Deviante, al Diavolo, non per distruggerlo, ma per angelicarlo, trasformarlo consegnandogli quelle parole che gli avrebbero permesso di ritrovare il suo centro. Nella tentazione tutto si svolge come se Dio non voglia nel suo Regno se non coscienze provate e temprate; Dio vuole che tutto sia verificato e confermato dal superamento della prova, e che la creatura riesca a dare tutto quello che può produrre di luce.
I quaranta giorni «Dopo che ebbe digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame». Il numero quaranta, nella simbologia religiosa, designa la fase caotica che precede una trasformazione, un mutamento di coscienza; fase densa di decisioni riguardanti la vita o la morte, la salvezza o la dannazione. Gli sciamani si
sottopongono a un digiuno di quaranta giorni prima di incontrare la divinità. L’anima, nella tradizione egiziana, prima di conoscere la sua sorte, viene giudicata da un tribunale di quarantadue giudici, i quali valutano la responsabilità con la quale ha usato il dono della vita. Gli Ebrei trascorrono quaranta anni nel deserto. Il diluvio dura quaranta giorni. Gesù è condotto al tempio quaranta giorni dopo la nascita, risuscita quaranta ore dopo la morte. Il germe umano è sottoposto a una crisi di vita o di morte, quaranta giorni dopo il concepimento.
Il numero tre Il numero delle tre prove lo troviamo nelle religioni e nel folklore. Elia dopo le manifestazioni del vento violento, del terremoto e del fuoco, ode la voce di Dio nell’aura leggera che segue ai primi tre fenomeni, nei quali «dl Signore non era» (1 Re 19, 9-14). Il folklore abbonda di leggende che parlano di tre prove, tre desideri, tre pretendenti. Nella vita del Buddha sono narrate le tre tentazioni dell’Illuminato: la prima, l’offerta della sovranità su quattro continenti e duemila isole, e la risposta: non voglio il potere, ma desidero far gridare di gioia il mondo intero. La seconda, l’invito ad abbandonare le austerità per fare opere buone, e la risposta: si consumi pure la carne se la mente diviene tranquilla e l’attenzione più ferma. La terza, l’invito a lasciare l’esistenza per entrare nella beatitudine, e la risposta: non voglio morire finché la pura religione della verità non sia divenuta popolare in tutta la sua pienezza. Il numero tre, psicologicamente, è vissuto come il superamento della dualità in una superiore sintesi di unità. Il simbolismo del numero tre trova la sua piena espressione nei voti tradizionali del monaco. Monaco, nel senso profondo del termine, è «colui che ha raggiunto l’unità». Per meritare questo nome deve riportare una triplice vittoria: la povertà, la libertà dall’oro volgare, da tutti i legami inferiori dell’essere; la castità, l’interiorizzazione della donna per costituire in se stesso l’androgino; l’obbedienza, divenendo una sola cosa con la volontà divina. Ora passiamo alle tre tentazioni di Cristo. Esaminandole con attenzione, notiamo una differenza di direzione tra la prima, la terza e la seconda. La prima e la terza son centrate sulla materia, sul potere: «Cambia le pietre in pane; ti darò tutti i regni della terra»; la seconda è invece diretta verso la fiducia esclusiva nelle forze divine: «Gettati giù dal pinnacolo del tempio, i suoi angeli ti sosterranno nella caduta». Nel primo gruppo la tentazione è nel rifiuto dello spirito, nel secondo nella rimozione della materia e delle sue leggi: «Se sei Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane». «I regni del mondo ti darò se, prostrandoti, mi adorerai» (Mt 4, 3.9). La prima tentazione invitava Gesù a «fare del pane per se stesso», non solo il nutrimento per il corpo affamato, ma tutto ciò che nel pane è simboleggiato: le proprie idee, le proprie volontà, come i costruttori di Babele usando dei manufatti al
posto delle pietre, prodotto della natura, pensarono di costruire un nuovo mondo basato sulla loro ideazione. La risposta di Cristo ricollega il pane, e quanto esso significa, alla parola di Dio. Negli interventi sulla materia l’uomo prima di tutto deve ricollegarla alla parola divina creatrice, nella quale è radicata. La terza tentazione è l’invito all’amore del potere, dei possessi, e la risposta richiama all’esclusiva adorazione di Dio, senza la quale il potere, i possessi diventano idoli. La seconda tentazione è la suggestione di abbandonarsi totalmente a Dio, dimenticando le leggi e la realtà della materia.
