Se apri gli occhi

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BIANCA NOBEL

Se apri gli occhi


G

iuliana sogna di sposare Erik Preston, cantante dei Missing in the dark. Conduce una vita monotona, stretta fra la famiglia e un fidanzato arrogante, ma uno strano sogno e un po’ di follia la conducono a Londra dal grande amore della sua vita. Non sarà facile per lei conquistare un uomo dal cuore distrutto, che non si fida più di nessuno e che è l’idolo di milioni di fan.

BIANCA NOBEL vive in una piccola città della Sicilia con il marito e i figli. Da qualche anno si è trasferita in campagna lontano dal caos cittadino. Ama molto gli animali, ha adottato due cani e un gatto. È appassionata di storie d’amore e di musica, i Duran Duran sono il suo gruppo preferito in assoluto. Questo è il suo romanzo d’esordio.

€ 13,90


Auto da fé … Licenziando queste cronache ho l’impressione di buttarle nel fuoco e di liberarmene per sempre (E. Montale)


© Bianca Nobel, 2019 © FdBooks, 2019. Edizione 1.0 L’edizione digitale di questo libro è disponibile online in formato .mobi su Amazon e in formato .epub su Google Play e altri store online.

In copertina: Illustrazione a cura di © Carmen Ebanista. ISBN 978-1796375053

Questo libro è un’opera di narrativa. Nomi, personaggi, luoghi, eventi e circostanze sono frutto dell’immaginazione dell’Autrice. Ogni analogia con persone realmente esistite, con eventi e ambienti reali, è da considerarsi puramente casuale. Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore è vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.


BIANCA NOBEL Bianca Nobel

Se apri gli occhi Se apri gli occhi Eventuale sottotitolo



A mio marito, ai miei figli, a Charlie.


Say the word if your eyes are open It's time we tried. Say the word before this love is broken. Arcadia, Say the word, 1986


Capitolo i

E

cco l’amore della mia vita! L’amore della mia vita… Da quanto tempo e quante volte avevo ripetuto queste parole, tantissime volte, migliaia forse. Da anni certamente… Non c’era niente di più sicuro nella mia vita del mio amore per lui, era l’unica certezza che avevo. Tutto il resto per me era come sospeso in aria. La mia vita era racchiusa in un’enorme bolla che vagava solitaria senza meta, trasportata via dai venti che per forza maggiore continuavano a trascinarmi lontano da ciò che più desideravo lasciandomi con pochissime certezze, tanti sogni e deludenti realtà, continuando a fluttuare avanti e indietro, su e giù, in attesa di atterrare nel posto giusto al momento giusto. Sapevo dov’era il posto giusto, ce l’avevo proprio lì davanti a pochi passi, a Richmond, in una via di Londra lontana migliaia di chilometri dalla mia casa in Sicilia. Era il momento giusto il problema, quello che mi fregava e che mi faceva vivere nell’incertezza, perché non avevo idea se sarebbe mai arrivato. Aspettavo e speravo. Speravo e aspettavo. Sembrava non facessi altro nella vita. Avevo atteso per anni l’approvazione dei miei genitori arrivando molto vicino a ottenerla e mi era mancato tanto così, ma niente, avevo fallito. Di nuovo. Non ero certo la prima persona a non avere un buon rapporto con i propri genitori e non sarei stata neanche l’ultima. Là fuori c’era un mondo di gente che per qualche motivo aveva interrotto i rapporti con la propria famiglia. Ero una tra le tante, lo sapevo bene; ma se da un lato mi consolava quel tanto per non sentirmi l’unica sfigata,


dall’altro non mi impediva di provare una profonda e dolorosa invidia ogni volta che mi imbattevo in qualche famiglia unita o incrociavo ragazze che andavano a fare shopping con la propria mamma. Mia madre non era mai venuta con me. Lei era sempre troppo occupata per dedicarsi a me e si giustificava dicendo che tanto non avevamo gli stessi gusti e che non avrei seguito i suoi consigli, quindi sarebbe stata una perdita di tempo. Penso che non abbia mai capito quanto mi ferissero le sue parole e quanto invidiassi il tempo che invece riusciva a trovare per mia sorella. Per lei c’era sempre. Erano molto simili di carattere e nei gusti e uscivano spesso insieme, mentre io venivo esclusa. Ero quella che veniva sempre lasciata indietro; prima perché ero troppo piccola, poi perché loro erano troppo diverse da me. Non mi avevano mai dato la possibilità di inserirmi nel loro piccolo e ristretto cerchio, facendomi capire chiaramente che per me non c’era posto. Quand’ero più piccola mi chiedevo come si potesse arrivare al punto di non guardare più in faccia i propri genitori, tua mamma e tuo papà. Mi stupivo quando venivo a sapere di persone che litigavano a tal punto da non andarli più a trovare. Ora lo sapevo, ero diventata una di loro, una figlia che non parla con i genitori da anni. Purtroppo avevo provato sulla mia pelle che situazioni del genere accadono con molta più facilità di quanto ci si possa immaginare, soprattutto quando è tuo padre a dirti che non vuole vederti più. E dopo aver subito per anni accuse e rimproveri ingiusti, è la frase che ti fa dire basta. È una cosa brutta, molto brutta, che non dovrebbe mai accadere, eppure eccomi qua ad aumentare la percentuale degli “esclusi”, di quelli che stanno “dall’altra parte della famiglia”. Comunque a un certo punto ci si deve rassegnare, accettare la situazione e imparare a conviverci. Così mi ero rassegnata, e avevo smesso di sperare. Che senso ha sperare in qualcosa se si ha la certezza che non accadrà mai? Continuare a insistere sarebbe stato soltanto peggio per me, mi sarei fatta male un’altra volta, non mi ero forse danneggiata già abbastanza? Avevo imparato la lezione. Continuare a sbattere la testa contro un muro di cemento armato non sarebbe servito a romperlo, ma solo a procurarmi un’emorragia cerebrale; in senso figurato certo ma altrettanto dannosa e permanente.

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Ci sono cose che non si possono cambiare. Adesso lo sapevo. E in qualche modo me ne ero fatta una ragione. La mia famiglia non sarebbe mai cambiata; io non ero riuscita a cambiare loro e loro non erano riusciti a cambiare me. C’erano stati momenti in cui avevo desiderato tanto essere diversa da ciò che ero; per suscitare negli occhi di mia madre lo stesso sguardo che riservava solo a mia sorella, per poter leggere nei suoi occhi l’orgoglio, la stima, l’amore: tutte cose che a me erano state precluse. Era stato inutile: eravamo come il Polo Nord e il Polo Sud; due persone agli antipodi della Terra, con immensi oceani e ghiacciai a dividerci. I nostri punti di vista, la nostra visione della vita, delle persone e del mondo, erano talmente differenti da renderci quasi due estranee. Non riuscivamo quasi mai a trovare un punto di incontro, qualcosa che andasse bene a tutt’e due; ognuna restava ferma sulle proprie decisioni e difficilmente qualcuno riusciva a smuoverci. Forse eravamo più simili di quanto immaginassi, e sicuramente più di quanto gradissi, ma ciò lasciava pochissimo da spartirci: praticamente nulla. Ciò che lei avrebbe voluto da me era che le lasciassi controllare la mia vita, seguire le scelte che lei riteneva giuste per me senza discutere. Come mi dovevo vestire, con chi dovevo uscire, chi dovevo amare; come se alla nascita mi avessero fornito un interruttore con su scritto “on-off” da usare nei momenti opportuni, quelli che lei riteneva opportuni. Posizionare l’interruttore su “off” se secondo i suoi standard non c’era nessuno di appropriato per me all’orizzonte; se c’era invece metterlo su “on” e innamorarmi all’istante della persona giusta per me. Ma non era così che funzionava, non per me almeno. Forse quando ero nata in ospedale erano a corto di quel genere di interruttori e così mi avevano lasciato senza. A mia sorella invece dovevano averne messo uno perfettamente funzionante. Ecco qual era la ricetta giusta per andare d’accordo. Dire sì, sì e sempre sì. Io dicevo no, no e sempre no. Risultato? Ero considerata la pecora nera della famiglia, quella che non ne faceva mai una giusta, cattiva, egoista, superficiale e dal cuore di pietra. Mia sorella, che aveva seguito la “ricetta” a dovere, era diventa l’esempio da seguire, oggetto di orgoglio e fierezza, la degna figlia di mia madre. «Perché non riesce ad amarmi per quella che sono?» continuavo a chiedermi. Forse aveva ragione lei ed ero io la sola responsabile di tutto ciò.

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Mi faceva stare male ammetterlo. Mia madre era convinta che il mio darle contro fosse una cosa calcolata e voluta, un gesto di ripicca nei suoi confronti, una ribellione, e che rifiutavo i suoi “saggi consigli” per partito preso, non perché non li ritenevo giusti per me. Ecco cosa pensava di me: che fossi “cattiva con lei” – erano queste le sue parole – per scelta, e che mi divertissi a farlo. Come se litigare con lei potesse rendermi felice. Ma per chi mi aveva presa? Come poteva pensare che questa situazione mi andasse bene? Aveva un’opinione talmente bassa di me da pensare che mi facesse piacere farmi odiare dalla mia famiglia? Io non mi alzavo la mattina con il proposito di litigare con lei, non avrei potuto, ci soffrivo troppo. Non ero così, non ero come lei pensava! Fingevo che la cosa non mi ferisse, che non me ne importasse nulla, e per la maggior parte del tempo riuscivo a convincere me stessa che andasse bene così. Ma poi in certi momenti, quando meno me lo aspettavo, tutta l’amarezza, la delusione, gli inutili tentativi – ed erano stati veramente tanti – venivano a galla e mi schiacciavano il petto quasi impedendomi di respirare. A volte mi lasciavo travolgere dalla rabbia e dal rancore, incolpandoli per non essere riusciti ad amarmi come sarebbe stato loro dovere; altre volte invece nei periodi in cui mi sentivo sola e depressa l’unico rimedio per alleviare il peso che avevo nel cuore era lasciarmi andare e lasciare uscire tutto il dolore, i rifiuti subiti, le delusioni, le umiliazioni, la gelosia, il rancore… E le lacrime trattenute all’improvviso sgorgavano fuori, inarrestabili, come un fiume in piena, fino a che non ne restavano più. Solo allora tornava la calma. Ritornavo a essere la vera me stessa, la vera Giuliana, che non aveva bisogno di loro e che se ne fregava di ciò che pensavano, della loro perenne disapprovazione, ed era felice di vivere all’ombra della sua perfettissima sorella, perché era lei a essere succuba dei genitori. Lei era la cocca di mamma e papà ed era convinta di essere al di sopra di me non di uno, ma di mille gradini nel loro cuore! Credeva di avere tutto, ma si sbagliava. Loro controllavano la sua vita e prendevano decisioni al posto suo, mentre io ero libera. Libera di fare le mie scelte, di sbagliare, di vivere la mia vita come meglio credevo. Forse non lo avrebbe mai capito: ero io a essere al di sopra di lei e non il contrario. Ai miei occhi, il prezzo che mia sorella Carola aveva pagato e che stava tutt’ora pagando era troppo alto. Io avevo

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desiderato davvero tanto farli contenti, ma non al punto di sposare un uomo che non amavo solo per sentirmi parte di una famiglia che in fin dei conti non aveva mai tenuto in considerazione i miei sentimenti. PerchÊ insistere allora? Stavo per fare quell’errore, ma grazie al cielo ero rinsavita in tempo ed ero riuscita a evitare di commettere quello che sarebbe stato lo sbaglio piÚ grande della mia vita. Ed era stato proprio Erik, l’uomo che stavo guardando in quel momento, anche se inconsapevole di averlo fatto, a farmi aprire gli occhi e a spingermi a prendere la decisione giusta. Lui non lo sapeva ma mi aveva salvato, aveva cambiato la mia vita.

