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“Maggiorenne e vaccinato o… diritto alla vita?”
Presentazione - Prefazione - Introduzione -
La questione medica. Prima esperienza negativa dei vaccini con Marco. Nascita dei gemelli Alberto e Andrea. Vaccinazione dei gemelli. Iniziano a presentarsi i sintomi di Marco, in Alberto e Andrea. La stampa nazionale si occupa del nostro problema. Incontro con l’ingegner Enzo Ferrari. Incontro con il Papa Giovanni Paolo II. Incontro con il biochimico Franco Valsè Pantellini. Storia clinica dei gemelli mandata in giro per il mondo. Incontro risolutivo con il professor Giulio Tarro. Morte di Andrea. Un medico, giornalista inventa la diagnosi… senza prove. Viaggio a Napoli per far visitare Alberto per la prima volta da Tarro. Prima diagnosi del professor Tarro. Crisi respiratoria di Alberto e ricovero in rianimazione. Viaggio allucinante in Svizzera con Alberto. Alterazione dei reperti di Andrea. Prove che sconfessano la diagnosi di “Sindrome di Leigh”. Caso Morando. Trasferimento di Alberto dalla rianimazione alla pediatria. Falsificazione delle cartelle cliniche di Alberto. Il Ministro della Sanità Renato Altissimo istituisce una “Equipe Ministeriale”. Disperata richiesta di aiuto alla Chiesa Romana. Alberto a casa dopo mesi di ricovero in Ospedale. Divento pranoterapeuta. Nuovo ricovero in Ospedale di Alberto. Trasferimento al Policlinico di Milano. Alberto nuovamente a casa ristabilito. Inizio scuola paterna. Ulteriore ricovero in Ospedale a Melegnano. Viaggio in India. Sciopero della fame davanti al Quirinale. Trasferimento d’ufficio di Alberto da Melegnano al Policlinico di Verona. Tentativo di bloccare Alberto in Ospedale. Mi tolgono la “Patria Potestà”. Finalmente Alberto a casa, però totalmente dipendente dal respiratore. Alberto definitivamente a casa. Inizia una nuova vita. Alberto può frequentare la scuola assieme ai compagni. Diagnosi definitiva del professor Tarro. Alberto frequenta la scuola superiore.
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Richiesta di indennizzo in base alla Legge 210/92. Alberto incontra il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Lettera di Alberto al Presidente Scalfaro. Ammissione del Ministero della Sanità del “nesso di causalità col vaccino. “ Denuncia alla Magistratura per “omicidio doloso”. Archiviata. Sospensione della ginnastica respiratoria. Altra denuncia e altra archiviazione. Istituzione Comitato Internazionale per tutelare i diritti di Alberto. Reso pubblico un documento coperto da segreto istruttorio. Denuncia ed archiviazione. Ulteriori problemi che ci crea la Sanità veronese. Tolgono la maestra ad Alberto. Subisco un processo penale per “Offesa a Pubblico Ufficiale”. Fondo la Lega per la Libertà delle Vaccinazioni. Partecipo a trasmissioni televisive. Fondo l’Associazione A.L.V. Finalmente altri genitori si oppongono in modo deciso alle pratiche vaccinali. Caso Marani. Sterile polemica della Chiesa Veronese sul tema dell’obbligatorietà vaccinale. Suggerimenti utili per approfondire l’argomento “Vaccinazioni”. Sciopero della fame messo in atto da vari genitori a Venezia. Alberto oggi, agli inizi del terzo millennio. Bibliografia
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Prefazione:
Giorgio Tremante
Questo libro è dedicato soprattutto alla memoria dei miei figli Marco e Andrea, ai miei figli Alberto e Luca, a mia moglie Franca e a tutte quelle creature che con le loro sofferenze, finora troppo silenziose, hanno patito le terribili conseguenze del "Mito Pasteriano" contribuendo forse anche in questo modo, col loro silenzio, all'instaurazione e all'affermazione di questo "Moderno Scientismo". E' ormai giunto il tempo che i genitori conoscano bene i rischi volutamente taciuti e che dovranno affrontare se accetteranno di sottoporre i loro figli alle pratiche vaccinatorie usate "indiscriminatamente". Giorgio Tremante
Prof. Dott. GIULIO TARRO
L. Docente dl Virologia dell'UniversitĂ dl Napoli Primario dl Virologia dell'Ospedale "D. Cotugno" Presidente della Fondazione "Teresa a Luigi De Beaumont Bonelli " per le ricerche sul cancro. Riconosciuta con D.P.R. 3 .1978 N. 26
4 Presidente della Società Italiana di ImmunoOncologia ClinicoPratica Via G, Quagliariello, 54 80131 NAPOLI Tel. (081) 546322 (Fax) 7063310 5481300 Cod. Fisc.: TRR GLI 38L09 F158W Partita I.V.A.: 04265510638
Napoli, 31012001
Un manoscritto come quello di Giorgio Tremante che descrive con squisita sensibilità paterna l'iter del figlio Alberto sopravvissuto dopo due fratellini morti per gli stessi tragici meccanismi di una vaccinazione, cui pur si deve l'eradicazione di una malattia storica come la poliomielite, si fa leggere tutto di un fiato come un romanzo giallo con finale pieno di "suspense". "Maggiorenne e vaccinato o... diritto alla vita?" è una storia vera, alla quale non è necessario aggiungere altri commenti. La prevenzione delle malattie infettive non può trascurare provvedimenti che si preoccupano di conoscere l'efficienza del sistema immunitario, perché dalla sua depressione, congenita o acquisita, possono scaturire i fattori lesivi delle vaccinazioni. La ricerca diagnostica può oggi fare luce sui soggetti che necessitano un intervento vaccinale specifico come quello con agenti inattivati anziché attenuati. II caso di Alberto è paradigmatico. Certamente un'opera profonda come quella di Giorgio Tremante fornisce ai lettori, per i dettagli dell'impostazione, l'estensione della malasanità e l'amore e l'onere degli affetti familiari. Quindi questo scritto potrà servire attivamente per la ricerca dei migliori indirizzi di utilizzazione delle vaccinazioni. GIULIO TARRO
Corrispondenza: Prof. Dott. GIULIO TARRO Via Posillipo, 286 80123 NAPOLI Email: gitarro@tin.it Internet: Http://space.tin.it/scienza/gtarro
Dr. MASSIMO MONTINARI MEDICO CHIRURGO Dirigente Medico 2° livello Dipartimento di Biomedicina dell’età Evolutiva Responsabile Struttura Semplice di Endoscopia Digestiva Diagnostica ed Operativa Pediatrica Azienda Ospedaliera Policlinico Bari Specialista in Chirurgia Pediatrica, Chirurgia d’Urgenza e Pronto Soccorso
5 Perfezionato in Promozione e Gestione della Qualità Dell’Assistenza Sanitaria – Università di Bari Direttore del Corso di Medicina Omotossicologica Nell’Ospedale Consorziale Policlinico di Bari Iscritto Albo CTU Tribunale Civile e Penale di Bari ( n° 582 )
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Non è facile scrivere la presentazione di un libro, in genere viene affidata a critici letterari che per lo più, in maniera celebrativa esaltano l'opera, l'Autore, condividendone il contenuto e, in massima parie, autocelebrando se stessi. Non si tratta di un'opera letteraria, come qualcuno erroneamente potrebbe intenderla, ma di un libro-documento che un "genitore-coraggio" è riuscito a pubblicare, non per se stesso, ma per tutte quelle famiglie costrette e condannate al silenzio perenne, umiliate, frustrate, violate nel proprio intimo e poi abbandonate. Un libro denuncia che susciterà certamente polemiche in quelle che eufemisticamente sono chiamate le stanze dei bottoni, dove potentati di turno sono simili a divinità pagane, mostri sacri che gli umili devono adorare, inspirando gli olezzi generati dalle proprie nefandezze, dove il dio denaro è il totem da adorare e dove le sofferenze degli umili e dei deboli sono ignorate, circoscritte nelle lontane periferie delle coscienze. Belli, bravi, moderni, perfetti, corpi statuari e virili, anche se gonfiati dagli ormoni; fanciulle e giovani donne da copertina dove poppe e fianchi sinuosi dettano legge; manager e capitani d'industria che sembrano dominare il mondo con automobili lussuose, abiti firmati e cellulari che sostituiscono anche il sesso; pornografi e navigatori del tutto virtuale; tutti questi prodotti della nuova società, gli adoratori dei dio danaro, non capiranno questo libro, che è stato scritto anche per loro perché, al di fuori del paganesimo, improvvisamente, alla loro porta può bussare quel "fantasma nero" che, con una dolce carezza ti porta via nel mondo del silenzio e del nulla. Giorgio Tremante, il papà di Alberto, così come io l'ho conosciuto un giorno a Mestre, ha raccontato la storia della sua famiglia, ha urlato con il ruggito di un leone ferito quello che è accaduto ad una famiglia felice e "normale", una famiglia dove si facevano progetti per il futuro, dove si sognava un avvenire roseo per tutti, onesto, ricco di principi. In quella famiglia un giorno sono entrati i "fantasmi neri", forse hanno sbagliato indirizzo, ma sono entrati e ci sono rimasti, violentando e distruggendo ogni essere vivente, i bambini, gli innocenti che non sanno ancora difendersi e che tendono le proprie mani verso i genitori, anche loro incapaci di strapparli ad un male donato e generato dall'ignoranza e dal danaro dei potenti. Quei bambini hanno urlato, hanno chiesto aiuto al toro papà che non poteva aiutarli, difenderli da quei "fantasmi neri" : il papà ha combattuto, ha cercato di mandarli via, ha pregato, ha implorato di lasciare la sua famiglia, e quando questi, soddisfatti, hanno lasciato la casa, pronti ad entrare in un'altra, è rimasto Alberto, collegato ai tubi di un respiratore automatico, solo, al buio, con la disperazione e le lacrime dei suoi genitori, anche loro soli, abbandonati.
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Ma questo non interessa agli adoratori del totem, ai giovani rampanti con le scarpe che scricchiolano, alle fanciulle da copertina tutte poppe e curve in crisi per i propri cuscinetti di adipe, "malformazioni" malamente occultabili da perizomi virtuali. Questo libro interessa invece gli umili e gli oppressi, le persone "normali", quelle persone che sono consapevoli del dramma della disperazione e dell'abbandono, e sono tante, tantissime, nascoste e isolate nelle periferie delle coscienze, nei quartieri ghetto della sensibilitĂ del mondo civile. Da medico, involontariamente, mi sono ritrovato in questo mondo di disperati, tra centinaia di famiglie che hanno vissuto e vivono la stessa realtĂ ; famiglie che vivono nei buio, abbandonate e violentate nei propri diritti da un Sistema diabolico, mefistofelico, perverso, dove il debole diventa oggetto di lucro e l'handicappato se non rende, viene allontanato come una vergogna. Ho conosciuto centinaia e centinaia di famiglie i cui bambini hanno ricevuto la visita dei "fantasmi neri", bambini che hanno chiesto aiuto ai genitori che non potevano aiutarli, e la storia di Giorgio Tremante e della sua famiglia l'ho vista moltiplicarsi centinaia di volte. Centinaia di storie simili, di urla senza risposta, di diagnosi negate, di terapie inesistenti, di interminabili viaggi della speranza nei centri medici internazionali fino all'approdo anche da maghe e stregoni. Famiglie dissanguate da viaggi interminabili, da giri di valzer negli ospedali e negli studi privatissimi ed esclusivi di soloni dello scibile medico; eppure medici validi si sono incontrati, tanti e preparati, umani, professionali, ma guai andare contro i protocolli di talune "scuole di pensiero", contro fantomatici studi epidemiologici. E la persecuzione del nuovo medioevo l'hanno vissuta tanti colleghi medici e validi ricercatori, marchiati come eretici e, come Giordano Bruno, mandati al rogo, inquisiti come criminali, processati, infangati, minacciati, spesso costretti al silenzio. Diritto alla vita? Quale diritto, se nel mondo anche i bambini morti in ospedale sono diventati fonte di guadagno per industrie farmaceutiche, come accade in Inghilterra, dove organi sono venduti all'industria, o per specifici interessi economici gli animali erbivori si sono trasformati in carnivori o "cannibali"; dove farmaci e vaccini sono stati prodotti su sieri infetti, ma "garantiti" da studi pubblicati su riviste scientifiche...accreditate e con elevato "impact factor" o dove qualcuno vuole che gli embrioni umani possano essere dei serbatoi di pezzi di ricambio? Giorgio Tremante ha urlato il suo dolore e la sua rabbia: io sono con lui. Dr. Massimo Montanari
Introduzione
Vi è mai capitato di assistere ad un dibattito televisivo sulle vaccinazioni, o di leggere qualche articolo di informazione sanitaria sul tema?
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Avrete avuto modo allora di essere rassicurati sulla assoluta innocuità dei vaccini: qualcuno si spinge anche ad affermare che non esistono casi in cui sia stato accertato il nesso di causalità tra vaccinazioni e danni cerebrali comparsi successivamente. Ebbene con la mia vicenda umana posso purtroppo smentire questa affermazione per ben tre volte! In questo libro troverete la storia di gran parte della mia vita e di quella della mia famiglia: vite spezzate, vite travolte dalla “innocuità” dei vaccini. E’ luogo comune affermare con fierezza ed orgoglio, o con tono di esortazione, in molte occasioni della vita, la frase: “Maggiorenne e Vaccinato” quasi a significare una sorta di iniziazione che abilita a superare ogni difficoltà e pericolo, senza conseguenze. In realtà si dimostra solo di conoscere ben poco il significato intrinseco della parola vaccinazione e i rischi connessi all’uso di questa pratica medica. Consideriamo a titolo di esempio la più recente delle vaccinazioni obbligatorie, quella tecnologicamente più avanzata e quindi teoricamente più sicura, la vaccinazione antiepatite B. Nell’opuscolo “La vaccinazione come e perché” a cura della Regione Veneto – Assessorato alla Sanità alla voce controindicazioni sta scritto: “In genere non vi sono controindicazioni alla vaccinazione antiepatite B: deve però essere rinviata in caso di malattia acuta con febbre e definitivamente sospesa in quei rarissimi casi di accertata grave reazione allergica al vaccino”; e ancora, alla voce reazioni e complicazioni:”sono generalmente assenti. Solo in alcuni casi si hanno lievi reazioni nel punto di iniezione…. che scompaiono comunque entro qualche giorno. Ancor più raramente si possono avere disturbi generali come affaticamento, vertigini, abbassamento di pressione oppure sintomi simil-influenzali come febbre, malessere, mal di testa e dolori muscolari e alle articolazioni. Anche questi disturbi sono di breve durata e si risolvono spontaneamente”. Peccato che ancora una recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 423 del 2000) sia tornata ad occuparsi dei danni derivanti dalle vaccinazioni per imporre allo Stato di corrispondere un indennizzo anche a coloro che si sono sottoposti a vaccino antiepatite B quando quest’ultimo non era ancora obbligatorio, riportando conseguenze negative per la salute. Altro che leggeri e transitori disturbi! Altro che indimostrabilità del nesso di causalità tra vaccinazione e danni gravi conseguenti. La questione medica
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In pratica l’idea sta nell’introdurre nell’organismo uno stimolo, per avere successivamente una risposta immunitaria. Ma quale sarà questa risposta? Il soggetto sottoposto a questa comune profilassi, potrebbe anche sviluppare una reazione diversa da quella desiderata e per questo motivo il significato della risposta soggettiva potrà essere ben diverso da quella che comunemente si vuol attribuire al sillogismo “maggiorenne e vaccinato”. Nel momento in cui accadono degli eventi opposti a quelli sperati essi si manifestano con patologie di natura quasi mai ben definita, per esempio con allergie, mal assorbimento intestinale, cerebropatie e altre con forme più o meno gravi arrivando per fino ad una probabile paralisi motoria e qualche volta addirittura alla morte. A causa di ciò, molti sfortunati soggetti svilupperanno in futuro, anche a distanza di parecchi anni, forme morbose che diventeranno croniche. La causa? Probabilmente lo stimolo indotto dal vaccino al quale furono sottoposti durante i loro primi mesi di vita. Per di più, con i loro famigliari, essi impazziranno nel tentativo di dimostrare il danno subito e si sentiranno costantemente rispondere, dai responsabili di una certa scienza ufficiale, che non esiste un nesso di causalità fra il vaccino e l’evento negativo verificatosi. Saranno così spinti, sempre più, ad arrovellarsi in una spasmodica ricerca senza fine per cercare di scoprire l’origine dei loro oscuri mali. Grandi cervelloni cercheranno, con intento fallace, di verificare se nell’anamnesi familiare di questi sfortunati pazienti esista qualche precedente danno di natura genetica. Con l’illusione di stabilire con esattezza scientifica la causa della malattia, rifacendosi all’eterna quanto mai assurda ricerca che l’uomo conduce da millenni chiedendosi se sia nato prima l’uovo o prima la gallina, gli stessi attribuiranno sicuramente, bugiardescamente e presuntuosamente, la causa dell’evento nefasto allo sviluppo di una malattia ereditaria latente. Il vaccino, in ogni caso, sarà sempre assolto come causa principale o scatenante dell’avvenuta malattia, aggiungendo così oltre al danno anche una crudele beffa. Di tutto ciò, ovviamente, non si deve dare informazione alla gente comune che spesso, disattenta com’è ai problemi che riguardano la propria salute, preferisce delegarne la responsabilità alle istituzioni, accettando per buono tutto quello che esse propongono, senza mai tentare una verifica per accertare se esista anche un’altra, forse più reale, faccia della stessa medaglia. Lo Stato, nel caso specifico delle vaccinazioni, non si limita solo a proporre lasciando la libertà di scelta all’individuo come in ogni altro campo, ma impone questa pratica sanitaria come prevenzione mantenendo in questo modo integro ed inviolato il sacro mito vaccinatorio tanto decantato come progresso dell’umanità.
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Le Istituzioni Sanitarie in questo modo divengono prepotenti, poiché beneficiano della delega in bianco a loro concessa dalla stragrande maggioranza della gente, più attenta al proprio benessere economico che alla tutela ed alla protezione della propria salute. Con la giustificazione della salvaguardia della salute di intere popolazioni, le Istituzioni Sanitarie Mondiali, espandono ovunque, specialmente oggi in certe parti del terzo mondo, con campagne di vaccinazioni di massa, la loro artefatta verità vaccinatoria. Sull’argomento dei presunti e tanto decantati benefici delle campagne vaccinali l’ufficialità compatta della Sanità mantiene da sempre un rigido e tacito accordo poiché, anche se sono note innumerevoli reazioni avverse, i profitti economici in gioco in quest’ambito sono talmente esorbitanti che, quando si dovrà compiere una scelta di politica sanitaria, gli interessi di parte saranno fatti forzatamente prevalere su quelli dell’intera ed ignara collettività. Dopo molti anni che le vaccinazioni sono usate sull’essere umano, e per di più, in certe Nazioni come la nostra, imposte obbligatoriamente per legge, non si è ancora pensato di predisporre dei seri accertamenti atti a verificare se per qualche soggetto possano esistere forse dei gravi rischi. I vaccini sono sempre stati usati indiscriminatamente senza che fossero mai eseguite delle serie ricerche preventive sui soggetti costretti a sottoporvisi. Finalmente nel 1992 il Parlamento Italiano ha approvato una legge che riconosce i danni biologici prodotti dai vaccini, ammettendo nel contempo che la pratica vaccinale non può essere considerata priva di rischi. Tale ammissione è avvenuta così dopo quasi un secolo dall’entrata in vigore in Italia dell’obbligo vaccinale. Prima del 1992 i vaccini erano considerati nella farmacopea italiana l’unica metodologia di profilassi assolutamente sicura e, soprattutto, priva di un ben che minimo rischio: in poche parole i vaccini potevano esclusivamente far bene e venivano perciò decantati e pubblicizzati come l’unico elisir di lunga vita. Il fatto più grave oggi è che, pur essendo in vigore dal ‘92 la legge che riconosce i rischi ed i relativi danni prodotti dalle vaccinazioni, quasi nulla è cambiato e quel famigerato elisir di lunga vita è ancora imposto obbligatoriamente per legge e sempre più decantato e largamente pubblicizzato. I mezzi d’informazione che sono sempre più potenti ed assillanti, spinti dal potere economico, hanno creato un mercimonio sulla pelle della gente, un enorme e redditizio affare macroeconomico. Nella bibliografia scientifica di tutto il mondo esistono innumerevoli pubblicazioni che attestano i danni, più o meno gravi, che le vaccinazioni hanno prodotto. Nonostante la situazione epidemiologica sia ormai chiara, si continua a perseguire quest’assurda metodica spacciandola, ovviamente, come unico rimedio assolutamente sicuro ed innocuo e facendola anche pubblicizzare da
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eminenti nomi della scienza medica che si prestano a pagamento, come divi della televisione, a pubblicizzarla come un qualunque prodotto di consumo. La lista di queste qualificate pubblicazioni scientifiche è talmente vasta, come ubicazione geografica, che comprende quasi tutti i paesi del pianeta. Le patologie descritte sono le più disparate: come prima accennato, spaziano dalle allergie ai danni permanenti neurologici o metabolici; possono addirittura ingenerare le stesse malattie infettive per la difesa dalle quali i vaccini sono stati pensati e prodotti o trasformare talune patologie da infettive a degenerative. E’ stato anche dimostrato con certezza che nel pool di virus vivi ed attenuati che si usano per l’inoculazione del vaccino antipolio Sabin sono contenuti agenti patogeni oncogeni capaci di produrre tumori nella specie umana.Per questo motivo non ci dovremo poi meravigliare se, a distanza anche di molti anni, questo miscuglio di proteine decomposte potrà sviluppare ogni tipo di tumore nell’uomo. Questo presupposto potrebbe spiegare uno dei tanti motivi dell’incremento, ormai sempre più evidente, della comparsa di eziologie tumorali nell’essere umano. Tali virus, essendo insiti nel patrimonio genetico delle specie animali da cui sono ricavati, e per questo motivo non provocano in esse alcuna alterazione, una volta trasferiti nell’uomo, il cui patrimonio genetico ed il cui apparato immunitario sono completamente diversi da quello animale, creeranno un tale sconvolgimento nell’organismo da spingerlo ad autodistruggersi invece che difendersi dagli agenti esterni. Ecco così insorgere, ad esempio, la Sindrome da Immunodeficienza Acquisita comunemente chiamata “AIDS”( vedi “Panorama” n°48 del 2 dicembre 1999 pag.192) Purtroppo le conseguenze non verranno subite solo dal soggetto sottoposto alle vaccinazioni, ma potranno ricadere anche sulla sua progènie . Questa è la dimostrazione della ferrea ma pur legittima ribellione della natura, poiché ancora oggi la maggior parte dei vaccini viene coltivata adoperando cellule di animali incompatibili per la specie umana. Questi “pool” una volta trasferiti nell’essere umano diventano per lui terribili nemici proprio perché il suo apparato immunitario si rifiuterà di riconoscere degli agenti a lui completamente estranei e sconosciuti e, per questo motivo, impazzirà. Ciò che ho fin qui sostenuto potrà sembrare paradossale alla maggior parte della gente che, per sua fortuna, non ha mai avuto seri problemi nel campo della salute; potrà sembrare un paradosso usato per denigrare, per qualche astruso motivo, l’istituzione della tanto decantata pratica vaccinale. A conferma di ciò che ho asserito racconterò la vicenda che la mia famiglia è stata costretta a vivere, con l’augurio che essa non possa mai più ripetersi per altri. Sono certo però che centinaia e migliaia di altre famiglie hanno vissuto o stanno vivendo ignare un’esperienza simile alla nostra.
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Lo faccio anche per loro nella speranza che altri sfortunati genitori , che hanno visto nascere i loro figli sani e che oggi si trovano con le loro creature scomparse o rese handicappate e forse non si rendono ancora conto di quello che è loro capitato, possano meglio comprendere la causa della loro “sfortuna” senza imputarne più la responsabilità al “fato”. Per dimostrare questa “Verità” ho dovuto impiegare venticinque anni della mia vita: mi auguro che altre famiglie possano avere la possibilità di arrivare in tempi molto più brevi a scoprire l’arcano che sta all’origine delle patologie occorse a se stessi o ai propri figli dopo le vaccinazioni. L’importante è che esse non demordano mai accettando anche lo scontro con le Istituzioni Sanitarie, affinché la Scienza prenda atto di questi fenomeni e non cerchi più, come è avvenuto nel mio caso, di alterare le prove usando mezzi talora illeciti per insabbiare tutto e per difendere un potere economico che contrasta sfacciatamente col vero bene dell’umanità. Pur non essendo medico ma soltanto un padre, per salvare la vita a mio figlio ho dovuto lottare da solo contro tutto e contro tutti, assumendomi enormi responsabilità che sicuramente avrebbero dovuto essere prese da professionisti competenti e preparati. Posso aggiungere che le peripezie subite dalla mia famiglia sono state narrate, in modo più o meno corretto dalla stampa nazionale ed internazionale; in più occasioni nel corso degli anni sono intervenuto in trasmissioni televisive e in conferenze su questo tema, viaggiando spesso in Italia ed anche all’estero. Da qualche tempo però ho inteso riappropriarmi della mia intimità, dedicandomi totalmente alla famiglia a causa anche dei nuovi problemi di salute che hanno colpito mia moglie Franca . Il tempo scorre rapidamente e certamente Franca, Alberto e anche Luca hanno bisogno di un marito e di un padre totalmente presente: ora ne hanno bisogno loro più della collettività alla quale ho dedicato, forse non invano, parecchi anni della mia esistenza. Prima esperienza negativa del vaccino con Marco
Persi il primo figlio all’età di sei anni, nel 1971. La malattia che presentava non ha mai avuto una diagnosi certa e solo dopo la sua morte mi fu ventilata l’ipotesi che dal vaccino antipoliomielitico Sabin avesse avuto origine quel tipo di patologia non ben definita. Il suo nome è Marco. Io e Franca avevamo voluto ricordare il nonno paterno, eravamo entusiasti di questo bimbo perché era il nostro primo figlio e perché era veramente un bel bambino, biondo con i riccioli d’oro, molto attaccato a me. Il suo ricordo mi riempie ancora d’infinita tenerezza e tristezza, pensando di non aver potuto vederlo crescere come avrebbe dovuto essere.
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Vivevamo in una casetta modesta che avevamo preso in affitto vicino ai genitori di mia moglie, i nonni materni erano molto attaccati a Marco, forse lo viziavano anche un po’ troppo, ma era talmente affabile e gentile con tutti che per strada la gente si fermava per fargli dei complimenti. Era l’inizio del 1966 ed avevo solo 24 anni, Franca uno meno di me; la nostra vita scorreva tranquilla, come d’altronde è normale che succeda a tutte le coppie giovani come la nostra: immaginavamo così un futuro roseo e pieno di speranze soprattutto per la creatura che era da poco venuta alla luce. Il mio lavoro era quello d’allestitore di vetrine in un grande supermercato di quei tempi. La vita scorreva regolarmente con quelle piccole difficoltà che incontra ogni coppia quando decide di ampliare il numero dei componenti familiari. Il ricordo, un po’ offuscato dal trascorrere del tempo, ritorna alle gioie ed alle soddisfazioni che quel piccolo esserino ci procurava, era un prezioso balocco nelle nostre mani, cresceva sicuramente bene e forse anche un pò troppo in fretta. Era di una sensibilità rara, sempre allegro e vivace, capace di riempire la nostra vita. Tra le piccole cose che ritornano alla mia mente vi è un episodio che ricordo volentieri; aveva una passione per l’angolo di un pezzetto di stoffa che lui chiamava “becco”. Una domenica mattina, com’era d’uso, andammo alla messa in una chiesa della nostra città, io lo tenevo in braccio e durante il momento della consacrazione, nell’assoluto silenzio, lui se ne uscì, a voce alta con un’espressione, per lui normale, gridando “becco papà Giorgio” (nel nostro dialetto “becco” sta per cornuto): gli era caduto per terra il pezzettino di stoffa che teneva strofinandolo sempre in mano. Il ricordo di questa piccola disavventura mi riempie ancora oggi d’infinito rimpianto. Fu sottoposto, nei tempi previsti dalla legge, alle pratiche vaccinali obbligatorie. Tutto sembrava proseguire normalmente fino a quando non ci accorgemmo che il suo modo di camminare, all’età di circa un anno e mezzo, non era sicuro ma incerto ed impacciato. Era però sufficiente tenerlo per mano o per un ricciolo, dei suoi capelli d’oro, perché lui si sentisse più sicuro e tentasse di camminare in modo corretto. Qualche tempo dopo la mia preoccupazione aumentò nel vedere che altre forme d’incertezza incominciavano a delinearsi accentuandosi sempre più. Incominciai così ad indagare seriamente nel campo medico per verificare che non si fosse presentata qualche subdola forma di malattia. Marco venne ricoverato nell’astanteria del reparto di pediatria della nostra città dove furono fatti degli accertamenti per capire cosa era successo in quel gioiellino dai riccioli d’oro. Ricordo che, a quel tempo, non era permesso a noi genitori visitare i nostri piccoli pazienti, perché ci dicevano che il personale sarebbe stato disturbato nello svolgimento delle indagini diagnostiche. Io però non mi rassegnavo a non poter vedere mio figlio e perciò una mattina tentai, senza farmi vedere né dal bambino né soprattutto dal personale dell’ospedale, di arrampicarmi su una finestra dell’astanteria ubicata al piano terra. Mi si presentò davanti agli occhi
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uno stanzone pieno di lettini in ferro, con sbarre di lato perché i piccoli pazienti non potessero scendere. Cercai di scoprire dov’era il mio bambino e, con mia grande meraviglia, quando riuscii ad individuare il suo lettino mi accorsi che delle cinture strette ai suoi polsi gli impedivano di muoversi e di alzarsi in piedi. Era legato! La mia meraviglia fu tale che rimasi ammutolito, scesi dalla finestra e scoppiai a piangere. Pensavo a quella piccola creatura indifesa e tanto affabile ridotta in quelle condizioni. Mi era stato confermato anche dalle infermiere e dai medici del reparto che il suo corretto e gentile modo di esprimersi le aveva allibite. Vedendolo in quello stato mi parve d’impazzire pensando che proprio lui, con molta grazia e gentilezza, era abituato ad invitare il personale del reparto a casa sua a mangiare il “minestrone”, il suo cibo preferito. Ora se ne stava lì ammutolito e impossibilitato a muoversi, legato com’era alle sbarre del lettino. Per fortuna il tempo del ricovero in ospedale passò rapidamente e finalmente fu dimesso: feci di tutto per fargli dimenticare quel periodo, lo colmai di tenerezze e d’attenzioni forse anche viziandolo un po’. Era il minimo che potessi fare per ripagarlo delle sofferenze che aveva subito; cercai di stargli ossessivamente vicino, per fargli sentire che gli volevo bene e che non era dipeso da noi genitori l’allontanamento che temporaneamente aveva dovuto subire, soprattutto l’internamento in quel freddo e spoglio stanzone d’ospedale. Purtroppo le nostre finanze a quell’epoca non ci permettevano di agire diversamente. La diagnosi che era stata formulata, dopo una serie probabilmente misera di accertamenti, fu di “Acrodinia”, una parola nuova per noi, che dovemmo però successivamente abituarci a sentir pronunciare insieme ad altre che piano a piano entrarono a far parte del nostro vocabolario, diventando purtroppo familiari nei nostri discorsi. Nello stilare la diagnosi, il Primario del reparto di pediatria dell’ospedale di Borgo Trento, onestamente scrisse che: ”Dopo l’ultima vaccinazione antipolio (circa otto giorni fa) il bambino è molto più agitato, non dorme la notte, mangia pochissimo, ha le mani e i piedi freddi e sudati, non riesce a camminare. Nonostante le cure continuate tale sintomatologia persiste…”(estratto dalla cartella clinica). Era la prima volta che si nominava la parola Vaccinazione come probabile responsabile dei sintomi iniziali che nostro figlio manifestava. A quel tempo non avevo alcuna informazione in merito alle reazioni avverse alle vaccinazioni, ero solo un papà spaventato per ciò che gli stava capitando vedendo mio figlio regredire nelle normali funzioni che ogni bimbo svolge con semplicità e disinvoltura, fermamente convinto però che la “Scienza Medica” avrebbe sicuramente risolto il problema che si era manifestato con la malattia del mio bambino.
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Questa mia certezza fu poi costretta a svanire non solo perché la scienza non era in grado di aiutarmi, ma ancor più perché, e questo lo capii molti anni dopo, non voleva ammettere di esserne stata la causa prima. La nostra vita familiare venne così sconvolta e iniziò una spasmodica ricerca per trovare una soluzione alla malattia; ma, purtroppo, prima di arrivare alla soluzione, si doveva inquadrare meglio il tipo di patologia che aveva colpito Marco. Ci recammo a Milano, inviati dal pediatra, alla Clinica Neurologica dove il professor Migliavacca, dopo aver visitato il bambino, avanzò la diagnosi di probabile tumore al cervello consigliandoci di proseguire gli accertamenti presso il Reparto di Neurochirurgia dell’ospedale della nostra città. Marco fu ricoverato così presso il Reparto di Neurochirurgia dell’Ospedale di Borgo Trento dove venne eseguito un esame rischioso, con insufflazione di aria a livello della spina dorsale, denominato Pneumoencefalografia. Il bimbo soffrì molto per questo esame e quando lo riportammo a casa non reggeva quasi più la testa. Nonostante la situazione, a mio avviso per colpa dall’esame fatto, si fosse aggravata, perseguimmo ancora la strada neurologica per approfondire e scoprire la malattia che sempre era stata inquadrata essenzialmente di quell’origine. Il tempo passava e tra una bronchite e l’altra il fisico di mio figlio si debilitava sempre più; fu ricoverato successivamente nel reparto di pediatria per una bronchiolite bilaterale, venne dimesso dopo quasi un mese di degenza. Nel frattempo mia moglie dette alla luce il nostro secondogenito Luca che divenne la gioia della famiglia, ma soprattutto di Marco che si era morbosamente aggrappato a lui considerandolo la sua ancora di salvezza. Durante le innumerevoli bronchiti o polmoniti che lo costringevano a rimanere a letto Marco lo voleva vicino: lo accarezzava e lo coccolava, era diventato per lui uno stimolo per la sua stessa sopravvivenza. A Marco piaceva ascoltare la musica e le poesie che la mamma gli insegnava, conservo ancora un piccolo nastro magnetico con la registrazione della sua dolce vocina quando recitava la poesia del “Compare Galletto” ed altre ancora, gli piaceva anche ascoltare la musica, si emozionava tutto quando riusciva ad ascoltare la fanfara dei Bersaglieri. Ricordo che qualcuno gli aveva regalato un piccolo cappello da Bersagliere con un bellissimo piumaggio. Con questo copricapo spinto dalla musica della fanfara un giorno Luca cominciò a muovere i suoi primi passi; Marco cercò di imitare il fratellino ma non vi riuscì e cadde. Aveva ormai cinque anni. Fu per lui una grossa sconfitta e per noi genitori una pugnalata al cuore. Nella spasmodica ricerca di arrivare ad una diagnosi, abbiamo anche cambiato pediatra scegliendo il professor Dino Gaburro primario della Clinica Pediatrica di Borgo Roma. Questo complesso ospedaliero, da poco inaugurato, ci era stato descritto come un nuovo centro Universitario in cui venivano fatte ricerche molto avanzate, con attrezzature all’avanguardia in campo Scientifico. Di
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conseguenza, essendo il professor Gaburro il nuovo primario di quell’ospedale, abbandonammo quello di Borgo Trento dove fino ad allora Marco era sempre stato ricoverato e seguito dal professor Mengoli. La nostra speranza era che questo nuovo medico avesse maggior intuizione nell’inquadrare la forma morbosa che aveva colpito Marco, poiché il primo si era fissato sulla diagnosi di “Acrodinia” e non aveva più proseguito nella ricerca. Oltre che arrivare ad una diagnosi, a noi interessava che venisse attuata una nuova terapia per migliorare la già compromessa salute del nostro bambino. In quell’Ospedale fu ricoverato per accertamenti in una stanzetta nel reparto “speciale”, naturalmente a pagamento; ricordo che feci un versamento di duecento mila lire, le ultime rimaste sul nostro conto corrente, perché Marco potesse rimanere con la mamma in una stanzetta riservata. Gli esami che vennero eseguiti non dettero, ancora una volta, alcun esito positivo per cui la ricerca per arrivare a definire la diagnosi si arenò nuovamente. La nostra ansia aumentava, non riuscivamo a rassegnarci nel vedere tutte le difficoltà che incontravamo anche in quel nuovo Ospedale e con quel nuovo pediatra; pensavamo già che forse avevamo commesso un errore ad abbandonare il professor Mengoli, poiché, anche dal punto di vista umano, era stato per noi sicuramente più comprensivo. Marco, nonostante avesse intuito la nostra preoccupazione per la sua sofferenza, si dimostrava sereno, sempre avvinghiato alla vita e al suo fratellino Luca che, con la sua vivacità, riusciva a mantenerlo anche allegro. Sfortunatamente questa sua gioia di vivere ebbe breve durata, nell’ottobre del 1971, Luca aveva allora un anno e mezzo, Marco, in conseguenza ad una broncopolmonite che non riuscivamo a risolvere nonostante l’uso continuativo di forti dosaggi di antibiotico, fu ricoverato alle otto di sera al Policlinico di Borgo Roma dove dopo poche ore morì. Ricordo perfettamente quella tragica notte: Marco quella sera non respirava bene, aveva parecchio catarro, non riuscivamo ad aspirarglielo con un attrezzo rudimentale che ci eravamo costruiti per poter togliere le secrezioni dal naso e dalla bocca, sembrava stesse soffocandosi. Ci precipitammo così all’ospedale, nel reparto “speciale”, da dove era stato dimesso da poco tempo. In quella grande entrata, in quei corridoi e perfino nell’ascensore tutto odorava di vernice fresca, alle 20 e 30 eravamo nella stanzetta a pagamento. Dopo qualche tempo mi accorsi che la situazione stava bruscamente peggiorando, perciò mi precipitai nel corridoio a cercare il medico di guardia: purtroppo però il dottore non si trovava. Disperatamente corsi per tutto il reparto per vedere di recuperarlo, nel frattempo il bambino scaricò feci nere e poi spirò.