Il Diavolo Così a ben intendere nel vocabolo usato dall’evangelista per designare il Tentatore, il Diavolo, colui che attraversa la strada per far deviare il viandante, sono incluse due energie onnipresenti nell’umana coscienza: la tendenza a degradare la verità nella pesantezza della materia, stabilendo l’equazione tra la materia e l’assoluto; la tendenza verso una ricerca smisurata dello spirito disprezzando la materia. Satana e Lucifero, i Giganti e i Titani. Satana che vuole l’attività della materia e il disinteresse allo Spirito, Lucifero che spinge all’attività dello Spirito e alla dimenticanza della materia. Nel Figlio di Dio, Figlio dell’Uomo e di Dio, Signore del cielo e della terra, queste due energie vengono ristabilite in una sfera di unità e di vita, vengono redente e salvate in una pienezza d’incarnazione e di illuminazione.
La trasfigurazione dell’essere Giovanni Vannucci, Omelia pronunciata domenica 27 maggio 1976 durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 19 nell’eremo di San Pietro alle Stinche - Greve in Chianti, FI); registrata su nastro magnetico e trascritta da Consalvo Fontani. Pubblicata in Ogni uomo è una zolla di terra , 1a ed. Borla editrice, Roma, aprile 1999, pag. 54-59.
La solennità di oggi ci porta la grande figura dell’Ascensione di Cristo nel cielo dei cieli e tutte le parole che abbiamo letto nelle letture. Cristo che ascende, gli apostoli che rimangono a guardare il cielo scrutando dove mai sia andato, e i due personaggi vestiti di bianco che dicono loro: “Non guardate il cielo, Cristo tornerà nello stesso modo in cui voi lo avete visto ascendere in cielo”. E poi le parole del Vangelo: andate e annunciate ad ogni creatura l’Evangelo, e il vostro annuncio sarà accompagnato da un rifiorire di vita, i demoni si allontaneranno, il veleno non nuocerà più e i malati riprenderanno a vivere. Come dobbiamo pensare al mistero dell’Ascensione del Signore? Io vi dico quello che io penso e ciascuno di voi spero che, mettendosi davanti a questo grande evento dell’Ascensione del Signore, cerchi di comprenderlo e viverlo secondo la sua sensibilità, secondo le sue capacità di comprensione e di avvicinamento a questo grande mistero. Altre volte abbiamo pensato a questo fatto, che fra noi e i grandi misteri compiutisi nella vita di Cristo o attraverso Cristo, c’è una mediazione, una mediazione di pensieri pensati da altri. Così tra noi e il mistero dell’Ascensione ci sono tutte le spiegazioni e le interpretazioni che gli esegeti e i teologi hanno dato del mistero dell’Ascensione. E noi ci possiamo fermare su questi pensieri e considerare la loro importanza, arricchire la nostra mente, soprattutto la nostra memoria, di sentenze e di interpretazioni. Ma finché ci fermiamo a queste spiegazioni, a questi pensieri pensati da altri, non avvicineremo il mistero dell’Ascensione. Bisogna mettere da parte tutti questi pensieri pensati da altri per poterci immergere nel fatto dell’Ascensione e comprenderlo con la nostra mente, con la nostra capacità di pensiero, con la nostra sensibilità e con le nostre capacità di comprensione e di apprensione del mistero. Allora il mistero dell’Ascensione diventa proprio un fatto religioso che incide profondamente nella trasformazione del nostro essere e, come vi ho detto altre volte, davanti a questi grandi misteri della vita di Cristo, misteri religiosi, noi dobbiamo sostare in silenzio, diventare capaci di ascoltare quanto ci viene comunicato attraverso questi grandi eventi. Come vi dicevo, nelle letture della Messa ci vengono date alcune indicazioni. La prima è quella degli Atti degli Apostoli; gli apostoli vedono Cristo ascendere in cielo e dileguarsi in forma di nube, come se il corpo di Cristo si fosse espanso, espanso e sparito; e i due personaggi dicono agli apostoli: Egli tornerà nello stesso modo in cui lo avete visto ascendere al cielo. Ritornerà attraverso un’espansione silenziosa e
