Passato in costruzione. La memoria edifica il presente

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FRANCESCO CANNAS

auto da fĂŠ


Q

uando il piccolo Giorgio parte da Oristano per studiare a Carrara lascia i giorni passati in Sardegna, regione ricca di tradizioni antiche, per un presente in Toscana dove negli anni Settanta poteva già avvertire i cambiamenti nel mondo. Il passato – custodito nella quiete prenuragica della domus de jana – è ricostruito nel presente in prosa e poesia in reazione alla frenesia dello sviluppo economico nel Dopoguerra e poi del successivo consumismo mercantile capace di corrodere città, persone e istituzioni.

F RANCESCO C ANNAS è nato a Fordongianus (Oristano) nel 1943. Si è trasferito poi a Carrara dove ha studiato, trovato lavoro e vive tuttora. Ha coltivato nel tempo interesse per la letteratura, la politica e il sindacato. Scrive per raccontarsi, con coraggio, oltre ogni convenzione.

ISBN ISBN 9781979246682 978-1979246682

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€ 12,90

9 781979 246682


Auto da fé … Licenziando queste cronache ho l’impressione di buttarle nel fuoco e di liberarmene per sempre (E. Montale)


© Francesco Cannas, 2017 © FdBooks, 2017. Edizione 1.1 L’edizione digitale di questo libro è disponibile online in formato .mobi su Amazon e in formato .epub su Google Play e altri store online.

ISBN 978-1979246682

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Francesco Cannas

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Alla memoria di mio padre



Prefazione

Passato in costruzione di Francesco Cannas è un testo letterariamente complesso che, per l’inserimento di poesie in una narrazione in prosa, potrebbe ascriversi al genere letterario del prosìmetron, dalle prestigiose ascendenze letterarie che si possono far risalire alla dantesca Vita Nuova. Anche qui la prosa e la poesia si alternano e intrecciano proprio perché la diversa natura delle due forme espressive consente di dire le stesse cose, ma con differente intensità emotiva, sfruttando al massimo le potenzialità espressive che la poesia offre con il suo linguaggio connotativo. Al centro dell’ispirazione di quest’opera sta infatti una forte e profonda emozione che lega il passato e il presente, generata da un contatto con i luoghi d’origine del protagonista, alter ego dell’autore, un’emozione così coinvolgente che per trovare la sua piena realizzazione espressiva ha bisogno di tutte le possibilità e potenzialità formali in mano all’autore, quindi quelle della prosa e quelle della poesia, a cui si aggiunge la suggestione delle immagini fotografiche. Al fondo e al centro di questa rievocazione personale e storica c’è la consapevolezza che, anche se la vita di una persona può modificarsi e svilupparsi nel tempo, quello che rimane inesorabilmente inalterabile è il passato, da cui nasce la percezione che ciò che sta nella memoria ha un significato che solo gli eventi successivi riescono a chiarire e a giustificare. Questo è il nucleo emotivo e concettuale che ha indotto Francesco Cannas a intraprendere la sua complessa narrazione, in cui l’allontanamento dal suo paese natio in Sardegna, fatto molto efficacemente espresso con il termine espianto, che indica sofferenza, ma anche speranza e fiducia in una vita rinnovata, viene compreso a fondo nella sua