Marco a quattro anni
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Quando giunse il pediatra, per giustificare la sua assenza, si mise a gridare:” A me chi mi salva il bimbo che stavo curando al reparto prematuri?”. Mio figlio era appena morto e credo che un po’ di delicatezza da parte di questo medico sarebbe stato il minimo che ci era dovuto per rispettare il nostro immenso dolore. Dopo un po’ svenni, dovettero rianimarmi per portarmi a vedere il lettino ancora caldo con il corpicino di mio figlio appena morto. Penso che solo un genitore che abbia vissuto una simile esperienza possa capire quale sensazione si provi a veder morire il proprio figlio: è un fatto intollerabile ed inaccettabile sia psicologicamente che fisicamente, poiché è un paradosso che contrasta con la natura umana. Nascita dei miei gemelli Alberto e Andrea
La vita continuava a scorrere, non più spasmodica ed assillante come prima alla continua ricerca di un rimedio che non ci portasse via quella creatura tanto cara ed amata. Mi sembrava impossibile poter continuare a vivere senza di lui la vita mi pareva senza senso. La sua memoria era sempre presente nei nostri cuori, nelle nostre piccole discussioni era sempre “lui” Marco il nocciolo di ogni nostro ragionamento. Più volte mi ritrovai davanti alla fotografia che avevamo fatto porre sulla lapide a piangere e a bussare sul marmo che suggellava la sua tomba nella speranza di avvertire una qualsiasi risposta alla mia insistente richiesta di aiuto. Ero io che chiedevo aiuto a mio figlio, ed egli forse mi sentiva, mi vedeva, ma io non potevo né vedere né sentire più l’alito caldo del suo respiro, la sua vocina che ripeteva le poesie che la mamma e i nonni gli avevano insegnato. La mia disperazione era grande, nemmeno l’affetto premuroso di Luca, ancora piccino, riusciva a consolarmi della perdita; non riuscivo a farmene una ragione era per me assurdo ed inconcepibile accettare con rassegnazione ciò che ci era capitato. Per fortuna il tempo, passando, mitiga ogni dolore e anch’io lentamente mi imposi una certa serenità per continuare a sopravvivere. I giorni passavano nella normalità; certo il ricordo restava, ma si affievoliva il dolore e si riprese a vivere una vita normale fino a che dopo cinque anni mia moglie rimase nuovamente in cinta. Fu una gravidanza abbastanza difficile, le visite ginecologiche però ci rassicuravano poiché il ginecologo, anche con il sussidio degli esami di laboratorio, affermava che la gravidanza era normale e che il feto era sano e grosso di dimensioni. Devo confessare che la mia attesa era sicuramente rivolta ad una femminuccia, dopo due maschi ciò era del tutto normale, avendo io desiderato la femmina ancora con la prima gravidanza. Franca era molto grossa, non mangiava quasi più: alla fine si nutriva quasi
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esclusivamente di ghiaccio, eravamo d’estate e faceva molto caldo. Finalmente il 4 di agosto del 1976 avvenne il ricovero di Franca nella maternità della nostra città. Ricordo che l’anziana ostetrica che l’aveva seguita durante tutta la gravidanza, poco prima del ricovero, visitandola ci disse: “questa volta ci siamo, dal battito sembra proprio una bambina”. Vi lascio immaginare quale fu la mia gioia nel sentire queste parole. Alle ore15.00 ero davanti alla sala travaglio nella trepidante attesa di poter finalmente vedere quel nuovo piccolo esserino. Scesi con l’ascensore per fumare una sigaretta, per calmare il mio nervosismo che era arrivato alle stelle durante l’attesa, ma non appena risalii fui chiamato da una infermiera che mi disse bruscamente “sono nati”. Come, sono nati, pensai fra di me? Corsi precipitosamente verso la sala parto dove mi venne comunicato che si trattava di un parto gemellare e non di una femmina ma di due maschi. All’inizio rimasi allibito, non ci aspettavamo questa sorpresa, avevamo predisposto tutto il corredino in rosa e invece serviva doppiamente in azzurro. I bimbi erano nati un po’ prematuri, ma sani e vispi; ci venne comunicato che il loro peso era di 2450 grammi circa e così ci fu imposto di ricoverarli nel reparto prematuri per qualche giorno. L’imbarazzo di mia moglie e mio fu grande perché nessuno si era accorto che il parto era gemellare, né il ginecologo né l’ostetrica. Uno stato di frenetica agitazione si era creato in me e il primo imbarazzo fu quello di dover decidere, seduta stante, i nomi da dare ai piccoli. Si dovevano scegliere in una totale confusione di nomi prevalentemente femminili ai quali avevamo fino a poco prima pensato. La scelta per uno fu rapidamente fatta: Andrea - Vittorio ( come secondo nome il nome di mio padre). Per il secondo la scelta fu più elaborata. Marco era stato il primo e volevamo rimanesse l’unico, non ci sembrava bello ripeterlo; poi c’era già Luca. Andrea ci venne alla mente rapidamente poiché a Franca piacevano i nomi degli Apostoli di Cristo, ma per l’altro ci fu più imbarazzo, non sapevamo proprio che nome dargli. Finalmente arrivammo ad un compromesso: avremmo rinnovato il nome del primo figlio come secondo nome e come primo decidemmo per Alberto. Perciò venne chiamato Alberto – Marco. Mia moglie venne dimessa, ma i bimbi rimasero per alcuni giorni ricoverati nel reparto prematuri. Arrivò finalmente il giorno della loro dimissione. Impacciati come due scolaretti al loro primo giorno di scuola, io e Franca ci avviammo con due cestine a prendere quelle piccole creature,quasi litigando tra di noi per decidere chi avrebbe portato l’uno o l’altro. A casa dominava il caos più grande, la nostra casetta non era predisposta per accogliere altri due bambini; nella cameretta di Luca dovevamo aggiungere un letto, ma lo spazio non c’era. Risolvemmo la situazione con un letto a castello, sopra avrebbe dormito Luca e sotto, invertiti nello stesso letto, Alberto e Andrea. Pensammo: tanto sono così piccini che ci possono stare benissimo tutti e due e così il problema fu in breve risolto.
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Ero veramente orgoglioso, nonostante la delusione della mancata femminuccia, dei miei due gemellini. Andavo per la strada pavoneggiandomi con la carrozzina modificata dal nonno materno accostando con un gancio le due singole. Mi beavo del fatto di essere aumentato in famiglia di due unità anziché di una sola e pensavo fra me che, forse, il Signore aveva voluto rendermi ciò che anticipatamente e prematuramente mi aveva tolto con la morte di Marco; probabilmente aveva voluto placare la rabbia che era sfociata nella perdita della “Fede” avendo io considerato questa “Sua Volontà” un castigo ingiusto per le colpe che, sicuramente, avevo anche commesso. Tutto era così diverso, perché doppio: doppia la carrozzina, doppi i seggioloni, doppi i completini, vedevo il mondo duplicato ed i bimbi erano come due gocce d’acqua riflesse in uno specchio. Andrea destro, Alberto mancino, ci stavamo abituando a compiere ogni normale azione raddoppiandola. Luca era diventato il capo di quella “ciurma”, dava ordini a destra e a manca ai suoi nuovi fratellini, amorevolmente e con tanta dolcezza, restava incantato a bocca aperta quando la mamma si attaccava al seno contemporaneamente i due gemellini e badava molto attentamente che nessuno dei due si addormentasse durante la poppata. La vita scorreva serenamente con gioia ed in armonia, e con qualche bisticcio sulle decisioni da prendere, sul come vestire uno o l’altro, a chi toccava addormentare uno o l’altro. Durante la notte, si svegliava uno e di conseguenza svegliava anche l’altro, piccole cose che riempivano la nostra vita. Nella roulotte in campeggio, d’estate, i due bimbi si erano abituati a vivere all’aria aperta, erano l’orgoglio ed il giocattolo anche di tutti i nostri amici. Dopo la batosta che avevamo preso con la morte di Marco, questa nuova situazione aveva portato una boccata di serenità e di gioia nella nostra famiglia.
Alberto e Andrea a sei mesi
Vaccinazione dei gemellini A sei mesi col fratellino Luca
Passarono i primi mesi e dal settore Sanitario arrivò l’invito a presentarsi per le vaccinazioni di rito; impressionati ancora dall’esperienza precedente temporeggiammo fino a che i bimbi non ebbero otto mesi. Franca era preoccupata, pensava alle malattie infettive che i piccoli avrebbero potuto contrarre se non venivano vaccinati, io invece ero molto preoccupato causa la precedente esperienza vissuta con il nostro Marco, ma soprattutto per il fatto che
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i bambini erano nati prematuri e che nel mese di gennaio del 1977 furono ricoverati per ben due volte per enteropatia influenzale ed altre complicazioni. Quando parlavamo fra di noi dell’obbligo di sottoporre anche Alberto e Andrea alla pratica vaccinale, mi ritornavano alla mente quegli effetti negativi che avevamo notato subito dopo l’avvenuta esecuzione di ogni vaccino nel nostro primogenito. Per questo motivo tentavo di rimandare il più possibile l’esecuzione di questo atto sanitario. Fino a che, su insistenza di mia moglie e dopo che assillanti pressioni, accompagnate qualche volta anche da minacce, erano arrivate dal settore Igiene Pubblica del nostro Comune, mi vidi costretto ad accettare di portare i miei bambini all’allora Ufficio d’Igiene per parlare col medico responsabile. Ricordo perfettamente quel giorno: entrammo nell’androne di un palazzo saturo di un odore acre di disinfettante, altri genitori coi loro bimbetti erano in attesa, una signorina ci chiese se eravamo venuti per fare le vaccinazioni ai bimbi, io risposi che intendevo soprattutto parlare con l’Ufficiale Sanitario responsabile del Servizio Vaccinale, lei mi chiese di pazientare perché il medico era occupato. I miei bambini giocherellavano fra di loro finché finalmente si aprì una porta e comparve una signora in camice bianco. Si presentò: “Sono la dottoressa Giovanardi, responsabile del servizio vaccinazioni, prego accomodatevi”. Entrammo con Andrea ed Alberto in braccio, uno a me ed uno a mia moglie, ed incominciammo il colloquio. Lei espose la lista dei pericoli delle malattie infettive per le quali i bambini venivano vaccinati, io l’ascoltai molto distrattamente sentendo in cuor mio che dovevo oppormi a quella pratica ma non avendo alcuna certezza sul come. Incominciai a raccontarle l’esperienza precedentemente vissuta col primogenito Marco, dissi che avevo il sentore che la vaccinazione avesse influito in modo negativo sulla salute di nostro figlio; non avevo dimestichezza con i termini medici, raccontavo ciò che ci era stato ventilato dopo la sua scomparsa, la vaccinazione antipoliomielitica poteva essere stata la causa scatenante della malattia che lo aveva condotto alla morte ed infine aggiunsi che i due bambini avevano avuto problemi di salute sia alla nascita, in quanto prematuri, sia qualche mese dopo allorché erano stati ricoverati presso l’Ospedale di Borgo Trento. La dottoressa mi ascoltò altrettanto distrattamente, insistendo sui benefici che le vaccinazioni avevano portato all’umanità e terrorizzandoci sulle conseguenze che tali malattie avrebbero arrecato a chi non fosse stato vaccinato. Io ribadii le mie convinzioni fino a che la dottoressa, con molta fermezza e con molta arroganza, arrivò a dire: “Volete che se vi è occorso un incidente, questo si ripeta una seconda volta? Ciò è matematicamente impossibile, nel caso, me ne assumo personalmente la responsabilità per ciò che potrà accadere! State tranquilli”.
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Rimasi frastornato, confuso, non sapevo che cosa fare per togliermi da quella situazione, incalzò ancora la dottoressa, “Su non vorrete essere retrogradi assumendovi la responsabilità nel caso scoppi un’epidemia di Poliomielite, malattia molto grave, che è possibile evitare semplicemente con delle goccine date ai vostri bimbi insieme ad uno zuccherino?”. Ci guardammo negli occhi io e mia moglie, vidi che le parole della dottoressa avevano convinto lei dei benefici che le vaccinazioni stesse avrebbero apportato ai nostri figli e per un momento dimenticai le parole che un pediatra disse dopo la morte del nostro primo figlio:”E’ inutile che continui ad arrovellarsi per conoscere la malattia che ha condotto a morte Marco, è possibile che sia stata una reazione avversa al vaccino antipolio, e questo non lo scoprirà mai con certezza!”. Quel medico aveva tratto questa deduzione sicuramente conoscendo ciò che stava scritto su quel testo scientifico dal titolo “Sieri Vaccini Immunoglobuline Prontuario per l’uso”, la cui prima edizione risaliva all’anno 1970. In quel preciso momento feci la più grande ed assurda stupidaggine della mia vita, accettai quel compromesso, stanco anche delle pressioni che precedentemente avevamo subito, e così i bimbi vennero vaccinati. Solo oggi, a distanza di più di vent’anni mi chiedo, con l’esperienza che mi sono fatta, come abbia potuto un medico deontologicamente preparato assumersi, se pur verbalmente, la responsabilità di far vaccinare le nostre due creature senza alcun accertamento preventivo e per di più con il racconto luttuoso che le avevamo descritto. Oggi, questo comportamento non mi meraviglia più, perché ho capito che l’indottrinamento medicale prevale sempre ed ancora sulla ragione e sul buonsenso.
Primo compleanno di Alberto e Andrea
Iniziano a presentarsi i sintomi di Marco, in Andrea e Alberto
I gemellini al mare felici con Luca
Iniziammo così il nostro secondo calvario, non più con un solo bambino ma bensì con due essendo i miei figli gemelli mono-ovulari.
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Nella primavera del 1977 i sintomi iniziarono ben presto a manifestarsi in entrambi i bimbi: tremori diffusi, bladilalia (difficoltà a pronunciare le parole), nistagmo oculare (tremore degli occhi) ed altri che ci fecero immediatamente ritornare col pensiero a dieci anni prima. La nostra speranza però era fondata sul fatto che la Scienza Medica avesse ormai fatto dei passi avanti nella ricerca su queste forme misteriose; dovemmo purtroppo ricrederci nel vedere che non era così, per nostra disgrazia la Medicina brancolava ancora nel buio. Ricoverammo così i bimbi nel reparto di pediatria della nostra città perché venissero svolti degli accertamenti in merito alla malattia che li aveva colpiti. Il dottor Giancarlo Battaglino, che era a quel tempo il pediatra dei nostri bambini, aveva ipotizzato si trattasse di una Leucodistrofia di tipo Metacromatico e, dopo aver eseguito alcune ricerche dalle quali non ebbe alcuna conferma, ci inviò da uno specialista in Neuropsichiatria Infantile all’Insespital di Berna, che si occupava preminentemente di malattie che si manifestavano con una sintomatologia simile a quella che accusavano Alberto e Andrea, considerate ancora “sconosciute”. Partimmo in treno per Berna. Il viaggio fu disastroso, le carrozze erano gremite di gente. Con noi portammo oltre ad Alberto e Andrea anche Luca, i piccoli in braccio uno a me ed uno a mia moglie. Per un lungo tratto rimanemmo in piedi nel corridoio, finché un signore gentilmente si alzò ed offrì il posto a sedere a Franca che prese in braccio tutti e due i piccolini. Arrivammo a Berna e ci accolse l’enorme stazione della metropoli Svizzera. Spalancavamo gli occhi nel vedere la grande funzionalità e l’ordine che regnava in quella affollatissima stazione ferroviaria. Chiedendo informazioni, ci avviammo con il nostro passeggino verso l’ospedale. Arrivati fummo nuovamente colti da stupore, una mega struttura che assomigliava più ad un grande albergo a cinque stelle che ad un ospedale si presentò ai nostri occhi. Fioriere con fiori di ogni tipo e colore, acquari contenenti pesci variopinti, facevano ornamento nell’atrio; salimmo con l’ascensore al piano che ci avevano indicato dove si trovava lo studio del professor Vassella, già preventivamente avvisato del nostro arrivo. L’attesa fu breve, guardavamo stupiti tutte quelle belle cose che ci attorniavano, i bimbi erano stanchi del viaggio perciò rimasero abbastanza tranquilli. Luca invece mi tempestava di domande, voleva sapere cosa avrebbe fatto quel medico ai suoi fratellini e forse anche a lui. Lo rassicurai, vedendolo preoccupato, dicendogli che sicuramente non avrebbero fatto del male né a lui né ai piccolini. Ci fecero accomodare nello studio del professore ed iniziammo così a narrargli la nostra vicenda. Ci ascoltò molto attentamente, poi visitò entrambi i bimbi, ricordo anche che li fece camminare avanti indietro per il suo studio osservando
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scrupolosamente il loro modo di incedere. Luca intanto osservava corrucciato tutto ciò che il professore faceva fare ad Alberto prima e ad Andrea dopo, mimando a modo suo tutti i movimenti che facevano i suoi fratellini. Finalmente la visita finì ed il professore incominciò ad esporci le sue impressioni. La prima cosa che ci disse fu: ”Essendo i vostri bimbi nati prematuri non dovevano essere sottoposti alle vaccinazioni” e aggiunse “qui da noi, in Svizzera, i bambini che nascono prematuramente non vengono assolutamente vaccinati!” Ci rassicurò poi dicendoci che, a suo parere, Andrea e Alberto in quel momento non presentavano alcuna forma morbosa evidente e che tutto si sarebbe risolto col tempo, con la loro crescita e con lo sviluppo. Il viaggio di ritorno fu migliore, eravamo più rilassati e tranquilli, rassicurati dalle parole che il professore ci aveva detto. Trascorse del tempo, però i sintomi dei nostri figli non passavano. Ci indirizzarono allora alla clinica Universitaria Neurologica di Siena dal professor Guazzi, che ci era stato segnalato come un esperto in questo campo. Per di più proprio il giorno dell’appuntamento faceva visita al professore un grosso nome della neurologia in campo mondiale il professor Ludo Van Bogaert, grossissimo luminare, che teneva un meeting nell’aula magna di quella Università. Con i bimbi in braccio ci misero in fila con altre persone, mi sembrò strano quel modo di accoglierci, mi chiedevo per quale motivo dovevamo stare sistemati così. Mi venne detto che il grande scienziato, tenendo nel contempo lezione nell’aula magna dell’Università, avrebbe visitato anche i miei bambini. Rimasi allibito dalla proposta che mi venne fatta, non capivo, o meglio, dentro di me non volevo accettare che i miei figli venissero visitati in un’aula Universitaria, esposti agli occhi dei moltissimi studenti presenti a quella che per loro era semplicemente una lezione. Mi si raggelò il sangue al pensiero che le mie creature fossero esposte e magari anche denudate davanti a degli estranei, cosa per me umiliante. Presi istintivamente una decisione: mi rivolsi ad un assistente e dissi che sarei stato disposto a far visitare i miei bambini dal professore solo se lo stesso avesse accettato di farlo in uno studio appartato, minacciando di ritornarmene immediatamente a casa se la mia richiesta non fosse stata accolta. Mi sembrava impossibile che a quei grossi cervelloni fosse mancato anche quel poco di sensibilità necessaria per capire quale trauma avrebbero subito i gemelli trattati come degli oggetti esposti in vetrina. Non si rendevano conto che ogni essere umano oltre la materia possiede una psiche, per cui anche i miei figli erano dotati di una loro sensibilità? Che cosa sarebbe capitato se io avessi accettato quella imposizione, con quella esposizione che danno ne sarebbe derivato alla memoria dei miei bambini? Fortunatamente il professor Van Bogaert accettò la mia proposta e si trasferì subito nello studio del professor Guazzi, visitò così i bimbi in un ambiente riservato, lontano da occhi curiosi; aveva capito molto bene il problema, era una persona attempata, dotata di esperienza ed in
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più con la sensibilità che appartiene ad ogni buon nonno. Venni a sapere poi che era stato il professor Guazzi a montare quella tragicomica farsa per farsi lustro con i propri studenti. La visita fu molto cordiale da parte del luminare, non altrettanto però l’atteggiamento del professor Guazzi che, irritato per il mio comportamento, seminava nervosamente mozziconi di sigarette per tutto lo studio senza curarsi minimamente di verificare lo stato di salute dei miei bimbi. Furono fatte molte ipotesi di diagnosi e quando alla fine chiesi allo studioso se era bene continuare la terapia omeopatica che avevo intrapreso su consiglio di un medico tedesco che risiedeva a Rimini, mi disse con fermezza di sì. Il nostro peregrinare ci portò a far visitare i gemellini in molte cliniche Italiane, al Neurologico Besta di Milano, alla Clinica Pediatrica Gaslini di Genova, al San Raffaele di Milano e in molte altre località che sarebbe lungo e tedioso elencare. La Stampa Nazionale si occupa del nostro problema
Il primo giornale che descrive il nostro caso
Arrivò il giorno in cui un giornale a tiratura nazionale, in prima pagina, parlò del caso dei miei bambini. Il giornale era “L’Occhio” diretto da Maurizio Costanzo. Nella rubrica di Franca Giustizia fu lanciato un appello alla classe medica Italiana perché prendesse in esame il nostro caso e cercasse di darci una mano a risolvere il nostro problema. In prima pagina la foto dei miei figli ed il titolo”Questi due gemelli muoiono……SALVIAMOLI!” Era l’otto maggio del 1980. L’appello era indirizzato preminentemente alla scienziata Rita Levi Montalcini, oltre naturalmente ad ogni singolo medico e non che fosse stato in grado di darci una mano; ma soprattutto a Lei, poiché avevo sentito parlare della sua ricerca nel campo della rigenerazione delle cellule cerebrali. La stessa professoressa Montalcini il giorno successivo mi telefonò promettendomi mari e monti. “Le farò conoscere i più grandi genetisti del mondo, vedrà che risolveranno il vostro problema” mi disse. Si era accesa in noi una speranza, non eravamo più soli, un giornale importante aveva preso in considerazione il nostro caso, avevamo a disposizione un mezzo così potente d’informazione per cercare di risolvere i nostri guai. Altri giornali ripresero la notizia e così la nostra vicenda venne conosciuta da innumerevoli persone, fu anche aperta una sottoscrizione e arrivarono aiuti economici: ne avevamo proprio bisogno, le nostre finanze, con tutto il peregrinare precedente si erano del tutto esaurite, pensai che la Provvidenza Divina ci stava dando una mano.
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Incontro con l’Ingegner Enzo Ferrari
Sono stato anche a Modena, a Maranello, dal “Grande Vecchio”. Alla portineria della fabbrica della Ferrari avevo lasciato una copia del giornale “L’occhio” con preghiera di farla recapitare all’ingegner Enzo Ferrari. Con mia grande meraviglia la mattina successiva ricevetti una inaspettata telefonata dallo stesso ingegner Ferrari il quale mi disse, sensibilmente commosso: “Venga quanto prima a Maranello, ho letto il giornale che mi ha lasciato, la vostra vicenda mi ha toccato, so cosa vuol dire perdere un figlio, il mio Dino!” (Il figlio dell’ingegner Ferrari era morto per Distrofia Muscolare, ed il padre era stato tra i fondatori dell’Associazione per la Ricerca Scientifica su questa malattia). Mi recai a Maranello. La fatalità volle che proprio quel giorno ricorresse l’anniversario della morte di Dino Ferrari e, come mi vide, Enzo subito mi abbracciò piangendo e mi disse:” Dino avrebbe più o meno la sua età, lasci che la abbracci come se fosse mio figlio”. Provai una grandissima commozione nel sentire il calore umano che emanava quel Grande Personaggio, mi ritrovai abbracciato a piangere insieme a Lui. C’era con me un carissimo amico che mi aveva accompagnato nel viaggio e che rimase stupito nel vedere quella scena. L’Ingegnere ed io non ci curavamo della sua presenza, avevamo, subito trovato una affinità d’intesa, un affetto reciproco che ci colmava di grande dolcezza seppur per un triste ricordo. Rammento queste parole, che fra tante altre mi disse:” Io nella vita ho vinto tutto, tranne la morte di mio figlio Dino!” Rimasi impressionato da quella frase, una frase che più volte nella vita mi è tornata alla memoria. Successivamente si attivò per farmi avere un rimedio dal Perù preoccupandosi anche di procurarmi una documentazione che descriveva i benefici prodotti dal rimedio, redatta da un ingegnere elettronico Peruviano che, colpito anch’esso da una malattia muscolare, aveva potuto sperimentarlo su se stesso con ottimi risultati. Nella bibliografia venivano esposti molti altri casi di malattie muscolari, anch’essi avevano trovato giovamento da questo rimedio. Mi disse ancora:” Tempo addietro ho cercato di importare a mie spese questo prodotto per distribuirlo gratuitamente ai distrofici Italiani, ma quando chiesi l’autorizzazione all’allora Ministro della Sanità mi venne sbattuta la porta in faccia!” Capisco solo oggi quanto fosse stato difficile anche per Lui andare contro ad una Certa Ufficialità, nonostante fosse il Grande Enzo Ferrari. Lettera autografa dell’ing. Enzo Ferrari
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Incontro con il Papa Giovanni Paolo II
Fu questo un periodo molto intenso di viaggi e di conoscenze con personalità di ogni tipo. Vi fu anche l’incontro con il Papa Giovanni Paolo II. Partimmo da Verona in macchina, con l’assistente che ci era stata assegnata dal Comune per seguire i bambini, e arrivammo a Roma a tarda sera. Richiesta di”GIUSTIZIA”
Avevamo l’accordo di trovarci con il parroco della nostra parrocchia in un ritrovo per pellegrini appena fuori Roma. Eravamo stanchi ma entusiasti di poter vedere, seppure da lontano, il giorno successivo, il Sommo Pontefice in una udienza pubblica. Al mattino partimmo di buon’ora per arrivare presto in Piazza San Pietro e poterci assicurare un posto dal quale assistere alla cerimonia. Arrivati nei pressi della piazza dovemmo cercare un luogo per parcheggiare la macchina e ciò fu alquanto difficoltoso in quel traffico caotico a cui non eravamo abituati. Trovato il parcheggio ci incamminammo verso la piazza e giuntivi notammo che il sole la illuminava rendendola ancora più bella e maestosa; rimanemmo incantati da tanta bellezza, ma ci accorgemmo anche che i bimbi non avevano il cappellino. Richiesta di “VERITA?”
Faceva molto caldo, era di giugno, decisi così di andare da solo lasciando mia moglie con l’assistente ed i bambini vicini alle transenne che erano state poste nella grande piazza, fissando un punto per poterci ritrovare. Andai di corsa, il tempo stringeva, entrai in un grande magazzino dove, con molta rapidità, acquistai due bei capellini a righe bianche e blu. Feci il percorso a ritroso ed arrivai al punto prefissato per l’incontro e, con mia grande meraviglia, vidi che la mia famiglia non c’era. Incominciai a preoccuparmi poiché né io né Franca conoscevamo bene la città di Roma ma qualcuno, non ricordo chi, mi venne accanto e mi disse che i miei bambini erano stati accompagnati davanti dove erano predisposte delle sedie per gli ospiti all’incontro Papale.Subito non capii, ma poi mi fecero cenno di scavalcare le transenne e così mi condussero in questi posti riservati agli ospiti dove trovai Franca seduta con i bimbi in braccio. Richiesta di “AMORE”
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Ero molto emozionato, non mi aspettavo di poter essere così vicino al Papa, il cuore mi batteva molto forte e per l’emozione tremavo nonostante facesse molto caldo. Ebbe inizio la cerimonia, il Papa passò in mezzo alla gente, fino ad arrivare davanti a noi. Non sapevo cosa dire, cosa fare, tale era l’emozione che mi serrava la gola. Giovanni Paolo II si chinò e mi baciò, allora ebbi il coraggio di balbettare qualche parola :”Santità ci aiuti a salvare la vita alle nostre creature!” Lui sorrise ed io scoppiai in un pianto dirotto. Ricordo che, mentre il Segretario gli spiegava la nostra vicenda, Alberto, che io tenevo in braccio, giocherellava con la Croce che pendeva dal collo del Pontefice e, ad un tratto, d’istinto, si slanciò per saltargli in braccio. Io lo trattenni e lui ingenuamente, mi chiese: ”perché non vuoi, papi?”. Lui notò sicuramente l’effusione d’affetto che precedentemente il Papa aveva dimostrato baciandomi, per questo motivo gli veniva spontaneo ricambiarla. Convinti che le nostre richieste saranno accolte……( ? )
Fu veramente una grande emozione e quando la cerimonia finì alzandomi mi accorsi che le gambe mi tremavano: in quel momento ero sicuramente “tremante” di nome e di fatto. Sempre nella stessa giornata trovai il tempo di telefonare alla professoressa Rita Levi Montalcini che precedentemente mi aveva fatto delle promesse, per tentare di concretizzarle. Nel frattempo, purtroppo, qualche giornale, tra le righe aveva accennato alla malattia dei miei figli descrivendola non più una malattia misteriosa ma facendo un accenno ad una probabile reazione avversa alle vaccinazioni. Questo bastò perché la Montalcini mi chiudesse il telefono in faccia, dicendomi anche in brutto modo :” Non si azzardi più a fare il mio nome in avvenire!”. In quel momento crollarono in me le speranze di aiuto da parte di una “certa medicina ufficiale” che vedevo raffigurata in quella grande scienziata. Ricoverammo i bambini, su consiglio di un pediatra, alla Clinica di Neuropsichiatria Infantile di Calambrone, in provincia di Pisa, nella quale, mi si disse, svolgeva la sua attività il professor Pietro Pfanner, indicato come un valido ricercatore nel campo neurologico e motorio dei bambini. Franca rimase con loro, io tornai a casa per accudire Luca, ci sentivamo tutte le sere per telefono e ci raccontavamo del programma di ricerca che veniva svolto in quel luogo sui nostri bambini. Andai più volte a trovarli. Una volta durante il pranzo alla mensa della clinica, mia moglie si lamentò facendomi notare che i nostri bimbi stavano imparando dei comportamenti poco ortodossi da altri bambini ricoverati per delle malattie mentali più gravi. Notai che mangiando sputavano il riso, come più volte avevano visto fare da una bambina che veniva imboccata al tavolo vicino, e altre piccole cose negative che i bimbi non avevano mai fatto prima di essere
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ricoverati in quella Clinica. Ci preoccupammo, perché a noi sembrava che i nostri figli invece di progredire in quell’ambiente fossero regrediti. Non fu posta alcuna diagnosi; ci fu detto che bisognava attendere la loro crescita per potere, eventualmente, stabilire quale patologia affliggeva i miei figli; era ancora troppo presto per poterla inquadrare in una qualsiasi malattia nota. Tre settimane durò il ricovero dopo di ché riportammo Alberto e Andrea a casa. Incontro col biochimico Franco Valsè Pantellini
Ebbi la fortuna di conoscere anche un grande personaggio della Medicina cosiddetta Alternativa o Complementare. Ricordo che fui invitato dalla redazione del giornale l’Occhio che allora faceva capo al Corriere della Sera, per andare a Milano con la giornalista Adriana Bruno, che si firmava con lo pseudonimo “Franca Giustizia”, per poi proseguire per San Remo dove avremmo conosciuto il professore Franco Valsè Pantellini che in quella città teneva una relazione in un convegno di criochirurgia. Arrivai a Milano con la mia macchina e proseguii poi per San Remo con la macchina della Rizzoli Editrice. Arrivati là, ricordo che vidi questo modesto omino vetusto che si presentò con uno spiccato accento toscano, molto simpatico. Mi mise subito a mio agio rassicurandomi e dicendomi che, secondo lui, le cose non erano poi tanto gravi come io le avevo presentate. Mi consigliò di dare ai bambini dell’ascorbato di potassio e mi promise che sarebbe venuto a Verona a vedere i miei figli. Pantellini a sinistra, io dietro ed Emody (scopritore dell’interferon)
Era un personaggio un po’ strano, molto simpatico, talvolta addirittura burlone, alla buona, quando conversava con la gente si premurava di metterla sempre a proprio agio, faceva sentire la sua sincera partecipazione ai problemi dei suoi pazienti, si comportava insomma come i medici di una volta e per questo motivo mi entrò subito in simpatia. Ebbi successivamente l’opportunità di conoscere più a fondo “l’Uomo dal colbacco”, (lo avevamo soprannominato così perché in inverno portava sempre un copricapo di pelliccia) e di verificare la sua grande disponibilità umana verso le persone che soffrono. Non aveva la patente, non aveva mai voluto prenderla, girava l’Italia in treno con delle borsine di plastica da supermercato, oltre la sua valigetta da medico, per visitare i suoi innumerevoli pazienti affetti preminentemente da malattie tumorali. Era un vero ricercatore, non un medico, ma un biochimico che consigliava ai suoi pazienti una terapia a base di ascorbato di potassio, fra l’altro sperimentata negli
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Stati Uniti da due grossi scienziati, Pauling e Cameron,per i quali questo prodotto, un semplice sale, riusciva ad impedire alle masse tumorali di produrre delle metastasi. Non posso spiegare meglio questo principio poiché io non sono né medico né ricercatore in questo campo; perciò chiedo scusa al lettore per questa esposizione sicuramente incompleta ed imprecisa. Storia clinica dei gemellini mandata in giro per il mondo Lettera in cirillico arrivata dalla 1^ Clinica Universitaria di Mosca
Ho mandato le cartelle cliniche dei miei bambini in molte località del mondo, cercando disperatamente e spasmodicamente una qualunque risposta positiva che mi consentisse di poter salvare le loro vite. In Inghilterra, al dr.K.M.Laurence presso The Welsh National Scholl of Medicine; a Cardiff; al dr. W.H.S.Thomson Research Laboratory Knightswood Hospital di Glasgow; al dr. Antony J. Raimondi Direttore Chirurgia Neurologica Nortwestern University a Chicago Illinois; al prof. Isler presso Kinder Hospital a Zurigo (Svizzera); al dr Umberto Silani presso Bajlor College Of Medicine Department of Neurology; a Houston Texas e grazie all’ing. Enzo Ferrari anche in altre cinque Università Americane; al M.D. Robert J. Doman e Glenn Doman presso The Institutes for the Achievement of Human Potential a Philadelphia; -al dr. Ju Sciumov capo del settore terapeutico della Direzione per i rapporti con l’estero del Ministero della Sanità dell’URSS a Mosca dove venne ipotizzata la diagnosi più vicina a quella reale “Atassia Teleangiectasia di Louis Barrè (la lettera di risposta arrivò scritta in cirillico, non vi dico la difficoltà che incontrai per farla tradurre). Molti appelli vennero fatti alla radio e alla televisione, ma purtroppo poco di concreto mi veniva prospettato.
Con Augusto Odone, il papà di Lorenzo, dalla cui storia è stato tratto il film “L’olio di Lorenzo”
Ebbi anche occasione di scambiare della corrispondenza con il signor Augusto Odone, padre di Lorenzo, dalla cui drammatica vicenda venne tratto il soggetto per il film dal titolo “L’olio di Lorenzo”. Avemmo anche la fortuna d’incontrarci personalmente, e scambiarci i pareri sulle nostre inverosimili disavventure, durante una conferenza che lo stesso tenne a Verona allo scopo di raccogliere fondi a favore del “Progetto Mielina” del quale il signor Augusto si era fatto
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portavoce a livello internazionale. Durante questo incontro potemmo confrontare le nostre due esperienze di vita; notai però che il signor Odone, Italo-americano che viveva negli Stati Uniti d’America, era stato insignito di una laurea honoris causa per la battaglia da lui condotta anche contro le Istituzioni Sanitarie per salvare la vita a Lorenzo. La ricerca lo aveva portato a scoprire l’utilità per l’Adrenoleucodistrofia, malattia che affligge suo figlio, di un certo “Olio di Colza” che modificò in positivo il grave stato di salute del bambino. Ebbi perciò conferma, attraverso quello scambio di opinioni, della diversità di comportamento delle due Civiltà; quella Americana che aveva consegnato al signor Odone la laurea riconoscendo giusta la sua battaglia compiuta per salvare il figlio anche contro le Istituzioni; e quell’Italiana che nei confronti della stessa azione per salvare la vita a mio figlio Alberto continua ancora ad esprimere una ostile persecuzione, spinta dagli interessi prevalentemente economici di pochi, contestando la mia azione che è volta invece a proteggere l’interesse dell’intera collettività. Egli mi disse: ”Tu meriti tre volte più di me, perché tu, prima di salvare un figlio, ne hai persi altri due”. Incontro risolutivo col professor Giulio Tarro
La svolta più efficace in tutta la mia vicenda l’ebbi attraverso l’incontro fortunato con un grossissimo personaggio della Medicina Ufficiale, dal quale ero stato inviato dal professor Pantellini, il professor Giulio Tarro. Virologo, Ricercatore, Docente all’Università di Napoli, già allievo e delfino del professor Albert Sabin, scopritore del vaccino antipoliomielitico; era proprio la persona più adatta al mondo per tentare di risolvere i nostri problemi. Un essere meraviglioso, umile, gentile, onesto. Conosciuta la nostra situazione, non volle mai una lira per curare mio figlio, e questo fu il titolo di un comunicato stampa che inviai all’ANSA quando il professore fu accusato ingiustamente, come fu poi confermato dal tribunale di Napoli, di aver lucrato su una paziente. Ho potuto molte volte toccare con mano la sua grande onestà, la sua franchezza, il suo coraggio. Nel nostro Paese purtroppo non è sufficientemente apprezzato perché è un ricercatore troppo serio e all’avanguardia, per questo mal visto. Conobbi Tarro, purtroppo, un po’ troppo tardi per salvare la vita anche a mio figlio Andrea, dovevo farlo prima, ma non ne ebbi il tempo La salute dei miei bimbi peggiorava ormai di giorno in giorno, finché la situazione precipitò.
