L’Abate di ghiaccio. Un’avventura di Dana di Blackwood

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Lucia Raffaella Caprioli

L’Abate di ghiaccio Un’avventura di Dana di Blackwood

auto da fé


I

n questa nuova avventura Dana di Blackwood deve salvare da un malvagio usurpatore l’abate Arslan, il cui legittimo potere potrà essere ristabilito grazie a un misterioso sigillo. Per trovarlo, Dana e i suoi compagni seguiranno gli indizi nascosti all’interno del monastero e nella loro stessa memoria, e non mancheranno interventi magici e sovrannaturali. Riuscirà a trionfare il Bene sul Male? Quale sarà la sorte del monastero e dei suoi abitanti? LUCIA RAFFAELLA CAPRIOLI (1962) è nata e vive a La Spezia. Diplomata in pianoforte e laureata in Lettere, alterna l’attività artistico-musicale all’insegnamento nella Scuola media. Ha pubblicato una raccolta per ragazzi di Poesie didattiche (2007) e Il Diamante della Luce (2013), prequel di questo romanzo.

ISBN ISBN 9781726762458 9781726762458

€ 13,90

9 781726 762458


Auto da fé … Licenziando queste cronache ho l’impressione di buttarle nel fuoco e di liberarmene per sempre (E. Montale)


© Lucia Raffaella Caprioli, 2018 © FdBooks, 2018. Edizione 1.0 L’edizione digitale di questo libro è disponibile online in formato .mobi su Amazon e in formato .epub su Google Play e altri store online.

ISBN 9781726762458

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Lucia Raffaella Caprioli

L’Abate di ghiaccio Un’avventura di Dana di Blackwood



A papĂ e mamma, ad Anna, Roberto e Annalisa, mie radici e mio respiro.



Lucia Raffaella Caprioli

L’Abate di ghiaccio Un’avventura di Dana di Blackwood



Capitolo primo

Ritorno

L

a luce morbida del mattino filtrava appena attraverso la bifora, lasciando che il tessuto leggero che ne velava l’apertura si tingesse delicatamente dei colori dell’aurora. Tenui giochi luminosi disegnavano tremule linee cangianti sul soffitto chiaro della stanza, rivelando e nascondendo istante dopo istante le sottili danze silenziose del pulviscolo iridescente. Dana si svegliò di soprassalto. I suoi occhi si spalancarono nella penombra, ancor prima che la sua mente potesse comprendere che cosa l’avesse riscossa così bruscamente dal sonno. Batté più volte le palpebre, cercando di mettere a fuoco con lo sguardo ciò che i pensieri ancora non rendevano chiaro. Nella stanza tutto pareva tranquillo e immoto, il silenzio era interrotto soltanto da lontani garruli echi – giochi canori di uccelli – e dal nitrito di un cavallo, forse proveniente dal basso, dal cortile centrale del castello. Eppure qualche cosa la turbava profondamente. La giovane donna si era svegliata all’improvviso, in preda a una strana inquietudine che si agitava dentro il suo petto, scorrendole nel corpo come un brivido sottile e apparentemente immotivato. Asciugò con una mano le piccole stille di sudore che si erano formate sulla sua fronte, e come sorpresa da un pensiero fulmineo si girò di lato, verso la culla di legno che si trovava accanto alletto. Poi si sollevò su un gomito, e guardò suo figlio. Il piccolo dormiva ancora profondamente, lasciando sfuggire dalle labbra leggeri sospiri regolari. Dana sorrise, ritrovando la calma. E continuò a guardare il bambino, così indifeso e insieme felice, mentre i lineamenti delicati erano distesi nell’inconsapevole pace del sonno. La donna sfiorò


i capelli chiari del bimbo, piano piano, per non destarlo, e sorrise sentendo la tenerezza traboccare dentro di sé, fino a riempirla e ad appagarla completamente. «Dormi, piccolo Galead…» sussurrò appena. «Dormi e sogna ciò che può sognare un angelo… la tua mamma veglia su di te, e continuerà a farlo finché vivrà… Tuo padre è lontano, ma i suoi pensieri sono qui e ti tengono al sicuro». Dana si alzò e sedette sul letto. Nonostante la rassicurante visione del figlioletto addormentato e sereno, quell’inquietudine subdola e inspiegabile che l’aveva svegliata riprese ad agitarsi dentro di lei, tenendo in allerta la sua mente e il suo corpo. Le sembrò di avvertire il vago ricordo di qualche cosa di antico, una sensazione indefinibile ma già provata… Quasi senza rendersene conto, tornò indietro con il pensiero. Erano passati tre anni da quando aveva adempiuto la missione che il destino della sua famiglia le aveva riservato, come molto tempo addietro era accaduto a suo padre, e ai suoi avi prima di lui. Ciò che era accaduto durante il viaggio – compiuto attraverso luoghi a lei ancora sconosciuti – creava ora nella sua mente un duplice effetto: così, mentre ricordava ogni particolare di quella straordinaria avventura in modo estremamente netto e quasi palpabile, contemporaneamente provava un senso di affascinante distacco, come se quelle azioni e quegli avvenimenti fossero avvolti da una nube di fantastica irrealtà. Eppure tutto era accaduto veramente. Aveva compiuto il viaggio necessario per salvare il suo mondo dal pericolo mortale che lo minacciava da tempi remotissimi. Aveva affrontato il Nemico, come ogni venticinque anni doveva fare l’ultimo discendente della famiglia dei Blackwood. Aveva incontrato quell’essere abominevole e crudele che voleva, da sempre, eliminare la luce dal mondo, per impadronirsi di esso e dominarlo con le sue oscure brame di potere e di distruzione. E aveva vinto, ricacciando il Signore dell’Ombra nelle oscurità da cui era sorto. Dana rabbrividì, ricordando in pochi istanti il cammino costellato di pericoli che aveva dovuto fatalmente percorrere, per arrivare all’oggetto meraviglioso destinato a salvare la luce, e con essa la vita di ogni essere animato e inanimato… Rabbrividì ricordando la lotta finale,

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la disperazione e la tenacia che l’avevano sorretta e guidata nel confronto impari con quell’essere potente e privo di ogni pietà, che voleva annientarla e rendere vana la sua missione. Poi, improvvisamente, si riempì di gioia e di riconoscenza, e le lasciò fluire libere dentro di sé, ancora una volta, ripensando a Colui che l’aveva accolta alla fine del viaggio, dopo la battaglia… Rivide l’Angelo della sorgente, e quella Luce piena d’amore che l’aveva avvolta, là, nella caverna scintillante sotto la superficie della terra, e volle con tutta se stessa rivivere quel momento, ritrovare quei colori e quei riflessi paradisiaci… Desiderò udire ancora, almeno per un istante, quella voce dolcissima e rasserenante che l’aveva guidata nell’ultima tappa del suo viaggio. Dana rivide se stessa sollevare il Diamante della Luce verso i raggi del sole, nel giorno dell’equinozio di primavera, e chiuse le palpebre per contemplare meglio, solo con gli occhi della mente, l’ondata di fulgore accecante e vitale che ne era scaturita. Rivisse in un attimo il trionfo della luce sull’ombra che voleva inghiottirla, il trionfo della vita sull’oblio della morte. Riprovò quel sentimento di gioia irrefrenabile che l’aveva colta, quel senso d’inesprimibile completezza che l’aveva pervasa totalmente. Poi si riscosse. Riaprì gli occhi, e per un attimo si sentì quasi persa nell’atmosfera familiare e tranquilla della camera. Lo sguardo si posò sul bambino, ancora addormentato nella culla che era stata il primo nido anche per lei, ora giovane madre. Dana osservò a lungo suo figlio, non riuscendo a distogliere l’attenzione dal ritmico respiro che sollevava appena il petto nel corpicino addormentato, e non poté trattenere un sospiro, mentre una lieve stretta le opprimeva il cuore. Un giorno sarebbe toccato a lui. Era il destino della sua famiglia, era il compito di ogni discendente dei Blackwood. Ogni venticinque anni, durante l’equinozio di primavera, tutto doveva essere nuovamente compiuto. Il Diamante avrebbe dovuto rivedere la luce, il viaggio – forse nuovo, forse diverso, ma con un’identica meta – avrebbe dovuto avvenire, ancora una volta. E il piccolo Galead – sì, Galead, come il padre di Dana, così come la donna aveva voluto che il bambino venisse chiamato – ormai divenuto un giovane uomo, addestrato alle armi, istruito su tutto ciò che era necessario sapere, sarebbe partito e avrebbe affrontato i mille pericoli di quella missione, fino a incontrare il Nemico, ancora una volta deciso a strappare la vita a ogni essere vivente…

