TERRITORIO vs MUSEO. Il paesaggio come museo

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TERRITORIO vs MUSEO Il paesaggio come museo



GIORGIA FUMAGALLI


Sommario

Introduzione

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Parte i. Mythos e Topos: la memoria dei luoghi 1. L’origine del collezionismo: sacralità e memoria. 1.1. Tramandare la memoria: i primi mezzi comunicativi e il loro perpetrarsi nella storia della musealizzazione 2. Il primo spazio museale: il tempio 2.1 Oggetti, memoria e luoghi: sacralizzazione e conservazione 2.2 I primi rudimenti della museografia: l’allestimento e la comunicazione museale 3. La città palinsesto: i luoghi e la memoria 4. L’arsenale: la tecnica come elemento da musealizzare a testimonianza del progresso. 5. Lo spazio teatrale 6. Il giardino musaico: apprendere nella natura 7. Il museo di Alessandria: la casa delle muse 8. Pausania e l’Esegesi: una descrizione del territorio greco per rievocarne l’identità e la memoria dei luoghi Parte II. Topos

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Mythos. Il territorio come museo

1.Introduzione 31 2. Il territorio e il patrimonio immateriale: il riconoscimento dell’importanza del paesaggio come depositario della memoria 34 2.1 La convenzione per la salvaguardia del patrimonio immateriale 35

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2.2 La convenzione europea del paesaggio 3. La Land Art: il paesaggio musealizzato 3.1 L’arte come strumento di conoscenza territoriale e antropologica 3. L’ecomuseo: uno strumento di riscoperta del territorio e della comunità 3.1 I presupposti dell’ecomuseo e l’esperienza del museo all’aperto di Skansen 3.2 L’ecomuseo: una possibile definizione 3.2 Processi e strumenti costitutivi dell’ecomuseo: progettazione partecipata come metodo conoscitivo 3.3 Un’esperienza ecomuseale italiana: l’Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord 4. Il museo diffuso 4.1 Il museo diffuso della Resistenza, della deportazione, della guerra, dei diritti e della libertà di Torino

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Bibliografia

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Elenco e fonti delle illustrazioni

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APPENDICE

Note bio-bibliografiche delle autrici Attribuzione scientifica delle parti del libro L’idea di museo

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M.C. Ruggieri Tricoli, M. D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998.

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Introduzione

“Su’, dalle Muse dunque comincia, che allegran di Giove l’eccelsa mente, quando intonano gl’inni in Olimpo, e dicono le cose che furono e sono e saranno, con le parole espresse. Dal labbro alle Dive, la voce infaticabile scorre, soave 1

Nel testo L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale, le autrici si pongono l’obiettivo di dimostrare come i principi costituivi del museo e della sua capacità comunicativa siano in realtà remoti e riconducibili agli albori della società umana, e che siano quindi, in un certo senso, insiti nella natura dell’uomo e nella sua istintiva inclinazione a collezionare e conferire significato agli oggetti. Questo in contrasto con la comune convinzione che la nascita del museo sia ascrivibile al XVIII secolo con l’apertura al pubblico delle collezioni d’arte private. Il tentativo di trovare un esorcismo alla morte, portò già nell’uomo del Paleolitico un senso di sacralità del defunto e degli oggetti ad esso appartenuti, cercando conseguentemente di proteggere e conservare ciò che era traccia del passato. Questo alimentava l’idea individuale e collettiva di potersi perpetuare nel futuro e sfuggire dall’oblio. Un’aurea di sacralità pervadeva quindi i lasciti degli antenati, fino alla costituzione nella Grecia antica, dei templi, che si costruivano attorno alla presenza del passato e del dio. Questi edifici divennero presto non solo custodi di elementi eccezionali, ma anche di ciò che era testimonianza della comunità, quindi anche oggetti comuni significativi, trattati, armi, navi. Il conferimento collettivo di significato era esteso anche alle città, ai luoghi e al territorio, che erano la base su cui miti, credenze e identità collettive si erano plasmati alla ricerca del sacro, oltre che essere ricchi di segni che riconducessero alla memoria collettiva, ponendo le pietre miliari della comunità. Pausania nella 1 Esiodo, Teogonia

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sua guida, la Periegesi della Grecia, aveva redatto una sorta di enciclopedia in cui descrive il territorio greco del II secolo d.C. ormai in fase di decadenza, per poterne ricostruire fattezze e tradizioni, uniti ad aneddoti. Il suo obiettivo era raccontare una Grecia perduta e spoliata, la cui superiorità culturale doveva essere ricordata per conservare il sentimento di appartenenza dei suoi eredi. Di fatto il territorio era concepito da Pausania come un grande museo en plein air, su cui era disseminata una collezione non solamente tangibile, ma comprendente anche tradizioni, descrizioni di tecniche, il patrimonio che oggi definiremmo immateriale. Città e territori hanno sempre contenuto sottoforma di museo aperto documenti e monumenti, “collezioni” rintracciabili nel paesaggio urbano o nell’architettura all’interno del territorio anche come forma di comunicazione culturale . Pausania si accorse già che in “mancanza di vita”, solamente una lettura museale dei luoghi può riportare alla luce i principi della comunità, ed era quello che a cui i suoi predecessori mirarono ricorrendo a steli, epigrafi, pitture parietali, tutto l’apparato che rendeva opere ed edifici “parlanti”. Tutto ciò può solamente confermare la tesi proposta dalle autrici de L’idea di museo, che propongono l’idea di una continuità e riverbero della comunicazione museale antica nei musei contemporanei, i cui molti “riti” sono riconducibili al mondo classico, in cui avevano un senso effettivo e pratico legato a una cultura profondamente religiosa. Il senso del conservare era unito alla ricerca della comunicazione di significato, al fine di tramandare la memoria di un popolo. Questione che si pone ancora nell’ambito della museografia da una parte, dall’altra nel cercare di ricucire le maglie del tempo nelle comunità che ricercano la propria identità. Lo sguardo degli dei, cui le più splendide opere d’arte sembravano riservate, altro non è, in realtà, che lo sguardo delle generazioni che verranno. 2

2 M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p.176.

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Parte I. Mythos e Topos: la memoria dei luoghi

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1.L’origine del collezionismo: sacralità e memoria

Le autrici risalgono innanzitutto all’origine della tendenza a collezionare insita nell’uomo, per mostrare come questo fenomeno abbia portato, nello scorrere del tempo e nelle pagine del libro, alla formazione dei moderni musei. L’uomo è sempre stato animato da un istinto che lo ha portato a raccogliere oggetti che richiamavano, per vari motivi, la sua attenzione. Si può quindi affermare che l’attitudine a collezionare, intesa come «la somma capacità di percezione» come afferma George Henri Rivière: «è un’attitudine tipica dell’uomo, è un carattere antropologicamente fondamentale».1 L’attribuzione di significato a un determinato oggetto risiede nella sua particolarità formale non riconducibile ad uno schema abitudinario, quindi nell’eccezione. Ciò gli conferisce un’aura di sacralità, motivo per cui esso viene preservato ed esposto. La capacità di esprimere un giudizio estetico, inizialmente di natura empatica, è propria del collezionismo. Volendo definire questo ultimo termine si ricorre nel libro alle definizioni di Krzysztof Pomian e Walter Benjamin: per il primo significa la sottrazione dell’oggetto dal circuito economico unito alla capacità semiotica, per il secondo «sottrazione alla fatticità» In fin dei conti l’uomo è l’unica specie vivente sul pianeta Terra dotato di una memoria collettiva cosciente, e pertanto non è particolarmente straordinario che gli oggetti personali, seppur privi di un accreditato valore d’uso, possano comunque avere un senso per la comunità.2

Pomian riconosce inoltre due caratteristiche del collezionista: curiosità e pionerismo, che spingono l’uomo alla ricerca, alla collezione, all’interesse, alla G.H. Riviére cit. in M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p.9. 2 Ivi, p.13. 1

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conservazione di un determinato oggetto. Ciò si manifestava già nel Paleolitico, epoca in cui si attribuiva valore collettivo alle primitive collezioni, spesso individuate in oggetti quotidiani appartenuti a membri defunti della comunità. Attraverso la loro memoria, legata al luogo che l’aveva generata, il clan costruiva la propria identità, con il desiderio di perpetrarla nel tempo, difendendola. Ciò porta a creare un legame tra collezione e sito, che spinge quindi alla conservazione e protezione di entrambi, conferendogli quindi sacralità. Il conferimento di significato agli oggetti che porta al collezionismo e ad una ritualità legati ad essi, si deve anche alla volontà di ricerca dell’origine, come il mito. Proprio per questo si indaga e si ricerca, e questo è una caratteristica tipica dell’uomo in ogni epoca. Con il delinearsi della storia cresce il senso di ricerca e studio del passato e la volontà di conservarlo. Il collezionismo e la museologia nascono quindi con l’uomo, e dal suo istinto di attribuire agli oggetti un significato, e quindi una memoria da difendere e, in qualche caso, ricostruire. 1.1 Tramandare la memoria: i primi mezzi comunicativi e il loro perpetuarsi nella storia della musealizzazione Già con le collezioni mortuarie, le raccolte riprendevano vita solamente quando a loro supporto era presente un apparato comunicativo, come avveniva all’interno delle piramidi. La presenza di oggetti quotidiani doveva essere garantita affinché il kà del defunto ritrovasse al suo risveglio gli elementi della vita passata. Si nota quindi la «tendenza umana a musealizzare3», cioè utilizzare i mezzi della museografia per la trasmissione di un significato. Ricorrendo alla scrittura e alla pittura parietale ciò diventava possibile, come la riproduzione di determinati oggetti della quotidianità - magari con materiali più duraturi, come i metalliconcorreva a ricreare le condizioni di vita del defunto. Racconto, narrazione e illustrazione erano quindi come oggi un elemento chiave di interpretazione 3 Ivi, p.19.

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degli oggetti. Queste forme di collezionismo alternative alla vita fanno in modo che non esista più l’equivalenza museo-morte4 come oggi si afferma, credendo che una buona musealizzazione e comunicazione sono in grado di restituire la vitalità trasposta. L’istinto primitivo e animalesco di possedere si trasforma nella volontà di creare senso tramite oggetti, riuniti per trovare radici comuni ai propri simili. Queste collezioni, conservate, permettono all’identità collettiva di perpetrarsi, e quindi l’immortalità del popolo che li ha generati.

4 cfr. P. Valery, conferenza tenuta al musei Gugghenheim di Bilbao il 25 giugno 2001, in U. Eco, Il museo del terzo millennio, www.umbertoeco.it.