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Capitolo ii

A

desso aspettavo, o più realisticamente speravo, che Erik si accorgesse di me. Cosa non facile a dire il vero, ma che altro potevo fare se non sognare con tutte le mie forze che si innamorasse di me? Certo che con tanti uomini sulla Terra mi ero innamorata proprio di uno che probabilmente non mi vedeva neanche come una donna e che non mi avrebbe mai preso in considerazione semmai avesse deciso di rifarsi una vita. Situazioni senza speranza che proprio mi andavo a cercare! Avrei potuto rivolgere altrove le mie attenzioni, ne conoscevo di ragazzi carini con cui ero uscita qualche volta e che mi avevano fatto capire chiaramente di essere attratti da me, ma avrebbe significato accontentarsi perché il mio cuore era già impegnato e per una volta tanto non mi sarei rassegnata, anche se ero consapevole di rischiare che andasse in frantumi. Non mi sarei arresa tanto facilmente. Ero ottimista, di natura convinta che le cose belle possono sempre accadere anche quando sembra che non ci sia più speranza. Nonostante tutti i problemi avuti con la mia famiglia, mi ritenevo una ragazza fortunata perché ero riuscita a districarmi da una situazione in cui credevo di non avere via d’uscita e ora mi ritrovavo a fare parte della vita dell’uomo di cui ero innamorata da anni. L’unica cosa che adesso mi mancava era che Erik ricambiasse i miei sentimenti. Questa era la parte difficile. Qui il mio ottimismo vacillava, sovrastato dalla vocina dentro di me, quella pessimista, che mi riportava con i piedi per terra… sotto terra.


«Erik che si innamora di me?!». Una cosa da niente, «Davvero semplice» mi rispondevo da sola con ironia, «E che ci vuole?». Stava per scapparmi una risata isterica, di quelle che anticipano un pianto isterico, ma per fortuna riuscii a trattenermi. Mi guardai intorno, c’era parecchia gente nel bar e qualcuno avrebbe potuto prendermi per pazza. Inoltre non ci tenevo affatto a farmi notare, anzi volevo passare il più possibile inosservata. Comunque ero abbastanza realista da rendermi conto che solo con l’aiuto di un miracolo avrei avuto speranza di riuscire nel mio intento. Ma non mi arrendevo mica! Ero abituata ad aspettare e non avrei mollato tanto facilmente; sarei riuscita a farmi amare da Erik prima o poi. Sarebbe stato bello poter proclamare ad alta voce ciò che provavo per lui. Al solo pensarci mi sentivo già meglio, mi ritornava il buonumore e mi veniva una pazza voglia di uscire dal bar, attraversare la strada e dirgli in faccia ciò che mi passava per la testa. Santo cielo però, stavo diventando matta! O forse lo ero già? Dal giorno in cui avevo messo piede a Londra avevo smesso di ragionare, anche prima probabilmente, quando mi era venuta la folle idea di affrontare quel viaggio con l’unica speranza di conoscerlo. Chissà se la mia era davvero pazzia. Mi sarei dovuta preoccupare? In effetti stavo spesso con la testa tra le nuvole, quando pensavo a Erik soprattutto, il che avveniva per la maggior parte della giornata e a volte anche di notte, quando mi capitava di sognarlo. Sogni davvero strani, senza senso, che forse una persona normale non farebbe mai. Ma ne facevo anche di normali, bellissimi, in cui lui mi baciava con passione, mi teneva stretta a sé e io mi sentivo in paradiso. Erano i sogni che preferivo e che mi facevano svegliare felice, molto felice. Quelli a occhi aperti poi, scatenavano la mia più fervida immaginazione; dai momenti più dolci e romantici a quelli bollenti e passionali, da rasentare quasi il porno, e che mi distraevano non poco! Praticamente con la testa non ci stavo mai. I miei genitori pensavano che fossi strana, troppo sognatrice, troppo ottimista. Non mi avevano mai capito granché; loro erano molto più seri, musoni, pessimisti, criticavano ogni cosa, pensavano male di tutti e vedevano il mondo in bianco e nero. Il mio invece era di mille colori. A me piaceva ridere, scherzare, chiacchierare, cantare ad alta voce, ascoltare musica a tutto volume,

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commuovermi per un film, un libro o una canzone. Proprio l’esatto contrario insomma, e questo ci poneva all’interno di due diverse dimensioni. Secondo loro la colpa era della cattiva influenza di zia Marta (sorella maggiore di mia madre ma completamente diversa da lei, soprattutto nel carattere, e l’unica della famiglia con cui andassi d’accordo) e di tutti i libri che leggevo. Adoravo leggere. Leggevo tanto, sempre. Ne sentivo il bisogno, soprattutto quando stavo ancora a casa con i miei genitori, perché così avevo la possibilità di estraniarmi dalla loro continua disapprovazione. Mi stendevo con la schiena appoggiata alla testiera del letto, in pigiama, plaid sulle gambe, e mi immergevo nella lettura. A volte quando un libro era particolarmente bello e coinvolgente finivo per fare le ore piccole, anche fino alle quattro del mattino; però poi la mancanza di sonno durante la giornata si faceva sentire, ma non mi importava. Leggere mi faceva stare bene, alla fine di ogni libro mi sentivo felice, come se avessi aggiunto qualcosa in più al bagaglio della mia vita. Ogni libro mi lasciava un sentimento, un’emozione diversa, soprattutto se erano delle storie a lieto fine. I miei preferiti naturalmente, erano i romanzi d’amore… Il cavaliere d’inverno di Paullina Simons era uno dei miei prediletti, lo avevo letto un sacco di volte e in ogni occasione mi immergevo completamente nella vita dei due protagonisti Alexander e Tatiana soffrendo, piangendo e ridendo con loro. Un libro davvero splendido. Adoravo anche la saga di Twilight, il personaggio di Edward soprattutto. Avevo divorato i quattro libri a tempo di record, per poi rileggerli tutti da capo, e visto e rivisto i film tantissime volte! Anche la trilogia di Cinquanta sfumature di grigio, nonostante tutte le critiche negative, mi era piaciuto; il tormento interiore di Christian e l’amore incondizionato di Anastasia mi avevano fatto diventare gli occhi a forma di cuore. E poi Cime tempestose… lo sapevo quasi a memoria, l’amore tormentato di Heathcliff e le sue sofferenze, mi facevano stare male solo a pensarci. Poverino, che pena mi faceva. Già, io tifavo proprio per il cattivo della storia: cattivo, crudele, egoista ma ferito nel profondo. Ero stata molto criticata per aver espresso ad alta voce questo mio pensiero una volta. Una delle mie colleghe mi aveva guardato in modo strano, chiedendomi se mi rendevo conto che Heathcliff era il cattivo, quello malvagio. Boh! Ma chi se ne fregava di ciò che pensava lei?

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Non credevo proprio di essere l’unica a pensarla così, ma per solidarietà collettiva o per paura di essere giudicati nessuno lo ammetteva; almeno io avevo avuto il coraggio di dirlo. Tutti a fare i moralisti e a schierarsi per dovere dalla parte di Linton, quello buono, che poi tanto buono non era e aveva la sua parte di torto. Non diamo tutta la colpa ad Heathcliff, per favore, è quello che ha sofferto di più! Chi al posto suo non si sarebbe vendicato per il male subito? Aveva esagerato, certo, ma l’odio e la disperazione lo avevano completamente accecato e io continuavo a preferirlo a Linton. Quando una volta ne avevo parlato con Erik, esprimendogli la mia opinione, mi aveva guardato con sorpresa; aveva spalancato i suoi magnifici occhi blu e mentre io ero rimasta senza fiato, lui era scoppiato a ridere dicendomi che ero un po’ fuori dal normale. Tutto qui, non mi aveva né giudicata né criticata. Anche Erik adorava leggere, in casa sua c’erano pareti piene di libri di tutti i generi, che spesso gli servivano come ispirazione per il suo lavoro. Erik, Erik, sempre e solo Erik… Accidenti! Pensavo e ripensavo le solite cose perché mi sentivo più sola che mai, costretta a stargli lontano; quando di norma accanto a lui dimenticavo tutto. Mi mancava così tanto! Ed ecco come mi ero ridotta: a spiarlo di nascosto, come un ammiratrice che aspetta il momento buono per saltargli addosso! Era possibile ridursi peggio di così? Non sapevo dirlo, ma speravo davvero di no. Continuavo a rimuginare mentre lo guardavo uscire di casa dall’altra parte della strada. Sapevo di essere patetica, ne ero pienamente consapevole, ma questo non cambiava che me ne stessi lì a spiarlo come avevo preso l’abitudine di fare negli ultimi giorni. Ero seduta a un tavolo all’interno del bar quasi di fronte casa sua (vicino alla vetrata, ben attenta a non farmi vedere), non sapevo da quanto tempo, 15-20 minuti forse, non ne ero sicura. Aveva importanza forse? Perdevo la cognizione del tempo e di qualunque altra cosa, incluso il buon senso, per non parlare della mia dignità, che finiva chissà dove – sotto le suole delle mie scarpe probabilmente – quando si trattava di lui.