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Così doveva accadere. Dana non poteva far nulla per proteggere suo figlio dal compito che lo attendeva, così come suo padre non aveva potuto impedire che lei stessa lo affrontasse. La donna accarezzò ancora il bambino, poi sorrise e si allontanò dalla culla. Allora, d’improvviso, il pensiero andò ad Arslan. L’agitazione che si rimescolava dentro di lei crebbe in un attimo. Fu come se una voce, confusa ma in qualche modo già nota, gridasse all’interno della sua mente. Fu come se qualcuno, da una lontananza incalcolabile, tentasse di chiamarla, di farsi udire, di attirare la sua attenzione, distraendola da qualunque altra cosa si trovasse in quel momento accanto a lei, distogliendola perfino da suo figlio… Mentre cercava di chiarire a se stessa ciò che stava provando, lottando contro quell’ansia inattesa e inesplicabile, dentro di lei si fece strada il vago ricordo di una sensazione passata, che non aveva più avvertito ormai da molto tempo, ma che prepotentemente riportò alla luce un ben preciso sentimento, o piuttosto un senso di comunione mentale già sperimentato e mai completamente compreso. E alla sua mente si affacciò l’immagine dell’Abate, uomo venerabile che tanta parte aveva avuto nella missione da lei compiuta… Ricordò come avesse sentito, più e più volte, la voce del vecchio monaco risuonare all’interno dei propri pensieri, quasi intessuta con essi, lontana e difficilmente distinguibile, ma nello stesso tempo autorevole e sicura… E poi ripensò ad Arslan, giovane compagno con cui aveva condiviso quasi tutta quell’avventura, affrontando gli stessi pericoli, giungendo alla stessa meta. Sì, Arslan, che adesso era il nuovo Abate del convento arroccato sulla montagna, lassù, tanto più in alto del castello… Arslan, che da ragazzo scanzonato e ribelle si era trasformato in un giovane uomo coraggioso e fidato. Lui, che aveva deciso di trascorrere tutto il resto della vita nel monastero, e aveva accolto dentro l’anima le parole dell’anziano padre superiore, accettando di divenirne il successore… e ancora così inesperto e ingenuo aveva preso sulle proprie spalle un peso forse più grande di quanto potesse immaginare, per adempiere la sua personale missione… Un sussulto di nostalgia fece scorrere una lacrima sulle guance di Dana. Il vecchio Abate si era spento ormai da tempo. Un anno prima, subito dopo la nascita del piccolo Galead, il monaco era rientrato in

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quella che aveva sempre considerato la sua vera casa, il Cielo a cui aveva tanto desiderato riunirsi, dopo un’esistenza dedita alla ricerca del Bene, che egli solo sembrava, talvolta, intravvedere, nei momenti più difficili o nelle nebbie che spesso offuscavano il cuore di tutti gli altri. Non aveva mai distolto lo sguardo dalla Luce, e alla Luce era tornato, con assoluta certezza. Dana sorrise, ripensando al momento in cui il venerando frate aveva sollevato tra le esili braccia il bambino appena nato, l’ultimo discendente dei Blackwood, e l’aveva benedetto, accarezzandolo con uno sguardo che sembrava già proiettato lontano, uno sguardo che, forse, solo Dana aveva saputo capire. Ma perché tutto questo tornava così improvvisamente alla mente della donna? Perché quella sensazione così inquietante, quell’impressione di riudire, dentro di sé, la voce lontana dell’Abate, perché il pensiero assillante del giovane Arslan continuava quasi a tormentarla, impedendo ai suoi pensieri di librarsi sereni sul nascere della nuova giornata? Arslan era divenuto la nuova guida del monastero, e dopo aver seguito con docilità e tenacia gli insegnamenti del suo predecessore, stava cercando di portare avanti un vero e proprio lavoro di perfezionamento, per essere davvero degno di sostenere l’incarico assunto. Ciò comportava il possedere doti non comuni. Questo era apparso chiaro fin dal primo momento. E, nonostante l’età ancora acerba, il ragazzo aveva dimostrato di avere capacità inusuali, e di saper agire con un coraggio e una consapevolezza ben superiori al numero dei suoi anni. L’Abate aveva visto in lui, molto prima che egli giungesse al convento, le qualità che lo rendevano adatto a divenire il suo successore, l’unico che potesse, in quel preciso momento, esserne degno, l’unico predestinato, forse, ad assumere il fardello di quell’incarico tutt’altro che ordinario. E così il vecchio monaco l’aveva cresciuto secondo i principi e gli scopi che avrebbero improntato la sua vita. Gli aveva trasmesso tutto ciò che era necessario conoscere, per adempiere al compito che doveva porlo al di sopra dei comuni mortali e farlo diventare una guida per coloro che si fossero trovati a vivergli accanto. Gli aveva insegnato anche ciò che a nessuno era dato sapere. L’aveva abituato a trarre il meglio da se stesso, a valorizzare le proprie qualità, anche e soprattutto quelle che lo distinguevano da ogni altro uomo, rendendolo così speciale e per questo indispensabile in quel momento, in quel luogo e per quel preciso scopo. Nemmeno Dana

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conosceva ciò che i due monaci si erano detti, durante i due anni che avevano trascorso insieme. Non poteva sapere quali fossero stati gli ammonimenti, i segreti, le antiche pratiche, i metodi per potenziare e sviluppare le doti presenti nel giovane allo stadio ancora germinale. Ella comprendeva soltanto che quel ragazzo, incontrato apparentemente per caso durante il suo viaggio, avrebbe acquisito, con l’aiuto del padre superiore, un livello spirituale e mentale non paragonabile a nessun altro. Sarebbe divenuto una persona a cui potersi rivolgere, in futuro, per ottenere guida e sostegno, una persona, soprattutto, destinata ad aiutare suo figlio Galead nella missione che il giovane Arslan aveva già vissuto, insieme a lei. Tutti questi pensieri si sovrapponevano confusamente nella mente della donna, mentre l’ansia che la turbava profondamente creava una sorta di mulinello all’interno della sua fronte, generando una sensazione fisica di straniamento, che le impediva di fare chiarezza dentro le idee, e la teneva avvinta a una sorta di preoccupazione indistinta ma incessante. Tutto ciò che riusciva a comprendere era che quella strana, logorante agitazione era in qualche modo legata ad Arslan e perfino al vecchio Abate… Così come nel passato era riuscita a udire in maniera inspiegabile le loro voci e i loro stessi pensieri dentro di sé, così adesso stava accadendo, e nuovamente la loro presenza premeva con urgenza nella sua anima, chiamandola a qualche cosa di ancora sconosciuto. Dana si avvicinò all’antico cassettone di legno che da sempre era addossato a una delle pareti della stanza. Aprì lentamente uno degli scomparti, con espressione assorta. All’interno, vecchie carte, mappe scolorite, lettere conservate con amore per rivivere momenti di un lontano, prezioso passato da custodire nel cuore, e ancora documenti relativi al castello, alle terre, alle persone che le abitavano e che a esse dedicavano una vita d’intenso lavoro. In un angolo del cassetto, seminascosta da un fascio di fogli ingialliti dalle scritte ormai quasi illeggibili, la donna trovò una lettera, piegata in più parti, vergata da una mano tremante su una vecchia, sottile pergamena. Con lentezza, senza quasi guardarla, Dana la estrasse dal luogo in cui l’aveva riposta un anno prima, e tornò a sedersi sul letto, tenendola tra le mani, quasi timorosa di svolgerla e di rileggerne il contenuto. Poi, con attenzione reverenziale, aprì il foglio e abbassò lo sguardo su di esso. Ma non cominciò subito a scorrerne le parole scritte con tratto