luminosa. Tornerà nello stesso modo in cui è asceso, diventando realtà vibrante e trasformatrice nel cuore di tutti gli uomini. Questo credo che dobbiamo riuscire a comprendere attraverso una riflessione continua e assidua. Giorni fa nella Messa leggevamo le parole di Cristo: “Io sono la vite, voi i tralci; se resterete uniti a me porterete frutti, se invece vi staccherete da me non porterete frutti”. E allora comprendiamo che Cristo è quel germe di vita che con la sua ascensione è penetrato nel profondo della coscienza dell’uomo, non soltanto dell’uomo cristiano o cattolico, ma nella coscienza di tutti gli uomini e nel corso dei secoli porta avanti verso la sua verità, verso la maturazione religiosa, noi uomini. Quando gli apostoli, nella lettura, chiedono a Cristo quando instaurerà il suo regno, Lui dice: io non lo so, è il Padre. Non stabilisce una data, perché lungo il corso dei millenni Cristo è sempre operante nel profondo della coscienza dell’uomo e porta avanti ciascuno di noi, porta avanti ogni uomo, verso la sua verità, verso la pienezza di verità e di realtà, di umanità e di divinità tutti gli esseri umani, se noi rimaniamo uniti a lui che è il ceppo. E questa è l’Ascensione di Cristo. Egli siede alla destra di Dio. Cosa vuol dire? Vuol dire che ovunque c’è Dio c’è Cristo; vuol dire che ovunque nasce nel cuore dell’uomo un’aspirazione verso la verità, verso la bellezza, verso l’amore, verso la giustizia, verso la conoscenza, lì c’è Cristo come energia trasfiguratrice e trasformatrice della coscienza degli uomini e lentamente, lungo il corso dei millenni - perché noi misuriamo il tempo nell’arco della nostra vita, che è niente di fronte ai millenni che l’umanità ha percorso e ai tempi che ancora l’umanità dovrà percorrere -, Cristo opera costantemente e efficacemente alla trasformazione dell’uomo. E allora come tornerà Cristo? Cristo tornerà attraverso la maturazione di tutte le nostre esperienze più grandi, più vere, più nobili, di uomini, di coscienze. E un giorno ci accorgeremo di questo: Cristo è come il cuore del crisantemo verso il quale sono orientati tutti i petali e dal quale tutti i petali traggono la loro forza di vita e la loro bellezza. Per questo a noi cristiani è detto di non giudicare, ma di partecipare intensamente a quel mistero di vita che ci è stato rivelato in Cristo, senza giudicare strade differenti dalle nostre, ma portando il nostro contributo all’accrescimento della coscienza degli uomini, contributo che è legato alla nostra forma personale, alla nostra mentalità, alle nostre figure religiose, alla nostra storia di uomini, storia di popoli, mantenendo fedeltà a questo nucleo, a questo germe vitale che è Cristo. E allora il mistero dell’Ascensione diventa un fatto di vita per noi. Non vi sembra profondamente confortante questa visione che l’uomo nel corso dei millenni si avvicina sempre di più alla verità portata da Cristo, a quelle forze di trasfigurazione della coscienza umana, dell’opacità umana, che sono state introdotte da Cristo nella nostra realtà umana? Il cammino è lento perché Dio non fa violenza a nessuna coscienza e vuole che l’uomo maturi nel ritmo del tempo, nel corso dei tempi, nel corso dei secoli. E allora, guardando la storia degli uomini da questo punto di vista, abbiamo una grande
