Un viaggio lungo una vita. Racconti

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Marinella Cimarelli

Un viaggio lungo una vita Racconti


U

no spaccato sui misteri della vita, racchiuso in alcuni racconti a volte sconvolgenti. Storie originali che si intrecciano con punti oscuri e riflessioni che prendono spunto a volte dall’esperienza dell’Autrice, altre dalla sua fertile fantasia. Ogni atto, ogni gesto, è inesorabilmente soggetto alla Giustizia Divina. Il lettore intraprende questo viaggio con il bagaglio delle proprie conoscenze, ma arriverà al termine della lettura con nuovi spunti, come la certezza che nulla è scontato.

MARINELLA CIMARELLI nasce nel 1954 a Jesi. Ha dichiarato l’amore per la sua città con raccolte di poesie dialettali, saggi su storia e tradizioni locali e di recente con brevi rappresentazioni teatrali. Ha conseguito numerosi premi letterari e nel 2019 la menzione speciale al Premio Cumani. ISBN Esempio

€ 14,90


Auto da fé … Licenziando queste cronache ho l’impressione di buttarle nel fuoco e di liberarmene per sempre (E. Montale)


© Marinella Cimarelli, 2019 © FdBooks, 2019. Edizione 1.0 In copertina, disegni dell’Autrice.

ISBN 978-1707894543

L’edizione digitale di questo libro è disponibile su Amazon, Google Play e altri negozi online. Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore, è vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.


Marinella Cimarelli

Un viaggio lungo una vita Racconti



Alla mia famiglia e a mio padre, per quell’amore incondizionato e quella dedizione, unite da un legame indissolubile ad impronta Divina.



Marinella Cimarelli

Un viaggio lungo una vita Racconti



I segreti del convento

I

l chiosco brulicava di piccoli esseri minuscoli che, visti dall’alto, sembravano allegri pinguini. Vestite di bianco e nero le monache ricevevano le visite dei parenti e accoglievano turisti desiderosi di sperimentare i ritiri spirituali e immergersi in un clima di quiete assoluta, lontano dal mondo. Si era ai primi di agosto, un’aria calda da togliere il fiato, il cielo soffuso di quella rara foschia carica di umidità che preannuncia la pioggia. Sotto il loggiato l’ombra perenne dava un po’ di ristoro, le aiuole coltivate con cura odoravano di erba fresca e le rose erano sbocciate grazie all’acqua del pozzo al centro del convento, che permetteva alle operose suore di annaffiare ogni giorno abbondantemente.


Suor Chiara aveva solo vent’anni e si trovava in quel luogo nascosto agli occhi del mondo perché era il suo rifugio, l’ultimo approdo di un’esistenza ricca di agi sotto il profilo economico, ma povera di affetti. Sua madre l’aveva abbandonata alla nascita, oramai ne aveva la conferma: era iscritta all’elenco dei trovatelli di un arido registro riservato, cui aveva avuto accesso dopo aver inoltrato ripetute richieste. Per lei un tempo infinito durante il quale a sostenerla erano – come di consueto in queste situazioni – la curiosità di sapere perché era stata adottata e l’illusione che forse avrebbe ritrovato la sua vera madre. I genitori adottivi le avevano nascosto la verità per paura di perderla. Il loro non era stato vero amore ma un attaccamento morboso alla donna che sarebbe dovuta diventare il bastone della loro vecchiaia, la spalla su cui piangere e lamentarsi, il capro espiatorio degli errori che avrebbero commesso senza nemmeno accorgersi. Erano persone prive di cultura, caratterizzate da una mentalità ristretta e un’educazione severa; gente piena di denaro che esibiva sfacciatamente uno stile di vita ricco di simboli del successo: la macchina ultimo modello; gli abiti alla moda; la tappezzeria del