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Erik Preston, era lui l’amore della mia vita. Guardarlo mi riempiva di gioia ed era una vera goduria per gli occhi: alto quasi un metro e novanta – 1, 87 per la precisione, ben 27 centimetri più di me – capelli castani corti scompigliati ad arte, barba incolta di qualche giorno. Io lo preferivo rasato di fresco, ma anche così, se ne avessi avuto la possibilità, lo avrei baciato fino a rimanere senza fiato. Indossava jeans neri tagliati al ginocchio, scarpe da ginnastica bianche e maglietta blu con una scritta che da dove ero seduta non riuscivo a decifrare; lui però riuscivo a vederlo benissimo. Non potevo vedere i suoi occhi perché indossava gli occhiali da sole, ma sapevo bene che erano blu scuro, bellissimi e così profondi che quando mi fissavano, mi ci perdevo dentro. Aveva un fisico asciutto e muscoloso dovuto a tutto lo sport che faceva. Nella dependance in giardino, dietro casa, aveva un palestra completa di tutti gli attrezzi necessari per tenersi in forma e in più giocava a tennis. Non aveva la classica tartaruga sugli addominali, ma aveva il ventre piatto e non c’era un filo di grasso in eccesso in tutto il suo corpo. Sospirai… Il sole illuminava i suoi capelli rendendoli quasi biondi. Era meraviglioso. Sembrava un angelo mandato dal cielo per sconvolgere la vita di noi comuni mortali, soprattutto la mia. Perché era questo che aveva fatto: aveva capovolto il mio mondo, tutta la mia esistenza era cambiata in modo radicale e profondo da quando era entrato nella mia vita. All’inizio era stata una semplice cotta, l’ammirazione che ogni ragazzina prova per il suo idolo, ma che pian piano con il passare del tempo anziché svanire era diventata sempre più profonda e indissolubile. Non lo avevo immaginato fino al giorno del nostro primo incontro. Era stato totalmente imprevisto. L’emozione e l’effetto che mi aveva scatenato dentro sarebbero stati solo il preludio dell’amore profondo che provavo ora per lui. Era tutto ciò che una donna avrebbe potuto desiderare. Era tutto ciò che io desideravo. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso e incantata rimanevo a fissarlo inebetita, abbagliata da tanto splendore, mentre lui si allontanava per andare a comprare il giornale come ogni mattina. Avrebbe potuto farselo recapitare direttamente a casa, ma

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come mi aveva spiegato lui stesso preferiva uscire a fare quattro passi e andarlo a comprare di persona. Diceva che gli piaceva respirare l’aria fresca del mattino, camminare in mezzo alla gente, fare quelle cose che una persona comune fa di solito, anche se solo per il breve tempo di una passeggiata… abitudine che mi aveva reso la vita più piacevole negli ultimi giorni. Tirai un respiro profondo, cercando di calmarmi. Il cuore mi batteva forte. Era assurdo! Non avrei dovuto reagire così, non dopo un anno e mezzo che lo conoscevo e che gli parlavo tutti i giorni. Il mio cuore ormai avrebbe dovuto essersi abituato alla sua vista, alla sua presenza. E invece niente, avevo sempre la stessa identica reazione, proprio come se lo avessi conosciuto per la prima volta! Ero senza speranza. Era da quasi una settimana che scandivo i miei orari in base ai suoi. Avevo preso nota mentalmente dei suoi impegni e mi regolavo in base a quelli per vederlo anche solo per un attimo. Sapevo che stava lavorando ai testi delle nuove canzoni, e che era indietro perché non aveva ancora trovato l’ispirazione giusta e passava molte ore, soprattutto la notte, a cercare di scrivere qualcosa di valido da portare poi in studio dove gli altri aspettavano con ansia che completasse i testi. Era parecchio stressato per via dei blocchi in cui talvolta incappava. Gli ultimi due anni e mezzo erano stati molto difficili: preso da un profondo sconforto aveva smesso per molto tempo di scrivere. Solo che adesso aveva delle scadenze da rispettare e lo stress a cui era sottoposto non giovava in modo positivo sulla sua vena creativa. Non era facile scrivere testi che si adattassero a una melodia, frasi che avessero un senso, che comunicassero qualcosa, capaci di colpire l’animo della gente, di lasciare un segno indelebile, parole mai scritte prima: non molti ne erano in grado; Erik ci riusciva. Era un poeta nato, aveva scritto tutti i testi delle canzoni della sua band, i Missing in the dark, canzoni meravigliose con testi altrettanto incantevoli che avevano fatto piangere, ridere, sognare e divertire milioni di persone. I Missing in the dark erano famosi in tutto il mondo, avevano venduto parecchi milioni di dischi e lui era l’idolo di milioni di fan; donne soprattutto, com’era naturale che fosse, che pur di avvicinarsi anche solo per un momento a lui avrebbero fatto di tutto. Nonostante questo però era rimasto con i piedi per terra e non si era mai montato la testa. Aveva avuto i suoi alti e bassi come tutti e

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anche la sua carriera non era stata sempre al top, ma era andato avanti e ce l’aveva fatta. Nonostante le tragedie personali, si era risollevato e aveva continuato a splendere come non mai, in barba a tutti quelli che lo davano per finito. Così adesso era al lavoro sul settimo album della sua carriera e la casa discografica faceva forti pressioni affinché il disco uscisse nel più breve tempo possibile; senza rendersi conto che più fretta gli mettevano, meno Erik riusciva a scrivere. Lui era fatto così, a volte passavano giorni senza che riuscisse a comporre una parola e poi a un tratto, mentre leggeva un libro o guardava la televisione o chiacchierava del più e del meno… ecco che bum! Si alzava, si assentava di corsa e in pochi minuti generava un capolavoro. Erik era proprio imprevedibile, lunatico e ombroso a volte; altre un po’ buffone e solare… poi ancora tanto musone e indisponente che faceva venire voglia di mollargli un ceffone, e farci l’amore subito dopo. Poi ancora amorevole e dolcissimo che lo avrei baciato e tenuto stretto per il resto della vita. Stargli accanto era una sorpresa continua, non c’era possibilità di annoiarsi con lui, non te ne dava il tempo. Innamorarsene era una cosa talmente facile e spontanea che quasi non te ne accorgevi; ti ritrovavi ad amarlo senza sapere bene quando e in che modo era successo. E per me, che lo amavo già da prima, non c’era stato scampo. Purtroppo nell’ultimo periodo l’Erik solare e dolcissimo faceva capolino raramente; quello che prevaleva di più era l’Erik ombroso, musone e triste. Avrei fatto qualunque cosa per non vederlo così, avrei voluto essergli d’aiuto, ma non sapevo come. Non ero nella posizione di fare niente, non potevo espormi e confessare i miei sentimenti; volevo ma non potevo proprio. Lui non lo sapeva, ma io lo amavo così tanto che mi riusciva sempre più difficile nasconderlo. Anche in quel momento, ciò che avrei voluto fare con tutta me stessa era correre dall’altro lato della strada e buttargli le braccia al collo! Urlare a lui e al mondo intero, con il tutto il fiato che avevo in gola, che lo amavo! Dio, non avrei mai trovato il coraggio di fare una cosa simile. Avevo tentato di soffocare i miei sentimenti, ci avevo provato, davvero. Avevo cercato di guardarlo solo come il mio datore di lavoro, ma era una battaglia già persa in partenza. Il suo carisma, il suo modo di fare, perfino la tristezza che vedevo nel suo sguardo e che di rado lo abbandonava,

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avevano reso del tutto vano e inutile il mio patetico sforzo di restargli indifferente. Tutto ciò non aveva fatto altro che rafforzare i miei sentimenti, che provavo da anni e che crescevano inarrestabili come una marea; standogli vicino si erano ingigantiti talmente tanto che da sola avrei potuto inondare un intero continente. Ero talmente piena di lui, della sua essenza, che prima o poi sarei scoppiata. Al suo cospetto cercavo di mostrarmi indifferente, ma temevo di tradirmi. Ogni volta che mi sorrideva, anche se non avveniva spesso, mi perdevo nei suoi occhi rimanendo imbambolata come un’idiota, talmente affascinata e incantata da riuscire con fatica a capire cosa diceva. E più tempo passavo in sua compagnia, più peggioravo. Simulare indifferenza era sempre più difficile per me. Ogni volta che si avvicinava il cuore sembrava uscirmi dal petto e mi chiedevo come facesse lui a non accorgersene. Forse perché Erik mi vedeva solo come la tata delle sue bambine e nulla di più. Questo ero per lui, dovevo tenerlo sempre a mente, non dimenticare mai che se mi trovavo lì era solo per prendermi cura di Alice e Kayla e che il loro splendido papà era off-limits per me. Niente fantasie inopportune, quindi! Niente sogni a occhi aperti con lui che mi bacia fino a tramortirmi! Niente pensieri peccaminosi… Io che gli salto addosso. Lui che mi salta addosso. Noi due nel suo letto. Noi due nel mio letto. Lui che confessa di non poter vivere senza di me. Io che gli confesso di averlo sempre amato. Noi due che ridiamo insieme felici. Lui che mi mette un anello al dito. Mi presi la testa fra le mani: basta! Calma. Niente di tutto questo. La mia fantasia aveva ricominciato a correre di nuovo follemente indisturbata, cercando di afferrare qualcosa che non potevo raggiungere nella realtà. Il mio cuore aveva ripreso a battere più velocemente; dovevo assolutamente rallentare i miei pensieri. Pensare ad altro… Eppure ero più felice quando immaginavo noi due insieme mano nella mano.

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Scossi la testa per cancellare l’immagine. Concentrarsi su altro. Sì, giusto, pensare ad altro. Certo, pensare… però speriamo che torni presto, voglio rivederlo. No! Pensare ad altro… Mettere in moto il cervello… Allora…sì, ecco! La sera prima avevano dato in televisione il film Troy, davvero molto bello. L’avevo già visto quando ero ancora in Italia e rivederlo adesso in inglese era stato un po’ strano per me, non mi ero del tutto abituata a sentire gli attori recitare con le loro vere voci anziché con quelle dei doppiatori italiani. Avevo passato un paio d’ore piacevoli a guardare quel figo di Brad Pitt che, oltre a essere bravo, era anche bello; il che aveva inciso parecchio sulla mia scelta: anche l’occhio vuole la sua parte, no? Anche se, secondo la mia opinione, nessuno poteva competere con Erik. Lui era il più bello di tutti e aveva un fascino particolare che attira inesorabilmente verso di lui come una potente calamita, capace di trascinare via annullando tutte le altre capacità mentali e poi… aveva un sorriso! Non c’era niente di più bello al mondo del suo sorriso e quegli occhi grandi, intensi, profondi… Stop! Time out! Cosa diavolo stavo facendo? Uffa! C’ero ricascata un’altra volta, non avevo deciso di pensare ad altro? Sì, più facile a dirsi che a farsi. Sarei dovuta essere morta per riuscirci! Era il mio pensiero dominante, che potevo farci? Anche quando mi concentravo non riuscivo a togliermelo dalla mente; gira e rigira ce l’avevo sempre in testa. Speravo proprio che tutto ciò non fosse evidente agli occhi degli altri, anche se a volte avevo l’impressione di avercelo scritto in faccia, ben chiaro sulla fronte: Pazza per Erik, a caratteri cubitali, e che chiunque potesse leggerlo e andasse a riferirglielo a mie spese. Comunque fino a quel momento me l’ero cavata abbastanza bene, lui sembrava non essersi accorto di nulla ma avevo l’impressione che i suoi parenti sospettassero qualcosa. Erano sempre più frequenti infatti le volte in cui mi accorgevo di certe occhiate strane che mi lanciavano, di sospetto o di compatimento forse, non avrei saputo dirlo. Magari credevano che fossi una delle tante che si era illusa e che come le altre non avevo speranze con lui. Non ne ero sicura, forse stavo solo diventando paranoica e immaginavo tutto. Ma dopotutto, che male c’era a sperare? Io non volevo perdere la speranza, non stavolta! In passato mi ero sempre arresa, ma adesso