pace e una grande forza, e non giudicheremo nessuno, ma a tutti daremo quel contributo che viene dalla nostra trasformazione umana nella realtà di Cristo. E vi dicevo in una di queste domeniche che all’uomo è concessa la possibilità di diventare Dio sulla terra, perché noi diciamo che Dio è amore e l’uomo può amare, come Dio ama; diciamo che Dio è libertà e l’uomo può liberarsi da tutte le pesantezze, da tutti gli attaccamenti all’effimero, al tempo, al transitorio, per raggiungere la libertà nell’assoluto. E noi siamo in cammino verso questa divinizzazione della nostra vita. E ognuno di noi deve portare il suo contributo che è quello di essere intransigenti nella nostra fedeltà alle verità religiose che ci sono comunicate e costituiscono l’alimento sovrasostanziale del nostro cammino di uomini, di uomini cristiani. Ma non assumere mai un atteggiamento di separazione verso gli altri, perché nelle diversità di figure religiose, nelle diversità di impostazioni umane, c’è sempre questo germe di vita divina che è il Cristo che porta avanti l’umanità. E allora ci sentiremo pacificati e al tempo stesso ci sentiremo più responsabili di quel mistero religioso che ci è stato affidato e che deve crescere in noi e trasformarci, e più responsabili per l’umanità, perché gli altri uomini hanno bisogno della nostra trasfigurazione, della nostra luce, del nostro cambiamento da figli della terra, da figli della materia, in figli di Dio, in figli dello Spirito. E allora il nostro cammino sarà molto pacifico, molto più sereno e molto più positivo, perché radicato in quella realtà che costituisce l’oggetto centrale della nostra vita religiosa che è Cristo. Daremo agli uomini pacificamente l’annuncio della buona novella; lo daremo agli uomini e a tutte le creature. E noi saremo in mezzo agli uomini come principi illuminanti, principi di pacificazione che libereranno l’uomo veramente dal profondo, perché risveglieranno in lui quei grandi sogni senza i quali l’umanità intristisce, deperisce e diventa folle. Ecco, viviamo così il mistero dell’Ascensione. Sentiamo che Cristo è presente fino alla consumazione dei secoli e la sua Parola è operante nel momento presente come sarà operante fra millenni dopo la nostra esistenza terrena. E l’operosità della parola di Cristo accompagna la trasformazione della coscienza umana che dalla terra è chiamata a vivere nel cielo, che dalla pesantezza della vita terrena è chiamata a dilatarsi nella sconfinata realtà dello Spirito. Dalla realtà terrena ognuno di noi è chiamato, come Cristo, a vivere alla destra di Dio. Sia così la nostra meditazione sul mistero dell’Ascensione del Signore e in questo giorno, anche se i tempi nostri sono tristi e duri, cerchiamo di ritrovare i motivi della nostra grande speranza e viverla pienamente, muovendoci serenamente in mezzo alle vicende degli uomini, sapendo che qualunque aspetto essi assumano, sono condotti da Cristo, che è la presenza invisibile nel cuore di tutti gli uomini, anche nelle forme di vita che sono più difformi da quello che noi pensiamo, da quello che noi sentiamo e da quello che noi vorremmo.
Avere questo spirito di pace, questa apertura ecumenica verso tutti gli uomini, ci permetterà di essere veramente cristiani, cioè cristiani che credono che Cristo è asceso nel cielo dei cieli e è la mano destra di Dio.
