L'esclusa

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Luigi Pirandello

L’esclusa Con una nota di Antonio Gramsci

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Fiori di loto

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LUIGI PIRANDELLO

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ui ogni volontà è esclusa, pur essendo lasciata ai personaggi la piena illusione ch’essi agiscano volontariamente; mentre una legge odiosa li guida o li trascina, occulta è inesorabile; e fa sì che un’innocente, scacciata dalla società — per esservi riammessa — debba prima passare sotto le forche dell’infamia, commettere cioè davvero quella colpa di cui ingiustamente era stata accusata.

L UIGI P IRANDELLO (1867–1936) pubblicò il romanzo a puntate L’esclusa sulla rivista «La Tribuna» nel 1901, pur avendolo terminato anni prima nel 1893 con il nome di Marta Ajala. Successivamente lo stesso romanzo fu dato alle stampe dall’editore Treves nell’anno 1919. In appendice a questa edizione è proposta una nota di Antonio Gramsci, critico teatrale d’eccezione per la redazione torinese del giornale «Avanti!», dal titolo Il teatro di Pirandello, pubblicata postuma da Einaudi nel 1950 nella raccolta Quaderni del carcere, nel volume Letteratura e vita nazionale. ISBN 978-15-19112-18-7 9781519112187 ISBN

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© Fabio Di Benedetto, 2015. Edizione 2.8 Il testo di questo volume è disponibile e liberamente scaricabile dal sito www.liberliber.it. L’edizione digitale di questo libro è disponibile online in formato .epub su Google Play e in formato .mobi su Amazon. In copertina il tagcloud del libro.

ISBN 978-15-19112-18-7 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.


Luigi Pirandello

L’esclusa Con una nota di Antonio Gramsci

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Nota alla presente edizione

Luigi Pirandello pubblicò il romanzo a puntate L’esclusa sulla rivista «La Tribuna» nel 1901, pur avendolo terminato anni prima nel 1893 con il nome di Marta Ajala. Successivamente lo stesso romanzo fu dato alle stampe dall’editore Treves nell’anno 1919. In appendice a questa edizione è pubblicata una nota di Antonio Gramsci, critico teatrale d’eccezione per la redazione torinese del giornale «Avanti!», dal titolo Il teatro di Pirandello, pubblicata postuma da Einaudi nel 1950 nella raccolta Quaderni del carcere, nel volume Letteratura e vita nazionale.



A Luigi Capuana

Illustre Amico, Lei conosce le vicende di questo mio romanzo, e sa che con esso per la prima volta (ora son circa quattordici anni) io mi provai nell’arte narrativa, e che esso era — nella sua prima forma — dedicato a Lei. Ma «chi di stampar opere lavora», come il Berni direbbe, pretende spesso che nasca la gallina prima dell’uovo, che uno scrittore cioè abbia fama prima di mandare a stampa il libro che gliela dovrebbe dare. E per lungo tempo la mia esclusa si vide costretta a rimaner tale e dalle case editrici e dal pubblico. Finché non apparve su «La Tribuna» di Roma: primo romanzo italiano nelle appendici di questo giornale. Non so rendermi conto dell’effetto che abbia potuto fare nei pazienti e viziati lettori delle appendici giornalistiche; certo, scene drammatiche non difettano in questo romanzo, quantunque il dramma si svolga più nell’intimo dei personaggi; ma dubito forte che, in una lettura forzatamente saltuaria, si sia potuto avvertire alla parte pia originale del lavoro: parte scrupolosamente nascosta sotto la rappresentazione affatto oggettiva dei casi e delle persone; al fondo insomma essenzialmente umoristico del romanzo. Qui ogni volontà è esclusa, pur essendo lasciata ai personaggi la piena illusione ch’essi agiscano volontariamente; mentre una legge odiosa li guida o li trascina, occulta è inesorabile; e fa sì che un’innocente, scacciata dalla società — per esservi riammessa — debba prima


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passare sotto le forche dell’infamia, commettere cioè davvero quella colpa di cui ingiustamente era stata accusata. Nulla di combinato, tuttavia, o di congegnato avanti o di adattato a questo fine segreto. E qui han luogo infatti i tanti ostacoli improvvisi, gravi o lievi, che nella realtà contrariano e limitano e deformano i caratteri degli individui e la vita. La natura senz’ordine almeno apparente, irta di contraddizioni, e lontanissima, spesso, dalle opere d’arte, in cui tutti gli elementi, visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano, e che perciò mostrano una vita troppo concentrata da un canto, troppo semplificata dall’altro. Nella realtà vera le azioni che mettono in rilievo un carattere non si stagliano forse su un fondo di vicende ordinarie, di particolari comuni? E queste vicende ordinarie, questi particolari comuni, la materialità della vita, insomma, così varia e complessa, non contraddicono poi aspramente tutte quelle semplificazioni ideali e artificiose? non costringono ad astoni, non ispirano pensieri e sentimenti contrarii a tutta quella logica armoniosa dei fatti e dei caratteri concepiti dagli scrittori? E quante occasioni imprevedute, imprevedibili, occorrono nella vita, ganci improvvisi che arraffano le anime in un momento fugace, di grettezza o di generosità, in un momento nobile o vergognoso, e le tengon poi sospese o su l’altare o alla gogna per l’intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quel momento solo, d’ebbrezza passeggera o d’incosciente abbandono? Voglio con questo scusare le umili e minute rappresentazioni, che occorrono frequenti nel mio romanzo. Io l’ho, illustre amico, riveduto amorosamente da cima a fondo e in gran parte rifuso; e nel presentarlo al pubblico, per la prima volta raccolto in volume, voglio che sia ancora dedicato a Lei. Suo L. Pirandello. Roma, decembre 1907.


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Parte prima



I.

Sotto la cappa del camino, ch’era come una mezza tramoggia enorme rovesciata, la vecchia Pentàgora, quella sera, borbottava tra sè più del solito, mordicchiando le còcche del grosso fazzoletto nero, di lana, che teneva in capo, annodato sotto il mento. Come se le stipe e i tizzoni, scoppiettando, cigolando o levando fanfaluche, le parlassero, ella soleva tutto il giorno, lì, aggrondata e ingrugnata, far lunghi discorsi col fuoco, e ogni tanto gestiva a scatti, con le mani secche, nere, dalle dita agilissime. Parlava continuamente così, tra sè, fondendo le parole precipitose, quasi imitasse un ruzzolìo di fusi. Le rare volte che si levava dal canto del fuoco e andava a ronzare come un moscone per casa, pareva s’aggirasse in un sogno smanioso, con gli occhi senza sguardo, le dita sempre irrequiete. Scopriva talvolta… non si sapeva che cosa, nei muri, per terra, per aria: si arrestava incantata a mirare con gli occhi chiari, ilari, parlanti; la faccia cotta dal fuoco le si allargava in un sorriso di beatitudine, che destava una certa invidia mista di costernazione pure in coloro che la commiseravano. Che vedeva? Perché sorrideva così? Certi suoi atti, certe sue espressioni erano veramente da povera mentecatta; ma a quando a quando faceva anche stupire o divinando cose lontane o dimostrando innegabilmente di vedere oltre la vista naturale. Sicché la gentuccia del vicinato credeva ch’ella fosse in


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commercio misterioso con le Donne, e qualcuna giurava di aver sentito nelle notti d’inverno più burrascose gridare tra il vento, su dai tetti, il nome di lei: — Sidora! Sidora! Le Donne, certo, che venivano a chiamarla, se la portavano via con loro, in ispirito. Non aveva ella in casa un altarino su cui adorava tre spighe secche circondate da sacchettini scarlatti pieni di sale? — L’animuccia mia ha gli occhi tondi tondi, rossi, vivi vivi; la coda lunga, il becco nero. Nido di rondinella, appeso a un campanile, presso le campane. Sta di casa là, l’animuccia mia. Din don dan, din don dan. Sbuca un vecchio topo, sbucano i topicini; si mettono a giocare con un sassolino, sulla balaustrata del campanile. Le campane ronzano, le campane sbadigliano al cielo; han la lingua ciondoloni; hanno fame di vento, le campane. Quant’arsura, nell’estate! Pioggia, pioggia, lava le campane. Spunta l’erbuccia della frescura… Dan dan, dan dan, le monacelle della badia. Corvo, diavolo che vi porta via! Queste erano le sue filastrocche, quand’era di buon umore. Per lo più, però, era ingrugnata; e quella sera, quella sera più del solito. — Zà Sidò, a tavola, — venne a dirle Niccolino, il nipote, pallido, con aria stordita. — Papà dice, non c’è perché restar digiuni. Rocco, però, non è ancora tornato. Come si fa? La vecchia guardò un tratto il nipote, con le ciglia aggrottate, quasi non avesse inteso; poi scattò in piedi, alzando le braccia a un gesto vivacissimo di noncuranza sdegnosa, e s’avviò di furia, curva, grufando, alla sala da pranzo. Era un tetro stanzone, dalle pareti basse, nude, ingiallite, lungo le quali correvano due interminabili file di seggiole tutte scompagne. Di notte, queste seggiole conversavano fra loro, con sommessi scricchiolii;