necessità esistenziale solo nel momento della piena maturità dello scrittore, in occasione del ritrovato contatto con la sua terra natale, riscoperta dopo una lunghissima assenza. A contrapporsi e scontrarsi sono due mondi, due realtà socio-economiche molto diverse, da un lato quella agro-pastorale dell’isola natale, ferma nella fedeltà alle sue tradizioni, dall’altro quella cittadina e moderna di Carrara, proprio negli anni in cui non solo in Italia, ma nel mondo intero, stanno avvenendo le più rilevanti innovazioni e i più vistosi cambiamenti che aprono alle trasformazioni della vita verso quella modernità in cui ora ci ritroviamo immersi. Al centro di questo scontro c’è Giorgio, l’alter ego dell’autore, a cui egli fa rivivere le sue vicende adolescenziali, che, proprio per l’innata propensione dei giovani per le novità e le trasformazioni, nonostante le iniziali difficoltà, si adatta facilmente al nuovo ambiente in cui è venuto a trovarsi, rimuovendo sempre più dal suo cuore e dalla sua mente quello originario della sua isola, finché la spinta della verità insondabile del suo animo, con mossa segreta ma perentoria, non lo spinge a recuperare un contatto con la terra natia, per riappropriarsene e nello stesso tempo riscoprirla. Ecco così che il passato, sepolto e rimosso, si svela e si congiunge con il presente, perché Giorgio capisce che proprio in quella vita di asprezza e durezza, tipica dell’antica tradizione della sua terra, aveva maturato in giovane età la forza, il coraggio e la capacità di compiere da solo, appena quattordicenne, il grande balzo dell’espianto per venire a studiare a Carrara. A consolarlo e a fargli ritrovare l’amore per la sua terra e nello stesso tempo il desiderio di ritornare alla sua vita abituale nella città toscana è, quindi, la segreta consapevolezza che quel suo personale eroismo adolescenziale è stato determinante per la sua vita di uomo, alla cui piena realizzazione hanno così contribuito le esperienze delle due diverse realtà, campestre e cittadina. Questa “storia del cuore” viene narrata con stile sobrio ed essenziale che rivela un atteggiamento di personale pudore da parte dell’autore, sottolineato anche dallo sdoppiamento letterario tra sé e il protagonista della vicenda, guardato con atteggiamento oggettivo, ma plasmato secondo le emozioni soggettive. Tutta la vicenda si snoda su un preciso scenario storico, ricostruito con precisione, seppure quasi sempre solo con rapidi cenni che sanno mettere in risalto le differenze tra i due diversi mondi e il dinamismo

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interno a quello cittadino che lo portava a rapide e vistose trasformazioni. Ma sullo scenario della cronaca, che sovente diventa storia, si accampa la figura del giovane protagonista che va guardata con grande ammirazione per la forza e la determinazione che ha saputo trovare in sé, compiendo quell’interna personale trasformazione da adolescente a uomo, per cui la vicenda narrata può diventare un significativo esempio di Bildungsroman in Italia negli anni del boom economico, quando le differenze regionali si facevano ancora sentire, l’emigrazione interna era una vistosa realtà e la formazione culturale e professionale data dalla scuola, era un’occasione di mobilità sociale. Bisogna anche dire che il protagonista, appunto alter ego dell’autore, si impegna, fin dalla prima adolescenza, per cambiare l’assetto sociale e istituzionale del paese. Infatti il giovane Giorgio frequenta, ancora negli anni di permanenza in Sardegna, il Partito comunista, fonda una sezione nel suo paese natale e continua il suo impegno e la sua maturazione politica negli anni degli studi a Carrara. Tutto questo dimostra la sua sensibilità nei confronti dei problemi della società e la sua generosità nell’impegno, caratteristiche che si manterranno e verranno ancor meglio emergendo e affermandosi negli anni della maturità, quando il protagonista (e quindi l’autore), accanto all’impegno nel lavoro e nella famiglia, dedicherà tempo ed energie anche alla vita politica, nell’ambito sempre del Partito comunista e di organi amministrativi della sua città, facendosi protagonista di prese di posizione e di battaglie contro malcostume e corruzione. Per tutto questo, una storia che meritava davvero di essere narrata. Rosa Elisa Giangoia

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Fordongianus: Zicchiria e in fondo monte Grighini.


