Decalogo semplice

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ieci episodi di vita di Rocco Raspa, un semplice imbianchino protagonista suo malgrado di situazioni comiche, drammatiche, surreali. Popolano i suoi giorni vari personaggi talmente improbabili da risultare veri, a cui il lettore non potrà fare a meno di affezionarsi. Mike Papa ha la capacità di descrivere una quotidianità che disorienta, tratteggiando un’epica ridda di antieroi. Leggendo queste storie possiamo trovare un senso di già vissuto, odori e sapori già sentiti, probabilmente mentre eravamo impegnati a vivere.

MIKE PAPA nasce a Lalagna (FR) nel 1964. Il suo nome viene tristemente alla ribalta nel 1996 quando è indagato per parricidio dopo la famosa Strage di Malaga, raccontata in Bianco, liscio e a piombo (2010). Costretto su una sedia a rotelle per le ferite riportate, oggi vive e lavora come bibliotecario nella sua città natale. Ha pubblicato nel 2016 la raccolta di racconti La finestra sul porcile.

ISBN ISBN 9781979406970 978-1979406970

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€ 13,90

9 781979 406970


miKe papa DECALOGO SEMPLICE


© Mike Papa, 2017 © FdBooks, 2017. Edizione 1.0 L’edizione digitale di questo libro è disponibile online in formato .mobi su Amazon e in formato .epub su Google Play e altri store online.

Copertina e illustrazioni: Grafica e disegni originali di Mara Santinello (marasantinello@gmail.com). ISBN 978-1979406970

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. è vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.


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L’

incubo in cui ero rimasto invischiato venne lentamente sopraffatto da un suono noioso e insistente che si insinuò a sorpresa nella nebbia rossa che mi circondava, una nebbia dello stesso colore e della stessa densità del sangue dentro la quale mi sarei senz’altro perso se il fastidiosissimo dirididing della sveglia non mi fosse venuto in aiuto con tempestività tipicamente svizzera. Fa niente se il cubo da quattro soldi con tre lancette e una suoneria impossibile aveva bene impresso sul fondo la scritta «made iN Korea»: la precisione è precisione. Annaspando tra il sonno e la veglia, con ancora appiccicata addosso quella melma rossa, riuscii a trovare e schiacciare il minuscolo bottoncino che poneva fine alla musica spaccapalle. Fa niente se nell’operazione il cubo di plasticaccia cadde sul pavimento e si aprì in quattro: il silenzio è silenzio. Me lo gustai per due minuti, il silenzio. Mi sarei volentieri rigirato nel letto per un’altra mezz’ora valutando l’entità del mio mal di testa e lasciandomi asciugare addosso il sudore che mi copriva come un gelido sudario. Questi cazzo di incubi! Non lo vogliono capire di lasciarmi in pace, sciaddìo! No, invece sempre peggio. E sempre più spesso, per giunta! Ma ci vado, sai? Ci vado da uno strizzacervelli. Prima o poi. Tutte le mie riflessioni furono interrotte da Babbo, che venne a reclamare la colazione a furia di graffi e miagolii struggenti.


«Va bene bastardo, adesso mi alzo. Tu vai a preparare la colazione, intanto. Marsch!» gli dissi mettendomi a sedere sul letto e poggiando i piedi sul pavimento deliziosamente fresco. Partì con buon passo verso la cucina ma mi sembrò abbastanza improbabile che mettesse la caffettiera sul gas, se non altro perché non aveva ancora imparato ad aprire il rubinetto del metano e dato che lo chiudevo in maniera quasi maniacale tutte le sere… Mi guardai attorno. Il letto sembrava un campo di battaglia: le lenzuola erano attorcigliate tra loro e buttate in un fianco, il coprimaterasso sfoggiava svariate rose di sudore. Appunto mentale per Rocco Raspa: informarsi su un dottore; e, cazzo!, comprare una nuova sveglia aggiunsi quando una scheggia di plastica mi punse la parte molle del piede. Agguantai le infradito e mi trascinai fino allo stereo aprendo la bocca in uno sbadiglio cosmico. Dalla cucina mi arrivò la risposta di Babbo: forse la colazione era pronta. Un cd era già inserito e premendo il tasto play riconobbi la musica soft con la quale mi ero addormentato. Niente di più sbagliato: lunedì mattina, ore sei, ci voleva qualcosa di più cattivo, magari un blues di quelli duri e tirati. Eccolo qua: Stevie Ray Vaughan. Babbo si avvicinò e approvò la scelta facendo le fusa e strusciandosi tra le mie gambe. Ma forse aveva solo fame. Ciabattai in cucina al ritmo di Pride and joy, tirai fuori dal frigo semivuoto la scatoletta di carne per il mio coinquilino e ne versai una dose abbondante nella ciotola su cui avevo scritto con vernice rossa: pappa di babbo. Dopo due minuti la ciotola era vuota e Babbo emetteva un sonoro rutto. I gatti ruttano? Non so gli altri, ma il mio sì. D’altronde non era certo un gatto normale, non fosse altro perché viveva con me. Mentre aspettavo che uscisse il caffè ripassai mentalmente ciò che mi attendeva: Villa Alleva. Sembrava uno scioglilingua: arriva a Villa Alleva e leva la lava e lava la lana… e la rava e la fava… La dimora era di nuovo occupata, finalmente. Era un vero dispiacere quando ci si passava davanti e si vedeva che stava andando tutto in malora. Eppure era una villetta niente male: isolata ma non troppo, due bei piani, un vasto giardino e pini secolari tutto intorno.

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E poi avevo un legame affettivo con quel posto, non solo perché era vicino alla cascina dei nonni nella quale avevo vissuto per qualche anno da piccolo, ma soprattutto perché in una delle sue stanze avevo perso la verginità grazie a una mulattina che si chiamava… sì, vatti a ricordare! Il fratello era Armando e frequentavamo la stessa scuola, ma lei… come cazzo si chiamava? Un nome esotico forse, tipo… Cazzo, qui non ci vuole solo uno strizzacervelli ma anche uno specialista in memoria! Dimenticarsi così di Vanessa! Eccolo, alleluia! Vanessa! Vanessa la diavolessa! Intanto mi ero scottato la lingua con il caffè bollente, sciaddìo! Quando zio Nello, che da tempo aveva assunto a pieno titolo il ruolo di mio manager, mi aveva parlato di quel lavoro, non aveva saputo dirmi un granché ma si era soffermato sul fatto che la villa era stata acquistata da un’attrice: «Non ricordo il nome, quindi senz’altro non è Sophia Loren, ma è un’attrice. Cazzo, che ci fa un’attrice nel Buco del Culo del Mondo?». La colorita espressione definiva in maniera perfetta il paese dove vivevamo, un pugno di case buttate su una collina dove l’ultimo fatto degno di nota si era verificato nell’a.D. 1303. Da allora l’oblio, la noia, l’abbandono, il niente… Ma ci vado, sai? Ci vado via prima o poi da questo mortorio. Prima o poi… Bevuto il caffè mi sedetti sul trono, dopo aver acceso la prima sigaretta delle quasi quaranta che avrei fumato fino a sera, e mi misi a fantasticare sulla famosa attrice: già la vedevo innamorata di me al primo sguardo e io che andavo a vivere in villa passando il tempo a non fare un cazzo. Sogna Raspa, sogna… Attento al risveglio, però. Per andare a fare la conquista che avrebbe dato una svolta positiva alla mia vita mi agghindai con una salopette pulita, T-shirt bianca e scarponcini pesanti da fatica. Misi dentro lo zaino un paio di scarpe da ginnastica, casomai gli scarponcini mi avessero fatto venire i calli; una camicia di flanella per la sera che di solito in quel periodo era sempre un po’ più fresca; un paio di panini per pranzo che avevo preparato la sera prima – o addirittura sabato? – e la pistola, dopo aver verificato che ci fosse il caricatore pieno, il colpo in canna e la sicura inserita. Pronto ad andare. Si erano fatte le sette meno dieci, me la potevo prendere con tutta calma: lo zio mi aveva detto che sarebbe stato inutile arrivare prima delle otto perché di sicuro non avrei trovato nessuno, e non ci sarebbe voluto più di un quarto d’ora per giungere sul posto.

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Una cosa che mi piace dei paesi tipo il mio è proprio questa: vivi praticamente al centro ma in dieci minuti ti ritrovi in campagna. Non cambierei tale comodità per niente al mondo perché la campagna mi piace, mi piace il suo silenzio, la tranquillità. Prima di uscire mi soffermai ad ammirare il bonsai di quercia che troneggiava su una mensola vicino alla libreria. Lo ammirai da tutte le parti, inclinando la testa di qua e di là: in forma perfetta. Le foglie erano di un verde brillante e i rami crescevano bene; tra qualche giorno l’avrei liberato dal filo di rame con il quale lo stavo educando. Ogni volta che lo guardavo non potevo fare a meno di meravigliarmi di come una vita così rigogliosa potesse trarre nutrimento solo dal pugno di terra che ne ricopriva le radici. Spirito d’adattamento: prendi quel poco che hai e sfruttalo fino in fondo. «Ok Babbo, io vado. Vuoi venire con me in campagna?». Macché, neanche per sogno. Sto talmente bene qui che me ne sbatto di correre tutto il giorno dietro qualche lucertola o qualche grillo. Prendi quel poco che hai… Scesi le scale facendo un rumore inopportuno con le scarpe pesanti; un po’ lo facevo apposta: perché gli altri potevano dormire mentre io dovevo andare a faticare? Feci in tempo a fare una sola rampa: la porta dell’appartamento sotto il mio si aprì quasi sulla mia faccia e uno spettro in vestaglia e bigodini mi si parò davanti. La visione della signora Trulli, mia padrona di casa, a quell’ora di prima mattina mi fece quasi sporcare il pianerottolo di caffè, che mi tornò su di prepotenza. Cercai di sgattaiolare, come avrebbe detto Babbo. Lei non me lo permise. «Signor Raspa!». «Buongiorno, signora». «A lei. Per l’affitto?». «Che giorno è oggi?». «Già il dodici». Attraverso la tela leggera dello zaino sentivo il calcio della pistola che mi solleticava una scapola. In un lampo vidi la signora Trulli con un buco insanguinato in mezzo agli occhi e me stesso che soffiavo sulla canna fumante. «Ci vediamo sabato e facciamo i conti, d’accordo?» le proposi. «Sabato, eh? Speriamo». «Stia tranquilla». «Come al solito».

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«L’ho mai delusa?». Non si degnò di rispondere, ma riscivolò nel proprio antro senza fare il minimo rumore. Io varcai il portone sui duecento chilometri orari. Cazzo se era deprimente, la vecchia! Dopo tre anni che abitavo nel palazzo ancora ogni mese mi spaccava i coglioni reclamando l’affitto, sempre sulla soglia e sempre con la solita vestaglia e i soliti bigodini. Ma ci dormiva anche, con quei cosi in testa? Ma vaffanculo! Il Fiorino mi aspettava dall’altra parte della strada, bene accostato al palazzo di fronte già carico dal giorno prima (o addirittura da sabato?), quindi… ventre a terra verso nord! Alle sette e quaranta mi fermai al bar di Panesecco, sullo svincolo della superstrada: un caffè, sigarette – due pacchetti per sicurezza – e una birra da portar via. Claudia, la barista rospa che da due secoli era innamorata di me, si esibì in tutto il repertorio delle moine: Rocco qui; Rocco là; il caffè va bene o sennò te lo rifaccio; dove vai; quando torni; quando mi scopi… Mai! Una sigaretta fuori dal bar, perduto in mezzo a migliaia di albanesi che aspettavano il caporale, e alle 8.04 ero davanti all’ingresso della villa. L’aria di ristrutturazione si respirava già dall’ingresso: il vecchio cancello di ferro tutto arrugginito era stato portato via e una colonna di mattoncini rossi era in fase di rifacimento; il viale che ricordavo coperto di ghiaia ed erbacce era stato cementato di recente, non tanto comunque da impedirmi di arrivare davanti agli archi che sorreggevano il primo piano della casa. Sul piazzale, anch’esso soffocato dal cemento, erano ammucchiati alla rinfusa innumerevoli materiali da costruzione. Di esseri umani nemmeno l’ombra. Scesi dal furgoncino accendendo una sigaretta e guardandomi attorno: nessun segno di vita. Mi attaccai al clacson, che quella mattina mandava un suono trionfale, fino a quando da dietro l’angolo della villa non spuntò un cappello di paglia con sotto un ometto a torso nudo e stivali di gomma alti fino al ginocchio, tutti sporchi di fango. Si intravedevano le mutande di lana ingiallite tra la cinta dei jeans e l’ombelico. Mentre l’ometto si avvicinava agitava un braccio ossuto per far cessare la marcia trionfale; arrivato alla mia altezza, si levò il cappellaccio e si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto di un bianco accecante.