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fra loro e con la vecchia matta, a cui narravano la loro storia, da quali misere case fossero venute a quello stanzone, pegnorate con tutta l’altra masserizia, tra i pianti, gli strilli e le imprecazioni degli antichi padroni; e una, ch’era più sfilata delle altre, diceva ch’era stata ridotta così da una povera madre, la quale per ore e ore ogni sera cullava il suo piccino, che, non trovando latte ne le mammelle vizze, non voleva, non poteva prender sonno… Forse da esse, o dal pavimento, o dalle pareti, spirava nello stanzone quel tanfo misto, indefinibile, d’appassito. Dal tetto, affumicato in giro, pendeva una lampada su la tavola apparecchiata, come sperduta lì in mezzo. Vi stava già seduto a cenare Antonio Pentàgora, il padre, grosso omaccione sanguigno, il cui volto tarmato pareva quasi una maschera sotto il bianco roseo della cotenna rasa, ridondante su la nuca. Dalla camicia floscia, aperta, gli s’intravedeva il petto irsuto. Niccolino e la zia presero il loro posto e cominciarono a cenare anch’essi, tranquillamente, come se nulla fosse stato. Poco dopo, Rocco apparve su la soglia, cupo, disfatto. — Oh, bravo Roccuccio, eccolo qua! — esclamò allora il padre, volgendosi e fregandosi le grosse mani ruvide, piene d’anelli massicci. Niccolino levò, sopra il capo della zia che gli stava di fronte, la testa secca, orecchiuta, per veder l’aria del fratello. La zia non si mosse. Rocco stette un po’ a guardare i tre seduti a tavola, poi si buttò su la prima seggiola presso l’uscio, coi gomiti su le ginocchia, le pugna sotto il mento, il cappello su gli occhi. — Oh, e alzati! — riprese il Pentàgora. — T’abbiamo aspettato, sai? Non mi credi? Parola mia d’onore, fino alle dieci… no, più, più… che ora è? Vieni qua: ecco il tuo posto: apparecchiato qua, come prima. E chiamò, forte:

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— Signora Popònica! — Epponina, — corresse Niccolino a bassa voce. — Zitto, bestia, lo so. Voglio chiamarla Popònica, come tua zia. Non è permesso? Rocco, incuriosito, alzò la testa e brontolò: — Chi è Popònica? — Ah! una signora caduta in bassa fortuna, — rispose allegramente il padre. — Vera signora, sai? Da jeri ci fa da serva. Tua zia la protegge. — Romagnola, — aggiunse Niccolino, sommessamente. Rocco ripiegò la testa su le mani; e il padre, soddisfatto, si recò pian piano alle labbra il bicchiere ricolmo; lo scoronò con un sorsellino càuto; poi strizzò un occhio a Niccolino e, facendo schioccar la lingua, disse: — Buono! Roccuccio, vino nuovo; fa stringer l’occhio… Assaggia, assaggia, ti rimetterà lo stomaco. Sciocchezze, figlio mio! E tracannò il resto in un flato. — Non vuoi cenare? — domandò poi. — Non può cenare, — osservò piano Niccolino. Tacquero tutti, badando che le forchette non frugassero nei piatti, come per non offendere il silenzio ch’empiva penosamente lo stanzone. Ed ecco la signora Popònica, coi capelli color tabacco di Spagna, unti non si sa di qual manteca, con gli occhi ammaccati e la bocca grinzosa appuntita, entrar tentennante su le gambette, forbendosi le mani piccole, sconciate dal lavoro, in una giacca smessa del padrone, legata per le maniche intorno alla vita, a mo’ di grembiule. La tintura dei capelli, l’aria mesta del volto davano a vedere chiaramente che quella povera signora caduta in bassa fortuna avrebbe forse desiderato qualcosa di più che il disperato amplesso di quelle maniche vuote.


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Subito Antonio Pentàgora con la mano le fe’ cenno d’andar via: non c’era più bisogno di lei, poiché Rocco non voleva cenare. Quella inarcò le ciglia, sbalzandole fin sotto i capelli, distese su gli occhi dolenti le pàlpebre cartilaginose, e andò via, dignitosa, sospirando. — Ricordati, oh! che te l’avevo predetto, — uscì a dir finalmente il Pentàgora. Sonò il suo vocione così urtante nel silenzio, che la sorella Sidora, quantunque sempre astratta, balzò ancora qui da sedere, tolse dalla tavola il piatto dell’insalata, ghermì un tozzo di pane, e scappò via, a finir di cenare in un’altra stanza. Antonio Pentàgora la seguì con gli occhi fino all’uscio, poi guardò Niccolino e si stropicciò il capo raso con ambo le mani, aprendo le labbra a un ghigno frigido, muto. Ricordava. Tant’anni addietro, anche a lui, di ritorno alla casa paterna dopo il tradimento della moglie, la sorella Sidora, bisbetica fin da ragazza, aveva voluto che non si movesse alcun rimprovero. Zitta zitta, ella lo aveva condotto nell’antica sua camera da scapolo, come se con ciò avesse voluto dimostrargli ch’ella si aspettava di vederselo un giorno o l’altro ricomparire dinanzi, tradito e pentito. — Te lo avevo predetto! — ripetè, riscotendosi da quel ricordo lontano, con un sospiro. Rocco si alzò, smanioso, esclamando: — Non trovi altro da dirmi? Niccolino allora tirò, sotto sotto, la giacca al padre, come per dirgli: “Stia zitto!„ — No! — gridò forte il Pentàgora su la faccia di Niccolino. — Vieni qua, Roccuccio! Lèvati codesto cappello dagli occhi… Ah, già: la ferita! Lasciami vedere… — Che m’importa della ferita? — gridò Rocco, quasi piangente dalla rabbia, sbertucciando e sbatacchiando il cappello sul pavimento.

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— Sì, guarda come ti sei conciato… Acqua e aceto, sùbito: un bagnolo. Rocco minacciò: — Ancora? Me ne vado! — E vattene! Che vuoi da me? Parla, sfògati! Ti prendo con le buone, e spari calci… Mettiti il cuore in pace, figliuolo mio! La lettera, io dico, avresti potuto raccoglierla con più garbo, senza romperti così la fronte nello sportello dell’armadio… Ma basta: sciocchezze! Denari, ne hai quanti ne vuoi; femmine, potrai averne quante ne vorrai. Sciocchezze! Sciocchezze! era il suo modo d’intercalare e accompagnava ogni volta l’esclamazione con un gesto espressivo della mano e una contrazione della guancia. Si levò di tavola e, recatosi presso il cassettone, su cui stava accoccolato un grosso gatto bigio, trasse una candela; staccò, per dare a vedere ciò che intendeva fare, i gocciolotti dal fusto; poi l’accese e sospirò: — E ora, con l’ajuto di Dio, andiamo a dormire! — Mi lasci così? — esclamò Rocco, esasperato. — E che vuoi che ti faccia? Se parlo ti secchi… Debbo stare qua? Ebbene, stiamo qua… Soffiò su la candela e sedè su una seggiola presso il canterano. Il gatto gli saltò sulle spalle. Rocco passeggiava per lo stanzone, mordendosi a quando a quando le mani o facendo con le pugna serrate gesti di rabbia impotente. Piangeva. Niccolino, seduto ancora a tavola, sotto la lampada, arrotondava con l’indice pallottoline di mollica. — Non hai voluto darmi ascolto, — riprese, dopo un lungo silenzio, il padre. — Hai… hem!... sì, hai voluto fare come me… Mi viene quasi da ridere, che vuoi farci? Ti compatisco, bada! Ma è stata, Rocco mio, una riprova inutile. Noi Pentàgora… — quieto, Fufù, con la coda! — noi Pentagora con le mogli non abbiamo fortuna.


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Tacque un altro pezzo, poi ripigliò lentamente, sospirando: — Già lo sapevi… Ma tu credesti d’aver trovato l’araba fenice. E io? Tal quale! E mio padre, sant’anima? Tal quale! Fece con una mano le corna e le agitò in aria. — Caro mio, vedi queste? Per noi, stemma di famiglia! Non bisogna farsene. A questo punto, Niccolino, che seguitava ad arrotondare tranquillamente pallottoline, sghignò. — Sciocco, che c’è da ridere? — gli disse il padre, levando su dal petto il testone raso, sanguigno. — È destino! Ognuno ha la sua croce. La nostra, è qua! Calvario. E si picchiò sul capo. — Ma, alla fin fine, sciocchezze! — seguitò. — Croce che non pesa, è vero, Fufù? quando abbiamo cacciato via la moglie. Anzi, porta fortuna, dicono. E salute, infatti, ne abbiamo da vendere e, per tutto il resto, la grazia di Dio non ci manca. Si sa, per altro, che le mogli è il loro mestiere d’ingannare i mariti. Quand’io sposai, figlio mio, tuo nonno mi disse precisamente quel che poi io ripetei a te, parola per parola. Non volli ascoltarlo, come tu non hai voluto ascoltarmi. E si capisce! Ognuno vuol farne esperienza da sè. Che cosa credevo io che fosse Fana, mia moglie? Precisamente ciò che tu, Roccuccio mio, credevi che fosse la tua: una santa! Non ne dico male, nè gliene voglio: ne siete testimonii. Do a vostra madre tanto che possa vivere, e permetto che voi andiate a visitarla una volta l’anno, a Palermo. M’ha reso in fin dei conti un gran servizio: m’ha insegnato che si deve obbedire ai genitori. Dico perciò a Niccolino: — Tu almeno, figliuolo mio, salvati! Quest’uscita non piacque a Niccolino, che già faceva all’amore: — Ma pensate a vojaltri, voi, che a me ci penso io!