Capitolo 1

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iorgio mancava dal paese natio, in Sardegna, da più di cinquantanove anni. Era infatti partito per andare a studiare a Carrara nel settembre del 1958; da allora era ritornato solo per sporadiche visite di due o tre giorni all’anno, poi era sempre ripartito immediatamente. Non aveva amici, quelli che ricordava avevano lasciato il paese anche loro. Così, ogni volta, si ritrovava a essere da solo. A fine agosto del 2017, lasciata Carrara, intraprese un viaggio di rimpatrio per rivedere i posti della sua infanzia e i luoghi delle sue riflessioni da bambino. Questa volta però, appena arrivato per stabilirvisi per alcuni giorni, la prima cosa che volle fare fu quella che aveva avuto sempre in mente, senza tuttavia poterla mai realizzare: ritornare a Zicchiria, dove c’era un appezzamento di terreno di proprietà della sua famiglia coltivato a vigna e aranceto e dove aveva passato giorni e giorni a guardare la natura, accosciato sulla riva del Tirso, seguendo il lento fluire delle acque. Sua madre non c’era più e pertanto senza passare da Fordongianus, imboccata la strada per Siamanna proveniente da Oristano, si recò subito all’agriturismo Meriagus di Allai dove ormai trovava alloggio nei pochi giorni all’anno che trascorreva sull’isola immerso nella tipica campagna sarda costellata da ampie zone di lentisco. Iniziava così questo “soggiorno della rimembranza”, della verifica dei ricordi orgogliosamente aggrappati alla memoria, della rivisitazione nostalgica di ciò che si era, si è stati e si è poi diventati in un processo di trasformazione, di avanzamento, di crescita, di studio, di sofferenze, di paure, di coraggio, di costruzione di se stessi.


Il giorno dopo, verso le dieci, lasciato l’agriturismo e presa la strada provinciale n. 33 che conduce a Fordongianus, s’incamminò per raggiungere finalmente Zicchiria. Prima di entrare in paese si soffermò un attimo al cimitero per visitare la tomba della mamma, del patrigno e di un nipote. Nel percorso per tornare sulla strada ebbe modo così di osservare su un blocco di loculi la fotografia di un suo amico: Davide Meloni. «Ciao Davide!» disse tra sé. Davide faceva il sarto e abitava da solo in una casetta all’inizio del paese, dove Giorgio ancor prima di andare a Carrara lo andava spesso a trovare. Insieme ad Antonio Sanna discutevano di politica e commentavano «l’Unità». Antonio e Davide si professavano comunisti e per questo erano visti come eretici dalla gente del paese che allora votava in massa per la Democrazia cristiana, il Partito monarchico o per il Movimento sociale. Durante le elezioni il paese veniva pavesato – soprattutto lungo la strada principale, via Ipsitani – da una serie infinita di cartelloni di propaganda elettorale che sembrava di essere a una festa. Tutti i partiti, a esclusione del Partito comunista, avevano in loco dei rappresentanti cui far riferimento. Giorgio, infastidito da tale implicita esclusione, una mattina a Oristano appena uscito da scuola in piazza Manno si recò in via Figoli dove era ubicata la Federazione del partito e dopo aver lungamente parlato con il segretario provinciale Torrente si arrivò alla decisione di aprire una sede del partito a Fordongianus: venne trovato un locale in via Ipsitani, angolo via Vittorio Veneto. Giorgio, che era appena rientrato da Oristano, da quel giorno frequentò spesso la sezione, dal pomeriggio fino a tarda sera, per tenere aperto il locale, ricevere gente e, contemporaneamente, svolgere i compiti di scuola. Sarebbe stato così fino al 1° settembre 1958, giorno della sua partenza. Entrò così in paese senza passare dal centro storico, soffermandosi per un attimo all’ingresso per ammirare velocemente Sa Rughi, una colonna di trachite – senz’altro antichissima – sormontata da una croce in ferro che pare in perpetua attesa pronta per accogliere tutti coloro che provengono dalle zone interne della Sardegna. Il paese venne lentamente attraversato da Giorgio, che seguì la Via Romana, al termine della quale si imbocca poi la strada del ponte sul Tirso. Delle tante persone incontrate lungo il percorso nessuna riusciva, neanche minimamente, a trovare posto nei pertugi della sua memoria.