Andrea e Alberto quando ancora potevano reggersi in piedi
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Avevamo passato una domenica come altre, eravamo andati a messa di mattino e di pomeriggio ci eravamo recati nel quartiere dove abitavamo precedentemente. Da poco ci eravamo trasferiti, sembrava che tutto filasse come il solito, i bimbi avevano mangiato anche il gelato. Ritornati a casa, erano quasi le venti del 21 settembre del 1980, Franca iniziò a dare la cena ai piccolini, quando, improvvisamente, Andrea incominciò a stare male e a vomitare quel po’ di minestra che aveva da poco ingerito. Durante quell’estate Andrea e Alberto erano peggiorati rapidamente, arrivando anche alla disidratazione causa il gran caldo, mangiavano pochissimo, erano diventati molto magri. Morte di Andrea
Quella sera arrivammo all’apice della preoccupazione e, non sapendo che fare, decidemmo di ricoverare Andrea per quel vomito improvviso. Lasciammo con degli amici Alberto che piangeva vedendo il fratellino star male e scappammo via di corsa. Mia moglie, con Andrea in braccio, dalla fretta cadde sui gradini di casa e si sbucciò un ginocchio; era questo forse un segno “dall’Alto” che voleva bloccarci, voleva impedirci di portare Andrea all’ospedale? Ma la corsa proseguì fino all’arrivo nel reparto di pediatria dell’ospedale di Borgo Trento della nostra città. A riceverci c’era la dottoressa Giovanna Spinosa alla quale affidammo il nostro Andrea raccomandando di andare molto cauta nelle cure, essendo il bimbo molto sensibile e presentando delle spiccate allergie anche a farmaci definiti banali. Andrea fu sistemato in una stanzetta, mia moglie rimase con lui; io fui invitato dalla dottoressa di guardia ad andare nel suo studio per compilare l’anamnesi del bimbo. Conosceva già il nostro caso, perché era stata in tempi passati la pediatra di Marco, il nostro primo figlio. Chiaro che ero spaventato, ma spiegai con molta calma ciò che non doveva essere fatto al mio bambino. Raccomandai essenzialmente di non usare farmaci cortisonici, essendo stato definito il mio piccolo un immunodepresso; dissi anche che avevo un documento medico che attestava l’intolleranza ai prodotti cortisonici di mio figlio Andrea. In questo documento testualmente era scritto: ”Certifico che il ragazzo Andrea Tremante …ho riscontrato all’esame elettroagopunturistico Voll.Una molto pronunciata ipersensibilità (allergica) verso prodotti cortisonici nel paziente in modo da sbilanciare pericolosamente il metabolismo idro-salinico del paziente. Inoltre i prodotti cortisonici sono capaci di compromettere come indica l’esame al Vall (EAV) la funzionalità epatica e cerebrale. La dottoressa si astenne dall’uso di questi farmaci, si preoccupò solo di idratare il bambino con delle flebo di glucosata. Purtroppo però, visto il quadro che presentava Andrea e la mia forte preoccupazione, fu chiamato il primario del reparto il prof. Sergio Cavalieri, il quale, non tenendo conto delle mie raccomandazioni, con modo brusco e
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scrollandosi le spalle, davanti a mia moglie e a due infermiere, ordinò proprio quel maledetto farmaco flebocortid in dose massiccia per infusione in vena. Io non ero presente alla scena. Un’infermiera,vistomi stravolto e stanco, mi aveva accompagnato in una camera dove erano disposti molti lettini vuoti consigliandomi di sdraiarmi su uno di quei piccoli giacigli (era proprio come quello in cui avevo visto anni prima mio figlio Marco legato) e assicurandomi che se ci fosse stato bisogno sarebbe venuta immediatamente a chiamarmi. Ricordo che, dopo poco tempo, si spalancò improvvisamente la porta, cercai di balzare in piedi, ma non vi riuscii subito mi ero incastrato, dentro a quel lettino da bambini con le sbarre. Finalmente saltai fuori, con grande difficoltà, le mie gambe si erano intorpidite e non riuscivo a togliermi da quella scomoda posizione. Precipitosamente uscii nel corridoio, l’infermiera mi sussurrò a bassa voce:” E’ morto”. Non mi rendevo conto se ero sveglio o se stessi sognando, il cuore incominciò a battere all’impazzata ed un nodo mi chiuse la gola. Quando mi resi effettivamente conto della tragedia che si stava consumando in quel momento, mi inginocchiai davanti ad una statuetta della Vergine ornata di collanine d’oro e adornata con fiori profumati che era posta in un angolo del reparto e gridai :”Perché un’altra volta”. Il viso di quella statuetta era rivolto altrove, non mi guardava e non mi sentiva; il mondo intero in quel preciso istante mi crollava addosso. Mi venne la voglia d’imprecare, di strappare quelle collanine dorate che pendevano dal suo collo e di calpestare rabbiosamente quei fiori il cui profumo era diventato per me un lezzo nauseabondo. Mi frenai e come una belva inferocita scappai via. Tornai sui miei passi molto lentamente, solo per chiedere che fosse fatta l’autopsia al mio bambino, per poter capire un po’ più di quella maledetta malattia che me lo aveva portato via e per tentare di salvare il suo gemello monoovulare Alberto. Distrutto, chiuso nel mio dolore, non versai nemmeno una lacrima, non mi rendevo conto che Andrea era ancora lì, esanime, disteso su quel lettino. Non volevo credere a quella amara realtà, la mia mente vagava altrove, pensava ad Alberto: non so quanto ciò fosse stato giusto in quel momento. Mi sentivo spezzato in due, una parte di me voleva restare a fianco ad Andrea, l’altra spingeva via il mio pensiero verso Alberto che avevo abbandonato nelle mani di amici, senza curarmi della sua sofferenza e della sua disperazione. Non sapevo come fare ad affrontarlo, come spiegargli che la sua “metà” non c’era più, gli era stata strappata da un crudele destino che lo aveva portato via così precocemente. Mi tormentava il pensiero se lui, così piccino, avesse potuto capire il significato della “morte”; d’altronde non lo capivo nemmeno io che ero molto più attempato di lui. Venni a sapere poi che la Direzione Sanitaria dell’Ospedale aveva chiesto l’intervento della Magistratura. Sollecitato dalla tragedia che ci era capitata il prof.
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Pantellini il giorno successivo era venuto a Verona come mi aveva promesso e accompagnato da lui mi recai al reparto di Anatomia-Patologica a far premura perché fosse eseguita l’autopsia in modo tale da potere,se era possibile nel contempo, isolare dei virus come ci era stato consigliato telefonicamente dal professor Tarro. Il prof. Scomazzoni, in modo molto brusco, ci rispose che tutto era stato posto sotto sequestro e che se volevamo delle spiegazioni ci dovevamo rivolgere al Procuratore della Repubblica. Mi recai così dal dottor Giovanni Cavazzini, allora sostituto Procuratore della Repubblica nelle cui mani erano state consegnate le pratiche per le ricerche su mio figlio. Lo stesso aveva già nominato il perito che doveva svolgere materialmente l’autopsia il professor Mario Marigo, allora direttore dell’Istituto di Medicina Legale, successivamente nominato Rettore Magnifico dell’Università di Verona. L’autopsia ad Andrea fu eseguita alla presenza di vari medici, fra i quali la pediatra dottoressa Vanna Marcer del Reparto Pediatrico di Borgo Trento e la dottoressa Vio della Clinica Neurologica di Borgo Roma. Il fatto sicuramente grave che fu compiuto già allora, fu il rifiuto categorico di consentire la presenza del Medico Legale di parte da noi incaricato, il dottor Franco Alberton, per assistere all’autopsia. Più tardi un mio ex compagno di scuola delle medie che era diventato medico mi riferì parlando fra amici di essere rimasto sconvolto per le modalità con cui era stata eseguita l’autopsia ( a cui lui aveva assistito) di mio figlio. Non ha però mai voluto precisare a che cosa si riferisse. Un medico giornalista inventa la diagnosi senza prove
La sanità veronese si era già posta sulla difensiva perché non affiorasse già allora quella verità che si voleva assolutamente celare, usando anche la stampa in modo indegno. Il mattino del 23 settembre comparve sul giornale l’Arena un articolo dal titolo: “E’ morto uno dei gemellini”, e di seguito il mio sfogo intitolato :“Questa volta andrò fino in fondo”, dove descrivevo ciò che era successo, soprattutto il modo in cui era stato trattato farmacologicamente mio figlio Andrea la notte della sua morte. In fondo alla pagina, un articolo di un medico neurologo e giornalista, Roberto Morgante, che sottolineava come noi genitori ci dovevamo rassegnare per la morte del nostro bambino. L’articolo di Morgante portava come intestazione “Non tutte le malattie si spiegano” e come commento Medicina ancora impotente davanti a certi fenomeni. In questo articolo è compiuto prima un esame sulle varie malattie ancora sconosciute, per le quali si afferma che la Medicina è ancora “all’anno zero“. Proseguendo però si possono leggere alcune affermazioni che preferisco riportare integralmente: …….”Così, purtroppo, nel drammatico caso del gemello
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Tremante. L’ipotesi diagnostica – ma è più che un’ipotesi, formulata dai bravi pediatri dell’ospedale di Verona, e dai vari “consulenti” che si sono rimboccati le maniche – è di “malattia di Schilder-Foix”: una complicatissima forma che comporta la degenerazione diffusa (“periassiale” dicono i tecnici) della sostanza bianca del sistema nervoso centrale. Di quelle sostanze in cui decorrono i filamenti nervosi che si dipartono da ogni cellula cerebrale. Una leucoencefalite, in altre parole. Malattia studiata anche dal Van Bogaert, oltre che da Schilder e Foix. Quali le cause? Eredo-genetiche, sì suppone…………..” In queste righe si cela forse uno scopo nascosto? Salvaguardare l’onorabilità e la professionalità dei colleghi pediatri? Perché l’articolista ha sottaciuto che era stato usato il cortisone in un soggetto immunocompromesso? E per di più con conseguenze letali? Successivamente si parla anche dei “consulenti”, ma quali consulenti se il Procuratore della Repubblica non poteva ancora aver conferito alcun incarico, essendo appena successo il fatto (la notte del 22 muore Andrea ed il mattino del 23 appare già l’articolo)? Si mettono anche le mani avanti, ipotizzando una diagnosi “eredo-genetica”, la quale, guarda caso, non era altro che una semplice anticipazione della diagnosi che successivamente, a distanza di tempo, avrebbe poi emesso il professor Marigo. La cosa più sconcertante a questo medicogiornalista successe quando presi in mano il telefono e feci una telefonata che registrai e che ancora conservo. Gli ribadii che le sue deduzioni erano, secondo me, senza senso, poiché egli aveva ipotizzato una diagnosi senza mai aver visto mio figlio Andrea, e soprattutto, perché ciò che si affermava in quell’articolo, in altre parole che la malattia del mio bambino era una di quelle scoperte da Van Bogaert, era letteralmente impossibile fosse vero poiché lo stesso Van Bogaert l’aveva scartata quando ebbe l’occasione di visitare lui stesso Andrea e Alberto all’Università di Siena. A questo punto, il dottor Morgante, imbarazzatissimo, cercò delle giustificazioni, mi confessò che gli era stato conferito l’incarico di scrivere l’articolo su mio figlio dal capo redattore del giornale a tarda notte, per cui non avendo avuto la possibilità d’informarsi meglio, aveva deciso di scrivere l’articolo a quel modo. Mi fece pena, quest’uomo che si era permesso di dire tutte quelle falsità sul conto dei miei figli. Dov’era finita la serietà professionale? Perché firmare queste assurde righe di giornale, senza rispettare la sofferenza e il dolore di una famiglia? Superficialità o interessi di casta?
Dal giornale l’Arena del 23 settembre 1980
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Viaggio a Napoli per far visitare Alberto per la prima volta da Tarro
Dal giornale l’Occhio, l’arrivo a Napoli
Presi nuovamente contatto con il professor Tarro e noi famigliari partimmo con un volo da Bologna arrivando a tarda sera a Napoli. All’aeroporto, ad aspettarci, c’erano i giornalisti con Adriana Bruno, l’articolista del quotidiano “L’Occhio”. Ci infastidirono molto in quel momento per noi di grande dolore, perciò fuggimmo letteralmente via. La notte, nell’albergo, la passammo svegli a pensare che avevamo lasciato a Verona Andrea appena morto e non sapevamo nemmeno quando avremmo potuto fargli il funerale, visto l’avvenuto intervento della Magistratura. Il mattino successivo ci recammo all’Ospedale Cotugno, dove lavora il professore, ed egli stesso eseguì una serie di prelievi su Alberto, successivamente lo visitò, con delicatezza, con molta gentilezza e prelevò del sangue anche a Luca, che era venuto a Napoli con noi, per iniziare le sue ricerche al fine di scoprire la malattia che aveva colpito i gemellini. Tornati a Verona dovemmo preoccuparci di dare sepoltura ad Andrea. Il sequestro posto dalla Magistratura era stato tolto, per cui si poteva svolgere il rito. Ricordo quella mattina: ero sfigurato, la barba incolta da giorni, un giubbetto leggero tinta ghiaccio che non mi ero più tolto nemmeno per coricarmi la notte, non m’importava più di nulla. Arrivati al cimitero, gli addetti alla sepoltura erano impegnati altrove; aspettammo impazienti un po’, poi presi la decisione, chiamai il mio amico Franco e noi due trasportammo a braccia la piccola bara fino al loculo in cui doveva essere posta, di lato a quello del fratello Marco. Non ricordo più poi cosa successe, gran confusione mi rimane in testa del seguito di quella giornata. Le tombe dei miei figli Marco e Andrea
Non volevo più vivere, rifiutavo la vita, mi chiedevo quale motivo avevo io ancora per sopravvivere, non mi rendevo conto che il mio dovere era quello di pensare ormai ad Alberto. Una notte, durante il dormiveglia, fui scosso dalla visione di una luce nell’angolo della cameretta che era stata dei due bambini. Io riposavo lì, perché Alberto non si staccava mai dalla madre e dormiva con lei nel lettone. Mi apparve una luce verdastra, non descrivibile in altro modo, un bagliore accecante, udii inoltre delle parole che riporto testualmente : ”Alzati, scuoti la
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terra sporca dai piedi e continua a lottare!” In quel preciso momento scattò dentro di me una molla, il cuore mi balzò in bocca, mi sembrava di aver ricevuto una scarica d’energia pari ad un impulso elettrico di migliaia di volt. Mi alzai dal letto e mi recai in salotto; dopo un pò fui raggiunto da mia moglie, perché anch’essa assieme ad Alberto era stata svegliata da non sapeva bene che cosa. Contemporaneamente anche i nonni, che dormivano momentaneamente da noi in un’altra stanza, furono svegliati improvvisamente. Che cosa fosse successo non sono in grado di spiegarlo, ma sicuramente avevo capito che la strada che mi veniva indicata era quella della lotta e non della resa. Forse in quel momento per me la soluzione più comoda era quella di raggiungere, nella pace, i miei due bimbi morti: ma qualcuno, che oso appena definire “L’Immenso” non ha voluto che ciò accadesse, mettendo così nuovamente lo zampino nella mia vita. Prima diagnosi del professor Tarro
Estratto del primo documento di Tarro
Nel frattempo Tarro aveva stilato la prima sua ipotesi di diagnosi, sottoscrivendo anche, tra l’altro, le impressioni avute esaminando i vetrini ed i pochi reperti che aveva potuto avere di Andrea, nel documento datato 17 novembre 1980. Fra tante considerazioni si legge anche: ”….Ad una attenta osservazione microscopica è possibile pure vedere lesioni neuronali. L’aspetto è quello delle lesioni da virus vaccinali o da ceppi virali attenuati oppure quelle che si hanno in un ospite immunodepresso o immunocarente……” Era il primo documento ufficiale in tutta la nostra storia nel quale si poteva finalmente leggere che la probabile causa di tutti i nostri guai era da imputarsi alle vaccinazioni. Tarro era la persona più qualificata per affermarlo, essendo stato negli Stati Uniti d’America a fianco del professor Albert Sabin durante il periodo in cui lo stesso mise a punto il suo vaccino antipoliomielitico. Alberto viveva quei giorni in simbiosi con la madre, era sempre aggrappato a lei; durante il giorno lo portava in grembo infilato in un marsupio, durante la notte, insonne, appoggiato sulla sua pancia. Aveva risentito della morte del gemello, era come se il suo corpo e la sua mente si fossero spaccati in due, gli mancava l’altra metà di se stesso, il compagno inseparabile della sua se pur breve esistenza, soffriva ed il suo fisico si deteriorava molto rapidamente perciò decisi di telefonare al prof. Tarro per avere dei consigli sul da farsi. A questo punto Tarro mi ordinò un farmaco immunomodulante “TP1” (timopoietina) di cui non avevo mai sentito parlare; mi raccomandò inoltre di somministrarlo al bambino con una
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certa urgenza, previo però un ponfo di prova per la tollerabilità. Tutto doveva essere eseguito sotto diretto controllo di un medico poiché dagli accertamenti da lui fatti Alberto risultava essere immunologicamente carente. Cercai disperatamente questo medicinale in tutte le farmacie della mia città, poi incominciai a cercare in altre località, la risposta che mi veniva data era sempre quella: “Non conosciamo questo medicinale, ne abbiamo solo sentito parlare, poiché è ancora in fase sperimentale”. Non sapevo più cosa fare, mi balenò a questo punto l’idea di lanciare un appello alla radio. Telefonai a non so quale radiogiornale della RAI ed il cronista accettò di lanciare questo appello. Per fortuna esso fu intercettato da dei Radioamatori in ascolto, i quali, passandosi fra loro la notizia, organizzarono una staffetta da Firenze dove in una Farmacia del luogo avevano recuperato il farmaco e me lo portarono verso mezzanotte nella mia abitazione. Che grande umanità dimostrarono queste straordinarie persone, veri angeli custodi nei momenti del bisogno. Il farmaco era arrivato, ma mancava il medico che eseguisse il ponfo e l’inoculazione in Alberto. Ancora devo ringraziare un radioamatore di Verona che quella sera era all’ascolto, un medico che si prestò generosamente e spontaneamente a compiere tutta l’operazione, il dottor Alfonso Salerno che divenne poi pediatra ed amico di Alberto. Crisi respiratoria di Alberto e ricovero in rianimazione
Nonostante la nuova terapia, Alberto non migliorava, il 30 di novembre ebbe una violenta crisi per cui fummo costretti al ricovero in ospedale. Portammo il bimbo al reparto di pediatria, sempre di borgo Trento, lo stesso dov’era precedentemente deceduto il gemellino Andrea. Per il medico che lo accolse la conseguenza logica alla crisi respiratoria era quella di lasciarlo morire; secondo lui non c’era altro da fare, “è arrivata la sua ora” ci disse. Mi rifiutai di accettare questa conclusione, spinto anche dalla “visione” avuta in precedenza mi battei per far trasferire Alberto, contro il parere di quel medico, nel Reparto di Rianimazione. Non fu facile imporre la mia volontà, ma questa volta avevo la forza per poterlo fare. Il trasferimento finalmente avvenne. Alberto fu ventilato con l’ambu durante lo spostamento e giuntivi venne intubato e attaccato ad un grosso macchinario che lo aiutava a respirare. Questo luogo era veramente lugubre, uno stanzone vecchio con dei letti particolari e dei macchinari tutt’intorno, con lucette e allarmi sonori che insistentemente, senza tregua, emettevano dei suoni talvolta assordanti. Capii dopo che tutto questo serviva per monitorizzare i pazienti, il più delle volte arrivati lì già in coma. Non eravamo abituati a questo tipo di sistemazione, era la prima volta che vedevamo una sala di rianimazione, e per di più tutto ciò si poteva solo intravedere ogni qual volta si apriva la grande vetrata e qualche medico faceva
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capolino per dare informazioni ai parenti che attendevano all’esterno in ansia per la sorte dei loro cari. Così Alberto rimase per la prima volta da solo, senza la mamma, non ci permisero l’ingresso. Chissà quali pensieri passarono nella sua testolina trovandosi con delle persone che non aveva mai viste prima d’ora e che, pur non essendo lui in coma, non potevano nemmeno capirlo essendo intubato. La tensione nervosa era alle stelle, passeggiavo nervosamente avanti ed indietro in quel buio ed angusto corridoio senza idee sul da farsi. Finalmente decisi di telefonare, da una cabina pubblica che era situata all’inizio del lugubre corridoio, a Tarro per spiegare cosa era successo e per chiedergli istruzioni in merito alla terapia immunomodulante che Alberto già faceva prima dell’ingresso in ospedale. Tarro mi consigliò allora una terapia d’urto a base di “Interferone”, un farmaco introvabile che in fase sperimentale veniva usato come antivirale in centri altamente specializzati. Ma dove trovarlo? Mi suggerì allora il nome di un ingegnere romano, che non cito per rispetto della privacy, sul cui figlio, colpito da una malattia simile a quella di Alberto, si stava proprio sperimentando questo farmaco. Purtroppo, però, il ragazzo era ricoverato in una clinica Svizzera a molti chilometri di distanza da Verona e l’intervento su Alberto doveva essere fatto tempestivamente . Senza pensarci due volte chiesi a mio fratello di accompagnarmi e partimmo così alla ricerca dell’interferone. La macchina sfrecciava velocemente per l’autostrada, più avanti per strade di montagna fino ad arrivare al confine svizzero, ma la nostra avventura non era finita. La località indicataci era Montana Vermala, un paesino d’alta montagna dove era situato il Centro di Rieducazione Motoria in cui era ricoverato il figlio dell’ingegnere. Arrivammo a fatica poiché la neve aveva quasi coperta la strada di accesso all’ospedale; chiesi subito di poter parlare col ragazzo ma, immediatamente, mi accorsi che con lui non era possibile intendersi. Telefonai così a Roma al padre, il quale avvertita la mia disperazione dalla voce durante la concitata telefonata, dette ordine all’addetto all’assistenza del figlio di consegnarmi un’ampolla con il prezioso medicamento. All’impazzata facemmo la strada del ritorno ed arrivammo la sera distrutti ma soddisfatti perché eravamo riusciti a trovare ciò che in un primo momento sembrava introvabile. Andammo direttamente all’ospedale, alla sala di rianimazione dove, sulla porta incontrai Franca affranta che piangeva: mi disse che il medico poco prima le aveva detto che Alberto era entrato in coma ed aveva già le convulsioni pre morte. Suonai il campanello e bussai disperatamente a quella porta di vetro, finalmente si affacciò un’infermiera che immediatamente avvisò il medico di guardia, il quale, vistomi con l’ampolla in mano del medicamento, mi disse: “Non credo che questo farmaco possa modificare la situazione di Alberto, ma glielo somministro solo per la grande fatica che immagino abbiate fatto per recuperarlo!”
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La notte trascorse molto lentamente, io e mia moglie con i nostri più cari amici Franco ed Annamaria rimanemmo in attesa in quell’angusto corridoio; quasi all’alba si presentò una suorina con un termos di caffè, con molta gentilezza ne offrì a tutti noi. Mi sembrò un angelo, quella suorina anziana che oltre ad offrirci il caffè cercava di rincuorarci, di offrirci conforto anche con la sua preghiera. Al mattino, al cambio degli infermieri, ci precipitammo a chiedere quale fosse la situazione e notammo che gli stessi avevano un’espressione più distesa della sera precedente, senza sbilanciarsi troppo, cercarono di rassicurarci. Finalmente arrivò anche il medico che aveva somministrato ad Alberto l’interferone, ci disse che la situazione era leggermente migliorata. Tirammo un sospiro di sollievo. Certamente, grazie al dottor Bartoletto, per la prima volta in Italia un Reparto Ospedaliero aveva accettato di fare della sperimentazione con un farmaco sconosciuto proprio su nostro figlio e forse anche grazie alle preghiere di quella suorina. Dovemmo però rivolgerci alla Direzione Sanitaria per avere l’autorizzazione per proseguire la terapia che era stata impostata dal professore Tarro e che comprendeva fra gli altri farmaci anche l’interferone. L’autorizzazione ci fu concessa. Viaggio allucinante in Svizzera con Alberto
Purtroppo però non tutti i medici del Reparto erano d’accordo, alcuni asserirono che era troppo grande la responsabilità dell’uso di un prodotto sperimentale, senza possibilità di eseguire degli esami particolari utili alla verifica. Dopo varie discussioni fra di loro, i medici decisero di prendere contatto, come aveva consigliato il professor Tarro da loro interpellato, con l’Insespital di Berna dove si diceva che un ricercatore aveva già avuto esperienza sull’uso dell’interferone. Gli accordi telefonici con l’Ospedale di Berna vennero presi all’interno del reparto, senza farmi assistere alle telefonate, si spiegò la situazione di Alberto e si concordò per il suo trasferimento a Berna. Prima della partenza mi venne sottoposto un foglio da firmare nel quale era scritto che mi assumevo tutta la responsabilità nell’eventualità fosse successo l’irreparabile. Fu predisposta l’autolettiga per il trasferimento sulla quale dovevano salire, oltre logicamente all’autista, Alberto, l’infermiere Giancarlo Perbellini ed il dottore Giampaolo Paloetti che si era offerto volontariamente per compiere questo trasferimento Nella macchina di mio fratello Salvatore abbiamo preso posto io, mia moglie ed il nostro amico Mario Bertolaso che aveva accettato di accompagnarci in questa impresa. Il primo ostacolo lo incontrammo quasi subito, in un distributore di benzina sull’autostrada dove il benzinaio, adducendo come giustificazione che da mesi non gli veniva pagato il carburante dalla Croce Verde di Verona, non voleva accettare i buoni benzina che l’autista dell’ambulanza gli offriva in
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pagamento. Il tempo stringeva, il viaggio era molto lungo, Berna era ancora tanto lontana, finalmente potemmo ripartire e l’ambulanza sfrecciava velocemente sull’autostrada col lampeggiante acceso e noi di seguito sulla macchina, qualche volta zigzagando per non perdere il contatto; in particolar modo, quando arrivammo nei paesini vicino al confine svizzero, si dovette accendere anche la sirena per chiedere il passo fino a che arrivammo al valico. Aveva nevicato forte, il valico era chiuso, dovemmo ricorrere alla ferrovia, caricammo le macchine sul treno navetta per superare anche questo ostacolo, nel contempo montammo le catene alla macchina e all’ambulanza. A trenta chilometri da Berna l’autolettiga si fermò sul ciglio della strada per toglierle, poiché la neve incominciava a scarseggiare sull’asfalto: disperatamente tentammo di rimuoverle, ma queste si erano incastrate e non riuscivamo a sganciarle. Uscì in quel momento dall’ambulanza in bilico l’infermiere Perbellini sollecitando l’operazione perché, ci disse, l’ossigeno della bombola dell’autolettiga era finito e Alberto aveva assoluto bisogno di questo supporto per respirare. Sembrava che quelle maledettamente catene non ne volessero sapere di togliersi dalle ruote, poi uno strattone violento e le catene si sganciarono. Finalmente alle undici di sera arrivammo sfiniti all’Insespital di Berna. Era quel famoso Ospedale che assomigliava più ad un grande albergo a cinque stelle, nel quale eravamo già andati a far visitare tutti e due i gemellini l’anno precedente dal professor Vassella. Gli accordi telefonici dal reparto di rianimazione dell’ospedale di Verona erano stati presi con il primario di pediatria, il quale aveva accettato che il trasferimento avvenisse. Arrivammo che il Pronto Soccorso era quasi chiuso, Alberto fu scaricato dall’ambulanza, portato all’interno del Reparto e disteso su di un lettino, il dottor Paoletti si prodigò immediatamente perché venisse riintubato, poiché durante l’ultimo tratto di strada si era tolto il tubo che gli era stato messo in trachea per aiutarlo a respirare. Il medico del pronto soccorso si rifiutava di compiere questa operazione sostenendo che in questi casi bisognava lasciar morire il bimbo perché era inutile rianimarlo. Il dottor Paoletti minacciò di denuncia il suo collega svizzero, per omissione di soccorso, poi prese il tubo e lui stesso glielo infilò in trachea. Fu chiamato telefonicamente il primario di pediatria, il quale, vista l’ora tarda, pur essendo stato preavvisato del nostro arrivo, se n’era già andato a casa sperando di non essere disturbato. Arrivò trafelato in ospedale e invitò, me, mia moglie, mio fratello e l’amico ad andare nel suo studio per parlare. Nonostante lui stesso avesse dato il benestare per accogliere Alberto nel suo reparto, improvvisamente aveva cambiato idea. Forse perché, penso io, Alberto non era più un bambino qualunque, senza nome, che arrivava dall’ospedale di Verona con una diagnosi non ben definita, ma era ben identificato come risultava anche da un tesserino che io stesso consegnai nelle mani del medico del pronto soccorso. Era quello che ci era stato rilasciato
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dall’Insespital l’anno precedente, dopo la visita dal professor Vassella. Ebbe inizio perciò una vera e propria trattativa per convincere il professor Rossi ad accogliere Alberto nel suo reparto. Quando parlammo dell’interferone egli, quasi rabbrividendo, dichiarò che non aveva alcuna esperienza in merito a questo farmaco e che da loro, cioè in Svizzera, è d’uso lasciar morire i pazienti quando arrivano in ospedale in stato terminale e defedati. Tale era per lui la situazione di Alberto, dovemmo insistere non poco per fargli capire che erano stati presi precedentemente degli accordi precisi dall’ospedale di Verona per la terapia a base di interferone che era stata ordinata dal Professor Tarro, medico curante di Alberto. Non volle sentir ragione, ci disse che dovevamo immediatamente ritornarcene da dove eravamo venuti. Solo dopo lunghe e ripetute discussioni, per liberarsi della nostra presenza, fece chiamare il responsabile del Servizio di Rianimazione dell’Insespital per sottoporgli il nostro problema. Così facendo se ne lavò le mani e se ne andò. Arrivò il responsabile del Reparto di Rianimazione, un omaccione alto con due baffoni sotto il naso, con un accento preminentemente tedesco, che capiva poco l’italiano, il quale rifiutò categoricamente di ricoverare Alberto nel suo Reparto. Ricordo che ci disse:”E’ inutile insistere, quando il paziente arriva a questi limiti bisogna staccare il tubo e lasciarlo morire”. Io di rimando risposi:” Lei è forse in grado di indicarmi qual è esattamente questo limite per mio figlio, lo guardi negli occhi e veda quanta voglia ha di vivere, se glielo concedete”: Solo dopo questo battibecco accettò di ricoverare il bambino nel suo reparto, ma”solo per questa notte”,ci disse, domani mattina dovrete portarvelo via. Almeno eravamo riusciti ad avere un riparo assicurato per la notte ad Alberto, altrimenti la situazione, senza respiratore, sarebbe stata per lui assai grave. Vi era però un altro problema da risolvere: le bombole di ossigeno dell’autolettiga si erano esaurite. Chiedemmo gentilmente se potevano riempircele, la richiesta fu fatta dall’infermiere al responsabile del reparto di rianimazione. A questa richiesta questo orribile figuro testualmente rispose:” Quando passate il valico esponete il bambino dal finestrino della vettura e vedrete così che si riossigenerà!” Mi sembrava impossibile aver udito una frase così crudele, detta da un medico a dei genitori disperati che tentavano l’impossibile per salvare la loro creatura. Anche gli altri che erano con noi rimasero esterrefatti e ammutoliti. Più morti che vivi, noi tutti, per quella giornata trascorsa con quel patema d’animo, per le innumerevoli difficoltà che avevamo dovuto superare, e per di più con l’amaro in bocca per le crudeli parole e i crudeli fatti che avevamo dovuto subire, finalmente decidemmo che potevamo pensare anche al nostro riposo. Ci indicarono un albergo ed alle quattro di mattina finalmente potemmo stenderci. Il mattino seguente di buon ora girammo per Berna, città che non conoscevamo affatto, in cerca di una fabbrica di ossigeno per poter ricaricare le bombole dell’autolettiga.