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incerto. Si soffermò per qualche attimo a chiedersi perché, proprio in quel momento, provasse la necessità di riprendere quel documento, perché sentisse dentro di sé un insopprimibile bisogno di toccarlo e di leggerlo… Perché continuava a pensare ad Arslan e al suo predecessore, come se la nuova giornata non potesse procedere senza il loro ricordo, come se quell’indefinibile sensazione che l’aveva tanto turbata al risveglio non potesse placarsi altrimenti? Infine Dana cominciò a leggere lo scritto che teneva tra le dita. Era una lettera scritta per lei dall’Abate, pochi giorni prima che egli volasse via da questa vita. Con essa il monaco voleva raccomandarle di vegliare sul giovane Arslan, che di lì a poco sarebbe divenuto la nuova guida del convento, e avrebbe assunto il nome di Tiberius, onorando in tal modo la memoria del proprio padre. Dana ripensò a ciò che il ragazzo le aveva confidato, relativamente alla morte dei suoi genitori – l’umile agricoltore Tiberius, appunto, e sua moglie – che avevano sacrificato la vita per salvare lui, ancora bambino, dall’aggressione di un gruppo di banditi in cui si erano imbattuti apparentemente per caso. Ma durante il cammino percorso insieme, Dana e Arslan avevano potuto conoscere la verità su quel fatto atroce. Quei malfattori erano, in realtà, emissari del Signore dell’Ombra, che conoscendo la futura missione del ragazzo – non un semplice campagnolo, ma un futuro potente Abate! – aveva tentato di ucciderlo tramite i propri inviati, privi di ogni coscienza e completamente soggiogati dall’oscuro padrone, che li teneva sotto il suo assoluto controllo. Ma ciò che doveva compiersi si era compiuto. Ora quel giovane era davvero il nuovo Abate, e il suo destino pareva essersi perfettamente realizzato. Dana rilesse alcune righe della lettera, soffermandosi sulle parole che, più di altre, avevano fin dall’inizio colpito la sua mente e le si erano impresse indelebilmente nell’animo. Il vecchio monaco parlava di Arslan come di un essere spiritualmente elevato, dotato di capacità uniche, sviluppate in quei due anni di permanenza al monastero sotto la guida dell’anziano Maestro, ma ancora suscettibili di ulteriore perfezionamento, che il tempo e la maturità avrebbero portato a compimento. Egli sarebbe diventato l’Abate più potente che avesse mai governato su quel monastero e destinato, in futuro, a opporsi con rinnovata energia – con la mente e con il cuore – al Nemico che, a tempo debito, avrebbe nuovamente tentato di trionfare sulla luce e sulla vita.

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Ma proprio per queste ragioni Arslan era in pericolo. Il Signore dell’Ombra certamente avrebbe tramato contro di lui, cercando di eliminarlo, poiché la forza di quel giovane rappresentava una minaccia terribile per le mire oscure di quell’essere spietato. Per tutto ciò, Dana era chiamata a proteggerlo, a custodirlo fedelmente e costantemente, con tutta la tenera amicizia e l’ammirazione di cui fosse capace. Il giovane Abate sarebbe divenuto un grande difensore della vita, della pace e della luce, ma si trattava pur sempre di un ragazzo, esposto ancora alle insidie di chi tramasse, nell’ombra, contro di lui. La donna ripiegò accuratamente il foglio ruvido e delicato. Le parole appena rilette, già scese un anno prima nella sua anima come pregne d’inestimabile importanza, acquistarono in quel momento un valore nuovo. Improvvisamente le parve che tutta l’ansia provata al risveglio trovasse una spiegazione proprio in quelle frasi dirette unicamente a lei. Ebbe la sensazione che qualche cosa stesse per compiersi, che quella lettera stesse per rivelare tutto il suo valore e il suo senso più pieno. Pur senza comprendere il motivo di quell’intimo convincimento, Dana sentì crescere dentro di sé una consapevolezza rinnovata e più forte del proprio compito. Un fremito di timore la scosse, come se si trovasse d’un tratto di fronte a pericoli già incontrati e affrontati, ma ora confusamente riemersi dal buio del passato. Ella ripose la lettera nello stesso angolo del cassetto da cui l’aveva estratta. Guardò il suo piccolo, che lentamente cominciava a destarsi, e cacciò lontano da sé ogni incertezza e ogni turbamento. Era lì per lui. Era lì anche per il giovane Abate, che forse, presto, avrebbe avuto ancora bisogno di lei. Il suo appoggio non sarebbe mancato a nessuno dei due. Entrambi rappresentavano il futuro, ed erano destinati a combattere ancora e ancora contro le forze dell’ombra. Nella loro lotta l’avrebbero sempre trovata come alleata, finché le forze gliel’avessero consentito. Era pronta a sacrificare qualunque cosa, anche la propria vita. Poiché sarebbe stata sacrificata per assicurare il futuro della Vita stessa. Lanciò un breve sguardo al vessillo di famiglia che ornava una delle pareti. Si soffermò per un attimo sulla piccola figura azzurra e alata che sovrastava le altre immagini. Ora sapeva che cosa significasse. Mormorò sottovoce una preghiera, cercando di mantenere impressa nella mente la visione incomparabile dell’Angelo che le aveva parlato, al termine del suo viaggio, per indicarle il luogo in cui era custodito il Diamante. Socchiuse gli occhi per un istante, come per non lasciar fuggire quella visione dai propri ricordi.

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Poi si avvicinò al bambino e lo sollevò tra le braccia. Dana scese con il piccolo nella sala di rappresentanza. Appena la giovane donna comparve sull’ultimo gradino che conduceva dalla sua stanza privata al piano inferiore, la vecchia balia le si fece incontro, e con un largo sorriso, che strappò una scintilla di luce ai suoi occhi ormai stanchi e opachi, strinse al petto il bambino e lo portò accanto al grande tavolo ligneo, per farlo mangiare. Dana la guardò con tenerezza. Quella donna, ormai anziana e un po’ curva sotto il peso degli anni e del lavoro, si stava occupando del bimbo con lo stesso amore e la stessa sollecitudine che aveva mostrato verso di lei, quando, rimasta priva della madre in tenerissima età, le era stata affidata perché trovasse rifugio, protezione e sostegno per la sua crescita fisica e affettiva. La balia, forse sentendosi osservata, sollevò lo sguardo e lo fissò negli occhi della giovane: «Mi sembri preoccupata, mia signora. Questa mattina l’espressione del tuo viso non ha la consueta serenità. Il bambino sta bene, è vivace e cresce come un virgulto in pieno rigoglio. Che cosa, dunque, pare privarti della tranquillità?». Dana sorrise ancora: «Tu mi conosci meglio di chiunque altro, mia tenera amica. Tu che sei stata per me come una madre… e ora ti prendi cura di mio figlio con identico affetto… Non ti sfugge nessuno dei moti del mio animo! È vero, quest’oggi mi sono svegliata in preda a una sorta di oscuro presentimento, e quella sensazione opprimente di pericolo non mi lascia libera tuttora… Ma non è per il mio bambino che sono in ansia. Penso piuttosto al giovane Abate… Temo per lui e per la sua età ancora acerba. Temo che qualche oscuro nemico lo minacci, approfittando della sua inesperienza. E un’identica paura turbava anche il vecchio Abate, che mi confidò le sue preoccupazioni a tale proposito… Proprio al mio risveglio credo di aver udito la voce di Arslan, non la voce fisica e chiaramente udibile, ma un richiamo puramente mentale, una richiesta d’aiuto da parte sua, che si è come aggrappata ai miei pensieri e non li lascia più volare liberamente… Mi rendo conto che sia un fenomeno difficile da comprendere per chi non l’abbia provato, per chi non l’abbia sentito distintamente nella propria testa con un’evidenza quasi fisica… Ma a me è già accaduto, già altre volte i pensieri di Arslan e quelli del frate superiore hanno attraversato la mia mente, comunicandomi ciò che non era possibile, in quel momento, fare a parole. Per questo sono turbata, perché sento giungere una sorta di messaggio che non riesco tuttavia a decifrare, e