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2. Il primo spazio museale: il tempio

Con il passare dei secoli, nel particolare caso del mondo greco, il timore per la dispersione fece nascere l’esigenza di uno spazio di raccolta in cui ordinare gli oggetti semiofori, portatori di significati, intesi come depositari della memoria dei defunti e del passaggio degli dei sulla terra. Nella cultura greca questi due aspetti della memoria combaciavano, dal momento che più si risaliva ai propri antenati, più ci si avvicina agli dei, dai quali gli uomini derivano. La casa del dio, non è altro che la sua tomba, che lo rende immortale perché la sua memoria viene perpetrata. Il conferimento di significato all’oggetto era strettamente legato al concetto di memoria: i doni votivi e sacrificali servivano agli dei per ricordarsi degli uomini. Il termine mnémata designa infatti gli oggetti, i ricordi che vengono offerti. La memoria deriva quindi dalla concretezza dell’oggetto, come per i musei di oggi, dove ciò che viene esposto è sia un “segno” che un “ricordo” al tempo stesso. Alle collezioni mortuarie fruibili solamente dai morti, si affiancarono quelle votive a carattere religioso, prima accessibili solamente ai sacerdoti e successivamente a tutti i fedeli. Nacque quindi il tempio come luogo della tesaurizzazione, come: il più importante luogo delle collezioni, di quelle raccolte di oggetti che, o per il loro particolare valore, o per il loro particolare significato, o per la lor particolare bellezza, vengono selezionati e destinati a forme privilegiate di contemplazione. Tale contemplazione [...] si trasforma[...], assumendo decisamente un vero e proprio carattere pubblico.1

Il tempio assunse col tempo un carattere narrativo, in particolare con il supporto della raffigurazione parietale, che diffuse la produzione di oggetti artistici e la necessaria capacità di leggerli. Questo tipo di narrazione visiva è stata un 1 M.C.Ruggieri Tricoli, M.D.Vacirca, l’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p.30.

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fondamento della moderna museologia, per narrare eventi storici e vicende archeologiche e scientifiche. La loro progressiva apertura alla collettività ebbe valenza didattica, identitaria e di significazione, oltre che di tutela. Come il museo di oggi, il tempio aveva una sua area di influenza definita dal temenos, a cui si accedeva seguendo un percorso di conoscenza. Ma soprattutto la derivazione va letta nella sacralità attribuita agli oggetti d’arte, che è alla base del concetto di tutela e conservazione odierno. 2.1 Oggetti, memoria e luoghi: sacralizzazione e conservazione Con il progredire della tecniche e dell’artigianato nella cultura greca, sia doni votivi che sacrificali, gli anathémata, per la loro grande richiesta, vennero sostituiti da simulacri prodotti artigianalmente, diventando oggetti matericamente durevoli. Le opere erano accompagnate da epigrafi che ne indicavano artista e storia, ponendo quindi un ordine all’interno del tempio. Venivano ricordati sacerdoti e sacerdotesse, guardiani dell’edificio, e venivano conservati i sémata, paragonabili alle reliquie cristiane, come nel tempio di Artemide a Caphyae, dove erano custoditi i resti del platano sotto il quale i greci compirono un sacrificio prima di salpare per Troia. Lo stesso Eretteo era concepito per mostrare pezzi unici, legati alla città e al mito di Atene, come l’ulivo di Athena nel cortile del Pandreseion. A seconda della divinità e del sito sul quale sorgeva il tempio venivano fatti sacrifici e offerte determinate donazioni. Tutto ciò che era bello, raro e di eccellenza, gli àghata, era considerato degni degli dei, costume che col tempo includerà oltre che al campo delle arti, anche quello scientifico e tecnologico, quindi trattati ed oggetti come carri, navi. Così si preservavano questi elementi dall’oblio e dal furto. Il tempio assunse anche il ruolo di archivio, custodendo scritti importanti, come trattati di pace. Epigrafi erano collocate sulle sue pareti, denotandone il carattere didattico. Proprio per questo venivano poste ad altezze utili per essere lette. I templi divennero anche meta di pellegrinaggio, essendo anche luoghi di cura della persona. Ad Epidauro i nove chilometri di strada che portavano al tempio era un vero e proprio museo en plein air per la

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quantità di ex voto raccolti. Da questo un parallelo temporale: si nota come oggi il museo non punti solamente alla conservazione dell’oggetto “estetico” che porta con sé la un determinato ricordo, ma anche ad ogni altro tipo di memoria, che deriva dal senso di meraviglia per gli oggetti comuni e quotidiani, in particolare al luogo di culto del dio. Gli ànathemata raccontano della cultura di una determinata città, della sua identità, in quanto rappresentanti delle tecniche locali e anche semplicemente dell’identità religiosa della comunità. 2.2 I primi rudimenti della museografia: l’allestimento e la comunicazione museale Da edificio legato al luogo dal mito, atto a ricordare un evento divino, il tempio si trasformò quindi in luogo per mostrare. Si assiste per questo motivo ad un suo ampliamento, dovuto a particolari donaria, ma anche ad un’attenzione per temi che sono oggi quelli principali della museografia: controllo illuminotecnico e studi relativi alla conservazione e al controllo igroscopico. La cella del tempio, per esempio, veniva illuminata dall’unica apertura dell’ingresso, per cui col tempo si assiste a studi per ricavare finestre che rientrassero nella scansione dei colonnati, piuttosto che di tagli in facciata. Per migliorare la fruizione, vengono pensate stoai uperòoi, ballatoi laterali che permettevano un affaccio dall’alto verso l’interno del tempio, come si presume avvenisse ad Atene per il Partenone. L’utilizzo di materiali come l’alabastro permetteva di avere luce ed effetti cromatici particolari nell’edificio templare. Gli accorgimenti adottati all’epoca riguardavano anche la conservazione degli oggetti, testimoni di memorie e che per questo da conservare. Nel testo, per esempio, viene citata la statua di Zeus situata nell’Olympeion dell’Altis, per la cui preservazione fu realizzata una vasca in calcare nero riempita di olio, che permetteva l’assorbimento dell’umidità del sito boscoso. Per l’allestimento degli anathémata, si provvedeva ad ambientare questi oggetti per riprodurne le condizioni d’uso: si ritrovano piatti appoggiati sulle

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ginocchia delle statue 2 o su una tavola posta ai piedi del dio. Si tentava di rappresentare genealogie e rapporti interpersonali: «Dentro l’Heraion di Olimpia la statua arcaica di Hera è posta, ai tempi di Pausania, accanto a quella di Zeus»3, per ricreare una logica narrativa e didattica. C’era sempre il tentativo di contestualizzare gli oggetti modificando anche architettonicamente il tempio, che risulta quindi come una stratificazione e libro di memoria esso stesso. Le sue decorazioni non sono infatti altro che la pietrificazioni di elementi facenti parte dell’architettura dell’edificio o oggetti sacrificali, tramandando così la memoria costruttiva dell’edificio stesso, tramite la significazione. Le autrici vedono come già nei templi fossero vivi gli elementi su cui si fonda la museologia moderna, che ha come scopo tramandare la memoria preservando gli oggetti, che non sono altro che la concretizzazione di ricordi ed eventi. Questo del radicarsi e dell’autoidentificarsi di un popolo negli oggetti della propria memoria storica e territoriale è un concetto fondamentale anche per la museologia. A tale situazione non è certo estraneo, per la Grecia classica e per la sua capacità di accumulare semiofori urbani, il costituirsi di una mentalità fortemente competitiva (singola e/o collettiva), da molti addotta a molla fondamentale del sentire classico. Così come, per l’attualità museologica, va ricordato il concetto di «agonismo», dal Pomian collegato al concetto stesso di collezionismo.4

Le città greche erano cosparse di statue e oggetti che portavano con sé la memoria di qualcosa o di qualcuno a scopo didattico e identitario : attraverso la lettura della pòlis ogni cittadino si sentiva parte delle collettività, in un’organizzazione sociale comunitaria e competitiva con le altre, altro motivo per conservare e dare origine al concetto di collezionismo. A conclusione si può dire che quello greco, è un territorio, descritto da Pausania, che potrebbe essere definito «parlante» e comunicativo, carico di significati che vogliono essere espressi e conservati.

2 cfr. Iliade, 6. 83-93. 3 M.C.Ruggieri Tricoli, M.D.Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p.48. 4 Ivi, p.61.

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3. La città palinsesto: i luoghi e la memoria

Nell’età classica il rapporto con i luoghi e la natura era alla base della vita religiosa, tòpos e mythos : ogni mito era legato infatti ad un luogo naturale e fisico, dove nascevano poi i templi per il culto, come per esempio il santuario di Delfi, dove si narra che la Pizia rivelasse cripticamente il futuro. Il tempio diveniva il luogo della conservazione, e lo spazio interno al recinto sacro e all’edificio un luogo di memoria archeologica. La città stessa era un museo narrante, la stoà si arricchisce di dipinti ma anche di oggetti legati alla memoria, come se fosse un museo civico che si commistiona con le attività commerciali che si collocavano sotto i propri portici, in particolare ad Atene, come Pausania ricorda «In questo portico, il primo dipinto presenta gli Ateniesi schierati a Enoe, nell’Argolide, contro gli Spartani [...] Nel mezzo della parete è rappresentata la battaglia di Teseo e le Amazzoni [...].»1. Inoltre erano collocati qui degli oggetti quali «scudi di bronzo, alcuni dei quali recano un’iscrizione attestante che furono tolti agli Scionei e ai loro alleati». Era usanza rievocare episodi e personaggi con lapidi ed epigrafi, che disseminavano letteralmente l’intero territorio, dai siti più frequentati a quelli più remoti. Questo perché i greci, in particolare ciascuna pòlis, si sono sempre identificate come una collettività e non come insieme di individui, perciò la città diventava un luogo di rappresentanza da abbellire tramite la commissione di opere d’arte. Dalla loro osservazione, il cittadino provava un senso di gioia legato alla bellezza, agàlmata. Anche la città era concepita secondo questo principio, per cui essa era il risultato di allineamenti e punti di vista prospettici, come nel caso dell’Acropoli di Atene. 1 Pausania, Periegesi della Grecia,in M.C. Ruggeri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, pag.73.

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In una civiltà fortemente teatralizzante, in cui anche il rapporto figura/sfondo era studiato scenograficamente, la città diventa una macchina mnemotecnica,ovvero «un complesso dei vari espedienti escogitati per aiutare la memoria a ritenere date, termini tecnici, liste cronologiche e altre nozioni difficilmente associabili tra loro e riconducibili a sistema, e che quindi si ricordano con difficoltà» 2. Il sistema delle epigrafi è erede degli obelischi assiri, delle steli mesopotamiche e dall’epigrafia egizia. Si vuole così tesaurizzare la storia della città tramite una lettura in movimento, di cui veniva studiata la fruizione: altezza del testo, collocazione e dimensione dei testi. Come avviene oggi nell’allestire un museo o una mostra. Con questi mezzi, la città tramandava sé stessa, insieme alla collettività che la abitava. Ogni suo elemento parlava a chi lo scrutava, trasmettendo l’identità di un popolo, che già ai tempi di Pausania era una realtà passata, muta.

2 L.Robert, Epigraphie, in C. Samaran, a cura di, L’histoire et ses méthodes, in Encyclopédie de la Pléiade, v.11, Gallimard, Parigi 1961, p.454.

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4. L’arsenale: la tecnica come elemento da musealizzare a testimonianza del progresso

In epoca classica l’arte era, come si è visto, parte della vita collettiva e si ritrovava nei templi, nei portici, nei luoghi della vita quotidiana. Per Pausania, alla ricerca di elementi auto-identificativi, è interessante indagare quindi questi aspetti, che la museografia ottocentesca ha escluso dalle proprie collezioni considerandoli «minori». Oggi il museo, come strumento di conoscenza anche di una comunità, non può costruire la propria collezione solamente sull’eccezionale, ma anche fare affidamento su ciò che è vicino, conosciuto, senza mettere in dubbio che la meraviglia per l’unicum sia stato uno dei fattori che ha creato il fenomeno del collezionismo. Certamente questo genere di collezionismo è determinato per i musei odierni già da ragioni di spazio. Ma questo motivo non cambia nulla al fatto che così noi abbiamo immaginato del tutto incomplete [...] della cultura del passato. La vediamo [...] nei suoi sfarzosi abiti festivi e soltanto di rado nei suoi abiti da lavoro, che in genere sono alquanto dimessi.1

Infatti oggi si tende sempre di più ad indagare come una comunità si sia approcciata al proprio territorio, sia per scoprire sè stessa sia, in una società multietnica, conoscere il diverso. Già in Grecia il lavoro e gli oggetti d’uso erano interessanti quanto i prodotti artistici e questo è dimostrato dal mantenimento di un edificio come lo skenothéke di Filone, un arsenale che sorgeva al Pireo, presso il porto di Zea. Esso era concepito sia come punto di deposito, costruzione e riparazione di navi, ma 1 E.Fuchs, cit. in W. Benjamin, Eduard Fuchs, Il collezionista e lo storico, in M.C.Ruggieri Tricoli, M.D.Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 84.