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— A lui, oibò! a lui… ah, figlio mio! — esclamò sogghignando il Pentàgora. — Ma San Silvestro… Ma San Martino… — Va bene, va bene, — rispose Niccolino irritatissimo. — Ma a noi la mamma, poveretta, che male ha fatto, se pur è vero che...? — Niccoli’, ora mi secchi! — lo interruppe il padre, levandosi in piedi. — È destino, sciocconaccio! Ed io parlo per il tuo bene. Prendi, prendi moglie, se tre esperienze non ti bastano, e — se sei davvero dei Pentàgora — vedrai! Si liberò del gatto con una scrollata, tolse dal canterano la candela e, senza neanche accenderla, scappò via. Rocco aprì la finestra e si mise a guardar fuori a lungo. La notte era umida. In basso, dopo il ripido degradare delle ultime case giù per la collina, la pianura immensa, solitaria, si stendeva sotto un velo triste di nebbia, fino al mare laggiù, rischiarato pallidamente dalla luna. Quant’aria, quanto spazio, fuori di quell’alta finestra angusta! Guardò la facciata della casa, esposta lassù ai venti, alle piogge, malinconica nell’umidor lunare; guardò in basso la viuzza nera, deserta, vegliata da un solo fanale piagnucoloso; i tetti delle povere case raccolte nel sonno; e si sentì crescere l’angoscia. Rimase attonito, quasi con l’anima sospesa, a mirare; e come, dopo un violento uragano, lievi nuvole vagano indecise, pensieri alieni, memorie smarrite, impressioni lontane gli s’affacciarono allo spirito, senza precisarsi tuttavia. Pensò che lì, in quella straducola angusta, quand’egli era bambino, proprio sotto a quel fanale dal fioco lume vacillante, una notte, era stato ucciso un uomo a tradimento; che poi una serva gli aveva detto che lo spirito di quell’ucciso era stato veduto da tanti; e lui ne aveva avuto una gran paura e per parecchio tempo non aveva più potuto affacciarsi di sera a guardare in quella via… Ora la casa paterna, lasciata da circa due anni, lo riprendeva, con tutte le reminiscenze, con l’oppressione


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antica. Egli era libero di nuovo, come ritornato scapolo. Avrebbe dormito solo, quella notte, nella cameretta nuda, nel lettuccio di prima: solo! La sua casa maritale, coi ricchi mobili nuovi, era rimasta vuota, buja… le finestre erano rimaste aperte… e quella luna, calante tra le brume sul mare lontano, doveva vedersi certo anche dalla sua camera da letto… Il suo letto a due… tra i cortinaggi di seta rosea… ah! Strizzò gli occhi e serrò le pugna. E domani? che sarebbe stato domani, quando tutto il paese avrebbe saputo ch’egli aveva scacciato di casa la moglie infedele? Là, col capo immerso nel vasto silenzio malinconico della notte punto qua e là e vibrante da stridi rapidi di pipistrelli invisibili, con le pugna ancora serrate, Rocco gemette, esasperato: — Che debbo fare? che debbo fare? — Scendi giù dall’Inglese, — insinuò piano e quieto Niccolino, che se ne stava ancor presso la tavola, con gli occhi fissi su la tovaglia. Rocco trasalì alla voce, e si voltò, stordito da quel consiglio e dal vedere il fratello ancora lì, impassibile, sotto la lampada. — Da Bill? — gli domandò, accigliato. — E perché? — Io, nel tuo caso, farei un duello, — disse con aria semplice e convinta Niccolino, raccogliendo nel cavo della mano tutte le pallottoline arrotondate e andando a buttarle dalla finestra. — Un duello? — ripetè Rocco, e stette un poco a pensare, impuntato; poi proruppe: — Ma sì, ma sì, ma sì, dici bene! Come non ci avevo pensato? Sicuro, il duello! Dalla chiesa vicina giunsero i rintocchi lenti della mezzanotte. — Mezzanotte? — L’Inglese sarà sveglio… Rocco raccolse il cappello ammaccato dal pavimento. — Ci vado!

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II.

Per la scala, al bujo, Rocco Pentàgora rimase un tratto perplesso se picchiare all’uscio dell’Inglese o a quello più giù d’un altro pigionante, il professor Blandino. Antonio Pentàgora aveva edificato quella sua casa, che pareva un torrione, a piano a piano. Al quarto, per il momento, s’era arrestato. Ma, o che la casa rimanesse veramente fuori mano, o che nessuno volesse aver da fare col proprietario, il fatto era che al Pentàgora non riusciva mai d’appigionarne un quartierino. Il primo piano era vuoto da tant’anni; del secondo una sola camera era occupata da quel professor Blandino, affidato alle cure della signora Popònica; del terzo, parimenti una sola, dall’inglese Mr. H. W. Madden, detto Bill. Tutte le altre, qua e là, dai topi. Il portinaio aveva la dignitosa gravità d’un notajo; ma, cinque lire al mese; per cui non salutava mai nessuno. Luca Blandino, professore di filosofia al Liceo, su i cinquantanni, alto, magro, calvissimo, ma in compenso enormemente barbuto, era uomo singolare, ben noto in paese per le incredibili distrazioni di mente a cui andava soggetto. Aggiogato per necessità e con triste rassegnazione all’insegnamento, assorto di continuo nelle sue meditazioni, non si curava più di nulla nè di nessuno. Tuttavia, chi avesse saputo all’improvviso impressionarlo così, da farlo per poco discendere dalla sfera di quei suoi nuvolosi pensieri, avrebbe potuto tirarlo dalla sua e farsene ajuto prezioso e disinteressato. Rocco lo sapeva.


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Uomo non men singolare era il Madden, professore anche lui, ma privato, di lingue straniere. Dava a pochissimo prezzo lezioni d’inglese, di tedesco, di francese, bistrattando l’italiano. Piazza internazionale, dunque, quella sua fronte smisurata. I capelli aurei, finissimi, pareva gli si fossero allontanati dai confini della fronte e dalle tempie per paura del naso adunco, robusto; ma in cerca di loro, dalla punta delle sopracciglia serpeggiavano su su, come per andarsi a nascondere, due vene sempre gonfie. Sotto le sopracciglia s’appuntavano gli occhietti grigio-azzurri, a volta astuti, a volta dolenti, come gravati dalla fronte. Sotto il naso, i baffetti color di fieno, tagliati rigorosamente intorno al labbro. Nonostante la fronte monumentale, la natura aveva voluto dotare il corpo del signor Madden d’una certa agilità scimmiesca; e il signor Madden sùbito aveva tratto partito anche di questa dote: nelle ore d’ozio, dava lezioni di scherma; ma così, senz’alcuna pretesa, badiamo! Probabilmente neppur lui, povero Bill, avrebbe saputo ridire come mai dalla nativa Irlanda si fosse ridotto in un paese di Sicilia. Nessuna lettera mai dalla patria! Era proprio solo, con la miseria dietro, nel passato, e la miseria innanzi, nell’avvenire. Così abbandonato alla discrezione della sorte, pure non s’avviliva. In verità, il signor Madden aveva in mente, per sua ventura, più vocaboli che pensieri; e se li ripassava di continuo. Rocco — come Niccolino aveva supposto — lo trovò sveglio. Bill stava seduto su un vecchio, sgangherato canapè innanzi a un tavolino, con la gran fronte illuminata da una lampada dal paralume rotto; senza scarpe, teneva una gamba accavalciata su l’altra e dava morsi da arrabbiato a un panino imbottito, guardando religiosamente una bottiglia sturata di pessima birra, che gli stava davanti.

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Ogni mattone, in quella camera, reclamava la scopa e una cassetta da sputare per il signor Madden; reclamavano le pareti e i pochi, decrepiti mobili uno spolveraccio; reclamava il letticciuolo dai trespoli esposti le solide braccia d’una servotta, che lo rifacessero almeno una volta la settimana; reclamavano gli abiti del signor Madden non una spazzola, ma una brusca, piuttosto, da cavallo. Le vetrate dell’unica finestra erano aperte; le persiane, accostate a fessolino. Le scarpe del signor Madden, una qua, una là, in mezzo alla camera. — Oh Rocco! — esclamò egli con la barbara pronunzia, nella quale gargarizzava, schiacciava, sputava vocali e consonanti, con sillabazione spezzata, come se parlasse con una patata calda in bocca. — Scusa, Bill, se vengo così tardi, — disse Rocco, con faccia cadaverica. — Ho bisogno di te. Bill ripeteva quasi sempre le ultime parole del suo interlocutore, come per agganciarvi la risposta: — Di me? Un momento. È mio dovere di rimettere prima le scarpe. E guardò, sconcertato, la ferita su la fronte dell’amico. — Ho avuto una lite. — Non capisco. — Una lite! — ripetè con forza Rocco, additando la fronte. — Ah, una lite, benissimo: a strife, der Streite, une mêlée, yes, capito benissimo. Si dice lite in italiano? Li-te, benissimo. Che cosa posso io fare? — Ho bisogno di te. — (Li-te). Non capisco. — Voglio fare un duello! — Ah, un duello, tu? Benissimo capito. — Ma non so, — riprese Rocco, — non so proprio nulla di… di scherma. Come si fa? Non vorrei farmi ammazzare come un cane, capisci?