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che mi lascia in una sospensione tormentosa. Ho la sensazione prepotente, ma che nello stesso tempo non so rendere chiara, che qualche cosa sia avvenuto, qualche cosa di angosciante che sfugge al mio controllo». La balia tornò a occuparsi del piccolo Galead, che giocava beatamente con il cucchiaio di legno, spargendo sulla tavola rivoletti di latte caldo e balbettando sillabe incomprensibili e gioiose, felice del proprio passatempo. «Non tormentarti, bambina – concluse l’anziana donna con voce pacata – tutto si chiarirà ben presto, ne sono certa, e se Arslan è davvero in pericolo o ha bisogno del tuo aiuto te lo farà sapere senza indugio, visto il legame d’amicizia e di lealtà che vi lega». Dana assentì con un cenno del capo, senza tuttavia perdere l’espressione assorta che le velava lo sguardo. Il vecchio Rufus, correndo quanto potevano consentirglielo le gambe ormai piuttosto malferme, chiamò la padrona, sventolando tra le dita un foglio di carta color dell’avorio: «Signora, signora, un messaggio da vostro marito!». La giovane s’illuminò, lasciando finalmente luccicare i suoi occhi di un verde scuro e vellutato, proprio come quelli di suo padre e ora del suo bambino, che da lei aveva ereditato il colore dello sguardo. «Braitorn, finalmente!» esclamò tornando improvvisamente gaia e vivace. Afferrò con impazienza il pezzo di carta e lo lesse velocemente, quasi correndo sulle parole vergate a mano. Rufus attese qualche attimo, osservando la padrona con malcelata curiosità: «Che cosa dice, signora? Come procede la sua missione?». Braitorn di Vallon da molti giorni era lontano dal castello, poiché impegnato in un viaggio di rappresentanza presso le varie casate presenti al di là dei confini controllati dai Blackwood, allo scopo di rinsaldare le alleanze con le famiglie dominanti della regione, con le quali, da tempi remoti, erano stati stretti legami d’amicizia e di reciproco sostegno, qualunque fosse la situazione economica o sociale che si trovassero a vivere, nel succedersi degli anni. «Sembra proprio che tutto stia avvenendo come Braitorn desiderava!» rispose Dana con un sorriso luminoso. «I cavalieri, i castellani, gli uomini più in vista del territorio lo accolgono con favore e rinnovano l’amicizia con le nostre famiglie… la mia e la sua casata… Tutto questo non può che rassicurarci, non credi, Rufus?».

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«Certamente queste sono ottime notizie – rispose il vecchio uomo d’armi – tuttavia speriamo di non avere mai la necessità di usufruire di queste alleanze per motivi difensivi». Dana guardò con un’improvvisa espressione pensosa il viso grinzoso dell’anziano servitore: «Naturalmente no, mio caro Rufus! Noi tutti ci auguriamo che l’armonia e la serenità delle nostre terre non vengano mai turbate da alcuna minaccia… Tu stesso, durante la gioventù, hai fatto molto per consolidare e proteggere l’alleanza che ci lega alle famiglie dei territori confinanti!». «Signora, voi sapete bene che un guerriero deve saper combattere prima di tutto per il trionfo della pace! E deve saper utilizzare le parole così come sa usare la spada! Per questo cercai di trasmettere sia l’equilibrio del carattere che la tecnica delle armi a vostro padre, a voi stessa… e se avrò ancora forza e vita seguirò perfino l’addestramento del vostro piccolino… anche se sarà poi suo padre a impartirgli gli insegnamenti necessari, per fare di lui un degno discendente delle vostre famiglie!». «Molto bene, Rufus, così dovrà essere!» concluse Dana con tono amichevole e soddisfatto. «Mio figlio avrà in suo padre e in te due splendidi esempi di lealtà e di diplomazia, oltre che due abilissimi maestri d’armi! Desidero che egli cresca sano e forte nella mente e nello spirito, oltre che nel corpo, e per questo dovrà essere circondato da persone dall’animo limpido e dalla volontà incrollabile, proprio come quella che anche mio padre avrebbe desiderato trasmettergli!». Dana ripiegò accuratamente il foglio che recava le parole – care e colme di buone speranze – di suo marito, e lo consegnò alla balia, chiedendole di portarlo al piano superiore, nella sua stanza privata. L’avrebbe, più tardi, riposto con le altre lettere a lei inviate, nei momenti di separazione forzata, da parte del suo sposo. Poi prese tra le braccia il figlio, e si dispose a scendere nel cortile centrale del castello, per andare a controllare le quotidiane esercitazioni dei cavalli, e in particolare quelle a cui veniva sottoposto il suo destriero, Shield, forte e inseparabile compagno di galoppate, con il quale aveva affrontato più di un’avventura, e soprattutto quella più importante della sua vita, tre anni prima. Mentre il bambino allungava le manine e le affondava tra i crini lunghi e chiari che ricoprivano il collo robusto dell’animale, Dana accarezzò con delicatezza la groppa lucida e bruna del cavallo, che docilmente lasciava giocare il piccolo Galead con la propria criniera.

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Nell’aria, il profumo di resina riempiva la brezza estiva, sollevandosi dalla vicina foresta. La giovane donna respirò lentamente, permettendo alla leggerezza odorosa dell’aria di scendere dentro il suo corpo, infondendogli una sorta di rinnovato legame con la natura in pieno rigoglio, che fioriva ancora intorno al maniero dalle linee severe. Le sembrò di poter ascoltare, intorno e dentro di sé, il canto dolce e prepotente della vita, che continuava a risorgere, attimo dopo attimo, in ogni impercettibile parte di ogni più piccolo essere, nel miracoloso e normalissimo susseguirsi dei giorni.

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Capitolo secondo

Scomparso

«S

ignora, perdonatemi, credo sia opportuno che scendiate, qualcuno chiede di voi!». Il vecchio Rufus si era affacciato all’entrata della camera, trafelato e ansante, dopo aver salito la stretta scala interna quanto più velocemente gli fosse possibile. Dana, intenta a riordinare i documenti e le lettere che conservava nella propria stanza, si volse immediatamente verso il servitore, mentre una lieve preoccupazione le affiorava sul viso. «Che cosa succede, Rufus? Chi mi cerca?». «Un monaco è giunto or ora al castello, signora, e insiste per parlarvi con urgenza!». Un sottilissimo brivido scosse il corpo della donna, mentre la trepidazione provata al sorgere del mattino tornava nuovamente a scorrere dentro di lei come un rivolo d’acqua gelida. «Fatelo entrare – rispose ella con voce lievemente rauca, senza riuscire a nascondere una vaga emozione – scendo immediatamente!». «Certamente, signora, l’ho già fatto accomodare nella sala di rappresentanza, e lì vi attende!». Nella grande stanza di pianta circolare che costituiva l’ambiente principale del mastio, il piccolo Galead giocava sulle ginocchia della balia, mentre alcuni servitori, vedendo entrare Dana, interruppero le faccende quotidiane in cui erano occupati e si ritirarono silenziosamente, dopo averla salutata con un breve inchino rispettoso. Un giovane frate di corporatura minuta sollevò il volto imberbe verso la padrona di casa appena sopraggiunta. Ritto in piedi, con atteggiamento nervoso, non aveva voluto accomodarsi su uno degli alti scranni che circondavano il massiccio tavolo di legno scuro, e gettava all’intorno sguardi tesi e quasi timorosi, tormentandosi le mani ossute.