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no, non volevo rinunciarci e mi ci aggrappavo con tutte le mie forze; perché senza speranza mi sarebbe rimasta solo la disperazione di un amore non ricambiato. Magari un giorno sarebbe accaduto, contro ogni previsione, contro ogni logica: Erik si sarebbe accorto di me, mi avrebbe guardato con amore e mi avrebbe detto le stesse parole che morivo dalla voglia di dirgli io: Ti amo tanto! Oh, quanto desideravo dirglielo! Ti amo… ti amo… ti amo… Centinaia di volte al giorno quelle parole minacciavano di uscire dalle mie labbra e ogni volta le ricacciavo in gola appena in tempo prima di provocare un disastro. Riuscivo a immaginare il suo bel viso inorridito dalla mia confessione e la delusione nei suoi bellissimi occhi blu. Probabilmente si sarebbe tirato indietro disgustato e mi avrebbe licenziato in tronco. Detestava chi si intrufolava nella sua vita con la scusa di un lavoro, con il solo scopo di entrare nel suo letto e magari trascinarlo all’altare. Gli era successo già altre volte e non tollerava più certi comportamenti. Infatti, da quando suo malgrado si era ritrovato di nuovo libero e sulla piazza, era stato oggetto tante, troppe volte di attenzioni non desiderate e questo lo aveva messo più che mai in guardia su tutti e soprattutto su chi lavorava per lui. Proprio per questo motivo era stato difficile conquistarmi la sua fiducia. Per molto tempo mi aveva guardato con sospetto aspettandosi da un giorno all’altro occhi dolci e smancerie. Una lunga fila di tate si era susseguita prima di me, donne che nella maggior parte dei casi si era fatta assumere non per badare alle bambine, ma per cercare di prendere il posto della moglie o almeno per andare a letto con lui. Alcune erano durate qualche settimana, altre solo un giorno. Tutte licenziate (era stata Nadine, la donna delle pulizie, a raccontarmi queste cose). Purtroppo a subirne le conseguenze erano state le bimbe, che a mano a mano si erano chiuse sempre più in se stesse. Non era stato facile farmi accettare da loro, ma ci ero riuscita e adesso le adoravo. All’inizio le amavo perché erano le sue figlie, sangue del suo sangue, ma in poco tempo mi avevano conquistato e ora le adoravo perché erano Alice e Kayla, due bimbe dolcissime e testarde come il padre e che in più erano le figlie dell’uomo che amavo.

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Le consideravo la mia famiglia. Non potevo perderle, così come non potevo perdere lui. Non avrei potuto sopportarlo e se avessi detto a Erik di amarlo, ero sicura che sarebbe successo. Lo avrei perso. Non volevo neanche pensarci, ma un giorno glielo avrei detto. Sì, un giorno lo avrei fatto, avrei trovato il coraggio di confessare ogni cosa, anche se probabilmente avrebbe significato non vederlo più. Sentivo un dolore al cuore, un peso enorme al solo pensiero che una cosa del genere sarebbe potuta accadere. Non sarei riuscita a sopportarlo. Come sarei mai potuta andare avanti e continuare a vivere senza vederlo mai più? Senza sentire la sua voce, senza rivedere il suo splendido sorriso? No, era impensabile, assolutamente impossibile per me anche solo immaginare un futuro senza di lui! Mi sarei accontentata di amarlo in silenzio per tutta la vita, piuttosto che vivergli lontano. Seduta al bar, continuavo a fare a pezzettini la brioche che avevo sul piatto. Non avevo molta fame ma avevo bisogno di mettere qualcosa nello stomaco, altrimenti poi sarei stata male. Così, mentre aspettavo che Erik ritornasse, la mangiai, insieme al succo di frutta che avevo ordinato. Avrei aspettato che fosse rientrato in casa e poi sarei andata via. Ero tentata di rimanere lì tutta la mattina fino a quando Erik non fosse uscito per andare allo studio di registrazione e rivederlo, ma non volevo invadere la sua privacy più di quanto non avessi già fatto. Non sarebbe stato giusto nei suoi confronti. Già così mi sentivo una guardona, una di quelle persone morbose e impiccione che non si fanno mai gli affari propri e che non capiscono quando è ora di smetterla. Ma io non ero fatta così, non avrei mai e poi mai passato i limiti facendo del male a Erik; ci mancava solo che mi comportassi come uno di quei paparazzi invadenti e insopportabili che detestava tanto. Quindi non appena lo avessi visto rientrare sano e salvo, sarei filata dritta dritta fuori dalla porta. Speravo che non ci mettesse tanto. Il barista cominciava a guardarmi senza celare una certa curiosità. Qualche volta mi era capitato di entrare il quel locale, ma era successo circa due anni fa al mio arrivo a Londra; ero sicura che non si ricordasse di me, visto che non c’ero più tornata, ma negli ultimi giorni mi presentavo puntuale ogni mattina, mi sedevo allo stesso tavolo e me ne stavo da sola per un paio

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d’ore a guardare fuori. Sicuramente si stava chiedendo cosa venissi a fare. Per fortuna c’era un via vai di gente abbastanza numeroso da tenerlo impegnato quel tanto che bastava a non trovare il tempo di soddisfare la sua curiosità, ma di tanto in tanto mi lanciava delle strane occhiate. Mi auguravo solo che non mi avesse riconosciuto e che non mi avesse mai vista uscire dalla casa che stavo tenendo d’occhio. Ero quasi tranquilla al riguardo perché mi ero vestita in modo da sembrare una turista di passaggio: pantaloncini bianchi, maglietta e cappellino rossi; coda di cavallo, occhiali da sole, cartina e guida di Londra ben piazzati in bella vista sul tavolo e forte accento italiano. Mi auguravo che fosse sufficiente a non destare sospetti su cosa ci facessi realmente lì. Il bar si trovava dalla parte opposta la casa di Erik, ma comunque una cinquantina di metri prima, e grazie alla vetrata d’angolo riuscivo a vederlo senza essere scoperta da lui. Ed era un bene che gli stesse antipatico il barista e non entrasse mai nel locale. Comunque il signor barista sapeva perfettamente chi gli abitava di fronte, tutti nel quartiere sapevano di avere per vicino un famosissimo cantante e non perdevano occasione di sfruttare al meglio quella fortuna per ricavarci qualche soldo, magari vendendo ai giornali scandalistici qualche pettegolezzo, qualche chicca che nella maggior parte dei casi erano storie inventate di sana pianta. Il barista, un certo Jake tutto muscoli e poco cervello (si capiva subito) era tra i peggiori, quindi per me era pur sempre pericoloso starmene lì, perché dopo avermi vista tutti i giorni per una settimana avrebbe potuto riconoscermi facilmente nonostante il mio travestimento mentre uscivo o entravo in casa di Erik e trarre chissà quali conclusioni, inventandosi poi storie assurde da vendere a qualche giornale scandalistico. Era questo il motivo per cui stava antipatico a Erik, e anche a me. Speravo solo che il mio bisogno di vedere Erik non mi portasse guai. Dopotutto, non lo facevo perché ero ossessionata da lui. Beh, a essere sinceri un po’ lo ero, ma a parte il fatto che mi mancava da morire, il motivo principale per cui mi recavo lì era perché ero in ansia per lui. Davanti alle bambine infatti cercava di essere sempre allegro e sereno, ma io sapevo che non era così; sapevo che quando era solo si lasciava andare e che a volte, preso dalla disperazione, beveva più di quanto avrebbe dovuto. Aveva anche ripreso a fumare

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parecchio, mai davanti alle bambine comunque, diceva infatti che era un brutto vizio e non voleva dare loro un cattivo esempio; ma quando Alice e Kayla non c’erano o dormivano fumava una sigaretta dietro l’altra. Mi preoccupavo per lui e avevo bisogno di sapere che stesse bene. Ecco perché tutte le mattine venivo lì: vedevo che era vivo, che sembrava essere in buona salute, e un po’ della mia preoccupazione scemava. Ma sarei stata davvero tranquilla solo tra due giorni, quando finalmente sarei ritornata a casa, la sua casa, avrei ripreso il mio ruolo di tata e lo avrei avuto a portata di vista tutto il giorno. Solo allora sarei stata davvero serena. Tre giorni prima invece mi ero spaventata da morire, anche se ripensandoci adesso mi rendevo conto di avere esagerato e mi sentivo davvero sciocca per aver supposto subito chissà quale tragedia.

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Capitolo iii

Tre giorni prima…

C

ome sempre mi ero piazzata dietro la vetrata ad aspettare che uscisse, ero molto agitata perché erano due giorni che non lo vedevo. Mi ero fermata fino a tardi, le undici forse, ma niente. Il primo giorno mi ero fatta coraggio pensando che, come tante altre volte, aveva passato la notte a lavorare e sicuramente in quel momento stava dormendo. Il secondo giorno avevo iniziato seriamente a preoccuparmi, continuavo a ripetermi di stare calma, di non pensare subito al peggio e di non essere così tragica. Quindi avevo deciso di tornare a casa, imponendomi di non chiamarlo e farmi gli affari miei. Non ero sua moglie e non avevo il diritto di immischiarmi nella sua vita; in fondo non ero niente per lui e ogni mia intromissione era del tutto fuori luogo. Il mio amore era a senso unico e anche se questo mi faceva soffrire, non avevo alcun diritto. Se voleva stare tutto il giorno in casa, da solo, senza essere disturbato da nessuno, chi ero io per intromettermi? Così avevo passato il resto della giornata irrequieta, chiedendomi se chiamarlo o no, prendendo il telefono decine di volte per rimetterlo subito giù. Non ne ho il diritto, continuavo a ripetermi, nessun diritto. Lui non è mio… Ma poi non ero riuscita a resistere, così nel pomeriggio mi ero ritrovata a fare un giro da quelle parti, giusto per controllare se era tutto a posto; magari sarei stata abbastanza fortunata da incrociarlo per caso. Nessun incontro fortuito, viaggio a vuoto, in casa non c’erano luci accese e tutto sembrava tranquillo, anche troppo.


La mia ansia era salita alle stelle, così la mattina successiva, dopo avere passato la notte praticamente in bianco a ripetermi di non agitarmi, ero arrivata davanti casa sua a tempo di record, sperando e desiderando che fosse la volta buona, ma niente. Erano le dodici passate e di lui non c’era traccia. La casa sembrava deserta. Le finestre erano chiuse, nel vialetto non c’era la sua macchina. Sarà partito per qualche giorno, pensavo mentre il panico iniziava a crescere dentro di me. Con il senno di poi mi rendevo conto che non avevo ragione di farmi prendere dal terrore in quel modo, poiché potevano esserci mille motivi semplici e banali per cui non era uscito o perché non lo avevo visto uscire io. Ma in quel momento non pensavo in modo razionale. Mi agitavo immaginando una serie di terribili scenari che variavano da un opposto all’altro, dal più idiota al più tragico, come il suicidio. Ebbi un sussulto. Non volevo neanche pensarla quella parola. Sì, era stato molto giù di morale ultimamente ma non fino a quel punto, non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Era impensabile. Di solito il malessere gli durava qualche giorno e poi ritornava un po’ più sereno; e comunque non avrebbe mai e poi mai lasciato le bambine, le adorava troppo. Poteva aver preso l’influenza. E se gli era venuta la febbre e non c’era nessuno che si prendesse cura di lui? Se la temperatura fosse salita troppo avrebbe anche potuto… oddio! Non voglio pensarci. Non devo pensarci! Devo assolutamente stare calma e non fare idiozie, ma ho bisogno di sapere che sta bene. Cosa faccio, maledizione, cosa faccio?! Avevo le chiavi di casa naturalmente, ma non mi sarei mai sognata di usarle per entrare a controllare. E se l’avessi trovato con una donna? Magari avevano passato gli ultimi tre giorni a fare sesso selvaggio e a darsi alla pazza gioia; che figura avrei fatto io? Quale spiegazione avrei potuto inventarmi? «Scusa se ti disturbo Erik, ma volevo vedere se eri ancora vivo e ora che mi sono assicurata che non ti sei ammazzato me ne vado. Buon proseguimento!». Sarei morta di umiliazione, e soprattutto di gelosia. Vederlo con un’altra mi avrebbe ucciso, sarebbe stata una pugnalata al cuore. Non mi illudevo, sapevo che prima o poi si sarebbe rifatto una vita. Era ancora giovane e il lutto per la moglie non sarebbe durato in eterno e a poco a poco avrebbe ricominciato a uscire e a frequentare gente, a conoscere altre donne.