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divano e delle poltrone sostituiti al primo accenno di logorio; i tendaggi e le tinteggiature alle pareti spesso rinnovati. La madre badessa dell’orfanotrofio aveva accolto di buon grado l’istanza della coppia che aveva chiesto di adottare la bambina; sembrava gente così perbene, avevano persino elargito un lauto compenso al convento per acquistare nuove culle e nuovi lettini. E di culle e di lettini ne erano usciti anche in avanzo. L’avevano chiamata Diletta e già prima che fosse uscita dal convento avevano preteso che la piccola fosse cambiata e indossasse di quei preziosi vestitini cuciti a mano da un’abile sarta fatti di pizzi e trini, fiocchi e balze; sulla testina una cuffia color rosa pallido circondava il volto di quel fagottino di appena pochi giorni. La madre badessa, prima di congedarli, aveva consegnato ai genitori adottivi un piccolo pacco dicendo: «Prendete, è tutto ciò che resta alla neonata, l’unico ricordo del suo passato» e aveva mostrato lo scarno contenuto, un piccolo lembo di stoffa scolorita e consunta dagli anni, un tessuto di seta pura damascata color verde con le rifiniture solo da un lato, poiché la stoffa era stata strappata. Lungo il tratto di tessuto ancora intatto

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era cucito un pizzo lavorato all’uncinetto dal quale pendevano piccoli mappi di colore giallo e quasi nascosta compariva la scritta: Made in Japan. La nuova madre della piccola aveva guardato quella stoffa con aria di sufficienza, quasi seccata, ma si era sforzata di non darlo a vedere e allontanandosi aveva rimuginato tra sé: «Mia figlia non vedrà mai questa stoffa e mai saprà di essere stata adottata!». Aveva appreso la verità un giorno di primavera a scuola quando le amiche, riunite in un angolo del giardino antistante l’edificio, sembravano scambiarsi segreti indicibili osservandola a intervalli regolari. Con coraggio si era avvicinata e aveva chiesto cos’era che non dovesse sentire, visto che il gruppo festante dell’ora di merenda – di cui aveva sempre fatto parte – quel giorno sembrava evitarla. Così era accaduto che una di loro aveva parlato e quelle parole l’avevano ferita come lame taglienti: «Le persone che tu chiami papà e mamma non sono in realtà i tuoi veri genitori, sei stata adottata! Mia madre lo sa bene, non mi racconterebbe mai certe fandonie se non ne fosse sicura». La verità era venuta a galla in tutta la sua crudezza.

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Sua madre, appena adolescente, era rimasta incinta. L’aveva partorita da sola con grande dolore e un lunghissimo travaglio e dopo aver attraversato i campi di notte l’aveva abbandonata lungo i margini di un fosso. Era riuscita così a disfarsi della prova del peccato, certa com’era che la sua famiglia – cui fino a quel momento era riuscita a nascondere la gravidanza – l’avrebbe cacciata di casa e la società giudicata per sempre come una reietta. Senza rimorsi, senza sospettare che la sua mente fosse malata e compromessa dai lunghi mesi di gravidanza sopportata a stento e a lungo odiata, l’aveva abbandonata così, nella speranza che morisse. Era stata una contadina intenta a ripulire il fosso dagli arbusti a ritrovarla dopo aver udito un debole suono a intervalli, un misto tra il vagito e il pianto. L’aveva subito raccolta, rivestita e consegnata al più vicino monastero posandola sulla ruota dei trovatelli, nella certezza che qualcuno si sarebbe preso cura di lei. Sconvolta, ferita, offesa, quasi sentendosi derisa, appena giunta a casa Diletta aveva chiesto ai genitori quale fosse la verità ed essi insistentemente avevano negato ogni cosa. Erano trascorse ore di grande apprensione per loro e di disperazione per Diletta, la quale aveva deciso che per