«Frate Gillus, che cosa accade?» gli chiese Dana riconoscendolo al primo sguardo. «Quale evento vi porta al castello? Siete giunto fin qui a piedi… ansimate ancora… Vi prego, sedetevi accanto a me e bevete un boccale d’acqua!». «Signora – esordì il giovane con voce spezzata, quasi senza ascoltarla, tradendo un’evidente preoccupazione – mi manda a voi il Frate Guardiano…» e il suo respiro si ruppe, impedendogli di proseguire. Dana cercò di nascondere l’ansia crescente, e gli si rivolse con voce studiatamente pacata, nel tentativo di rassicurarlo: «Tranquillizzatevi, fratello, e riferitemi con calma quale messaggio vi ha affidato il Guardiano!». Il monaco si lasciò cadere sul sedile offertogli nel frattempo dal vecchio Rufus, e si accinse a spiegare, continuando a torcersi le dita senza avvedersene. «L’Abate Tiberius è scomparso – esclamò in un fiato – non è più al monastero, l’abbiamo cercato ovunque, non sappiamo dove sia!». Il giovane frate sembrava ormai sul punto di scoppiare in lacrime. Dana rimase per un attimo come stordita. Guardò il monaco che le stava dinnanzi quasi senza capire, e per qualche istante non riuscì a pronunciare alcuna parola. Poi, mentre il novizio la osservava con espressione implorante, cercò di riprendersi: «Scomparso? Arslan… l’Abate Tiberius non è più al convento?! Ma… ciò non ha senso! Siete certo di quello che dite? Come può essere possibile?!». «Signora – le rispose ancora il giovane con un filo di voce, ma guardandola con espressione più sicura, quasi si fosse liberato da un grave fardello – l’abbiamo cercato per ore! Non si è presentato alle Orazioni, né al Mattutino né alle Lodi… La sua cella è vuota, il giaciglio intatto… Nessun confratello l’ha più visto né nella Sala Capitolare né nello Scriptorium… e nemmeno nel chiostro, dove è solito trascorrere le ore che intercorrono tra le preghiere del mattino! Abbiamo perlustrato ogni angolo, anche gli alloggi per i forestieri… l’abbiamo lungamente chiamato… ma è stato inutile! Egli non è più con noi, non è più nel nostro monastero, siamo terribilmente agitati, e non riusciamo a comprendere». Il fraticello pareva aver esaurito le forze, e tacque, quasi abbandonato e curvo sul sedile, incapace di proseguire oltre.

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Dana lo ascoltò turbata, mentre dentro di lei l’ansia si trasformava, di momento in momento, in una sorta di lucida consapevolezza. Nella sua mente qualche cosa si chiariva, e la confusa trepidazione del mattino pareva, ora, assumere una forma più riconoscibile e trovare giustificazione. Era, dunque, veramente un richiamo quello che aveva sentito? Era davvero un messaggio di Arslan che le era giunto, da pensiero a pensiero, da animo ad animo? Guardò con una vaga compassione il giovane frate ammutolito, poi si rivolse con risolutezza a Rufus: «Fai preparare Shield» ordinò con voce ferma. «Io e fratello Gillus saliremo immediatamente al monastero, non posso attendere un attimo in più!». Non era consueto che qualcuno salisse a cavallo fino al convento, vista l’angustia del tracciato che vi conduceva… ma l’urgenza giustificava quella decisione. Il calore dell’estate luminosa e fiorita accolse i due pellegrini, sul sentiero erto e tortuoso che portava al monastero. Gli abeti, confondendo i rami scuri e profumati nell’unica distesa cangiante del bosco, lasciavano ondeggiare, di tanto in tanto, le loro cime ancora tenere nel recente rigoglio, rispondendo con un fruscio uniforme e sottile al sussurro della brezza tiepida e trasparente. Era la voce delicata e profonda della foresta, che sembrava respirare di un alito antico e vitale, proteggendo tra le sue ombre morbidamente sfumate ogni creatura che in essa trovasse rifugio. L’angusta porta d’entrata del monastero risaltava, scura e consumata dal tempo – che ne aveva levigato il legno grezzo privo d’intagli – contro la facciata grigia e uniforme della severa costruzione di pietra. Come sempre, l’uscio si aprì senza che i viaggiatori avessero il tempo di soffermarsi di fronte a esso. Nessuna immagine umana aveva accolto i due ospiti, comparendo dietro le piccole finestre quadrate che interrompevano l’uniformità delle pareti. Anche il grande cortile interno appariva deserto. Solo il piccolo monaco silenzioso che aveva aperto loro la porta tradiva la presenza di vita entro le mura dell’eremo arroccato sulla montagna. Dana e Gillus scesero dalla groppa di Shield, e avanzarono sulle pietre lisce e chiare del cortile, lasciandole risuonare del ritmico schiocco prodotto dagli zoccoli del cavallo. Il frate che li aveva accolti e il giovane Gillus scambiarono tra loro uno sguardo silenzioso, e il portinaio scosse brevemente il capo, senza

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parlare. Nessuna novità attendeva i due viaggiatori. Non c’era alcuna notizia dell’Abate, né alcun indizio poteva spiegare, nemmeno parzialmente, la sua scomparsa. Anche la lieve speranza che il novizio aveva portato con sé, durante la salita al monastero, speranza fievole e forse irragionevole, ma sufficiente per ridargli animo, cadde completamente all’arrivo. Nulla era cambiato nel corso della sua breve assenza. Dell’Abate continuava a non esistere traccia. Dana volse lo sguardo all’intorno, tentando di non lasciarsi travolgere dai ricordi che il convento suscitava in lei. Quel luogo così denso di spiritualità e capace di elevare la mente ad altezze nemmeno intuibili, capace di rendere i pensieri quasi trasparenti e ad un tempo incredibilmente acuti, tali da abbracciare in un’infinitesima frazione di tempo ciò che la natura – fremente all’intorno – pareva voler comunicare incessantemente, lasciando scorrere attraverso ogni essere il soffio prepotente e delicato della vita. La donna socchiuse gli occhi per un breve istante, respirando il profumo unico di quell’atmosfera pregna di sacralità semplice e immutabile. In quel momento, senza produrre alcun rumore, si aprì una porta, all’altro capo del cortile, e un monaco dalla barba grigia e ricciuta si fece velocemente incontro a Dana e al suo compagno di viaggio. «Padre Guardiano! – esclamò la giovane con un vago sollievo – ditemi che cosa sta accadendo! È vero ciò che mi ha raccontato frate Gillus? L’Abate è realmente scomparso?». Il nuovo arrivato pose un dito sulle proprie labbra, gettando all’intorno uno sguardo carico di apprensione: «Seguitemi, signora – mormorò poi, cercando di controllare l’evidente emozione che lo sconvolgeva – ritiriamoci in un luogo appartato… non voglio allarmare più del dovuto i miei confratelli!». Ella sentì le forze scemare dentro l’animo, e seguì il monaco senza parlare, mentre il giovane Gillus si allontanava con passo leggero, quasi sfiorando il selciato, dopo aver lanciato un’occhiata riconoscente alla donna che l’aveva accompagnato fin lì. Mentre entravano nella piccola stanza illuminata da un gran numero di candele, Dana si sentì nuovamente assalire dai ricordi e da un sottile velo di nostalgia, che scese come una nebbia sui suoi pensieri, allontanandola per qualche istante dal momento che stava vivendo. In quella camera così semplice e raccolta aveva ricevuto, da parte dell’anziano Abate che allora rappresentava la maggior autorità