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Se sudava in quel modo alle otto di mattina, a mezzogiorno avrei ritrovato solo una pozza sotto il cappello di paglia. Mi presentai: «Buongiorno, sono Rocco. Rocco Raspa, il pittore». I pittori erano Michelangelo, Raffaello… tu sei l’imbianchino, al limite. Finalmente si accorse del mio arto proteso verso di lui: lo prese e lo scrollò con una forza che mi mise in moto tutto il braccio e una buona parte del torace. «Io sono Berto, giardiniere e tuttofare. Salve». «Ok, Bert – dissi quando riuscii a sottrarmi alla morsa della mano callosa – eccoci qua. La signora?». «Sì, la signora… Io sono una decina… no, dodici giorni che bazzico da queste parti… un sacco di lavoro per uno come me. Alla mia età dovrei stare al fresco di una palma a fare un cazzo, ecco quello che ti dico… In dieci giorni l’ho vista solo una volta, di sfuggita. Un bel pezzo di… sai cosa voglio dire. Ma mi sa che non è molto entusiasta della casa nuova». Fece questa tirata tutta d’un fiato, come se non aspettasse altro che dire qualcosa a chiunque gli fosse capitato. Non ci eravamo spostati di un centimetro, io appoggiato al Fiorino e lui con il cappello in una mano e il fazzoletto nell’altra davanti a me. Gli offrii una sigaretta, tanto per fare qualcosa. Lui alzò il cappellaccio a coprirsi la faccia: «Veleno!». «Allora mi suicido» dissi facendo scattare l’accendino all’estremità del rotolo di carta. «Insomma, che sono venuto a fare?». Agitò il fazzoletto in su e in giù. «A pitturare, no? Vieni che ti faccio vedere…». Mi pilotò verso il portoncino d’entrata. Tutto era cambiato da quando, secoli prima, Armando mi veniva ad aprire la porta per introdurmi nel suo mondo: al posto dell’atrio c’era un vasto ambiente che a giudicare dai tubi posizionati nell’intonaco fresco era stato trasformato in cucina; a sinistra un arco introduceva all’unico salone, con in fondo la scala che si perdeva verso il piano superiore, teatro di battaglie epiche tra me e Armando. E Vanessa, certo. Berto si fermò in mezzo alla sala: «Tutto da fare! – disse girando un braccio intorno – e anche il piano superiore: un paio di camere da letto, uno studio e un bagno principesco. Un sacco di lavoro. Sei venuto solo?». No, sono qui con i miei amici invisibili!

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«Per il momento. Sono solo l’avanguardia delle truppe. Colore?». «E chennesò! Per quello bisognerà aspettare la Madama. Intanto puoi fare qualcosa o no?». «Sicuro. Il colore è l’ultima cosa. Pensi che verrà?». «E chennesò! Te l’ho detto, non è molto entusiasta». Ripresi la via dell’uscita per andare a procurarmi qualche attrezzo. Mi venne in mente una cosa: «Se non le piace, che l’ha comprata a fare? Voglio dire…». L’ometto mi stava seguendo, in tutti e due i sensi: «Gliel’ha comprata… regalata… il suo… come si dice? Agente, forse. Beh insomma ai miei tempi l’avremmo chiamato il suo magnaccia… qualcosa del genere, almeno. Dovresti vederlo… sono arrivati insieme, l’altra volta: una Mercedes con autista. Lei bellina, come ti ho detto; lui sigaro in bocca, basso grasso e sudato. Hai presente le caricature dei boss che fanno al cinema? Uguale. Le illustra il castello orgoglioso e lei alla fine sbuffa e dice: “Che stronzata!”, si rimette in macchina e accende una sigaretta. Nel salire fa saettare un paio di gambe niente male. Lui la guarda da fuori per dieci minuti, finché lei non gli getta il mozzicone in mezzo alle scarpe lucide; al che lui tutto scazzato le monta affianco e abbaia un ordine a Battista. Se ne sono andati che ancora litigavano…». «Un’occhiatina di sfuggita, eh?» dissi mentre scaricavo il trabattello schiacciandomi il pollice, sciaddìo! «Mi è successo tutto davanti agli occhi, mica li stavo spiando!» si scusò senza mostrare la minima intenzione di aiutarmi. Io avevo il pollicione dolorante e una trentina di pezzi da tirar fuori dal Fiorino, quindi me ne sbattei completamente le palle delle sue scuse. «Ok Bert, io vado a montare ’sto coso. Se non hai niente da fare…». «Scherzi? Devo ancora piantare tutti i biancospini. Venticinque, come gli anni della star». «Ma come si chiama ’sta star?». «Stella. Curioso, eh? Stella Morse. Morse come l’alfabeto». Mai sentita nominare. Mi venne in mente un’altra cosa: «Ma tu per chi lavori?». «Mi ha assunto una società strana, credo faccia capo al manager di Stella. Ma in finale chi se ne frega, basta che mi paghino!». «Va bene Bertoldo, io vado. Comincio dal piano superiore». «Comincia un po’ da dove cazzo ti pare».

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Mi pareva abbastanza contrariato, il poverino. Sarà stato perché l’avevo chiamato Bertoldo? O perché non gli avevo dato abbastanza soddisfazione? Ma vaffanculo! Al piano superiore della villa tutto era diverso da ciò che ricordavo dall’infanzia: i tramezzi erano stati abbattuti e altri erano stati costruiti per soddisfare le esigenze di qualche architetto paranoico o del nuovo padrone del maniero. Chissà perché avevo la sicurezza che nessuno si fosse interessato alle esigenze di Stella Morse, o ai suoi gusti. Muovermi in quell’ambiente era del tutto strano, angoli che dovevano essere familiari erano scomparsi per lasciar posto a stanze anonime e senza nessun’aria di dejà-vu. Mi aggirai per tutto il piano decidendo da dove cominciare il lavoro, ma soprattutto cercando un che di affettivo che per forza doveva essere rimasto impregnato fra quelle mura. Invece niente. Se mi avessero portato alla villa bendato e solo una volta sul posto mi avessero permesso di vedere dove fossi, mai e poi mai mi sarebbe venuto in mente che avrei potuto essere a Villa Alleva! Se non fossi stato sicuro di aver preso la strada giusta, se non fossi passato davanti alla cascina dei nonni dove avevo trascorso gli anni bui dell’infanzia… anch’essa era ormai poco meno di un rudere, abbandonata alle erbacce e alle intemperie. Chissà tecnicamente a chi apparteneva ora che i legittimi proprietari erano morti da anni. Avrei dovuto saperlo, ma me ne ero sbattuto completamente le palle e non avevo alcuna intenzione di informarmi adesso. Se non avessi imboccato il viale d’entrata di quella che ero certo fosse Villa Alleva, se non fossi stato perfettamente sicuro di dove mi trovassi, beh allora avrei potuto essere in qualsiasi parte della Terra, o dell’universo. Dopo tre-quattro ore di evocazioni fallite scesi per consumare i panini. In più di qualche occasione avevo creduto di sentire un richiamo soffuso, voci che si rincorrevano lungo i corridoi, sussurri dei miei vecchi amici che mi chiamavano. Rocco finalmente sei tornato! Resta ti prego Rocco, finalmente… Resta, ti preghiamo… Ma non era niente se non la mia fantasia, la mia voglia di tornare a sentirli.

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Girai dietro la villa e sorpresi Berto che scavava tutt’intorno a un giardinetto delle stesse dimensioni della piazza del paese. Mi avvicinai: «Bert, pausa pranzo?». Speravo che mi rispondesse che andava a mangiare a casa o che non aveva appetito o che fosse nel periodo di ramadan. Avevo pochissima voglia di starlo a sentire. E invece: «Arrivo subito!». Che par di palle! Però mi fece sistemare in un bel posto, al fresco di un pino. La fregatura fu che si sedette di fianco a me; tirò fuori una gavetta enorme, posate, bicchieri, fiasco di vino e tovaglia. Io cacciai dallo zaino la birretta tiepida e i paninazzi. «Quando lavoro preferisco stare leggero» mi giustificai senza che ce ne fosse alcun bisogno; ma davanti al ben di dio del mio commensale mi era venuto un principio di complesso d’inferiorità. Lui non mi ascoltava per niente, guardava fisso da una parte con gli occhi sbarrati. Indicò qualcosa fra di noi e riuscì a balbettare: «Ehi, che… che razza di scherzo è questo?». Sulle prime non capii che cazzo volesse dire, poi seguii la direzione del suo indice: puntava dritto verso lo zaino posato a terra, aperto e con la canna della pistola che riluceva a un raggio di sole. «Ah, quella. È proprio uno scherzo, hai detto bene». Tirai fuori la Beretta. Berto si immobilizzò. Gli avrei sparato volentieri. «Ehi Bert tranquillo, è di plastica. È finta, capisci? Però sembra vera, eh?». Il mio nuovo amico si rilassò. Solo un poco. Feci uscire il caricatore dal calcio di finto legno. Si vedevano benissimo le piccole palline rosse, i micidiali proiettili. «Guarda. Ti sembra un’arma letale?». «Adesso no. Però a vederla… Che cazzo ci fai con un giocattolo del genere?». «Ci gioco. Se è un giocattolo… È un po’ come la mia coperta di Linus». «La coperta di chi?». «Niente Bert, lascia perdere». Feci rientrare il caricatore nel calcio con un gesto da vero gangster. «E poi… Guarda!». Sparai basso. La lucertola che si era avvicinata troppo fu raggiunta dalla pallina proprio sul collo; la coda continuò a muoversi anche quando tutto il resto divenne immobile.