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Avemmo finalmente un po’ di fortuna, non solo trovammo la fabbrica dell’ossigeno, ma incontrammo un lavoratore italiano che si prodigò molto in quanto gli attacchi delle bombole non erano compatibili con quelli usati in Svizzera; si mise subito all’opera per adattarne alcuni in modo tale da poter caricare di ossigeno quelle dell’autolettiga. Finalmente potemmo ripartire tornandocene sui nostri passi fino all’ospedale della nostra città dal quale eravamo partiti il giorno precedente. Anche il viaggio di ritorno non ci risparmiò le sue difficoltà. Mia moglie aveva preso accordo con il dottor Paoletti che, se fosse capitato qualche cosa di negativo per strada, avrebbe fermato l’autolettiga affinché lei stessa avesse potuto salire sopra in modo da tener abbracciato nostro figlio prima del trapasso, se questo fosse accaduto. Per fortuna ciò non avvenne e a tarda sera arrivammo al reparto di rianimazione dal quale eravamo partiti, con grande meraviglia del personale medico e paramedico nel vederci così presto di ritorno. Mi dovevo rassegnare, la terapia dell’interferone la dovevo far fare ad Alberto nel reparto di casa nostra dove non vi era esperienza alcuna delle possibili reazioni che lo stesso farmaco avrebbe potuto produrre. Su consiglio del professor Tarro, chiamai a consulto un immunologo di Mantova il professor Augusto Pederzini, il quale mise a punto un protocollo di terapia per il mio bambino, pur non avendo lui stesso grossa esperienza nell’uso di questo farmaco, ma sicuramente avvalendosi dei suggerimenti del Professor Tarro, suo grande amico, già molto più esperto di lui nell’impiego di questo medicamento. Tarro arriva da Napoli per visitare Alberto a casa nostra
Alterazione dei reperti di Andrea
Nel contempo dovevamo stabilire con esattezza la diagnosi del gemellino deceduto Andrea, per poter giustificare in Alberto l’utilizzo dell’interferon che Tarro gli aveva ordinato. Telefonai al professor Marigo, perito nominato dal tribunale, per avere informazioni in merito alla diagnosi. Notai un modo di fare piuttosto ambiguo e mellifluo, continuava a ritardare l’esito delle sue ricerche. Tarro, con un telegramma, mi aveva già fatto richiesta di poter avere dei frammenti di reperti di Andrea, mantenuti in congelatore, al fine di poter tentare anch’egli di fare una diagnosi per capire la causa di quella forma morbosa. Visto il continuo protrarsi della risposta da parte di Marigo ed il suo continuo tentennamento, decisi di recarmi dal Procuratore della Repubblica per sollecitare il rilascio dei reperti. Per telefono il dottor Cavazzini, Procuratore che avevo già incontrato in precedenza chiese, gentilmente, a Marigo di accelerare la sua
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indagine; in più, su mia insistenza chiese anche che parte dei reperti fossero mantenuti in freezer onde verificare, come pensava Tarro, se vi potevano essere dei virus particolari da isolare. Marigo rispose irritato, visto che, agendo scorrettamente, aveva già messo tutti i frammenti dei reperti in formalina, ( in questo modo i reperti venivano alterati definitivamente, per cui nessuno avrebbe potuto più successivamente fare delle serie ricerche virologiche ed eventualmente contestare la diagnosi emessa), rispose testualmente al giudice:”Il Tecnico sono io, mi lasci fare”. Aspettai qualche giorno poi tornai alla carica dal giudice per avere, come era mio diritto, i reperti di mio figlio morto. Vista l’indecisione e il suo imbarazzo, mi irritai e minacciai di andarmeli a prendere da solo da Marigo. Era di vitale importanza, per me, avere la certezza che non sarebbero state fatte delle alterazioni o delle manipolazioni sui reperti di mio figlio. Al di là della stessa informazione scientifica, ammesso che fosse effettivamente perseguita, a me interessavano esclusivamente per salvare la vita ad Alberto, non m’importava niente di sentir dire che le lesioni erano di un tipo o di un altro tipo, che i vetrini dovevano essere di un colore anziché di un altro, volevo avere le prove che servivano per poter proseguire tranquillamente la terapia ad Alberto sperando che fosse quella giusta. Finalmente Marigo emise il suo verdetto:” Sindrome di Leigh, malattia autosomica recessiva su basi genetiche!” (Diagnosi che a mio avviso tentava di nascondere la responsabilità dei vaccini nella malattia dei nostri figli.) Crollarono così in me, ancora una volta, le speranze poiché in base a questa diagnosi Alberto sarebbe dovuto morire entro breve tempo. Non mi arresi, mi feci consegnare i reperti che erano stati stipati in un barattolo di vetro con della formalina, incominciai con essi e con i vetrini che assieme mi erano stati dati a girare l’Europa per trovare un appiglio che potesse smentire quella diagnosi così infausta che era stata posta dal Perito del Tribunale. Vagavo senza una precisa meta, con quell’urna di vetro che conteneva dei resti di mio figlio Andrea, in macchina parlavo da solo, mi rivolgevo verso quel barattolino di vetro e chiedevo aiuto a lui perché mi facesse trovare qualche luogo in cui poter far esaminare i suoi resti, al di fuori di quella “maledetta” struttura veronese nella quale si era già dichiarata la condanna a morte anche per Alberto. Prove che sconfessano la diagnosi di “Sindrome di Leigh”
Riuscii in qualche modo ad avere notizie diverse da quelle di Marigo. Pur essendo in grado di dimostrare con indicazione delle persone, dei luoghi e dei tempi questa mia affermazione, preferisco sottacere le circostanze che potrebbero permettere inopportune identificazioni. Dispongo comunque di tutta la documentazione utile a dimostrare quanto segue. In un grosso centro in cui
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portai i vetrini perché fossero esaminati il medico esaminatore nel porre gli stessi sotto al microscopio esclamò: “Questi vetrini sembrano artefatti!” In un altro centro dove mi presentai con delle fotografie di cellule di mio figlio eseguite al microscopio elettronico mi dissero:” Lei ha la prova che la malattia dei suoi figlioli è sicuramente di tipo virale, vi sono evidenti infiltrati virali ben visibili in queste foto!” Ed in un altro grosso centro mi si parlò in modo ancora più chiaro, mi dissero:” Queste lesioni sono sicuramente di tipo infiammatorio, non certo di tipo degenerativo!” Eravamo andati precedentemente anche all’Istituto Neurologico Besta di Milano dove il professor Stefano Di Donato, che stava compiendo delle ricerche specifiche su malattie metaboliche, aveva fatto ad Alberto e ad Andrea dei prelievi di sangue e delle biopsie cutanee per stabilire se la malattia dei miei bimbi poteva essere inquadrata fra quelle da lui studiate. Successivamente, fu incaricato dal professor Marigo di stabilire, attraverso i prelievi fatti in precedenza ed in più esaminando i reperti che gli erano stati forniti in un secondo momento, se, la diagnosi di Sindrome di Leigh da lui emessa poteva essere confermata anche dagli esami metabolici che il professor Di Donato aveva eseguito. Proprio in quel periodo in cui avevo deciso di smentire la diagnosi infausta di Marigo, il professor Di Donato mi comunicò per telefono prima, e per lettera poi, che tutti gli esami eseguiti erano risultati normali. Addirittura aggiungendo testualmente per telefono, dopo una mia precisa domanda sulla possibilità della diagnosi di Sindrome di Leigh:” La Sindrome di Leigh è andata a pallino!” Cominciai a convincermi che Tarro aveva ragione e che qualcuno, per chissà quali interessi, stava alterando tutte le prove con conseguenze letali anche per Alberto, cercando di chiudere così un caso scottante che stava facendo parecchio rumore anche nel Campo Scientifico Italiano. Caso Morando Dal giornale l’Arena il caso Morando
Proprio in quei giorni era morta una bimba di quindici mesi al Policlinico di Borgo Roma, Alessia Morando, il cui padre, Paolo, mi contattò telefonicamente per avere informazioni in merito a ciò che stavo vivendo con mio figlio Alberto. La nonna paterna si era accorta che dopo la vaccinazione, eseguita alla piccola nonostante avesse presentato una forte seborrea al viso ed al corpo, Alessia aveva manifestato delle anomalie dal punto di vista respiratorio ed in conseguenza ad una di queste crisi era morta. Consigliai al genitore di andare fino in fondo per scoprire la causa vera della morte della sua bambina e nel contempo gli consigliai di portarsi un registratore durante i colloqui che avrebbe
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avuto con i vari responsabili della Sanità, poiché, a mio avviso, avrebbe potuto trovare delle stranezze e delle incongruenze proprio interpellando queste persone. Fu proprio così. Anche in questo caso risultarono alterati i reperti, messi tutti in formalina nonostante la richiesta fatta da Scienziati che li pretendevano invece conservati in freezer. L’occultamento delle prove si ripeteva, con una cinica metodica, insabbiando, ogni minima possibilità di prova e facevano passare per pazzo il genitore Morando, che insistentemente cercava di arrivare alla scoperta di quella “Verità” che non doveva, in ogni caso essere trovata. La storia si ripeteva ogni qual volta che a dei bambini succedeva un danno, piccolo o grande che fosse, la cui origine i parenti tentavano di far risalire all’atto vaccinatorio eseguito senza nessun accertamento preventivo sui loro figli. Sempre, in questa impari partita “giocata” per arrivare a scoprire la verità, si deve purtroppo constatare che fra i due contendenti, i genitori inesperti ed indifesi e la solida struttura sanitaria, l’arbitro non è mai al di sopra delle parti, come in realtà dovrebbe essere, ma è sempre l’Istituzione che difende se stessa con tutti i mezzi. Ciò avveniva allora, ed avviene ancora, poiché per mantenere ostinatamente “l’obbligatorietà vaccinale”, la Politica Sanitaria Italiana, forse ancora di natura “Poggioliniana”, non vuole ad ogni costo accettarla ormai come atto obsoleto ed anacronistico. Molte altre situazioni analoghe dovetti costatare anche in altre località del nostro Paese, in esse ogni qual volta qualche genitore cocciuto si azzardava a far mettere sotto inchiesta un qualunque vaccino avendolo considerato la causa scatenante dei problemi, di varia natura, occorsi subito dopo l’avvenuta vaccinazione alla propria creatura. Nonostante queste persone si premurassero sempre di far presente al medico del loro figliolo l’anomala reazione verificatasi dopo l’avvenuta esecuzione di un vaccino, mai nessun pediatra prendeva in considerazione ciò che da esse veniva riferito, ed inoltre si guardava bene dal riportarlo per iscritto sulla anamnesi che era obbligato a stilare prima del ricovero in Ospedale. Alberto rimase ricoverato tre mesi nel reparto di rianimazione dell’Ospedale di Borgo Trento,dove era entrato il 30 di novembre del 1980; dopo di che doveva essere trasferito in un altro reparto perché non aveva più bisogno del supporto respiratorio. Durante questi tre mesi, e precisamente il 24 dicembre del 1980, per maggior sicurezza era stato tracheostomizzato nel caso ci fosse stata la necessità di attaccarlo ad un qualsiasi respiratore. La decisione che dovevo prendere era quella se trasferirlo nel reparto di pediatria, lo stesso nel qualche un mese prima era morto Andrea, o come mi era stato proposto in alternativa nel reparto di neurologia dello stesso ospedale. Non fu una scelta semplice. Mi recai a parlare col primario del reparto di pediatria professor Cavalieri, il quale era pervicacemente convinto che la malattia di Alberto fosse quella sentenziata da Marigo, sovrapponibile a quella di Andrea. Tale diagnosi non ammetteva perciò la carenza immunitaria nei gemellini, di conseguenza non potevano essere
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intolleranti ai farmaci cortisonici, come invece era stato da me indicato durante il ricovero di Andrea. Ora il professore si poteva veder costretto a proseguire le cure immunostimolanti, quelle che Tarro aveva consigliato, e magari a doverne anche descrivere gli effetti positivi che le stesse avrebbero poi mostrato. Le terapie che anche lui avrebbe potuto prendere in considerazione a suo tempo ma che non volle scegliere, potevano a mio giudizio significare per la sua coscienza una condanna di ciò che era successo la notte in cui morì Andrea, avendogli egli stesso prescritto un farmaco cortisonico snobbando le mie preoccupazioni. Facendo ciò si era assunto tutta la responsabilità del risultato. Vedendosi costretto ad usare su Alberto, gemello di Andrea, un farmaco esattamente opposto a quello da lui scelto precedentemente significava, in modo implicito, ammettere di aver sbagliato la prima volta . Capisco che, da parte sua, potesse essere amaro riconoscere di aver agito erroneamente, ma insistendo in quella fallace teoria e avvallando la diagnosi del professor Marigo, per me la sua azione poteva divenire delittuosa! Trasferimento di Alberto dalla rianimazione alla pediatria
Fu molto difficile per me decidere e tuttavia rischiai. Calcolato il rischio, scelsi la pediatria, con il patto fra me e mia moglie che saremmo dovuti diventare noi due le “sentinelle” di Alberto, per vegliare su di lui giorno e notte. Tenevamo l’interferone sul davanzale della finestra, per paura che venisse sostituito con altro medicamento, in un contenitore di polistirolo con del ghiaccio dentro, ci era stato raccomandato di mantenerlo a bassa temperatura e non ci fidavamo di farlo riporre nel frigorifero del reparto. Nonostante tutte le nostre assidue attenzioni dovemmo subire tre episodi, a dir poco gravi, che misero sotto vari aspetti a repentaglio la vita di Alberto. Il primo. Una sera ci accorgemmo che Alberto respirava male, portava allora una cannula metallica. Chiamai il medico di guardia, il dottor Battaglino, il quale in linea col suo primario ci disse:” Il bimbo non respira perché il suo problema è di origine centrale, bisogna lasciarlo stare fino alla fine!” Come una belva inferocita presi per il colletto del camice il medico imponendogli di trasferire mio figlio al reparto otoiatrico per eseguire una endoscopia. Abbandonai il medico e corsi io stesso a recuperare l’endoscopista, dottor Merlo, il quale eseguì l’intervento togliendo delle granulazioni che si erano formate nello stoma di Alberto: subito il bimbo riprese a respirare. Era evidente che anche qui era stato commesso un errore di valutazione che poteva però essere fatale per la mia creatura. Il secondo. Era stata consigliata dal prof. Pantellini, che in quel periodo seguiva costantemente Alberto, una piccola trasfusione per arricchire di fattori utili il
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sangue di mio figlio; il dosaggio che lo stesso aveva consigliato era di 50 ml. Alberto pesava allora, a quattro anni, nove chili e quattrocentocinquanta grammi. L’infermiera ritirò la sacca in emoteca poi entrò nella stanza e infilò l’ago nel braccino di Alberto, senza la presenza di un medico, aprì la farfallina e la trasfusione ebbe inizio. Dopo un po’, visto che non veniva nessuno a controllare, mi avviai per il corridoio in cerca di un medico per rammentargli che erano stati consigliati solamente 50 ml di sangue. Incontrai la caposala la quale mi disse che il primario aveva dato ordine di farne di più. Tornai nella stanzetta e attesi ancora; ad un certo punto vedemmo Alberto riempirsi di macchie rosse ed agitarsi nel lettino. Immediatamente staccai l’ago e mi accorsi che erano già scesi 280 ml., una dose spropositata, un vero e proprio attentato alla sua vita: il peso di Alberto era allora 9450 grammi! Il terzo. Durante tutto il ricovero in pediatria, certi pediatri si recavano ogni tanto alla farmacia dell’ospedale dove l’addetto, dottor Olivo Sorio, preparava la nutrizione enterale per alimentare il bambino. Avendo notato che il suo organismo reagiva bene a quel tipo di alimentazione aumentando di peso, mente ciò non sarebbe dovuto avvenire secondo la teoria di Marigo e del loro primario, ordinavano a Sorio di modificare alcuni componenti della preparazione utile alla nutrizione del bimbo. Benché la dieta adottata dal dottor Sorio stesse dimostrando di essere quelle corretta, in quanto provocava un positivo aumento di peso, gli venne ordinato di modificare quella dieta con l’effetto evidente di una diminuzione del peso. Poiché queste prescrizioni si erano ripetute più volte provocando ad Alberto parecchia dissenteria, l’unica conclusione che potevo trarre era che, questi sconsiderati, non vedessero di buon occhio l’aumento di peso di Alberto, perché questo contrastava con le teorie del professor Marigo. Come non pensare alla malafede con l’intento di nuocere a mio figlio? Infatti quando mi accorsi del loro agire, andai a parlare col dottor Sorio che immediatamente ritornò alla prima composizione che aveva messo a punto ed Alberto riprese a crescere ancora di peso. Era un vero e proprio continuo stillicidio, solo perché si voleva sostenere la validità della diagnosi di Marigo che difendeva a spada tratta l’efficacia delle vaccinazioni non ammettendone i danni; al contrario noi genitori, pur non avendo in mano ancora prove concrete, le consideravamo la causa della malattia dei nostri figli. Evidentemente non erano graditi i miglioramenti di Alberto perché in contrasto con la diagnosi di Sindrome di Leigh. Falsificazione delle cartelle cliniche di Alberto
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Comunicazione giudiziaria per “Falso in atto pubblico”
Durante tutto il periodo di questo ricovero, vista la situazione che si era creata, fotocopiavo giornalmente tutti i documenti contenuti nella cartella clinica di Alberto, poiché ero già stato scottato con quella di Marco, scomparsa quando ne feci richiesta all’archivio dell’ospedale. Mi venne detto che era stata ritirata da un medico della Pediatria dell’Ospedale di Borgo Roma, per motivi personali. Andai così a cercare quel medico e scoprii che si trattava del dottor Tatò (oggi primario della stessa Clinica Pediatria). Quando lo trovai, gli chiesi dove erano andate a finire le cartelle di mio figlio Marco, visto che all’archivio risultava che le aveva prelevate lui. Ricordo perfettamente la scena, ero in compagnia di mio fratello Salvatore, incontrammo il dottor Tatò nel corridoio esterno allo studio del primario professor Dino Gaburro. Alla mia richiesta il medico impallidì, notammo subito un grande imbarazzo nel suo comportamento, addirittura dovette sedersi su un muricciolo che delimitava il corridoio, non si reggeva nemmeno in piedi, tanta era stata per lui l’emozione alla mia incalzante domanda. Già allora avrei dovuto presentare un esposto alla Magistratura; non ci pensai ma, sicuramente con l’esperienza fatta successivamente presumo che sarebbe iniziata ancor prima la serie delle archiviazioni. Per paura che il fatto si ripetesse, fotocopiavo e catalogavo giorno per giorno i documenti, in attesa di confrontarli poi con quelli che successivamente avrei richiesto ufficialmente attraverso la Direzione Sanitaria. La mia paura si rivelò fondata, il fatto precedentemente occorsomi fu replicato, questa volta però in modo diverso. Le cartelle cliniche non erano scomparse, ma modificate ad hoc rendendole in questo modo artefatte. Per questo motivo,dopo una lunga e paziente indagine fatta dal mio legale ed amico avvocato Carlo Segala, si scoprì che realmente erano state apportate delle rilevanti modifiche sulle varie relazioni di visite mediche, confrontandole con quelle che mi furono, successivamente, consegnate ufficialmente. In conseguenza a ciò, ci rivolgemmo alla Magistratura denunciando un “Falso in atto pubblico”. L’indagine istruttoria compiuta dal giudice Mario Sannite durò molti anni, alla fine il procedimento venne archiviato! Voglio però riportare per esteso la lettera che il Magistrato dott. Sannite inviò l’11 dicembre 1987 al Procuratore Generale della Repubblica di Venezia. In questo documento si può evidenziare la buonafede del Giudice Istruttore, il suo intento di voler veramente far luce sulla nostra intricata vicenda ma, purtroppo, la conclusione sfociò in una archiviazione senza nemmeno una chiara spiegazione. Non ebbi nemmeno la possibilità di appurare tale comportamento adottato dal Giudice poiché, proprio a quel tempo, era improvvisamente morto il mio carissimo amico e legale Carlo Segala, colpito da un male incurabile. Dovetti così mettermi alla ricerca di un
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nuovo avvocato. Non fu per niente facile trovarne uno disposto ad assisterci, fu per me un fatto inspiegabile allora, trovare molta reticenza da parte di vari “principi” del Foro di Verona ai quali mi ero rivolto. Sorvoliamo su questo ulteriore problema e cerchiamo invece di esaminare attentamente il documento in questione che, a mio avviso, ha una importanza assai rilevante per capire il concetto dell’istruttoria che doveva essere fatta ma che, per qualche astruso motivo venne ad un certo punto troncata dalla richiesta di archiviazione emessa dal dottor Sannite. Ecco qui il contenuto della lettera: “ Verona 11 dicembre 1987 Oggetto: Riferimento nota n. 9581/87 del 5 dicembre 1987. Esposto di Giorgio Tremante. AL SIGNOR PROCURATORE GENERALE della Repubblica V E N E Z I A 1– L’esponente si riferisce ad una vicenda di notorietà nazionale, della quale in momenti diversi si interessarono anche la Presidenza della Repubblica e il Ministero della Sanità. Da alcuni anni il geom. Giorgio TREMANTE conduce una vera e propria battaglia diretta a dimostrare che i figli Marco ed Andrea perirono ed il terzo figlio Alberto fu ridotto in grave stato di menomazione non perché affetti da rara ed incurabile malattia a base ereditaria, bensì perché, pur essendo soggetti immunodeficienti, furono sottoposti alla vaccinazione antipoliomielitica senza un preventivo controllo di compatibilità. 2– Della morte di Andrea TREMANTE si occupò questa Autorità giudiziaria con una specifica indagine. Il relativo procedimento (n. 768/81 – C) si concluse il 22 dicembre 1982 con decreto di non doversi promuovere l’azione penale a seguito di perizia eseguita dal prof. Mario MARIGO, direttore dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Verona. E’ opportuno riportare i dati contenuti nella relazione peritale. Il piccolo Andrea TREMANTE fu ricoverato nella divisione Pediatrica dell’ospedale di Verona Borgo Trento la sera del 21 settembre 1980. All’ammissione il bambino presentava già un collasso cardiocircolatorio con ipotonia generalizzata. I provvedimenti immediati furono la somministrazione di Flebocortid e la idratazione. Verso le ore 24 il paziente ebbe una buona ripresa. Ma alle 4.40 le sue condizioni subirono un brusco peggioramento ed alle 5.20 si ebbe il decesso. L’indagine autoptica, disposta su specifica richiesta del primario della divisione pediatrica, evidenziò che la morte era attribuibile ad un collasso cardiocircolatorio terminale in soggetto portatore di grave necrosi bilaterale dei nuclei encefalici e diffusa demielinizzazione della sostanza bianca. Alla base dell’evento, in definitiva, vi fu una encefalopatia necrosante simmetrica. Ricorda il Perito che i medici curanti avevano diagnosticato una “sindrome di Leigh” e, fondandosi sulla contemporanea presenza di uguale disturbo in ben altri tre figli della stessa coppia, avevano ipotizzato una forma a base genetica. L’encefalopatia necrosante subacuta o sindrome di Leigh è una malattia eredodegenerativa rara, trasmessa con modalità autosomica recessiva. Essa compare nelle prime età della vita e conduce a morte nel giro di qualche mese o di qualche anno. Il
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quadro clinico è caratterizzato da convulsioni, atassia, ipotonia, progressivo deterioramento intellettuale ed alterazioni del tronco encefalico. “Nulla osta – secondo il prof. MARIGO – nei confronti di una diagnosi come quella formulata fin dall’inizio ed in qualche modo confermata dalle varie indagini eseguite: e tuttavia bisogna anche dire che nulla definitivamente conferma, al di sopra di ogni dubbio, una diagnosi consimile”. Diverso il giudizio espresso dagli specialisti interpellati dal geom. Giorgio TREMANTE. Secondo il prof. Giulio TARRO, professore incaricato di virologia oncologica presso l’Università di Napoli, le alterazioni osservate nel piccolo Andrea erano avvicinabili a quelle provocate da virus vaccinali o ceppi virali attenuati ma anche quelle delle lesioni che si riscontrano in un ospite immunosoppresso o immunocarente. Dal canto suo, il prof. Gianfranco VALSE’ PANTELLINI, biochimico ed oncologo di Firenze, esclusa la natura ereditario-familiare dei tre fratelli TREMANTE, prospettò l’ipotesi che l’affezione fosse stata provocata dalla somministrazione del vaccino antipolio Sabin, inquinato dal virus del polioma; tale virus avrebbe la caratteristica di rimanere inattivo per qualche tempo e di slatentizzarsi anche a distanza, per cui l’unica terapia possibile sarebbe quella di somministrare un farmaco ad attività antivirale come l’Interferone. Il Perito, dopo aver discusso le due diverse ipotesi formulate ed aver ribadito di propendere per la diagnosi di sindrome di Leigh, rassegnò le seguenti conclusioni. “In entrambe le ipotesi è chiaro che si tratta di patologia nell’evoluzione della quale nessuna influenza hanno avuto comportamenti od omissioni colposi da parte di chicchessia. “Anche nell’ipotesi dell’impianto di un polioma virus (SW 40) all’epoca della vaccinazione antipoliomielitica è pacifico che ininfluente sarebbe stato il comportamento dei medici che hanno avuto in cura il piccolo paziente già affetto da neuropatia degenerativa e per di più nella fase terminale della malattia. “La prova provata di una simile ipotesi (allo stato ben lontana dall’essere raggiunta) potrebbe far scattare l’ipotesi di reato solo se si dimostrasse l’omissione – da parte di chi ne avesse avuto l’obbligo per legge – di tutte quelle misure di accertamento che, se attuate, avrebbero impedito l’instaurarsi della patologia e quindi, in quanto omesse, sarebbero state la causa della malattia stessa”. 3– Va osservato che il punto debole della tesi sostenuta dal prof. Mario MARIGO potrebbe ravvisarsi nel fatto che Alberto TREMANTE, colpito dalla stessa malattia di Andrea nell’ottobre del 1980 e curato secondo i consigli degli specialisti Tarro e Pantellini, uscì dal coma, acquistò una buona lucidità mentale e recuperò in parte l’attività motoria. Può aggiungersi che, contrariamente alla previsione certa di esito infausto della patologia indicata dal perito, Alberto TREMANTE è tutt’ora in vita. Merita anche di essere annotato che Andrea morì qualche ora dopo che gli era stato somministrato flebocortid, un farmaco a base di cortisone: da un certificato rilasciato il
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10 settembre 1980 dal Dott. Gian Enrico HERMAN, docente in varie specialità di Rimini, risulta che il bambino presentava “una moto pronunciata ipersensibilità allergica verso i prodotti cortisonici”, capaci di sbilanciare pericolosamente il metabolismo idro-salino e di compromettere la funzionalità epatica e celebrale. 4- Pende attualmente presso questo ufficio Istruzione procedimento penale n.559/83 nei confronti del dott. Giuseppe CASTELLARIN, direttore sanitario dell’ospedale di Verona Borgo Trento per il delitto di falso in atto pubblico: reato che si assume commesso in relazione al rilascio al geom. Giorgio TREMANTE di copia delle cartelle cliniche riguardanti i ricoveri di Alberto TREMANTE. L’imputazione è stata di recente estesa al prof. Sergio CAVALIERI, primario della Divisione Pediatrica dello stesso ospedale. Nella denuncia, da cui ha avuto inizio il procedimento, il geom. TREMANTE affaccia il sospetto che la morte dei figli Marco ed Andrea non sia avvenuta per le cause certificate nei documenti ufficiali dai medici degli istituti ospedalieri veronesi, ma perché i predetti sanitari non furono in grado di individuare la vera malattia dei due bambini o perché vollero celare gli effetti letali dei vaccini inoculati per prevenire la poliomielite. A confronto dell’ipotesi prospettata, dopo essersi diffuso sul comportamento ostruzionistico dei sanitari che avrebbero ridotto in fin di vita Alberto prima di convincersi ad eseguire le appropriate terapie suggerite da illustri luminari (TARRO, PANTELLINI, EMODI), il denunciante afferma che le divergenze tra la copia delle cartelle cliniche rilasciatagli il 28 gennaio 1981 (con certificazione di conformità del dott. Giuseppe CASTELLARIN) e quelle già in suo possesso perché da lui stesso fotocopiate dall’originale durante i ricoveri del figlio erano indicative della “volontà de celare tutto ciò che avrebbe potuto condurre ad una diagnosi difforme da quella ufficiale”. In data 6 settembre 1983 il geom Giorgio TREMANTE si costituiva parte civile. Nell’atto – con contenuto tipico di una denuncia – si chiedeva espressamente l’estensione dell’imputazione a tutti coloro che in qualche modo avevano concorso nel reato e si ribadiva che “il movente della falsificazione era da individuare nella volontà delittuosa di nascondere il tipo di morbo che aveva colpito i tre figli per non compromettere la inadeguatezza delle cure somministrate e per non consentire l’esame e la discussione scientifica delle indispensabili rivelazioni immunologiche preventive su tutti e bambini, prima della somministrazione del vaccino antipolio Sabin, obbligatoriamente, quanto inavvedutamente somministrato a sensi di legge ai figli dei cittadini italiani”. Con una memoria istruttoria presentata il 22 settembre successivo il denunciante, riprendendo il discorso delle alterazioni delle cartelle cliniche, rilevava che con quelle falsificazioni non si era inteso semplicemente nascondere la gravissima responsabilità professionale dei medici incaricati della cura del piccolo Alberto, ma anche proteggere ad ogni costo gli interessi economici dei gruppi fornitori dell’obbligatorio, e talvolta purtroppo mortale, vaccino antipolio che viene forzosamente imposto ai cittadini senza che sia preventivamente spiegata la pericolosità dello stesso e quindi consentita efficacia
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prevenzione. Soggiungeva che ad aggravare il comportamento di medici dell’ospedale di Verona concorreva la conoscenza che altri due suoi figli erano deceduti in seguito alla somministrazione del vaccino Sabin ed in carenza di un più volte richiesto esame immunologico preventivo, atteso che tale esame, nonostante pressanti interventi, non venne compiuto neppure nei confronti del figlio Alberto, con la conseguenza di ridurlo in fin di vita e nelle attuali condizioni di menomazione. Nelle ultime memorie presentate il geom. TREMANTE denunciava un altro specifico e sintomatico comportamento a carico del primario della divisione pediatrica dell’ospedale veronese. Riferiva che il 21 settembre 1980, in occasione del ricovero del figlio Andrea, il prof. Sergio CAVALIERI, sebbene avvertito che il bambino non tollerava il cortisone, aveva egualmente ordinato la somministrazione di flebocortid che in poche ore aveva condotto a morte il paziente. 5- L’imputazione di falso in atto pubblico, ipotizzata nei confronti del direttore sanitario dott. Giuseppe CASTELLARIN, non sembra, allo stato,sostenuta da sufficienti indizi. Ed infatti le falsità prospettate nella denuncia non trovano riscontro nel confronto tra gli originali delle cartelle cliniche sequestrate con provvedimento di questo Ufficio in data 1° settembre 1983 e le copie di alcuni atti di dette cartelle rilasciate al geom TREMANTE in data 28 ottobre 1981. Sussistono, invece, talune difformità tra le copie rilasciate il 28 ottobre 1981 e quelle in possesso del denunciante. Se, dunque, come sembra, il direttore sanitario si limitò a certificare la conformità all’originale dei documenti medici rilasciati all’interessato dopo la trasmissione all’archivio delle cartelle cliniche, poiché tra originali e copie esiste perfetta corrispondenza formale e materiale, nessun fondamento ha l’ipotesi accusatoria formulata a carico del dott. CASTELLARIN. Ma questa considerazione elementare non esaurisce il tema dell’indagine. Infatti, se le copie già in possesso del denunciante provengono effettivamente dagli istituti ospedalieri di Verona, non potrebbe escludersi che siano state apportate delle “alterazioni” nelle cartelle originali successivamente alla formazione delle copie in possesso del denunciante e comunque in tempo precedente alla trasmissione in archivio degli originali. E’ evidente che i tale caso occorrerebbe innanzitutto verificare, mediante accertamento peritale, l’entità delle alterazioni e stabilire anche se esse siano state finalizzate, come assume il geom. TREMANTE, a nascondere presunti errori diagnostici o terapeutici e quindi eventuali responsabilità penali dei medici curanti. Ma l’indagine più delicata cui è necessario procedere è quella diretta a determinare la natura della patologia dei tre fratelli TREMANTE ed a stabilirne la precisa etiologia. Le ripetute e forti denuncie presentate da Giorgio TREMANTE hanno, infatti, rimesso in discussione proprio questo tema fondamentale e di grande spessore scientifico: un tema che ha certamente rilevanza pregiudiziale all’impostazione di qualunque discorso sulle responsabilità.