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— Come un cane, benissimo capito. E allora qualche… coup? Ah, un colpo — si dice? Sì, infallible, io te lo insegnare. Molto semplice, sì. Subito? E Bill, con una mossa da scimmia ben educata, staccò dalla parete due vecchi fioretti arrugginiti. — Aspetta, aspetta… — gli disse Rocco, turbandosi alla vista di quei ferracci. — Spiegami, prima… Io sfido, è vero? oppure, schiaffeggio, e sono sfidato. I padrini discutono, si mettono d’accordo. Duello alla sciabola, poniamo. — Si va — si va sul luogo stabilito. Ebbene, che si fa? Ecco, voglio saper tutto, con ordine. — Sì, ecco, — rispose il Madden, a cui l’ordine, parlando, piaceva, per non imbrogliarsi; e si mise a spiegargli alla meglio, a suo modo, i preliminari d’un duello. — Nudo? — domandò a un certo punto Rocco, costernatissimo. — Come nudo? perché? — Nudo… di camicia, — rispose il Madden. — Nudo il… come si dice? le tronc du corps.. die Brust… ah,yes, torso, il torso. O puramente, senza nudo, sì… come si vuole. — E poi? — Poi? Eh, si duellare… La sciabla; in guardia; à vous! — Ecco, — disse Rocco, — io, per esempio, prendo la sciabola; avanti, insegnami… Come si fa?... Bill gli dispose bene, prima di tutto, le dita di tra le basette. Rocco si lasciò piegare, stirare, atteggiare come un manichino. Si avvilì presto però in quelle insolite positure stentate. — “Cado! cado!„ — , e il braccio teso gli si stancava, gli s’irrigidiva; il fioretto, possibile? pesava troppo. — “Eh! eh! olà! oilà!„ — incitava intanto il Madden. — “Aspetta, Bill!„ — nel dare quel colpo, il piede sinistro come poteva star fermo? e il destro, Dio! Dio! non poteva più ritrarsi in guardia! A ogni movimento il sangue gli affluiva con impeto

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alla ferita della fronte. Intanto, alle pareti, i decrepiti mobili pareva che sussultassero, sbalorditi, agli sbalzi ridicoli delle ombre mostruosamente ingrandite di quei duellanti notturni. Bum! bum! bum! — alcuni colpi bussati con rabbia sotto il pavimento. Il Madden ristette, scosciato, con la gran fronte imperlata di sudore. Tese l’orecchio. — Abbiamo svegliato il professore Luca! Rocco si era abbandonato, rifinito, su una seggiola, con le braccia ciondoloni, la testa cascante, appoggiata alla parete; quasi in deliquio. Pareva, in quell’atteggiamento, che avesse già terminato il duello con l’avversario e ricevuto una ferita mortale. — Abbiamo svegliato il professore Luca, — ripetè Bill, guardando Rocco, a cui tale notizia pareva non arrecasse alcuna spiacevole sorpresa. — Andrò io dal Blandino, — diss’egli alla fine, levandosi in piedi. — Bisogna sbrigar tutto prima di domani. Il Blandino mi farà da testimonio. Addio; grazie, Bill. Conto anche su te, bada. Il Madden accompagnò col lume in mano l’amico fino alla porta; aspettò sul pianerottolo che il professor Blandino venisse ad aprire e, allorché la porta del secondo piano fu richiusa, si ritirò facendo un suo gesto particolare con la mano, come se si cacciasse una mosca ostinata dalla punta del naso. Luca Blandino accolse di mal umore quella visita notturna. Borbottando, barcollando, introdusse Rocco per le altre stanze deserte, nella sua camera; poi, col barbone grigio abbatuffolato e gli occhi gonfi e rossi dal sonno interrotto, sedè sul letto con le gambe nude, pelose, penzoloni. — Professore, abbia pietà di me, e mi perdoni, — disse Rocco. — Mi metto nelle sue mani.


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— Che t’è accaduto? Tu sei ferito! — esclamò il Blandino con voce rauca, guardandolo con la candela in mano. — Sì… ah se sapesse! Da dieci ore, io… Sa, mia moglie? — Una disgrazia? — Peggio. Mia moglie m’ha… L’ho scacciata di casa… — Tu? Perché? — Mi tradiva… mi tradiva… mi tradiva… — Sei matto? — No! che matto! E Rocco si mise a singhiozzare, nascondendo la faccia tra le mani e nicchiando: — Che matto! che matto! Il professore lo guardava dal letto, non credendo quasi agli occhi suoi, ai suoi orecchi, così soprappreso nel sonno. — Ti tradiva? — L’ho sorpresa che… che leggeva una lettera… Sa di chi? dell’Alvignani! — Ah birbante! Gregorio? Gregorio Alvignani?... — Sissignore — (e Rocco inghiottì). — Ora, capisce, professore… così… così non può, non deve finire! Egli è partito. — Gregorio Alvignani? — Scappato, sissignore. Questa sera stessa. Non so dove, ma lo saprò. Ha avuto paura… Professore, mi metto nelle sue mani. — Io? Che c’entro io? — Una soddisfazione, professore, io certamente debbo prendermela… di fronte al paese… Non le pare? Posso restar così? — Piano, piano… Calmati, figlio mio! Che c’entra il paese? — L’onore mio, professore! Non c’entra? Debbo difendere il mio onore… Di fronte al paese…

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Luca Blandino scrollò le spalle, seccato. — Lascia stare il paese! Bisogna riflettere, ragionare. Prima di tutto: ne sei ben sicuro? — Ho le lettere, le dico, le lettere che lui le buttava dalla finestra! — Lui, Gregorio? come un ragazzino? Marni dici da vero?... Ohi, ohi, ohi… Le buttava le lettere dalla finestra? — Sissignore, le ho qua! — Ma guarda, guarda, guarda… E tua moglie, santo Dio! Non è figlia di Francesco Ajala, tua moglie? Bada, caro mio, quello è una bestia feroce… Adesso nasce un macello!... Che m’hai detto? Che m’hai detto? Vah… vah… vah… Dalla finestra? Le buttava le lettere dalla finestra, come un ragazzino? — Posso contare su lei, professore? — Su me? Perché? Ah, tu vorresti fare… Aspetta, figliuolo mio, bisogna ragionare… Mi hai tutto scombussolato… Non è possibile, adesso… Scese dal letto; s’accostò a Rocco e, battendogli una mano su la spalla, aggiunse: — Torna su, figliuolo mio… Tu soffri troppo, lo vedo... Domani, eh? con la luce del sole. — Ne riparleremo domani; ora è tardi… Va’ a dormire, se ti sarà possibile… va’ a dormire, figlio mio… — Ma mi prometta fin d’ora… — insistè Rocco. — Domani, domani, — lo interruppe di nuovo il Blandino, spingendolo verso l’uscio. — Ti prometto… Ma che birbante, oh! Le lettere gliele buttava dalla finestra? Bisogna aspettarsi di tutto a questo mondaccio, caro mio! Povero Roccuccio, ti tradiva… Su, su, andiamo… — Professore… non m’abbandoni, per carità! Conto su lei! — Domani, domani, — ripetè il Blandino. — Povero Roccuccio… la vita, eh? che miseria… Buona notte, figliuolo mio, buona notte, buona notte…


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E Rocco sentì chiudersi dietro le spalle la porta, piano piano, e restò al bujo, sul pianerottolo, in mezzo alla scala silenziosa, smarrito. Nessuno voleva più saperne, di lui? Sedette, come un bambino abbandonato, su i primi scalini della branca, presso la ringhiera, coi gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani. Il bujo, il silenzio, la positura stessa gli strinsero il cuore, gli fecero cader l’animo in un avvilimento profondo; e allora egli contrasse il volto e si mise a piangere e a lamentarsi sommessamente: — Ah, mamma mia! mamma mia! mamma mia!... Pianse e pianse. Poi si cercò in tasca e ne trasse una lettera tutta brancicata. Accese un fiammifero e si provò a leggere; ma avvertì su la mano il contatto di qualcosa umida, lievissima, un po’ vischiosa; e alzò il fiammifero per veder che fosse. Un filo di ragno, lunghissimo, che pendeva dall’alto della scala. Si distrasse a guardarlo, e non avvertì al fiammifero che gli si consumava intanto tra le dita; si scottò e, al bujo, gridò più volte: — Maledetto! maledetto! maledetto!... Accese un altro fiammifero e si mise a leggere la lettera, ch’era scritta di minutissimo carattere, su una carta cinerea, ruvida in vista. Lèsse macchinalmente le prime parole: — “Ti scrivo da tre mesi (son già tre mesi)e ancora… Saltò alcuni righi; fissò lo sguardo su un Quando? sottolineato, poi buttò il fiammifero e restò con la lettera in mano e gli occhi sbarrati nel bujo. Rivedeva la scena. Aveva sforzato l’uscio con un violento spintone, gridando: “La lettera! dammi la lettera!„. — Al fracasso, Marta s’era fatta riparo de lo sportello aperto del grande armadio a muro presso al quale leggeva. Egli aveva tratto in avanti con forza lo sportello e le aveva afferrato i polsi. — “Che lettera? che lettera?„ — aveva ella balbettato, guardandolo atterrita negli occhi. Ma la carta, spiegazzata nell’improvviso terrore