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punirli delle loro luride menzogne appena avesse potuto se ne sarebbe andata via per sempre da quella casa. Raggiunta la maggiore età aveva messo in pratica la sua decisione, non sarebbe certo stato il loro amore egoista a trattenerla, né il senso di colpa. Convinta di aver preso la scelta giusta, fermamente decisa ad abbandonarli al loro destino e di seguire la propria strada, un bel giorno aveva lasciato casa portando con sé quattro stracci e sbattendo la porta. Nel convento dove aveva scelto di rifugiarsi per restare lontana dal mondo, per cercare di sanare le sue ferite e per avere tutto il tempo necessario a riflettere sulle vicissitudini che le avevano segnato l’esistenza. Le monache l’avevano accolta bene sin da subito poiché, seppure tendenzialmente timida e introversa, riusciva a trasformare l’espressione del volto illuminandosi tutto d’un tratto, tanto da apparire trasparente e pura, un’anima senza segreti. La Superiora aveva parlato a lungo con lei cercando di scandagliarne a fondo la personalità, coglierne le emozioni, carpirne i sentimenti, ma era molto restia a confidarsi, dentro di sé avvertiva una sorta di diffidenza, d’altronde la prima ad averle inculcato il principio che fidarsi

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degli altri non era cosa saggia era stata proprio la madre adottiva. Alla solenne cerimonia dei voti la Superiora, affezionatasi profondamente a lei, aveva voluto vestirla di persona calzandole quegli abiti dal colore smunto che tanto erano distanti da quelli indossati da Diletta nella vita di tutti i giorni: la tonaca, il velo, la cocolla e lo scapolare; simboli della sottomissione alla volontà di Dio, della povertà e dell’umiltà. Quanto al nome da suora, Diletta aveva scelto di chiamarsi Chiara come la sua amica d’infanzia, la più cara e affezionata, quella con cui aveva condiviso per anni i giochi e l’allegria, l’unica che l’aveva capita lasciandola piangere a lungo sulla propria spalla nei momenti di maggiore sconforto. Per lei iniziava una nuova vita, finalmente aveva la possibilità di studiare e non limitarsi ad apprendere l’arte del cucire, cucinare, lavare, stirare e riassettare la casa come volevano i suoi, intenti a tirar su la “donnetta di casa” destinata al ruolo obbligato di moglie e madre. Ora era libera e non si sentiva certo reclusa fra quelle pareti spoglie, così come entro i muri della sua celletta; d’altronde era abituata che i genitori non la lasciavano uscire molto di rado, non le facevano frequentare le amicizie più care e non

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acconsentivano che conducesse una vita al pari delle sue coetanee, che lei invidiava. Aveva scelto d’intraprendere gli studi di scienze naturali, si sentiva attratta dalle numerose varietà di erbe che le consorelle coltivavano nel piccolo fazzoletto di terra retrostante il convento, il posto più soleggiato, e si era dedicata con grande abilità alla coltivazione delle erbe officinali mostrando una particolare dedizione per una pianta altamente tossica: la cicuta virosa, nota per le sue indicazioni calmanti. Dai libri aveva appreso che le proprietà medicamentose della cicuta, così come quelle tossiche, erano già note da secoli; era una pianta usata come narcotico, antispasmodico, antitetanico e antirabbico. Gli Ippocratici la usavano sia per via esterna che per via interna, i Greci preparavano con i frutti immaturi il veleno da somministrare ai condannati a morte. La componente più nociva di questa pianta era la conilina, un alcaloide attivo – soprattutto nella cicuta maggiore – che agisce sulle sinapsi neuromuscolari. Le suore la utilizzavano sottoforma di tisana, in minima quantità, a scopo curativo e lenitivo per trattare in particolare il dolore nelle consorelle più anziane.

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Suor Chiara accudiva amorevolmente suor Concetta, la più avanti negli anni di tutta la comunità, molto malata e piena di acciacchi; ogni sera era solita recarsi al suo capezzale per somministrarle la bevanda, che si premurava di dolcificare con abbondante miele di api. «Bevi suor Concetta, vedrai che tra un po’ ti sentirai meglio e potrai riposare…». Le leggeva poi dei passi delle Sacre scritture presi a caso dalla voluminosa Bibbia sul comodino, ma tornava sempre su ciò che suor Concetta amava tanto ascoltare: il Cantico dei cantici. Ogni volta suor Chiara provava la stessa sensazione quando apriva quel libro dalla copertina indurita dal tempo, lucidato nei punti in cui le dita lo avevano levigato, riportante un’elegante scritta placcata in oro: La Sacra Bibbia. In quel testo ritrovava tutte le cose già accadute nel mondo, gli uomini e le donne conosciuti, i suoi genitori adottivi, persino sua madre… Leggeva e rileggeva fino a che l’anziana donna non si addormentava, solo allora lei si allontanava stanca per ritornare nella sua celletta, ove continuava a leggere e pregare sino a tarda notte. Aveva imparato a recitare a memoria molti passi, mostrando predilezione per il secondo poema del Cantico dei Cantici:

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I fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna.