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anche come connessione tra il porto e la città: in esso era possibile passeggiare e osservare tutto quello che accadeva al suo interno, era parte integrante della città. Una ricostruzione plausibile la fornisce sir James George Frazer: nelle calde giornate estive masse di persone vi si recassero, liete di sfuggire alla polvere e alla luce accecante delle strade, e di poter passeggiare nella penombra della galleria fresca e spaziosa, fermandosi ad ammirare con curiostià oziosa o con orgoglio patriottico la lunga serie di arnesi ben ordinati, che parlavano della supremazia navale di Atene.2

Le navi venivano usate anche come doni agli dei e oggetti rituali nelle processioni sacre, ma scatenano ancora oggi l’interesse nei visitatori, costituendo sempre una questione museografica: l’allestimento di una nave. Qui ancora una volta la tesi sostenta nel libro in esame ritorna: la questione della comunicazione museale è presente da sempre. Il fascino esercitato da un marchingegno, da una meridiana, da un orologio rimane immutato nei secoli. Il museo di Alessandria dimostra come il progresso tecnico era quasi considerato come un divertissement più che uno studio a fini utilitaristici: il fascino del marchingegno rendeva gli oggetti collezionabili. Nel mondo romano questo fenomeno continua, ritrovando i navalia, dove erano conservate le navi conquistate o di età repubblicana ad esempio, e questo a fini di propaganda politico-militare. Soprattutto in Grecia, era usanza quotidiana visitare questi luoghi di raccolta, soprattutto per gli abitanti del territorio dove questi sorgevano, a differenza di oggi: l’esperienza del museo di esaurisce spesso ad una visita, e ciò che è percepito come eccezionale è quasi appiattito dalla pubblicità costruita attorno ad essa. [...] un messaggio è tanto più ricco di informazione quanto è più ricco di contenuti inattesi. A volte [...]è proprio l’oggetto inatteso, anche se modesto, che ci fa riflettere: la visione del pargoletto intento al primo bagno, l’improvvisa identificazione, magari da uno spettatore alle prese con il suo non tanto beneamato odontoiatra, di un aureo ponte dentario etrusco.3 2 J.G. Frazer, Sulle tracce di Pausania, in I peradam, Adelphi Edizioni, Milano 1994, p. 134. 3 M.C.Ruggieri Tricoli, M.D.Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore Milano 1998, p.92.

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Da questo la necessità per il museo di occuparsi anche di altri tipi di memoria, non solo di monumenta. L’avvicinamento personale ad un oggetto è un’esperienza maggiormente costruttiva, scatena più meraviglia che in qualcosa percepito come esotico. E la didattica museale deve puntare a questo: all’immedesimazione. Su questo principio si basano tipologie museali come il museo antropologico, ma soprattutto gli ecomusei e i musei diffusi, interessati ad aspetti culturali del quotidiano che possono essere conosciuti e compresi solamente con una lettura in parallelo del territorio.

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5. Lo spazio teatrale

L’esperienza museale odierna mira a coinvolgere totalmente il visitatore, dove il percorso è unito alla lettura, alla visione. Ma questo non è molto distante dal mondo greco e alla sua concezione di spazio coinvolgente. La distribuzione delle architetture e l’integrazione dei monumenti nel territorio erano dettati da regole di figura/sfondo, correzioni ottiche, tutti elementi che tendono a teatralizzare lo spazio, creando gerarchie visive, prospettive determinate. Ciò era applicato anche ai templi e alla distribuzione degli edifici sull’Acropoli per esempio. Il teatro per i greci era il luogo «dove si impara a guardare»1, in particolare guardare da lontano, dalla distanza, intessuta di rapporti visivi e determinati effetti ricreati tramite luci, suoni, architettura. Questa ricerca teatrale di ambientamento è alla base, secondo le autrici, della teoria che il museo derivi, per la sua capacità di «mettere in scena» gli oggetti, da tale esperienza. Molti musei oggi si avvalgono di espedienti che immergono il visitatore nel museo, utilizzando musiche, suoni riprodotti come le voci dialettali che rieccheggiano nelle sale dei musei dedicati alla tradizione popolare per esempio. Sembra vero anche il contrario, ovvero che il teatro greco debba molto all’istituzione museale nel suo ricordare tramite l’integrazione di statue nella propria architettura per esempio, le proprie origini, i grandi autori e miti. L’architettura entra in questa logica allestitiva, ed elementi come la stoà diventano strumenti comunicativi, che ambientano le scenografie e che faranno parte anche dell’apparato museale. Nell’intenzione infatti di creare un contesto adeguato alle opere da esporre, questi elementi architettonici vengono calati nei musei, forse con meno forza che nei teatri greci e con chiaro intento simbolico. 1 M.C.Ruggieri Tricoli, M.D.Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p.97.

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Ed è questo che modernamente succede, quando l’architettura è chiamata a «contestualizzare gli oggetti all’interno di ambienti urbani minutamente riprodotti o di situazioni architettonico-urbane soltanto vagamente alluse»2 senza ricorrere all’uso di teche, diventando luogo per le memorie di cui l’allestimento è una rievocazione.

2 Ivi, p.103.

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6. Il giardino musaico: apprendere nella natura

Era credenza, nella cultura greca, che la più alta forma di conoscenza fosse quella delle proprie origini: sia individuale, avendo cognizione delle vite precedenti, che di quelle della propria comunità. Ciò era possibile bevendo dalla fonte di Mnemosyne, l’unica a dare i principi in cui credere, la dea onnisciente che tutto sa del passato e del futuro che su di esso si basa. In tal modo si operava un esorcismo contro la morte e l’oblio, quello a cui è destinato il museo oggi. Nel comunicare questo il museo si affida a ciò che è stato prodotto nel passato, i documenti. E ciò è riconducibile a Mnemosyne, la memoria e le sue figlie Muse, depositarie dell’arte: esse tramandavano e comunicavano il ricordo, concretizzandolo nella musica, nella pittura, nella scultura, nella poesia, oltre che essere protettrici delle tecniche. Il termine museo non poteva che derivare da queste figure. Esso non a caso si pone oggi come organismo capace di evocare il passato, richiamarlo in vita: le muse garantiscono attraverso l’arte la memoria collettiva, la riscoperta delle origine, del mito, dell’archetipo, la realtà primordiale di cui è intessuto il cosmo e permettono la comprensione del futuro. Le muse, associate a volte alle ninfe, vivevano all’aria aperta, come Dioniso a cui esse sono associate: egli è l’unico dio visibile, abitante nelle foreste, ed era definito il distruttore di tetti. Il vivere senza una copertura sulla testa simboleggiava la fuoriuscita della creatività e dell’intelligenza, per cui la diffusione del sapere. Da qui l‘origine dei luoghi votivi nelle grotte, nei boschi, che divennero luoghi sacri di conoscenza. La nascita dei giardini musaici segue questa credenza, dove la mente viene stimolata dal benessere del corpo, che all’ombra dei platani discerne e discute di filosofia, astronomia, fisica. I giardini musaici si svilupparono diventando giardini sapienziali, muniti di sacellum; si ornarono di colonnati per il passeggio, i peripàtois, dove si apprendeva camminando; si

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costruirono al suo interno biblioteche, ginnasi, luoghi di aggregazione come nell’accademia di Platone, l’òikos, dove si svolgeva il simposio, momento di esibizione poetico-musicale condiviso. Si delinea il connubio fra scienze dello spirito e scienze del reale, fra arti visive e memoria scritta, fra spazi aperti e chiusi, che diventerà il fondamento dell’oratorium e laboratorium del chiostro medievale, ma soprattutto veniva data grande importanza al rapporto tra natura e scienza, che è vivo ancora oggi ed è il principio alla base dei moderni ecomusei. In esso la conoscenza si accompagna al ludus, l’allenamento della mente è unito a quello del corpo. In parallelo, si ritorna oggi ad una concezione passata del sapere legata in particolare al territorio e che si svolge all’aria aperta, con l’obiettivo di rifondare il futuro del museo, in particolare nella concezione di un museo al di fuori di sè, sotto l’auspicio di Mnemosyne e delle muse, che abitano i luoghi. L’esperienza di ammirare opere d’arte nella natura, ad esempio, è oggi desiderabile, attira il pubblico, scatena il senso di meraviglia, come si vedrà con l’approfondimento in Museo vs territorio.

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7. Il museo di Alessandria: la casa delle muse

Nei casi fin qui analizzati, sono gli oggetti disseminati sul territorio a trasmettere conoscenza. Essa però deve essere elaborata, per essere trasmessa, da un altro tipo di conoscenza: quella elaborata dall’uomo, che utilizza il concetto della collezione libraria come strumento ordinatore. Non è semplice rintracciare la tipologia della biblioteca nel mondo greco, che va ricondotta secondo le autrici alle biblioteche del primo millennio, come quella di Borsippa, attiva ancora al tempo dei greci, piuttosto che alle raccolte librarie dei templi o l’antecedente egizio. La costruzione di biblioteche pubbliche è da attribuire agli studiosi, come la definizione di una tipologia architettonica adeguata. Il prototipo più significativo rimane il Museo di Alessandria, il Musèion, voluto da Tolomeo, risalente al IV secolo a.C. Esso si ispira a modelli ateniesi, come l’Accademia, ma in particolar modo il Peripato. Si narra che i greci studiassero in questo luogo, che permetteva una buona illuminazione ma anche di sedersi e leggere a voce alta senza disturbare gli altri studiosi. Il Museo era assimilabile ad un ginnasio: aveva un cortile centrale delimitato da un portico continuo che distribuiva varie sale, sia per lo studio che l’attività fisica. La pianta era quadrata come molte palestre, presentava colonnati che permettevano la continuità visiva. In esso erano presenti opere d’arte, ma anche specie botaniche e animali varie, era un luogo di cultura a tutto tondo, dove gli studenti alloggiavano come in un college. Anche il carattere funebre era presente: all’interno del Museo fu eretto il mausoleo di Alessandro. Biblioteche successive presero il Musèion come modello tipologico, sviluppando soprattutto in età romana una sensibilità ulteriore per gli aspetti conservativi, organizzativi (la suddivisione in biblioteca greca e latina ) e di ambientamento. Lo spirito delle muse è però sempre presente, in quella dialettica che unisce il sapere intellettuale al benessere del corpo.