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Del resto avevano tutti un’età che non superava i cinquant’anni e Giorgio mancava dal paese da ben oltre! Era pertanto come straniero nel proprio luogo natio. Dei conoscenti del periodo della sua infanzia, di conseguenza, nessuna traccia. Su questa riflessione scrisse la poesia Il mio paese. Il mio paese Passando per le vie del paese ancora resistono vecchie mura. Di tanti con cui son stato nessun segnale si scorge. Solo nella mente rivive l’antico vociare. Il mio cuore s’è come fermato cimitero dei ricordi.

Che riprodotta in sardo, quello che si praticava a Fordongianus quando Giorgio era piccolo, suona così. Sa idda mia Passendu po is istradasa de idda ancora campanta murus beccius.

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De medasa cun cussus chi seu stau nessunu segnali si biada. Solu in sa conca du esti s’antigu allegai. Su coru meu esti comenti e firmu campusantu de arregodusu.

Percorso il tratto di strada corrispondente al ponte, a un certo punto Giorgio sentì la necessità di fermarsi per meglio osservarlo. Quanto tempo era passato! Quante volte da piccolo era stato lì a contemplare il placido scorrere delle acque! Quante volte, assai sconsideratamente, si era divertito a camminare lungo il muro di delimitazione del ponte! Quante volte aveva assistito alla pesca delle carpe! Con la mente occupata in una sentita rievocazione dei tempi trascorsi, gli pareva che le immagini che aveva davanti, dopo tanto tempo, fossero irreali; frutto appunto di una sua proiezione mentale. Tutto invece era vero, come allora, e il ricordo fungeva da collante tra la realtà che gli era di fronte e quella passata da più di mezzo secolo. Con il seguito di questi pensieri s’incamminò per la strada statale del Tirso e del Mandrolisai che conduce a Busachi; arrivato alla curva prima della Fontana Cannas fece la discesa che lo condusse a Zicchiria, all’aranceto. Qui si soffermò prima a osservare la piccola sorgente d’acqua che scaturisce da una roccia e poi, più in là, lo scorrere silenzioso del Tirso, le piante, il canto degli uccelli, il silenzio della natura, il soffio – come un saluto avvolgente e rinfrescante – dell’aria di casa. Era immerso come per incanto in un passato-presente dove alberi, fiume e terreno mostravano orgogliosamente i propri segni; così simili al passato, così fortemente impressi nel proprio ricordo. Con l’accavallarsi dei pensieri e dei ricordi, la minuta perlustrazione lo condusse però a un’amara scoperta: due enormi querce secolari, cresciute

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Fordongianus, ponte sul fiume Tirso.

nel terreno confinante dove spesso Giorgio si rifugiava da piccolo, erano state abbattute! Venne come morso da un lacerante pianto interiore e a malapena riuscì a trattenere in gola l’urlo sconsolato di protesta e delusione. Dopo qualche istante, pervaso da questa sensazione, sollevati gli occhi, scorse più in là la sagoma della collina sopra la strada per Busachi. Da piccolo si recava spesso in quel luogo e gli piaceva perlustrare il bosco, che odora di mirto e di lentisco e che – a mezza costa – contiene e custodisce una domus de janas, spesso impropriamente tradotta in casa delle fate, che più volte da piccolo aveva avuto modo di conoscere e visitare. Ogni volta in quelle occasioni il cuore entrava in un subbuglio incontrollabile per le mille domande e i mille perché che si poneva e ai quali non sapeva dare risposta. Nonostante ciò, essendo così forte il desiderio e il richiamo dell’ignoto, prima pian piano e poi con sempre maggiore ardire, riuscì a prendere la decisione di salire sui gradini scavati nella roccia ed entrare nella domus per meglio osservarla. Le domus sono in realtà, come apprese in seguito, strutture sepolcrali prenuragiche scavate nella roccia. Comunque la vista di quella