LA TRASFIGURAZIONE Giovanni Vannucci, «La Trasfigurazione», 02a domenica di Quaresima, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 48-50
Il nostro tempo stimola noi cristiani, con un’esigenza assoluta, indeclinabile, non nuova in sé, ma nella forza con la quale agisce in noi. Intensificazione di forza che è l’effetto di fallimenti storici della testimonianza cristiana, e di un approfondimento del fatto religioso che, anche se fino a ora è ristretto a un numero limitato di coscienze, andrà rivelandosi come l’unica risposta alla ricerca religiosa dell’uomo. Esigenza che nasce da una duplice constatazione: una, l’approfondimento del mistero della Parola eterna che è discesa nella carne; l’altra, l’avvertimento, consapevole o no, che il nostro bisogno di storicizzare il Mistero e le sue manifestazioni ha cristallizzato in una serie di forme-pensiero la presenza eterna di Cristo. Le parole del Maestro: «Io sarò con voi fino alla consumazione del tempo», ci dicono che Cristo è la trascendenza divina immanente nella vita. La sua vicenda è la vicenda esemplare di ogni coscienza umana, le tappe salienti della sua vita sono le stesse che ogni coscienza è obbligata a percorrere se vuole giungere alla sua personale trasfigurazione. Trasfigurazione, come ben l’ha compreso il cristianesimo ortodosso, è la parola chiave dell’esperienza cristiana. Vocabolo che comprende numerosi significati: estetici, affettivi, religiosi, teologici. Nel suo senso più immediato e umile, indica il passaggio da una figura a un’altra. Nel suo più elevato senso, richiama il «corpo glorioso» della tradizione cristiana, il «corpo di luce» del sufismo iraniano, il «corpo di risurrezione» della tradizione ebraico-cabalista. Il termine di trasfigurazione include due concetti fondamentali: quello di purificazione e di elevazione. Si dice «un viso trasfigurato dalla gioia» e all’inverso «un viso sfigurato dalla paura». La gioia, la felicità sprigionano le essenze dell’alto, le irradiano per effetto della diffusività del Bene. In questa Trasfigurazione c’è un doppio processo di superamento di ciò che è contrario alla gioia e di integrazione dell’essere nella gioia, il secondo concetto è l’aspetto improvviso, fulmineo della Trasfigurazione. Cristo viene trasfigurato inaspettatamente davanti ai discepoli; dopo aver superato le suggestioni delle essenze del basso. Cristo incontra le essenze dell’alto e l’incontro è come un corto circuito folgorante tra ambedue: il basso viene assunto e trasfigurato dall’alto, l’alto nel suo impatto con il basso si manifesta nella teofania di Cristo irradiante luce.
Nell’immagine della Trasfigurazione riportata da Mt 17,1-9 si hanno tre livelli: nell’alto quello del «corpo glorioso», Gesù attorniato da Mosè e da Elia; nel mezzo i tre apostoli Pietro, Giovanni, Giacomo prostrati al suolo, accecati dalla nube luminosa; ai piedi del monte gli altri discepoli e la folla. La scena è dominata dalla voce che ne rivela il significato: «Costui è il mio Figlio, il prediletto. Lui ascoltate». Pietro, Giovanni e Giacomo, sono la proiezione nell’umanità sonnolenta della triade luminosa di Mosè, Gesù, Elia. Gesù è il luminoso centro di essa, come Giovanni è il centro della seconda. I tre personaggi di ambedue sono le funzioni che caratterizzano ogni movimento d’ascesa verso lo Spirito. Mosè, il Legislatore della Vecchia Alleanza, ma che non entrò nella terra promessa; Pietro, l’energia strutturante della Nuova Alleanza, con tutti i suoi entusiasmi e tradimenti; Elia e Giacomo simboli del profetismo, dell’energia che demolisce ogni chiusura raggiunta e definita; Gesù e Giovanni figure della suprema sintesi nello Spirito che unisce la coscienza umana con la realtà della vita divina, per cui l’uomo da figlio della terra e della carne diventa il Figlio prediletto. Riprendendo il concetto iniziale di non storicizzare il tempo e gli eventi della storia dell’anima, e sovrapponendolo alla teofania, alla manifestazione divina della Trasfigurazione redatta dall’evangelista Matteo, abbiamo questi tre piani, nel basso un’umanità agitata e distratta: la generazione incredula e pervertita; nel piano intermedio tre figure, tre funzioni: la funzione organizzatrice, quella profeticoinquietante; la loro sintesi in un movimento ascensionale verso il piano trasfigurato. Considerando la Trasfigurazione, nella sua immagine tripartita, e non