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Sarebbe stato del tutto normale, no? Avrei fatto bene a rassegnarmi già da ora: io non avrei mai fatto parte delle donne che potevano avere una possibilità con lui. Dovevo farmene una ragione, anche se in cuor mio non avrei mai smesso di sperare che si accorgesse di me. Per il momento, mi premeva solo sapere se stava bene. Così alla fine mi ero fatta coraggio, avevo preso il telefono e dopo una breve esitazione avevo pigiato il tasto su cui era memorizzato il numero di casa sua. Speriamo che risponda lui, ti prego, fa che sia solo, se risponde una donna muoio qui seduta stante e sulla lapide scriveranno: “Qui giace Giuliana Lustro. Il suo cuore ha cessato di battere dopo avere scoperto che l’uomo che amava aveva passato la notte con un’altra”. Ecco, sarebbe stata l’umiliazione finale. Mentre portavo il telefono all’orecchio la mano tremava per la paura di cosa avrei scoperto e per l’emozione che sapevo avrei provato nel risentire la sua voce, che mi mancava tanto. Il telefono suonava, contavo gli squilli mentre pensavo: rispondi, rispondi per favore. Finalmente al decimo squillo, quando ormai stavo per staccare e provare sul suo cellulare, brutta figura o no (chi se ne fregava! Dopotutto, lui era più importante!), aveva risposto! Un’intensa ondata di sollievo mi aveva invaso al suono della sua splendida voce assonnata. Grazie al cielo stava bene! Quasi saltai sulla sedia dalla felicità. Un signore seduto al tavolo vicino si era girato a guardarmi ma non me ne importava; anche se mi avesse presa per pazza in quel momento l’unica cosa che mi interessava era l’uomo che aveva appena pronunciato uno strascicato Hello? dall’altra parte del telefono. Ignorai l’uomo vicino a me e mi concentrai su Erik, che aveva appena ripetuto il suo Hello? Aspettava una risposta, questa cosa mi aveva fatto scendere con i piedi per terra, perché il problema adesso era quale scusa avrei inventato lì su due piedi visto che prima, vinta dall’ansia, non ci avevo pensato. «Ehm…Erik, ciao, sono io» la mia voce tremava. Mamma mia, che gli dico adesso?! «Giuliana, ciao!». Aveva riconosciuto la mia voce: buon segno, davvero. Gongolavo di soddisfazione e gioia. E poi adoravo il modo in cui pronunciava il mio nome, aveva una maniera tutta suo di dirlo, con quell’accento sulla a finale che mi mandava in visibilio tutte le volte e mi faceva battere forte il cuore.

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«Scusa se ti ho disturbato, stavi dormendo? Ti ho svegliato?». «Veramente sì, ma tanto stavo per alzarmi, o quasi…». Capivo che sorrideva, era meraviglioso sentire la sua voce. Quanto mi era mancato. Aveva una voce splendida e anche se lo ascoltavo spesso cantare nelle sue canzoni, parlarci dal vivo era tutt’altra cosa. Fece uno sbadiglio: «Che ore sono?». «Mm… le dodici passate» risposi. «Accidenti! Non mi ero reso conto che fosse così tardi. Ho passato quasi tutta la notte in studio a lavorare a quei testi e sono andato a letto praticamente all’alba. Chissà perché l’ispirazione mi viene sempre di notte; sarebbe molto più comodo se venisse di giorno, così la notte potrei dormire come fanno le persone normali». Ma tu non sei normale, sei speciale, non lo sai? «E io ti ho svegliato! Scusami tanto…». Ora mi sentivo in colpa per averlo disturbato. Io e le mie assurde fissazioni! «Non importa. Davvero. Mi fa piacere sentirti». Oh Erik, mai quanto fa piacere a me! Le sue parole mi facevano sperare cose che non avrei dovuto sperare, sembrava davvero di buonumore. «Ma dimmi – continuò – hai bisogno di qualcosa o hai chiamato così?». «Io, veramente…». E adesso che gli dico? Pensa, pensa in fretta! Ma il mio cervello era andato in standby nel momento stesso in cui lui mi aveva risposto. Pensa… pensa… le bambine! Sì, le bambine, ecco! «Io… volevo chiederti delle bambine; ecco volevo sapere se stanno bene e se si divertono». In realtà sapevo benissimo come stavano Alice e Kayla perché ci eravamo sentite qualche giorno prima e mi avevano anche mandato delle cartoline dai posti in cui soggiornavano. Erano partite per due settimane con i nonni materni e visto che di me non c’era bisogno, ero stata costretta a prendermi le ferie. «Ah sì, le ho sentite ieri pomeriggio, si stanno divertendo tanto e a proposito… ti salutano». Il suo tono adesso era felice e sereno, come sempre quando parlava di loro. Fece una risatina divertito: «Non smettevano più di parlare per raccontarmi tutto quello che hanno

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visto e fatto. Tieniti pronta, perché penso che al ritorno ti stordiranno di chiacchiere per settimane, dovrai sorbirti il resoconto nei più piccoli dettagli di tutta la vacanza» disse continuando a ridere. Che gioia sentirlo così di buonumore, faceva sentire felice anche me. Comunque non vedevo l’ora di sorbirmele le loro chiacchiere! Le bimbe mi erano mancate tanto quanto il loro papà e la loro vivacità era contagiosa. Volevo un mondo di bene a quelle piccole, come avrei potuto non volergliene? Erano due diavolette scatenate che come tutti avevano i loro momenti fatti solo di capricci e ostinazione, ma capaci di dare tanto amore e tenerezza; avevano tanto bisogno loro stesse di affetto e comprensione. Non era stato facile per loro superare il trauma della morte della mamma e anche se Erik le adorava e cercava di non fargli mancare niente, si era venuto a creare un vuoto nella loro vita che difficilmente sarebbe potuto essere colmato. «Sono pronta, non preoccuparti – risposi in tono leggero – Lo sai che adoro le loro chiacchiere. Quando è previsto il rientro?». «Domenica pomeriggio sul tardi». Era mercoledì, quindi mancavano soltanto quattro giorni e poi la lontananza forzata sarebbe giunta al termine. Che bello! Sarebbero stati quattro giorni molto lunghi, ma sarebbero finiti presto. «Bene – continuai – domenica sera sarò li da voi, allora». Finalmente! pensavo sorridendo, ma il sorriso mi si spense quando lui parlò di nuovo. «Non è necessario, lunedì mattina andrà più che bene». «Ma io…» cercai di protestare ma non mi lasciò continuare. «Non preoccuparti, per una sera ce la caveremo bene anche senza di te. Goditi questi ultimi giorni di ferie; dalla settimana prossima sarò impegnatissimo in studio e non so quando avrai di nuovo qualche giorno libero». Non me ne frega niente delle ferie se questo vuol dire stare lontano da te, avrei voluto dirgli, ma lui riprese: «A proposito di vacanze, cosa hai fatto di bello durante le tue? Toccherà anche a te raccontarci tutto ciò che hai visto e dove sei stata. Sono curioso di sapere come hai passato le ultime due settimane» concluse. La sua curiosità mi lusingava, e parecchio anche, ma aveva i suoi lati negativi: cosa diavolo gli avrei raccontato? Che a parte la prima settimana che avevo passato in casa ad annoiarmi, me ne ero stata lì a

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spiarlo? Ero anche uscita con degli amici qualche sera, ma niente di più. Avrei dovuto inventarmi qualcosa di credibile al più presto, non volevo certo farmi scoprire, che umiliazione sarebbe stata! Se te lo dicessi ne rimarresti davvero sorpreso, questo è sicuro – pensai – Nemmeno nei tuoi sogni più fantasiosi immagineresti come ho passato il tempo e dove sono in questo preciso istante. «Certo! – risposi invece – Vi racconterò ogni cosa e non tralascerò niente!». Mamma mia che bugiarda, mi autocommiseravo mentre incrociavo le dita per cercare di alleviare i sensi di colpa. Non mi piaceva mentirgli ma non avevo altra scelta; se avessi avuto un’altra via d’uscita l’avrei usata, ma per il momento non mi veniva in mente nient’altro da dire. Ci avrei pensato dopo. Ci fu un attimo di silenzio, non sapevo se continuare a trattenerlo al telefono o salutare e staccare. Ero restia a farlo, adoravo sentire la sua voce e parlargli mi faceva sentire bene, benissimo. Mi chiedevo a cosa stesse pensando lui, se stava cercando una scusa per rimettere giù il telefono o se gli facesse piacere parlare un po’ con me. Avrei voluto chiedergli come stava, se si era sentito solo con la casa vuota, se mi aveva pensato, se gli ero mancata… Sì, come no! Scendi dalle nuvole e ritorna con i piedi per terra, mi rimproverai. Probabilmente non si era neanche accorto della mia assenza. «Allora il lavoro come va? Quel testo su cui eri rimasto bloccato, sei riuscito a terminarlo?» azzardai. Ero curiosa, volevo sapere a tutti i costi cosa aveva fatto. «Eh, ti sei ricordata vedo!». Mi sbagliavo o c’era una nota di stupore nella sua voce? Trattenni una risata isterica. Certo che me ne ricordavo, non avevo pensato ad altro in effetti e mi chiedevo se avrei avuto il permesso di dare una sbirciatina a ciò che aveva scritto. Sarebbe stato un grande onore per me essere la prima persona a leggere le sue liriche, ma dubitavo che me lo avrebbe permesso e non avrei mai avuto il coraggio di chiederglielo. Piuttosto rinunciavo e avrei aspettato l’uscita del disco per ascoltarlo, così come avevo sempre fatto. «Ehm… Sì, ecco, io ho una buona memoria» risposi cercando di sembrare disinvolta, mentre dentro ero totalmente in subbuglio. «Buon per te – esitò un attimo – il lavoro diciamo che va abbastanza bene, non come speravo però».