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costruzione fece immediatamente scattare in lui la voglia di rivederla dall’interno e questo desiderio gli mise le ali ai piedi. Per cui, nonostante l’età, attraversato il campo sopra strada – d’estate sempre arido e spinoso e puntellato da vaste chiazze di verde intenso di lentisco e mirto – in poco tempo si ritrovò al cospetto della domus. Sono di casa I passi arrancano lungo l’irta salita con i pensieri al seguito. Attorno spazi solitari e chiazze di verde lentisco che vigilano le assolate e gialle radure. Il terreno è vestito d’arbusti secchi arsi dal sole e la cicala con il suo canto è l’unica sonorità irrispettosa d’un silenzio parlante. I miei passi sacrileghi ne arrestano il canto e senza il cicalio si avverte la sensazione di non essere solo ma occultamente osservato da tutte le parti. Anch’io osservo gli arbusti di mirto e di lentisco e gli olivastri silenti vigili sentinelle prima di arrivare alla domus de janas

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e passando e carezzandoli paiono personificati ed emanare vita. Mi sento parte di un mondo che sempre è stato lì vigile occulto riservato e presente ad aspettarmi nonostante sia passato oltre metà secolo dall’ultima visita come uno di casa. Sì uno di casa! Respiro forte e mi inebrio degli odori unici di questa terra. Sì, sono io! Sì, son tornato! Riesco ancora a salire nella domus de janas e giunto all’ingresso osservo la vallata mentre il cuore si immerge in un bagno d’amore e gli alberi tutti lambiti da lieve e soffice flusso solare par vogliano stringersi a me per salutarmi e trattenermi con benevolo e toccante fruscio. Ecco mi sento parte di tutto e da solo non solo.

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Entrato nella domus, Giorgio avvertì come un sussulto e rivolse un tacito intimo saluto. Fu come parlare con un alfabeto muto, anche perché le parole non sarebbero servite e non sarebbero riuscite a fotografare compiutamente l’evento o a descrivere l’intimo turbinio che tutto avvolgeva. In lui scattò il desiderio di toccare ovunque, di rendere tangibile questa sensazione di appartenenza e di ricongiungimento con il vissuto passato nonostante fosse trascorso tanto tempo. Si espressero così e interiormente si manifestarono gli intensi ricordi della propria esistenza custoditi nei meandri della più riposta memoria, come un prezioso incommensurabile tesoro. Dall’ingresso della domus de janas si può scorgere il fiume Tirso e le sue sponde corollate dal verde intenso della vegetazione. Mancava da molti anni, precisamente da cinquantanove anni, e gli occhi osservavano tutto con interesse constatando che nulla era sostanzialmente cambiato in oltre mezzo secolo. La domus e il paesaggio circostante apparentemente erano così come li aveva lasciati nel 1958 e come in molti momenti prima di addormentarsi gli erano sovvenuti, quasi a volerlo seguire per augurargli la buonanotte. Preso da questi ricordi, come a riassorbire e ripercorrere tutta la propria vita per una seconda volta, con un profondo respiro si sedette all’ingresso della domus, con la testa tra le mani. Chiusi gli occhi, iniziò a pensare e ripensare al tempo passato e a riviverlo intensamente in quell’istante quasi a volerlo completamente catturare, fissare, depositare e custodire in quella roccia neolitica oltre che nella cassaforte della memoria. Le abitudini, i fatti, le persone e le cose che ci hanno accompagnato per tanto tempo, una volta a contatto con nuove situazioni non possono – anche volendo, e non è questo il caso – far dimenticare completamente le vicissitudini del passato perché sedimentandosi entrano come in letargo; pronte però in ogni momento a ridestarsi in tutta la loro pienezza. È esattamente quanto avvenne dentro la domus de janas! Tutto ciò però non fu indolore. Di fronte alle situazioni nuove e inedite che la vita e i fatti gli avevano prospettato e che era stato necessario affrontare con una spinta verso il futuro che aveva teso come a emarginare il passato – sostenuto spesso da una pressante e sempre viva vena