dimenticando che essa appartiene al tempo e alla storia dell’anima, e non al tempo e alla storia degli avvenimenti esteriori, essa ci rivela il suo travolgente e coinvolgente significato: non riguarda solo Cristo e i discepoli, ma riguarda ogni uomo e di conseguenza tutta l’umanità. In me esiste una zona caotica di pensieri, di volontà, di desideri, di passioni, «la generazione incredula e pervertita»; in me esiste un’indomita volontà di luce, di ascesa, di trasfigurazione; le conquiste che riesco a fare, il dominio che raggiungo mi porta a formulare in precettistiche, in sistemi di conoscenza e di morale le vie sperimentate e le nozioni raggiunte, a sentirmi bene in queste vittorie, a voler costruire delle tende per render durevole la pace raggiunta: è la funzione di Mosè e di Pietro. Una volta raggiunta la tranquillità, sento nascere in me una sottile inquietudine che mi sussurra: sempre oltre, sempre oltre è la tua dimora, l’infinito cui sei chiamato dimora non ha: è la funzione profetica di Elia e di Giacomo. Riprendo allora il mio cammino che, come quello del Figlio dell’Uomo, non ha riparo ove pernottare, né pietra ove posare il capo. Il termine del mio cammino è la Trasfigurazione gloriosa in Cristo, in Cristo Figlio prediletto; cammino che sono chiamato a percorrere andando sempre oltre. Egli è l’infinita vita, l’infinita luce che opera nel tempo e nello spazio, ma non vi è contenuta. La Trasfigurazione, allora, non è un’immagine letteraria, ma la più positiva delle
realtĂ : nessun essere umano raggiungerĂ la luce del Figlio se non nella propria carne e nel riordinamento della propria realtĂ terrestre.
LA VESTE DI LUCE Giovanni Vannucci, «La veste di luce» in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984;. 28 a del tempo ordinario - Anno A; Pag. 174-176. 1
Esaminiamo con attenzione la parabola, offerta alla nostra riflessione in Mt 22, 1-14: i primi invitati, quelli cui spettava il diritto di entrare nella sala del banchetto, si rifiutano di andarvi, alcuni continuano i loro traffici, altri maltrattano e uccidono i domestici del re; al loro posto vengono invitati dei vagabondi che oziavano agli incroci delle strade. Entrati nella sala del pranzo, uno di loro viene trovato senza la veste nuziale, espulso, viene gettato nelle tenebre esterne, ove è pianto e stridore di denti. Non è una parabola parenetica, detta cioè con intenzioni moralistiche o edificanti, è la raffigurazione, in un’immagine di apologo, della storia religiosa dell’uomo e del suo differente modo di rispondere ai ritmi della Rivelazione. In periodi ritmici, di cui non è impossibile tracciare la durata e il movimento, giunge una pienezza dei tempi, quando Dio, a passi vellutati come ladro di notte, chiama gli uomini del tempo che sta per chiudersi a raccogliere il grano maturo, a portarlo alla nuova festa nuziale che segna il termine di una Parola rivelata e l’inizio di un nuovo canto e di più matura gioia. I sapienti, custodi della Parola al tramonto, continuano a ripetere le loro parole, i loro gesti, e mentre Dio cresce continuano a parlare e a tener chiuse le pone della vita. Allora Dio si rivolge alla terra senza attesa, agli emarginati, agli estromessi dal mondo ufficiale, e piega il loro cuore alla gioia delle nuove nozze. Ai primi, che conoscono il re e lo chiamano amico, è rivolto l’invito fin dai tempi dei tempi, e quando i tempi sono compiuti a essi quell’invito è ricordato. Mosè è inviato prima al Faraone, custode di una Parola ormai al tramonto; Gesù è inviato prima di tutto al popolo eletto, testimone di una Parola che ha dato i suoi frutti e che era entrata ormai nella stagione autunnale. Chiunque, in qualsiasi maniera, si avvicini alla conoscenza, sa bene che essa lo porterà all’intimità con Dio, alla suprema amicizia con lo Spirito. Che tutto ciò possa creare degli obblighi o dei doveri non viene, ordinariamente, pensato, ma lo Spirito lo pensa. Egli ama i suoi amici e vuole onorarli, perciò li invita alla festa delle nuove nozze; li invita ad attuare quel mutamento di coscienza richiesto dalla novità della Rivelazione che avanza; ma quest’invito non è accettato, non è gradito. Il re allora non vuole più avere a che fare con simili amici, il banchetto è pronto, e non intende consumarlo da solo o in compagnia dei suoi servi, fa chiamare chi non si sarebbe mai aspettato l’invito, chi ormai è senza alcuna attesa.