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nel monastero, la propria investitura, e l’incarico che le imponeva di affrontare il viaggio più importante della sua vita, quel viaggio che avrebbe, ancora una volta per mano di un Blackwood, riportato la luce a trionfare sui tentativi mortali dell’oscuro Nemico. Ella ritrovava ora nella propria mente l’atmosfera sacrale di quell’incontro, dal quale sarebbe uscita completamente trasformata, consapevole di ciò che l’attendeva, e conscia di quali eventi del passato, fino a quel momento a lei non completamente noti, facessero da sfondo alla missione che coinvolgeva, da tempi remoti, la sua famiglia. Come allora, si sedette su uno dei bassi sgabelli di legno massiccio che arredavano la stanza, lasciando correre lo sguardo sulle nude pareti, lungo le quali si susseguivano i bagliori guizzanti delle fiammelle, e le ombre si allungavano a tratti, scivolando scure e impalpabili sul silenzio delle antiche mura annerite dal fumo delle candele. Il Frate Guardiano si sedette accanto a lei, lasciando vuoto l’alto sedile centrale che, solitamente, veniva occupato dal padre superiore. Dana ricordava perfettamente ogni frase e ogni gesto che, proprio da quello scranno, il vecchio Abate le aveva rivolto, con amorevole gravità, per spiegarle ciò che avrebbe dovuto affrontare. Rammentò quanto si fosse sentita piccola e indegna, e quanto l’anziano monaco l’avesse rassicurata e, nello stesso tempo, caricata di una responsabilità che non era ancora in grado di comprendere appieno. Il religioso lasciò che la donna vagasse per qualche istante attraverso la moltitudine delle sue emozioni, poi prese la parola: «Signora, oggi è accaduto un fatto senza precedenti, un fatto d’inaudita gravità per il nostro monastero. Il giovane Abate, già così autorevole e capace, è scomparso, come frate Gillus vi ha riferito. Un avvenimento simile non era prevedibile, né riesco a interpretarlo in alcun modo. Tuttavia la realtà è davvero questa, e ora siamo chiamati ad affrontarla. Fino a ieri ogni cosa pareva procedere nell’assoluta normalità, e nulla poteva far presagire tutto ciò. Ma oggi ci troviamo in questa difficoltà, e l’ansia e la preoccupazione stanno salendo in ognuno di noi, di ora in ora. Non sappiamo dove sia l’Abate Tiberius, non capiamo perché non si trovi al monastero, e temiamo fortemente per la sua incolumità. Possibile che si sia allontanato volontariamente, senza comunicare a nessuno le proprie intenzioni?». Il Guardiano s’interruppe, scuotendo il capo e coprendosi gli occhi con entrambe le mani. Poi riprese: «È accaduto qualcosa di grave, signora, non ho dubbi. Temo che il

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nostro superiore si trovi in pericolo, lui, ancora così giovane, nel fiore della vita, e già così potente e destinato a operare in modo mirabile per tutti noi, per il trionfo della verità e della giustizia!… Signora, vi prego, aiutateci! Sono certo che egli si rivolgerebbe a voi, per l’autorità e i meriti che avete, e per la leale amicizia che vi lega… Dobbiamo fare qualcosa per ritrovarlo, dobbiamo collaborare perché egli ritorni tra noi, perché sia salvo». Dana sentì crescere a dismisura dentro di sé l’agitazione che le stringeva l’animo ormai da ore. Le parve di riflettere, come uno specchio, le preoccupazioni del Guardiano, e cercò a fatica di ritrovare un angolo di lucidità nella mente, per poter ragionare con chiarezza: «Chi potrebbe trarre utilità dalla scomparsa di Arslan… dell’Abate Tiberius?» si chiese, ragionando ad alta voce e condividendo, così, i suoi pensieri con il monaco, che la guardava con speranzosa trepidazione. «Non conosco nessuno che possa desiderare di nuocergli, o che voglia procurare un danno al monastero, privandolo della sua guida… D’altra parte, il vecchio Abate temeva che proprio la giovane età del suo successore potesse esporlo a qualche pericolo… Egli stesso mi rese partecipe delle sue preoccupazioni a tale proposito… Il vostro giovane superiore è dotato di qualità assolutamente inconsuete, e ha già rivelato di possedere capacità uniche… ma è pur sempre un ragazzo, e come tale è vulnerabile e potrebbe cadere vittima di qualche entità malvagia interessata a liberarsi della sua presenza… Egli rappresenta un serio pericolo per le forze oscure, i suoi poteri mentali lo rendono un nemico temibilissimo per ogni spirito votato al trionfo delle tenebre… Oh, Frate Guardiano, ho davvero il terrore che Tiberius possa essere caduto nelle mani di un essere malefico… forse addirittura…». La giovane s’interruppe, travolta da un improvviso pensiero che le spezzò le sillabe sulle labbra. Il monaco aggrottò la fronte, e parve aggiungere timore a timore, annaspando nell’inutile tentativo di rispondere qualche parola alla sua interlocutrice. Dana cercò di riprendere il controllo dei pensieri, e continuò a bassa voce, faticando ad articolare ogni suono: «Il Signore dell’Ombra avrebbe tutto l’interesse a eliminare il giovane Arslan, prima che egli abbia il tempo di agire in modo reciso contro le trame del male». Parve rabbrividire, nel ricordo del proprio incontro con quell’Essere terrificante intessuto di pura malvagità. «Ho paura, Frate Guardiano,

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ho tanta paura che si tratti proprio di questo… temo che l’innominabile Signore delle tenebre si sia impadronito del nuovo Abate, per renderlo inoffensivo prima che i suoi poteri crescano ancora… Per distruggerlo, per annientarlo prima che riesca a compiere ciò che è destinato a fare… Solo così quella creatura crudele potrebbe avere il controllo sulla luce e sulla vita del nostro mondo, solo così potrebbe avere speranza di vincere definitivamente… Povero Arslan… e povero bambino mio…» singhiozzò Dana scossa da un fremito irrefrenabile, mentre veniva quasi soffocata dal pensiero del futuro, con tutto ciò che esso avrebbe comportato per la sua famiglia, per il suo stesso figlio, destinato a compiere la missione a lei toccata poco tempo prima… Questa sorta di spaventosa visione non era tollerabile. Troppo dolore, troppa oscurità si profilavano all’orizzonte… Non era un pensiero accettabile, neppure in minima parte. Il Guardiano pareva terrorizzato. Mai avrebbe pensato a un’eventualità di quel genere. Ma, ora, le parole della sua ospite sembravano avergli aperto gli occhi su una possibile spiegazione dell’accaduto, spiegazione tanto terribile quanto inattesa, e purtroppo assai verisimile. Tentò dapprima di negare la probabilità di quel fatto, ma dovette arrendersi ben presto alle argomentazioni della giovane donna: «Ma se è accaduto veramente ciò che paventate – concluse allora quasi incredulo della sua stessa capacità di parlarne – non possiamo certamente arrenderci! Dobbiamo inventare qualcosa, dobbiamo agire per contrastare le trame dell’ombra!». E così dicendo fece rapidamente il segno della Croce. Lo sguardo di Dana cadde sul piccolo armadio di legno intagliato che si trovava alle spalle del frate, in un angolo della stanza. In quel luogo il vecchio Abate custodiva ciò che di più prezioso potesse essere messo in campo per portare a termine il compito affidato ai Blackwood. Da quel nascondiglio egli aveva tratto, a suo tempo, la pergamena che era servita da guida alla donna durante il viaggio verso il Diamante della Luce, e il meraviglioso pendente di cristallo che aveva mostrato, in ben più di un’occasione, poteri straordinari. Dana ricordava ancora il contatto delle proprie dita su quel foglio consumato dal tempo, e soprattutto sulle sfaccettature della pietra trasparente a forma di angelo, che aveva salvato la vita, durante la missione, a lei e ai suoi compagni di viaggio… ad Arslan, al falco bianco che l’aveva seguita e indirizzata durante tutto il percorso…