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nostalgica nel cuore – aveva cercato di difendere e salvaguardare le cose (come si fosse trattato di persone care), le sensazioni, gli affetti che si era dovuto quasi con forza lasciare dietro di sé, depositate in un angolo della memoria. In molti casi i comportamenti e le abitudini consolidate del passato avevano già cercato di ripresentarsi e si erano trovate allora ad affrontare e interagire con il presente in situazioni nuove, il più delle volte esigendo risposte inedite e immediate. In tal modo si era trovato con nuove prospettive e attese, interrogativi, domande, risposte, esigenze e incognite; per cui il ricordo – così accumulato, articolato e conservato – spesso era risalito dal profondo, anche dopo molto tempo, nelle vesti di fedele e utile confidente. Soprattutto si era ritrovato con se stesso, come recita una poesia scritta in due lingue da Giorgio qualche anno prima. Tutto e niente Nottate intere ci accompagnano. Parlano del mondo parlano di noi. Indicano l’immensità dell’universo e della mente che tutto lo percorre alla ricerca del senso della vita che tutto assorbe dallo zero primordiale fino alla occulta profondità del niente e del tutto. Pieno e vuoto convivono.

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Tottu e nudda Nottisi intreas t’accumpangianta. Alleganta de su mundu alleganta de nosu Fainti biri s’immensidadi de s’universu i de sa conca che tottu d’attraversada cricchendu su sensu de sa vida che tottu pigada dae su zeru originariu fintzasa a sa cuada profondidadi de su nudda i de su tottu. Nudda e tottu bibinti imparisi.

Le storie degli avvicendamenti umani, del loro collegamento al periodo vissuto, del loro presente e futuro, dei mutamenti in atto, delle risposte date e da dare e delle domande sul senso della vita sono intimamente legate. Il tragitto di ognuno è però sempre un unicum. Giorgio, seduto come un abituale frequentatore all’ingresso della domus e con la testa appoggiata alla parete, usata come fosse la spalla di un amico, occhi semichiusi, in una situazione di silente riflessione, vedeva così svolgersi la pellicola del suo vissuto. Il primo fotogramma era una partenza dal paese, nel 1958, che vista con gli occhi di allora tanto sapeva di abbandono. La partenza da una realtà e da una quotidianità ritenute superate dagli eventi, portatori di nuovi interessi, era a quel tempo da tutti interpretata come inizio certo di un prospero futuro, quasi garantito; perché si riteneva che qualsiasi soluzione sarebbe stata comunque migliore di quella che rimaneva alle spalle.