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8. Pausania e l’Esegesi: una descrizione del territorio greco per rievocarne l’identità e la memoria dei luoghi

Fin dal V secolo a.C. nel mondo greco erano diffuse le guide: esse riguardavano la storia dell’arte figurativa ma anche esegesi. Questo fenomeno si amplia significativamente in età ellenistica, misurando un maggior interesse in quest’epoca per l’arte, a differenza dell’età classica in cui ci si interessava maggiormente agli usi, alla conoscenza della società. Il turismo era già infatti un fenomeno diffuso, alimentato dalla corrente aristotelica, con il suo slancio per la diffusione della cultura. Ciò riguardava anche l’ambito geografico, dove troviamo in particolare due testimonianze, quella di Polemone e quella di Dionigi di Alessandria, interessati ai miti di fondazione urbana, che attestano la grande diffusione che questi testi avessero. Ma è Pausania a dare un grande contributo alla tipologia delle esegesi: egli compie una sorta di rifondazione del mondo greco ormai decaduto, in quanto depositario del profondo sentimento di identità etnica formatasi prima in età classica in chiave di unità urbana e poi in chiave di unità territoriale in epoca ellenistica. Era questa l’epoca di massima espansione dell’impero romano, ed era quindi per lui necessario sottolineare la supremazia estetica dei greci, la loro magnificenza civile. Proprio per questo egli supera lo scetticismo verso i miti locali per raccontare la memoria etnica, nella convinzione che, come sostenuto dalle autrici: [...] il mito non è un emarginato folklore, ma una sostanza, forse poco credibile, ma necessaria alla conservazione del sentimento di appartenenza[...] Quando la retorica non basta più [...], sono le cose a rivendicare l’interpretazione corretta sugli accadimenti, a comunicare la verità, ma perfino a comunicare una verità relativa, accettabile in quanto accettata.1 1 M.C.Ruggieri Tricoli, M.D.Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel

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Tutto questo a dimostrare, come la koinè, la civiltà greca coincida esattamente con lo spazio geografico, essendo i miti legati ai luoghi. In un contesto ormai ridotto a sito archeologico, solo la poesia e gli epigrammi potevano riecheggiare l’antico splendore, come fece Omero per Troia. Alla stregua del poeta, Pausania tesse quella che lui definisce una autopsia: la diretta visione del vasto museo che è costituito dal mondo greco, ormai “oggetto da collezione”, in quanto saccheggiato e uscito dalla sfera della quotidianità, dell’uso. Gli stessi monumenti vengono privati della valenza politica, non esistendo più la koiné e a la libertà. Plutarco scrive che ormai al suo tempo gli dei legati ai luoghi si sono ammutoliti, Pan e con lui le muse, anima del territorio, sono per lui morti. La Periegesi di Pausania si pone quindi come un museo a scala geografica, con la convinzione che solo una lettura museale del territorio fosse in grado di far rivivere la Grecia e il suo spirito. Questo tentativo cerca quindi di affidarsi al concetto di musealizzazione territoriale come supporto di una nuova memoria etnica, di un nuovo potente strumento di autoconservazione. Come affermano le autrici infatti: Nel momento della massima affermazione di un nazionalismo supernazionale, quello romano, anche Pausania si rende conto, che occorrono strumenti ri-tribalezzanti, capaci di disinnescare l’omologazione culturale, che al tempo dei Romani si chiamava sinoecismo e che oggi si chiama villaggio globale.2

Nella storia dei popoli egli individua nell’arte lo strumento di socializzazione e coesione. I musei intesi come luoghi della memoria collettiva e dell’arte si pongono quindi direttamente in relazione con il principio antropologico di società civile. Questo presuppone alla base un istinto innato nell’uomo, la topofilia, l’amore e l’attaccamento ad un luogo. «Ogni città dovrebbe avere le sue raccolte capaci di ricucire la memoria ed il possesso individuale con la memoria ed il possesso collettivo, facendosi mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p.164 2 Ivi, p.103.

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strumento di una ritrovata o riaffermata identità».3 Una comunità senza passato è infatti incompleta e sradicata. Il museo ha quindi una natura triplice: macchina della memoria, macchina teatrale e soprattutto macchina di identità. Una comunitò nel custodire e conoscere la propria memoria supera anche momenti storici sfavorevoli, serve a rielaborare il lutto e accrescere il senso di umanità. Già nell’antica Grecia per esempio venivano museificati i campi di battaglia. Oggi si ripete lo stesso gesto sacrale. I sentimenti dell’uomo nel corso di secoli e millenni rimangono quindi invariati , e la tesi della due autrici viene confermata da quegli stessi sentimenti che animano e che portano le persone a rintracciare la propria memoria, ricordare una persona, stupirsi al cospetto di un oggetto che accorcia le distanze del tempo nella semplicità della quotidianità.

3 Ivi, p. 168.

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Topos

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Parte II. e Mythos. Il territorio come museo


Introduzione

Il museo si compone, è vero, di statue, di colossi, di obelischi, di colonne trionfali, di terme, di anfiteatri, di archi di trionfo, di tombe, di stucchi, di affreschi, di bassorilievi, di iscrizioni, di frammenti, di ornamenti, di materiale da costruzione, di mobili, di utensili, ma cionondimeno è composto dai luoghi, dai siti, dalle montagne, dalle strade, dalle vie antiche,dalle rispettive posizioni della città in rovina, dai rapporti geografici, dalle relazioni fra tutti gli oggetti, dai ricordi, dalle tradizioni locali, dagli usi ancora esistenti, dai paragoni e dai confronti che non si possono fare se non nel paese stesso.1

Questa citazione posta a conclusione del libro L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico fino a qui analizzato, suggerisce l’idea che l’istituzione definita «museo» non sia semplicemente un edificio in cui si ritrovano frammenti eccezionali e singolari di un’epoca remota, ma anche un luogo in cui si conservano e si riscoprono tradizioni e miti che costituiscono parte dell’identità di una comunità. Tanto più che se originariamente, come affermato nei primi paragrafi del libro, ciò che era diverso e singolare era oggetto da collezione, oggi si registra l’opposto. Quello che riflette in qualche modo noi stessi infatti sembra suscitare grande meraviglia, il cosiddetto «effetto specchio» che si vedrà successivamente di Henri Rivière. Proprio per questo si pone la questione della conservazione di questo patrimonio radicato al territorio per la trasmissione alle generazioni future, una base su cui costruire. Si è infatti recentemente riconosciuta ufficialmente grande importanza al patrimonio intangibile, come dimostra la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, approvata il 17 ottobre 2003 dall’UNESCO2. Dagli anni ‘70 si diffonde un senso di rispetto e di salvaguardia per il paesaggio, deturpato 1 A.C.Quatrémère De Quincy, in M.C.Ruggieri Tricoli, M.D.Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 174. 2 UNESCO, Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale,www.unesco.it.

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dall’azione dell’uomo e destinato a perdere le proprie specificità, sia naturalistica che antropologica. L’arte, da sempre strumento politico e comunicativo, si prende in quegli anni l’incarico di reagire a questa situazione, trovando nel paesaggio stesso un modo per riscattarlo, musealizzandolo, ovvero riattivarne il significato, il genius loci. Questa corrente artistica prende il nome di Land Art, che vede gli artisti spostarsi al di fuori del museo, approfondire la conoscenza dei luoghi e sfruttarne la caratteristiche fisiche per riabilitarli. Anticamente l’appartenere a una determinata pòlis era motivo di orgoglio, tale che la città veniva adornata con opere d’arte e architettoniche, differentemente dalla casa privata. Era una vita comunitaria, ecumene, da oikūménē, (terra) abitata. Mentre si trova oikoméne, abitante, da oikos, abitazione, intesa come nucleo famigliare, base della società. Da qui il prefisso «eco», che non deve essere interpretato nell’ottica della sostenibilità come oggi ricorre sempre più spesso, ma in quella di comunità. Ecomuseo. Ovvero un museo della comunità. Il legame con il proprio territorio rimane quindi un’invariante della storia dell’uomo, come la stessa volontà di conservare e sacralizzare, con l’istituzione del museo, tracce della memoria. L’ecomuseo è uno strumento ambivalente: da un lato serve a una comunità per conoscere meglio sè stessa, dall’altro al legislatore per una migliore e più attenta progettazione del territorio. Sulla convinzione che un manufatto, un oggetto, debba mantenere un legame con l’ambiente che l’ha prodotto, e quindi essere conservato in situ, si basa una seconda tipologia museografica: il museo diffuso. Esso si pone come obiettivo collegare a scala territoriale istituzioni museali, emergenze naturalistiche, poli industriali o realtà umane ormai dismesse ma significative per la comprensione del territorio. Dalla creazione della rete si mira alla creazione di dinamiche che possono attrarre maggiormente i luoghi, sia a livello di conoscenza e turismo, ma anche dal punti di vista economico. L’approfondimento segue quindi una logica che parte dalla possibilità di musealizzare un territorio utilizzando solamente le sue peculiarità, a essere una risorsa e strumento di conoscenza per la comunità, fino a divenire supporto a una rete di differenti dinamiche che allo stesso tempo lo coinvolgono e lo

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indagano, ponendolo come base su cui è costruito un sistema. Il territorio risulta l’espressione e l’esito della complessità della natura e della cultura, delle azioni antropiche sul paesaggio nella loro sedimentazione storica e nel loro attuale impatto. È un palinsesto, in esso ritroviamo componenti della vita umana che non devono perdere la capacità di comunicare, rimanendo vive nella comunità ma soprattutto agli occhi del pianificatore, che non può prescindere da esse. La sua tutela deve diventare obiettivo primario per la collettività: senza la trasmissione e la conservazione del paesaggio che l’ha prodotta, non è possibile costruire un futuro nel quale ci si possa riconoscere. Per questo in un certo senso il territorio «va verso» il museo: nel paesaggio sono presenti tracce che esso stesso sacralizza, ne conserva il mito e l’archetipo, l’uomo lo interroga in cerca di risposte e lo ammira. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la distanza dal suolo d’un lampione e i piedi penzolanti d’un usurpatore impiccato; il filo teso dal lampione alla ringhiera di fronte e i festoni che impavesavano il percorso del corteo nuziale della regina [...]. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale .3

3 I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972, p.3.

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1. Il territorio e il patrimonio immateriale: il riconoscimento dell’importanza del paesaggio come depositario della memoria

Pausania nella Periegesi (Ἑλλάδος περιήγησις - Helládos Periēgēsis) tesse una descrizione della Grecia antica andata ormai perduta nella sua epoca, il II secolo d.C., con l’intento di ricostruire la storia delle regioni a cui i dieci libri sono dedicati. Con ciò egli si pone l’obiettivo di ricomporre un ‘identità greca basata sulla memoria dei luoghi, dove emerge un aspetto fondamentale della cultura classica. Si tratta della corrispondenza tra tòpos e mythòs, la sacralità legata ad un luogo, attorno al quale si costruirono templi e santuari. Il legame con il territorio era fondamentale e venivano organizzati pellegrinaggi per poter «incontrare» la divinità e, in un certo senso, sé stessi in quanto spiegazioni dell’origine della comunità; la religione era parte integrante della vita dell’epoca, i greci si sentivano profondamente legati al loro territorio. In questi ultimi cinquant’anni si è riscoperto questo radicamento grazie a una maggiore sensibilità per i valori culturali particolari osteggiati dall’omologazione della globalizzazione e da una maggiore consapevolezza per l’ambiente inteso come ecosistema. Territorio e beni immateriali sono diventati termini inseparabili, l’uno è a supporto dell’altro, come nell’età classica. Varie convenzioni riconoscono oggi questo valore culturale, ponendosi come guida etica anche per i progetti museali. Si possono indicare due documenti fondamentali: la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale1 e la Convenzione Europea del Paesaggio. Data la loro importanza, vengono qui di seguito individuati i passi fondamentali ma anche i provvedimenti al riguardo, in modo da chiarire cosa si intenda per patrimonio immateriale e paesaggio, e come a livello internazionale 1 cfr. Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, consultabile sul sito web: http://www.unesco.it /cni/index.php/cultura/patrimonio-immateriale.