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«Ma allora è letale!» disse Berto riempiendo il bicchiere di vino per riprendersi dallo spavento. «Certo. Per le lucertole. E questa perché era vicina… già a cinque metri non la senti più. Vuoi provare?». «Vaffanculo! Buon appetito». «Altrettanto!» risposi scalciando il cadavere lontano. La coda non smetteva di muoversi: che attaccamento alla vita! Alle quattro di pomeriggio mi ruppi le palle e me ne andai. Vidi Berto trafficare ancora nei paraggi, come saluto gli feci giusto un cenno con la testa; per risposta rimase a guardarmi senza espressione. La nostra amicizia si poteva dire ben cementata. A casa mi feci una doccia, riassettai alla meno peggio la camera da letto e lavai i piatti della sera prima (o di sabato?). Babbo non mi aiutò per niente rimanendo acciambellato sul tappeto navajo per tutto il tempo. Neanche un saluto. Doveva essere proprio stanco di non fare un cazzo, il bastardo! Lo stereo suonò un cd del Consorzio Suonatori Indipendenti, finché non uscii di nuovo. «A tratti percepisco tra indistinto brusio particolari in chiaro…». Mi avviai a piedi. Un altro pregio dei piccoli paesi è che puoi arrivare praticamente da tutte le parti senza prendere la macchina, se ti va di camminare un po’. E a me andava quasi sempre. Scesi nel sottobosco dei bar lasciandomi alle spalle l’afa della strada e tuffandomi grato nel fresco da caverna. Il sole che ancora friggeva l’asfalto trovava difficoltà a penetrare la penombra che permeava il Tradicional. La solita gente di prima serata, la tribù degli aperitivi. Scambiando qualche saluto e qualche stronzata con chi osava mettersi tra me e il bancone arrivai davanti ad Abramo, che mesceva Campari a ritmo industriale; Amelia riempiva la lavabicchieri e le ciotole dei salatini. Mi appollaiai su uno sgabello. Alla tv uno speaker senza volume leggeva le notizie muovendo le labbra come un pesce in un acquario. Mi fece venire in mente una cosa. «Ciao Rock. Che ti do?». «Una bionda per cominciare, Abra’. Ciao Amy! Dammi pure qualche spiccio prima che mi dimentichi. Sempre por favor, amigo!». Penso che quel bar fosse l’unico al mondo ad avere ancora un telefono a monete invece di quelli a tessere magnetiche, tanto impersonali.

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Il televisore era in bianco e nero e i vecchi dischi in vinile erano preferiti ai moderni cd: entrare nel Tradicional era come fare un passo indietro di almeno venti anni. Portai il boccale fino al telefono vicino ai cessi e feci il numero. La musica di The dark side of the moon arrivava fin laggiù a livello accettabile. Mia sorella rispose al trentesimo squillo; nell’attesa avevo quasi finito la birra. «Hello sister, awuariù?». «Rocco! Cristo, sei ancora vivo!». «Più o meno. Come va?». «Sto facendo una torta, ma mi sono persa. Verrà uno schifo. Passi ad assaggiarne una fetta?». «Volentieri, no. Peppe è in casa?». «Giuseppe Maria è nella sua camera, se è lui che intendi». «Andiamo Rack, non me la sento proprio di chiamarlo con quel nome, lo sai. Peppe non è più simpatico?». «Non per me. Comunque… devo riferirgli qualcosa?». «Due cose: primo, sono al bar se vuole farsi una birra con lo zietto; secondo, se gli va di darmi una mano in un bel lavoretto che ho iniziato oggi. Per tutti e due i casi sottolineo se gli va». «Glielo chiedo. Richiami tu?». «Dieci minuti». «Ok». Dopo un quarto d’ora portai un’altra birra al telefono. «Pronto, parlo con la famosa pasticceria Raquel y Jomaria?». «… e invece è venuta benissimo, alla faccia tua! Domani tuo nipote te ne porta ad assaggiare un pezzo. Ha detto che ti dà volentieri una mano». «Ti è sembrato sincero?». «Dai brother, lo sai che viene con te come se andasse con… chissacchì. Io penso che ti abbia un po’ sopravvalutato… detto tra noi ti adora, a dispetto della buona educazione che mi sono sforzata di dargli. Ma stasera non verrà in quella tana di alcoolizzati solo perché sta leggendo un libro e non vede l’ora di sapere come va a finire. Cristo, gli mancheranno un paio di cento pagine!». «Robetta per lui, che ci vuole? Allora passo domani verso le otto. A parte gli scherzi, bella, come butta?». La voce di Rachele si fece più seria: «Sopravvivo. Tu, piuttosto?».

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«Tutto sotto controllo. Ho finito i gettoni…». «Allora ciao». Intascai la manciata di spicci rimasti e li riportai al banco. Ho finito i gettoni e si tronca sul nascere una conversazione che non hai voglia di intavolare; quella sera non mi andava proprio di mettermi a parlare per telefono con mia sorella dei nostri guai, quelli passati e quelli di scottante attualità. Aveva da poco divorziato dal marito, uno stronzo al cubo che si era perso dietro una puttanella che poteva essere sua figlia (in effetti aveva solo un paio d’anni in più di Giuseppe Maria). Per fortuna Rachele aveva incassato bene la botta, era riuscita senza problemi a ottenere l’affidamento dell’unico figlio – tra l’altro quasi maggiorenne – e a tenersi a galla. L’unico problema poteva essere di natura economica, ma quella testona rifiutava il novanta per cento degli aiuti Marshall che noi della famiglia (solo io e zio Nello, ormai) le offrivamo. Ma i soldi sono l’ultima cosa, come il colore. O no? Peppe era alto (aveva preso dal padre, per fortuna solo in quello) e dentro il Fiorino doveva stare con le spalle curve per non sbattere la testa. Era anche muto, ma questo si doveva solo al senso dell’umorismo del nostro Creatore: non ho mai conosciuto qualcuno che avrebbe avuto così tante cose intelligenti da dire e che invece era costretto scrivere su un foglio o su un computer solo il succo dei suoi pensieri. Conosceva anche il linguaggio dei segni, certo, ma in quello ero io che deficitavo: era inutile, tutti quei gesti strani non avevano voluto entrarmi in testa per quanto mi ci fossi messo di buona volontà. Sarà stato il mio subconscio egoista, ma per quanto mi dispiacesse mio nipote con me avrebbe dovuto continuare a scrivere ciò che invece avrebbe voluto urlare a squarciagola, se solo ne avesse avuto la facoltà. «Salve pard, come va?» gli dissi quella mattina mentre si piegava in due per sedersi affianco a me. Alzò un pollice: ok. «L’hai finito il libro?» Sì. «Un altro Stephen King?». Era una domanda retorica, perché mio nipote leggeva solo quello; infatti agitò la testa: sì. «E com’è?». Gli lasciai tempo per scrivere sul blocchetto che portava sempre con sé. Dopo un po’ mi arrivò la risposta: Il Re mi sembra un po’ spompato ultimamente, speriamo che si riprenda presto. Dove si va?

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«Villa Alleva». Assentì: tutto ok. Quel giorno la villa sembrava un formicaio. Muratori, idraulici ed elettricisti giravano per i due piani abbaiando ordini ai rispettivi manovali; per di più ragazzetti della stessa età di Peppe, ma senza la stessa classe. Berto si aggirava tra loro a controllare che tutto fosse eseguito secondo le direttive del boss. Il capocantiere del mio pene! Vedendo Peppe si rivolse a me in tono canzonatorio: «E questi sarebbero i rinforzi?». Certe volte mi rammaricavo sul serio che la Beretta non fosse vera. «Cosa vedi, Bert?». «Un secco che non ce la fa neanche a farsi le seghe». «Allora vai da un oculista, ché non vedi bene un cazzo! Scusa, avremmo da fare…». Il vaffanculo! glielo risparmiai. Al piano superiore trovammo una stanza libera dalle cavallette, trasferimmo lì il trabattello e ci mettemmo a lavorare in silenzio: tutt’intorno era un inferno di voci, grida e canti sboccati da cantiere ma quella stanza era un’oasi di pace. A un certo punto chiesi a Peppe se poteva andare a prendere un secchio d’acqua; lui si alzò, trovò un fusto pieno vicino alle scale e vi intinse il secchio. «Ehi, imbrattino!» sentii dall’alto del trabattello. Una voce del cazzo. Scesi e mi affacciai: un muratore grande e grosso aveva preso di mira mio nipote. Gli si avvicinava con la sigaretta in bocca e quell’assurdo cappello di carta calcato sulla testa di merda. Intanto guaiva: «Quella è la nostra acqua! Se ve ne serve, a voi imbrattini, ve l’andate a prendere di sotto, chiaro?». Peppe sembrò farsi piccolo piccolo mentre annuiva. «Ok, rimettila a posto!». Che stronzo! Mio nipote fece finta di ubbidire e con nonchalance versò il prezioso liquido sul pavimento, infradiciando di proposito le luride scarpe del muratore che gli stava addosso a meno di mezzo metro. «Brutta testa di…».

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«Ehi, culatore!». Si bloccò con la mano alzata. Davvero voleva colpire quel povero ragazzo? Ma che stronzo! «Ehi dico a te, frociatore!» ribadii. Si voltò paonazzo. Non so se vide prima me o la pistola: entrambi lo puntavamo dritto negli occhi. «Qualche problema?» gli chiesi gentilmente. Peppe si stava sganasciando alle sue spalle, ma lui non poteva sentirlo. È strano come ridono i muti: praticamente in silenzio. Non so cosa vide per primo, ma fu sulla pistola che i suoi occhi rimasero incollati. Riuscì a balbettare: «Che… che cazzo…». «Sì, qualche problema ce l’hai, mi sembra. Mi porteresti un secchio d’acqua? Sempre per piacere». «Ma… ma che… che cazzo…». «Uffa, come sei monotono… Allora, st’acqua?». Berto esordì in quel momento con tempismo perfetto: «Si gioca ai cowboy?». Il muratore lo sollevò di peso e se lo mise davanti per farsene scudo; mi sembrava di essere dentro una pellicola di Ridolini. Dietro di loro si erano radunati tutti gli altri operai, richiamati dal trambusto. Con gli occhi spalancati vedevano un pazzo con la pistola spianata verso un muratore grande e grosso che si riparava dietro un nanerottolo con il cappello di paglia messo tutto di sghimbescio e un giovincello che si contorceva senza emettere suono appoggiato al fusto dell’acqua: sembrava che ridesse a crepapelle. Sperai che le telecamere fossero in funzione: “Buona la prima”! Berto starnazzava: «Mettimi giù, che cazzo! Lasciami, che cazzo…» e il muratore balbettava: «È pazzo, ha una pistola! È pazzo…». Con un po’ di musica adatta sarebbero stati un perfetto duo rap. Mi ruppi le palle: sparai un colpo che arrivò dritto sulla testa dell’Eminem più massiccio con una parabola perfetta. Il rapperatore lo ripescò dalla piega del giornale e lo guardò come fosse un diamante di rara bellezza: una pallina di plastica rossa. Gli spettatori non paganti cominciarono a sghignazzare, mentre Berto atterrava con mala grazia sul pavimento bagnato. La Guerra dell’acqua: cominciavo a capire tutti i macelli mondiali che si fanno per il petrolio; se un secchio d’acqua sporca aveva generato quel casino… Il padrone del fusto era color rosso mattone, Berto mi sembrava verde e Peppe splendeva di luce propria mentre mi portava il secchio riempito al Sacro fusto… acqua sporca. Con una mano si toccò il fondo dei calzoni indicando il mastro che ancora stava inchiodato al proprio posto.