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Grazie a quel miracoloso pendente era riuscita a sconfiggere il Signore dell’Ombra e a concludere felicemente ciò che le era stato affidato. Non si trattava di un semplice cristallo dai riflessi cangianti e purissimi, né di un talismano; era qualcosa di molto più potente, qualcosa che conservava in sé un’energia immacolata e trascendente… La giovane sembrò, d’un tratto, riscuotersi da una sorta di sogno. La pergamena e il pendente dovevano ancora trovarsi all’interno del piccolo armadio, là dove li aveva riposti l’Abate al termine del viaggio, quando ella stessa era salita al monastero per riconsegnarli, affinché fossero custoditi fino alla data della prossima missione, che – ora lo sapeva con esattezza – sarebbe stata affidata a suo figlio Galead. «Frate Guardiano – disse allora con tono finalmente risoluto – dobbiamo aprire quell’armadio e verificarne il contenuto. Dobbiamo essere certi che, insieme all’Abate Tiberius, non siano scomparsi anche gli oggetti conservati all’interno del mobile. Non oso nemmeno pensare a una tale eventualità!». «Ma signora – obiettò debolmente il monaco – come potremo fare? La chiave è stata sempre custodita dai padri superiori del convento, dunque ora dovrebbe essere nelle mani del giovane Tiberius». Dana annuì. Poi riprese: «Avete ragione, fratello. Ricordo che il vecchio Abate la teneva in una piccola sacca di pelle che aveva con sé, nascosta sotto il saio. Immagino che anche Arslan… l’Abate Tiberius faccia la stessa cosa… Ma ora non possiamo valerci del suo aiuto». Mentre pronunciava le ultime parole, la donna avvertì una specie di tremore sulla fronte, e quel senso di ritorno al già vissuto che aveva provato più d’una volta, durante quella giornata. Poi fu come se una voce, lontana ma conosciuta, echeggiasse nella sua mente, portandola quasi all’esterno del suo stesso corpo, e continuando ad accarezzare amorevolmente i suoi pensieri non la lasciasse libera di ragionare diversamente, o di visualizzare oggetti o argomenti differenti… «Dobbiamo recarci nella stanza del vecchio Abate – disse allora con una sicurezza di cui fu la prima a stupirsi – e cercare là ciò che ci occorre per aprire l’armadio. Andiamo, non perdiamo neppure un istante, fatemi strada!». «Ma perché, signora, nella cella del vecchio Abate? Non sarebbe, piuttosto, preferibile cercare la chiave nella camera di Tiberius? È lui, adesso, il custode di ogni segreto del monastero!».

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«Non chiedetemi spiegazioni, vi prego – lo interruppe Dana – non sarei capace di rispondervi in modo totalmente logico… Tuttavia ho imparato a fidarmi di certe sensazioni, e soprattutto a fidarmi di Arslan». Il Guardiano la osservò con aria perplessa, senza capire. Non poteva sapere quale comunione spirituale, quale filo incorporeo potesse legare la giovane al nuovo Abate, così come, un tempo, una speciale corrispondenza mentale era esistita tra lei e l’anziano monaco che l’aveva sempre seguita, nonostante la distanza fisica, nel corso del suo viaggio verso territori sconosciuti. Tacque, dunque, e si avviò, il Frate Guardiano, tenendo a freno la propria curiosità e i numerosi dubbi che, immaginava, sarebbero rimasti privi di spiegazione. Aveva imparato a essere umile e obbediente, e questo unicamente contava. Questo, e aiutare la signora a ritrovare l’Abate Tiberius, qualunque fossero le strade da percorrere per ottenere il suo ritorno. Le anguste celle dei monaci erano allineate lungo il grande cortile centrale, e ognuna di esse si affacciava, con una piccola bifora dalle colonnine ritorte, sul silenzioso chiostro interno, immerso nel verde tenero dell’erba rasata e nei colori tenui delle rose che si sollevavano dalle aiuole e profumavano l’aria ombrosa, dolcemente risonante dello scroscio sottile di una fontana scavata nella pietra, esattamente all’incrocio dei vialetti sottili – scricchiolanti di fine pietrisco – che solcavano il giardino. Lo sguardo di Dana fu attratto dalle tinte occhieggianti dei fiori che formavano nuvole odorose in ogni angolo del chiostro. Le dorate pannocchie dell’iperico si mescolavano alle minuscole campanule candide dei mughetti, e gareggiavano con i grappoli minutissimi dell’artemisia gialla, mentre l’achillea bianco-rosata protendeva i suoi densi capolini sul verde intenso delle foglie. All’altro lato del giardino le cascate compatte delle verbene variopinte sembravano rovesciarsi sui cuscini morbidi dell’agerato blu, che lasciava posto, ben presto, al gioioso giallo-arancio della calendula e alle infiorescenze rosee e viola della speronella. In un’aiuola riparata, proprio accanto all’ombra del porticato, le erbe aromatiche lasciavano sfumare nell’aria i loro effluvi delicati, in un volatile compenetrarsi di fragranze che salivano fino a confondersi tra le foglie dei pochi alberi – antichi e contorti – che

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allungavano i rami verso il centro del chiostro, rubando a tratti la luce ai cespugli di camelie, punteggiati di candide corolle delicate, e quasi intrecciati agli steli delle rose e ai vellutati fiori gialli del cardo benedetto. Tutto quello sfumare di colori, quel mescolarsi di profumi e di aromi – ora dolci ora penetranti – avvolgevano chiunque si avvicinasse al giardino, anche soltanto per gettarvi un subitaneo sguardo. «È qui, – disse il Frate Guardiano, riscuotendo la donna da quel momento di estatica sospensione – questa era la cella del vecchio Abate». E si fermò di fronte a una stretta porta lignea, assolutamente identica a tutte le altre che si aprivano, formando due piani sovrapposti, sul vasto cortile. «La stanza dell’Abate è rimasta, per ora, inutilizzata – precisò ancora il Guardiano – poiché il giovane Tiberius ha preferito rimanere in quella che utilizzò durante la permanenza al monastero, prima di succedere al suo predecessore». Poi staccò un pesante mazzo di chiavi da una cintura di pelle che cingeva il saio come un cordiglio. Scelse velocemente ciò che gli serviva, e aprì la porta con un breve scatto secco. Un lieve cigolio accompagnò lo scorrere dell’anta verso l’interno della cella. Con una certa esitazione mista a rispetto, Dana si affacciò sulla soglia cercando di adattare gli occhi alla penombra improvvisa che la avvolse. Tutto sembrava essere rimasto intatto da molto tempo. L’arredamento era di una semplicità assoluta. Un letto dalle sponde di ferro era accostato alla parete più lunga, mentre al lato opposto trovava spazio un basso mobile a due ante, prive di qualunque ornamento, e accanto a esso un inginocchiatoio consunto dall’uso, che ne aveva levigato e quasi reso lucido il legno un tempo grezzo, era posto sotto un crocifisso scuro che pareva protendersi in avanti, risaltando sulla parete bianca della cameretta. Una stretta bifora, parzialmente velata da una tenda pesante, si apriva, come quelle di tutte le altre celle, sul chiostro. Dana abbracciò con un unico sguardo la piccola stanza: «Dove potrà trovarsi la chiave che stiamo cercando?» esordì quasi parlando a se stessa; «dove poteva custodirla l’Abate, quando non l’aveva con sé? O forse… dove può averla nascosta Arslan, per proteggerla da sguardi indiscreti?». Poi, rivolgendosi direttamente al Frate Guardiano, continuò: «Chi possiede le chiavi delle varie stanze presenti nel monastero, oltre voi?».