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si pensa di intervenire per la loro tutela, valorizzazione e conservazione, ma soprattutto come il patrimonio locale possa diventare di arricchimento globale. 1.1 La convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale Questo provvedimento nasce dalla necessità di integrare le raccomandazioni relative ai beni culturali e naturali con disposizioni riguardanti il patrimonio culturale immateriale. Con questo termine si intendono «le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how»2 che le comunità riconoscono come tali. La convenzione specifica inoltre che questo patrimonio è una risposta allo specifico ambiente in cui la comunità è nata, richiamando quindi il rapporto atavico che sussiste tra uomini e ambiente, ed è ciò che gli conferisce identità. Vengono considerati patrimonio intangibile il linguaggio e i dialetti, usanze e festività, lo spettacolo, il pensiero religioso e le forme di artigianato. Si sottolinea la necessità di salvaguardare tutti questi aspetti tramite la ricerca, la documentazione, la conservazione, la promozione, la valorizzazione e soprattutto la comunicazione attraverso l’educazione. La convenzione prevede l’istituzione di un’ assemblea generale e di un comitato per l’approvazione di provvedimenti e progetti riguardanti il patrimonio, proponendo modalità elettive e competenze, il tutto finanziato dall’UNESCO. Gli stati contraenti sono chiamati a redigere un inventario di tutti i beni immateriali, provvedendo alla loro conservazione, divulgazione e promuovendo organismi di ricerca. Viene poi riconosciuta l’importanza della partecipazione collettiva, vera depositaria del patrimonio culturale immateriale. Infine si ritiene fondamentale la condivisione internazionale di questi saperi, invitando alla cooperazione e concedendo assistenza per la preparazione di inventari e personale qualificato e mettendo a disposizione fondi. Da questa convenzione si evince come abbia importanza la preservazione di ciò che identifica le comunità, e soprattutto lo scambio dei saperi che si produce nella condivisione a livello internazionale. La ricchezza non viene quindi considerata 2 Ivi, p.2.

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a livello economico ma a livello di opportunità che nascono dal confronto, dalla rete che si innesca. 1.2 La Convenzione Europea del Paesaggio. «Una cultura interagisce con il paesaggio non solo in quanto lo produce ma anche in quanto lo percepisce, riflette su di esso e gli attribuisce significati particolari»3. Questo è l’effetto specchio del paesaggio: in esso la popolazione si guarda e si riconosce e per questo motivo deve esse tutelato. La convenzione Europea del Paesaggio è il primo strumento giuridico che lo tutela e lo salvaguarda, ed ha permesso la nascita in Italia di istituzioni come gli ecomusei. Questo documento è stato elaborato all’interno che Consiglio d’Europa nel 2000 e rettificato in Italia nel 2006. Esso riconosce una triplice valenza al paesaggio, come bene comune, quadro di vita della popolazione e infine come risorsa. Per quanto riguarda il primo aspetto, viene riconosciuto il valore collettivo che esso possiede, in quanto componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale europeo e parte integrante dell’identità del continente. Proprio per questo è prerogativa dei cittadini poterne godere, essendo importante per la qualità di vita della popolazione, sia esso paesaggio urbano o rurale, degradato o meno. Non si differenziano paesaggi eccezionali da quelli ordinari, avendo come obiettivo la tutela e la conservazione anche delle aree ordinarie. Si sottolinea in particolare che tutta la comunità, compresi gli attori politici e pianificatori, ne sono responsabili, oltre che averne diritto, dal momento che ne beneficiano tutti. Infine una buona salvaguardia e gestione del paesaggio, inteso come risorsa culturale, ambientale e sociale, può portare beneficio anche come risorsa economica, creando anche posti di lavoro. A conclusione della convenzione vengono proposte metodologie di intervento, tutela e valorizzazione, oltre che ad azioni di tipo partecipativo ed educativo 3 Cfr. Consiglio d’Europa, Convenzione Europea del Paesaggio, consultabile sul sito web: http:// www. bap.beniculturali.it/attivita/tutela_paes/convenzione.html.

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simili a quelle praticate dagli ecomusei, come si vedrà in seguito. Una conoscenza concreta del territorio sembra essere l’unico strumento in grado di garantire una progettazione attenta al patrimonio: Le comunità si trasformano nel corso della storia, producendo informazioni, stratificazioni e sostituzioni; ma alcuni elementi permanenti del palinsesto, restano costanti a fare da fondamento al giudizio e al riconoscimento dell’identità. Occorre ritrovare queste invarianti e adattarle alle situazioni e condizioni contemporanee, ed è su questo patrimonio di specificità e di valori intrinsici (storia, cultura e natura) che si può fondare un efficace e sostenibile processo di innovazione del territorio, il quale può diventare fonte di identità collettiva, strumento di comunicazione tra le generazioni e strumento di massimizzazione delle opportunità.4

4 M.Carta, L’armatura culturale del territorio. Il patrimonio culturale come matrice di identità e strumento di sviluppo, FrancoAngeli, Milano 2007, p.112.

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Immagine 1. Robert Smithson, Spiral Jetty.

Immagine 2. Richard Long, Stones in Iceland.

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2. Land Art: il paesaggio musealizzato

Pausania, guida e riferimento del mondo greco, individuò nell’arte lo strumento di coesione della comunità, la concretizzazione della memoria, di un significato, ma soprattutto uno strumento segnalatore di un evento o di un luogo emblematico nella storia. Come viene esplicato in L’idea di museo, già nell’antichità greca era solito ritrovare oggetti d’arte nei giardini, come ad Alessandria ad esempio, nell’idea che l’apprendimento a contatto con la natura fosse desiderabile e conciliabile allo studio. Così come nei giardini rinascimentali e barocchi era solito allestire sculture. Facendo un salto temporale, nel XX secolo Duchamp, che rivendicava autonomia rispetto all’istituzione museale che non lo accettava, cominciò a uscire fisicamente dal museo, appropriandosi dello spazio esterno, dopo secoli di immobilismo. Unito a questo, con esperienze come quella di Jean Tinguely con Omaggio a New York del 1960 la caducità divenne una prerogativa dell’arte: la sua opera esplosiva fu istantanea, momentanea, effimera, in contrasto con l’immortalità e l’immutabilità delle opere conservate nei musei. Questi eventi, e performance instauravano un rapporto particolare con il luogo a cui erano destinate. Venne riscoperto così un nuovo legame con il tempo e la natura, ma soprattutto la volontà di rivendicare il ruolo politico dell’arte. Essa indaga e denuncia la società, il mercato artistico e la sua struttura commerciale, diventò quindi uno strumento comunicativo e segnalatore. In particolare si mirava a «recuperare l’atavica simbiosi con la natura, il nesso col clima e le stagioni e la ritualità arcaica» 1 che soccombono sotto l’effetto della meccanizzazione e dell’industrializzazione. Nacque quindi la land art2, una corrente artistica che 1 V. Minucciani, Perchè “ Il museo fuori dal museo”, in V. Minucciani, a cura di; Il museo fuori dal museo: il territorio e la comunicazione museale, Lybra immagine editore, Milano 2005 p.22. 2 Cfr L. Pesapane, Land Art, in AA.VV., Contemporanea. Arte dal 1950 a oggi, Electa, Milano 2008.

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Immagine 3, 4. Dennis Oppenheim, Branded Mountain.

Immagine 5. Christo e Jeanne-Claude, The floating piers.

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interagisce fisicamente con l’ambiente, modificandolo e utilizzandolo come materia da plasmare. Tramite la loro opera gli artisti volevano mettere in luce luoghi e paesaggi che rischiavano di scomparire, caratteri e specificità delle comunità locali. Furono eletti a luoghi privilegiati anche paesaggi incontaminati, quali i deserti occidentali americani e i grandipo spazi aperti, selvaggi e integri. Per la prima volta nella storia dell’arte, queste opere non sono trasportabili, essendo in scala molto grande, ma soprattutto non commerciabili, si sottraevano al mercato. 2.1 L’arte come strumento di conoscenza territoriale e antropologica Artisti come Walter De Maria, Robert Smithson indagano i territori utilizzando materiali reperiti in loco per porre un accento sulle particolarità di un dato ambiente, che risulta minacciato o degradato dalla meccanizzazione. Spiral Jetty di Smithson è una delle opere maggiormente conosciute di questa corrente. Datata 1970, è un’ enorme spirale, oggi ormai sommersa, ricreata nel Grande Lago Salato nello Utah. Essa è stata resa accumulando con escavatori rocce di basalto, terra e cristalli di sale prelevati dalla zona sul filo dell’acqua. Il sito è stato eroso dall’uomo dall’attività petrolifera, e trasformato da Smithson, riciclato. L’opera si integra nel paesaggio, ma è destinata a scomparire nel tempo, tanto che oggi è appena visibile e disponibile nella sua integrità solamente in immagine.Inoltre la forma ricreata dall’artista rimanda a una leggenda locale, secondo cui la salinità sarebbe dovuta alla presenza in mezzo al lago di un vortice collegato direttamente con il mare. L’esito è quindi frutto sia di una conoscenza del luogo e del suo passato, vuole essere parte della storia del sito, ma come ogni elemento naturale è destinato a mutare. Un altro approccio è offerto da Richard Long, che attraverso camminate esplora territori, lasciando effimeri segni nel paesaggio sottoforma di geometrie elementari ricreate con arbusti, rocce, elementi reperibili in natura. L’azione nasce col disegnare su una mappa del luogo queste figure, percorrerle fisicamente passo dopo passo e materializzando il passaggio poi in natura,

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come ad esempio Stones in Iceland del 1974. Ciò che rimane della performance artistica è la fotografia, in cui l’osservatore è introdotto nel paesaggio e portato a immaginare l’artista intento nella camminata che diventa forma d’arte. Oltre che ad essere un approccio per indagare e porre l’attenzione sui luoghi, la land art si pone anche come metodo per conoscerne le trame e le comunità che li abitano. Tra questo per esempio ritroviamo Dennis Oppenheim, interessato ai significati simbolici, antropologici e archeologici dei luoghi. Anche lui agisce in maniera effimera sul territorio, e riporta l’azione artistica in chiave documentaristica come opera composita che unisce informazioni differenti con vari punti di vista. Come nel caso di Branded mountain del 1969, riporta fotografie a colori e in bianco e nero, la mappa del sito su cui ha operato e una didascalia. La cartina rende possibile raggiungere il luogo scelto, mentre la descrizione della performance indica «il posto, l’azione, l’attrezzatura, l’effetto e il risultato»3. Nel caso specifico dell’opera in esame, Oppenheim riproduce con un solco circolare il marchio con cui i cowboys della zona marchiavano i buoi. L’opera è documentata e allestita con il supporto degli strumenti utilizzati per la marchiatura e pellame. Sembra che queste opere abbiano anche un valore didattico, trasmettendo delle nozioni relative a comunità il cui mondo è poco conosciuto. Esperienze più recenti possono far comprendere il potere che l’opera d’arte legata al paesaggio possa avere: l’opera di Christo e Jeanne-Claude sul lago di Iseo, The floating piers, nel 2016. A parte il discorso economico legato all’operazione mediatica, si è visto come una provocazione artistica possa attirare un vasto pubblico verso quei luoghi che faticano a farsi scoprire. Un’attrazione di così vasto successo che pur per un limitato arco temporale ha portare un gran numero di visitatori a camminare letteralmente sull’acqua, ritrovandosi poi a scoprire i borghi del lungolago. L’arte in defintiva ha il potere di far scoprire i luoghi, di renderli leggibili, di conoscerne le peculiarità e permette un avvicinamento alla comunità che la ospita sul suo territorio. L’eccezionale che mette in luce il quotidiano. 3 Ivi, p.428.