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«Dici che si è cacato addosso?» dissi facendomi sentire da tutti. Peppe annuì con energia. Per chiudere il sipario su quella scena pietosa rientrammo nella stanza che stavamo rasando. «What time is it?» chiesi a mio nipote. Lui mi schiaffò l’orologio di plastica sotto agli occhi: il display diceva 11.48 am. «Ti sei portato il pranzo?». Mise le mani a cuneo: una fetta di torta. «Vamonos!». Scendendo le scale incrociammo il muratore. «Senza rancore?» gli chiesi. «Vaffanculo!» mi rispose. Non potendo pranzare con una fetta di torta divisa in due, per quanto buona potesse essere, ci recammo in una trattoria che conoscevo lì nei paraggi. Mangiato e bevuto, verso le tre decidemmo di andare a farci un whisky al bar di Abramo. A nessuno dei due andava di tornare a Villa Alleva; io cominciavo a sentirmi come il re dei deficienti per la scena che avevo fatto: ma sul serio avevo cercato di difendere mio nipote sparando palline di plastica a tutto spiano? Ma che cretino! Al bar trovammo solo Amelia dietro il bancone e un tizio curvo su un tavolo in fondo al locale. «Amy, luce dei miei occhi, ci mesci un paio di ammazzacaffè por favor?». «Senza caffè da ammazzare?». «L’abbiamo preso dalla concorrenza. Quello laggiù è Ciak oppure ho le visioni?». «È proprio lui. Se ne sta seduto lì da stamattina». «Capita proprio a fagiuolo! Che sta bevendo?». «Di tutto, ultimamente grappa. È passato dall’aperitivo al digestivo senza preoccuparsi di metterci un pranzo in mezzo. Lo do vivo fino alle cinque, massimo cinque e mezzo; si accettano scommesse». «Chi, Ciak? Ma che, non lo conosci? Alle sei ricomincerà con gli aperitivi; si accettano scommesse! Dammi un grappino che gli devo dire due parole». Staccai a fatica Peppe dalla scollatura della barista. «Vieni?». Andammo. Aurelio de Santis era conosciuto come Ciak per la sua passione per il cinema. Si sentiva dire che un tempo avesse anche lavorato nell’ambiente come comparsa o figurante o addirittura stuntman; non si riusciva

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a capire bene. Un’altra tesi sosteneva invece che il nomignolo derivasse da un’americanizzazione del termine ciuch, riferito alla condizione preferita dal suddetto de Santis. Tutte e due le teorie calzavano a pennello con il soggetto in questione. Gli posai il bicchiere davanti mentre ci sedevamo. «Cos’è, acqua?» domandò biascicando. «Di fuoco!». «Ah sei tu, Rock. Che stiamo sentendo?». «Sul piatto girano gli Yes. Tu cosa ascolti?». «I No. Salute!». La grappa aveva impiegato più tempo per passare dal banco al tavolo, che dal bicchiere allo stomaco di Ciak. Peppe si alzò per andare a giocare a flipper; naturalmente un vecchio modello, con cinque palle e numeri meccanici che giravano producendo il tipico rumore dal sapore antico. Riuscii a catturare l’attenzione di Ciak con un gioco di prestigio; mi venne talmente bene che non ricordo affatto come feci. «Sei stato in giro, ultimamente?» gli domandai mentre facevo cenno ad Amy di fare un bis. Stare in giro in ciacchese voleva dire sguazzare nell’ambiente cinematografico. Quando Amy uscì da dietro il bancone potei ammirare la minigonna ascellare con cui si era bardata: poco lontano il flipper fece tilt, anche Peppe. In un lampo pensai alla differenza tra Amy e Claudia: ambedue bariste, solo questo le accomunava. E se fosse stata Amy a invaghirsi di me? Tornai alla realtà: Ciak stava farfugliando qualcosa. «Scusa?». «… a trovare Fazzoni, il regista. Non mi ha offerto neanche un bicchiere d’acqua, però le risate che ci siamo fatti… che si è fatto…». «Conosci una Stella Morse? Morse come l’alfabeto». «E che fa?». «L’attrice». «Figurati». Una voce nuova: «Manica di ubriaconi, buonasera a voi!». Abramo era piombato nel proprio regno. Vedendolo baciare la guancia di Amelia, scorgendo la sua mano indugiare sui fianchi della aiuto barista, cercai lo zaino per prendere la fida Beretta; all’ultimo momento ricordai di averlo lasciato in macchina. Intanto Peppe era tornato a sedersi con noi.

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«Che bevi, pard? ». Indicò il mio bicchiere di whisky. «Abra’, per favore un tris! Solo se lo porta Amy, però». «Perché, a me non mi ami?». «A me mi non si dice». «Ci sarebbero tante cose che non si potrebbero dire, straniero! Arrivo…». Tornai a Ciak: «Figurati nel senso che è ovvio che la conosci o nel senso che figurati se fa l’attrice?». «Ma che diavolo stai bevendo, Rock?». «Whisky». «Ah, allora capisco… è veleno!». «E io mi suicido!» dissi scolando l’ultimo sorso. Per fortuna arrivò Abramo con i rinforzi. «Ti siedi con noi, barman? Una partita a carte? Siamo giusto in quattro». «No grazie, ho da fare; però Ciak fa benissimo per due. Anche tu mi sembri sulla buona strada! Come farà questo bravo ragazzo a venire su bene, dico io…». Il bravo ragazzo gli mostrò il dito medio. «Come volevasi dimostrare. Au revoir». «È finito il disco, Abra’. Facci sentire qualcosa di stratosferico». «Addirittura! Che vuoi, un po’ di Deep Purple?». «Preferirei del blues». «Ho Clapton e B.B. King, solo in cd però». «E in vinile?». «Vaffanculo Rocco Raspa! ci penso io…». «Perché invece non metti sul piatto Amy? Mi piacerebbe vederla girare». «E a lei girerebbero le palle; ne ha un paio grosse così!». «Giura!». «Giuro». «Au revoir». Peppe si fece roteare l’indice all’altezza della tempia. «Chi è il matto?» gli domandai. Indicò con il pollice il barista. «Perché?». Unì indici e pollici di entrambe le mani facendo no con la testa. Poi si passò la destra sulle gambe all’altezza dell’inguine e infine posò le mani a coppa sul petto: non può avere le palle! Ha una minigonna mozzafiato e due tette così. «Beh, ma le palle stanno un po’ più nascoste, di solito».

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Ci pensò Ciak a spiegare l’equivoco: «È solo una metafora, mio giovine amico. Avere le palle in gergo vuol dire essere tosti, duri ecco. Saperci fare, ragionare bene… scafati, pronti a tutto… Avere le palle si dice… ecco, per sintetizzare tutte queste qualità… E poi per me se quel pezzo di barista… ho detto pezzo e non pazzo… quindi mi riferisco alla barwoman… e ho detto barwoman, non battona… Se avesse davvero due coglioni così… ecco… sarebbe comunque un gran pezzo di gnocca… Anche se avesse gli attributi, voglio dire…». «E Stella Morse, allora?» gli rimbeccai io. «Ma chi è?». «Un’attrice». «Figurati! E io sono Federico Fellini!». «Nel senso?». «Unico!». «Insomma non la conosci…». «Stella Morse: nome d’arte di Maddalena Cacace, o Capece. Qualche film a luci rosse di quelli tosti, roba da circuiti privati; zozzerie extraplanetarie con maschi, femmine e quadrupedi. Sui venticinque, ormai. Bona. Sta per fare il botto». «Nel senso?». «Cristo che sete!». «Una grappa?». «Sei pazzo? Una birra gelata». Guardai Peppe: anche per me. Stavolta mi alzai per arrivare al banco. Volevo dare un’occhiata alla scollatura di Amelì; mi ritrovai invece a contemplare i bicipiti di Abramo. Maschi, femmine e quadrupedi… e baristi? Abramo stava attaccando alla macchina del caffè un adesivo tutto bianco con la scritta rossa che diceva: «Qui non abbiamo uno scemo del villaggio, lo facciamo a turno». «Quand’è il tuo?» gli chiesi. «Oggi. Non sai cosa mi è successo…». «Non me ne frega un cazzo». «Che vuoi, straniero?». «Una birra, due bicchieri, un caffè e un whisky. Che ti è successo, fratello?». «Appena uscito da casa… Dico, vado a farmi un riposino tutto tranquillo e appena esco di casa… Sai dove abito, no? Allora, scendo in strada e…».

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«Non me ne frega un cazzo». Mi guardò avvelenato: «Non puoi farlo oggi! Oggi è il mio turno!». «Ma ’sto caffè?». «Ma vaffanculo!». «Dai che scherzavo. Allora?». «Allora piombo in strada tutto bello riposato… Ecco il tuo caffè del kaiser. Il resto lo porto al tavolo?». «Off shore. Allora?». «Allora come apro il portone vedo ’sto tizio con ’sta valigetta in mano…». Avevo finito il caffè. «Non me ne frega un cazzo». Mi guardò stralunato. «Penso che dovrò togliere ’sto cazzo d’adesivo: ce l’abbiamo, lo scemo del villaggio!». «Stavo scherzando, sciaddìò. Allora?». «Allora fottiti, Rocco Raspa!». «Ehi non ti si può dire proprio niente, oggi!». «Togliti dalla mia vista guascone, altrimenti dovrai vedertela con la mia spada! E al fin della licenza…». «… sei un po’ tocco. Ci si vede in giro, Porcos?». «Domani mattina al tramonto, D’Armagnac!». «Ho da uccidere qualcun altro a quell’ora. Facciamo domani sera all’alba?». «Uffa Rock, non ce la faccio più! Perché non vai a sederti?». «Mi temi allora, baristucolo!». «Certo. Basta che ti levi di torno». «Ma vedi che io ti vedo!». «Ok ok, ciao Rock». Prima di tornare al tavolo passai per il cesso; orinai e mi fermai davanti allo specchio. Il caffè mi aveva quasi rimesso al mondo, ma ci voleva anche una sciacquata fredda alla faccia. Maschi, femmine e quadrupedi… e imbianchini? E poi Amelia con le sue palle… Immagini sconce mi turbinavano davanti agli occhi: grovigli di corpi nudi impegnati in un’orgia colossale se ne andarono solo dopo una bella passata di acqua gelida su tutto il viso. Quando tornai i miei compagni di tavolo avevano quasi finito la birra. Assaggiai un sorso di whisky. Dopo cinque minuti Ciak si accorse di me: «Abramo ha chiesto se eri finalmente morto. Ma che ha?». «Una giornataccia. Se l’è fatto mettere al culo da un tizio con una valigetta…».

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«Racconta, racconta». Anche Peppe annuiva energicamente con la testa: qui non abbiamo uno scemo del villaggio! Il trillo del cellulare mi salvò da quell’impasse. Sul display apparve Rachele, lo feci leggere a Peppe che agitò le mani in un gesto di scazzamento: che palle queste mamme… poi guardò l’orologio e sbuffò come una locomotiva. Anche Ciak lesse il nome da sopra la spalla di mio nipote: «Roba biblica. Cazzi vostri! Vado al cesso». «In fondo a destra!» gli ricordai mentre rispondevo alla chiamata. «Sister?». «Brother… My son is here?». «Off shore! Abbiamo appena staccato. Siamo al bar a bere… un caffè. Che c’è?». «Niente. Un caffè, eh? Me l’immagino… Volevo solo dirgli… che è arrivato…». «Un momento, diglielo tu». Passai l’apparecchio a Peppe alzando il pollice: tutto sotto controllo! Mio nipote si perse per cinque minuti in quello che gli diceva la mammina, mentre io bevevo il mio whisky fumando e gustandomi Amelia che tornava con una sporta piena di arance e limoni. Maschi, femmine e… fruttivendoli. Tornò anche Aureliano de Santissimis: «Bevo come un toro e piscio come un vitello. Che cazzo potrà significarmi?». «Che assimili tutto. Che botto farà la Star Alfabeto?». «Che pardipalle, Rock! Ma che roccia ti frega?». «Niente. È solo che sto lavorando a casa sua e sarei un po’curioso… Buone nuove?» chiesi a Peppe Rachelson che mi restituiva il cellulare. Ciak si era in po’ alterato: «Come sto lavorando a casa sua? Che cazzo vuol dire?». «Quello che ho detto». Peppe mi passò un foglietto. Sulle prime lo scambiai per una banconota e non capii perché mi stesse pagando; poi realizzai che era solo uno dei suoi soliti post-it: Niente, è arrivato un libro che avevo ordinato al club dei kingomani e mamma me l’ha voluto subito far sapere. Hai una sorella straordinaria.

«Like a me. O no?».