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Ora però, nel 2017, dentro la domus de janas, Giorgio si sentiva nel suo e come avvolto, coccolato e protetto da una realtà viva e calda tutt’altro che desueta, impressa nell’animo e non espiantabile. Era come stare tra le braccia consolatrici dei suoi avi del Neolitico che avevano costruito quella struttura dove si era rifugiato e che mai aveva scordato. Nello scorrere mentalmente il susseguirsi degli avvenimenti gli parve quasi impossibile realizzare che fosse esistita allora, insieme alla speranza di un futuro migliore, una interiore battaglia tra il passato e il futuro; a sua volta destinato a diventare passato, da assommarsi a quello precedente. Era una sorda tenzone, combattuta fino in fondo, che metteva in gioco l’esistenza e l’esistente, che con il futuro dirompente pareva destinato a morire. Seguendo l’accavallarsi degli avvenimenti che si susseguivano nella testa di Giorgio, oramai reclinata e abbandonata per la stanchezza alla parete della domus, si intuisce e capisce il modo con cui avvengono e si concatenano – lungo il tempo, in un determinato contesto – i cambiamenti di vita, i modi di pensare e di agire, anche profondi e radicali, nelle persone e negli ambienti. Si formano e costruiscono successivamente nuovi modi, che però spesso stridono e cercano di soppiantare – invece di affiancare – l’esistente. Anche l’animo umano e il modo di pensare sono inglobati in questi cambiamenti, anzi ne sono contemporaneamente soggetti e protagonisti essenziali. Per cercare di rendere maggiormente comprensibile tutto ciò è sufficiente ritornare indietro nel passato e cercare, per grosse linee, di fotografarne e fissarne il contesto e di proporlo e narrarlo esattamente così come si è susseguito e composto nel ricordo-sogno che ora crogiolava nella mente di Giorgio; al riparo nella domus e in complice confidenza con essa. Il ricordo-sogno avvolge e trascina i fatti montando in sequenza gli istanti di questo o quel periodo della vita. La mente di Giorgio e l’ingresso nella domus de janas erano e fungevano, al riparo dal caldo torrido, da proiettore di quanto accaduto e richiamato alla memoria. Un film che si snodava nelle linee essenziali che maggiormente avevano coinvolto i soggetti di allora e Giorgio stesso. Il contesto del presente, sempre dominato dalla vigile presenza della vegetazione naturale e spontanea – come lentisco, more, mirto, olivastri, fichi d’India – rispetto a quello del momento della partenza a una attenta analisi era variato solamente nell’aspetto antropico: la mancanza di campi coltivati.

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La scomparsa di attività attorno alle quali ruotava il palpitare stesso del paese, delle strade, dei viottoli e tratturi di campagna in seguito all’inarrestabile emigrazione, aveva incorniciato un silente paesaggio limitando enormemente – in alcuni casi proprio espellendo – la presenza umana. Erano praticamente scomparsi, anzi irrimediabilmente estinti, gli attori del passato: agricoltori; allevatori e contadini nei campi; pescatori lungo il fiume e cacciatori tra le boscaglie alla ricerca di pernici, quaglie, conigli, cinghiali. Lo stesso allevamento degli animali domestici, che aveva contribuito a modificare in modo evidente il paesaggio naturale, era ormai dismesso fin quasi alla totale scomparsa. Lasciava ora intravedere e mostrare l’assenza dei segni dell’uomo, avvertibile soprattutto nei campi che parevano lì in oziosa e speranzosa attesa di ritornare come un tempo. Quello che una volta rientrava nella normale attività, per chi ne aveva l’età ora giaceva nei ricordi accartocciati di un passato socchiuso nel petto. Inutile cercare ora nel centro abitato calzolai, falegnami e sarti; mentre pian piano era andata a scomparire – per mancanza della materia prima, il grano, che si seminava e produceva – l’abitudine di fare il pane in casa, con la conseguente chiusura del mulino del paese. Era stata una trasformazione lenta, progressiva ma inesorabile e inarrestabile. I progetti impostati subito dopo la Guerra in molti paesi – fra cui, seppure lentamente, Fordongianus – nello sforzo di inseguire e adeguarsi al rinnovamento e al progresso, si sono lasciati alle spalle le macerie del passato e una tradizione ormai racchiusa nella stanza irripetibile della storia. Tutto questo è avvenuto lentamente, ma è andata proprio così. Oggi non si scorgono più campi coltivati né buoi, né asini; sui prati ormai silenti non si ode più lo scampanellare degli animali al pascolo. Strana fotografia quella odierna: esatta come mezzo secolo fa nella sua cornice naturale, ma completamente vuota nell’introspezione antropica; si avverte un vuoto pesante. Migrazioni e spopolamento sono stati due fenomeni connessi tra loro, che in Sardegna in paesi come Fordongianus hanno agito intaccando il precedente e usuale paesaggio: una storia ha sormontato l’altra. Il paesaggio a prima vista pareva immobile, fisso, e trasmetteva un senso di definito, di immutabilità che era l’aspetto più immediato. Ma soffermandosi bene e scrutando nel profondo si avvertiva che anche nella

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