Trascorsero i mesi e le stagioni cambiavano. Un mattino fresco di ottobre giunse al convento un gruppo di fedeli di una lontana città, in testa il parroco che dopo i necessari convenevoli si era messo a discutere con la Superiora sulla sistemazione da dare ai seguaci, pronti a frequentare gli esercizi spirituali. Tra di essi vi era una donna di circa trentotto anni che suor Chiara aveva notato subito per gli abiti sgargianti, i capelli arruffati di un biondo finto ben riconoscibile anche a distanza e l’espressione noncurante del mondo circostante, come di chi si reca in quei luoghi “tanto per fare un’esperienza diversa” mentre in cuor suo è lì perché tutto sommato se non fa bene, non farà neanche male. Era rimasta sconcertata, si chiedeva come avesse fatto quella donna così diversa a inserirsi in un gruppo di persone all’apparenza tanto devote e composte. Al momento restava un mistero che nei giorni a venire si era ripromessa di scoprire, tanto la curiosità si era impadronita di lei.

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I giorni passarono puntuali seguendo alle notti, comparivano e scomparivano le albe e i tramonti, si alternavano il sole e la pioggia. Fra vespri e lodi al Signore, litanie e ritiri spirituali, la signora mostrava sempre la stessa indifferenza: se ne stava immobile per ore seduta sulla panchina, lo sguardo fisso al ritratto di una Madonna con Bambino dipinto nel muro del loggiato, apparentemente insensibile a ciò che le succedeva intorno. Che strana donna era costei, chissà quale passato aveva alle spalle. Qualcosa la scostava da lei, una sorta di disprezzo inconscio, una repulsione istintiva e spontanea ma al contempo si sentiva fortemente attratta senza riuscire a darsi una spiegazione quando la donna rispondeva con gentilezza alle numerose domande che le rivolgeva ogni tanto, rompendo l’incanto della sua solitudine. In certi tratti del volto, in alcune espressioni del viso e gesti delle mani, rivedeva lei stessa; era curioso perché suor Chiara era certa loro due al confronto erano come l’alfa e l’omega, lo Zenit e il Nadir. La conferma che invece si somigliassero davvero in qualcosa l’aveva avuta il giorno che la donna, di nome Adele, si era tolta le scarpe seduta sulla panchina del loggiato, intenta a lamentarsi per quanto

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dolore aveva ai piedi: erano orribilmente deformi, la donna era piena di artrosi nonostante non avesse un’età avanzata. Suor Chiara si era proposta subito di aiutarla, sapeva di poterle praticarle dei massaggi con i suoi unguenti benefici e alla domanda se il gesto fosse stato benaccetto la donna aveva acconsentito, sorridendo con gratitudine. Non appena aveva accolto sulle ginocchia il piede sinistro, poggiandolo sulla tonaca, suor Chiara aveva notato una distanza rilevante tra il mignolo e le altre dita, qualcosa di ridicolo se non le avesse già notate ai suoi stessi piedi provando il medesimo disgusto. Avevano i piedi identici, persino le unghie larghe e appiattite; a Chiara sembravano ridicole e sgraziate ma erano del tutto simili alle sue! Tutto iniziava a svolgersi in un lampo nella sua mente, offuscata da mille pensieri. La confusione era massima, troppe le domande, ma non un filo di voce sortì per chiedere qualcosa, nemmeno un bicchiere d’acqua del quale avrebbe avuto tanto bisogno. Le tempie pulsavano con violenza, il cuore aveva accelerato i battiti, le sembrava che la testa scoppiasse. Trovata una scusa banale si allontanò recandosi nell’ufficio della Superiora, chiedendole di intrattenere con una scusa qualsiasi la signora Adele il più tempo possibile.

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