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Alla mia sinistra Ciak continuava a salmodiare: «Rocco, Rocco tu non mi ascolti… che cazzo vuol dire a casa sua… com’è, dov’è, che fa… Cristo mi ci vuole qualcosa di forte… barman presto soccorruomo!». Lo ripresi forse un po’ troppo bruscamente ma mi stavo rompendo le palle di stare lì a cercare di arginare le mie visioni alcoliche: «Un cazzo! Qui ci stiamo ubriacando senza concludere niente. Non berrai finché non risponderai alle mie domande. La prima: in che senso sta per fare il botto?». «Tu sei furbo Rock, ma a me non mi freghi. Prima tu: quale casa?». «Ma che domanda è?». «Oddio caro, sei completamente fuori? Hai detto sto lavorando a casa sua ti ricordi? L’hai detto due minuti fa, quindi: quale casa?». «Scusami Ciak, di cosa stiamo parlando?». «Mi prendi per il culo, stronzetto?». «Lo sai che non mi permetterei mai, cazzo! È solo che…». Mio nipote mi venne in aiuto con un altro post-it. Anche questa volta ci misi due minuti di più per capire; c’era scritto: Villa Alleva… Stella Morse… cazzo, zio!

«Ah certo, Villa Alleva…». «No!». «Sì, giuro». «Villa Alleva? Qui sotto? Viene ad abitare qui? L’hai vista… che dice… che fa…». «Tocca a te: quale botto?». «Vaffanculo Raspa! Ho sentito che farà un film serio. Niente più orgasmi, poveri noi. È passata sotto l’ala di Serafian». «Chi?». «Serafian, il produttore. La lancia nella celluloide vera. E io, poverino? E tutti noi? Come faremo? Te l’immagini la Stella a fare un remake di Via col vento? Lei che ha sempre fatto… che so… Via col ventre… Poveri noi, poveri noi… Che cazzo di sete da inferno mi hai fatto venire…». Mi alzai per andarmene; mi accorsi di non essere molto saldo sulle mie quattro gambe. Cazzo, dovetti appoggiarmi al tavolo per non andare a lucidare il pavimento! La testa invece era molto più in alto del corpo: vedevo la scena finale come dall’alto e questa prospettiva non faceva altro che amplificare il senso di vertigine.

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«Ok Ciak, ti farò avere un invito per l’inaugurazione di Villa Alleva. Alla prossima!». «Col cazzo! Fammi avere un Campari e gin, intanto!». «Ciao Ciak, ci si becca!». «Brutto bastardo approfittatore schiavista testa di cazzo bugiardo che non sei altro, Roccoraspa del mio pene! Lasciami una sigaretta, almeno…». «Ma non avevi smesso, Ciak?». «Dopo queste notizie…». Gli ammollai il mezzo pacchetto che mi era rimasto, condito con qualche biglietto di piccolo taglio; quello che pensavo potesse bastargli per almeno un altro paio d’ore. Di più non potevo fare: me lo sarei volentieri portato a casa, ma poi a Babbo chi gliel’avrebbe spiegata quella intrusione nel suo territorio? «Tu vieni, Josh?». Alzò le spalle rassegnato: che altro potrei fare? Il giorno dopo, mercoledì, giornata memorabilis. Di nuovo io e Peppe eravamo gli unici abitanti di Villa Alleva. Se vogliamo tralasciare Bertazzo, che razzolava in giro apparentemente solo a perdere tempo. Alle 12.34 am sentii una macchina fermarsi nel piazzale; dal suono che faceva il motore era di sicuro una Mercedes: o era zio Nello, oppure… Un sigaro spento uscì dalla portiera posteriore destra, attaccato al sigaro c’era un niente. Dalla portiera sinistra uscì un sogno: Stella Morse in persona. Chi altro poteva essere quella bambina in minigonna e top prendisole? Feci un fischio a Peppe. Mi venne affianco come un barboncino bene ammaestrato e si affacciò anche lui. Quando vide la star emise un gemito di piacere; anche se la tipa di sotto non era così straordinaria, un po’ troppo bassina volendo, ma la sua fama l’aveva preceduta. Me l’immaginai avvinghiata a un dromedario; sì cazzo, proprio a un gibbuto quadrupede asiatico! Perché la scelta fosse caduta sul cugino del cammello e non magari su un collie è da ricercare nei meandri della mia testa bacata. Maschi, femmine, quadrupedi e… imbianchini? Con la coda dell’occhio intravedevo mio nipote, rosso in viso e sudato. Sono sicuro che se avessi potuto leggergli nel pensiero avrei trovato la stessa domanda: … e quasi-diciottenni muti?

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La coppia così male assortita era ferma sul piazzale davanti agli archi: lui tutto entusiasta indicava di qua e di là usando il sigaro come una bacchetta; lei tutta scazzata non lo seguiva per niente. Fuggi via con me che ti porto al terzo piano nell’appartamento della signora Trulli e ti faccio conoscere il mio Babbo. Ho anche un bellissimo bonsai… di quercia… Avanti, dammi un segno… ma fallo adesso… ora o mai più! Lei decise per il mai più. Serafian le cinse le spalle con un braccio e sparirono dietro l’angolo della casa, verso il giardino; di sicuro Sigaro Moscio voleva andare a rompere le palle a FiliBerto. Tornammo al lavoro, questo ci toccava fare: trabacar y nada mas. Ma se rinasco… Una canzone si insinuò di prepotenza nei miei pensieri e mi accompagnò per molto tempo; era Giovanni Lindo Ferretti che ripeteva: «… i figli degli operai, i figli dei bottegai… i figli di chi è qualcuno e di chi non lo sarà mai…». Quel giorno per pranzo avevamo dei panini. A dire la verità era stata Rachele che aveva pensato per tutti e due; avevo una sorella straordinaria, like a me del resto. Ci accampammo sotto un pino per gustarceli, proprio davanti alla Mercedes che all’interno sfoggiava ancora il suo autista sotto il sole ad aspettare i colombi; chissà quanto prendeva a fine mese il cetriolo per sacrificarsi in quel modo. Feci di tutto per fargli vedere la birra, tantalizzandolo solo un pochino; ma lui niente, ligio al dovere e tutto impettito. Magari era anche convinto di fare un fior fiore di lavoro, il cetriolo! Ma scendi da quella macchina, butta alle ortiche la divisa (sì, aveva anche la divisa!) e vieniti a fare un goccio con i terrestri, cetriolo! Dei due colombi nemmeno l’ombra, magari erano a rotolarsi a quattro zampe (ah ah ah) nel fienile. DragoBerto ci raggiunse con il suo cappellaccio di paglia e la sua gavetta. Solo dopo aver apparecchiato con tutto il servizio della festa si decise ad aprire bocca, agitando la testa sconsolato: «Niente di buono, ragazzi. Ecco cosa vi dico: niente di buono». «Allora non dire niente di niente!» lo rimbeccai. «Un cavolo! Qui andiamo tutti allo sfascio. Quella povera ragazza…». «Non ti starai innamorando, vero Bert?». «Tu mi pari proprio scemo, giuro! Credi che abbia dimenticato la sceneggiata di ieri?».

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Il ricordo della mia bravata mi mise in imbarazzo: «E che dovevo fare?». «Sicuramente sparare a quello stronzo. Certe volte le pistole dovrebbero essere vere, ecco quello che dico io». Sentirgli dire esattamente ciò che anch’io avevo pensato centinaia di volte me lo fece salire di un gradino sulla scala della simpatia. «Insomma che succede?» gli domandai prima di staccare un enorme morso di pane, tonno, pomodoro e maionese di una bontà paradisiaca. «Succede un macello, ecco che succede!» rispose Berto allontanando il piatto con il primo: fettuccine al ragù. Si riempì un bicchiere di vino rosso senza offrire a nessuno; ma che si ingozzasse pure, per quello che mi importava! Continuai a mangiare e a bere la mia birretta tiepida sicuro che il nostro commensale avrebbe prima o poi tirato fuori il rospo senza incoraggiamenti. Infatti si arrestò mentre stava per addentare una coscia di pollo. Ma che era, domenica o festa nazionale? «Quel porco la tratta come una pezza da piedi, che bastardo! Avreste dovuto vedere la sceneggiata che hanno fatto poco fa. Lei mi sa che vuole mollarlo ma lui se ne sbatte di ciò che vuole lei; sembra quasi che l’abbia comprata, magari se la porta pure a letto…». «Già, magari…» gli feci eco valutando che andare a letto con la gente (e i quadrupedi, non scordiamocelo!) era ciò che l’innocente Cacace-o-Capece faceva di mestiere. «Mi fa una pena, poverina…» continuò Berto riponendo con zelo la coscia di pollo quasi intonsa. Evidentemente le pene della star gli avevano cominciato a far passare l’appetito. «Se potessi fare qualcosa… Guarda, qualsiasi cosa pur di vederla felice». «Ti sei proprio innamorato, mio caro!». «Ma vaffanculo pure tu, va! Potrebbe essere mia figlia». «Appunto. Amore paterno». Stavo accendendo la meritata sigaretta post-pranzo, quando sbucarono da dietro l’angolo. Cioè, lei sbucò quasi correndo e a seguire comparve la manica di una giacca costosissima che l’afferrò per un braccio e la strattonò verso di sé riportandola fuori dalla nostra visuale. Si erano fermati proprio dietro l’angolo e ciò che non potemmo vedere lo udimmo molto bene. Lui tuonò: «Non puoi farlo, lo sai che non puoi!». Lei cercò di raggiungere il suo tono di voce: «Certo che posso, e lo farò! Sono stufa, capito? Esse-Ti-U-Effe-A!».

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«No che non lo farai». Il tono si era un po’ abbassato, come se Serafian si fosse accorto di star litigando con un bambino capriccioso che minacciava, minacciava…. ma alla fine non avrebbe concluso niente. «Non te lo posso permettere, ho investito troppo su di te. Anche questa casa del cazzo… Non mi puoi abbandonare sul più bello, e non lo farai! E poi Curzi ti sta prendendo in giro». Lei ruggì come una leonessa ferita ma ancora in grado di combattere: «Tu mi stai prendendo in giro! Quand’è che iniziamo il famoso film, eh? Quando? Te lo dico io: mai! Tu vuoi solo… usarmi… Curzi invece ha già pronto tutto: la parte, il regista, le scene… e non vuole niente in cambio, niente di quello che vuoi tu… tu… sei un porco!». Le ultime frasi le disse quasi piangendo. Guardai Berto: cincischiava il cappello di paglia fissando fisso verso l’angolo. Sembrava pronto a scattare se solo le cose si fossero messe troppo male per la ragazza. Serafian continuava. Pareva un maestro che ripete la lezione a uno scolaro un po’ tonto: «Curzi non vuole niente solo perché è un vecchio impotente. Ma ti sei scordata di quando lo facevi sotto le telecamere? Ti ricordi com’eri? e chi ti ha tirato fuori da quella fogna? Io, io! non Curzi, io ti ho creato, ricordatelo! Io sono il tuo dio!». «Vaffanculo! Vaffanculo tu e questa casa di merda! Spero che diventi la tua tomba!». Risortì dall’angolo, questa volta proprio correndo, e andò a sistemarsi rannicchiata dentro la macchina. Quando ci passò davanti, i seni traballanti e le lacrime che le scendevano sulle guance, si girò un attimo dalla nostra parte. Sul suo viso, oltre alla rabbia e alla frustrazione, ci vidi anche qualcos’altro: rassegnazione, mi parve; come se davvero fosse legata al gentiluomo Serafian con corde troppo spesse per essere tagliate tanto facilmente e fosse sicura che quello sfogo non l’avrebbe portata un solo centimetro lontano dal suo Creatore. Intanto però aveva convinto Battista il Cetriolo a partire lentamente. Non la rividi più di persona. Eravamo in silenzio da due minuti a digerire la scena quando uno sbuffo di sigaro ci raggiunse. Serafian si piazzò davanti a noi per niente imbarazzato. Adesso mi chiede un passaggio e io glielo do. Com’era quel film? Passaggio per l’inferno? Invece tutto tranquillo e sprezzante esordì: «Berto, è ancora ora di pranzo?» con il tono di uno stronzo abituato al comando e a