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Come si comprende, il compito dell’inquirente è oggettivamente arduo e non privo di insidie. Nelle prossime settimane sarà data attuazione alle opportune attività istruttorie che ho già programmato. Ritengo di poter escludere che vi sia il pericolo di prescrizione. Con osservanza.” Non fu l’unico procedimento ad essere archiviato, molti altri subirono la stessa sorte per le varie denunce che in seguito presentammo, ma di ciò ne parlerò di volta in volta. Erano anche state eseguite, dal professor Nicola Rizzuto (oggi primario della Clinica Neurologica di Borgo Roma) delle fotografie al microscopio elettronico di prelievi del nervo e del muscolo fatti ancora su Andrea. Mi furono, “gentilmente” consegnate, dopo una concitata telefonata con lo stesso professore che ovviamente sosteneva la diagnosi di Marigo, dal quale era stato nominato consulente neurologico. Il professor Pantellini, vedendole, avanzò subito l’ipotesi dell’eziologia virale. Rizzuto quando venne a sapere da me la tesi avanzata da Pantellini, visibilmente alterato, si mise ad imprecare contro questo vetusto ma esperto professore definendolo addirittura “ciarlatano”. Anche il professor Rizzuto faceva parte della squadra impegnata a dimostrare la tesi del professor Marigo; tesi che, varcando addirittura l’Oceano nella persona del professor Di Vivo, era arrivata perfino negli Stati Uniti d’America. Avevo anche più volte scritto al Presidente della Repubblica di allora On. Sandro Pertini ed al Ministro della Sanità On. Renato Altissimo, ma ricevetti risposta solo dal Capo di Gabinetto, il dottor Antonio Maccanico al quale esposi molto chiaramente, in modo conciso, qual era la nostra situazione e quali erano le nostre aspettative riguardo il problema dei nostri figli. Istituzione del Ministro Renato Altissimo di una “Equipe Ministeriale” Documento del ministro della Sanità Renato Altissimo
Un giorno ricevetti una lettera a firma del Ministro della Sanità Renato Altissimo, che riporto integralmente:”Roma 20 ottobre 1981-Gent.mo Sig. Tremante, in relazione alle vive premure che mi ha rivolto la Segreteria dell’On. Pertini nei confronti di suo figlio Alberto, desidero informarLa che ho disposto che il mio dicastero provveda nel senso da Lei desiderato.-Il piccolo Alberto dovrà essere ricoverato presso l’Istituto della I^ Clinica pediatrica dell’Università di Milano, diretto dal prof. Careddu, laddove
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congiuntamente al prof. Gaetano Fara, prof.ssa Fernanda Bergamini, prof.ssa Maria Luisa Profeta, dirigenti rispettivamente i centri di virologia, batteriologia ed epidemiologia, sono certo si prodigheranno per la migliore risoluzione del problema che La affligge. – Colgo l’occasione per inviarLe distinti saluti. (Renato Altissimo)”. Andai perciò a parlare con il professor Careddu in una riunione che si tenne a Milano nel suo studio. Mi resi conto, in quel frangente, che non c’era alcuna intenzione di accettare la diagnosi ipotizzata da Tarro, che imputava la responsabilità della malattia dei nostri figli alle vaccinazioni. Ebbi la possibilità di verificarlo più tardi quando, fingendo di predisporre una ricerca epidemiologica nella nostra città su un gruppo di bambini e bambine, mai realmente eseguita, e senza mai aver visto Alberto, fecero una relazione in risposta al Ministro. Io non venni mai a conoscenza del contenuto di quella corrispondenza, nonostante ne avessi avuto sicuramente il diritto trattandosi di argomenti riguardanti mio figlio, con la quale intendevano probabilmente di chiudere un caso che erano stati costretti a prendere in considerazione forse anche loro malgrado. Fui successivamente invitato a Roma all’Istituto Superiore di Sanità, quando ne era direttore il prof. Pocchieri. Vi andai assieme al dott. Gianantonio Cazzola, altro pediatra di Verona che a quel tempo seguiva Alberto. Mi premurai di chiedere al professor Pocchieri che fine avesse fatto un virus isolato in mio figlio dal Virologo di Verona prof. Umberto Bonomi e consegnato all’Istituto dallo stesso. Mi venne risposto che questo reperto era a Milano custodito dalla professoressa Bergamini, virologa di quell’equipe Ministeriale, per degli accertamenti. Davanti a noi il professor Pocchieri telefonò a Milano alla Bergamini la quale ammise che il reperto lo conservava lei e che stava eseguendo delle ricerche virologiche. Quando successivamente mi recai a Milano dalla stessa Bergamini per cercare di recuperare questo reperto, alla mia richiesta ella ingenuamente rispose che stavo sbagliando e che il reperto non le era mai stato consegnato. Quanti loschi sotterfugi vennero compiuti per nascondere una verità? All’Istituto Superiore della Sanità avevo anche, tra gli altri, incontrato il prof. Duilio Poggiolini il quale, durante una conversazione col pediatra dott. Cazzola e con me, se ne uscì con questa frase:”Vede signor Tremante, fra l’altro, non è nemmeno conveniente far sopravvivere il bambino, pensi quanto inciderebbe in termini economici sulla collettività!”. Questo lo diceva a quell’epoca il caro professor Poggiolini; oggi sappiamo bene come il signor Duilio ha ben risparmiato sulle spese sanitarie nazionali. Finalmente in maggio Alberto fu dimesso dall’ospedale, senza lettera di dimissione che ci fu consegnata parecchio tempo dopo. In essa si ribadiva la diagnosi di Sindrome di Leigh, per cui Alberto veniva descritto “amimico ed idiota”; quel losco gioco continuava, non si poteva perdere una partita così
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importante.La struttura sanitaria veronese per difendere la tesi Marigo e tutto il “mondo delle vaccinazioni” si chiudeva compatta a riccio. Quanti dolori e quanti sacrifici dovemmo ancora affrontare!! Disperata richiesta di aiuto alla Chiesa Romana
Tentai allora di mettermi nuovamente in contatto con Giovanni Paolo II per avere quell’aiuto che mi era stato promesso durante l’udienza in piazza San Pietro, quando portai i miei gemellini ancora tutti e due vivi. Mi misi alla macchina da scrivere ed iniziai la lettera che integralmente riporto: Al Santo Padre Giovanni Paolo II – Verona 1 marzo 1982 “Santo Padre, sono, o per meglio dire ero, padre di quattro figli, due dei quali sono già nella gloria di Dio. Mi rivolsi a Lei personalmente già nell’agosto del 1980 poiché,durante una Sua udienza pubblica, ebbi da Lei conferma del Suo personale interessamento, oltre all’assicurazione di preghiere quotidiane, al problema che in quell’occasione Le esposi, salvare due vite umane. In vero da quell’epoca non penso vi sia stato interessamento diretto da parte Sua, nonostante, successivamente, chiesi più volte un’udienza privata per esporle meglio il nostro problema,la mia richiesta fu rifiutata adducendo che troppi impegni La gravavano. Da allora molte cose sono successe, tra queste la morte di uno dei miei gemelli, Andrea, che a mio avviso fu prodotta soprattutto dalla grande disumanità dei tempi in cui viviamo. Anche Alberto, l’altro gemello stava per subire la stessa sorte nel novembre del 1980, ma, il Signore ha voluto che riuscissi a salvarlo nonostante l’ottusità e l’arroganza di una parte della classe medica che lo voleva morto ad ogni costo. Questa drammatica vicenda la mia famiglia è costretta a viverla ormai da oltre tredici anni, cioè dall’inizio della malattia del nostro primogenito che morì all’età di cinque anni e mezzo nell’ottobre del 1971. Già alla morte del primo bambino, dopo che molte e controverse diagnosi volevano essere fatte calzare alla sua malattia, si parlò di un’incompatibilità alla vaccinazione antipolio Sabin che degenerò nella malattia stessa. Questa non è certamente invenzione, tutta una documentazione testimonia questa assurda prima esperienza che non esito definire già tragica; ma ben più drammatica mi appare oggi la successiva vicenda che, nostro mal grado, siamo stati costretti a vivere,ci hanno fatto ripercorrere la stessa strada che aveva prodotto antecedentemente la malattia nel nostro primo figlio Marco, non più con un solo bimbo, ma con due gemelli, Alberto e Andrea. In cuor mio sentivo una forza che ripetutamente insisteva perché io non sottoponessi più i miei figli alle vaccinazioni obbligatorie per legge, ma nonostante la mia fermezza, e le mie convinzioni, non essendo io medico e considerato perciò incompetente in materia, mi feci convincere, pressato anche dalle minacce che usualmente si pongono a chi non vuol sottoporre i figli alle pratiche vaccinali; in altre parole il pericolo che sarebbero stati estromessi dalle scuole e quant’altro, che solo oggi riesco a capire quanta infondatezza avessero avuto, mi fecero subire mio mal grado l’uso di questa pratica costrittiva sui
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miei figli. Di qui ha inizio il nostro secondo calvario, non più, come dissi già con un solo bambino ma con due. Incominciammo le nostre peregrinazioni per l’Italia e per l’Europa. Forse i medici conoscevano già queste realtà, ma non volevano rendercele note per evitare che si creasse un panico attorno alle vaccinazioni, di conseguenza tentammo così di battere ogni via alla spasmodica ricerca di un qualunque rimedio per salvare la vita ai nostri figli. Purtroppo però il22 settembre del 1980 Andrea muore. Mi sentii sconfitto,distrutto, annientato, ma è proprio a causa di questa situazione d’immane disfacimento che dal Signore mi venne la forza per reagire, io sono convinto che Egli voglia che io riesca a dimostrare quella verità che da più parti e con ogni mezzo, lecito ed illecito, vuole essere assolutamente celata. In questo mio calvario umano non trovo aiuto, se non da pochi, trovo solo malafede e disinteresse anche solamente nel pensare di sfiorare un argomento così delicato e quell’atteggiamento fermamente radicato che accetta solo i benefici che queste pratiche hanno portato e non i rischi ed i danni che le stesse hanno profuso. Mi si induce alla polemica, si parla, si discute,si spendono un sacco di parole ma l’azione rimane statica, immobile, si ha il terrore di mostrare una sacrosanta verità che può danneggiare soprattutto gli interessi economici di qualche potente; perciò fino ad ora la verità riesce ad essere soffocata, convincendo così sempre più il sottoscritto che la disumanità prevale sempre sulla ragione e sul buon senso. E’ una potente forza dannosa per mio figlio e per un numero imprecisato di altri bambini che, come lui, devono subire la sopraffazione e pagare forse anche con la loro vita gli sbagli che in certi casi sono commessi con la freddezza e la disumanità che solo l’essere umano sa esprimere per arrivare a coprire tutto solo per difendere quegli sporchi interessi che rappresentano esclusivamente l’unica forza del potere umano. La nostra vicenda, da parte mia, è accettata con fede e proprio questa mi dà la forza di agire e di reagire ogni qual volta la sopraffazione umana tenta di umiliarmi, di distruggermi, per rendermi così inoffensivo. Sono fermamente convinto che venga da Cristo questa forza che la ragione umana ritiene utopistica, che mi spinge ad una lotta che ritengo giusta e sacrosanta per dimostrare che ogni singolo individuo ha diritto alla vita al di sopra degli interessi speculativi.Il diritto alla vita purtroppo nel caso dei miei figli è rimasto solo una bella frase priva di significato. Mi rivolgo così alla Santità Vostra per l’ennesima volta, convinto che, come rappresentante di Cristo sulla terra, voglia perorare questa causa, riconoscendo che l’unica via che Cristo stesso ci ha insegnato debba essere quella della luce e della verità, non quella delle tenebre, del mascheramento.Per questo motivo non si dovrebbe mai avere paura di questa Luce, agendo sempre in essa, rimanendo ad ogni costo sempre coerenti con quello che Lui stesso ci ha insegnato, difendendola anche quando attraverso questa luce potrebbe apparire una sconcertante realtà fatta di miserie umane. Sono perciò convinto che proprio Cristo illuminerà la mente di Vostra Santità quando leggerà questa mia lettera, sicuramente incompleta e forse anche priva di quei rispettosi ed ossequianti vocaboli che si addicono certamente ad un Pontefice, ma non per questo meno chiara, nitida, priva di quegli interessi essenzialmente solo umani, ma
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tesa ad arrivare a far luce su tutta la nostra vicenda, poiché da essa potranno certamente trarne giovamento anche altre creature, affinché finalmente affiori la verità. Così che questa luce possa diventare, anche per noi, segno di Colui che dichiarò di essere Via, Verità e Vita. Suo devotissimo figlio in Cristo Giorgio Tremante” Nonostante il Papa avesse sicuramente letto questa lettera, non ebbi da Lui alcuna risposta, non sono mai riuscito a spiegarmi il motivo di questo suo silenzio. Dopo qualche tempo mi rispose il Vescovo della mia città monsignor Giuseppe Amari. Ecco la lettera che ebbi in risposta: Lettera di risposta del Vescovo della mia città
”Verona 5 giugno 1982 – Egregio Signore, La Segreteria di stato della Città del Vaticano, mi prega di far giungere a Lei e alla Sua famiglia la partecipazione del Santo Padre al vostro dolore e alla vostra ansia, dopo che Lei aveva ritenuto opportuno informare il Sommo Pontefice della morte precoce di due suoi bambini, causata – a suo parere – dall’iniezione obbligatoria antipoliomielitica e chiedendo – nel contempo – l’autorevole interessamento del Papa, affinché non abbiano più a succedere tali dolorose possibili conseguenze. Con la stessa mi si affida anche il venerato incarico di trasmetterle la confortatrice benedizione Apostolica del Santo Padre, alla quale umilmente associo la mia fervida preghiera affinché nulla resti di intentato onde evitare il ripetersi di simili drammatiche situazioni. Con sentimenti di profonda solidarietà, gradisca il mio rispettoso saluto. Giuseppe Amari”. Lascio al lettore giudicare se, con ciò, si fosse voluto capire ed affrontare il grande problema sociale che stavo sollevando o se invece, pilatescamente, si sia voluto solo lavarsene le mani. Meglio riprendere il racconto delle nostre innumerevoli peripezie, senza porsi ulteriori domande. La storia insegna che quando la religione s’impasta con la politica il sangue versato dalle vittime diviene merce di baratto. Non vale la pena cercare di fare una valutazione del motivo di questo comportamento, sarebbe solo una misera stima realizzata da un piccolo essere umano quale io sono, preferisco invece guardare in alto, verso il cielo e proseguire diritto per la mia strada. (Non ti curar di Lor ma guarda e passa……) Alberto a casa dopo mesi di ricovero in ospedale. Divento Pranoterapeuta
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Consegna dell’attestato di pranoterapeuta
Ci sembrava impossibile aver potuto riportare a casa il nostro bambino dopo più di sei mesi di degenza in ospedale. Si trattava ora di proseguire la terapia consigliata da Tarro ed attendere i risultati. Nel frattempo mi detti da fare per cercare un lavoro, avevo abbandonato il mio, di grafico pubblicitario, con la morte di Andrea. La Provvidenza mi venne incontro anche questa volta, in modo molto strano però. Avevo sentito parlare di una metodica terapeutica non accettata dalla medicina ufficiale, la Pranoterapia, pensai che questa cura non invasiva poteva essere utile per il mio Alberto. Avevo scritto al settimanale “Gente” per avere informazioni. La redazione mi fornì il nominativo e l’indirizzo di un pranoterapeuta di Bergamo, Luciano Muti, andai a Bergamo e lo incontrai. Era una persona che mi aveva subito colpito per la sua simpatia e per la sua semplicità: non credevo in queste metodiche,ero scettico, erano al di fuori della mia concezione mentale, sono geometra pur non avendo mai esercitato la professione, per questo concreto e materialista, per me 1+1 aveva sempre fatto 2 ,né più né meno, per cui queste forme di cure alternative immateriali esulavano completamente dalla mia mentalità. Nonostante ciò ci accordammo ed accettai la sua offerta, avrei portato Alberto a Bergamo per sottoporlo alle sue terapie. Iniziò così la nostra peregrinazione quotidiana, per un anno intero andammo avanti e indietro da Verona a Bergamo. Ero molto curioso, volevo capire che significato poteva avere quel metodo di imposizione delle mani sulle persone sofferenti delle più disparate malattie, ebbi così modo di verificare in quel periodo gli effetti benefici di quelle forze per me ancora misteriose. Mi stavo contemporaneamente rendendo conto che c’era qualche cosa che stava nascendo in me, non capivo bene cosa fosse, ma mi sentivo attratto dalla sofferenza di quelle persone che incontravo nello studio di Muti. Ad un certo punto lo stesso mi disse:” Ora hai capito che cos’è questa terapia, cura da solo tuo figlio poiché anche tu hai questa energia!”. Non avevo ben compreso fino in fondo che cosa significasse curare in quel modo con l’imposizione delle mani, ma spinto da quelle parole e dalla mia curiosità, iniziai a trattare Alberto con questo procedimento e dovetti pian piano convincermi dei benefici insperati che, prima col signor Muti, e poi con me, mio figlio stava ottenendo. Il tempo passava, il mio impegno in questa metodica incominciava ad allargarsi, oltre ad Alberto incominciai a trattare anche parenti ed amici, frequentai i corsi che lo stesso Muti metodicamente teneva a Milano, fino a che io stesso divenni pranoterapeuta. Fui anche denunciato dall’Ordine dei Medici per abuso di professione medica, ma al processo penale che ne seguì vennero a testimoniare a mio favore dei medici, loro stessi divenuti miei pazienti. Il giudice
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fece così una sentenza assolutoria, non solo ammettendo che non era abuso di professione medica fare il pranoterapeuta come lo facevo io, cioè senza fare diagnosi e mandando i pazienti prima e dopo a farsi visitare dai loro medici, ma aggiungendo inoltre alla sentenza stessa che potevo essere considerato un mero strumento in più nelle mani dei medici per curare, se volevano, i loro pazienti. Avevo scoperto in me una nuova professione che mi permetteva di sopravvivere, anche dal punto di vista economico, avendo abbandonato la precedente attività lavorativa dopo la morte del mio secondo figlio. I giorni passavano con le mie piccole personali soddisfazioni, ma quella più grande era di poter veder crescere mio figlio Alberto ormai abbastanza ristabilito dalle batoste subite, sempre però con la sua tracheotomia e nutrito per sonda nasogastrica. Per noi era una grande gioia averlo potuto inserire nuovamente nella nostra famiglia, si poteva considerare un miracolo. Nuovo ricovero in ospedale di Alberto. Trasferimento al Policlinico di Milano
Un brutto giorno, improvvisamente, fummo costretti a riportarlo di nuovo in Ospedale per una insufficienza respiratoria comparsa repentinamente; non avevamo la possibilità di curarlo a casa mancandoci l’attrezzatura per il supporto respiratorio. Quel ricovero fu particolarmente drammatico perché Alberto accusò un edema polmonare con spostamento dell’ombra cardiaca, sembrava proprio che non ce la dovesse fare, gli somministrarono perfino l’estrema unzione. Il respiratore al quale era attaccato aveva alterato tutti i suoi valori ematochimici, la cosa era molto seria. Ci fu consigliato di chiamare a consulto un medico di Milano, il professor Giorgio Damia, primario del reparto di rianimazione del Policlinico di Milano. Interpellato,venne a Verona per vedere il bambino, ordinò immediatamente che fosse sostituito il respiratore al quale mio figlio era attaccato per respirare, secondo lui era obsoleto e non adatto alla respirazione di Alberto. Il nuovo respiratore fu sballato e portato fuori da un magazzino, nessuno del reparto lo sapeva però adoperare. Il professore impostò i nuovi parametri di ventilazione e dopo poco tempo i valori ematochimici di Alberto si erano tutti normalizzati. Un miracolo delle nuove tecnologie o la pluriennale esperienza del professor Damia? Visto il risultato ottenuto decidemmo di trasferire mio figlio al Policlinico di Milano, certi che sarebbe stato curato meglio e con tecnologie sicuramente più all’avanguardia. Arrivò da Milano una grossa autolettiga predisposta per la rianimazione con due medici al seguito per assistere il bimbo durante il viaggio. Partimmo dall’Ospedale di Verona verso il primo pomeriggio perché i medici dovettero accordarsi sul proseguo della terapia e svolgere ancora delle pratiche
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burocratiche indispensabili per il trasferimento. Sul frontespizio del foglio di accompagnamento del paziente, cioè di mio figlio, lessi ancora il riproporsi ottusamente della famigerata diagnosi di Sindrome di Leigh. Purtroppo, ancora una volta, quella maledetta etichetta era stata incollata all’epidermide di Alberto definendolo ciò che non era e non voleva assolutamente essere rimossa. Un mese e mezzo durò il ricovero a Milano, dove eseguirono delle ricerche, forse troppo traumatiche sul mio bambino, ma fra queste, per fortuna, si dimostrò anche con evidenza l’immunodeficenza congenita in Alberto. Ricordai che sul “Vademecum delle vaccinazioni”, scritto da Pontecorvo ed edito da Minerva Medica, avevo letto che non dovevano essere somministrati vaccini con virus vivo se esisteva nel soggetto una carenza immunitaria primaria o secondaria. Pensai subito, mettendo in relazione ciò che avevo letto e la ricerca fatta su Alberto, che questa era la prima volta che si dimostrava in modo evidente, con dati di laboratorio alla mano, la carenza immunitaria di mio figlio ed inoltre che questa sua carenza veniva modificava in positivo con la terapia dell’interferone. La tesi di Tarro si dimostrava ancora una volta essere giusta. Alberto dovette, anche qui, adattarsi a rimanere da solo nel reparto di rianimazione, poiché non erano ammessi parenti ad assistere gli ammalati, fu per lui un sacrificio, immagino, ma per fortuna durante il primo periodo venne tenuto sedato per cui dormiva quasi sempre. Successivamente il primario concesse a mia moglie di poter stare con il bambino qualche ora al giorno; io, sempre fuori, mi rodevo di non poterlo vedere, solo alla madre era concesso questo privilegio. Ricordo che aspettavo fuori in un giardino interno all’ospedale, il tempo non passava mai; in mezzo ad esso c’era una fontanina sul ciglio della quale mi sedevo ascoltando lo scroscio dell’acqua che zampillava e, per far trascorrere il tempo, oltre a fumare nervosamente, gironzolavo all’interno dell’ospedale tra i vari padiglioni cercando di pensare solo al giorno in cui Alberto sarebbe potuto uscire per poterlo riabbracciare. Alla sera, con Franca, uscivamo mesti dall’ospedale e andavamo con il tram a casa di una sua zia che abitava in periferia e che, gentilmente, ci aveva ospitati. Quando Alberto iniziò a migliorare, ricordo che venni a Verona a prendere Luca perché anche lui potesse godere della gioia di riabbracciare assieme a noi il suo fratellino. Arrivò anche il giorno in cui mia moglie ci portò fuori in giardino il bimbo in braccio, non stavo più nella pelle, mi sembrava di toccare il cielo con un dito, ero entusiasta del risultato ottenuto dal professor Damia, lo aveva svezzato dal respiratore, gli aveva ridato l’autonomia respiratoria completa. Venne anche il giorno della dimissione, mi dissero però che non potevano dimettere il bambino mandandolo a casa; per sottostare ai regolamenti imposti dalla Medicina Legale, doveva essere trasferito in un reparto di cura ospedaliero. Cercai allora di mettermi in contatto col professor Careddu, medico incaricato dal Ministro Altissimo e a capo della equipe ministeriale che doveva far luce sulla
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malattia dei miei bambini. Giacché Careddu era primario della Clinica Pediatrica di Milano, a pochi passi dal Policlinico, pensai che sarebbe stato semplice trasferire Alberto da lui. Careddu, senza darmi alcuna spiegazione, non accettò di ricoverare il bambino nella sua Clinica; a questo punto fui costretto a trasferire Alberto in un altro Ospedale, più lontano, nel Reparto di Pediatria dell’Ospedale di Merate, in provincia di Como. Il professor Saputo, primario di quella pediatria, era un pediatra anziano, piccoletto, con un aspetto burbero. Quando mi sentì parlare di Tarro e della sua ipotesi diagnostica, cioè che le vaccinazioni erano state la causa della malattia di Alberto e dei suoi fratelli, dette in escandescenze, arrivò quasi ad offendermi dicendo che erano tutte fandonie e che le vaccinazioni non avevano mai fatto male a nessuno. Pensai fra me e me: sono caduto dalla padella nella brace, avevo trovato un altro ferreo sostenitore dei soli benefici vaccinali, avevo perciò paura che non fosse il medico adatto per proseguire la terapia immunologica consigliata dal professore di Napoli. Nonostante l’avversità dimostrata nei confronti di Tarro, accettò, passivamente, di proseguire la terapia. Fece anche una biopsia epatica ad Alberto, non ho mai capito bene il perché; seppi successivamente che era un suo pallino fare questo tipo d’indagine, in contatto col professor Sirtori di Milano. Eseguivano, oltre ad altri esami, anche biopsie epatiche, a bambini ricoverati, per mettere a punto certe statistiche che stavano elaborando per fatti loro. Mio figlio e mia moglie erano rimasti in quell’ospedale per circa venti giorni. In quel periodo ogni altro giorno io partivo da Verona e arrivavo a Merate per stare insieme a loro qualche ora. Non potevo infatti restare poichè a casa c’era Luca che avevo quasi abbandonato in mano agli anziani nonni. Finalmente mi venne consegnata la lettera di dimissione e così potei portarmeli a casa. Ricordo che il professor Damia mi aveva detto una frase molto importante:” Se vuole salvare Alberto, visto che io stesso ho appurato che i Cervelloni hanno detto di no a suo figlio, deve procurarsi una attrezzatura che possa, in caso di necessità, farlo respirare senza doverlo più ricoverare in ospedale!” In quel momento non detti troppo peso a quelle parole, ma successivamente mi vennero molto utili. Alberto nuovamente a casa ristabilito. Inizio scuola paterna
Ora che vedevo finalmente Alberto a casa ristabilito, pensando di non dover più ricorrere all’ospedale, dovevo anche preoccuparmi di procurargli un minimo d’istruzione. Ma come? Con il problema della sua carenza immunitaria, non era pensabile, allora, portarlo a scuola. Dovevo fare in modo che la scuola venisse a
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casa. Lottai, non poco, con i funzionari comunali ai quali avevo fatto la proposta di mandare a casa una maestra perché potesse istruire mio figlio. Quando Alberto il 24 dicembre del 1980 era stato tracheostomizzato, perdendo così l’uso della parola, in quanto le sue corde vocali rimanevano inattive, situate come sono al di sopra del buchetto che gli praticarono nella trachea, non sapevo più come fare a comunicare con lui. All’inizio usammo un modo per capirci mostrandogli oggetti ed altro, lui ci indicava qual era la sua scelta con gli occhi e con la testa, faceva il segno del si e del no. Non mi bastava questo modo di dialogare, dava poca soddisfazione a me ed anche a lui. Incominciai così ad insegnargli l’alfabeto gestuale universale, ricordando quando io stesso, con i miei compagni, lo usavamo per suggerirci durante le lezioni a scuola per non essere visti dagli insegnanti. Piano piano Alberto prese dimestichezza con quell’alfabeto ed incominciò così ad esprimersi più appropriatamente. Lo filmai, qualche anno più tardi, nelle feste di Natale o di Pasqua o nelle ricorrenze, mentre col suo modo gestuale di esprimersi recitava, sillaba per sillaba, le poesie che la maestra gli aveva insegnato. Finalmente l’Assessore alla Pubblica Istruzione ci concesse l’insegnante domiciliare. Si chiamava Anna Maria la sua prima maestra, una bella ragazzina di diciannove anni, appena diplomata, in attesa di entrare nelle graduatorie per poter insegnare nella scuola pubblica anche se, successivamente, la stessa abbandonò l’insegnamento per la professione di vigile urbano. Alberto era molto fiero della sua insegnante, era un’esperienza nuova per lui, non aveva mai potuto frequentare nemmeno la scuola materna, costretto com’era sempre stato a vivere fra un ospedale e l’altro. All’inizio considerava lo studio come un nuovo gioco, successivamente si accorse che non era proprio così; fu importante, per lui, rendersi conto che era entrata a far parte della sua vita quotidiana una nuova significativa figura, la maestra, pur non potendo ancora avere, in quel momento, la possibilità di un confronto con i compagni come avviene normalmente per tutti i bimbi durante l’età scolare. Era molto impegnato, oltre allo studio praticava anche un’ora di fisioterapia al giorno, per cui la sua giornata era veramente piena. Nel mese di giugno del 1983, una nostra amica ci prestò la sua casa al mare, al Lido degli Scacchi, dove siamo stati veramente felici. Per sicurezza nostra e di Alberto avevo preso contatto con l’Ospedale di Comacchio, un medico rianimatore aveva accettato di venirci a trovare ogni tanto, durante il normale giro di sorveglianza che faceva con l’autolettiga e con un infermiere in quel litorale; nel caso avessimo avuto bisogno di risolvere qualche piccolo problema che eventualmente si fosse presentato e che, noi da soli, non fossimo stati in grado di risolvere.
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Passammo delle ferie meravigliose, anche perché ci avevano raggiunti i nostri amici Franco ed Annamaria con il loro figlio Carlo. C’era un trenino che portava in giro per il paese i turisti, il trenino di Paolino lo chiamava Alberto: quante corse facemmo su quel trenino, Alberto non era mai stanco di girare. C’erano anche delle carrozzelle a doppia bicicletta, anche con quelle Alberto si divertiva molto con noi genitori, era felice ed era migliorato anche come trofismo muscolare perché, avendo portato con noi la sua biciclettina, scorrazzava per strada avanti e indietro irrobustendo così i suoi muscoli. L’estate del 1983 la ricordo con piacere, fu l’ultimo anno che potemmo andare in ferie. Al ritorno a casa, dopo poco tempo ci accorgemmo che Alberto incominciava ad avere dei problemi alla trachea, respirando emetteva come un sibilo, sembrava che avesse qualche ostruzione, lo portammo a visitare dal prof. Oreste Mosciaro, direttore del Reparto Otoiatrico dell’ospedale della nostra città, il quale sospettò ci fosse una tracheomalaccia (Collabimento delle pareti della trachea). Ci consegnò una lettera perché la portassimo al Centro della Mucoviscidosi che si trova proprio nella nostra città, considerato il più grande ed efficiente di tutta Italia per la cura di questa malattia, scrivendo al professor Mastella che Alberto aveva assoluta necessità di fare della ginnastica respiratoria onde ovviare al suo problema. Purtroppo il professore della mucoviscidosi non permise assolutamente ad Alberto di frequentare quel Centro, tanto importante e ben attrezzato, adducendo come giustificazione che non si poteva accettare un paziente non affetto da Fibrosi Cistica. Fummo così costretti a rivolgerci altrove. Ulteriore ricovero di Alberto in ospedale a Melegnano
Ci ricordammo che quando Alberto era ricoverato al Policlinico di Milano un certo dottor Langher ci aveva dato la sua disponibilità nel caso avessimo avuto qualche necessità. Telefonammo a lui, chiedendogli se poteva consigliarci qualche centro per risolvere il problema che si era presentato nella trachea di Alberto. Il consiglio che ci dette fu quello di ricoverare Alberto a Melegnano, all’Ospedale Predabissi, dove il primario di rianimazione era anche otorino; ci disse il nome del medico, Giulio Frova. Partimmo così per Melegnano, eravamo d’accordo col dottor Langher di trovarci nel reparto di rianimazione dell’ospedale, dove ci attendeva già il professor Frova al quale ci presentò. Era un ospedale abbastanza grande, di recente costruzione. Il reparto della rianimazione era stato da poco allestito, bello, come può esserlo un tale ambiente, largo, spazioso; c’erano dei box in cui giacevano i pazienti, dal lungo e largo corridoio si potevano notare dei grandi finestroni con le veneziane abbassate. Vi erano dei citofoni esterni collegati per poter parlare,
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nel caso fosse stato possibile con le persone degenti. Era sicuramente diverso dai precedenti reparti di rianimazione nei quali eravamo stati costretti a ricoverare Alberto precedentemente e si respirava un profumo di pulito e di disinfettante. Il professor Frova, informato dal suo collega Langher della situazione del nostro bambino, concluse che si doveva fare immediatamente un intervento per ovviare alla tracheomalaccia che ostruiva parzialmente la normale respirazione di Alberto. L’intervento, ci spiegò, consisteva nell’introdurre nella trachea di mio figlio una protesi a “T” che avrebbe permesso il passaggio dell’aria,oltre che dal buchino tracheale, anche dal naso e dalla bocca, vie fisiologicamente normali per tutti gli esseri umani, tranne che per Alberto, il quale da anni era abituato a respirare solo dal buchino che gli era stato praticato nella trachea. I suoi muscoli respiratori erano ormai abituati a quel movimento ridotto, utile a spingere fuori e a tirare dentro l’aria solo attraverso il percorso limitato per raggiungere quel buchino e non più idonei a compiere quello intero fino alla parte superiore, cioè fino al naso ed alla bocca. Oggi, dopo tanti anni posso dire che, secondo me, fu per il professor Frova il primo esperimento di quel tipo, fatto proprio sul mio bambino. Sono arrivato a questa deduzione avendo ora capito quale madornale errore venne commesso allora. Subito dopo l’intervento i medici otturarono con un tappino il buchetto della trachea di Alberto, pretendendo che il bambino ricominciasse subito a respirare dal naso e dalla bocca, senza nemmeno rendersi conto che era impossibile che ciò avvenisse, perché sarebbero occorsi forse anni di riabilitazione per riabituare Alberto a respirare in un modo che per lui era diventato innaturale. Fu così che lo mandarono in coma. Accortisi dell’inconveniente che avevano, magari anche in buona fede provocato, il giorno successivo tolsero quel tubo a “T” che avevano inserito nella trachea del bimbo e lo attaccarono direttamente al respiratore automatico. Per fortuna Alberto non subì ulteriori lesioni cerebrali in conseguenza al breve periodo in cui era stato in coma. Per non ammettere il loro errore ci venne detto che l’insufficienza respiratoria di Alberto era ormai diventata cronica e di conseguenza irreversibile. Per completare la loro opera, nei momenti in cui il bambino era ben sveglio, gli imponevano un respiratore portatile denominato Bird M7 giudicato dal primario idoneo ad un eventuale trasferimento in famiglia. Questa fu la giustificazione che venne data a noi genitori, sprovveduti in materia. Purtroppo però i medici non avevano preso in considerazione la reazione del suo fisico e quando per abituarlo veniva sottoposto durante la giornata per delle ore a quella ventilazione Alberto diventava cianotico, si irrigidiva e voleva strapparsi il tubo di ventilazione. Sicuramente questo respiratore era il meno adatto al suo modo di respirare. Così facendo lo stavano rendendo nuovamente insufficiente respiratorio cronico.
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Questa è la mia interpretazione dei fatti, ma successivamente ebbi la conferma che la mia intuizione era esatta. Quando si trattò di far proseguire ad Alberto la terapia a base di interferone consigliata dal professor Tarro, il professor Frova si rifiutò categoricamente nonostante avessi fatto salire da Napoli a Milano lo stesso professor Tarro per cercare di convincerlo con appropiate argomentazioni scientifiche. Il suo rifiuto fu categorico e da ciò capii che anche lui si era abbarbicato alla diagnosi ufficiale riportata sui documenti medici di Alberto, che non era poi altro che quella emessa da Marigo. Mi impose allora di trovare un altro immunologo che potesse valutare la situazione immunitaria di Alberto, presi perciò contatto col professor Ferdinando Dianzani di Roma e glielo proposi. A questo punto Frova mi rispose testualmente, forse tradendosi: “Speri che il professor Dianzani non sia uno di quelli che hanno detto di no a suo figlio!”. Il professore si accorse immediatamente dell’errore che aveva commesso pronunciando questa frase alquanto compromettente, per cui si vide costretto a proseguire la terapia a base di interferon, anche contro la sua volontà Ulteriormente cercò di fare il lavaggio del cervello anche a mia moglie, che viveva nello stesso box con Alberto, dormendo durante le notti su una poltrona, cercando di convincerla che era più conveniente staccare il tubo del respiratore perchè, secondo lui, nostro figlio non si sarebbe più ripreso. In un certo senso stava proponendole “l’Eutanasia.” La stessa cosa propose a me, ma quando si accorse della bestialità che mi stava prospettando e vista la mia furiosa reazione di rimando, ritornò sui suoi passi e mi lasciò, fors’anche per paura, nel suo studio da solo. Per fortuna Franca non accettò questa situazione e assieme a me continuò a lottare per salvare la vita al nostro bambino, se pur costretta a vivere in quell’ambiente in cui ci eravamo resi conto in che modo e con quali mezzi si cercava di risolvere il problema che li assillava. Di conseguenza l’aria che tirava in quel reparto, ormai, era diventata molto pesante. Ogni volta che io arrivavo da Verona dovevo aspettarmi una litigata col primario, perché avevo capito qual era il suo intento, voleva scaricarsi della patata bollente che aveva fra le mani e non sapeva come fare per non rendere palese questa sua difficoltà. Non tutti i medici condividevano la proposta del professor Frova, tanto meno gli infermieri poiché si erano affezionati ad Alberto e, quando non c’era il primario, lo coccolavano e usavano molte gentilezze a Franca, avevano capito quale enorme sacrificio lei stava compiendo. Riuscire a vivere giorno e notte in un box del reparto di rianimazione, anche per loro, abituati a quell’ambiente, pareva letteralmente impossibile. Franca con tanto coraggio ci riuscì! Il ricovero in quell’ospedale durò sei mesi! Dal 10 ottobre del 1983 all’ 11 aprile 1984. Durante quei sei mesi, tranne certi piccoli periodi che successivamente racconterò, io andavo tutte le mattine da Verona a Melegnano; partivo alle sette
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di mattina e ritornavo a casa alle due del pomeriggio per riprendere la mia attività di pranoterapeuta, diventata in quel tempo la mia professione. Alberto fra medico e infermieri nel box della rianimazione di Melegnano, con la sua mamma
Viaggio in India.
Un periodo in cui non andai a Melegnano a trovare Alberto e Franca fu quando feci un viaggio in India per cercare di ritrovare me stesso. Fra i miei pazienti vi erano dei devoti di Sai Baba, un grande veda (maestro) indiano. Sentii da loro parlare dei miracoli che egli compiva e fui così attratto da questa figura, per me misteriosa, che mi veniva descritta quasi misticamente da queste persone. Erano in special modo due signore che mi parlavano spesso dei fatti, a dir poco strani, che si verificavano a Puttaparti, la località dell’India meridionale dove vive il Santone. In quel periodo queste signore si erano rese disponibili a venire con me a trovare il mio bambino a Melegnano così, durante il viaggio, mi raccontavano le cose meravigliose che loro stesse avevano potuto ammirare essendo già state da Baba. Visto che un gruppo di persone del nord Italia partiva per l’India mi venne proposto di andare con loro per chiedere un aiuto a Sai Baba e per tentare di trovare la soluzione ai problemi di Alberto. A questa proposta non detti subito retta, ero talmente impegnato a litigare giornalmente col primario della rianimazione di Melegnano, che lasciai cadere la cosa nel dimenticatoio. Mi regalarono un libro che parlava di questo Sai Baba, dal titolo “L’Uomo dei Miracoli” (consiglio a tutti di leggerlo per la bellezza dei suoi contenuti) nel quale venivano descritti i fatti miracolosi che questo personaggio compiva. Fui affascinato dai racconti e cominciò a balenarmi l’idea di andare di persona a verificarli. Il problema era però quello di dover abbandonare, momentaneamente, il controllo della situazione nella Rianimazione di Melegnano, e soprattutto il controllo del professor Frova che, ormai avevo capito, voleva sbarazzarsi della presenza di Alberto. Queste nuove amiche mi garantirono la loro presenza a Melegnano, per cui mia moglie poteva stare tranquilla nel caso avesse avuto bisogno di qualche cosa. Mio fratello mi garantì anche lui il suo costante controllo della situazione in vece mia, in più la Comunità Italiana di Sai Baba mi offrì il viaggio. A questo punto presi la decisione e partii. In quel momento era indispensabile che ritrovassi me stesso, dal punto di vista spirituale, poiché con le precedenti esperienze avute con le più alte cariche della Cristianità, e con le delusioni patite, avevo perso la fede per me assolutamente indispensabile per continuare la ricerca della verità sulle vicende dei miei figli. In India trovai una concezione della vita molto diversa da quella della nostra civiltà. Nella sua miseria, questo popolo vive in una grande serenità; la loro
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religione comprende la reincarnazione e questo secondo me, è la chiave della loro “rassegnata felicità”. Non voglio fare paragoni fra le due concezioni di Religiosità, anche perché sicuramente non ne sarei in grado. Devo dire però che questo viaggio mi è servito molto, sono tornato più convinto che mai dell’utilità di ciò che avevo fatto per salvare la vita ad Alberto. Fui convinto anche che ciò che stavo facendo era indispensabile, non solo per mio figlio, ma per un numero imprecisato di altri esseri che, in quel momento, stavano subendo inconsciamente le sopraffazioni di una certa Casta Medicale attenta a difendere solo gli interessi di qualche potente anziché occuparsi, come sarebbe doveroso, del bene dell’Umanità. A Puttaparti in India
Sciopero della fame davanti al Quirinale
Il secondo periodo in cui lasciai momentaneamente Alberto fu quando decisi di andare a Roma davanti al Quirinale ad intentare uno sciopero della fame per chiedere aiuto al Presidente Pertini. Domandai ai miei amici se ci fosse stato qualcuno, fra di loro, disposto ad accompagnarmi in questa avventura. La risposta fu negativa, mi dissero che ero pazzo a fare un gesto così eclatante ed umiliante. Solo un ragazzo, che avevo conosciuto quando il giornale l’Occhio aveva parlato del nostro caso, si rese disponibile a seguirmi. Era un giovane nato da genitori italiani in Turchia, si chiama Fabio, parla la nostra lingua con un po’ di difficoltà, avendo vissuto molti anni a Smirne gli è rimasto l’accento della sua origine. Partimmo in macchina, avevo allora una 128 familiare un po’ vecchiotta, dovemmo fermarci più volte per la strada per mettere acqua nel radiatore, finalmente arrivammo a Roma. Non conoscevamo la Città Eterna, dovemmo chiedere più volte indicazioni per arrivare in piazza del Quirinale. Giuntivi, ci mettemmo d’accordo sul da farsi. Fabio doveva telefonare da una cabina alla stampa per comunicare la mia intenzione di compiere quel gesto, e così partì alla ricerca di una cabina telefonica che fosse in funzione. Srotolai lo striscione, che avevo precedentemente preparato fissando una tela bianca su due paletti, con una scritta rossa in cui chiedevo aiuto al Presidente Pertini per salvare la vita al mio figliolo. Legai con dello spago i due bastoni alla ringhiera che cinge la fontana di piazza del Quirinale, poi mi annodai alla stessa e rimasi in attesa. Uscirono dal Palazzo alcune persone, erano dei funzionari, uno di questi si qualificò come dott. Viola e mi chiese come mai avevo deciso di fare quel gesto. Risposi che intendevo fare lo sciopero della fame ad oltranza finché
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non si fosse provveduto a fare una verifica nell’Ospedale dove era ricoverato Alberto, giacché in quel luogo mio figlio non veniva curato ma si attentava alla sua vita. Già una ricca documentazione del mio caso giaceva al Quirinale, conoscevano molto bene la nostra vicenda, tuttavia mi perquisirono, guardando anche dentro al borsello che avevo con me; verificato che non vi era, per loro, alcun pericolo, mi dettero l’ assicurazione che mi avrebbero fatto parlare col Presidente Pertini. Mi fidai di loro, lasciai borsello e striscione dove li avevo legati e mi avviai verso il Palazzo pensando che finalmente avrei avuto l’opportunità di parlare direttamente al Presidente. Qualche fotografo immortalò la scena ma come fui nell’androne, due gazzelle della polizia mi bloccarono, avevano già strappato e messo nel bagagliaio della macchina lo striscione ed il borsello, dopo di che, di peso caricarono anche me. Durante il tragitto pregai i poliziotti di fermare l’auto perché avevo visto Fabio che, trafelato, stava tornando al luogo dell’appuntamento. Lo fecero salire e tutti e due ci ritrovammo al posto di polizia. Un funzionario cominciò ad interrogarci, volle sapere un mucchio di notizie; alla fine, minacciando di rinchiuderci in cella se avessimo tentato un’altra volta un gesto simile, ci lasciò andare. Mortificati e avviliti, per le minacce ricevute, tornammo a cercare la nostra macchina per far ritorno a Verona. Nonostante l’impresa fosse fallita, speravo tuttavia di aver sensibilizzato almeno qualcuno del Palazzo, e fu così. Pochi giorni dopo mi telefonò un signore dicendomi che era un dipendente del Quirinale che aveva assistito alla scena accaduta, offrendomi inoltre la sua disponibilità nel caso ne avessi avuto bisogno. Trasferimento d’ufficio di Alberto da Melegnano al Policlinico di Verona
Intanto a Melegnano il professor Frova aveva trovato la formula per scaricarsi del peso di Alberto. Ci aveva convinto che era ora che il bambino ritornasse a Verona, non certamente a casa, ma in un ospedale della nostra città, diceva lui, per sollevare mia moglie del sacrificio che aveva compiuto rimanendo sei mesi lontana da casa e, aggiunse, che era anche giusto che Alberto si riavvicinasse a suo fratello Luca, a cui era molto affezionato. Con queste giustificazioni scrisse una lettera al Presidente della USL della nostra città, dottor Facchini, mettendo in evidenza la manualità che Franca aveva acquisito nel gestire Alberto, descrisse anche qual era il respiratore utile nell’eventualità si fosse deciso di portare a casa il bambino in un secondo momento. In questo modo ci aveva illuso di un possibile trasferimento di Alberto nella nostra abitazione, ma intanto prendeva accordi con il primario del Reparto Rianimazione del Policlinico di Borgo Roma di Verona, perché il bimbo fosse trasferito momentaneamente in quella sede. Così il professor Frova si toglieva un “peso” dallo stomaco. D’ufficio fece trasferire
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Alberto con un’autolettiga sulla quale avevano preso posto anche il dottor Servadio e l’infermiera Rita, divenuta molto amica di Franca e di Alberto. Io ero già arrivato al Policlinico sapendo più o meno l’ora dell’arrivo dell’ambulanza. Salii le scale di corsa per vedere mio figlio, ma quando arrivai davanti alla porta della Rianimazione mi bloccarono, non si poteva entrare. Dopo un po’ uscì anche Franca informandomi che il viaggio era andato bene ma che il primario, professor Ischia, non volendo estranei nel Reparto, aveva dato ordine che lei non potesse rimanere all’interno con Alberto. Ci venne detto che il reparto non era munito di un box all’interno del quale potessero rimanere mamma e figlio da soli, come era avvenuto a Melegnano. Successivamente venni invece a sapere che nel reparto il box c’era, solo che veniva usato dal professore per praticare la terapia antalgica ai suoi pazienti privati. Mi irritai non poco quando venni a conoscenza di come stavano le cose, immediatamente andai a cercare il professor Ischia per chiarire il fatto. Ebbi uno scontro abbastanza violento con scambi di parole, da parte sua, alquanto pesanti, sicuramente avevo messo il dito in una piaga e questo non era assolutamente permesso ad uno come me che, secondo lui, non doveva interessarsi di cose che riguardavano il buon andamento del suo Reparto. Alla fine, il professore accettò il compromesso: mia moglie poteva restare all’interno con Alberto, ma nel salone, dove c’erano anche altri ammalati molto più gravi di lui, la maggior parte in coma, mentre Alberto era vigile e per di più a rischio di infezioni essendo immunodepresso. Ne parlai con Franca, non ci veniva offerta nessuna alternativa, si rassegnò all’idea e coraggiosamente accettò, pensando quasi con rimpianto a quei sei mesi passati a Melegnano, dove per lo meno, aveva vissuto in un modo un pò più dignitoso avendo a disposizione oltre ad un minimo di privasy anche una poltrona per riposare. Questa volta si vedeva costretta ad accettare di rimanere giorno e notte seduta su una sedia di fianco al letto: ma almeno, disse, sono vicina al mio bambino. Voglio ricordare un episodio che accadde in quel reparto; Franca mi raccontò che una notte dopo essersi assopita seduta sulla sedia, con la testa appoggiata sul cuscino di Alberto, improvvisamente si svegliò, vide l’infermiera che stava aspirando il bambino con il sondino d’aspirazione della paziente accanto, una signora di una certa età con un tumore e con l’epatite virale, che stava morendo. Immediatamente prese di mano il tubo col sondino d’aspirazione all’infermiera e fece finta di farlo cadere a terra affinché fosse sostituito. Non so se vi rendiate conto cosa significava questo gesto: mio figlio è un immunodepresso, cioè parzialmente privo di difese immunitarie, e quella infermiera, forse inavvertitamente, stava infilando in trachea il sondino che era precedentemente servito per aspirare la signora in coma. Questo non fu l’unico episodio che dovemmo subire, ve ne furono di molto più gravi. Alberto era sempre attaccato al respiratore, non veniva staccato nemmeno un momento, poichè, era stato
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deciso, dovesse essere insufficiente respiratorio cronico. Franca si accorse che, seppur attaccato al respiratore, il bambino aveva qualche respiro spontaneo, vedendo una lucetta del respiratore che avvisava quando il paziente faceva dei respiri senza l’aiuto della macchina. Avevamo portato a casa da Melegnano un respiratore da anestesia, un Contron, che ci era stato imposto dal professor Frova prima di trasferire Alberto a Verona. Incominciai a darmi da fare per allestire a casa la sala di rianimazione utile a trasferirvi mio figlio quando me ne fosse stata data l’opportunità. Mi ero procurato anche un piccolo gruppetto elettrogeno insonorizzato e, aiutato da un tecnico, avevo anche preparato un rudimentale gruppo di continuità con incorporate delle batterie, nel caso fosse mancata la corrente elettrica. Il mio legale ed amico avvocato Carlo Segala era convinto che, col trasferimento a Verona, Alberto sarebbe migliorato poiché, diceva lui, forse i medici che avevano sbagliato a curare Andrea, avendo capito il loro errore, avrebbero sicuramente curato meglio Alberto. La sua tesi si dimostrò immediatamente errata, quando si trattò di fare al bambino la terapia immunostimolante, ordinata dal professor Tarro, si rifiutarono categoricamente di metterla in atto, anche perché, in quel Policlinico svolgeva la sua attività di Direttore della Medicina Legale il, già tante volte nominato, professor Marigo, per cui i sanitari sottostavano ai suoi ordini. Molte telefonate, in quei giorni, intercorsero fra me e i funzionari del Quirinale. La dottoressa Sepe, alla quale mi ero rivolto spiegandole che mio figlio in quel Reparto veniva solo assistito e non curato, attraverso la Croce Rossa Italiana, all’insaputa dei medici di Verona, aveva organizzato il trasferimento di Alberto a Napoli. Finalmente, al di fuori dell’infuocata polemica che si era accesa con la sanità veronese, la Sepe decise che Alberto fosse posto nelle mani del professor Tarro, indicato da noi genitori come unico medico curante del bimbo. Era anche arrivata al Professore, mandata per conoscenza anche al Presidente della Repubblica ed al Corriere della Sera, una lettera raccomandata contenente un appello scritto dai bambini di una scuola elementare di Pescantina, con un foglio accompagnatorio a firma della maestra, signora Maria Montanari. Questo è il contenuto: Egregio Professore, Signor Tarro, siamo amici di Alberto Tremante, gli vogliamo molto bene, vogliamo che guarisca purtroppo sappiamo che solo Lei, grandissimo e sensibile Professore, può aiutarlo. Lo chiami a Napoli nel suo ospedale e gli presti le sue preziose cure, non lo abbandoni perché solo Lei ha dimostrato di saperlo curare con tanta perizia ed alto senso di umanità. Noi preghiamo Dio, ogni giorno, perché Lei accetti Alberto nel suo ospedale e tenti di farlo star meglio, dando così un aiuto anche ai suoi genitori che sono distrutti dall’attesa e dall’assistenza troppo prolungata. Siamo fiduciosi in Lei e facciamo appello alla sua grande sensibilità. Alunni delle classi II^ e III^ di Pescantina (Verona) Seguita da tutte le firme dei bambini, con aggiunte poche righe delle
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loro insegnanti:”Le insegnanti, che conoscono il doloroso dramma della famiglia Tremante e lo seguono anche attraverso i giornali, si uniscono ai loro alunni pregandoLa, esimio Professore, perché presto prenda in cura Alberto e lo aiuti con le sue straordinarie capacità mediche a ridargli la forza di vivere la sua vita in modo più sereno e normale. Con stima e fiducia. Maria Montanari – Rosaria Siniscalchi – Mariarosa Leardini – Luciana Tenuti.” Purtroppo però Tarro non aveva a disposizione, all’ospedale Cotugno, dove lavora, un reparto di rianimazione adatto ad accogliere il mio figliolo. I Funzionari del Quirinale presero allora contatto col professor Ruggero dell’Ospedale Santo Bono di Napoli dove c’era il reparto di rianimazione necessario per il ricovero di Alberto. Questo professore dette subito la sua disponibilità ma quando i medici di Verona vennero a conoscenza che il bambino doveva essere trasferito, pensando che gli sarebbe sfuggito dalle mani, misero in atto la loro infame opera per bloccare il trasferimento. Il posto nel reparto di Rianimazione all’Ospedale Santo Bono di Napoli non esisteva più, l’ambulanza predisposta dalla Croce Rossa Italiana era stata giudicata dai medici del reparto troppo pericolosa per un viaggio così lungo. Feci allora altre telefonate al Quirinale cosicché il Presidente Pertini, capiti gli innumerevoli ostacoli che venivano posti dai sanitari di Verona, decise di mettere a disposizione di Alberto l’aereo presidenziale che volò a Verona, all’aeroporto di Viallafranca, in attesa di trasportare il bambino a Napoli. Nemmeno il gesto del generoso Presidente servì a convincere i medici a mollare la loro ”Preda”. Tentativo di bloccare Alberto in Ospedale. Mi tolgono la Patria Potestà
Alberto nel “Lager” dell’ospedale di Borgo Roma
Per bloccare definitivamente Alberto nel reparto dove avevano già sentenziato dovesse morire entro breve tempo, mandarono una lettera al giudice dei minorenni di Venezia dott. Giacomo Carlini nella quale si sollecitava lo stesso a bloccare il bambino all’interno dell’Ospedale. Avevo avanzato l’ipotesi di portarmelo a casa, dove avevo già allestito tutto il necessario per la sua sicurezza, in quanto pensavo che in qualche modo potessero ulteriormente nuocergli. Il Tribunale per i minori di Venezia emise così un decreto che fu inviato per fonogramma alla Direzione Sanitaria dell’Ospedale di Borgo Roma che testualmente riporto: ” IL TRIBUNALE PER I MINORI DI VENEZIA riunito in Camera di Consiglio e composto dai seguenti Giudici:
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CARLINI Dr. Giacomo -Presidente Est. SERGIO Dr. Gustavo -Giudice TORLONE Dr. Italo -Componente privato GHEZZI Sig.ra Cecilia -Componente privato Ha emesso il seguente Decreto Vista la segnalazione dalla quale risulta la precaria situazione del minore TREMANTE Alberto nato a Verona il 4/8/1976, figlio di Tremante Giorgio res. Verona, Via f.lli Rosselli 6/B, ricoverato in ospedale per una grave malattia, che il padre, testimone di Geova, intende riportarlo a casa nonostante il rischio che una interruzione delle cure comporta; Ritenuta la necessità di provvedere con urgenza; P.Q.M. Visti gli articoli 333, 336 Cod.Civ. 741 cpv. Cpc. ; Ordina l’allontanamento temporaneo dalla residenza familiare del minore Tremante Alberto ed il suo ricovero presso l’Ospedale Civile di Verona – Borgo Roma con divieto di riconsegnarlo al padre fino a nuovo ordine di questo Tribunale Il decreto ha efficacia immediata. Si comunichi al padre del minore e al P.M. anche per la richiesta di provvedimento definitivo. Si trasmetta copia del decreto al G.T. di Verona, al Comune ed alla Questura di Verona. Si comunichi con fonogramma alla Direzione Sanitaria dell’Ospedale di Verona Borgo Roma. Venezia 24/4/1984 IL PRESIDENTE EST. F.to Dr. G. CARLINI IL CANCELLIERE F.to S. SCIUTO Depositata in Cancelleria il 24/4/1984 N.391/84 R.R. (da citare nella corrispondenza) Documento del Giudice Carlini che mi toglie la patria potestà
A questo punto non ero più il padre di mio figlio: con un inganno ignobile, facendomi passare per testimonio di Geova, mi tolsero la Patria potestà.