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Immagine 6. Pianta illustrata di Skansen

Immagine 7. Figurante in una scena tipica a Skansen

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3. L’ecomuseo: uno strumento di riscoperta del territorio e della comunità

Uno specchio dove la popolazione si guarda, per riconoscersi, dove essa ricerca la spiegazione del territorio al quale è legata, unita a quella delle popolazioni che l’hanno preceduta, nella continuità o discontinuità delle generazioni.1

Georges Henri Rivière nel 1978 individua in questa affermazione l’essenza dell’ecomuseo: una comunità si riflette attraverso il tempo nell’ambiente in cui vive. Per gli antichi greci la città, in particolare nei templi, negli arsenali, nelle stoài, aveva lo stesso ruolo come si è visto: in essa erano esposti e continuamente osservati opere d’arte, navi, trattati, la stessa architettura era carica di significati che rimandavano alle origini della comunità, ai miti fondativi. La sacralizzazione del tempio non era altro che la volontà di tesaurizzare e quindi difendere questo patrimonio collettivo. Il termine «ecomuseo» è coniato nel 1971 dal museologo francese Hugues de Varine all’interno di una riflessione che si sviluppa in seno alla Nouvelle Muséologie e al gruppo di lavoro che vede coinvolto in prima persona lo stesso Georges Rivière. Il nocciolo di questa visione sta nella volontà di prestare particolare attenzione al legame tra comunità e territorio, un legmae in continuo cambiamento e evoluzione, così come lo è la comunità che lo interpreta e esplicita. Essa intreccia con il luogo che abita un legame di appartenenza, non solo con gli elementi concreti «ma tutti i suoi aspetti “sensibili” che l’ecomuseo può indagare e analizzare»2, rendendolo uno strumento utile per il consolidamento dell’identità comunitaria. Esso non si limita ad essere un museo all’aperto, bensì ha una matrice di fondo ben diversa, che trova nella comunità 1 G.H. Rivière in G. Reina, L’ecomuseo fra territorio e comunità, in G.Reina, a cura di, Gli ecomosei. Una risorsa per il futuro, Marsilio, Venezia 2014, p.7. 2 Ivi, p.30.

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la risorsa primaria. Nel caso dell’ecomuseo, il territorio viene inteso sia in senso paesaggistico, un ecosistema da salvaguardare, ma anche depositario di conoscenza, che si manifesta in maniera concreta ma anche intangibile. Ed è ciò che questa istituzione vuole indagare, al fine di difendere un patrimonio, non minore, con l’obiettivo di saperlo tramandare alle generazioni future. 3.1 I presupposti dell’ecomuseo e l’esperienza del museo all’aperto di Skansen Dal secondo dopoguerra, con punte più alte in questi ultimi anni, si è diffuso il fenomeno dell’ edutainment, nato dall’unione dei termini education e entertainment. Si è notato infatti come si sia sviluppato il desiderio di riscoprire le proprie origini e al contempo si sia registrata la preferenza di trascorrere il proprio tempo libero all’aperto. Per il primo si parla di heritage boom, in un’epoca in cui la globalizzazione sembra appiattire la cultura, anelando a un’omogeneità diffusa. Si ricercano le radici nel territorio, il particolare, alla riscoperta di tradizioni, canti, tecniche, le «testimonianze minori», che dicano qualcosa sulla propria identità, nella convinzione che sia anche possibile su di questo basare il futuro. Il turismo culturale ha cavalcato e cavalca questa dinamica che vede luoghi magari anche prossimi geograficamente rivendicare una propria specifica «eredità», la propria unicità attraverso anche rappresentazioni del proprio passato, o meglio di quel passato scelto perché in grado di condensare ciò che una società vuol ricordare e raccontare di sé3

Ciò crea un’offerta nel settore dell’intrattenimento culturale, che coinvolge un pubblico di varie fasce di età in attività e esperienze. Nascono così nuove forme museali che raccontano il patrimonio, tra le quali il museo all’aperto, che trova il suo antenato nel Museo di Skansen, situato sull’isola di Djugarden, vicino a Stoccolma, fondato nel 1891 da Arthur Himmanuel Hazelius. Questo museo nacque dall’iniziativa di preservare la cultura tradizionale rurale 3 R.Pavoni, Alla ricerca di nuovi patrimoni: dai musei della memoria ai musei diffusi, dal sito www. museumartconsulting.com.

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dall’aggressione dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione. Presentato a Parigi all’Esposizione internazionale del 1878 con la ricostruzione di un accampamento lappone, vengono proposte scene di vita tipiche con il coinvolgimento di figuranti, ambientate in una scenografia che simula le abitazioni di diverse epoche. Sono proposte danze, dimostrazioni di tecniche di lavorazione passate; sono presenti inoltre animali della fauna locale, proprio per la volontà di rappresentare interamente la Svezia e preservare l’identità nazionale. 3.2 L’ecomuseo: una possibile definizione Per definire e individuare questa tipologia museografica e distinguerla da altre come il museo all’aperto ad esempio, occorre innanzitutto fare un confronto con il museo tradizionale. Quest’ultimo si caratterizza per la presenza di una collezione permanente o temporanea collocata in un edificio fisico, mira alla conservazione, alla ricerca e alla diffusione educativa a culturale. La sua gestione è affidata a professionisti ad alto livello per un pubblico specifico (ricercatori, classi privilegiate e colte della popolazione, studenti e turisti), col compito di comunicare oggetti che possono considerarsi “morti” e che rivivono tramite i metodi museografici. Per quanto riguarda l’ ecomuseo, sono state date varie definizioni, dalle quali sono state individuate delle caratteristiche proprie ricorrenti. La prima caratteristica è la dislocazione del museo sul territorio, coincide con esso e con la comunità che lo abita condividendo uno stile di vita, tradizioni, va quindi oltre i muri di un edificio. Può definirsi quindi come “museo frammentato”, dal momento che risulta da una rete di luoghi e di elementi anche distanziati tra di loro. Come afferma Rivière, l’ecomuseo «si compone di due musei coordinati, un museo dello spazio, museo “all’aperto”, un museo del tempo, “al coperto”»4. Il primo si sviluppa territorialmente in aree collegate tra loro o meno, in cui sono 4 G.H.Rivière, Il ruolo del museo d’arte e del museo di scienze umane e sociali, in C.Ribaldi, Il nuovo museo, il Saggiatore, Milano 2005, p.101.

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presenti unità ecologiche - cioé oggetti facenti parti di un determinato contestoe senza necessariamente avere un edificio culturalmente rilevante ricostruito o esistente a supporto della visita, a differenza dei musei etnologici. Il secondo è un edificio vero e proprio che raccoglie oggetti e modelli e che ricorre ad audiovisivi e altri strumenti per ricreare l’ambiente delle varie epoche in ordine cronologico. L’ecomuseo non esclude il futuro, anzi , può presentare i processi in corso seguendo l’ordine cronologico, oppure mostrare, nel museo dello spazio, le esperienze nuove o quelle già vissute. È un luogo di studio, di approfondimento e di conoscenza. Come istituzione, questa tipologia museale coinvolge non solamente degli “addetti ai lavori”, ma gli attori della storia dei luoghi, cercando di sviluppare un senso di identità e, in generale, di curiosità per tutti gli elementi propri della comunità. Perciò, tendenzialmente, gli ecomusei non sono a carattere monotematico, ma piuttosto cercano collegamenti interdisciplinari, tra tecnologia e individui, passato e presente. La popolazione viene coinvolta quindi a vari livelli: sia come attore che raccoglie informazioni sul proprio territorio, che come gestore. Per quanto riguarda la collezione, per gli ecomusei vale il principio opposto dell’idea tradizionale di museo: il patrimonio viene conservato in-situ, mentre il secondo ne prevede lo spostamento all’interno di un edificio. Inoltre il materiale in esso «presente» può essere di natura tangibile o essere parte del patrimonio immateriale come è stato definito precedentemente. Proprio per questo, l’ecomuseo come istituzione si prefigge l’obiettivo di salvaguardare il patrimonio della comunità, preservandolo per il futuro. Esponendo un patrimonio, non si rivolge al pubblico, se non secondariamente, ma alla popolazione locale. Una definizione «italiana» di particolare interesse di ecomuseo viene fornita dall’Ires (Istituto di ricerche economiche e sociali) della Regione Piemonte, pioniera nel nostro territorio in tema ecomuseale, secondo cui sarebbe un ‘«iniziativa museale dietro cui sta un patto con il quale una comunità si impegna a prendersi cura di un territorio»5. Patto va inteso come un accordo non scritto e generalmente condivisibile; per comunità si intendono i cittadini e 5 M. Maggi, Ecomusei. Guida europea, Umberto Allemandi & C., Torino 2002, p.9.

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lo si intende fisicamente, ma come portatore della storia di una comunità, che ha lasciato su di esso tracce tangibili, ma anche immateriali. In definitiva l’ ecomuseo è uno strumento per farsi comprendere e conoscere meglio sé stessi, un’interpretazione dello spazio, un laboratorio, uno strumento di conservazione e messa in valore del patrimonio naturale e culturale di una popolazione, nonché strumento di progettazione del territorio con la chiave della museografia. 3.3 Processi e strumenti costitutivi dell’ecomuseo: progettazione partecipata come metodo conoscitivo L’organizzazione dell’ecomuseo ritiene imprescindibile la partecipazione paritetica della popolazione locale, sua principale risorsa. Per questo la lettura del territorio avviene tramite strumenti basati esclusivamente sul coinvolgimento dei residenti di differenti fasce d’età, ma tenendo anche in considerazione le impressioni di chi frequenta da esterno quel determinato territorio. Di grande importanza è il ruolo del facilitatore dei processi partecipati: è una figura qualificata nella gestione delle operazioni, che provvede alla gestione del programma in termini di tempo e spazio, indica le metodologie per la redazione di elaborati, ha un ruolo super partes per mediare tra le varie proposte, in modo da raggiungere in maniera ottimale gli obiettivi preposti. In tutto questo il potere politico deve ovviamente essere coinvolto per mettere in campo le risorse, con l’aiuto inoltre di esperti che organizzino i processi di nascita dell’ecomuseo. Infatti la sua natura si caratterizza per la creazione di reti che si dipanano sul territorio, sia localmente coinvolgendo amministrazioni, enti e associazioni locali, scuole e provati, sia a livello territoriale. La base da cui si parte è la lettura del territorio avviene tramite metodologie diverse: ciò può essere fatto mediante modelli fisici, oppure sollecitando la popolazione a indicare luoghi significativi e informazioni utili ai processi di sviluppo e pianificazione territoriale. Uno strumento utile prodotto da questo metodo è l’atlante identitario, che indica il patrimonio ambientale (inteso in

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Immagine 8. Mappa di comunità dell’Eumm

Immagine 9. Foto di un momento di progettazione partecipata

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senso geografico), quello socio-culturale (componente sociale) e nuove pratiche sociali (componente politica). Vengono successivamente redatte delle mappe culturali che sono la base del progetto, che dovrà poi essere gestito e comunicato. Un’altra modalità e la redazione della parish map o “mappe di comunità”: consistono nella mappatura del patrimonio comunitario, indicando emergenze ambientali , manufatti architettonici, infrastrutture ed usi e costumi. L’operazione è guidata da un gruppo di esperti provenienti da vari campi che, grazie all’aiuto di artisti locali, guidano la comunità nella redazione delle mappe. La lettura del territorio avviene a diverse scale tramite carte e fotografie. Importanti sono i sopralluoghi, grazie ai quali vengono messe in luce le sensazioni del gruppo di lavoro. Tramite la lettura del territorio è possibile capire cause ed effetti delle azioni progettuali su di esso. Durante le fasi di raccolta delle informazioni la collettività indaga la propria identità facendo riferimento anche ai «tesori viventi del territorio», cioè «persone depositarie di saperi»1. In questo modo apprende essa stessa delle sue tradizioni e origini, aumentando la propria consapevolezza del passato a cui appartiene. Solitamente le interviste e i questionari sono svolti dalle scuole presenti sul territorio, in attività che inevitabilmente coinvolgono genitori e parenti dei bambini. La comunità apprende anche così, in differenti modalità a seconda delle fasce d’età. Si ha così una crescita collettiva e il territorio con tutte le sue peculiarità viene poi trasmesso al resto dei cittadini, andando ad accrescere il patrimonio della comunità. Infine occorre trasmettere, come obiettivo museografico, il patrimonio individuato. È necessario che l’ecomuseo sia provvisto di tecnologie della comunicazione visiva, oltre che di apparati di supporto alle opere oltre all’allestimento: mappe, plastici, oggetti didattici. Tutto questo con il supporto economico di sponsor, duraturi nel tempo.