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ottenere sempre ciò che vuole. Non lasciò il tempo a Berto di rispondere: «E voi siete gli imbianchini, immagino. Quand’è che ci diamo da fare?». «Adesso» gli risposi guardandolo dritto negli occhi: non ci vidi niente. «Speriamo! Berto, andiamo a fare un giro. Hai finito di piantare i biancospini?». «Ne mancano un paio ma per stasera avrò terminato. Andiamo a vedere?». Si allontanarono verso il giardino un sigarone sbuffante e un cappellaccio di paglia tremante di stizza. Peppe mi allungò un pezzo di carta unta d’olio: Che stronzo! «Stronzo è un complimento. A me è passata la voglia di lavorare, e a te?». Annuì. «Allora andiamocene, ’fanculo lui e quelli come lui! Arrivederci a domani, si dios quiere». Quella notte feci il sogno. Non ero certo nuovo ad avere incubi, anzi, ma quello fu così vivido che se ora chiudo gli occhi lo rivedo tale e quale. Cominciava con io che correvo a perdifiato; intorno non c’era niente di riconoscibile, solo il paesaggio in corsa sfuocato dalla velocità. Mi pareva di correre da secoli ma non ero per niente stanco: dovevo arrivare alla mia meta. Alzai gli occhi e vedevo davanti a me una nuvola di fumo. Eccola! pensai. Dalla nuvola usciva un cartello con su scritto: pezzo di stronzo. Ero proprio arrivato. Rallentai fino a imbucarmi dentro la nuvola, ci misi un po’ ad abituarmi alla foschia e quando riuscii a vedere qualcosa mi si parò davanti il gentile Serafian che prendeva Stella Morse in una posizione assurda, indicibile. Pareva che i corpi si fondessero tra loro, non la penetrava solo con il pene ma con tutto se stesso squarciandola e ululando di piacere. Si voltò verso di me con un ghigno orribile e mi fece un cenno: «Accomodati». Io volevo farlo, volevo prendere anch’io quella preda così facile e invitante… Mentre mi slacciavo la patta qualcosa cambiò: la nebbia che ancora ci avvolgeva da grigio fumo virò al rosso sangue; il produttore si irrigidì e il suo ghigno si amplificò fino a diventare un urlo muto di terrore e di morte. C’era qualcun altro, qualcun altro si era introdotto nella nebbia! L’unica cosa che riuscii a distinguere fu un cappellaccio di paglia che emetteva un suono strano per essere un cappello, ma per me del tutto familiare: dirididing-dirididing.

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Il noiosissimo e insistente suono della nuova sveglia (sveglia nuova, suono vecchio!) mi strappò dall’incubo, che però mi rimase appiccicato addosso per tutta la giornata di giovedì, il secondo giorno, memorabile. Ero in anticipo quella mattina, quindi invece di aspettare Peppe davanti casa come gli altri giorni, scesi dal Fiorino e andai a bussare alla porta di Rachele. Ero in anticipo perché il sogno – l’incubo – mi aveva agitato tutto il sistema nervoso, molto più degli altri film dell’orrore a cui il mio subconscio mi stava ormai abituando; perché scosso com’ero –perché poi avrei dovuto essere così sconvolto? – non avevo perso tempo con Babbo e neanche con il bonsai (uno sguardo di sfuggita per verificare almeno che fosse ancora vivo); perché non mi ero fermato al bar sullo svincolo della superstrada a farmi fare il filo da Claudia la Rospa; perché non vedevo l’ora di arrivare a Villa Alleva… perché non lo so. Dopo due colpi leggeri delle nocche sul portoncino, mia sorella venne ad aprire in vestaglia. «Brother…». «Sister… non mi fai entrare?». «Neanche se crepi! Dai vieni, hai una faccia…». «Non ho dormito molto». «Caffè?». «Litri». Ci accomodammo in cucina e mi mise davanti una tazzona con su Titti e Silvestro che si rincorrevano all’infinito, una caffettiera tiepida e un barattolo di zucchero con su Braccio di Ferro, Olivia e Bluto che si rincorrevano all’infinito. «Peppe?» le domandai servendomi abbondantemente. «Giuseppe Maria si è appena alzato. Hai idea di che ore sono?». «Se tu sei già in piedi…». «Cristo Rock, non è per questo! Di solito passi tra un’ora, quindi Giuseppe Maria…». «… Peppe». «… Giuseppe Maria non è ancora pronto, tutto qui. Che succede?». «Niente, perché?». «Va bene, continua così! Succo d’arancia?». «Continua così come? No, basta il caffè, grazie». «… a tenerti tutto dentro. Io ne prendo un bicchiere». «Oddio Rack, non ho niente dentro. Niente da tenermi, almeno. Non ho dormito bene, e allora? Sono in anticipo di un’ora, e allora?».

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Peppe irruppe in cucina in quel momento puntandomi contro un indice carico. Poi si batté la mano destra sul polso sinistro: guarda questo a quest’ora! «Buongiorno anche a te, Giuseppe Maria. Fai con calma, non c’è nessuna fretta. È solo che…». Rachele mi venne in aiuto: «Solo che zio stamattina è un po’ fuori fase. Non ha dormito molto bene, e allora?». La domanda la rivolse a me; io scrollai le spalle. Certe volte la odio, ma il più delle volte la adoro. Dopo mezz’ora io e Peppe ci imbarcammo sul Fiorino: lui aveva un muso da cane bastonato, io da lupo preso nella tagliola. Due animali lanciati verso la fine. L’aria di abbandono si respirava già dall’ingresso. Abbandono… e qualcos’altro. Guardai Peppe: sul suo viso il nulla, fu come guardare in uno specchio. Berto sedeva sul muricciolo, cappello in testa e mani sulla faccia. Scendemmo. «Ah già, proprio voi». «Che succede, Bert?». Aveva gli occhi gonfi e lucidi, come se avesse pianto tutta la notte. Nottataccia per tutti! «Succede che è andato tutto a puttane, questo succede!». La voce era ferma e adirata. «In che senso, Bert?». Ma lo sapevo. Prima che lo dicesse, lo sapevo. «Si chiude ragazzi, ecco cosa succede. È andato tutto a farsi fottere!». «Nel senso?». «Sei stupido o che, imbrattino? Rifai i ferri ché il lavoro è finito. E non solo quello». Mi accesi una sigaretta aspettando. Non dovetti attendere molto. «Va bene, non capisci! Ieri sera hanno litigato. Cristo, c’eri anche tu o no?». «Io c’ero ieri mattina. Mi sono perso qualcosa?». Si era tolto il cappello dalla testa e lo torturava tra le mani. Per un attimo mi aspettai che si mettesse a fare dirididing. «Non ti sei perso un bel niente. Un cazzo proprio». «Quindi?». «Quindi non si lavora più. La Stella è tramontata; o è sorta da qualche altra parte. Capito adesso?».

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«Un bel niente. Un cazzo proprio». Cercò di spiegarmelo meglio. «Litigato, ok? Quindi questa villa non è più di nessuno; almeno non di nessuno per cui valga la pena buttare soldi. Se tu avessi una gallina che si rifiuta di fare l’uovo d’oro, che faresti?». Mi ruppi le palle e l’afferrai per una spalla ossuta: «Berto, torna in te per piacere! Una domanda sola: ce ne dobbiamo andare?». Mi guardò come se mi vedesse per la prima volta: «Alleluia, cazzo! È quello che ti sto dicendo da mezz’ora!». Lo lasciai. Lui si guardò la punta degli stivali di gomma: «Aspettavo solo voi per dirvelo, il signor Serafian pensa che non valga più la pena tutto ’sto casino». «Solo perché lei non gliela vuole dare più?». Se gli sguardi potessero uccidere sarei morto quella mattina sotto l’occhiataccia di Berto. «Ricarica le tue cose e vattene, pittore! Qui non c’è più niente da fare, niente che non sia già stato fatto». «E per i soldi?». Parve non capire per due minuti. Poi disse: «Le vostre giornate di lavoro vi saranno pagate fino all’ultimo centesimo, se è questo che ti preoccupa». «Mi dovrei preoccupare di qualcos’altro, Bert?». «No, proprio di niente ti dovresti preoccupare, solo dei tuoi fottuti soldi…». «Sai, io con i soldi ci campo. E tu, piuttosto? Hai almeno finito di piantare i… cosa sono? porcospini?». La mia intenzione era di sfotterlo per alleviargli un po’ la tensione che lo stava divorando sotto i nostri occhi, ma fallii nell’intento. Mi fece saettare la lingua biforcuta a un centimetro dal naso, come un serpente a sonagli. «Biancospini! Perché ti interessano tanto?». «Ma sai che cazzo me ne frega dei tuoi biancospini… ma vaffanculo, va! Ci si vede, FurBerto! E su con la vita!». «Col cazzo!» furono le ultime parole che sentii dalla sua voce. Io e Peppe andammo al piano di sopra per smontare il trabattello e radunare gli altri ferri del mestiere. Sulle scale notai un mozzicone di sigaro schiacciato con cura; evidentemente Serafian era andato a controllare i lavori e aveva avuto paura che andasse tutto a fuoco, anche se a quel punto non avrebbe dovuto importargli più molto. Il trabattello

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era ancora nell’unica stanza che avevamo finito di rasare: in tre giorni avevamo terminato solo quella; di certo non ci eravamo ammazzati di lavoro! Avevamo già iniziato a ridurre in pezzi il trabattello, quando mio nipote mi fece cenno di guardare il muro: dove tutto avrebbe dovuto avere un tono di colore biancastro uniforme, c’era un alone più scuro. «Niente. Forse deve ancora asciugarsi bene» dissi a Peppe con tono professionale. Lui si toccò il cavallo dei pantaloni: col cavolo! «Che vuoi dire?». Dimenò la mano all’indietro, poi la girò intorno per la stanza e schioccò un bacio: ieri era tutto bello bianco. Ci avvicinammo di più alla parte di muro incriminata e io vi passai sopra una mano: non era per niente liscia come avrebbe dovuto essere dopo un paio di passate delle nostre americane. Era come se qualcuno avesse cercato in malo modo di togliere una macchia strofinando con uno straccio e portandosi dietro una buona quantità di stucco. Guardai il pavimento di cemento grezzo: proprio sotto quell’angolo di parete era riconoscibile la fatica che il solito qualcuno aveva fatto per pulire qualcosa. «Vabbè, ma a noi che interessa? Qualche altro operaio avrà fatto un pasticcio per poi cercare di rimediare». Mi agitò la mano a coppa davanti agli occhi. «Dici che ieri non c’era nessun’altro operaio oltre a noi, eh? Può essere venuto qualcuno nel pomeriggio; noi abbiamo fatto festa, ricordi?». Agitò la testa. «Ok, allora no! Dimmi tu che è successo, Sherlock!». Mi prese per le spalle e fece finta di sbattermi ripetutamente contro il muro. Poi strabuzzò gli occhi e accennò a cadere per terra. «Sì… secondo te qualcuno è stato ucciso con la testa fracassata contro la parete. Ho capito bene?». Annuì con convinzione. «Tu leggi troppi di quei King, te lo dico io. Devi sempre trovare il mistero macabro in tutte le situazioni! Adesso quando scendiamo chiediamo a TristiBerto se sa quel che è successo, sempre che sia successo qualcosa…». Quando andammo a caricare il Fiorino non c’era traccia del giardiniere, non lo rividi più di persona. Ci lasciammo alle spalle Villa Alleva rimuginando sul mistero della parete misteriosa.