Pur avendo tutto il rispetto per queste persone, io non ero e non sono tutt’ora testimonio di Geova, ma implicitamente mi si voleva far passare per un genitore che non voleva curare suo figlio. Fu per me una grandissima umiliazione quando mi lessero questo fonogramma. Il giorno successivo, senza perdermi d’animo, accompagnato da mio fratello mi recai a Venezia a parlare col Giudice Carlini al quale raccontai come stavano
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realmente le cose. Fortunatamente il Giudice capì di essere stato ingannato e, davanti a noi, telefonò immediatamente al Reparto di Rianimazione del policlinico di Verona. Al telefono rispose il medico di guardia dott. Passerelli, conversò col Giudice ed alla fine, dopo una strigliata che lo stesso dottor Carlini probabilmente gli dette, ammise certe responsabilità e si scusò. All’interno del Reparto mia moglie assistette alla telefonata fra il Magistrato e il dott. Passerelli, il quale, arrabbiatissimo, alla fine si rivolse a Franca dicendole:”Che casino (sic) è andato a fare a Venezia suo marito?”. Che coraggio ebbe questo medico! Credeva che avessi accettato il dictat imposto dai suoi colleghi e da lui stesso senza muovere un dito? Anche se mi avevano fatto togliere illegalmente la patria potestà, con la forza della disperazione lottavo per salvare la mia creatura, quanta arroganza e quanta cattiveria dentro a quei camici bianchi! Il 30 aprile arrivò finalmente un altro fonogramma a firma del Giudice Fiorio dr. Giampaolo che revocava il precedente decreto. Ma non era ancora finita, dovevo impedire che facessero ulteriori danni al bambino per confermare quell’infausta diagnosi di Sindrome di Leigh voluta a tutti i costi da Marigo. Con la pretesa di eseguire ulteriori accertamenti avrebbero potuto ancora danneggiarlo; portai così un documento al medico di guardia dott. Renzo Miglioranzi nel quale avevo scritto e firmato questa frase:” Mi oppongo ad ogni tipo di accertamento che si voglia fare presso questo Istituto.” Dopo giorni d’ansia e di frenetiche corse, finalmente, alle 22 del 30 aprile mi trovai in uno studio interno all’Ospedale assieme al mio avvocato per firmare il documento che mi permetteva di portare a casa Alberto. Erano presenti alla firma oltre a me e all’avvocato Carlo Segala, il Sovrintendente Antonio Scannagatta, il primario professor Ischia e il professor Marigo: fu l’ultima volta, per mia fortuna, che lo vidi. Portammo a casa il bambino sull’autolettiga con due carabinieri. Ad accompagnarci venne il dottor Miglioranzi al quale chiesi, arrivati al portone della nostra abitazione, se per cortesia poteva salire nel nostro appartamento per verificare che i valori impostati da noi al respiratore, fossero adatti per la respirazione di Alberto. Con lui ci conoscevamo dai tempi in cui entrambi frequentavamo il Gruppo Amici degli Spastici, per cui pensavo che, come amico, non mi poteva negare questo favore. Volevo assicurarmi di non aver sbagliato qualche dato, poiché, in quel momento, Alberto aveva bisogno continuativamente di quel macchinario per respirare. La riposta fu negativa ed aggiunse che gli era stato ordinato di assisterci solo durante il trasporto con l’ambulanza e dato assoluto divieto di occuparsi d’altro. Finalmente Alberto a casa, però totalmente dipendente dal respiratore
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Alberto attaccato al respiratore (da anestesia) continuativamente
Grazie alla nostra cocciutaggine e al nostro coraggio e perché ce ne assumemmo tutta la responsabilità, Alberto fu il primo episodio in assoluto in Italia in cui il paziente veniva portato fuori da un Reparto di Rianimazione, nel nostro caso contro il parere dei sanitari, e senza la dimissione ed il relativo trasferimento in un reparto di cura. Da quella nostra esperienza poterono trarre vantaggio tutti i distrofici italiani. Quando i loro muscoli respiratori indebolendosi arrivavano all’insufficienza respiratoria, prima che noi compissimo quell’audace gesto, erano lasciati morire in quei reparti. Dopo di noi, tutti poterono ritornare alle loro case muniti di respiratore. Finalmente si era capito che l’assistenza domiciliare è molto più adatta e conveniente per chi, come i distrofici, ha questo tipo di patologia respiratoria, non solo per il minor costo sanitario, ma anche per la dignità della persona ammalata. Da quella data, 30 aprile 1984, mio figlio non ha subito più alcun ricovero in ospedale e, come ci aveva consigliato il professor Damia, ci siamo attrezzati nel migliore dei modi, con ogni mezzo possibile per curarlo a casa. Dopo di che presentai al Tribunale di Venezia una ulteriore denuncia querela per “sequestro di persona e per calunnia”,(non essendo io, né testimonio di Geova né pazzo, mi sentii offeso dalla falsità usata come giustificazione e adottata dai sanitari nei confronti miei e di Alberto). Come era ovvio, anche questa denuncia dopo qualche tempo fu archiviata. (era la seconda denuncia che subiva questa fine, ma non l’ultima). A casa, Alberto rimaneva attaccato al Contron (il respiratore che ci era stato imposto dal professor Frova a Melegnano) costantemente. Incominciai pian piano a capire il funzionamento di quel respiratore che soffiava aria nei polmoni di mio figlio senza permettergli di poter fare dei respiri spontanei, gli imponeva un ritmo ed Alberto subiva passivamente il suo comando. Per fortuna, un mio amico che lavora nel campo delle apparecchiature elettromedicali mi informò che quell’apparecchio era adatto solo per l’anestesia, non certo per la rianimazione, così se avessi lasciato per lungo tempo il bambino attaccato a quella macchina non avrei potuto staccarlo mai più. Cercai d’indagare più a fondo su questo argomento e ricordai che Alberto si era adattato bene ai respiratori usati nei Reparti Ospedalieri che erano sicuramente più adatti alla sua situazione respiratoria. Presi contatto con un bravissimo rianimatore che lavorava nell’ospedale di Campo San Piero, in provincia di Padova, il professor Lorenzo Torelli, una persona al di fuori della sanità veronese, non immischiato nella polemica per cui, per me, sicuramente più affidabile. Torelli è un vero studioso nel campo della rianimazione, una persona molto seria, umile, affabile e onesta. Quando prospettai a lui la situazione di mio figlio, mi disse subito che,
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prima di tutto, bisognava assolutamente cambiare il respiratore con un modello più aggiornato di quelli che c’erano in Rianimazione e che, per farlo funzionare, occorreva predisporre un impianto di aria compressa. Un ulteriore problema che veniva sovrapposto ai tanti già esistenti. Non mi persi d’animo, contattai la Tecnoaria il cui titolare signor Casarotto mi prospettò una soluzione fattibile da istallare nel mio appartamento, per alimentare d’aria la macchina e farla funzionare come in un reparto ospedaliero. Aspettai con ansia l’arrivo di quel congegno, mi avrebbe dato la possibilità di svezzare il piccolo e renderlo autosufficiente almeno per qualche ora al giorno. Quello che aspettavo era l’ultimo modello di respiratore che veniva usato nei Reparti di Rianimazione, simile a quello che era servito ad Alberto nelle Rianimazioni di Milano, di Melegnano e di Borgo Roma. Quel tipo di apparecchio ci dava la possibilità, attraverso il lampeggiare di una luce spia posizionata sulla macchina, di indicarci che il paziente riusciva a fare qualche respiro da solo. Pensammo subito che anche Alberto con quel mezzo a disposizione avrebbe potuto ancora riprendere a respirare autonomamente. Il costo? Per noi era proibitivo, circa 38 milioni più accessori. Decisi allora di fare un finanziamento in Lising, pagai un milione al mese per un periodo. Successivamente, superando non poche difficoltà burocratiche che mi vennero poste ancora dalla sanità veronese, riuscii a far valere il diritto che mio figlio aveva di adottare questo ausilio indispensabile alla sua situazione; presentai perciò regolare richiesta al Servizio Sanitario che si accollò l’onere e mi concesse l’apparecchio in comodato. Alberto definitivamente a casa. Incomincia una nuova vita
Attrezzature di supporto al respiratore, istallate sul balcone della nostra abitazione
Ora si doveva incominciare, con l’aiuto del professor Torelli, a tentare di svezzare Alberto da quella dipendenza, per lui fisica e per noi essenzialmente psicologica. Iniziammo molto lentamente, in principio avevamo paura, concedendogli qualche volta un minuto di respiro spontaneo; poi gradatamente aumentammo arrivando nell’arco di un anno a dargli una autonomia respiratoria di qualche ora giornaliera. Era un traguardo importante quello che avevamo raggiunto, pensando soprattutto che ci era stato detto da persone qualificate, quei medici che avevano avuto in cura precedentemente il bambino, che non avremmo più potuto staccarlo da un respiratore essendo la sua una insufficienza respiratoria cronica irreversibile. Quel risultato fortunatamente li stava smentendo. Per migliorare il trofismo muscolare e la condizione psicofisica, visto che la sua autonomia respiratoria ce lo permetteva, iniziammo ad adottare il metodo Doman. Fu un periodo di intenso ed
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impegnativo lavoro, dovendo effettuare circa sei ore al giorno di vari schemi di ginnastica passiva. Alberto all’inizio era un po’ restio perché doveva farsi, in un certo senso, manovrare dalle persone che attuavano lo schema. Il “Doman” prevedeva anche lo striscio sul pavimento e questo movimento per lui era alquanto difficoltoso, poiché a pancia sotto era disturbato dalla cannula tracheostomica; dovemmo perciò inventare un supporto in gommapiuma in modo tale che, strisciando, la cannula non gli desse fastidio.
Alberto che esegue una sequenza “lo striscio” del Metodo Doman
Gli esercizi venivano svolti da quattro persone per volta e potete rendervi conto che cosa significasse dal momento che gli esercizi si ripetevano per sei ore al giorno. Ogni turno era di quattro persone e durava più o meno un’ora, e quelli che si ruotavano per mantenere il ritmo erano circa 24 o 28 volontari. Qualche volta ci siamo trovati ad avere la disponibilità di persone volonterose addirittura in numero di 40 o 50 al giorno. Anche in questa circostanza fu chiesto aiuto alla Chiesa, alle due parrocchie vicine alla nostra abitazione, ma inutilmente. Dovemmo rivolgerci altrove. Ad Alberto piacque poi fare questo tipo di ginnastica, prevalentemente perché aveva modo di conoscere nuovi amici, come lui li considerava. Si faceva subito voler bene da tutti e quelle persone erano importanti anche per la sua socializzazione. Questo ritmo di lavoro durò per circa tre anni, in modo un po’ discontinuo. Dopo di che, con Alberto, avendo acquisito una maggiore autonomia respiratoria, potemmo iniziare ad uscire addirittura per una giornata intera, senza che lui sentisse la necessità di essere attaccato al respiratore. Questo veniva usato solo alla notte o nei momenti di acuzie, qualche bronchite ed anche qualche polmonite, risolte sempre senza dover più ricorrere al ricovero in ospedale. Incominciammo ad andare in campeggio, anche se solo per l’arco di tempo di una giornata, sul lago di Garda dove abbiamo ancora oggi parcheggiata la nostra roulotte. Se pur il tempo era limitato, per noi era già sufficiente aver potuto far cambiare aria al nostro ragazzo. Alberto sul capottino al mare al Cavallino di Iesolo
Alberto ha sempre definito il lago il suo habitat e la vita all’aria aperta pian piano lo stava irrobustendo. Facemmo anche delle puntate al mare, a Cavallino di Iesolo, andata e ritorno in giornata, appoggiandoci ad un pensionato di suore che gentilmente ci permettevano di passare attraverso il loro viale per raggiungere la spiaggia con la macchina attrezzata per tutte le necessità: aspiratore, bombola di
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ossigeno e quant’altro fosse servito. E’ sempre felice, quando può rivedere il mare, si diverte in acqua sul canotto che lo zio gli ha regalato; tornando la sera è stanco, ma contento per aver potuto vivere a pieno brevi ma intense avventure marine. Ha anche un altro desiderio: ogni anno, a fine estate, vuole ritornare a rivedere i Lidi Ferraresi, soprattutto la casa del Lido degli Scacchi dove eravamo stati in ferie per l’ultima volta nell’ormai lontano 1983. Dall’ultimo ricovero in ospedale la vita nella nostra famiglia era cambiata radicalmente, sostituimmo la nostra camera matrimoniale con la stanza attrezzata a rianimazione per Alberto. Abitavamo al terzo piano di un grande condominio, sul terrazzo istallammo tutte le attrezzature di supporto per garantire la continuità di funzionamento all’apparecchiatura interna. La stanza di Alberto era luminosa arredata con un grande armadio guardaroba sul fondo, di lato una lunga scrivania costruita appositamente perché la sedia a rotelle potesse starci sotto, sopra ad essa delle mensole con i libri e tutti i ricordi cari che lui conserva gelosamente. In un angolo c’èra il suo letto e dietro ad esso erano posti il respiratore, l’aspiratore, il capnografo e l’ossimetro, tutti strumenti utili a monitorizzare la sua respirazione. La cosa che gli piaceva di più era sicuramente la parete sovrastante il suo letto che si sarebbe via via arricchita di numerosi poster: quello della squadra di calcio del Verona, sua squadra del cuore, inoltre la squadra di calcio dei cantanti, dove è fotografato anche il suo idolo ed amico Gianni Morandi che ha avuto l’opportunità di conoscere e di vedere personalmente più volte; le foto della rossa Ferrari con gli autografi dei grandi Campioni del team di Maranello che gli furono regalate essendo socio dello stesso Club; la foto di Baglioni e di Antonello Venditti che ha conosciuto durante un concerto all’Arena. Tutti i suoi miti sarebbero stati li, fotografati a tenergli compagnia giorno e notte. Ha una grande passione per la musica, ascolta spesso le cassette dei suoi cantanti preferiti,e talvolta, lo troviamo con le braccia alzate che segue il ritmo delle canzoni che lo appassionano di più. La mia menomata famiglia al completo nel 1990
Alberto può frequentare la scuola assieme ai compagni
Alberto davanti la Commissione d’esame di licenza media
Il problema educativo e scolastico era quello che dovevamo affrontare per dare ad Alberto la possibilità di sviluppare la sua intelligenza. Aveva fatto fino ad ora,
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un tipo di scuola cosiddetta “paterna”; bisognava tentare di inserirlo in un ambiente scolastico per migliorare il suo rapporto col mondo esterno ed evitare che la sua vita rimanesse ristretta al solo ambito familiare. Mi premurai di andare a parlare con qualche responsabile della scuola elementare dove avevo iscritto il bambino, iniziai così con la capogruppo delle insegnanti della scuola Pertini. Trovai un grosso ostacolo con questa maestra, non aveva nessuna sensibilità nei confronti dei bambini portatori di handicap. Era una signora di mezza età, nubile; durante il colloquio che ebbi con lei fu molto fredda, fra le altre cose mi chiese, cosa mi sarei aspettato di ottenere inserendo nella scuola un soggetto così grave. Ebbi l’impressione che la sua reazione fosse stata così dura anche perché avevo indicato nella vaccinazione la causa dei problemi che avevano ridotto Alberto in quelle condizioni. Probabilmente le sue convinzioni personali, non le facevano assolutamente ammettere che la natura di queste patologie fosse da imputarsi alla vaccinazione e di conseguenza considerava una assurda presunzione voler iscrivere Alberto, con tutti i suoi problemi, ad una scuola pubblica. Mi rivolsi successivamente al Direttore Didattico del Circolo scolastico di appartenenza, il dottor Marogna. Trovai, in questa persona, una grande disponibilità nell’ascoltarmi ed era molto interessato a sentir parlare di cosa ci era successo, forse perchè, e questo lo seppi più tardi, anche lui stava vivendo un problema simile al nostro con un suo nipotino. La maestra Richetta, della sezione scolastica alla quale era stato assegnato mio figlio in quinta, era invece una persona sensibile ai problemi dei più deboli, era molto religiosa, si prodigò molto per istaurare un rapporto di simpatia con Alberto e di conseguenza con la sua insegnante di sostegno che lo seguiva già da qualche tempo negli anni della “scuola paterna”. Richetta e Silvana, questi erano i nomi delle insegnanti, incominciarono così a lavorare assieme, cercando un percorso scolastico utile al bambino per il suo inserimento nella scuola. Alberto, purtroppo, non aveva potuto frequentare la scuola elementare, la sua precaria salute ancora non glielo permetteva. Le due maestre si dettero da fare perché non sentisse la mancanza della partecipazione diretta alla vita scolastica, si organizzarono e qualche volta portarono a casa i compagni di scuola, così anche Alberto poté socializzare con loro e fare nuove entusiasmanti esperienze ed amicizie. Silvana segue Alberto ormai da quindici anni. E’ una signora dolce, simpatica e burlona, del segno del leone, come Alberto. Ha passato con lui molte ore della giornata insegnandogli le nozioni scolastiche, attraverso i vari gradi fino al diploma magistrale, ma anche quelle della vita pratica. Ha un carattere fermo, arriva sempre dove si prefigge di arrivare, è simpatica perché trova sempre qualche soprannome ad ogni persona. Glielo appiccica come un’etichetta, o in base all’aspetto fisico o al carattere, per cui tra Alberto e Silvana, i soggetti, vengono indicati non più col loro vero nome, ma con quello pseudonimo che la stessa maestra gli ha messo addosso, dando origine così ad un loro codice segreto. E’ stata la persona giusta per mio figlio
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per tutto il lungo percorso scolastico: Alberto le si è affezionato molto e la considera una seconda mamma. Con lei ha delle manifestazioni di dolcezza, la bacia, la coccola e qualche volta, quando serve, anche litiga. Si è sempre resa molto disponibile nei nostri confronti, non c’è mai stato un viaggio che noi abbiamo fatto per Alberto, in qualsiasi località e per qualsiasi motivo, che lei non sia venuta assieme a noi. Anche quando c’è stata necessità per motivi di salute familiare lei ci è sempre rimasta vicina; ha però anche lei i suoi difetti e molte volte ha avuto con me degli scontri schietti. Probabilmente perché abbiamo due modi diversi di vedere le situazioni, ma le nostre discussioni, al fine, sono state sempre per il bene di Alberto. Il giorno in cui mio figlio poté frequentare, assieme all’inseparabile Silvana la scuola media fu memorabile. Era la prima volta che gli era permesso di seguire, fisicamente, le lezioni in classe con i suoi compagni, per lui era il primo giorno di scuola. Era questa un’esperienza nuova e stimolante che gli procurò non poca emozione. L’edificio scolastico, per fortuna, era molto vicino alla nostra abitazione, era sufficiente attraversare la strada per trovarsi già nel cortile delle “Fedeli”, questo era il nome della sua scuola. Silvana rimaneva con Alberto durante le lezioni, io e mia moglie, a turno, fuori nel corridoio pronti ad intervenire nel caso ci fosse stata necessità poiché era possibile che si verificassero in Alberto degli imprevedibili cali respiratori; per questo motivo era assolutamente necessario un intervento tempestivo con l’ambu per aiutarlo a respirare. Frequentò abbastanza assiduamente, quando la salute glielo permetteva, tutti gli anni della scuola media; il suo percorso scolastico fu più lungo dei tre anni normali, avendolo dovuto qualche volta fermare nella stessa classe un anno in più. Ebbe modo di conoscere materie nuove ed interessanti, specialmente per lui; si applicava nello studio al pari dei suoi compagni, le discipline che gli piacevano di più erano: scienze e geografia. Per mezzo della geografia ha potuto così imparare a conoscere le varie località del mondo, e per mezzo delle scienze gli innumerevoli miracoli di madre natura. Il programma che svolgeva, tranne qualche argomento che non poteva seguire causa la sua condizione fisica, è quello ministeriale che si pratica regolarmente in tutte le Scuole Medie Statali. Si creò con i suoi compagni un ottimo rapporto, qualcuno lo veniva a trovare anche a casa e durante le festività arrivavano addirittura a gruppi di sei o sette per fargli festa, con dei mega biglietti di auguri, con disegni e scritte fantasiosi fatti a mano da loro. Tutto questo rendeva Alberto molto felice, perché i suoi amici lo facevano sempre partecipare ai loro programmi e alle loro allegre e vivaci avventure. Si sentiva inserito pienamente in quell’atmosfera studentesca, si era veramente amalgamato con quel gruppetto di ragazzi anche se di età inferiore alla sua. Essi avevano addirittura imparato a capirlo quando si esprimeva con il suo alfabeto gestuale, per cui il signorino non sentiva quasi più la necessità che Silvana gli
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facesse da interprete. Arrivò il giorno in cui, come tutti i suoi compagni, anche lui dovette affrontare l’esame di licenza media. Fu una giornata sicuramente indimenticabile, per Alberto, per noi genitori, ma molto più per Silvana la quale, il mattino della prova, si presentò a prenderlo a casa tutta agitata: era più emozionata dell’alunno, sembrava che dovesse essere esaminata lei invece del ragazzo. Sicuramente era un traguardo importante, oltre che per mio figlio, anche per la sua maestra, poiché aveva speso una grande quantità di energie per l’ottima preparazione che era riuscita a dargli. L’esame fu superato brillantemente, li vidi uscire dall’aula stanchi e trafelati ma era evidente la soddisfazione che si leggeva nei loro occhi per aver compiuto questo importante passo in avanti. Seppi poi dalla presidente di Commissione che Alberto si era comportato molto disinvoltamente giocando furbescamente sul fatto di essere portatore di handicap. Il ragazzo era pimpante, orgoglioso per il successo conseguito; quando ebbe in mano il suo diploma di licenza media, tutto soddisfatto si esibiva al punto tale da sembrare proprio un pavone quando, per mettersi in mostra, fa la ruota con la sua coda variopinta. Eravamo tutti felici, soprattutto io, poiché pensavo a quanto era stato dichiarato da quel primario di pediatria che aveva definito mio figlio: “amimico ed idiota”. Il diploma di licenza media ottenuto da Alberto era per me, fors’anche a dispetto di quel pediatra, un’ulteriore dimostrazione tangibile che invece lui aveva tutte le capacità intellettive utili a smentire quelle assurde definizioni e per poter proseguire ulteriormente negli studi. Alberto con i suoi compagni delle medie
Diagnosi definitiva del professor Tarro Diagnosi definitiva di Tarro
Finalmente nel 1990 il professor Tarro, dopo dieci anni che seguiva costantemente Alberto, poté ufficializzare la sua diagnosi in modo circostanziato e preciso; ormai non vi erano più ipotesi, come nel documento che aveva antecedentemente stilato, ma certezze. In questo modo si pronunciò con sicurezza nella sua ponderata conclusione: ” Caro Signor Tremante, Le invio la relazione, reiteratamente richiesta,pertinente a Suo figlio Alberto di cui mi ero occupato ripetutamente tra il 1980 ed il 1984 e sullo stato di salute del quale Lei mi ha successivamente e periodicamente tenuto informato. Le considerazioni tratte su Alberto valgono di conseguenza sul gemello monoculare Andrea
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deceduto all’età di quattro anni (1980). Credo che i quesiti posti in casi del genere riguardino la causa della malattia e le eventuali responsabilità iatrogene. Bisogna partire quindi dalla relazione che io Le scrissi il 17.11.80…………………………… Personalmente mi sono occupato di poliovirus durante la mia permanenza di un lustro (1965-1970) come ricercatore presso i Laboratori del “The Children’s Hospital di Cincinnati, Ohio, con lo scopritore del vaccino antipolio che porta il suo nome, Prof. Albert B. Sabin. In particolare mi pare che i problemi che hanno portato relazioni diverse sul caso dei piccoli Tremante siano originati a monte, cioè sulla obbligatorietà di legge di alcune vaccinazioni, senza poter discriminare i singoli che potrebbero avere delle conseguenze irreparabili funzionalmente ed anche con pericolo di vita quando questa vaccinazione è di massa ………………..Sento il bisogno di aggiungere due argomentazioni al riguardo: 1. Rischio del vaccino antipolio vivo per via orale. (The Medical Letter on Drug & Therapeutics, 17, (13) del 01.07.88 n° 765-740 Ed. USA). Da cinque a dieci casi di poliomielite paralitica si sono verificati ogni anno negli Stati Uniti d’America in seguito alla somministrazione del vaccino antipolio Sabin. Anzi dal 1980 tutti i casi di poliomielite paralitica segnalati al CDC (Centro di controllo delle malattie infettive di Atlanta) sono stati provocati dal vaccino vivo piuttosto che dal poliovirus naturale…………………….2. Indagine anatomo – ed istopatologica. I reperti sono stati conservati in maniera tale da non permettere l’effettuazione di alcun controllo virologico né di residui virali (anche se di tipo vaccinale)……………………..In conclusione la morte di Andrea Tremante è dovuta ad una causa terminale respiratoria con eziopatogenesi centrale encefalica da poliovirus vaccinico che è responsabile della malattia di Alberto, curato da 10 anni con terapia immunomodulante…………………Le responsabilità iatrogene sono legate ad uno stato di obbligatorietà della vaccinazione basata su una legge che oggi è anacronistica. Si rilascia tale relazione per uso ove convenga. Napoli 25.08.90 Prof. Giulio Tarro Ora avevo in mano una diagnosi chiara e circostanziata di ciò che era accaduto ai miei figlioli. Iniziai così una causa civile contro il Ministero della Sanità per avere ristoro di tutti i danni subiti, ma soprattutto per garantire ad Alberto, unico sopravissuto da questa tragedia, un avvenire più sicuro. Purtroppo nemmeno questa precisa diagnosi formulata dal professor Tarro, allievo di colui che aveva scoperto il vaccino antipolio, bastava per il Ministero, non esisteva nessuna Legge che ammettesse l’esistenza di queste situazioni. I danni che le vaccinazioni avevano provocato nell’arco del tempo, non erano ammessi ufficialmente dalla Sanità Nazionale. Fra le contraddizioni più assurde mi arrovellavo per far capire ai medici ciò che ci era successo, ma, nonostante la diagnosi in mio possesso, non venivo creduto, venivo invece snobbato e criticato perché la mia convinzione cozzava con il loro credo riguardo ai benefici vaccinali. Cercavo di spiegare a tutti, ma soprattutto ai medici, che la mia non era una crociata da Don Chisciotte che cercava di colpire gli interessi di chi
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produce e vende i vaccini, ma bensì era una battaglia atta a proteggere i figli di tutti. Pensavo soprattutto a coloro i quali inconsciamente, e senza nessuna informazione sugli eventuali danni, facevano ancora la fila per portare i loro figli al Settore di Igiene Pubblica delle ASL per sottoporli a quelle, forse, pericolose vaccinazioni. Alberto frequenta la Scuola Superiore
Alberto ora doveva affrontare un salto di qualità, iscriversi alla scuola superiore. Si dovette pensare a lungo per scegliere l’indirizzo adatto a lui. Prima di tutto doveva essere idoneo alle sue limitate capacità manuali, non era in grado di scrivere, ma per questo si pensò fosse sufficiente il supporto di Silvana che avrebbe scritto per lui come già aveva fatto alle medie. La scelta cadde sull’Istituto Magistrale, essendo un percorso di studi di tipo umanistico e pedagogico, fu ritenuto sicuramente il più adatto alle sue capacità. Di scuole Magistrali a Verona ce n’era solo una pubblica ed una privata; pensai inizialmente di cercare di iscriverlo alla scuola privata per avere la possibilità che fosse, a mio parere, più seguito che non nella pubblica. Mi recai, assieme alla maestra Silvana, all’Istituto Religioso Seghetti, amministrato da suore sperando di stimolare la loro sensibilità e di iscrivere Alberto nel loro Istituto. Fummo ricevuti da una sorella che si presentò come economa della scuola; a lei raccontai un po’ della mia vicenda, esponendole la situazione di Alberto, le dissi anche che era disabile, sulla sedia a rotelle, ma che questo non avrebbe portato alcuna limitazione poiché sia Silvana che il sottoscritto saremmo rimasti col ragazzo tutto il tempo che avrebbe frequentato le lezioni. Questa suora ci ascoltò ed alla fine ci disse che il loro Istituto, purtroppo, era privo di ascensore, per cui Alberto non avrebbe potuto, con la carrozzella, salire al piano superiore dove c’erano le aule scolastiche. Ribadimmo che avremmo pensato noi per l’eventuale trasporto anche al piano superiore, ma la suora ci lasciò nel dubbio dicendoci che avrebbe dovuto chiedere alla sua superiora per vedere se era possibile risolvere il nostro problema ed iscrivere Alberto in quella scuola. Ci salutò gentilmente pregandoci di telefonarle più avanti e così ci avrebbe fatto conoscere la possibilità o meno di accogliere la nostra richiesta. Più volte la signora Silvana telefonò per sentire se era stata presa la decisione di accettare l’iscrizione di Alberto al primo anno del corso Magistrale, ma la suora temporeggiava e non ci dava alcuna risposta precisa. Ho ragione di pensare che il vero motivo per cui quell’Istituto non intendeva iscrivere mio figlio era che, un disabile come lui, avrebbe oltre che creato delle ovvie difficoltà logistiche anche toccato sensibilmente il decoro dell’Istituto stesso. Certo non ho avuto esempio
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di carità Cristiana da parte di quelle facoltose religiose nei confronti di Alberto e della sua sofferenza. Non rimanendomi altro da fare, decisi così d’iscrivere il ragazzo alla scuola pubblica, all’Istituto Carlo Montanari, che era l’unico che ci dava la possibilità di avviare gli studi magistrali come avevamo deciso. Il primo giorno che Alberto si recò in quell’Istituto fu presentato ai suoi compagni ed agli insegnanti della sua sezione: ricordo che io stesso parlai loro della situazione di mio figlio, raccontando ciò che era successo per averlo ridotto in quelle condizioni. Era doverosa da parte mia una spiegazione ed una descrizione dei vari problemi di Alberto, poiché i ragazzi si erano già chiesti come mai avesse un tubicino infilato nel naso e come mai avesse anche un buchetto nella trachea. I compagni furono molto attenti alle mie delucidazioni, così pure i suoi insegnanti; erano molto interessati a capire come riuscivamo a dialogare con lui ed in che modo riuscivamo a gestirlo ovviando alle sue difficoltà. La struttura scolastica era costituita da una vecchio edificio che da molti anni non subiva alcuna ristrutturazione radicale, la tinteggiatura delle pareti era tutta rovinata, si vedeva chiaramente che era uno stabile in decadimento. Ricordai che, molti anni prima, io stesso avevo frequentato quella scuola quando facevo le medie, cioè circa quarantotto anni prima e sicuramente poco era, da allora cambiato. Anche il cortile interno era rimasto tale e quale, c’erano ancora i segni della pista in terra battuta che usavamo ai miei tempi per il salto in lungo, pochissime modifiche erano state apportate. Le aule erano rimaste le stesse, con soffitti altissimi, i banchi e le sedie erano tutte un po’ rovinate con molte scritte dappertutto, solo qualche porta di divisione dei corridoi era stata cambiata e montata ex novo in profilati d’alluminio, ma nel complesso mi sembrava di tornare indietro nel tempo di tutti quegli anni quando in un’ala di quel fabbricato erano situate le vecchie”Betteloni”. Fu assegnato ad Alberto un insegnante di sostegno, per il tempo in cui era presente alle lezioni, ovviamente sempre assieme a Silvana. Questo professore si chiamava Giuseppe, un tipo un po’ strano, con una barba folta sul viso e un paio d’occhialetti, modello Lucio Dalla, che gli penzolavano sempre giù dal naso. Seppi che la sua professione primaria era quella di musicista. Dovemmo, o meglio, dovette battagliare non poco l’insegnante Silvana con quel professore di sostegno, perché ci aveva promesso un programma specifico per Alberto ed invece, purtroppo, ce ne trovavamo sempre sprovvisti alla fine di ogni quadrimestre. Molte cose sono successe ad Alberto durante il primo anno che frequentava le superiori, fra queste ne ricordo in modo particolare una. Ho accennato precedentemente alle condizioni di vetustà della scuola, ma ciò che risultò più grave, fu l’impossibilità di accedere ai bagni non essendocene uno specifico per i disabili; in più, si dovevano fare con la carrozzella addirittura dei gradini poiché, dal piano dove c’erano le aule, vi era
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una diversità di livello rispetto a quello dei bagni. Non era l’unica difficoltà che un qualunque disabile sulla sedia a rotelle incontrava in quella scuola. Quando pioveva l’ingresso all’Istituto presentava dei problemi, in quanto non vi era alcun riparo dalla pioggia nel momento in cui la persona portatrice di handicap veniva fatta scendere dalla macchina e posta sulla sedia a rotelle. Sempre quando pioveva, nel cortile interno della scuola, mancando i pozzetti di scarico per la raccolta dell’acqua piovana, si verificava quasi un’inondazione per il formarsi di pozzanghere grandissime. Ricordo che fotografai la situazione in un giorno di pioggia, sembrava di essere proprio dentro uno stagno in cui mancavano solo le anatre. Uscendo nel cortile con la sedia a rotelle ci si doveva inzuppare sopra e sotto per caricare Alberto sulla macchina: era proprio una situazione insostenibile. Il cortile della scuola in un giorno di pioggia
Di questi problemi parlai più volte con il Preside, ma la sua risposta era sempre la stessa: “porti pazienza”. Stanco di sopportare quella situazione e dopo aver più volte telefonato ai funzionari del comune pregandoli d’intervenire urgentemente per risolvere quei problemi, assieme ad Alberto e con la maestra andai a fare le mie rimostranza in Municipio. Pretendevo solo di salvaguardare un diritto di mio figlio, di avere la possibilità di accesso agevolata in quel luogo pubblico; perciò dovevano essere rimosse tutte quelle barriere architettoniche che impedivano ad Alberto, e ad altri soggetti come lui, un libero movimento. Il problema riguardante le barriere architettoniche era sempre stato sbandierato dai politici veronesi, durante le campagne elettorali con lo scopo di essere eletti nel Consiglio Comunale ma dopo l’elezione tutto rimaneva come prima. Per questo motivo, sapendo per esperienza che molte volte le promesse dei politici sono promesse da marinai, partimmo decisi a far rispettare i sacrosanti diritti delle persone portatrici di handicap come mio figlio e cercammo di esporre l’annoso problema alla persona che doveva istituzionalmente esserne responsabile, il Sindaco. Arrivati all’interno del Comune chiesi di poter avere un incontro con lui ma, mi venne detto che era troppo impegnato. Attesi caparbiamente qualche ora per avere questo incontro, il Sindaco era sempre occupato in altre faccende più importanti finché, finalmente, venne a parlare con noi l’Assessore ai Servizi Sociali che ci assicurò un suo diretto interessamento. Si era fatto tardi ed Alberto doveva essere portato a casa per fare la sua ora di ginnastica respiratoria, c’era la terapista che lo attendeva, perciò rinunciai all’incontro col Primo Cittadino e me ne andai. Dovetti più tardi ricredermi almeno in parte sul mio modo negativo di giudicare i politici; quell’Assessore fu di parola.