1 R. Testa, Il progetto di fattibilità e la gestione dell’ecomuseo, in D.Muscò, a cura di, L’ecomuseo tra valori del territorio e patrimonio ambientale, CESVOT, Firenze 2007.

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Immagine 10. Portale del sito MappaMI.

Immagine 11. Plastico conoscitivo dell’area dell’ecomuseo

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3.4 Un’esperienza ecomuseale italiana: l’Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord Gli ecomusei, a seconda delle risorse presenti sul proprio territorio, hanno sfumature e caratteri differenti, e possono quindi essere più incentrati su itinerari paesaggistici, o architetture e giacimenti culturali, sul folklore, oppure sui prodotti tipici e l’artigianato. Come caso esemplificativo si è scelto l’EUMM1, l’Ecomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord. [...] nel corso di un lavoro di ricerca sulla ex Manifattura Tabacchi di Milano1, viene fatta una lunga intervista ad un anziano ex dipendente dello stabilimento. Il testo dell’intervista viene poi letto dal figlio insieme a suo padre. Questa lettura intima e condivisa del racconto del padre suscita nel figlio una sorpresa o un interesse nuovo rispetto alla storia del genitore, desta il desiderio di vedere, visitare, il luogo in cui il padre ha lavorato tanti anni, in modo da rendere ancora più “vero” e concreto il racconto ascoltato.2

L’avvicinamento e il successivo riconoscersi in un passato apparentemente distante, sono alla base della creazione di questa esperienza milanese. Nato nel 2007 dalla ricerca e dall’interesse di un’antropologa e di una storica dell’arte e promosso dall’associazione Tramemetropolitane, esso ha sede a Niguarda, zona 9 di Milano, con interesse per i quartieri Affori, Bicocca, Bovisa e Bruzzano e i comuni limitrofi di Bresso, Cormano, Cinisello Balsamo, Cusano Milanino e Sesto San Giovanni, centri in cui l’industria milanese del ‘900 ha avuto il suo massimo sviluppo. Da qui l’interesse oggi per le trasformazioni urbane che interessano questi luoghi dovute alle dismissioni industriali, motore della modernizzazione architettonica e sociale del milanese. L’ecomuseo può contare la partnership di università, istituti di ricerca e culturali e associazioni del territorio. L’indagine e la partecipazione attiva della comunità sono alla base di questa 1 www. eumm-nord.it. 2 A.Micoli, Le stanze della memoria. La città narrata in un ecomuseo, Quaderni CREAM, VI, 2007.

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Immagine 12. Allestimento all’interno dei rifugi antiaerei

Immagine 13. Allestimento all’interno dei rifugi antiaerei

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istituzione, che mira a una maggior conoscenza dei luoghi ma anche a un sistema di archiviazione delle memorie, consultabile da tutti. Primo passo per la nascita dell’ecomuseo è stara la redazione della mappa di comunità, che ha coinvolto associazioni locali, cittadini, esperti e appassionati di storia locale, con l’obiettivo di individuare le tracce del passato, gli elementi di continuità con esso, in modo da risignificare un paesaggio che potrebbe risultare ignoto. Da qui ha avuto avvio una serie di iniziative volte alla rappresentazione del territorio in tutti i suoi aspetti, comprendendo anche quelle testimonianze intangibili, coinvolgendo diversi attori che vivono in maniera differente i luoghi, come scuole e cittadini stranieri. La ricerca di metodi comunicativi differenti ha portato all’apertura del geoblog Mappa-MI, una piattaforma partecipata in cui vengono segnalati memorie, percorsi e luoghi quotidiana, ma anche aspettative future. É stato inoltre creato un archivio fotografico che raccoglie immagini e cartoline di ogni epoca, provenienti perlopiù da collezioni private, in modo da creare paralleli storici tra le varie testimonianze raccolte. L’EUMM vuole inoltre portare a conoscenza del paesaggio agricolo del Parco Nord, importante polmone verde dell’area, oltre che dei luoghi segreti del territorio, come il bunker Breda. Con l’appoggio del parco e della regione Lombardia, è infatti possibile oggi visitare i rifugi antiaerei della V° Sezione Aeronautica della Breda, al cui interno è stata allestita una mostra permanente di immagini d’epoca. Le voci dei testimoni dei bombardamenti riecheggiano, mentre sulle pareti si seguono le frecce che indicavano la via per addentrarsi sottoterra. L’ecomuseo organizza attività di formazione continua, proponendo workshop di fotografia per comunicare la storia dei luoghi, iniziative sul territorio che coinvolgono l’intera comunità, ma vuole anche far conoscere agli esterni la storia e l’identità locali. Per questo è stato previsto un tour che dal centro di Milano riscopre questi luoghi. Un forte legame con le partnership, la presenza attiva sul territorio e il desiderio continuo di indagarlo e preservarlo sono gli elementi che hanno permesso la sopravvivenza negli anni dell’EUMM, punto di riferimento e di ricerca per la comunità, depositario della memoria e laboratorio per il futuro.

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4 . Il museo diffuso

Un museo che non può più esaurire il ciclo conservazione /informazione entro le vecchie mura di pochi tipi edilizi ripetuti, ma si attesta ai capisaldi del territorio, punti nevralgici già riconosciuti tali o per antica storia o per attuale coincidenza con la contemporanea dimensione turistica, gastronomica, geografica, ambientale.1

Il territorio greco era disseminato di tracciati che univano tra loro santuari, templi, luoghi votivi, e che erano perciò percorsi dai fedeli. Essi costituivano una sorta di museo diffuso sul territorio, riprendendo il concetto di tesaurizzazione e conservazione di luoghi e oggetti esaminato ne L’idea di museo. Anche il territorio italiano, considerato come palinsesto per la sua ricca sedimentazione storica, può essere considerato come tale. Ma nello specifico il museo diffuso ha dei connotati ben più precisi. Esso, nell’idea di valorizzazione del territorio e delle sue peculiarità, del suo patrimonio immateriale e tangibile, mira a mettere in relazione luoghi significativi, contenitori museali distribuiti sul territorio con istituzioni locali produttrici di cultura: biblioteche, pinacoteche, scuole, università. L’obiettivo, oltre che essere quello di indagare l’identità dei luoghi, è creare un centro che possa coordinare e mettere a sistema tutti questi elementi in maniera sinergica ed efficiente, facilitando la condivisione del patrimonio. Il museo diffuso consente di raccontare la città e il territorio su base tematica, valorizzando particolari aspetti caratteristici e distintivi. Fredi Drugman, che si è dedicato al suo studio, definisce questa tipologia museale come: Progetto che intende permeare la cultura avanzata del territorio, capace di delineare ipotesi di rimodellazione e riprogettazione della realtà fisica verso nuove determinazioni e modi d’uso del 1 F.. Drugman in L.B. Peressut, La città museo, in F. Lanz, a cura di, Letture di interni, Franco Angeli, Milano 2013, p.146.

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paesaggio storico quali strumenti di attenzione critica al rapporto uomo-ambiente-storia.2

La strategia progettuale alla base del museo diffuso è in grado inoltre non solo di conservare il passato, ma di innescare processi progettuali che lo coinvolgano direttamente: essa riesce infatti a mettere a sistema anche la aree più decentrate ad esempio, invitando i turisti a visitarle ed entrando nelle logiche di trasformazione urbana. Questo accade per esempio nelle aree dove si assiste ad un depotenziamento della tradizionale attività produttiva e che pongono quindi la questione del riuso e allo stesso tempo della conservazione della natura industriale del luogo. Il museo diffuso si pone quindi in continuità con il principio museografico del conservare, dall’altro come generatore di trasformazioni urbane, innescando circoli virtuosi per il territorio e per gli operatori del settore. Questa polifonia culturale viene realizzata attraverso un parallelo lavoro su soluzioni coerenti e capillari di arredo urbano, segnaletica e la messa a punto di itinerari tematici, sottolineati da banner sospesi e da “sentieri” calpestabili che raccordano i diversi attrattori. Gli elementi fisici della comunicazione possono essere supportati efficacemente dai diversi dispositivi e media tecnologici oggi disponibili. Giunti a questo punto si crede necessario rimarcare le differenze a cui si è giunti tra ecomuseo e museo diffuso, essendovi dei tratti molto simili. La prima tipologia museale parte dalla comunità, la coinvolge nei processi di pianificazione dell’ecomuseo stesso, mentre la seconda indaga i luoghi e chi li abita, mirando però a trovare nel territorio risorse, con l’obiettivo di creare una rete sistematica. Entrambe le tipologie prevedono percorsi predefiniti sul territorio. Aspetto non secondario ma comune ad entrambi è essere strumenti per le politiche e la progettazione territoriale che si fondano sul passato per preservare l’identità dei luoghi e creare un ponte tra passato e presente. 2 L. Basso Peressut, Le forrme del museo diffuso: esperienze progettuali e di ricerca in area lombarda, in V. Minucciani, a cura di; Il museo fuori dal museo: il territorio e la comunicazione museale, Lybra immagine. Milano 2005.

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Immagine14. Mappa del museo diffuso di Torino.