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Un paio di sere dopo – sabato o domenica, ma poteva essere benissimo anche lunedì – zio Nello mi invitò a cena. Lo faceva almeno una volta a settimana, ma i miei rifiuti facevano sì che assaggiassi specialità cubane non più di una volta al mese. Se rifiutavo i suoi inviti lo facevo solo per sottrarmi alla sottile tortura che accompagnava inevitabilmente le mie serate a casa sua: una forma di… beh, possiamo chiamarla anche “invidia”, perché no? veniva a possedermi ogni volta che passavo qualche ora in compagnia di colui che era stato il marito della sorella gemella di mia madre. Intendiamoci, gli volevo un sacco di bene, aveva tutta la mia stima e il mio rispetto ma non potevo evitare il sentimento non proprio nobile che mi suscitavano quelle serate. Quella volta andai perché era ormai un mesetto che mi sottraevo inventando impegni inesistenti. Mi ricevette come al solito sotto la veranda della villa in cui abitava, una casetta a tre piani bella da fare invidia, sfoggiando la sua – invidiabile – abbronzatura perfetta e perenne. Ci sedemmo al fresco sorseggiando un drink come aperitivo e chiacchierando del più e del meno finché non ci raggiunse la sua seconda moglie (o era la terza?). Io lo odiai con tutto me stesso: passi l’abbronzatura; passi la villa e in generale tutto il benessere nel quale sguazzava – e che di sicuro aveva meritato e conquistato – ma quello… quello proprio no, sciaddìo! A quei tempi zio Nello viaggiava ormai più sui sessanta che sui cinquanta, anche se li portava benissimo con la sua forma – ok, lo ridico – invidiabile. La sua seconda (o terza?) moglie non aveva invece più di ventisette primavere ed era una dea da adorare, una statua da venerare. Era alta un metro e sessantotto, ne sono sicuro perché una volta la misurai con il metro da falegname e ricordo ancora con una fitta di dolore come si fossero trovate vicine le nostre bocche. Quanto pesava non lo so ma io l’avrei portata in braccio per tutta la vita senza mai farle toccare terra e possedeva tutte le forme e le misure giuste. Ah dimenticavo la pelle, liscissima e di un tono caffelatte che avrei baciato per tutta la vita senza mai staccare le labbra. Mio zio l’aveva conosciuta durante uno dei suoi frequenti viaggi in un locale dell’Avana – mi rifiutavo di pensare che fosse uno di quei localacci tutto alcool e sesso e che lei non fosse lì per fare altro che bere un cuba libre con qualche amica – e come avrebbe fatto qualsiasi uomo dotato del ben dell’intelletto l’aveva sposata. Quella sera la dea sfoggiava un paio di calzoncini rossi e una camicetta leggera annodata sotto il petto che non aveva bisogno di alcun reggiseno.

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«Hola Rocco, como estas?». «Buenas tardes, Suave». E che ne dite del nome? Mai stato più appropriato. All’inizio non avevo creduto che una creatura così… soave potesse avere proprio un nome del genere, finché lei non mi fece vedere il passaporto su cui c’era scritto sul serio Suave Qualcosa. A pensarci bene fu la stessa volta che le misurai l’altezza con il metro di legno da falegname. Dopo un po’ entrammo in casa per la cena che Suave aveva preparato con le sue manine: manicaretti cubani degni del miglior ristorante dell’Avana. Era anche una bravissima cuoca, oltre a essere tutto il resto. Al termine dell’abbuffata stavamo sorseggiando del rum quando mi squillò il cellulare: Rachele. «Sister…». «Brother… dove sei rintanato?». «Sono da zio Nello». «Olè! Y como està el vecchio cabron? Y su concubina?». «Stanno benissimo». Mi rivolsi al cabron y su concubina: «È Rachele, vi saluta!». Due sorrisi di circostanza risposero alle mie parole: sapevano benissimo che nessuno dei due stava molto simpatico a mia sorella. Tornai a lei: «Che c’è, Rack?». «In quel castello fatato esiste un televisore?». «Perché?». «Vedi se riesci a beccare un telegiornale, c’è una notizia interessante. Anche per Fidel Castrato, a pensarci bene. Noi l’abbiamo sentita nella scorsa edizione e Giuseppe Maria è andato in fibrillazione; ha giurato di farmi solletico sotto i piedi fino alla morte se non ti avessi chiamato». «Che notizia?». «Eh no, sorpresa! C’è un tg fra cinque minuti, canale due. Ora devo andare, i miei rispetti ai tuoi squisiti ospiti» e riattaccò. «Brutte notizie, caro?». Quando Suave mi chiama caro qualsiasi brutta notizia diventa uno scampanellio celeste. «Cristo, mia sorella è incredibile! È così… così… no, nessun cattivo messaggio. Mi ha solo detto che c’è una cosa al tg che ci dovrebbe interessare, mistero sul contenuto. Accendiamo la tv, zio?». «Se è proprio necessario…». «Canale due».

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«Comandi». Pigiò un bottone del telecomando e uno schermo che occupava quasi tutta la parete si accese: una bionda più grande di noi ci invitava a comprare una certa marca di carta igienica perché più soffice e resistente, tanto che un cane della stazza di un orso la portava in giro per tutta la città cosicché quando ne avesse avuto bisogno, al padrone di casa non sarebbe rimasta altra alternativa che pulirsi il culo con il pelo candido del cane sciupone. Dopo il bottiglione di una bibita dissetante come nessuna e la scatola gigante di un riso che potevi lasciare a bollire anche per tre giorni tanto mai e poi mai si sarebbe scotto, cominciò il tg. Andò avanti per venti minuti senza che nessuna notizia ci colpisse in modo particolare; sempre le solite menate: un attentato terroristico qua; un’alluvione là; i politici di tutto il mondo che litigavano fra di loro… solo verso la fine, alle spalle del mezzobusto di turno comparve una fotografia che fece saltare mio zio sulla poltrona su cui si era mezzo addormentato. «Che mi pigliasse un colpo!». Non lo riconobbi subito, forse perché non aveva tra i denti il solito sigaro. «… notizie del famoso produttore Arnoldo Serafian, scomparso ormai da trentasei ore. Continuano le ricerche a trecentosessanta gradi anche se gli inquirenti propendono per il rapimento a scopo di estorsione, pur non essendo ancora pervenuta alla famiglia Serafian nessuna richiesta di riscatto. E ora le previsioni del tempo: domani su tutta la penisola…». Zio Nello spense il televisore e si concesse un altro goccio di rum. «Hanno rapito Serafian, zio!?». «Col cazzo! Quel figlio di puttana è sparito con la cassa, te lo dico io. Era in brutte acque, a quanto ne so, e se anche Stella Morse voleva abbandonarlo… dove l’ho sentito? Me l’hai detto tu?». «No, non io. Anche se so qualcosa della storia…». «La cosa che mi rompe di più è che il bastardo mi deve ancora un bel po’ di soldi, compresi i tuoi… Ma per questo non ti preoccupare». «No zio, non preoccuparti tu». «Col cazzo! Hai lavorato e devi essere pagato. È anche per questo che ti ho chiesto di venire stasera, l’assegno è già pronto. Tanto li recupero, stai sicuro. Suave, ti dispiace…». Lei già stava tornando porgendomi il pezzo di carta: «Y buena suerte!». «A usted».

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Non guardai neanche la cifra, sicuro com’ero che fosse sostanziosa. «Tu che lo conosci, zio, che tipo è Serafian?». «Uno stronzo». «Pienamente d’accordo». Il giorno dopo cambiai l’assegno e mi invitai a pranzo da Rachele con la scusa di portare a Peppe la sua parte, ma lui era molto più interessato ai fatti accaduti che al volgare dinero. Mi accolse con un blocchetto e una penna in mano. Ci accomodammo e cominciò a scrivere, dalla grafia si capiva che era eccitato: Hai visto chi è scomparso? Te lo dicevo io… «Mi dicevi cosa?» gli risposi mentre Rachele ci metteva davanti gli aperitivi. «Che si mangia, sister?». «Roba cubana superafrodisiaca, naturalmente. Tanto ci sei abituato, no?». «Spiritosona! Non è che…». Ma era già tornata in cucina. Mi arrivò un altro foglietto. Lo lessi mentre attaccavo il più buon gin tonic a ovest del Pecos: L’hanno ucciso sbattendogli la testa contro il muro. Abbiamo visto le tracce, ricordi?

Rimasi un po’ stordito, e non solo dal gin. «Rack, ma tu la sai questa storia?! – urlai verso la cucina – Te ne ha parlato?». «Fin dopo mezzanotte – venne a sedersi anche lei al tavolo con qualcosa che sembrava vino dentro un bicchiere – Sinceramente non so cosa pensare. Tu che dici?». Ci riflettei qualche secondo: «Che ne so. Vogliamo andare alla Polizia?». Questa volta fu Peppe a riflettere, per poi scrollare le spalle in un energico no. «Ok, allora tanto per fare conversazione… vediamola così: Stella Morse ritorna alla villa, trova Serafian al piano di sopra e l’ammazza. E l’autista? Berto? Il corpo?». Peppe scriveva furiosamente. Io mi accesi una sigaretta. «Per me è una follia – disse Rachele – Pronti per il pranzo?». «No, per piacere! ancora gamberoni afrodisiaci no, ti prego…». «Qualche volta dovrò assaggiare anch’io quella cucina favolosa. Ma funziona sul serio, almeno?».

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«Ci puoi giurare. Non ho fatto altro che scopare tutta la notte…». «Rocco! Non essere volgare, per piacere. Fare l’amore, si dice». «Va bene, allora sono stato tutta la notte a fare l’amore!». «Me lo immagino. E invece… fettuccine, arrosto e patate?». «Divino». Peppe tornò alla carica: Non hai capito niente Watson. È stato proprio Berto! L’ha ucciso e poi ha sotterrato il corpo. Ti ricordi com’era sconvolto quella mattina? se ci pensi bene vedrai che tutto quadra.

«Mi ci vuole un altro gin tonic. Magari questa volta con un po’ di gin. Posso, Rack?». «Se vuoi ubriacarti fai pure, sai dov’è!». Mentre mi riempivo il bicchiere di gin e lo facevo passare davanti alla bottiglia di acqua tonica – la versione bomba del drink! – feci ciò che mi aveva suggerito mio nipote: ci pensai bene. Al primo sorso cominciarono a venirmi in mente brandelli di conversazione. Berto sconsolato: Farei qualsiasi cosa per vederla felice…; Stella Morse rivolta a Serafian: Spero che questa casa diventi la tua tomba…; Serafian: Io ti ho creata! Io sono il tuo dio!; la mia voce: Ti sei proprio innamorato, Bert. Amore paterno… Farei qualsiasi cosa… per vederla felice… qualsiasi cosa… Anche ammazzarlo? «No, non può essere!» dissi ad alta voce accorgendomi solo allora di avere davanti un piattone di pasta fumante. «Buon appetito, cazzo!». «Rocco! Ma insomma…». «Scusa, scusa. È che… questa storia…». «Ha sconvolto anche me, non ti credere. Ma alla fine tutto si risolve in una domanda: dobbiamo… no, vogliamo andare alla Polizia? Dire quello che sappiamo… no, che crediamo di sapere e poi lavarcene le mani?». «Penso che se stanno facendo delle indagini arriveranno alla villa, se non ci sono già arrivati. E se sono in gamba come dovrebbero vedranno quello che abbiamo visto noi, o che abbiamo creduto di vedere. Se non lo sono… beh, io dico che sono affari loro. Perché infognarci in questa storia? Vi dirò un’altra cosa: se tutto fosse andato sul serio come crede lo Sherlock qui presente… beh, ne sarei quasi contento. E non mi va di mettere nei pasticci quell’omino di Berto per ciò che è solo un’ipotesi; indipendentemente dal fatto che sia colpevole o meno. Ma voi che dite?».