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e impigliata tra le vesti e un palchetto dell’armadio, era caduta come una foglia secca sul pavimento. Ed egli, nel lanciarsi a raccoglierla, s’era ferito alla fronte, urtando contro lo sportello aperto dell’armadio. Accecato dall’ira, dal dolore, aveva allora inveito contro di lei, senza riguardo alla maternità incipiente, e la aveva senz’altro cacciata di casa a urtoni, a percosse. Poi, l’altra scena, col suocero. Era andato a mostrargli quella e le altre lettere dell’Alvignani rinvenute nell’armadio. Non c’era colpa? — “E in che consiste allora la colpa per lei?„ — gli aveva domandato. — “Scusi, forse perché è sua figlia?„ — Francesco Ajala gli era saltato addosso come un tigre. — “Mia figlia? che dici? mia figlia una sgualdrina? — Poi s’era ammansato. — “Bada, Rocco, bada a quello che fai… Vedi di che si tratta? Lettere… E tu rovini due case: la tua e la mia. Forse puoi “ancora perdonare…„. — “Ah, sì? e la perdonerebbe lei, al mio posto, se invece d’esser padre fosse marito?„. — E Francesco Ajala non aveva saputo rispondergli. “Lui no, e io si? Oh bella!„ — pensò Rocco, nel silenzio della scala: — È finita! ora è finita! Si levò in piedi e, accendendo un altro fiammifero, si mise a risalir la scala, con gli occhi alla lettera che aveva ancora in mano. — Che vorrà dire?... — domandava a sè stesso, cercando di decifrare il motto dell’Alvignani inciso in rosso in capo al foglio: nihil - mihi conscio.


III.

L’ombra, poi man mano il bujo avevano invaso la stanza, ove la madre aveva accolto Marta scacciata dal marito. Nel bujo, la suppellettile di vetro su la tavola, già apparecchiata per la cena, prima dell’arrivo di Marta, ritraeva dalla strada qualche fil di luce. La signora Agata Ajala, altissima di statura e corpulenta, ma con una dolcezza nello sguardo e nella voce, che pareva volesse subito attenuare in chi la guardava o le parlava l’impressione sgradevole che il suo corpo per forza doveva destare; rientrando dalla saletta, dove poc’anzi la avevano chiamata, intravide all’improvviso lume, nell’aprir l’uscio, le due figliuole sul canapè di fronte: Marta, con un fazzoletto sul volto, abbandonata su la spalliera, e Maria che le teneva una mano, china su lei. — Vuol partire… — annunziò, quasi istupidita dall’inattesa sciagura. — Mamma, ha saputo… ha saputo, — disse allora Marta, scrollando il capo e torcendosi le mani. — Ha saputo e non vuol più tornare a casa. Egli non perdona, lo so. Va’ tu a trovarlo; digli che torni, mamma; io me ne vado. Lo so, non mi crede più degna di stare in casa sua. Digli che vi sono venuta… così, perché non sapevo dove andare. Me ne vo… Non sapevo dove andare… Due care braccia, tese in un impeto di commozione, la attirarono a sè. La madre disse:


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— Dove volevi andare? Dove puoi andare? Rimani, rimani qua, con Maria. Andrò a parlargli… Si tirò sul capo e si ravvolse attorno al collo uno scialletto nero di lana, e uscì. La larga strada del sobborgo, molto animata durante il giorno, restava poi, la sera, silenziosa e sola, come una contrada di sogno, con le alte case in fila tacite, buje, su le cui finestre la luna rifletteva un verde lume qua e là. Un greve, interrotto sfilar di nubi fumolente velava a quando a quando la pallida e fresca serenità lunare e gettava ombre cupe su la strada umida. — Oh San Francesco! — invocò la madre, alzando una mano verso la chiesa in fondo alla strada. Lì, a pochi passi dalla casa, su la stessa strada suburbana, sorgeva la vasta conceria, di cui Francesco Ajala era proprietario. Appressandosi, ella scorse il marito a un balcone del primo piano, tremò al pensiero d’affrontarne l’ira e il dolore, sapendo purtroppo a quali terribili eccessi potevano trascinarlo. Era alto più di lei, e il corpo gigantesco si disegnava in ombra nel vano luminoso del balcone. Due erano le sciagure, non una sola. E questa del padre assai più grave di quella di Marta. Perché, a ragionare con un po’ di calma e aspettando qualche giorno, la sciagura della figlia forse si sarebbe potuta riparare. Ma col padre non si ragionava. La signora Ajala già da un pezzo aveva imparato a misurare ogni dispiacere, ogni dolore, non per sè stesso, che le sarebbe parso poco o niente, ma in considerazione delle furie che avrebbe suscitato nel marito. Se talvolta, buon Dio, per il guasto o la rottura di qualche oggetto anche di poco valore, ma di cui difficilmente si sarebbe potuto trovare il compagno in paese, tutta la casa piombava nel lutto, nella costernazione più grave… E i vicini, gli estranei, risapendolo, ne ridevano; e avevano ragione. Per una boccettina? per un quadrettino? per un ninnolo


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qualunque? Ma bisognava vedere che cosa importasse per lui, per il marito, quel guasto o quella rottura. Una mancanza di riguardo, non all’oggetto che valeva poco o nulla, ma a lui, a lui che l’aveva comperato. Avaro? Nemmen per sogno! Era capace, per quel ninnolo di pochi bajocchi, di mandare in frantumi mezza casa. In tanti anni di matrimonio, ella era riuscita con le dolci maniere ad ammansarlo un po’, perdonandogli anche, spesso, torti non lievi, senza mai venir meno tuttavia alla propria dignità e pur senza fargli pesare il perdono. Ma un nonnulla bastava di tanto in tanto a farlo scattare selvaggiamente. Forse, subito dopo, se ne pentiva; non voleva, però, o non sapeva confessarlo: gli sarebbe parso d’avvilirsi o di darla vinta: desiderava che gli altri lo indovinassero; ma poiché nessuno, nello sbigottimento, ardiva nemmeno di fiatare, egli si chiudeva, s’ostinava in una collera nera e muta per intere settimane. Certo, con segreto dispetto, avvertiva il troppo studio nei suoi di non far mai cosa che gli desse pretesto di lamentarsi minimamente; e sospettava che molte cose gli fossero nascoste; se qualcuna poi veramente ne scopriva anche dopo molto tempo, lasciava prorompere furibondo il dispetto accumulato, senza riflettere che ormai quelle escandescenze erano fuor di luogo, e che infine s’era fatto per non dargli dispiacere. Si sentiva estraneo nella sua stessa casa; gli pareva che i suoi lo tenessero per estraneo; e diffidava. Specialmente di lei, della moglie, diffidava. E la signora Agata, infatti, soffriva sopra tutto di questo: che nell’animo di lui fossero impressi due falsi concetti di lei: l’uno di malizia, l’altro d’ipocrisia. Tanto più ne soffriva, in quanto che lei stessa sovente si vedeva costretta a riconoscere che non senza ragione egli doveva credere fossero giusti, invece, quei due concetti; perché davvero ella, mancando ogni intesa fra loro due, talvolta

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era forzata dai bisogni stessi della vita a far di nascosto qualcosa ch’egli non avrebbe certamente approvata; e poi a finger con lui. Era sicura adesso la signora Agata, che il marito, nel furore, le avrebbe rinfacciato tutte quelle lievi concessioni che in tanti anni era riuscita con la dolcezza ad ottenere. — Francesco! — chiamò una voce umile, nel silenzio della strada. — Chi è là? — domandò forte l’Ajala, scotendosi, curvandosi su la ringhiera del balcone. — Tu? Chi ti ha detto di venire? Vattene! vattene via subito! Non mi far gridare di qua! — Apri, te ne supplico..., — Vattene, t’ho detto! Non voglio veder nessuno! A casa! subito, a casa! No? Scendo, sai? E Francesco Ajala, diede uno scrollo poderoso alla ringhiera di ferro, e si ritrasse. Ella attese a capo chino, come una mendicante appoggiata al portone, asciugandosi di tanto in tanto gli occhi con un fazzoletto che teneva in mano da quattro ore. Un rumor di passi per il lungo androne interno, cupo, rintronante: lo sportello a destra del portone s’apri, e l’Ajala, curvandosi, sporgendo il capo, afferrò per un braccio la moglie. — Che sei venuta a far qui? Che vuoi? Chi sei? Non ho più nessuno io, nessuno, nessuno; nè famiglia nè casa! Fuori tutti! Fuori! Schifo mi fate, ribrezzo! Vattene via! via! E le diede un violento spintone. Ella rimase, col braccio indolenzito dalla stretta, lì innanzi al vano de lo sportello; poi entrò come un’ombra, rassegnata ad aspettare ch’egli si votasse il cuore di tutta la collera, rovesciandogliela addosso; decisa anche a farsi percuotere.