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4.1 Il museo diffuso della Resistenza, della deportazione, della guerra, dei diritti e della libertà di Torino

La posizione strategica e l’essere il motore dell’industria italiana fecero di Torino un obiettivo desiderabile per i tedeschi durante la Seconda Guerra mondiale. I torinesi combatterono duramente durante la Resistenza per difendere la propria città, con tanto di episodi di repressione. Nel 2003 venne aperto, sollecitato dalle Associazioni della Resistenza e con il sostegno del comune, il museo diffuso della Resistenza, per la necessità di non dimenticare un momento storico moderno molto spesso dimenticato. Il luogo prescelto fu il Palazzo dei Quartieri Militari di San Celso, dove si decise di ubicare anche l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza e l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea, oltre che a essere nominato sede del Centro Internazionale di Studi Primo Levi. L’edificio inoltre è di particolare rilievo architettonico in quanto progettato da Filippo Juvarra tra il 1716 e il 1728, riunendo in un unico centro varie istituzioni, documenti e memorie legate alla storia recente e un lascito del passato dei Savoia. Con questo progetto si è cercato di definire quindi sinergie tra questi enti, ma anche creare una rete con altri luoghi legati al tema della Resistenza torinese, andando a rintracciarli nel tessuto urbano, che in alcuni casi non li riconosce e li esclude dalla memoria cittadina. Tra essi si trovano il Sacrario del Martinetto, luogo simbolo per eccellenza della memoria torinese della Resistenza, il Rifugio Antiaereo di piazza Risorgimento alla Caserma di via Asti, luogo di reclusione e interrogatori, all’isolato del Teatro di Torino, dove sono ancora visibili i vuoti lasciati dai bombardamenti. L’itinerario dei luoghi comprende anche il Pian del Lot, sulle colline attorno al capoluogo piemontese, dove si compì l’eccidio di giovani torinesi per vendicare

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Immagine 15. Foto dell’allestimento all’interno Palazzo dei Quartieri Militari di San Celso.

Immagine 16. Particolare delle pietre di inciampo, Stolpersteine, G.Demnig.

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la morte di un caporale tedesco. Qui una lapide ricorda il triste evento. La missione del museo è quella di riattivare la memoria del passato, ma soprattutto diffonderla per chi non percepisce questi eventi storici come vicini, sia temporalmente che culturalmente. Il ruolo delle testimonianze e della popolazione è fondamentale nell’allestimento e grande contributo è stato dato dagli archivi. Il museo organizza eventi didattici ma anche coinvolgendo altre istituzioni presenti sul territorio, come per esempio il Teatro Regio di Torino con iniziative come La musica della Shoah. Sono stati strutturati percorsi nei luoghi di memoria, un invito alla riscoperta di un pezzo fondamentale della storia della città, al quale è legata la sua identità civile: i luoghi della lotta clandestina contro l’occupazione nazifascista, quelli della deportazione nei Lager e quelli della vita quotidiana durante la guerra. Questi siti diventano così tappe di un percorso museale all’aperto e fanno emergere frammenti di storia racchiusi nella città. Ad esempio, per cogliere la presenza ebraica a Torino, per approfondire i temi dell’occupazione nazista e della deportazione, è stato pensato un percorso che attraversa lazona dell’ex ghetto ebraico, smantellato dopo l’Emancipazione del 1848, la Sinagoga e la stazione di Porta Nuova, luogo di partenza dei treni dei deportati. In aggiunta per la città sono disposte le Pietre d’inciampo,un’ iniziativa dell’artista tedesco Gunter Demnig per depositare, nel tessuto urbanistico e sociale delle città europee una memoria diffusa dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti. Lo sguardo del visitatore è portato anche alla contemporaneità, con i temi dei diritti civili e della libertà: il museo quindi indaga, forte della memoria del passato, le questioni della società attuale, che al passato guardo per riflettere. Questo caso italiano aiuta a comprendere la capacità che la tipologia del museo diffuso ha nel cogliere la storia del territorio, comprenderlo al meglio mettendo a sistema tutti gli enti che possono supportarlo; essere uno strumento di riqualifica e progettazione territoriale, andando a far luce su elementi del tessuto urbano che sono esclusi dalle dinamiche della città; essere uno spunto di riflessione per l’avvenire, sia a livello di pianificazione territoriale, sia come società civile.

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Conclusione

Il territorio come museo di sè stesso, come depositario di memorie e come supporto di un sistema che affonda le proprie radici su di esso non può che confermare la tesi delle autrici de L’idea di museo sul ruolo che i luoghi hanno avuto, e che ancora oggi hanno nella definizione dell’identità collettiva. Oggi ci si pone il problema di come conservare il passato, oltre che conoscerlo. Si pone il problema di come evitare l’oblio. Qui interviene la museografia, che ispirata dalle Muse, depositarie della memoria e delle arti, con i suoi mezzi lavora sul territorio, comunicandone i contenuti. Il territorio va verso il museo nel senso che esso stesso sacralizza e conferisce significato ai luoghi ma anche all’identità delle comunità che lo abitano. L’arte, gli ecomusei e i musei diffusi sono gli strumenti progettuali attraverso i quali indagare le memorie, il genius loci, e il territorio. Per questo si può riconoscere nel territorio quelle caratteristiche fondative del museo, inadgate nel libro analizzato, e per questo definirlo tale. Le due analisi fatte, il Territorio vs museo e il Museo vs territorio, sono complementari, pongono in relazione il paesaggio come museo, come detto precedentemente, e in quanto tale come parte integrante dei musei considerati edifici veri e propri. Tutto ciò dalla consapevolezza che è una risorsa fondamentale per la comunità che lo abita, sia per la propria identità culturale, sia come mezzo per indagare il territorio ma soprattutto per pianificarlo, conoscendolo.

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Bibliografia AA.VV., Contemporanea. Arte dal 1950 a oggi, Electa, Milano 2008. Calvino Italo, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972. Carta Maurizio, L’armatura culturale del territorio. Il patrimonio culturale come matrice di identità e strumento di sviluppo, FrancoAngeli, Milano 2007. Lanz Francesca, a cura di, Letture di interni, Franco Angeli, Milano 2013. Minucciani Valeria, a cura di; Il museo fuori dal museo: il territorio e la comunicazione museale, Lybra immagine. Milano 2005. Muscò Valerio, a cura di , L’ecomuseo tra valori del territorio e patrimonio ambientale, Trimestrale del Cesvot - Centro servizi volontariato Toscana, Firenze 2007. Reina Giusseppe, a cura di, Gli ecomusei. Una risorsa per il futuro, Marsilio Editori, Venezia, 2004. Ribaldi Cecilia, Il nuovo museo. Origini e percorsi, Il Saggiatore, Milano 2005. Vercelloni Virgilio, Cronologia del museo, Jaka Book, Milano 2007.

Sitografia www. eumm-nord.it. www.museodiffusotorino.it.

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Elenco e fonti delle illustrazioni

Frontespizio Copertina del testo M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998. Sezione II Immagine 1. R. Smithson, Spiral Jetty, foto, G.Steinmetz, 1989. Immagine 2. R. Long, Stones in Iceland, foto R. Long, 1974, www.richardlong. com. Immagine 3. D. Hoppenheim, Branded Mountain, 2016, Montrasio Arte Immagine 4. D. Hoppenheim, Branded Mountain, 2016, Montrasio Arte Immagine 5. Christo e Jeanne-Claude, Part of an art installation at Lake Iseo created by Christo and Jeanne Claude, 2016, in The floating piers, www. wikipedia.it Immagine 6. Pianta illustrata di Skansen, www.likealocalguide.com/stockholm/ skansen Immagine 7. Figurante di Skansen, foto, da www.skansen.se

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Immagine 8. Mappa di comunità dell’Eumm, da www.eumm.it Immagine 9. Momento di partecipazione, foto, da G. Reina, a cura di, Gli ecomusei. Una risorsa per il futuro, Marsilio Editori, Venezia, 2004. Immagini 10. Screenshot portale Mappa-Mi, www.eumm.it. Immagini 11,12,13. Foto dell’Ecomuseo, da www.eumm.it. Immagine 14. Mappa museodiffusotorino.com

del

museo

diffuso,

illustrazione,

da

www.

Immagine 15. Foto dell’allestimento all’interno del palazzo dei Quartieri Militari di San Celso. Immagine 16. Particolare delle pietre di inciampo, Stolpersteine, G.Demnig, foto da www.wikipedia.com

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Appendice

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Note bio-bibliografiche delle autrici

Maria Clara Ruggieri Tricoli nasce nel 1948. Intraprende la carriera di docente universitario presso la Facoltà di Architettura di Palermo, dove riveste il ruolo di professore ordinario di Museografia, fino al gennaio del 2014. L’interesse per la musealizzazione dei siti archeologici e di museografia archeologica è sempre stata una costante della sua carriera. Nel 2011 ha fatto parte del comitato scientifico del Master in Museografia, Architettura e Archeologia dell’Accademia Adrianea di Architettura e Archeologia. Questi sono i libri da lei pubblicati - Stabilità e morfogenesi nell’architettura (Novecento, Firenze 1996) - Palermo nell’età del ferro. Architettura, tecnica, rinnovamento (Linee d’arte Giada, Palermo 1998) - L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico (Lybra, Milano 1998) - I fantasmi e le cose (Lybra, milano 2000) - Costruire Gerusalemme. Il complesso gesuitico della casa professa di Palermo dalla storia al museo (Lybra, Milano 2001) - I siti archeologici: dalla definizione di valore alla protezione della materia (Dario Flaccovio editore, Palermo 2004) - Luoghi, storie, musei. Percorsi e prospettive dei musei del luogo nell’epoca della globalizzazione ( Dario Flaccovio editore, Milano 2005) - Il richiamo dell’eden, dal collezionismo naturalistico all’esposizione museale (Vallecchi, Firenze 2004) - Musei sulle rovine. Architetture nel contesto archeologico (Lybra, Milano 2007)

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- 73 musei, d’arte, archeologici, etnografici, naturalistici, scientifici e tecnologici, religiosi, tematici, aziendali, ecomusei (Lybra, Milano 2007) - Trauma: musei e memoriali fra tragedia e controverisa ( Maggioli, Santarcangelo Romagna 2009). Sono presenti inoltre suoi interventi nella rivista Riflessi, collana semiotica dell’arte nella sezione Museologia e numerosi articoli per Agathon, notiziario del Dottorato di Ricerca dell’Università di Palermo in Recupero e fruizione dei contesti antichi.

Maria Desirée Vicirca intraprende anch’essa la carriera di docente universitario di Museologia e Museografia presso il Corso di Laurea in Beni Archeologici dell’Università di Palermo. Spinta dalla passione per la museografia archologica, ha partecipato con interventi propri, a vari convegni internazionali su tematiche museografiche, tra i quali : Workshop Palestina: La città e il Tempio; Master in Museografia, Architettura e Archeologia dell’Accademia Adrianea di Architettura e Archeologia. Fra i suoi testi: - L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico (Lybra, Milano 1998) - Dalla Perigesi di Pausania alla moderna Museografia. Sites-museum in Grecia (Aracne editore, Milano 2012).

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Attribuzione scientifica delle parti del libro L’idea di museo

Il testo de L’idea di Museo è stato scritto da Maria Clara Ruggieri Tricoli e Maria Desirée Vacirca. Solamente il secondo capitolo, Il Tempio: dal luogo della tesautizzazione al luogo della sacralizzazione, è stato scritto in collaborazione da entrambe. Maria Clara Ruggieri Tricoli ha sviluppato i capitoli: 1. La tomba: il collezionismo come fondamento antropologico della musealità; 5. Il teatro: teatralità museale e musealità teatrale; 6. Il giardino musaico: iconoloogia del museo fra mito e etimo; 8. La sala: note museografiche a margine di un brano del III libro della Rhetorica ad Herennium; 9. La guida: il museo come palinsesto geografico. Maria Desirée Vacirca ha sviluppato i restanti capitoli: 3. La città: macchina retorica e macchina mnemotecnica; 4. L’arsenale: ovvero, del museo senza capolavori; 7. La biblioteca e l’integrazione classica fra memoria eidetica e memoria semantica.

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