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Le cose all’interno della scuola pian piano incominciarono a cambiare, venne messo lo scivolo per andare in bagno, venne costruita una pensilina per proteggere dall’acqua davanti alla porta d’ingresso e venne successivamente anche migliorato il terreno del cortile interno con la posa in opera di pozzetti per la raccolta dell’acqua piovana. Non speravo che gli organi preposti avrebbero agito così rapidamente portando tutte assieme quelle bonifiche nella vecchia scuola. Questo avvenne perché, quando eravamo stati a fare la protesta in Comune, il giornale locale aveva dato la notizia della situazione in cui giaceva quella gloriosa ma ormai decadente struttura scolastica ed i politici, sappiamo bene, sono sempre molto attenti alle critiche, anche velate, che vengono rivolte loro per mezzo della stampa.
Tutto era possibile per nascondere la nostra verità sulle vaccinazioni, se fosse divenuta palese, avrebbe provocato un grande terremoto nella Sanità Veronese e di conseguenza anche in quella Nazionale. Devo però onestamente ammettere che, per nostra fortuna non tutta la Sanità pubblica si comportò negativamente nei confronti della nostra tragedia; ci furono anche medici locali che ci aiutarono al di là della polemica sempre accesa sul metodo della pratica vaccinale e sul manifestarsi delle reazioni avverse. Medici che nello svolgimento della loro attività professionale, avevano forse notato altri casi di patologie indotte dai vaccini. Richiesta di indennizzo in base alla Legge 210/92
Essendo stata emanata la Legge 210 che riconosceva il danno biologico prodotto dai vaccini, Iniziai l’iter burocratico per vedermi riconosciuto quel diritto che, da molti anni, mi veniva ostinatamente e caparbiamente negato. La Legge prevedeva che il Ministero della Sanità e quello della Difesa istituissero una Commissione al fine di appurare definitivamente tutti i documenti ed i soggetti stessi colpiti da danni vaccinali visionando l’esistenza del “nesso causale” del danno con le vaccinazioni eseguite. Alberto incontra il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro Dal giornale “l’Arena” dell’11 settembre 1994
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Un mio carissimo amico, Daniele, che ci è stato sempre molto vicino durante tutta la nostra triste esperienza, scrisse una lettera all’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nella quale mise in evidenza le difficoltà che sorgevano attorno al nostro caso e nel contempo chiese al Presidente la possibilità che io avessi un incontro diretto con Lui per potergli esporre meglio la nostra situazione. Tramite il Prefetto dottor Giuseppe Maggiore avemmo la risposta e ci fu detto che il Presidente sarebbe passato da Verona nel settembre del 1994, che ci tenessimo pronti per un breve incontro con Lui. Da questo incontro io mi aspettavo non solo comprensione ma l’attestazione di un sostegno diretto alla battaglia che stavo facendo per la vita di mio figlio. Implicitamente speravo nel Suo attestato di solidarietà per la lotta sociale che da molti anni stavo conducendo. Il Presidente arrivava a Verona da Torino, e dopo averci incontrato in forma privata e sostato per il pranzo organizzato dal Prefetto Maggiore, sarebbe proseguito per Mantova per inaugurare la mostra sull’Alberti. Ci vestimmo tutti in pompa magna, con noi venne anche la maestra Silvana. Ci fecero salire con l’ascensore al primo piano del Palazzo della Prefettura, ci condussero nello studio del Prefetto e chiusero la porta pregandoci di attendere. Ero alquanto emozionato e per l’agitazione sudavo abbondantemente; vestito com’ero, con giacca e cravatta, le gocce di sudore mi scendevano dalla fronte, cercai di tamponarle ma non bastò, dovetti aprire una finestra che dava sul cortile interno alla Prefettura, gustai soddisfatto quel refrigerio momentaneo. La mia curiosità mi spinse più volte a cercare di aprire la porta per affacciarmi sul corridoio e vedere cosa stava avvenendo, ma la stessa veniva immediatamente chiusa. Quella porta chiusa mi dava un notevole fastidio, mi sentivo soffocare, più volte cercai di aprirla, spingendola leggermente col piede, creando un piccolo spiraglio in quell’uscio, spiando ciò che stavano facendo al di fuori. Sbirciando, notai nel corridoio un continuo andirivieni di persone frettolose, che allestivano con molta cura, in un salone, proprio di fronte allo studio del Prefetto, una grande tavola apparecchiata con stoviglie in ceramica azzurra. Cercai di vedere ancora ma, nuovamente, la porta venne richiusa. In quei momenti di trepidante attesa, in quella stanza afosa, non mi rimaneva che parlare con Franca e Silvana sotto lo sguardo attento di Alberto, consigliandoci sul come impostare il dialogo che avremmo tenuto durante il colloquio col Presidente. Le più disparate frasi di convenienza mi passarono per la mente ma, il tema principale di quell’incontro, fu unanimemente deciso dovesse essere la richiesta di aiuto per la salute del nostro ragazzo e l’appoggio per la difesa dei suoi diritti. Speravamo che fosse proprio il Presidente a portare l’argomento su questo tema, ma non sapevamo se il tempo che ci avrebbe concesso sarebbe bastato per dirgli tutto quello che avevamo preventivato di sottoporgli. Ad un certo punto sentimmo un assordante rumore, un calpestio di molte persone che passavano nel corridoio, dietro a quella porta chiusa. Seppi
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poi che il Presidente aveva preferito incontrare i giornalisti da solo, prima del nostro incontro. Finalmente si spalancò la porta e ci invitarono ad uscire. Feci un profondo respiro e ci incamminammo. Davanti ai nostri occhi si presentò un grande salone affrescato e vedemmo la figura del Presidente Scalfaro attorniato dai suoi collaboratori. Ci accolse cordialmente, ci baciò familiarmente uno per uno e volle che gli raccontassimo brevemente la nostra vicenda. A me premeva mettere in evidenza la situazione anomala nella quale ci trovavamo nostro malgrado coinvolti. Potei solo fare degli accenni, sottolineando con forza soprattutto il comportamento negativo che la Medicina Veronese teneva nei nostri confronti. Lui ascoltò le poche parole che mi fu permesso dire, poi soggiunse:”So benissimo quanto sia difficile ammettere i propri errori, questo succede anche a me, immaginatevi poi per i medici, quando sbagliano, è ancora più difficile che riescano ad ammettere i loro errori!” Aveva perfettamente inquadrato il problema. Con molto garbo consegnò ad Alberto i documenti che riguardavano il computer che gli aveva portato in dono e che era esposto ordinatamente su di un tavolino di lato, dicendogli:” Spero che la prima lettera che scriverai la manderai a me.” Alberto con un grosso sorriso accolse quella proposta. E con questo si concluse il nostro incontro col Presidente.
Col Corazziere dopo la visita al Presidente
Fummo poi accompagnati al piano inferiore del Palazzo dove ci attendevano i giornalisti che vollero essere informati sull’impressione che ci aveva fatto quell’incontro. L’impressione che riportai da quella visita fu sicuramente di cordialità, ma purtroppo non venne fatto alcun accenno preciso su come Alberto fosse rimasto handicappato e più esattamente sul danno che aveva subito in conseguenza alla vaccinazione obbligatoria. Il computer ci fu portato a casa da un commesso della Prefettura e ci fu installato sulla grande scrivania costruita appositamente perché Alberto avesse la possibilità di muoversi agevolmente. Eravamo parzialmente soddisfatti, il Presidente in persona ci aveva ascoltati, ma ci rimaneva nel cuore quella spina di non aver avuto soddisfazione alle nostre aspettative. Alberto mi chiedeva se il Presidente avesse realmente capito qual era il nostro cruccio, se si era reso conto che nel nostro Paese, oltre al suo caso, esistevano innumerevoli altri soggetti danneggiati in conseguenza alle vaccinazioni come avevamo tentato di
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fargli notare. Alla fine, nell’incertezza, decise di scrivergli una lettera per puntualizzare l’argomento, ecco ciò che scrisse: Lettera di Alberto al Presidente Scalfaro
” Caro Presidente Scalfaro, durante l’incontro che ho avuto con Te nel mese di settembre scorso, quando mi hai donato quel meraviglioso computer, avevo fatto una promessa di scrivere a Te la mia prima lettera. Purtroppo però, come potrai notare, ciò non mi è ancora stato possibile, a più di tre mesi di distanza, così com’è per me il computer è inutilizzabile, privo ancora di sintesi vocale e soprattutto del reggi braccio, senza il quale io non ho la possibilità di scrivere una sola parola, non essendo i miei movimenti ben coordinati. Ti scrivo perciò questa mia lettera e la faccio battere a macchina dal mio papà che volentieri si presta a tale scopo. Al di là del problema specifico riguardante l’inutilità, per me ora, del computer, mi preme ribadirTi un argomento molto più importante che mi sta a cuore. Come già Ti ha scritto il mio papà nella lettera in data 8 novembre scorso, della quale non abbiamo più avuto risposta, non vorrei che lo strumento computer diventasse il mezzo per evitare di affrontare il vero problema, molto più grave, che io, per primo, assieme a tutta la mia famiglia stiamo portando avanti da tanti anni. Il problema dei danni da vaccino. Sono pienamente cosciente della mia situazione di invalido e cerco,seppur con molta fatica di accettarla, sapendo di essere stato reso in queste condizioni da quelle pratiche sanitarie che, ancora oggi, possono rendere andicappati come me o addirittura condurre a morte, come è successo agli altri due miei fratelli Marco e Andrea, molti altri bambini. Per questo motivo non voglio assolutamente che venga steso un velo di pietoso silenzio, come si tenta di fare, sulla mia tragedia e sulla tragedia di tanti altri esseri che inconsapevolmente subiscono il peso di queste assurde imposizioni che sono le vaccinazioni obbligatorie. Caro Presidente io non posso parlare con la mia voce ma lo posso fare attraverso la battaglia che il mio papà sta conducendo da molti anni, perciò mi reputo essere un ragazzo fortunato, da questo punto di vista, poiché molti altri ragazzi che come me sono stati colpiti dalle reazioni negative dei vaccini non hanno parlato e non parlano, anche se magari la loro voce ce l’hanno e la possono, quando vogliono, usare; ma forse non hanno un papà coraggioso come il mio che lotta instancabilmente per dimostrare queste realtà che da molte parti si vorrebbero celare, ma sono certo però che non verranno mai sufficientemente nascoste e sicuramente prima o poi verranno alla luce. Sono molto dispiaciuto, Caro Presidente, dover compiere il gesto che sto per compiere che mi costa grande sacrificio e mi procura tanta tristezza ed amarezza. Ti restituisco perciò il Tuo magnifico computer perché non voglio assolutamente che esso diventi un mezzo per far tacere quelle verità che chi non ha voce Ti vorrebbe gridare, per farTi capire quale disperazione si celi nell’animo di chi è costretto sempre e solo a subire ingiustizie, soprusi e indifferenza a causa di un peccato che, “Lui”, certamente non ha mai commesso.
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Ti chiedo scusa e fortemente Ti abbraccio, tuo Alberto Tremante Verona 20 dicembre 1994”. Ps. Solo per fare la firma la mia mano è stata guidata.. Più tardi, arrivò l’avviso da Roma confermandoci che le nostre pratiche erano state mandate alla C.M.O. (Commissione Medica Ospedaliera) competente per territorio. Per nostra fortuna, la C.M.O. alla quale era stato assegnato il nostro caso non era quella di Verona ma quella di Padova. La Commissione di questa città era ben lontana dalle continue polemiche che montavano spesso a Verona ed era, a nostro avviso, sicuramente più affidabile. Presi così contatto con i componenti di questa Commissione, due capitani ed un colonnello medico, fornii loro la documentazione in mio possesso che mancava da quella inviata al Ministero; successivamente, svolta tutta la procedura cartacea, portai Alberto a Padova dove fu sottoposto ad una accurata visita di controllo. Alla fine non mi restava che attendere l’esito. Ero molto ansioso durante quell’attesa, speravo che qualche lunga mano non potesse raggiungere la Commissione ed influire sulla decisione che i membri dovevano prendere. Ammissione del Ministero della Sanità del “nesso di causalità col vaccino”
Finalmente! Datato 30 maggio 1995, arrivò per raccomandata, il documento che conteneva l’esito tanto atteso. A firma del Direttore dell’Ufficio della Legge 210, dott. Dittami, potevo leggere, fra l’altro, riferito ad Alberto,“Sì esiste nesso
causale tra la vaccinazione e l’infermità: esiti di encefalopatia in soggetto sottoposto a vaccinazione antipolio Sabin” Dovetti attendere circa altri sei mesi perché arrivasse anche il secondo documento riferito ad Andrea nel quale fra l’altro si poteva leggere: “Si esiste nesso
causale tra la vaccinazione ed il decesso avvenuto per collasso cardiocircolatorio in soggetto portatore di necrosi bilaterale dei nuclei encefalici e diffusa demielizzazione della sostanza bianca” Finalmente veniva ufficialmente riconosciuto da parte del Ministero della Sanità che la vaccinazione antipolio Sabin aveva causato la malattia dei miei gemelli, mancava però ancora il riconoscimento del nesso con la malattia e la conseguente morte del nostro primogenito Marco. Dovevo essere soddisfatto del risultato ottenuto, la vittoria era giunta. Ma quale vittoria, pensai fra me, chi ci avrebbe ripagato di tutti quegli anni di sofferenza patita? E per di più chi avrebbe riportato in vita i nostri figli? La nostra famiglia era stata letteralmente sterminata,
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due figli morti ed un terzo cerebroleso. Era come se avessimo subito una nuova strage degli innocenti. Per giunta, avevamo dovuto constatare che la Comunità Cristiana, la grande Chiesa Universale Romana, da noi più volte sollecitata fino alla supplica con molteplici e disperate richieste di aiuto, era rimasta indifferente ad assistere alla realizzazione di questo sterminio, nonostante avesse sempre alzata la bandiera del diritto alla vita”. Per Marco, la C.M.O. non aveva riconosciuto il nesso di causalità, dovemmo così presentare ricorso al Ministero producendo ulteriori documenti. In data 25 giugno 1996 arrivò l’atteso documento a firma del Sottosegretario di Stato, con relativa relazione dell’Ufficio Medico Legale del Ministero stesso, nel documento potei leggere così :Il ricorso presentato dai coniugi Tremante Giorgio e
Martini Franca avverso il giudizio della C.M.O. di Padova di cui al verbale ML/V n.16, è accolto. Una parte importante della nostra battaglia con le Istituzioni per dimostrare la tanto denigrata e non voluta Verità sui rischi vaccinali era finita. Denuncia alla Magistratura per “Omicidio Doloso”. Archiviata Dal Corriere della Sera del 6 maggio 1995
Supportato ormai da questi importanti documenti, dove si ammetteva esplicitamente che la causa della morte di Andrea era da imputarsi alla vaccinazione, presentai nuovamente un esposto alla Magistratura veronese per ”Omicidio doloso” nei confronti del professor Cavalieri che non tenendo conto dei miei avvertimenti aveva usato il cortisone, assumendosi tutta la responsabilità del caso, e cioè la morte di mio figlio Andrea. Nemmeno questi importantissimi documenti, corredati da ulteriori prove documentali, servirono per far incriminare quel medico affinché, per lo meno, fosse riconosciuta la colpa commessa con tanta arroganza. Dopo una sommaria istruttoria la Magistratura Veronese archiviò anche questo procedimento. Sospensione della fisioterapia respiratoria. Altra denuncia ed altra archiviazione
Dal giornale 2”l’Arena” del 30 luglio 1994
Un’altra archiviazione venne compiuta dalla stessa Magistratura quando presentai un ennesimo esposto per la sospensione della fisioterapia respiratoria.
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Questa terapia era assolutamente indispensabile ad Alberto, essendo egli soggetto ad insufficienze respiratorie improvvise. La sospensione avvenne a causa di diatribe interne al Reparto di Fisioterapia Respiratoria in quanto era in ballo la nomina per il primariato. La nuova incaricata facente funzione di primario, dottoressa Feliciana Cortese, pretese di eseguire degli accertamenti inutili ed anche invasivi su Alberto. Il mio rifiuto fu fermo e il medico di rimando sospese il servizio a mio figlio. Si arrivò poi a raccontare perfino che ero stato io a rifiutare le terapiste. Presentai al Magistrato molta documentazione che attestava il pericolo che incombeva su Alberto con la sospensione della ginnastica respiratoria. Tutto questo fu inutile e quando il Giudice per le indagini preliminari riunì nel suo studio me e la controparte, con i relativi avvocati, per discutere la questione, io ribadii che quel gesto era stato pericoloso per mio figlio. Il GIP, nonostante io avessi presentato un certificato medico stilato da persona altamente qualificata, non si accorse, avendolo letto distrattamente che sul retro dello stesso erano descritti i danni subiti da mio figlio per quella sospensione, e mi chiese quali conseguenze sarebbero derivate dalla mancata terapia respiratoria. Feci notare che le reazioni negative erano descritte in modo evidente sul retro di quello stesso certificato, ma il Giudice, senza curarsi della mia precisazione, cambiò argomento ed alla fine chiese l’archiviazione del procedimento. Non ricordavo bene se quello fosse stato il settimo o l’ottavo procedimento che la Magistratura Veronese e Veneziana (uno solo) avevano archiviato ma, la conclusione che ne trassi fu: “O io sono diventato pazzo o la “Giustizia” non esiste più”. Tutte le Istituzioni erano coalizzate contro di noi, solamente perché il nostro intento era stato sempre e solo quello di mettere in evidenza il pericolo derivante dai vaccini, avendolo sperimentato sulla pelle dei nostri figli. Un argomento che doveva rimanere “Tabù” per la gente comune, mentre le Istituzioni agivano contro di noi in modo tale da calpestare tutti i diritti umani e civili nostri e di nostro figlio. Alberto in compagnia di Gianni Moranti, divenuto il suo più grande amico
Istituzione Comitato Internazionale per tutelare i diritti di Alberto
In sua difesa nacque però, spontaneamente, un “Comitato Internazionale per la tutela dei Diritti Umani e Civili di Alberto”,presieduto dal professor Tarro che era stato colui che, contro tutti i pareri contrari, gli aveva salvato la vita. Questo è il cartello con cui è stato presentato il Comitato:
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Alberto ha vissuto e sta vivendo assieme alla sua famiglia la tragedia causata dalla vaccinazione obbligatoria che lo ha reso tetraplegico con necessità di supporto respiratorio. Nonostante l’ammissione del Ministero della Sanità sui danni subiti, persiste da parte della classe medico-politica l’atteggiamento d’incomprensione e di scarsa tolleranza su questa vicenda che non favorisce quelle condizioni di vita veramente serene e dignitose che devono essere assicurate ad ogni essere umano ed anche ad Alberto. Gli stessi danni subiti da Alberto, derivanti dalle vaccinazioni (molte delle quali tuttora obbligatorie per legge), sono state anche la causa della morte del fratello Marco all’età di 6 anni e del gemello Andrea avvenuta all’età di quattro anni. Obiettivi Garantire ad Alberto, unico superstite di questa tragedia, una dignità di vita realmente umana. Tutelare i suoi diritti così da rendere la sua sopravvivenza almeno più serena.
Modalità Per raggiungere gli obiettivi di cui sopra, si rende necessario istituire un “Comitato internazionale per la tutela dei diritti umani e civili di Alberto”, che sostenga e incoraggi iniziative di tipo informativo, preventivo, legale, operanti nel campo sanitario e in quello educativo. L’esperienza vissuta e sofferta di Alberto deve essere per le famiglie stimolo affinché non si ripeta quello che a lui è successo. I
Cognome e nome
I
Indirizzo
I
Firma
I
Il professore mandò poi una lettera motivando perché il Comitato era sorto, con parole di grande sensibilità e di grande umanità che di seguito leggerete:
”Lettera aperta in occasione dell’istituzione di un Comitato Internazionale per la Tutela dei Diritti Umani e Civili di Alberto. Un problema comune a quasi tutte le persone disabili è quello della non informazione sui propri diritti di pazienti, oltre che di cittadini. Si intende sensibilizzare le Istituzioni tutte su una cruda realtà, sperando che da questa iniziativa si possa costruire in positivo per il futuro degli svantaggiati. Solidarietà non significa delegare con un’offerta in denaro le responsabilità che competono a ciascuno di noi, nel contesto in cui ci si trova ad operare. E’ compito di tutti eliminare barriere architettoniche e mentali, creare condizioni di vita adeguate per coloro che oltre alla difficoltà dell’handicap devono fronteggiare l’handicap delle difficoltà mentali presenti come pregiudizio nei cittadini. Si possa realizzare un progetto di accoglienza per questi soggetti come Alberto che, diciamoci la verità, la società non vuole, ma rappresentano una realtà che, comunque, ha diritto ad una vita migliore.