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Udii un profondo respiro venire dall’altra parte del telefono. Non c’era bisogno che continuasse, avevo già capito che aveva avuto dei problemi e che non era ancora riuscito a superare quello stramaledetto stato di crisi in cui si trovava. «Non hai fatto progressi?» chiesi, con il cuore colmo di tenerezza. «Non tanti, pensavo che stare da solo a casa in silenzio senza nessuna distrazione mi avrebbe aiutato a concentrarmi meglio, ma a quanto pare non è servito a molto» si sentiva che era abbattuto. «Ma non hai scritto proprio niente?» chiesi. Non rispose subito e intuivo che forse non aveva molta voglia di continuare a parlarne. Fin quando l’argomento erano state le bambine era sembrato tranquillo e ben disposto a fare due chiacchiere; ora invece riuscivo a percepire il suo tirarsi indietro e ciò mi metteva a disagio. Sarebbe stato meglio se fossi stata zitta, per lui tutta questa situazione era un tasto dolente; avrei fatto bene a pensarci la prossima volta prima di aprire la bocca. A volte mi sarei presa a schiaffi io stessa. «Non è quello – disse – Ho scritto abbastanza ma non so, non sono soddisfatto. Il fatto e che i testi sono tutti un po’… tetri diciamo, e dovrei proprio scrivere qualcosa di più allegro. Dovrò modificare parecchie cose mi sa, qualcosa si salverà ma la maggior parte andrà riveduta». Mi bloccai. Non sapevo cosa rispondere. Sospirò: «Non è stato un bel periodo, e quando scrivo riverso sempre un po’ di me stesso nelle canzoni. Dovrò provare a essere un po’ più ottimista, altrimenti ne risentirà anche il mio lavoro». «Mi dispiace» fu tutto ciò che riuscii a replicare. «Ti dispiace per me?» lo disse così piano che non ero sicura di aver capito bene. Sì era l’unica risposta che avrei potuto dare semplicemente, perché era la verità. Restammo un attimo in silenzio. Percepivo la tensione nell’aria. Quelle poche parole sussurrate avevano aperto uno spiraglio in un sentiero nuovo e inesplorato nel nostro inusuale rapporto di lavoro. «Scusa ma si è fatto proprio tardi, è meglio che vada adesso. Mi ha fatto piacere sentirti, ci vediamo lunedì. Ciao!» disse in fretta. Ebbi appena il tempo di sussurrargli ciao che aveva già riattaccato. Rimasi immobile per parecchi secondi. Nella mia testa continuavano a susseguirsi parola dopo parola le ultime frasi che mi aveva detto.

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Se da un lato ero contenta che si fosse confidato con me, dall’altro soffrivo per lui. Quando era in compagnia si sforzava di dare a vedere che le cose andavano abbastanza bene e che pian piano si stava riprendendo; ma quella conversazione mi aveva fatto render conto che non era cambiato quasi niente. Avrei voluto aiutarlo a stare un po’ meglio, ma non avevo idea di cosa fare. Inoltre, dalla velocità con cui aveva troncato la discussione, ero sicura che si fosse pentito di essersi lasciato sfuggire quelle cose e non sapevo cosa aspettarmi in futuro. Forse il nostro rapporto aveva fatto un passo avanti; ma questo non significava che lui mi avrebbe permesso di aiutarlo in alcun modo. Per il momento comunque non c’era niente che potessi fare, solo aspettare. Era domenica e mancavano solo ventiquattro ore, poi le mie ferie sarebbero ufficialmente finite e sarei potuta ritornare a casa – la sua, che ormai consideravo mia – avrei ripreso il mio ruolo di tata e avrei di nuovo fatto parte della vita di Erik, Alice e Kayla. Ero ancora persa in questi pensieri con lo sguardo sempre fisso sulla parte opposta della strada, quando lo vidi ritornare. In una mano aveva il giornale e nell’altra un lungo sacchetto di carta bianco. Sospirai, sapevo benissimo cosa conteneva: una o addirittura due stecche di sigarette. Più tempo passava e più fumava. All’inizio non era così, quando ero venuta a lavorare per lui non consumava così tante sigarette, ma in certi periodi non faceva altro. A volte la sera dopo che le bimbe erano a letto e io mi ritiravo nella mia camera, lo sentivo uscire nel giardino sul retro. La finestra della mia stanza si affacciava proprio su quel lato della proprietà, così a luci spente lo osservavo mentre si sedeva al buio e rimaneva lì silenzioso e perso nei suoi pensieri fumando, bevendo e fumando ancora. Ogni volta che accendeva un’altra sigaretta sentivo un dolore al cuore e cercavo di mandargli segnali con la mente. Smettila di farti del male, perché non smetti? Naturalmente non ero in grado di farmi sentire, ma solo di stare a guardare mentre lui poco alla volta si distruggeva. Vederlo in quello stato mi procurava sofferenza e tenerezza allo stesso tempo perché sapevo bene cosa c’era dietro ai suoi attacchi di sconforto. Quello a cui stava lavorando era il primo album dalla morte di Shana, sua moglie. La tragedia lo aveva segnato profondamente e ritornare ai vecchi ritmi non era facile per lui. Standogli vicino ogni giorno avevo capito che non si sentiva ancora pronto per riprendere a

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scrivere musica, ma che vi era stato costretto per via del contratto con la casa discografica. Aveva delle scadenze da rispettare e non era nella posizione di potersi tirare indietro. Molto spesso quando ci piace un attore o un cantante tendiamo a dimenticare che dietro la fama, le interviste, gli autografi e il successo ci sono persone normali che vivono e soffrono proprio come chiunque altro. Vivendo a stretto contatto con una di queste star nella sua vita quotidiana, mi ero resa conto di quanto a volte noi fan sappiamo essere egoisti e prepotenti. È normale desiderare di incontrare il proprio idolo almeno una volta e nessuno meglio di me sapeva quante pazzie si è disposti a fare pur di riuscire a realizzare il proprio sogno. Adesso però vedevo le cose da un’altra prospettiva, vedevo un uomo che soffriva, che avrebbe potuto avere qualsiasi donna ai propri piedi e che invece se ne stava da solo al buio a rimpiangere l’unica che non avrebbe mai più potuto avere. Intanto Erik, ignaro di quanto succedeva a pochi passi da lui e dopo essere entrato per pochi minuti in casa, stava uscendo di nuovo, ma stavolta a cavallo della sua grossa moto rossa. Aveva indossato il giubbotto da motociclista e il casco ed era più sexy che mai. Vestito così era quasi irriconoscibile e passava inosservato tra la gente. Certo con quel fisico si faceva notare ugualmente; molte infatti si giravano a guardarlo, me ne ero accorta parecchie volte, ma rimaneva comunque anonimo. Chissà dove starà andando mi chiedevo intanto, mentre lui dava gas al motore e partiva sparendo dalla mia vista, diretto probabilmente allo studio dove gli altri componenti del gruppo lo aspettavano. Passavano parecchio tempo lì ultimamente, dato che la realizzazione di un album è molto lunga e laboriosa. Una volta spinta dalla curiosità avevo chiesto a Erik di spiegarmi quale fosse la procedura per la creazione di una canzone e lui aveva sorriso divertito dicendo che all’inizio non c’era una vera e propria procedura. «Quella parte arriva dopo – mi aveva spiegato – quando devi registrare quello che hai creato. All’inizio si tratta soprattutto di ispirazioni, sensazioni, stati d’animo che ti portano a suonare certe note e a scrivere determinate cose. Poi cerchi di mettere tutto insieme e ne esce fuori qualcosa che a primo impatto non sempre ti piace; così cambi qualcosa qua e là, aggiungi, elimini, rimetti quello che avevi

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eliminato prima e piano piano viene fuori una melodia che ti riempie di grande gioia e ti auguri che anche per gli altri sia così. Non sempre succede, a volte il produttore o la casa discografica non è convinta del lavoro svolto, non prova le stesse sensazioni che provi tu quando l’ascolti e devi ricominciare tutto da capo. Purtroppo l’ultima parola è sempre la loro e ti devi adeguare per forza alle loro decisioni, anche se non vorresti farlo. Non hai idea di quanto sia distruttivo per il tuo orgoglio sentire denigrare il lavoro che con tanta fatica hai fatto. Te ne torni a casa con la coda tra le gambe e riprendi a lavorare con molto meno entusiasmo di prima». Ero felice che mi avesse confidato tutto ciò, adesso avevo le idee molto più chiare sul suo lavoro e mi sarebbe tanto piaciuto poter assistere un giorno a una loro sessione in studio. E poi, in qualche modo, negli ultimi tempi eravamo diventati un po’ più amici; capitava infatti che ci mettessimo a chiacchierare su svariati argomenti. Essendo cresciuti in paesi con culture diverse, i nostri punti di vista non erano sempre uguali, anzi spesso ci trovavamo in disaccordo su molte cose, ma parlarne con lui era una vera gioia per me. Sapere che gli interessavano le mie opinioni tanto da chiedere il mio parere mi faceva sentire un po’ parte della sua vita; non solo come dipendente, ma come una di famiglia. Comunque avrei fatto bene a non montarmi la testa, perché a quei momenti piacevoli si susseguivano poi quelli più cupi, giornate in cui Erik era di malumore e mi rivolgeva a stento la parola; o quando si rinchiudeva tutto il tempo nella sua sala di registrazione e ne usciva solo quando riportavo a casa le bambine dalla scuola: era compito mio infatti accompagnarle e andarle a riprendere. Lì tutto cambiava, gli si illuminava lo sguardo e il suo sorriso lo vedevo era sincero, radioso e pieno d’amore, niente a che vedere con quello tirato e di circostanza che sfoderava in certe occasioni, con l’aria di chi avrebbe voluto trovarsi ovunque tranne che lì. Sorridevo tra me e me ripensando a quelle volte in cui era di buonumore e rimaneva a giocare con le bimbe e a scherzare con loro. Le volte in cui si divertivano di più erano quando ero io a essere oggetto di ironia, tipo se sbagliavo la pronuncia di una parola: mi tormentavano per ore ripetendomela nel modo giusto, mentre io sbuffando ribattevo che non c’era lingua migliore dell’italiano: «che si legge così come si scrive, senza fare uscire le persone fuori di testa!» oppure che

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il loro modo di guidare sulla sinistra è assolutamente assurdo – non ero ancora riuscita ad abituarmici – visto che quasi tutto il resto mondo ha la guida a destra; e lì giù a discutere per ore con Erik che fingendosi offeso dichiarava che era un modo per loro inglesi di distinguersi dalla massa! Altre volte invece si divertiva a sottopormi a delle specie di quiz per verificare i miei progressi con l’inglese, sparandomi a raffica delle abbreviazioni e chiedendomi cosa significassero: Icym, Asap… alcune volte sapevo rispondere, altre invece no così mi torturava fino allo sfinimento. O ancora quando mi prendeva in giro perché avevo sempre freddo e prima di uscire mi imbacuccavo tutta lasciando scoperti solo gli occhi. In quelle occasioni mi sentivo davvero felice, sembravamo una vera famiglia che passa dei lieti momenti insieme prima di augurarsi la buonanotte. In quei momenti mi illudevo che fosse davvero così, ma poi ognuno andava nella propria camera e la mia non era quella di Erik. Perché noi non eravamo una famiglia: loro erano una famiglia, anche se a metà, e io non ne facevo parte.