Ecco che Dio chiama alla sua cena tutti quelli che da molto tempo non sperano più nulla. Nell’Egitto opulento e dotto, organizzato con la perfezione di un alveare, Dio chiama gli emarginati pastori ebrei; nel mondo dei dotti maestri di Israele, dei sapienti Greci e potenti Romani, chiama gli schiavi, quelli che non avevano personalità giuridica. Nella pienezza dei tempi raggiunta da ogni èra della Rivelazione, Dio chiama, con ogni mezzo, tutti quelli che hanno in sé il più piccolo elemento spirituale, li cerca ovunque siano, li forza, se occorre, a entrare nella sala delle nuove nozze, perché non vorrà che nessuno dei primi invitati si sieda alla sua mensa. Dai primordi della storia umana ai giorni attuali, questa parabola si e sempre mostrata vera. Di continuo Dio favorisce della sua amicizia, dona cioè una più vasta intensità intellettuale ad alcuni uomini, li illumina di grazia, li avvalora di intuizioni, li colma di conoscenza, li inizia a una più ampia rivelazione, li invita alla mensa delle sue nuove nozze con l’umanità. I continuatori della loro opera hanno costruito, attorno alla loro Parola vivente e con l’intenzione di diffonderla, delle costruzioni ideologiche, delle formulazioni di comportamento, delle ascesi per giungere al suo vivo nucleo. Inevitabilmente da questa operazione è nata in essi la compiacenza delle loro costruzioni, l’orgoglio di essere nella verità, la fiducia dogmatica nella loro giustizia formale. Quando la Parola che è stata rivestita di interpretazioni, di costruzioni e di ritualizzazioni giunge all’ora del suo tramonto e sta iniziando l’ascesa una nuova Parola rivelata, i primi invitati sono riluttanti ad andarle incontro e a rinnovarsi in essa, e le si oppongono o la rifiutano. Cosi si condannano a esser respinti, a non avere più partecipazione alla comunione divina. Allora gli emarginati subentrano agli inseriti, gli ignoranti agli eruditi, gli ultimi ai primi. La condizione posta a chi partecipa alla festa nuziale è che indossi la veste richiesta. Il tema della veste ci riporta a un’immagine guida della esperienza religiosa ebraico-cristiana. Nel paradiso terrestre i progenitori del genere umano hanno perduto la veste di luce di cui erano rivestiti, e indossata una veste opaca di pelle, di non-luce (Gen 3, 21). Per questa scelta l’uomo si è inserito esistenzialmente nel mondo dell’esteriorità, privato del suo polo luminoso cominciò il suo cammino verso la morte. Lungo questo doloroso pellegrinaggio trova il percorso segnato da pietre miliari, le Parole della Rivelazione, che lo orientano verso la luce delle origini, verso la conquista della veste di luce, verso la vita vera. Il cambiamento di direzione bisogna che sia totale, altrimenti non sarà possibile il ritorno nella sala luminosa dove vengon celebrate le nozze di Dio e dell’uomo. Tra coloro che si muoveranno dai crocicchi per rispondere all’invito, ci sarà qualcuno che si muoverà non del tutto convinto, stimolato più da! pensiero equivoco che gli suggerisce: «Prova, non si sa mai», che da un’assoluta aspirazione alla luce. Anche costui rimarrà escluso e gettato nelle tenebre esteriori. Scoprendo in noi un intenso desiderio di luce, una mente che non si placa delle piccole luci terrene, che godendo di un sole ne desidera mille per vivere una più vasta luce, mettiamo tutte le nostre forze e capacità a servizio di questa luminosa
aspirazione. La nostra luce si unirà ad altre luci, queste ad altre in una nuova e non peritura Ecclesia: quella dove vengono celebrate le nozze dell’uomo e di Dio.