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In mezzo al bujo androne, l’Ajala, con le mani intrecciate dietro la nuca, le braccia strette intorno alla testa, s’era messo a guardare la grande porta a vetri, in fondo, cieca nel blando chiaror lunare. Si voltò, sentendo nel bujo piangere la moglie; le venne incontro con le pugna serrate, ruggendo con scherno: — L’hai ricevuta in casa? Te la sei baciata, carezzata, lisciata, la tua bella figlia? Che vuoi ora da me? Che aspetti qua? me lo dici? — Vuoi partire… — singhiozzò ella, piano. — Subito, sì! La valigia… — Dove vuoi andare? — Debbo dirlo a te? — Ma anche… per sapere ciò che debbo prepararti… quanto starai fuori… — Quanto? — gridò lui. — E t’immagini ch’io possa ritornare? rimetter piede nella vostra casa svergognata? Via per sempre! In galera o sotterra. Lo raggiungerò! lo raggiungerò! Oh, a costo di… — E ti par giusto? — arrischiò ella, desolatamente. — No, ma che! no! — tuonò egli con un ghigno orribile. — Giusto è che una figlia insudici il nome del padre! che si faccia scacciare come una sgualdrina dal marito, e che poi venga ad insegnare l’arte alla sorella minore! Questo è giusto, questo è giusto per te, lo so! — Come vuoi tu, — diss’ella. — Ma io ti domandavo se, prima di lasciarti andare ad un tale eccesso, non ti pareva che convenisse piuttosto… — Che cosa? — Vedere se fosse possibile evitare lo scandalo… — Lo scandalo? — gridò egli. — Ma se Rocco è venuto qua! — Qua? — A mostrarmi le lettere!

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— Ah, tu le hai vedute? — domandò ella con ansia. — L’ultima? C’è la prova che Marta... — È innocente, è vero? — scattò egli, afferrandola per un braccio, respingendola, andandole addosso di nuovo. — Innocente? Innocente? hai il coraggio di dire innocente innanzi a me? E qua, qua, qua, rossore, qua, ne hai? rossore, qua? E, in così dire, si percosse più volte furiosamente le guance. Poi ripigliò: — Innocente… Con quelle lettere? Avresti fatto lo stesso, dunque, tu? Sta’ zitta! Non arrischiarti di scusarla! — Non la scuso, — gemette ella, piano, con strazio. — Ma se ho la prova, io, la prova che mia figlia non merita il castigo che le si vuole infliggere… — Ah, questo, — tonò cupamente l’Ajala, — questo l’ho detto anch’io a quell’imbecille… — Vedi? — gridò la moglie, quasi ilarata da un lampo di speranza. — Ma poi egli mi chiese se io, al posto suo, avrei perdonato… Ebbene, no! Perché io, — aggiunse, riafferrando per le braccia la moglie e scrollandola forte, — io non t’avrei perdonato: ti avrei ucciso! — Senza colpa… — Per quella lettera! Non ti basta? — Marta, sì, sarà colpevole, — si piegò allora a dire la madre, — ma d’una leggerezza, non d’altro. E ora tu che vuoi fare? Partire, è vero? Affrontar colui, tu! E non intendi che la sciagura, così… Lasciami dire, per carità! Ho fede, io, ho fede che un giorno, presto, la luce si farà… — Non scusare! Non scusare! — Non scuso Marta, no; accuso me, va bene? Me, me, perché io non dovevo lasciarlo fare questo matrimonio… — Accusi anche me, dunque?


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— Ma se tu stesso l’hai detto! Non te n’eri pentito? Abbiamo avuto troppa fretta di maritarla, e confessa che abbiamo scelto male! E quel che le toccò soffrire sotto la tirannia di quella strega della zia e del padre infame, prima che Rocco si risolvesse a far casa da sè? Questo non la scusa, sì, è vero, lo so; ma può rendere, mi sembra, meno severi nella pena. È pure una disgraziata… sì, una… Non potè seguitare. Nascose il volto nel fazzoletto, scossa dai singhiozzi irrefrenabili. Egli, con un gomito appoggiato al muro e la fronte nella mano, scompigliava ritmicamente col piede un mucchietto di ferruche raccolte lì nell’androne, e, con le ciglia giunte, irsute, aggrondate, pareva solo intento a quell’esercizio del piede. Poi disse con voce cupa: — Giacché la colpa è mia e tua, questa è la nostra condanna, e dobbiamo scontarla. Bada! Rientro con te in casa: sarà, d’ora in poi, la mia e la tua prigione. Non ne uscirò che morto! Andò su per chiudere il balcone rimasto aperto. La moglie attese un pezzo, nel bujo dell’androne; poi, vedendolo tardare, salì anche lei. Lo trovò con la faccia contro il muro, che piangeva, solo. — Francesco… — Via! via! via! La spinse avanti, di furia. Chiusa la conceria, fecero in silenzio il breve tratto fino a casa. Innanzi alla porta, ordinò alla moglie di salire avanti, aggiungendo, minaccioso: — Non debbo vederla! Poco dopo, salì anche lui e andò a chiudersi a chiave in una camera, al bujo; si buttò sul letto, vestito, con la faccia affondata nei guanciali, stringendo con una mano la testata della lettiera. Giacque così tutta la notte. Di tratto in tratto, balzava a sedere sul letto. Tendeva l’orecchio. Nessun rumore per la casa. Pure nessuno certo dormiva.

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Quel profondo silenzio gl’irritava sordamente l’interno tumulto dell’anima violenta. Così seduto, si torturava le gambe, le braccia, con le dita artigliate, stretto alla gola da una voglia rabbiosa, impotente, di piangere, d’urlare. Poi ricadeva sul letto, riaffondava la faccia nel guanciale bagnato di lagrime. — Come! Aveva dunque pianto? A poco a poco, sotto l’incubo dei pensieri che gli si presentavano sempre con la medesima forma, col medesimo giro, si stordì e rimase a lungo immobile, quasi inconsapevole, sospirando di tratto in tratto, stanco; ridestandosi talora con la coscienza ottusa, e la sensazione soltanto degli occhi aridi, sbarrati nel bujo della camera. Poi le fessure delle imposte cominciarono a schiarirsi. Grado grado, quei fili esili d’umido albore s’accesero vieppiù nel bujo, rifulsero biondi: — il sole! Egli, dal letto, con le mani intrecciate dietro la nuca, guardava le imposte. Giù per la strada cominciava il trànsito continuo dei carri, ed era come se gli passassero per la mente: egli li vedeva, così giacente e compreso ancora dal tepore del letto e della camera, con l’anima appena risentita. Di fuori, il giorno… il lavoro… Gli operai, seduti l’uno accanto all’altro sul marciapiedi, aspettano che s’apra il portone della conceria. Ecco, suona la campana, entrano, a due a due, a tre, allegri o taciturni, con un fagottino sotto il braccio. Il vecchio Scoma, ah, quegli non parla mai… sua figlia… — Anche mia figlia! anche mia figlia! Peggio di quella! Quella non tradì, fu tradita; e ora la miseria… Balzò dal letto, quasi per correre da Marta e afferrarla, pei capelli, trascinarla per la casa, percuoterla a sangue. Due picchi all’uscio, timidi. — Chi è? — gridò, trasalendo, origliando. — Io… — sospirò una voce, dietro l’uscio. — Via! Non voglio veder nessuno!