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Peppe cominciò a scrivere rapidamente sul blocchetto, Rachele si alzò senza rispondere per andare a prendere l’arrosto, io realizzai di aver finito le fettuccine senza neanche accorgermene. «Occristo Rock, ma se arrivano alla casa risaliranno anche a te… a voi!» disse Rachele di ritorno con il vassoio. «Quindi il problema non si pone. Il dilemma è solo questo: che versione adottiamo? Ignoranti o sapienti?». Mio nipote finì di scrivere e mi passò la sua opinione: Io penso che dovremmo farci gli affari nostri, cioè tenerci per noi ciò che crediamo sia successo. In finale, chi se ne frega? Che se la sbroglino loro, però io sono sicuro di non sbagliarmi.

E alla fine aveva risposto alla mia ultima domanda vergando un: IGNORANTI.

Passai il foglio a mia sorella, che dopo averlo letto sentenziò: «D’accordo allora, facciamo gli ignoranti. Quanto fa sette per nove?». Il suono del cellulare mi impedì di rispondere ottantuno. Zio Nello: feci leggere il display agli altri. «Wow, non avrà digerito i gamberoni avanzati da ieri sera che la sua niña gli ha rifilato per pranzo!» fece quell’acida di Rachele. Cercai di lanciarle un’occhiataccia, ma dovetti soffocare uno sghignazzo mentre rispondevo. «Ciao Rocco, dove sei?». «A pranzo da Rachele. Ci raggiungi?». Mia sorella mi mostrò il dito medio. «Volentieri ma non posso, ho ospiti. Salutami tutti». «Vi saluta zio Nello!». «Ciao Zietto!» fece Rachele ad alta voce, il medio era sempre bene in vista. «Che c’è Zio?». «Oh, niente di importante. Ho a pranzo un mio carissimo amico, l’ispettore Arduini. Lo conosci? No, non penso. Stavamo parlando del più e del meno ed è venuto fuori che conosco Serafian. Capito chi? Il produttore, quello che è scomparso…». «Sì sì, ho capito benissimo». «Guarda caso sta indagando sulla sua scomparsa. Hai sentito che è scomparso?». Era ubriaco o stava giocando un qualche gioco strano? «Sì, l’ho sentito».

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«Bene. Mi ha messo sotto torchio e io non ho potuto fare a meno di confessare tutto». «Confessare… cosa?!». «Calma Rocco, si scherza! Siamo al brandy e forse non ne avevamo bisogno. In poche parole: gli ho detto che tu hai lavorato alla sua villa per conto mio e a questo cazzo di poliziotto è venuto in mente di interrogarti. Invece di rilassarsi…». In sottofondo sentii delle risate. La più squillante era quella di Suave, forse si stavano rilassando in quel momento. Lo zio intanto continuava: «… allora gli ho detto: “Addirittura! cazzo, il mio nipote preferito! Vaffanculo, adesso lo chiamo e vedo se ha qualcosa da dirti così evitiamo tutte le noiose burocrazie del mio pene”. Dunque immaginati una lampada da mille watt puntata sulla tua faccia e confessa: che sai della scomparsa del produttore? Hai il diritto di rimanere in silenzio. Se rinunci a questo diritto…». Le risate in sottofondo diventarono ragli sguaiati che contagiarono anche zio Nello, facendogli produrre un ululato che quasi mi trapanò l’orecchio. Davvero non avevano nessun bisogno del brandy. Un po’ scazzato aspettai che lo zio tornasse alla quasi normalità e gli risposi, forse in maniera troppo acida… ma che volete farci? In mia compagnia Suave non si era mai divertita tanto come immaginai stesse facendo in quel momento, stravaccata sul divano a uggiolare con un ispettore di Polizia che… «Che cavolo dovrei saperne, zio? L’ho visto sì e no per cinque minuti…». «Cazzo, Roccazzo! Lo vedi? Le stesse identiche medesime parole che gli ho detto io! Uguali! Quindi a posto. Non aspettarti nessun agente che viene a sfondarti la porta, riponi la Beretta e rilassati. Tutto a posto, capito bene? Tutto a posto. Ci si becca». «Adios». Riferii la conversazione a Peppe e Rachele. Mia sorella non parve affatto sorpresa: «Quel poliziotto deve essere sul suo libro paga». «Ma che dici? Libro paga? Ma cos’è, un mafioso?». «E invece per te che cos’è?». «Non lo puoi proprio soffrire, eh? Eppure ha fatto molto per noi». «Nessuno lo mette in dubbio, questo. Ciò non toglie che anche se il lupo si traveste da pecora, sotto la lana sempre lupo rimane». «Minchia, saggezza popolare è! Baciamo le mani, donna Rachele». «Ma vattene, va!».

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Peppe ci fece leggere le sue ultime parole: Partita chiusa, patta e pace. Perché non ci concediamo anche noi un buon brandy? La storia della scomparsa di Serafian si sgonfiò piano piano, soffocata da altre notizie e dal bisogno di sangue fresco della stampa. Per quel che ne so, non è mai ricomparso sulla scena. Villa Alleva fu acquistata da una tranquilla coppia di pensionati, lui ex dentista e lei ex chirurgo. Ci tornai quando mio zio mi mandò a finire il lavoro iniziato, sei-sette mesi dopo l’ultima volta che vi avevo messo piede. Peppe era tornato a scuola, se non ricordo male, quindi mi portai un aiutante polacco che parlava meno di mio nipote. Quando diedi un’occhiata al giardino vidi che i venticinque biancospini crescevano bene; soprattutto uno, l’ultimo che Berto aveva piantato. Era più alto degli altri di almeno dieci centimetri e molto, molto più rigoglioso. Forse era stato concimato meglio. Tempo dopo ero sulla scala a dare una rinfrescata ai soffitti della vedova Paci. L’arzilla vecchietta aveva ricoperto tutti i mobili con fogli di giornale per evitare che schizzi di vernice li sporcassero. Stavo dando la prima mano al soffitto della camera da letto, quando su un quotidiano attaccato in cima all’armadio vidi un volto conosciuto. Rimasi con la pennellessa a mezz’aria: una fotografia a colori; lessi la didascalia: «L’attrice Stella Morse sbarca per la prima volta a Venezia per la Mostra del Cinema. Foto in alto: L’attrice con il produttore e il regista del film in concorso. Il volto conosciuto stava effettivamente scendendo da un motoscafo scortato da due uomini; sorrideva e salutava la folla che l’aspettava come una star consumata. Un senso di contentezza mi prese all’improvviso: ero felice che ce l’avesse fatta, che fosse riuscita a far dimenticare il proprio passato non esattamente limpido; che fosse entrata nel circuito del cinema serio. Cazzo, un film in concorso a Venezia! Mica robetta da niente! Guardando meglio la fotografia vidi che sul motoscafo c’erano anche altre persone, forse marinai o guardie del corpo. Una però non sembrava né l’uno né l’altro: veniva subito dietro la star, un ometto ben vestito che le reggeva il gomito per aiutarla a scendere senza pericoli. Poteva benissimo essere il padre, o l’amante. Mi accostai fino a toccare quasi la

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foto con il naso e lo guardai meglio: non sembrava molto a suo agio in giacca e cravatta. Me lo ricordai con un cappellaccio di paglia e un paio di stivali di gomma. Fu un attimo. Poi un rivolo di tinta bianca si staccò dalla pennellessa rimasta sospesa e coprÏ tutta la foto.

Non avrai altro produttore all’infuori di me

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ii

E

ra il periodo della festa del paese: una settimana-dieci giorni di baccanali sfrenati a ritmo di orchestrine folk, con qualche cantante ripescato dalla Casa di riposo per artisti a fare da attrazione finale. Il tutto a cavallo tra luglio e agosto, con il caldo che squagliava i gelati da passeggio sulle mani dei paesani che uscivano alle due di pomeriggio – una temperatura intorno ai sessantasette gradi – trascinati dalla voglia insana di trasgredire e divertirsi. In quei giorni il Carnevale di Rio faceva bellamente da secondo in quanto a corpi sudati riversati come un branco di bestiame per strada. E poi messe, processioni, pubbliche esecuzioni e pubbliche ubriacature… il profano e il sacro mescolati in onore di san Rocco, nostro Santo Protettore nonché protettore degli appestati. Ho sempre visto in questo accostamento un che di profetico: a guardarli bene, in quei giorni, i miei paesani sembrano sul serio una massa di pestilenziali zombie vaganti per la città in cerca di cibo, o meglio di alcool: il consumo di birra ha un’impennata colossale durante la fiesta; chioschi fioriscono a ogni angolo solo per spillare boccali di bionda a ritmo vertiginoso; ragazzini a cui è proibito durante l’anno solo passare davanti a un bar, sono autorizzati tacitamente a bivaccare intorno a quei chioschi con in mano bicchieri più grandi di loro; donne che per trecentocinquanta giorni hanno portato alta la bandiera della morigeratezza e della castità, non esitano a esibirsi in sguaiati cori da caserma sotto gli occhi benedicenti di tutta la popolazione. Non per fare per forza il bastian contrario, ma io quei giorni non li potevo soffrire. Li odiavo. Odiavo tutta la folla che si riversava fuori casa


intruppandosi sul corso principale in un su e giù da dementi; odiavo i gruppi accalcati intorno alle bancarelle di zucchero filato o di noccioline; e poi il rumore, il continuo brusio di un temporale lontano che sai che non arriverà mai… E tutti quelli che incontrandomi, le rare volte che mi arrischiavo a uscire dalla mia tana, erano felici e ansiosi di farmi gli auguri… oh come ci godevano a farlo, non aspettavano altro per un anno intero, un auguri e via verso nuovi boccali, cercando di sfuggire ai cinesi o ai negri che li inseguivano per appioppargli graziosi oggettini che non avrebbero usato mai anche campando cent’anni! Tutto il paese si metteva in ferie in quel periodo così erano tutti liberi di alzarsi all’alba, cominciare a sudare passeggiando avanti e indietro sulla Main Street, poter iniziare a bere molto prima di pranzo e ritrovarsi alle quattro di pomeriggio ubriachi da buttar via. Cazzo, l’aspettavano per un anno intero questa goduria! Non per fare per forza il bastian contrario, ma se in quel periodo ero costretto a stare senza lavorare (non succedeva spesso perché lasciavo sempre da parte qualche lavoretto da portare a termine proprio nei giorni di bordello, come una previdente formichina che pensa al periodo di magra) mi rinchiudevo in casa per tutto il giorno, con rapide sortite notturne per procacciarmi i beni di sopravvivenza: sigarette, panini, birre, a volte qualche donna… Quella volta ero impegnato con una squadra di altre cinque persone a ridare una parvenza di rispettabilità alla scuola media di Collelegno, una ventina di chilometri più a nord lungo la superstrada. Un lavoro noiosissimo, centinaia di taniche di tinta bianca da sbattere sui muri senza nessun afflato artistico; aule e cessi, corridoi e cessi e aule che si susseguivano per tutto il giorno, all’infinito. Per qualche legge strana – qualcosa che riguardava i finanziamenti statali – dovevamo tinteggiare settemila metri quadrati, né uno di più né uno di meno, e per questo fior di geometri con le palle erano venuti a segnare i nostri confini: il primo piano lo si doveva fare tutto tranne un paio di sgabuzzini; ma già al piano di sopra, secondo le fettucce e le calcolatrici, si doveva evitare qualche corridoio e i gabinetti. Al terzo la situazione diventava comica, se non grottesca: in alcune aule era permesso fare solo il soffitto, in altre una parete sì e una no; in molte era addirittura proibito arrivare a più di un metro dal pavimento. La bidella che veniva la mattina ad aprirci i cancelli e che aspettava il pomeriggio per richiuderli alle nostre spalle era una passabile e simpatica

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