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Capitolo iv

C

ontinuando a rimuginare, ero uscita dal bar ed ero arrivata alla fermata dell’autobus. Quel giorno il caldo era davvero afoso e insopportabile. Se fossi a casa me ne andrei al mare e ci starei tutto il giorno pensai con un moto di nostalgia. Mi sarei sdraiata al sole fino a quando fossi diventata color cioccolata e a intervalli poi mi sarei tuffata per rinfrescarmi. Acireale, la città dove sono nata e dove avevo vissuto fino a due anni prima, si trova in Sicilia, a pochi chilometri da Catania. Non è molto grande ma si vive bene e soprattutto è a pochi passi dal mare, cosa che io adoro. È conosciuta soprattutto per il suo carnevale, da molti considerato il più bello della Sicilia, con gli enormi carri, la parata e i festeggiamenti che durano almeno un mese. Erano stati tanti i motivi che mi avevano spinta ad andarmene e a trasferirmi qui a Londra con l’intenzione di non tornare mai più. Ma nel mio cuore ero e sarei sempre rimasta un siciliana e per quanto mi piacesse abitare a Londra, casa è sempre casa nonostante tutto. Buffo però. Chi l’avrebbe detto che mi sarebbe mancata la mia Isola? Quando ero partita non volevo saperne più né della mia città né dei suoi abitanti ficcanaso. Adesso invece mi ritrovavo con la voglia di tornare a casa, a fare cosa poi non lo sapevo nemmeno io: non ero più la benvenuta, non nella mia famiglia almeno. Mia madre non mi rivolgeva più la parola da quando avevo mollato il mio fidanzato quasi sull’altare, provocando un tale scandalo che per la vergogna non era più uscita di casa per settimane. Mio padre naturalmente per solidarietà o per convinzione, non lo avevo ancora capito, si era comportato allo stesso modo dicendomi che l’avevo profondamente deluso.


A mia sorella invece non era sembrato vero! Finalmente aveva avuto l’occasione di farmi fuori e disfarsi di me definitivamente. Ora li aveva tutti per sé, poteva considerarsi in tutti i sensi la figlia prediletta, la cocca di mamma e papà, che non aveva mai dato scandalo, nemmeno uno piccolo piccolo, e che era rimasta al loro fianco in quel tragico momento sostenendoli e confortandoli, senza fare una piega e senza lamentarsi. E certo che non si lamentava; anziché cercare di farli ragionare e prendere le mie difese – sarebbe stato davvero chiedere troppo, era più probabile che un meteorite colpisse la Terra – gettava benzina sul fuoco ricordandogli con costanza che figlia ingrata fossi e come non me ne fosse mai importato nulla del buon nome della nostra famiglia. Tutto questo davanti a me naturalmente, cosa che mi mandava davvero in bestia, tanto che litigavamo sempre più spesso e sempre più spesso i miei genitori prendevano le sue difese. «Se ti piace tanto perché non te lo sposi tu!» le avevo urlato una volta durante una delle nostre liti. «Perché io ce l’ho già un marito! – aveva risposto lei – Sei tu quella che ha mollato il suo sull’altare umiliandoci e ricoprendoci di vergogna. Sei soddisfatta adesso? Finalmente ci sei riuscita a metterci sulla bocca di tutti. Chissà per quanti anni la gente continuerà a ricamarci sopra. E solo perché da un giorno all’altro hai deciso che non andava più bene!». «Non l’ho mollato sull’altare! Mancavano ancora tre settimane al matrimonio e non ho deciso di lasciarlo da un giorno all’altro. Erano mesi che ci pensavo, ma non avevo trovato il coraggio di farlo! Non lo amavo, vuoi capirlo o no? Non importa a nessuno che sarei stata infelice con lui?». Cercavo in tutti i modi di farle capire come mi sentivo, ma era una speranza vana. La guardavo chiedendomi com’era possibile che fossimo sorelle. Nel suo sguardo non c’era nessun segno di quell’affetto che una persona dovrebbe avere per la propria sorella. Eravamo così diverse, e non solo nell’aspetto fisico. Carola era alta 1,70 centimetri, aveva i capelli lunghi e castani sempre perfettamente pettinati, occhi azzurri, labbra carnose, pelle liscia e luminosa. Anche senza trucco era davvero molto bella. Non mi costava niente ammettere che era più bella di me perché sapevo che era la verità. Era sempre vestita in modo elegante e di rado portava i jeans, di solito indossava degli abitini corti e aderenti che le stavano alla perfezione.

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L’unica cosa che avevamo in comune era il colore dei capelli. Anche i miei erano lunghi, ma li piastravo perché non ne volevano sapere di starsene al proprio posto. Ero alta dieci centimetri in meno e non ero magrissima come lei. Avevo gli occhi verdi, un colorito un po’ più scuro del suo e un accenno di odiosissime occhiaie che coprivo con fondotinta e correttore. Vestivo spesso in modo sportivo e avevo tre fori per ogni orecchio (cosa che faceva inorridire mia madre). Amavo portare bracciali colorati e parecchi anelli alle dita. Mia sorella, al pari di mia madre, aveva sempre cercato di comandare sulla mia vita, ma io non mi ero mai lasciata sopraffare. E questo era un altro dei tanti motivi per cui ce l’aveva con me. Di conseguenza neanche questa volta mi avrebbe appoggiato, ma non ne ero sorpresa. Dalle sue parole capivo che me l’avrebbe fatta pagare. «E questo cosa centra? – aveva continuato imperterrita – Ormai avevi preso un impegno e dovevi rispettarlo e andare fino in fondo». «Fino in fondo? Ma hai sentito una parola di quello che ho detto?! Ti ripeto che non lo amavo e che sarei stata infelice per il resto della vita. Non mi pento di quello che ho fatto, so di aver sbagliato ad aspettare così tanto, avrei dovuto farlo prima; ma meglio tardi che mai, meglio prima del matrimonio che dopo, non è forse così?». «Sei egoista, lo sai? Pensi solo a te stessa. Io di qua, io di là, e al resto della famiglia ci hai pensato? Saresti stata infelice? Beh capita a volte nei matrimoni, non saresti stata la prima e nemmeno l’ultima; ma la reputazione della nostra famiglia sarebbe rimasta immacolata. A volte c’è un prezzo da pagare per fare un buon matrimonio e il tuo lo sarebbe stato sicuramente. Non si può avere tutto dalla vita e poi Giacomo non era un uomo cattivo e ti avrebbe trattata bene». Ero allibita, non credevo alle mie orecchie! Non era possibile che pensasse davvero ciò che aveva detto! Anche per lei era stato così? Aveva sposato Marco solo perché era un buon partito e nient’altro? E l’amore allora, la complicità, la tenerezza, la fiducia reciproca, tutte cose fondamentali per la riuscita di un matrimonio, dove stavano? Che fine facevano? Non riuscivo a capacitarmi e dare una spiegazione razionale ai suoi ragionamenti. Mi ero stupidamente illusa che per una volta si sforzasse di capire, che per una volta prendesse le mie difese. Che stupida ero stata ad aspettarmi un po’ di sostegno da parte sua; non sapevo nemmeno come mi fosse venuta in mente una sciocchezza del genere.

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Da quando eravamo bambine, si era creata da parte sua una rivalità, una specie di gara per accaparrarsi l’affetto di mamma e papà, senza esclusione di colpi. Mi aveva sempre vista come una nemica, un’intrusa venuta a rubarle il posto nel cuore dei nostri genitori. Io tutt’ora non ne capivo la ragione; non avremmo potuto godercelo insieme il loro affetto, come in tutte le altre famiglie? Dopo tutto di amore non ce ne era abbastanza per tutte e due? Evidentemente per lei no e ci si era messa talmente d’impegno da essere riuscita a mettermi in cattiva luce ai loro occhi. Non sapevo perché ce l’avesse tanto con me e mi faceva soffrire il suo comportamento. Avrei tanto desiderato avere una sorella con cui parlare, confidarmi e ridere, mentre da lei avevo ricevuto solo odio. Aveva solo dieci anni quando il medico le aveva diagnosticato una forte depressione con gravi problemi comportamentali causata dalla gelosia nei miei confronti; così aveva consigliato ai miei di non trascurarla, di farla sentire sempre amata e ben voluta e di accontentarla il più possibile. Tutto ciò aveva fatto sì che a essere trascurata fossi io. Facevano di tutto per non turbare lei, mentre io ero stata messa in secondo piano e più attenzione pretendeva lei, meno ne davano a me. Così era cresciuta viziata e nella insopportabile convinzione di essere la migliore e di avere sempre ragione, e guai a chi la contrariava. Sapeva di essere la preferita e ne approfittava continuamente e per assicurarsi l’amore e la devozione dei nostri genitori; faceva tutto ciò che le chiedevano, così andavano tutti d’amore e d’accordo. Da bambina mi chiedevo spesso se ero stata adottata, perché non mi sentivo parte di quella famiglia. La mia sarebbe stata una terribile infanzia se zia Marta, sorella di mia madre, non fosse venuta a salvarmi. Era stata come una seconda madre per me; anzi meglio di quella vera, perché mi voleva bene e molte volte mi portava via da quella gabbia di matti, a casa sua. Era stata la mia salvezza! Non approvava il comportamento di mia madre e molte volte litigava con lei per prendere le mie difese. Mi aveva dato l’amore di cui avevo bisogno e sua figlia Monica era per me più una sorella che una cugina. Con loro avevo un bellissimo rapporto ed erano le uniche persone che mi mancavano davvero da quando ero venuta in Inghilterra. Le discussioni erano continuate all’infinito con mia sorella, che non la finiva di sbraitare e lanciare insulti, come se proprio lei avesse il diritto di giudicare me.