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— Se hai bisogno… — Via! via! E sentì i passi della moglie allontanarsi pian piano, e li seguì col pensiero nelle altre stanze. Dov’era “ella?„ che faceva? poteva aver l’ardire di parlare, di guardare in faccia la madre, la sorella? e che diceva? Svergognata! svergognata! svergognata! Il pensiero di lei, la curiosità di vederla, il bisogno quasi di sentirla piangere tutta tremante sotto gli occhi suoi, senza concederle il perdono supplicato in ginocchio, lo tennero tra le smanie tutto il giorno. Aveva lasciato la camera al bujo, ed era giunto a sentir finanche orrore delle fessure luminose delle imposte che gli ferivano gli occhi ogni qual volta si voltava, passeggiando. Sul tardi, condiscese ad aprire alla figlia minore. Aprì l’uscio e si stese di nuovo sul letto. — Richiudi subito! Maria richiuse subito l’uscio e posò a tasto una tazza di brodo sul tavolino da notte. — Ti senti male, babbo? — Non mi sento nulla, — rispose egli con durezza. Maria sedette, sospirando piano, a piè del letto, col tovagliolo, tra le mani. Egli si levò su un gomito, forzandosi a discernere la figlia nel bujo. Maria non era mai stata la preferita. Era cresciuta quasi all’ombra di Marta, e da sè stessa pareva si fosse acconciata al compito di stare accanto a la sorella adorata per farne meglio risaltar l’ingegno, lo spirito, la bellezza. Nessuno aveva mai badato a lei, nè ella se n’era mai neppur fra sè lagnata, vinta anch’essa dal fascino di Marta. Pensieri e sentimenti eran rimasti chiusi in lei, quasi non richiesti da alcuno. E nè il padre nè la madre pareva si fossero peranche accorti ch’ella era cresciuta, ch’era ormai donna. Non bella, nè vaga; ma dagli occhi e dalla voce spirava tanta

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bontà e dagli atteggiamenti così timida grazia, che riusciva a tutti irresistibilmente simpatica. — Maria, — chiamò con voce rauca il padre, ancora nella stessa positura. Ella accorse al letto e si sentì all’improvviso cingere e serrar forte dal braccio di lui, si sentì sul seno la testa del padre. Così piansero entrambi, senza dir nulla, vieppiù stretti, a lungo. — Vattene, vattene… — diss’egli alla fine, angosciato. — Non voglio nulla… Voglio restar solo… E la figlia obbedì, tremante ancora dalla tenerezza inattesa.


IV.

Maria aveva ceduto a Marta la cameretta, in cui questa soleva dormire da ragazza. Nulla era mutato in essa, nulla di suo vi aveva messo Maria. Era ancora lì quel caro armadietto dalle antiche pitture villerecce su gli sportelli, alle quali la pàtina veramente aveva più aggiunto che tolto. Era ancora lì il tavolinetto da lavoro della nonna dall’impiallacciatura arsa e scoppiata da tanto tempo, da quella sera, in cui ella vi aveva lasciato cader su il lume e per poco la fiamma non le si era appresa a le gonnelle. Ecco lì ancora, accanto al lettuccio di ottone, l’acquasantiera di vetro e, sotto, la rametta di palma col nastro roseo, ora sbiadito. C’era acqua santa in quella piletta? Oh, certo sì: Maria era tanto divota! E al capezzale l’Ecce Homo d’avorio, riparato da una lastra concava entro la cornice ovale, nera; l’Ecce Homo che una volta aveva chinato, in segno d’assentimento, il capo incoronato di spine a lei e a Maria accorse una dopo l’altra a supplicarlo per la madre colta da improvviso malore. Marta non era mai stata superstiziosa; pure quel segno non le era uscito mai più dalla memoria, con lo strano sgomento nel sapere, alquanto tempo dopo, da la sorella, che anche a lei era parso di veder l’Ecce Homo chinare il capo in segno d’assentimento. Allucinazioni, certo! Ma, tuttavia, perché non osava adesso di alzar gli occhi a guardare quell’immagine sacra


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al capezzale? Non era ella davvero innocente? Aveva forse amato l’Alvignani? Ma via! Non le pareva neanche ammissibile che qualcuno potesse credervi sul serio. Tutto il suo torto consisteva nel non aver saputo respingere, come doveva, quelle lettere dell’Alvignani. Le aveva respinte, ma da inesperta, rispondendo… Ad ogni modo, non si sentiva in nulla, per nulla colpevole verso il marito. Della furtiva corrispondenza epistolare ella aveva letto con interesse solo quella parte che si riferiva al caso di coscienza tanto grave, quanto ingenuamente da lei esposto all’Alvignani in risposta alle prime lettere di lui troppo filosofiche, per disgrazia, nella loro composta sentimentalità. Delle frasi d’amore non s’era curata, o ne aveva riso, come di superfluità galanti e innocue. S’era insomma impegnata tra loro due una polemica puramente sentimentale e quasi letteraria, la quale era durata cosi circa tre mesi, e di cui forse, sì, ella si era un po’ compiaciuta, nell’ozio, nella solitudine in cui la lasciava il marito. Curando la forma, scegliendo le frasi, come per un componimento scolastico, ella era orgogliosa di fronte a sè stessa di quel segreto duello intellettuale con un uomo quale l’Alvignani, avvocato di grido, lodato, ammirato, corteggiato da tutta la città, che si preparava ad eleggerlo deputato. L’irrompere del marito nella camera, mentr’ella leggeva la lettera, nella quale per la prima volta l’Alvignani s’era arrischiato di darle del tu, la scena violenta che n’era seguita, la avevano stupita e spaventata tanto più, in quanto che ella si sentiva, leggendola, affatto calma e indifferente. Innocente, diceva lei. A ogni donna onesta, che non fosse brutta, poteva capitar facilmente di vedersi guardata con strana ed acuta insistenza da qualcuno; e se colta all’improvviso, turbarsene; se prevenuta della propria bellezza, compiacersene. Ora a nessuna donna onesta, nel segreto della


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propria coscienza, sarebbe sembrato di commettere un delitto, in quell’istante di turbamento o di compiacenza, carezzando col pensiero quel desiderio suscitato, immaginando in uno sprazzo fuggevole un’altra vita, un altro amore… Poi la vista delle cose attorno richiamava, ricomponeva la coscienza del proprio stato, dei proprii doveri; e tutto finiva lì!... Momenti! Non si sentiva forse ciascuno guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi lampi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili, come sorti da un’anima diversa da quella che normalmente ci riconosciamo? Poi quei guizzi si spengono, e ritorna l’ombra uggiosa o la calma luce consueta. Ma chi, come lei, senza volerlo, senza sapere precisamente in qual modo, si fosse trovata presa, inviluppata in un intrico? Come, come mai davvero, dalla paurosa sorpresa nel vedersi buttare dall’Alvignani la prima lettera e dalla incertezza tormentosa sul partito da prendere per impedire che colui seguitasse, ella — onesta, onesta, figlia di gente onesta — era potuta man mano arrivare fino a quel punto, senza alcun sospetto? Ah, quante imprudenze aveva commesso quell’uomo avanti che le buttasse la prima lettera e dopo! Ora le notava; ora se ne sentiva offesa. Quelle tendine delle finestre dirimpetto non avevano requie: or sollevate, ora d’un tratto abbassate; e certe subitanee scomparse dalla finestra, e certi segni del capo e delle mani… Ed ella aveva potuto ridere, allora, ridere di quell’uomo già maturo, rispettabile, che si rendeva innanzi a lei così ridicolo, imbambolito… Ma a qual mezzo avrebbe dovuto appigliarsi per fare che colui smettesse dal tormentarla? Compromettere il padre? il marito? N’era esasperata, avvilita, e pur non di meno gli occhi le andavano sempre lì, alle finestre dirimpetto, involontariamente, quasi per forza di legamento, lì… Usciva sovente, per sottrarsi a quella tentazione puerile;

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si recava per intere giornate alla casa paterna; e qua costringeva Maria a sonare, a sonar sempre la stessa cosa, una vecchia e mesta barcarola. — Marta, ebbene? E lei, sprofondata sul divano, rispondeva con voce flebile e gli occhi invagati: — Sono lontano… lontano… Maria rideva, e a Marta risonavano ora negli orecchi le risate schiette de la sorella. E seguitava a ricordare, a rivedere col pensiero. Nel salotto entrava la madre, che le domandava del marito. — Al solito… — le rispondeva lei. — Sei contenta? — Sì. E mentiva. Non che avesse da ridire su la condotta di lui; ma ecco, le rimaneva in fondo all’anima un sentimento ostile, non ben definito; e non da ora: fin dal primo giorno della promessa di matrimonio, allor che a lei, ragazza di sedici anni appena, tolta dal collegio, a gli studii seguiti con tanto fervore, Rocco Pentàgora era stato presentato come promesso sposo. Era un sentimento di vaga oppressione ricacciato dentro e soffocato dalle savie riflessioni dei genitori, che nel Pentàgora avevano veduto un partito invidiabile, un buon giovine, ricco… Sì, si; ed ella aveva ripetuto come sue queste savie considerazioni della madre e del padre alle compagne di collegio dalle quali aveva voluto prender commiato; come se da bambina tutt’a un tratto fosse diventata vecchia, provata e sperimentata nel mondo. Qua e là le pareti della cameretta serbavano tuttavia alcune date scritte da lei: ricordi, certo, di antichi trionfi di scuola o d’ingenue feste tra amiche o di famiglia. E su quelle pareti e su tutti quegli oggetti umili, semplici e cari pareva che il tempo si fosse addormentato e che