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Il monaco rispose immediatamente: «Solo l’Abate ne ha una copia. E l’altra la conservo io, proprio come avete detto». La giovane si fermò un attimo a riflettere. Dunque Arslan aveva davvero la possibilità d’introdursi in ogni camera, anche in quella del vecchio Abate. E l’inspiegabile intuizione che ella aveva accolto come sicuro indizio, poco prima… era proprio lì che la portava! Esattamente in quella cella angusta e spoglia, in tutto simile a ogni altra presente nell’edificio, anche a quella dell’ultimo novizio appena giunto al monastero… Ma dove cercare la chiave? La donna ricordava molto bene la piccola sacca di pelle che la custodiva. E in quell’umile stanza parevano esserci ben pochi luoghi dove poter celare un oggetto… Il mobile, che conteneva sicuramente gli effetti personali dell’Abate, sembrava fin troppo logico come nascondiglio… tuttavia Dana decise di fare un tentativo. Si avvicinò, e provando un vago senso di colpa, come se stesse violando un luogo sacro e assolutamente privato, ne aprì lentamente le ante. All’interno, appeso a un rozzo bastone che attraversava l’intero armadietto, si trovava ancora il saio dell’Abate. Sul fondo, i calzari consumati erano appoggiati ordinatamente, pronti per essere indossati, come se dovessero venir utilizzati da un momento all’altro. Alcuni libri di preghiere, impilati e quasi sigillati da un rosario dai grani di legno appoggiato su di essi, completavano lo scarno numero degli oggetti conservati nel mobile. Dana tese una mano esitante verso il saio, chiedendo dentro di sé perdono al venerabile Abate che l’aveva, un tempo non ancora lontano, indossato e consumato durante i giorni della sua umilissima esistenza. La mano della donna entrò nella tasca da cui aveva visto il monaco prelevare la piccola borsa di pelle. E la trovò. Estrasse con le dita tremanti quel contenitore morbido, chiuso da un cordoncino sottile e un po’ logoro. Allentò il laccio, continuando a provare dentro di sé un imbarazzo che la faceva sentire quasi sacrilega… Tuttavia non poteva esitare, e aprì la scarsella. Ma la chiave non c’era. La minuscola custodia era vuota. La delusione fece impallidire il volto della giovane. Ora che credeva di aver trovato conferma alle proprie intuizioni, proprio ora falliva. Quell’oggetto così prezioso non si trovava dove avrebbe dovuto. Era scomparso. Anch’esso, come il giovane Arslan, che probabilmente aveva riposto la sacca in quel luogo, per non averla su di sé nel momento del pericolo… Ma quale pericolo, poi? E perché egli si

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era allontanato dal monastero e, per di più, aveva preferito lasciare il contenitore di pelle nel saio del vecchio Abate? I pensieri mulinavano nella mente di Dana, sempre più confusa. Si rendeva conto, da un lato, di aver seguito un indizio esatto, cercando nella cella del vecchio padre superiore, così come uno strano istinto le aveva suggerito di fare… Ma, nello stesso momento, pareva che tutto ciò non portasse a nulla di valido, poiché la piccola chiave non era in quel luogo. Chi poteva averla estratta dal suo contenitore, e perché? Forse Arslan stesso, per nasconderla più accuratamente… oppure un nemico oscuro, che era riuscito a impadronirsene? Quest’eventualità fece rabbrividire la donna. Le sembrava, ora, di essere giunta a un punto morto, e mentre il Frate Guardiano la osservava incuriosito, senza comprendere ciò che stesse accadendo, tentò di raccogliere le idee. «Preferisco pensare che Tiberius abbia portato via la chiave di sua iniziativa, spostandola dal luogo in cui era abitualmente custodita… – disse per condividere con il monaco le proprie idee, nel tentativo di porre ordine tra esse – Dio non voglia che sia stata sottratta da qualche anima perversa, per farne un uso malvagio, e prevenendo le nostre mosse!». Il suo interlocutore cercò di trovare una spiegazione logica che, in qualche modo, potesse aiutarli nella ricerca: «Supponiamo che il giovane Abate abbia veramente preferito mutare il nascondiglio della chiave, per ragioni di sicurezza… Dove avrebbe potuto riporla, sempre immaginando che non l’abbia con sé… cosa che ci lascerebbe del tutto impotenti?». Dana, pur continuando a provare sensazioni contrastanti, che le facevano temere il peggio e scoraggiavano i tentativi di ragionare lucidamente, s’impose di vincere lo smarrimento, e per quanto le circostanze non alimentassero le sue speranze, caparbiamente decise di continuare l’indagine, che sembrava essersi così precocemente conclusa. Cominciò, quindi, a riconsiderare ciò che la circondava, e si mosse attraverso la stanza, sfiorando con le dita ogni oggetto e scrutando in ogni angolo, pur sentendosi come un’intrusa che osi frugare in ciò che non le appartiene, sfidando perfino la sacralità del luogo. Ad un tratto, trovandosi proprio di fronte al crocifisso di legno che spiccava sulla parete, avvertì prepotentemente un impulso che la trascinava quasi fisicamente verso di esso. Esitò, temendo di oltrepassare

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limiti invalicabili, ma nella sua mente qualcosa si agitava e fremeva, impedendole di staccare gli occhi da quell’oggetto così assolutamente semplice e venerabile nello stesso istante. Facendo su di sé un lento segno della croce, allungò la mano verso il simbolo sacro, mentre il Guardiano la osservava con espressione quasi atterrita, incapace di parlare. Dana staccò il Crocifisso dalla parete, e lo avvicinò a sé. Le sue dita accarezzarono il legno scabro e antico, e si fermarono improvvisamente sul retro dell’asticciola verticale. Aveva toccato qualcosa che rompeva la linearità della scultura. Girò il manufatto, e rimase quasi senza fiato. Una minuscola chiave vi era stata agganciata in modo rudimentale, ma non visibile per chi entrasse nella cella. Era lì. Era proprio il piccolo strumento che stavano cercando. Dana lo staccò delicatamente da quell’alloggio provvisorio e straordinario, e lo porse, quasi con reverenza, al Frate Guardiano. Egli si deterse il sudore che, d’un tratto, gli aveva inumidito la fronte, e strinse l’indispensabile oggetto in una mano, senza pronunciare sillaba, grato e stupefatto a un tempo, mentre Dana ricollocava il Crocifisso al suo posto. Entrambi uscirono, allora, dalla piccola stanza ombrosa, richiudendo silenziosamente la porta dietro di sé, mentre un senso di religioso rispetto, inesprimibile a parole, s’impadroniva di Dana, allargandosi dentro di lei come una delicata ma inarrestabile marea, che pareva accompagnare i suoi gesti per giustificarli e renderli opportuni, al di là di ogni timore e di ogni dubbio che potessero trattenerla. La donna e il monaco tornarono, insieme, nel cortile assolato, e si diressero verso la stanza delle candele, mentre la luce del pomeriggio dorava l’aria e si riempiva di profumi e di canti, che salendo dal chiostro e dalla cappella permeavano ogni angolo del convento, perdendosi, poi, nel fremito della tiepida brezza estiva che sfiorava la montagna e si allargava, leggera, verso la grande foresta.

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Capitolo terzo

La pergamena

D

ana e il padre Guardiano si trovavano nuovamente all’interno della piccola sala piena di candele ardenti, che diffondevano una luminosità ondeggiante, incessantemente mutevole, tingendo le mura pallide – a tratti ingrigite – di effimeri bagliori. Senza por tempo in mezzo, si avvicinarono al mobiletto dalle ante fittamente intagliate. La donna non riusciva ancora a comprendere perché Arslan avesse creato quella strana situazione, rendendo più complessa l’apertura dell’armadio, e separandosi addirittura dallo strumento che serviva per effettuarla… Sapeva con certezza, tuttavia, che tutto era collegato alla sensazione – assolutamente singolare – che ella aveva provato fin dalle prime ore del mattino. Il giovane monaco aveva sicuramente bisogno di aiuto, e aveva cercato di chiederlo nell’unico modo che, probabilmente, gli era in quel momento possibile utilizzare. La serratura cedette con facilità, e il Frate Guardiano si fece rispettosamente indietro, lasciando che Dana introducesse la propria mano nel buio del mobile. Le dita della giovane sfiorarono immediatamente un oggetto sfaccettato, che fece scorrere d’un tratto dentro di lei una sorta di rassicurante frescura, riempiendola di un’energia di cui aveva quasi perduto il ricordo. Una travolgente nostalgia assalì la donna, e la sua mente e il suo animo si trovarono improvvisamente catapultati in altri luoghi e in un altro tempo, nei quali quel pendente unico e prezioso – il cristallo affidatole dal vecchio Abate – aveva riposato sul suo petto, donandole la forza e la salvezza nei frangenti più difficili di quel viaggio memorabile… Dana dovette sottrarsi, ancora una volta, al flusso dei ricordi, poiché non era il momento di lasciarsi andare ai capricci del pensiero. Sollevò la mano dal ciondolo – che per un breve periodo era stato suo – e cercò ancora, all’interno del piccolo armadio.


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