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«Ha ragione tua sorella – era intervenuta mia madre a un certo punto – è una vergogna ciò che hai fatto e non ti perdoneremo mai!» aveva usato il plurale naturalmente. E ti pareva che non l’avrebbe appoggiata anche stavolta! Con un sospiro mi ero girata a guardarla, rassegnata a sorbirmi tutti i rimproveri, le prediche, le recriminazioni che già sapevo sarebbero arrivate. A sessantaquattro anni Teresa Benvenuto era ancora una bella donna: capelli neri sempre ben pettinati, occhi castani, trucco leggero, portamento regale, aria altezzosa, con il suo abito blu scuro che la faceva sembrare più giovane dei suoi anni. Dal suo modo di fare, di parlare e di guardare gli altri dall’alto in basso, avrebbero potuto scambiarla per un aristocratica, ma proveniva da una modesta famiglia. Suo padre – nonno Andrea a cui volevo un mondo di bene e che purtroppo era morto parecchi anni prima – aveva un supermercato di generi alimentari e lei aveva lavorato lì come cassiera fino ai ventun anni, quando aveva sposato mio padre Antonio Lustro, figlio unico del proprietario di una delle più importanti imprese edili della zona. Erano rimasti a vivere ad Acireale, in una grande casa poco fuori città. Dopo circa sette anni, quando ormai avevano perso la speranza di avere figli, era nata mia sorella Carola, che era stata viziata e coccolata fino ai nove anni quando, per sua disgrazia, ero nata io. Mio padre non era ricco, ma la sua ditta gli fruttava abbastanza bene da potersi permettere un alto tenore di vita; era benestante e si era sempre premurato per non far mancare niente alla famiglia. Soprattutto cercava di accontentare in tutto e per tutto mia madre, per la quale stravedeva, e che con il passare del tempo era diventata sempre più snob ed esigente, considerandosi ormai una persona importante e con il diritto di mettere il naso in fatti che neanche la riguardavano. Diceva la sua su tutto, in particolare se si trattava delle sue figlie, e se prendeva una decisione non c’era modo di smuoverla. La cosa a cui teneva di più – anche più delle sue figlie, ne ero sicura – era il buon nome della famiglia. Lo scopo della sua vita era far sì che tutti parlassero bene di noi e avrebbe fatto qualsiasi cosa affinché non ci fosse stata nessuna macchia sulla nostra reputazione. In quel momento mi guardava con la solita aria di disapprovazione, unita stavolta al rancore. L’avevo combinata proprio grossa, non mi avrebbe mai perdonata, ce l’avrebbe avuta con me fino alla fine dei

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tempi! L’unica occasione per renderla orgogliosa di me, me l’ero giocata il giorno che avevo rotto il fidanzamento. Non ce ne sarebbe stata un’altra. Di tutte le cose brutte che secondo lei avevo fatto, questa era la peggiore e non c’era alcun rimedio. Ma quel che era fatto era fatto, mi dispiaceva di aver provocato tutto quel casino e sapevo di aver sbagliato ad attendere tanto. La verità era che avevo avuto paura. Sapevo bene cosa avrei affrontato, sapevo che avrei avuto non solo la mia famiglia contro ma anche gli amici, la maggior parte dei parenti, cugini… zii… e probabilmente tutti gli abitanti della città. Così avevo preso tempo convincendo me stessa che dopotutto Giacomo non era poi così male. Certo che avesse più cose in comune con mia madre e mia sorella che con me, mi dava da pensare. E che chiedesse i loro consigli invece dei miei perché a sentir lui erano più mature e avevano più buon senso di me, mi dava fastidio. Che non prendesse mai le mie difese quando discutevo con mia madre, mi mandava letteralmente in bestia. Che cercasse di controllare la mia vita consigliandomi cosa potevo o non potevo fare per il mio bene ancora prima del matrimonio – figuriamoci dopo – mi aveva fatto scappare a gambe levate, appena in tempo prima che fosse troppo tardi per potermi salvare. Non lo sapevo, forse ero troppo esigente, ma mi aspettavo dall’uomo che amavo almeno un po’ di comprensione e di sostegno visto che nella mia famiglia non ne avevo mai avuto e mi ero sempre trovata in minoranza senza nessuno che stesse dalla mia parte. Sapevo che Giacomo in fondo non era cattivo, solo non era l’uomo giusto per me. Mi era dispiaciuto ferirlo così, ma non sarei tornata sulla mia decisione. Adesso mi rendevo conto di non averlo mai amato veramente perché non soffrivo all’idea di non stare più insieme a lui, anzi mi sentivo sollevata. L’affetto che provavo nei suoi confronti all’inizio della nostra storia, anziché trasformarsi in amore come mi ero aspettata si era andato esaurendo con il passare dei mesi; perché più lo conoscevo, meno mi piaceva il suo modo di fare e di pensare. Però piaceva a mia mamma. Era proprio il tipo di marito che avrebbe desiderato per me e questo già avrebbe dovuto mettermi in allarme. Ma al tempo non ci avevo pensato, ed ero lieta che per una volta mia madre approvasse una mia scelta. Non era mai successo prima e questo mi aveva resa cieca su molte cose.

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Tutto quello che ero riuscita ad apprezzare nei due anni del mio fidanzamento era stato lo sguardo di approvazione e orgoglio negli occhi di mia madre, che per una volta invece che rivolto a mia sorella era rivolto a me, a me soltanto. Mi sentivo così orgogliosa! «Ce l’ho fatta! – mi ripetevo con entusiasmo – Finalmente mi vorrà bene quanto ne vuole a Carola!». Che sciocca ero stata! E che illusa! Solo adesso riuscivo a capirlo, mentre all’epoca il pensiero non mi aveva nemmeno sfiorato. Così avevo messo da parte i dubbi ed ero andata avanti, lasciandomi trascinare dagli eventi, che poi mi avevano portato a un passo dal matrimonio. Ma dentro di me sentivo che mancava poco per scoppiare e mandare tutto all’aria. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata quando, una sera mentre stavamo scrivendo i nomi sui biglietti di invito al matrimonio, mi ero distratta perché in televisione stavano trasmettendo un video dei miei idoli: i Missing in the dark. Li adoravo, li seguivo da anni ed ero stata a cinque dei loro concerti, nonostante mia madre avesse cercato di impedirmelo. La loro musica era la colonna sonora della mia vita, non passavo un giorno senza ascoltare le loro canzoni, che spesso mi avevano aiutato a superare certi periodi difficili. Stavo sempre meglio dopo averli ascoltati e anche quando ero triste o arrabbiata mi ritornava il buonumore. Quando li vedevo i miei occhi diventavano due cuoricini e poi ero proprio cotta e stracotta del loro cantante: Erik Preston. Era stato amore a prima vista, appena compariva in televisione non riuscivo a staccare gli occhi dallo schermo e se avessi potuto avrei sposato lui, ma sapevo che era una cosa inverosimile, così mi accontentavo di ammirarlo da lontano. Pensavo che crescendo la cotta mi sarebbe passata, invece era ancora lì ben presente dentro di me e non potevo farci niente. Avevo saputo del tragico incidente in cui aveva perso la vita sua moglie Shana, quasi un anno prima, ed ero molto addolorata per lui. Immaginavo quali conseguenze avesse avuto una tale disgrazia nella vita di Erik e delle loro due figlie. Tragedie del genere non si superano facilmente e auguravo a Erik con tutto il cuore di riprendersi presto. Mia madre era molto infastidita da questa mia passione, ma non me ne importava nulla. Quella sera, innervosita, non fece eccezione incominciando come sempre a offenderli in ogni modo possibile, cosa che io detestavo profondamente. Così le avevo risposto per le rime

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affermando che tanto, le piacesse o meno, al prossimo concerto dei Missing in the dark sarei andata comunque e che se avessi avuto la fortuna di vincere una grossa cifra al Superenalotto o con un gratta e vinci che ogni tanto compravo, per prima cosa sarei andata in Inghilterra a conoscerli. «Tu non faresti niente del genere! – era intervenuto allora Giacomo con fare arrogante – Smettila di comportarti come una ragazzina di quindici anni che sbava dietro il suo idolo; a ventitré anni non dovresti pensare ancora a queste stupidaggini. Ricorda che adesso devi rendere conto a me di quello che fai e se certi comportamenti sciocchi e immaturi puoi permetterti di averli con tua madre, di certo con me non sarà così!». Lo avevo guardato ammutolita dalla sorpresa. Mi sentivo umiliata. «Scordati di andare a qualche loro concerto! E se mai riuscissi a vincere al Superenalotto, saprei io cosa farne dei soldi. Altro che concerto e Inghilterra! Non ti permetterei mai di spendere un centesimo per quelli lì! Piuttosto mi ci pagherei l’abbonamento alle partite della Juventus e di tutte le trasferte per me e la mia famiglia per tutta la vita!». In quel momento lo odiai davvero con tutte le mie forze. Non risposi niente, ma dentro di me ardeva un tale incendio che se avessi aperto bocca lo avrei incenerito lì seduta stante; mentre lui tranquillo continuava a scrivere come se niente fosse, sotto lo sguardo compiaciuto di mia madre e soddisfatto di se stesso per come mi aveva zittita. Quella notte non riuscii a dormire, pensavo e ripensavo agli eventi della serata chiedendomi cosa diavolo stavo combinando. Cosa cavolo avevo in mente quando avevo accettato di sposarlo? Avrei fatto felice mia madre certo, ma la mia felicità che fine avrebbe fatto? Avrei passato il resto della mia vita con la fotocopia al maschile di mia madre e stavolta per me non ci sarebbe stato scampo, sarei morta di infelicità cronica! Cercavo di immaginarmi fra dieci-quindici anni, ma non ci riuscivo; che razza di vita potevo aspettarmi sposando un uomo del genere? Nei giorni seguenti fui molto silenziosa, guardavo mia madre tutta soddisfatta di come stavano andando le cose e provavo rancore per non avermi amata abbastanza da accettarmi per quella che ero e perché continuava a ferirmi con ogni piccolo gesto, un rimprovero, un occhiataccia.

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Guardavo Giacomo che ignaro dei miei pensieri si comportava da arrogante come al solito, e cercavo di capire o di ritrovare ciò che mi aveva attratta di lui. Sì, era molto carino, il suo modo di fare, di parlare, di comportarsi. Era ciò che avevo pensato quando l’avevo conosciuto al matrimonio di mia cugina Elisa. Lui lavorava nella stessa banca dello sposo e vedendomi si era subito fatto avanti invitandomi a ballare. Ci sapeva davvero fare e i suoi modi mi avevano affascinata subito; mi era sembrato sì un po’ rigido sotto certi aspetti, ma non pensavo fosse così grave da dovermene preoccupare. Mia madre appena ci aveva visti era andata subito in visibilio, perché suo padre Luigi La Terra era stato il direttore ormai in pensione, di una conosciutissima banca ed era ancora considerata una persona con un’ottima reputazione, stimato e amato da tutti. Giacomo aveva intrapreso la stessa carriera del padre e anche se per il momento era solo vicedirettore con un normale stipendio, aveva ottime prospettive di fare carriera. Di conseguenza mia madre lo considerava un ottimo partito, niente a che vedere con i ragazzi che avevo frequentato fino ad allora. Non mi era sembrato vero che per una volta non avesse avuto niente da ridire. Di solito era come un fastidioso ronzio dentro la mia testa, ma stavolta niente. Da non crederci! Era stato quello e il fatto non certo secondario che Giacomo fosse davvero carino – alto, bel fisico, occhi verdi e capelli neri – a farmi capitolare e farmi prendere decisioni che mai avrei dovuto assumere. Invece due anni dopo, mentre cercavo il momento più propizio per rompere con lui, lo guardavo e non riuscivo a scorgere niente dell’uomo che avevo conosciuto al matrimonio perché avevo scoperto che non mi piaceva quello che c’era sotto la superficie. Finalmente avevo aperto gli occhi, era come se una porta si fosse spalancata all’improvviso e mi avesse mostrato la realtà sotto una luce diversa; come se mi fossi svegliata da un lungo periodo di trance dove non avevo avuto nessun controllo sulla mia vita. Adesso non avevo più dubbi, sapevo cosa fare! Comunque era stato più facile prendere questa decisione che metterla in atto, perché sapevo quali sarebbero state le conseguenze e non ero sicura di essere pronta ad affrontarle. Ma il destino, o forse lo stesso Erik, mi avevano dato una mano.

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