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ogni cosa là entro serbasse l’odore del suo respiro. E Marta col pensiero rifrugava nella sua vita di fanciulla. Quante volte non aveva ella udito, standosene così con gli occhi intenti e lo spirito vagante, quel crepitìo delle prime piogge su i vetri delle finestre; quante volte non aveva veduto quella luce scialba, malinconica, nella cameretta raccolta, con la sensazione dolce nell’anima dei prossimi freddi, al declinar dell’autunno nuvoloso, dei brividori che fan le notti invernali, innanzi al mattutino? Maria guardava la sorella, stupita di quella calma, e quasi non credeva a gli occhi suoi, offesa nel cuore dall’indifferenza con cui Marta pareva si fosse ora acchetata alla sciagura, come se la tempesta non le fosse testè passata sul capo. “Eppure non ignora, — pensava Maria, — in quale stato s’è ridotto il babbo per causa sua!„ E quasi piangeva dalla pena di non veder la sorella com’avrebbe voluto, umile cioè, desolata, vinta nel suo cordoglio e inconsolabile, come nei primi giorni dopo il ritorno in casa. Marta infatti non piangeva più. Dopo aver confessato tutto alla madre, tutto, fin ne’ minimi particolari, nei più intimi e segreti sentimenti, aveva sperato che il padre almeno, se non più il marito, le rendesse giustizia, e si rimovesse da quel proposito di non uscir più di casa, ch’era per lei, di fronte a tutto il paese, una condanna anche più grave di quella che il marito con sì poca ragione aveva voluto infliggerle, scacciandola dal tetto coniugale. Così egli, suo padre, confermava l’accusa del marito e la infamava irrimediabilmente. Non lo intendeva? Aveva domandato con ansia alla madre se avesse riferito al padre la confessione, e la madre le aveva detto di sì. Ebbene? Irremovibile? Da quel momento, non aveva più versato una lacrima. Si era sentita tutta rimescolare, e la rabbia raffrenata s’era irrigidita in lei in un disprezzo freddo, in quella maschera d’indifferenza dispettosa di fronte all’afflizione della

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madre e della sorella, le quali, anziché condannare il padre per la sua cieca, testarda ingiustizia, si mostravano costernate per lui, per il male che certo gliene sarebbe venuto alla salute, come se n’avesse colpa lei. E ora Marta domandava apposta a Maria notizie di qualche amica che prima veniva a visitar la madre e, poiché Maria rispondeva impacciata, ella, sorridendo stranamente, esclamava: — Adesso, si sa, nessuno vorrà più venire in casa nostra… Tutto, dunque, doveva finir cosi, per nulla? Si doveva rimanere come in prigione, in quell’afa, in quel bujo, in quel lutto, quasi che il mondo fosse crollato? La famiglia si era ritirata nelle stanze più remote da quella ove Francesco Ajala se ne stava rinchiuso. Nessuna voce, nessun rumore giungevano a gli orecchi di lui, che, seduto su la poltrona a pie’ del letto, guardava la soglia illuminata sotto l’uscio nero, spiava il lieve, cauto scalpiccio su l’assito della stanza attigua e si sforzava d’indovinare chi vi passasse in punta di piedi. Non lei, certo: era Agata… era Maria… era la serva… — La concerìa, — volle un giorno rammentargli la moglie. — Vuoi che proprio tutto si perda così? — Tutto! tutto! — le rispose egli. — Morremo di fame. — E Maria? Non è figlia tua anche lei? Che colpa ha la povera Maria? — Ed io? — gridò l’Ajala, levandosi torbido innanzi alla moglie. — Che colpa avevo io? Tu l’hai voluto! Si frenò, sedette di nuovo; poi riprese con voce cupa: — Fa’ che venga da me tuo nipote, Paolo Sistri. Affiderò a lui la direzione della conceria. Non c’è più da aver superbia, ora. Voleva Marta in moglie? Se la pigli! Ormai può esser di tutti. — Oh Francesco!


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— Basta così! Manda a chiamar Paolo. Andate via! Da questo Paolo Sistri, figliuolo d’una sorella defunta della signora Agata, ebbero le tre donne notizia delle prodezze di Rocco Pentàgora, ch’era partito veramente, il giorno dopo lo scandalo, in cerca dell’Alvignani, col professor Blandino e col Madden. A Palermo, Gregorio Alvignani non aveva voluto dapprima accettare la sfida; era anzi riuscito a persuadere al Blandino d’indurre il Pentàgora a ritirarla; ma allora questi lo aveva pubblicamente investito per costringerlo a battersi con lui. E s’era fatto il duello e Rocco aveva riportato una lunga ferita alla guancia sinistra. Ora, da tre giorni, era ritornato in paese in compagnia d’una donnaccia venduta; se l’era portata nella casa maritale, la aveva costretta a indossare le vesti di Marta e, sollevando l’indignazione di tutto il paese, si offriva spettacolo alla gente, conducendosela a passeggio, in carrozza, così parata. Ebbene, dopo tali notizie, non si smoveva ancora il padre? non riconosceva l’indegnità di quel vile? non si vergognava di sottostare alla condanna infame di colui? Marta fremeva di sdegno e di rabbia, faceva un continuo violento sforzo su sè stessa per contenersi innanzi alla madre e alla sorella, dall’aria sempre più afflitta e abbattuta. — Piangi, Maria, ma perché? — domandò una mattina, con fare derisorio a la sorella che entrava nella sua cameretta con gli occhi rossi. — Il babbo… lo sai! — rispose Maria, a stento. — Eh, — sospirò Marta. — Che vuoi farci? Forse si riposa. Non fa male a nessuno… Era senza corpetto, innanzi allo specchio, in piedi: trasse dal capo le forcinelle di tartaruga, o il nero volume dei capelli le cascò fragrante su le spalle, su le braccia nude. Rovesciò indietro il capo e scosse così più volte

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la bella chioma pesante; poi sedette, e l’omero tondo, candidissimo, levigato, le emerse tra i capelli che s’eran partiti tra il seno e le terga. Su l’omero, il neo di viola, venuto su con gli anni lentamente, come una stella, dalla scapola, ove prima Maria lo aveva scoperto, quando ancora entrambe dormivano insieme. — Su, pèttinami, Maria. 50


V.

Lungo lungo, sparuto, dalle gambe sperticate, dal volto sbiancato, pinticchiato di lentiggini, con ciuffetti di peli rossi su le gote e sul mento, Paolo Sistri veniva ora ogni sera a sottomettere all’approvazione dello zio Ajala il rapporto giornaliero dei lavori della conceria. Dopo circa mezz’ora usciva abbattuto e sbalordito dalla stanza del rinchiuso, e alla zia Agata e a Maria che lo aspettavano ansiose rispondeva ogni volta, piegando da un lato la testa: — Ha detto che va bene. Ma dell’approvazione pareva non fosse nè convinto nè soddisfatto, come in sospetto che lo zio lo lodasse per beffa. Si abbandonava su una seggiola, tirava dentro quanto più aria poteva e la soffiava pian piano per le nari, tentennando il capo. Ormai, sotto l’imbrigliatura d’uomo d’affari, egli aveva rinunziato ad ogni velleità amorosa. Nei primi giorni si mostrò impacciatissimo della presenza di Marta; poi, man mano, si rinfrancò alquanto; parlando, però, si rivolgeva più tosto a Maria o alla zia Agata. Narrava con garbuglio opprimente di parole tutte le peripezie della giornata, e si ripiegava in tutti i versi su la seggiola e girava gli occhi di qua e di là e sudava e inghiottiva. Ogni periodo di quel suo discorso avviluppato restava in aria o sfumava a un tratto in una esclamazione; se però qualcuno, per disgrazia, gli riusciva alla fine senza impuntature, egli lo ripeteva tre e quattro volte, prima di rimettersi alla fatica di figliarne un altro.


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La zia mostrava d’ascoltarlo con attenzione, assentiva col capo quasi a ogni parola e spesso, alla fine, sapendo ch’egli ormai non aveva più alcuno in casa, lo invitava a rimanere a cena. Paolo accettava quasi sempre. Ma erano ben tristi quelle cene in silenzio, interrotte dall’invio del cibo alla stanza del rinchiuso, gelate dall’aspetto di Maria, che ne ritornava ogni volta più afflitta, più oppressa. Marta osservava ogni cosa con una strana espressione negli occhi, or quasi derisoria, ora sdegnosa. Quel dolore impresso negli altri non era un raffaccio a lei della presunta sua colpa? Spesso si alzava, abbandonava la tavola, senza dir nulla. — Marta! Non rispondeva: andava a chiudersi nella sua cameretta. Maria allora, dietro l’uscio, la pregava d’aprire, di ritornare a cena. Ella ascoltava con un misto di dolore e di godimento quelle preghiere insistenti della sorella, e non apriva, nè rispondeva; poi, appena Maria, stanca di pregare inutilmente, andava via, si stizziva contro sè stessa di non aver ceduto e si metteva a piangere. Ma subito il rimorso si cangiava in odio contro il marito. Ah, in quella rabbia di cuore, in quel momento, se avesse potuto averlo fra le mani! E se le torceva, le mani, piangendo, smaniando. E il frutto di quell’uomo, intanto, maturava in grembo a lei… Sarebbe stata madre, fra poco! Il suo stato le faceva orrore; si dibatteva, cadeva in convulsione; e quelle crisi violente la lasciavano disfatta. Talvolta Paolo Sistri rimaneva un po’, dopo cena, a tener compagnia. Sparecchiata la mensa, si rinfocolava timidamente, intorno a quella tavola, sotto la lampada, un po’ di vita familiare. Ma la voce usciva dolente da quelle labbra, quasi paurosa del silenzio imposto alla casa dalla sciagura. Di tratto in tratto Maria si recava in punta di piedi a origliare dietro l’uscio del padre.


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