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Lo star bene è oggettivamente dipendente dal nostro vivere sociale, quindi, è soprattutto una condizione sociale. Auguri Alberto. Giulio Tarro. FIRMA ANCHE TU
Locandina usata per la raccolta di firme
Molti segni di solidarietà arrivarono da tante parti del mondo, dagli Stati Uniti d’America, dal Giappone, dalla Francia, dall’Inghilterra , dall’Olanda, dall’Argentina, dal Brasile e da molte altre nazioni, ed in Italia furono raccolte oltre quindicimila firme di persone che ritennero giusto sostenere il Comitato. A Verona venne anche indetta una conferenza stampa per la presentazione del Comitato e di rimando si ebbe una reazione violenta: sulla stampa locale riprese la propaganda a sostegno dei benefici delle vaccinazioni. Reso pubblico un documento coperto da segreto istruttorio. Denuncia e archiviazione
Lettera del dottor Valsecchi apparsa sull’Arena il 3 gennaio 1995
Mi arrivò per posta, in una busta anonima, una fotocopia di una lettera che l’allora Direttore Sanitario della USL 20, dottor Massimo Valsecchi, aveva inviato sul territorio a tutti i distretti che si occupavano delle vaccinazioni, in difesa della pratica vaccinale che testualmente trascrivo: ” Verona 28.XI.1994, Cari Colleghi, Vi allego copia della relazione del perito d’ufficio Prof. Marigo, relativa al decesso di Andrea Tremante avvenuto nel 1980. Penso che, nonostante il tempo trascorso, si tratti di un documento interessante sia per il contenuto tecnico dello stesso sia per le ricorrenti polemiche in merito. IL RESPONSABILE del Servizio Igiene Pubblica, Dott.Massimo Valsecchi. Con allegata la relazione del perito prof. Marigo. Perché, mi chiesi, dopo quattordici anni veniva riesumata ancora quella relazione che era già stata sconfessata varie volte? Presentai così una ulteriore denuncia alla Magistratura per “Omissione di atti d’ufficio”, essendo la relazione stessa coperta da atto giudiziario. Il 3 gennaio 1995 sul giornale “la Cronaca” di Verona appare, nella rubrica, Lettere al Direttore, una missiva a firma del dottor Valsecchi, responsabile del servizio Igiene Pubblica, dal titolo “Tremante aveva torto”, questo è il contenuto:” La scorsa settimana, il signor Giorgio Tremante (che, come è noto, sostiene che la causa della morte di due suoi figli e della patologia di un terzo figlio vivente sia da ascrivere alla vaccinazione contro la
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poliomielite) ha eccepito sul fatto che ai medici responsabili dei distretti di base si sia fatta pervenire una copia della perizia effettuata, nell’anno 1980, dal professor Marigo su incarico della Procura della Repubblica del Tribunale di Verona. La perizia era volta ad accertare la fondatezza delle accuse avanzate dal signor Tremante stesso. Il relativo procedimento penale si concluse il 22 dicembre 1982 con decreto di archiviazione per insussistenza delle accuse. Va ricordato, in merito all’asserita necessità che tale perizia dovesse rimanere segreta, che si tratta di un documento inerente un’inchiesta penale conclusa dodici anni orsono con un decreto di archiviazione e non coperta, quindi, da alcun segreto istruttorio. E’, inoltre, evidente che le considerazioni tecniche, di notevole interesse scientifico,del perito del Tribunale (anche se contrarie alle opinioni del signor Tremante e dei suoi periti di parte) dovevano essere portate a conoscenza dei medici responsabili dei distretti di base che dirigono le operazioni vaccinali effettuate nell’Ulss. Visto, infatti, il rilievo dato, non solo in quest’ultima occasione, dagli organi di informazione all’ipotesi formulata dal signor Tremante, era necessario far conoscere ai diretti interessati l’atto giuridico che ne ha comprovato l’inesattezza. Tanto non era, ovviamente, diretto a sminuire la portata ben comprensibile del dramma umano della famiglia Tremante ma a far conoscere alle opportune ed idonee sedi sanitarie un documento di rilevante contenuto scientifico. Non potei mancare certamente di dargli una risposta a mezzo stampa così il 21 gennaio 1995, lo stesso giornale, pubblicava anche la mia lettera che titolarono : “Tremante alla riscossa” “Con riferimento alla lettera del dr. M.Valsecchi, pubblicata in data 3 gennaio sul giornale”la Cronaca” alla pagina delle Opinioni, ritengo necessario precisare alcuni punti per me particolarmente rilevanti. Anzitutto l’esposto presentato alla Procura della Repubblica: con esso chiedevo di accertare se nella diffusione di un documento, per me riservato, fossero ravvisabili eventuali reati di tipo amministrativo, l’esposto è stato presentato evitando di dare qualsiasi pubblicità al fatto. Ora ritengo già particolarmente significativo che una”risposta” o “giustificazione” mi venga fornita indirettamente dall’interessato a mezzo stampa. E qui vale la pena porsi alcune domande: perché una relazione del1980, con “considerazioni tecniche di notevole interesse scientifico” viene resa nota ai medici responsabili dei servizi di base solo ora in data 28.11.1994? Perché viene resa nota in concomitanza con una richiesta del giudice, dr. Pascucci, in data 21.11.1994 con la quale vengono richiesti a tutti i pubblici ufficiali, impiegati e incaricati di pubblico servizio che ne fossero in possesso di esibire e consegnare al consulente tecnico nominato dal tribunale ogni documentazione relativa a mio figlio Alberto? Per quanto ne so io, il procedimento penale non si concluse affatto nell’82 tanto è vero che in data 17.8.1988 segnalavo ancora all’ufficio del giudice istruttore, dr. Sannite, la preoccupazione che il procedimento penale da me avviato potesse venire meno per prescrizione dei reati contestati.Al di là di questo, che pur fa parte della mia vicenda personale in modo drammatico e con tutto quel che ne segue, mi preme entrare nel merito circa l’affermazione della “infondatezza” delle tesi da me sostenute per la causa da vaccino
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Sabin del danno subito da ben tre figli, di cui due deceduti. Mi limiterò semplicemente a rilevare alcune cose. Nella sua perizia il prof. Marigo concludeva di poter “propendere per la diagnosi di sindrome di Leigh” avendola nelle pagine precedenti descritta come “Malattia eredo-degenerativa rara…..(che)compare nelle prime età della vita e conduce a morte nel giro di qualche mese o di qualche anno” (pag.16 della perizia). Ora, come lo stesso perito aveva già nell’80 potuto constatare, a seguito di trattamento con immunostimolanti, prescritto dal prof. Tarro, Alberto era “uscito definitivamente dal coma……..(aveva acquistato) una buona lucidità mentale…….(e aveva) quasi completamente regredito la paralisi”( pag.21 della perizia). Oggi Alberto ha compiuto 18 anni e, pur nella condizione di handicap fisico, frequenta l’Istituto Magistrale di Verona. Nella perizia il prof. Marigo cita la tesi sostenuta dai professori Tarro e Pantellini per i quali le vicende dei miei figli Andrea e Alberto sono, semplificando, da ricondurre a virus vaccinali. Non si tratta quindi di un’ipotesi formulata dal signor Tremante, come riferisce il dr. Valsecchi, ma un’ipotesi scientifica sostenuta da eminenti scienziati specialisti in materia. Sugli esiti delle cure applicate ad Alberto, la cui vicenda ha avuto un’evoluzione più positiva rispetto a quella dei fratelli, per la mia ostinazione, lo stesso prof. Marigo riconosce di “non potersi attribuire un’autorevolezza tale da tranciare giudizi su argomenti così lontani dalla sua competenza che, per contro, pretendono orientamenti di ricerca più che specialistici” (pag.21 della perizia). Nonostante ciò il professor Marigo, a titolo personale, conclude con l’ipotesi della sindrome di Leigh, sostenendo la non responsabilità dei medici che hanno avuto in cura i miei figli. Ipotesi che Alberto stesso si incarica di smentire con la sua esistenza e il suo attaccamento alla vita a più di 16 anni dallo scoppio della patologia. Ci sarebbero molte altre cose da precisare e raccontare attorno alla mia vicenda; mi preme solo evidenziare che essa non è affatto conclusa, che vivono ancora procedimenti di particolare rilevanza per garantire ad Alberto il riconoscimento dei propri diritti al di là delle responsabilità individuali che potrebbero anche non interessarmi più di tanto. Noto l’accanimento continuo verso queste “realtà” mentre tante energie potrebbero essere meglio spese per garantire ad Alberto condizioni di assistenza più adeguate. Giorgio Tremante padre di Alberto Verona”. Ulteriori problemi che ci crea la Sanità Veronese. Tolgono la maestra ad Alberto
Lettera degli insegnanti in difesa della maestra per Alberto
Per tutta risposta questi burocrati, non ancora paghi di crearci problemi, tolsero la maestra per il periodo estivo ad Alberto, sicuri di procurarci un ulteriore disagio. Chiesi subito che ci venisse motivata, per iscritto, questa loro decisione, per me assurda e per di più ingiustificata. Non ebbi mai da loro alcuna risposta
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alla mia richiesta. Mi ero già rivolto precedentemente, per altri motivi riguardanti sempre la nostra vicenda, all’Ufficio Affari Sociali della Presidenza del Consiglio, perciò nuovamente mi rivolsi al funzionario di quell’Ufficio, dottor Petitta, per sollecitarlo ad intervenire nei confronti della USL o, anche, presso il nostro Sindaco per far ripristinare rapidamente questo importante supporto educativo per mio figlio. Inoltre, rammentai di aver conosciuto l’onorevole Carla Rocchi in un congresso che si tenne a Roma, nelle aulette parlamentari dal titolo”Vivisezione o Scienza : una scelta da fare”. In quel contesto avevo presentato anch’io una relazione sul tema dei danni vaccinali. Riporto di seguito una parte dell’intervento che a quel tempo feci, presa dalla pubblicazione degli “Atti del Congresso Scientifico Internazionale” svoltosi a Roma nell’Aula dei Gruppi Parlamentari l’8 novembre 1989 via Campo Marzio, 74: Pareri e testimonianza personale sugli effetti negativi provocati dall’Obbligatorietà delle Vaccinazioni – Giorgio Tremante “Da anni la mia attenzione è volta ai vaccini, alla raccolta di dati sugli effetti spesso letali che questi possono avere .L’argomento, tuttavia, ancor oggi è difficile dato che è ancora pressoché impossibile far conoscere i pericolai quali siamo costretti ad esporre i nostri figli fin dai primi giorni di vita. Alcune considerazioni sono nate in me, in questi ultimi tempi,dopo aver letto un articolo intitolato “Il Vaccino non uccide”. Questo articolo riporta il parere del professor Garattini, noto come uno dei maggiori sostenitori della vivisezione e sperimentazione animale. A tal proposito potrei citare l’opinione del professor Pietro Croce,il quale nel suo libro “Vivisezione o Scienza: una scelta”, per quanto riguarda la produzione di vaccini antivirali dice: “la maggior parte dei vaccini antivirali viene prodotta mediante culture cellulari. Animali vivi si usano ancora per il vaccino antivaioloso, per il vaccino antirabbico e per il vaccino antipoliomielitico, ma si cerca un metodo per preparare anche questi vaccini in vitro: Sui vaccini preparati nell’animale vivo incombe una costante minaccia: che l’animale sia portatore di un altro virus, che potrebbe essere pericoloso quanto, o più, di quello che si vuole combattere: ad esempio un virus cancerogeno. E, che non si tratti di una preoccupazione infondata, è dimostrato dall’esperienza fatta con il vaccino antipoliomielitico”. Ritornando al professor Garattini, questi definisce “campagna terroristica” la presa di coscienza, da parte di molti genitori, della pericolosità delle vaccinazioni e il desiderio di molte famiglie di veder tolta una coercizione che ormai non esiste più in nessun paese Europeo, tranne Francia e Italia. Poiché, in questi ultimi anni, molti genitori hanno cominciato a considerare i fattori che potevano mettere a repentaglio la vita dei loro figli, una parte di essi ha cercato e cerca tuttora di non sottoporre le proprie creature alle immunizzazioni imposte per legge.Per tutta risposta il nostro Stato estromette i bambini non vaccinati dalle scuole pubbliche in quanto ritenuti fonti di contagio per quelli già vaccinati. Alcuni tribunali Amministrativi Regionali hanno sentenziato la laicità dell’accesso alla scuola privata dei soggetti non vaccinati e il divieto di entrare nella scuola pubblica, creando in tal senso una vera e
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propria discriminazione. Non si tiene conto che, da molti Paesi Europei,tra i quali Francia, Germania, Svizzera, nonché dagli USA sono giunti a noi pareri scientifici ben diversi da quelli tranquillizzanti che si vogliono divulgare nel nostro Paese. Tali notizie tendono invece a mettere in allarme la società, per i pericoli inerenti alle vaccinazioni obbligatorie. Da noi, molti studiosi e molti medici, pur essendo contrari a queste prassi, non intendono esporsi personalmente. Al momento, solo noi cittadini potremmo far sentire la nostra voce e mettere in luce tutto il male che i vaccini possono causare ai nostri figli. Ho detto potremmo, in quanto sono ben poche le famiglie che intendono far conoscere i loro problemi temendo di perdere quella poca assistenza sanitaria che lo Stato sembra elargire loro con tanta generosità. Sotto questa falsa generosità si cela, invece, l’interresse a far tacere la gente e a nascondere che le malformazioni che i figli presentano, probabilmente non ci sarebbero state se non fossero stati vaccinati. Infatti di quei meravigliosi vaccini “che hanno salvato l’umanità”, la collettività non conosce gli effetti collaterali e le controindicazioni. A tal proposito ecco il pensiero del dott. Herbert M.Shelton, medico americano che in una sua pubblicazione: “Danni causati da vaccini e sieri” dice:”E’ difficile credere che persone in posizione di fiducia e di autorità si mettano d’accordo, per trarre in inganno la gente e nuocere al solo fine di far soldi, ma questo è vero, ed essi spesso vanno avanti così senza essere colti sul fatto. I vaccini sono formati da proteine decomposte, che di per sé possono provocare un rapido avvelenamento del sangue…….Basti pensare, a tal proposito, che alcune delle nostre peggiori malattie sono state provocate dalle vaccinazioni, anche se ci è stato fatto credere che furono invece controllate da esse”. Ritengo opportuno richiamare l’attenzione anche sulla testimonianza di due medici italiani: il dott. B. Cacciapuoti, direttore del laboratorio di batteriologia e microbiologia Medica dell’Istituto Superiore della Sanità ed il dott. D. Cacciapuoti della divisione di Pediatria dell’Ospedale Generale Provinciale S:Sebastiano Martire di Frascati. In una loro pubblicazione: “Inconvenienti vaccinali”, si dice tra l’altro: “Nessun vaccino può essere considerato totalmente esente da inconvenienti, per la natura stessa dell’effetto di stimolo specifico sul sistema immunitario svolto dai vaccini…….. si dice inoltre che sono tre i tipi di inconvenienti vaccinali: La tossicità normale del vaccino;. Gli incidenti, dovuti a caratteristiche improprie del vaccino o a tecniche improprie di somministrazione;. Le complicazioni, dovute a reattività anomala individuale o a stati patologici preesistenti alla vaccinazione…….La pubblicazione continua dicendo: “ IL controllo eziologico delle partite incriminate dimostrò ancora una volta un’insufficiente in attivazione del virus con il trattamento mediante formalina…..” In un Compendio di Immunologia del 1982, riguardante i vaccini attenuati, si può leggere tra l’altro: “I programmi di vaccinazione vengono eseguiti tenendo conto delle aspettative di rischio della malattia, della natura e della frequenza delle complicazioni. Laddove il rischio è minimo, è preferibile astenersi dalle vaccinazioni……E’ importante inoltre diagnosticare l’eventuale esistenza di un deficit immunitario nei bambini prima di procedere alla somministrazione di vaccini costituiti da microrganismi vivi (vedi ad
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esempio antipolio Sabin, antimorbillosa e antivaiolosa)”. Mi chiedo: come si può conoscere tutto ciò se lo Stato impone di vaccinare tuo figlio senza possibilità di stabilire preventivamente se egli sia portatore di un deficit immunitario? Rispondendo ancora una volta al professor Garattini il quale asseriva che i rischi sono minimi in confronto ai benefici, domando: per quale motivo un genitore non può scegliere se esporre o no il proprio figlio a tali rischi? Quale tutela viene dallo Stato per questi rischi eventuali, se non quella di statistiche più o meno attendibili, in quanto si tratta solo di statistiche di parte? L’articolo 32 della nostra costituzione recita: La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto9 della dignità e libertà della persona umana”.Riprendendo il tema dei rischi, cito ancora alcune notizie provenienti dall’Istituto Pasteur di Parigi, del dottor Luc Montagner e pubblicate sul Times l’11 maggio 1987. Nell’articolo viene esposta la preoccupazione per la possibilità di legami fra l’uso di vaccini con virus vivi attenuati e la diffusione dell’A.I.D.S.. Si è infatti potuto stabilire che la più grande propagazione dell’infezione H.I.V., coincide con i programmi più intensi di immunizzazione e col numero delle persone vaccinate. Per quanto riguarda i danni da vaccino, in Germania il dottor Gerald Buchwald si sta occupando da circa trent’anni di questo problema e di quello inerente ai processi per il risarcimento nei casi di lesioni permanenti o di decesso. L’indennizzo è riconosciuto in Germania ed in tutte le altre nazioni Europee: non in Italia, dove non si vogliono mettere in evidenza gli effetti negativi che una vaccinazione può provocare. Un’altra voce autorevole riguardante i vaccini e la loro pericolosità ci viene dalla Francia, dallo studioso Delarue che, nel suo libro “Intossicazione da vaccino”, mette in rilievo il meccanismo della costrizione psicologica la quale, attraverso i mezzi di comunicazione, come la stampa, la radio e gli spot pubblicitari e con l’intervento di nomi famosi ed autorevoli, crea la psicosi tra la popolazione che, davanti a una presunta, quanto temuta epidemia virale, correrà a cercare nel vaccino la soluzione ad un problema che il più delle volte non esiste. Il martellamento psicologico avrà ottenuto un effetto così convincente da mettere in crisi per l’esorbitante richiesta del vaccino persino i produttori. Delarue continua dicendo: “E’ sorprendente che l’introduzione sistematica ed obbligatoria di prodotti pericolosi per il nostro corpo non abbia mai dato luogo ad una ricerca scrupolosa, ad una analisi statistica valida sui suoi inconvenienti. Le popolazioni altamente vaccinate non sono protette contro il ritorno di una epidemia. A parità di livello di vita, le epidemie sono regredite con la stessa velocità nei paesi vaccinati e in quelli non vaccinati. E’ quindi evidente che l’uso delle vaccinazioni non ha avuto effetti sensibili sull’andamento dei grafici di regressione generale delle epidemie. Bisogna riconoscere che in apparenza gli incidenti sono rari. A parte le poche reazioni spettacolari, le conseguenze delle vaccinazioni sono insidiose, si sviluppano in sordina e talvolta molto tempo dopo l’inoculazione. Spesso passano inosservate. Pochi medici riconoscono un collegamento tra i mal di gola ripetuti di un paziente e la vaccinazione difterica e antitetanica da lui ricevute, talvolta molto tempo prima…… In tutti gli studi medici, ogni vaccinazione viene considerata indipendente dalle altre. La realtà è
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assolutamente differente. Il vaccinato non reagisce come se avesse ricevuto la sola vaccinazione antitetanica, la sola vaccinazione antivaiolosa, eccetera, ma reagisce con la totalità del suo essere alla totalità dei vaccini che gli vengono inoculati. Poiché in Italia, sembra che la libertà di scegliere se vaccinare o no i propri figli altro non sia che volerli esporre a possibili malattie, prendiamo in considerazione alcune affermazioni del dottor Robert S.Mendelson, americano, che in una sua pubblicazione dice: “Non c’è prova scientifica convincente che le vaccinazioni di massa abbiano eliminato alcuna malattia infantile. Mentre è vero che alcune malattie infantili,una volta molto diffuse, sono diminuite nel periodo in cui furono introdotte le vaccinazioni, nessuno però realmente sa il perché, per quanto le migliorate condizioni di vita potrebbero essere una delle ragioni. Se le vaccinazioni fossero la causa della scomparsa di tali malattie negli U.S.A., ci si dovrebbe chiedere perché sparirono contemporaneamente anche in Europa, dove le vaccinazioni di massa non furono introdotte……..Si fa sempre più strada il sospetto che la vaccinazione contro malattie infantili, relativamente innocue, possa essere responsabile del drammatico incremento delle malattie immunitarie (allergie, non solo, ma anche sindromi da completo deficit immunitario, come l’A.I.D.S.). Abbiamo barattato gli orecchioni ed il morbillo per il cancro e la leucemia?…..”. Desidero ora esporre brevemente la tragedia che ha colpito tre dei miei quattro figli, nati tutti perfettamente sani, in seguito alla vaccinazione antipoliomielite Sabin…………………..”. Il mio intervento al Congresso Internazionale di Roma
Successivamente narrai la mia vicenda, che ormai già conoscete; avanzai poi delle richieste precise sul riconoscimento alla libertà di scelta per le vaccinazioni, proposi inoltre che si fosse provveduto a varare una legge a favore dei soggetti danneggiati dalle stesse vaccinazioni, i quali fino ad allora, avevano sopportato le terribili conseguenze senza un ben che minimo riconoscimento da parte dello Stato Questa fu la conclusione del mio intervento: “ Tutto ciò, se varrà riconosciuto dallo Stato, permetterà all’Italia di affiancarsi a tutti i Paesi Europei che ritengono la libertà di scelta come diritto fondamentale e imprescindibile del cittadino. E’ bene che riprenda il racconto del nuovo ulteriore problema che la sanità Veronese ha messo in atto ancora una volta per ledere a mio figlio Alberto. Essendo a quel tempo la Rocchi Sottosegretario alla Pubblica Istruzione, mi rivolsi a lei poichè mi era parsa la persona più adatta per risolvere il problema scolastico che in quel momento Alberto era stato costretto a subire. Purtroppo però, nemmeno lei, come neppure l’Ufficio Affari Sociali della Presidenza del Consiglio dei Ministri riuscirono a superare quell’ostacolo. Il mio ragazzo doveva così rimanere senza il supporto della maestra durante il periodo estivo. Frequentava allora il secondo anno dell’Istituto Magistrale. Per lui che
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considerava Silvana non solo una insegnante ma anche interprete, amica e confidente, questa situazione diventava drammatica, poiché si era abituato ad averla vicina ininterrottamente ormai da quasi dieci anni. La maestra Silvana, che aveva ricevuto un riconoscimento ufficiale per l’attività svolta nei confronti di Alberto ed era anche stata insignita del titolo di Cavaliere della Repubblica per meriti speciali, cercò allora con i suoi mezzi di risolvere questo problema. Il Presidente Scalfaro si era reso conto personalmente, dopo l’incontro che avevamo avuto a Verona e nel quale anche lei era presente, del lavoro svolto da questa brava insegnante. Forte del riconoscimento avuto, si sentì in dovere di scrivere a Scalfaro per rendergli noto ciò che stava capitandoci. Mandò così una lettera a firma sua e degli insegnanti curriculari di Alberto per chiedere l’intervento del Presidente stesso, la più alta autorità dello stato, in modo che il ragazzo potesse ritornare ad avere la continuità di studio anche durante il periodo estivo, per non perdere ciò che durante l’anno scolastico aveva con molto impegno imparato. Nessuna risposta arrivò nemmeno dal Quirinale. La decisione presa dai vertici della USL era irremovibile, si aggrapparono a dei cavilli burocratici e, giustificandosi, dicevano che Alberto aveva già tanti ”privilegi” che altri disabili non avevano. Subisco un Processo Penale per “Offesa a Pubblico Ufficiale”
Questa frase pronunciata dal responsabile del Settore Sociale della USL 20, dottor Mauro Bellamoli, durante una mia telefonata, mi fece pensare che quanto era dato a mio figlio, per suo diritto, diventava per l’USL 20 un “privilegio”, e per questo la stessa USL non voleva più concedere ad Alberto ciò che spetta ai disabili secondo la legge 104 (Legge Quadro che indica tutti i diritti spettanti ai portatori di handicap). Mi arrabbiai a tal punto che andai giù di brutto, con delle parole forse un po’ pesanti, mi sfogai con quel funzionario. Gli dissi che, per quello che mi era successo prima, e per quello che mi stava capitando ora, consideravo,in quel momento d’ira, “l’USL una banda di (omissis), burocrati e passa carte lontani anni luce dai reali problemi della gente che soffre”. Subii così una denuncia penale per “offesa a pubblico ufficiale”. L’apice della USL si era sentito offeso: il direttore generale, dott. Sergio Luzi, firmò la denuncia. Così venni processato. Per fortuna, poco prima del processo, il reato di offesa a pubblico ufficiale era stato depenalizzato, perciò il Giudice dettò un termine di tre mesi entro i quali la / o le persone offese presentassero personalmente la loro querela contro di me. Nessun funzionario della USL 20 compì questo atto, per cui, alla fine, venni assolto e tutto finì in una bolla di sapone. Notai però la differenza: tutte le denunce da me presentate erano state regolarmente archiviate senza che
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riuscissi mai ad arrivare a un dibattimento in aula, perlomeno ad un confronto pubblico. Invece era stata sufficiente una frase da me pronunciata in un momento d’ira e di disperazione per trascinarmi in un’aula del Tribunale costretto a subire un vero processo. Nelle aule dei Tribunali sta scritto “La legge è uguale per tutti”. Sarà poi vero? Per fortuna riuscimmo ad ovviare anche all’ostacolo della sospensione della maestra. Merito della signora Silvana che, pur non percependo lo stipendio, continuò volontariamente il suo lavoro anche nei periodi in cui i burocrati della USL avevano preteso che venisse sospeso. Io continuavo nel mio impegno volto a far cambiare la legge che impone l’obbligatorietà dei vaccini.
Fondo la Lega per la Libertà delle Vaccinazioni
Fondai nei primi anni 80 la “Lega per la Libertà dalle Vaccinazioni” assieme a Paolo Vanoli e al dottor Dario Miedico, medico legale di Milano. Partecipai assieme a loro, e qualche volta da solo, a molte tavole rotonde che dibattevano l’argomento delle vaccinazioni.
Partecipo a Trasmissioni Televisive
Fui invitato anche a trasmissioni televisive, nelle TV private ed anche alla Rai sulla terza rete alla trasmissione “Samarcanda” condotta da Michele Santoro. In questo programma ebbi l’opportunità di scontrarmi con due funzionari dell’Istituto Superiore di Sanità, il virologo professor Gianbattista Rossi e l’epidemiologo professor Michele Grandolfo. Durante quella serata, al teatro Clodio a Roma, ricordo feci andare su tutte le furie il professor Rossi quando, dopo aver brevemente accennato alla mia vicenda e riferendomi proprio ai risultati che attendevo da loro, pronunciai questa frase:”All’Istituto Superiore della Sanità nicchiano”. Vidi i suoi pochi capelli drizzarsi sul capo e diventare rosso paonazzo, non si aspettava che me ne uscissi con quella frase così dura e, per lui, forse anche offensiva. Per me era sicuramente la verità sulla mia vicenda, attorno alla quale, quei signori, invece di cercare di far luce com’era loro dovere, avevano sempre e solo cercato di tergiversare, insabbiando con ogni mezzo quell’amara realtà che aveva distrutto la mia famiglia.
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Fondo l’Associazione A.L.V.
Nel 1990 la Lega per la Libertà dalle Vaccinazioni si trasformò in Associazione denominata A.L.V., (Associazione per la Libertà delle Vaccinazioni e per il risarcimento delle Vittime da Vaccino). Ne fui segretario per qualche anno, l’impegno era per me molto gravoso, ricevevo decine di telefonate al giorno da persone di tutte le parti d’Italia che chiedevano informazioni sul come fare per non sottoporre i propri figli alle pratiche vaccinali. L’Associazione forniva assistenza medica e legale a quegli innumerevoli genitori che avevano capito che le vaccinazioni facevano correre dei rischi ai loro figli e qualche volta anche a loro stessi. Rincontrai il professor Grandolfo in una serata televisiva, sempre su Rai 3, dal titolo “Mi manda Lubrano”, nella quale capii che in queste trasmissioni, pur essendo in diretta, non si ha la possibilità di esporre fino in fondo i problemi. Feci una precisa domanda che cercava di puntualizzare la responsabilità dello Stato sui danni che le vaccinazioni talvolta producono: “Visto che nel vademecum delle Vaccinazioni si dice che non devono essere somministrati vaccini con virus vivo, se esiste uno stato di carenza immunitaria primario o secondario, quali ricerche preventive vengono eseguite per verificare se sussiste questa situazione nei soggetti vaccinandi?” Notai subito l’imbarazzo di Grandolfo, perché sapeva benissimo che non veniva mai eseguita alcuna ricerca a tale scopo bensì veniva lasciato fare tutto al caso, come al tragico giuoco della roulette russa. Questo funzionario dell’Istituto Superiore di Sanità cercò prima di tergiversare poi, quando si accorse che più volte incalzavo ripetendo la domanda addirittura urlando quando mi venne strappato il microfono dalle mani da Lubrano andò letteralmente nel pallone: si mise perfino a recitare un ritornello che parlava di una farfalla che si posa con le sue ali delicate baciando dolcemente il bambino, raffrontandola al benefico tocco prodotto dal vaccino. L’aveva tratta da uno spot pubblicitario che i venditori di vaccini avevano ideato per propagandare la grande utilità ed i benefici dei loro prodotti. Era evidentissimo l’imbarazzo nel quale si era trovato se non fosse intervenuto il conduttore, spostando l’argomento e di conseguenza l’attenzione del pubblico. Capii così che non era solo la Sanità Veronese che cercava, ad ogni costo e con ogni mezzo, di nascondere le malefatte che le vaccinazioni producevano, ma era la Sanità tutta che non poteva ammettere che una delle “Colonne” della Medicina Ufficiale, qual è la prevenzione vaccinale, incominciasse a traballare. Intervenni sempre in trasmissioni in diretta, quasi mai in differita, poiché sapevo bene come i midia fossero bravi a manipolare le dichiarazioni che venivano fatte modificandone talvolta anche il senso, per far apparire ciò che a loro faceva comodo. Mi capitò una volta nella trasmissione, su Rai 2, nella rubrica dal titolo “Diogene”, dove alla fin fine mi fecero apparire quasi
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come un propagandista di quelle industrie, a mio avviso invece produttrici e dispensatrici di morte. Fui anche invitato a partecipare, come ospite, nelle trasmissioni “Forum” e “Giorno per giorno” sulle reti Mediaset. La prima condotta da Rita Dalla Chiesa, dove ebbi un contraddittorio con un pediatra di Arezzo, consulente della trasmissione. Prima della trasmissione avevamo avuto modo di parlare amichevolmente dell’argomento vaccinazioni e notai che condivideva abbastanza il mio modo di pensare su questo tema; quando però fummo intervistati dalla conduttrice del programma, davanti alle telecamere, cambiò letteralmente tono. Si mise a pubblicizzare, come avrebbe fatto un bravissimo imbonitore nelle televendite, i pregi dei vaccini decantandone, anche con parole forti, la loro assoluta necessità, la loro necessaria obbligatorietà e soprattutto la loro innocuità. Lo guardai stupito nel sentirlo esporre, in quel modo la sua tiritera. Al termine del programma, nella stessa giornata, fui invitato dalla signora Dalla Chiesa, che era rimasta impressionata nell’ascoltare la mia vicenda, ad approfondire l’argomento nella rubrica condotta da Cecchi Paone che andava in onda al pomeriggio denominata “Giorno per Giorno”. Accettai l’invito e chiesi che assieme a me, durante il confronto che sicuramente si sarebbe tenuto ancora con quel pediatra di Arezzo, di cui non ricordo il nome, avesse potuto partecipare un altro genitore. Era il signor Favoriti che asseriva di aver perso una bambina a causa di una vaccinazione. La mia proposta fu accettata e così ci ritrovammo seduti con il conduttore Cecchi Paone attorno ad un grande tavolo, sul quale erano distese moltissime riviste illustrate. Io ed il padre della bimba morta da una parte, dall’altra la signora Rita ed il pediatra di Arezzo. La signora incominciò a parlare per prima chiedendo al medico se era a conoscenza di queste realtà, di questi tristi fatti di bimbi morti in conseguenza delle vaccinazioni. Lo stesso, ripetendo la tiritera già recitata nella precedente trasmissione, negò categoricamente che vi fosse un solo caso di morte dovuta ai vaccini. A questo punto cercai d’intervenire, ma invano: mi accorsi che il mio microfono era spento. Anche Favoriti cercò di parlare, ma nemmeno il suo microfono era acceso. Sentendomi offeso da quella assurda affermazione e dopo aver invano cercato di farmi capire gridando, minacciai di andarmene. Pensavo ai miei figli Marco e Andrea, morti proprio causa il vaccino, e ad Alberto che non poteva più parlare,essendo tracheostomizzato per lo stesso motivo: se in quel momento si fosse trovato in quel contraddittorio mi avrebbe supplicato di urlare ancora più forte in sua vece. Feci per alzarmi ma la signora Dalla Chiesa mi pregò, con molta grazia, di rimanere e solo per cortesia nei suoi confronti restai. La discussione proseguì, anche con toni molto accesi, ed alla fine si rese necessario l’intervento del conduttore che, per non creare panico nella sua trasmissione, si aggregò al coro del pediatra decantando solo i benefici che tali pratiche avevano portato all’intera umanità. Era evidente che in un contraddittorio così diretto non si poteva impedire a due genitori che avevano
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visto morire i loro figli per le pratiche vaccinali, di sfogare la loro rabbia urlandola in faccia alle telecamere. Finalmente altri genitori si oppongono in modo deciso alle pratiche vaccinali
L’allarme sui probabili danni che le vaccinazioni possono provocare, cominciò ad esser recepito da tanti genitori che affrontavano le incalzanti pressioni e le minacce che le ASL mettevano in atto nei loro confronti in modo assillante. Ma questi cittadini determinati a non sottoporre alle vaccinazioni i loro figli, successivamente si sarebbero visti costretti ad affrontare addirittura processi presso i Tribunali dei Minori; trascinati davanti ai Giudici dalle denunce dei Settori Sanitari, avrebbero dovuto rispondere dell’omissione al dettato di Legge che impone l’obbligo vaccinale. Nonostante la presentazione in Tribunale di valide argomentazioni e pubblicazioni scientifiche che giustificavano il loro agire, alla fine avrebbero subito, purtroppo, un decreto di affievolimento della potestà genitoriale. I Giudici Minorili non hanno mai accettato alcuna spiegazione portata da quei padri e madri a loro difesa, nemmeno quando essi presentavano una voluminosa documentazione, raccolta con molta difficoltà che attesta gli innumerevoli danni provocati dai vaccini. Erano convinti quei genitori che essa potesse essere attentamente letta dai giudicanti, non potendo prevedere invece che gli stessi, con la istrionica giustificazione della “difesa della collettività”, emettessero sempre e solo un verdetto di condanna nei loro confronti. Pochissimi sono i Magistrati che desiderano approfondire un argomento così delicato e protetto da grandi interessi e constatare se sia giusta questa obbligatorietà imposta per Legge. Gli stessi Magistrati agiranno sempre non vedendo i reali ed innumerevoli danni che le vaccinazioni hanno provocato e che continueranno a provocare nel tempo, danni che forse potrebbero essere capitati anche a loro o a qualche parente o amico. I Giudici si scagioneranno dalla responsabilità di questo stato di anomalia Costituzionale Nazionale che impone l’obbligo dei vaccini senza nessun accertamento preventivo, imputando la colpa della situazione al Legislatore che ha deciso in questo modo e applicheranno, senza curarsi d’altro, le sanzioni previste in materia. Anni addietro, il provvedimento prevedeva addirittura la sospensione temporanea della patria potestà, che veniva restituita ai genitori solo dopo l’avvenuta vaccinazione, magari anche con l’intervento dei carabinieri che prelevavano il bambino e lo portavano all’ufficio preposto per farlo vaccinare. Per fortuna questo atto coercitivo non avviene più, da quando l’allora ministro Mariapia Garavaglia emise un decreto che impediva alle persone che si rifiutavano di sottoporre i loro figlioli alle pratiche vaccinali fossero perseguite penalmente. Anche molti medici si opposero a queste prassi vaccinatorie, sicuramente molto più informati della
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gente comune sui rischi connessi ai vaccini, ma nonostante la loro conoscenza in merito, essendo degli addetti ai lavori, venivano anch’essi trascinati in Tribunale. I Giudici minorili non tenevano mai conto della loro convinzione dettata dalla serietà professionale, e senza prendere atto delle loro esperienze vissute durante la carriera medica, imponevano l’obbligo di sottoporre alle prassi vaccinali. Ci furono molte manifestazioni di dissenso per la imposizione di ulteriori obblighi vaccinali, però mai nessuna riuscì a far cambiare il metodico comportamento dei Magistrati e di conseguenza nemmeno quello del Legislatore. Qualche volta, davanti a dei genitori decisi di portare a termine la loro lotta, le istituzioni preferivano chiudere gli occhi, piuttosto di scontrarsi con queste ardite persone. I sanitari, molto attenti a non creare alcun precedente palese e solo a titolo provvisorio, lasciavano cadere la loro pressione nei confronti di alcuni genitori particolarmente coraggiosi e caparbi. Caso Marani
Ricordo volentieri la vicenda vissuta da un falegname di Verona, Carlo Marani, il quale rifiutò di far sottoporre i propri figli alla vaccinazione antipoliomielitica Sabin. Il maschio, Federico, aveva sei anni e doveva essere iscritto alla prima classe elementare; la bambina, Fiorenza, ne aveva due e mezzo, e doveva frequentare l’asilo nido. Questo padre coraggioso aveva a suo favore una valida motivazione per non voler far vaccinare i suoi figli: sua moglie, da piccola, dopo la vaccinazione antipolio era stata molto male, fu ricoverata all’ospedale dove venne emessa la diagnosi di “Acrodinia”, guarda caso proprio la stessa che avevano stilato anche per il mio primo figlio Marco. Carlo mi contattò essendo a conoscenza della tragedia familiare che mi era capitata e perciò, visti i precedenti della madre dei suoi figli, basandomi anche sulla mia esperienza, lo consigliai di non far sottoporre i suoi bambini alla vaccinazione antipolio Sabin. Marani si rese subito conto del pericolo che stava correndo e per rendere pubblica la sua preoccupazione si insediò davanti al Distretto della ASL con dei grandi cartelli per far conoscere ai responsabili della Sanità e all’opinione pubblica qual era la decisione che aveva preso: non sottostare alla legge che gli imponeva l’obbligo della vaccinazione per i suoi figli. Dovette battagliare non poco: la bambina venne subito distanziata dai suoi coetanei all’asilo nido, tenuta in disparte e da sola come se fosse stata un’appestata, il maschio inizialmente non fu addirittura accettato alla scuola elementare. Carlo ed io non accettavamo di vedere compiuta una così crudele discriminazione nei confronti di questi bimbi sani e non vaccinati, quando invece veniva permesso l’inserimento nelle
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comunità scolastiche ai figli di persone sieropositive o ammalate di AIDS, senza che i genitori dei bambini sani e vaccinati fossero messi a conoscenza di queste situazioni. A nostro parere, pur senza voler discriminare questi altri bambini, figli di persone ammalate, ritenevamo certamente molto più pericoloso il loro contatto con i compagni, di quello con i nostri piccoli non vaccinati ma sani. Fui sempre vicino a Carlo tutte le volte che si presentavano questi assurdi ostacoli scolastici. Riuscii a convincere il Direttore Didattico del Circolo Scolastico di pertinenza ad accettare Federico a scuola, facendo una telefonata a Roma al funzionario del Ministero della Pubblica Istruzione che avevo avuto modo di conoscere qualche tempo prima in un incontro al Ministero, il quale parlò poi direttamente col Direttore stesso convincendolo ad accogliere il bambino in classe. Per Fiorenza la cosa era più difficile, essendo l’asilo nido di pertinenza comunale, dovemmo far intervenire prima la forza pubblica e successivamente la stampa in modo tale da far conoscere all’opinione pubblica in quale stato di umiliazione era ridotta la bambina che, allontanata dai suoi compagni di gioco, triste e mesta giocherellava da sola col suo papà in un angolo del cortile dell’asilo nido. Molti giornali ripresero la notizia, fummo anche invitati in un programma televisivo sulla rete RAI, dal titolo “Uno mattina”, ma decidemmo, di comune accordo, di non partecipare a quella trasmissione, poiché ci avevano preannunciato il taglio giornalistico che sarebbe stato dato all’argomento. Ci venne detto che avremmo avuto pochissimo tempo a nostra disposizione per parlare, poiché tutto lo spazio veniva lasciato ai Funzionari dell’Istituto Superiore di Sanità presenti in diretta nello studio di Roma, mentre invece noi eravamo stati invitati presso la sede RAI di Venezia per cui, sicuramente, saremmo stati impossibilitati ad intervenire direttamente. Non volevamo farci strumentalizzare da un “teatrino” televisivo, facendoci magari anche raggirare dal conduttore della trasmissione che sapevamo essere apertamente a favore delle pratiche vaccinali. Ma soprattutto non volevamo che si giocasse in modo scorretto sui sentimenti dei milioni di telespettatori che seguivano il programma, facendo passare questa vicenda in modo compassionevole e, magari, ritornando a riproporre i soliti ritornelli al solo scopo di pubblicizzare ulteriormente i pregi delle vaccinazioni. La polemica esplode a livello giornalistico e molti giornali locali e nazionali riprendono l’argomento dell’obbligo vaccinale. I titoli più disparati si sprecano, “Vaccini?Sono pericolosi” -“Vaccini obbligatori violazione di libertà” –“Vaccino obbligatorio?No grazie” – “Impedisce le vaccinazioni rischia la patria potestà” – “Vaccinazione ai bambini solo per libera scelta” –“Vaccini obbligatori?No,grazie Gli abolizionisti al contrattacco” questi titoli dimostravano il crescente interesse della gente al problema dell’obbligo vaccinale.
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Sterile polemica della Chiesa Veronese sul tema dell’obbligatorietà vaccinale
Il giornale locale di indirizzo Cristiano dal titolo “Verona fedele” in data 12 maggio 1996 riprende l’argomento con molto fervore, si scaglia quasi contro i genitori che rifiutano di far vaccinare i loro figli e apertamente si schiera a favore dell’obbligo vaccinale. Fa un articolo a tutta pagina titolandolo “Il Vaccino che divide”, commentando in vari modi l’argomento, ad esempio cita: “ Il parere di Tremante presidente dell’Associazione lesi vaccinazioni, del dott. Zivelonghi, responsabile vaccinazioni all’Ulss 20 e del prof Aldrighetto (Immunologia presso l’Università). Il padre intanto, non si arrende segue una serie di pareri di personaggi locali che s’interessano del tema vaccinazioni. Dal giornale Verona Fedele
Quello che viene messo più in evidenza, nel riquadro dal titolo “Il parere”, è il pensiero di don Eugenio Manoli, vicepresidente del Centro Diocesano Aiuto Vita che integralmente riporto. “Il caso “Marani” ci pone di fronte ad un interrogativo che vede coinvolti due principi, il diritto naturale dei genitori e dall’altra parte il dovere della comunità a garantire i diritti inviolabili della persona. La nostra Costituzione repubblicana sancisce come diritto assoluto ed inviolabile il pieno sviluppo della persona umana. Essa tutela le formazioni sociali, in modo particolare la famiglia, proprio perché promuovono ed attuano lo sviluppo integrale della personalità dei propri membri. La crescita, la maturità, il pieno sviluppo della persona sono voluti e garantiti, per tutti i cittadini, in quanto, in un piano di parità ed uguaglianza, possano concorrere alla partecipazione ed organizzazione democratica della vita politica, economica, culturale e sociale del Paese. In questa ottica la famiglia naturale ha un ruolo preferenziale nell’educazione dei figli, in quanto si presume che i diritti del minore possano essere maggiormente tutelati nell’ambito del nucleo originario. I genitori, prima di ogni altra istituzione, quando garantiscono la normale crescita psico-fisica del minore, hanno il diritto di educare, allevare i figli. Mentre la tutela della famiglia è immediata, indiretta e riflessa, la tutela del figlio al pieno sviluppo è piena, effettiva e prevalente. E’ chiaro che se una famiglia non adempie ai suoi obblighi, la sua tutela viene meno. Il diritto dei genitori ha motivo di esistere solo se e quando essi adempiono al loro dovere, esso va tutelato ed aiutato se essi si curano realmente ed effettivamente dei loro figli. Quante volte in nome dell’amore facciamo del male ai nostri figli. In nome della carriera, del benessere, del consumismo imponiamo la vita a misura dell’adulto. Quante volte nella separazione e divorzi i figli sono vittime di contesa tra gli adulti? Bisogna rimettere l’uomo al centro dell’interesse, in particolare “i piccoli” perché sono il nostro futuro”.
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Quando si vuol difendere un’opinione a tutti i costi, come in questo caso fece il don Manoli, si cerca di svisare l’argomento spostandolo dal vero tema che viene sollevato, in questo caso affermare o negare se sia giusto mantenere l’obbligo vaccinale, su di un altro piano più comodo. Sul tema in questione, a mio parere, la Chiesa non ha mai preso una decisa posizione. Mi sembra ovvio che ai genitori che non compiono i loro doveri nei confronti dei figli sia giusto che lo Stato o chi per esso intervenga e prenda in mano la situazione, ma non mi pare che ciò sia giusto nei confronti della famiglia Marani che, così agendo, si dimostra molto più attenta alla salute di Federico e di Fiorenza. Questi genitori si sono esposti pubblicamente per far conoscere all’opinione pubblica l’argomento dei pericoli delle vaccinazioni, ne avevano diritto pensando a che cosa era capitato anni addietro alla signora Marani: o dovrebbero aver fatto finta di niente e, semmai, quando sarebbe stato troppo tardi, piangere sulla loro eventuale disgrazia? Mi sembrava strano che dei sacerdoti, che dovrebbero pensare più al bene spirituale delle persone, entrassero in polemica su un problema tipicamente di sola politica sanitaria, perché di questo si tratta e di nient’altro. Per questo motivo mandai una lettera al direttore del giornale con preghiera di pubblicarla integralmente. E così fu, in data 26 maggio 1996, eccola di seguito: ”Caro Direttore, ne “Il parere” riportato su “Verona Fedele del 12/5/96, nella pagina dedicata al caso Marani, il genitore veronese che chiede di poter non vaccinare i propri figli con l’antipolio Sabin, don Eugenio Manoli pone la “questione morale” che vede coinvolti due principi: il diritto naturale dei genitori da una parte e il dovere della comunità dall’altra; in mezzo i diritti inviolabili della persona, ancora più forti e coinvolgenti perché si tratta di creature che si affacciano alla vita. Il parere si sofferma su questi principi, con affermazioni forzatamente sintetiche, per il breve spazio disponibile, che lasciano intravedere una prevalenza del dovere della comunità quando la famiglia non realizza il proprio diritto naturale di crescere, allevare ed educare i figli adempiendo così ai propri obblighi. E fin qui nulla da eccepire. Ma fermarsi qui è a mio giudizio ancora una volta pilatesco. Quando dai principi si cala nelle vicende concrete allora inevitabilmente occorre prendere posizione: come singoli e come comunità. Nella mia vicenda personale potrei lamentare di non avere mai avuto una chiara presa di posizione da parte della Chiesa e dei suoi esponenti più autorevoli coinvolti direttamente o indirettamente, (conservo le relazioni epistolari) e cosa ancora peggiore di essermi trovato escluso dalla comunità dei fedeli non essendo più oggetto né soggetto nemmeno delle normali relazioni che mantengono un legame con la propria chiesa locale, ma rischierei di uscire dal seminato e di polemizzare inutilmente. Allora preferisco fare una domanda secca: la Chiesa cattolica concorda nel ritenere che l’obbligo della vaccinazione imposto con riferimento dell’art. 32 della Costituzione, non sia lesivo del rispetto dovuto alla persona umana, richiamato dallo stesso art. 32; rispetto che trattandosi di minore si esprime prioritariamente per “diritto naturale” attraverso la
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famiglia? O si o no!! Come la penso io, dopo venticinque anni di lotta credo sia ormai chiaro. E a questo proposito chiedo: mi sono curato maggiormente ed effettivamente dei miei figli quando ho accettato l’imposizione della vaccinazione o quando con sofferenza e disperazione ho lottato contro tutto per salvare la vita di Alberto e per far prendere coscienza a tutti della problematica legata alla pratica delle vaccinazioni? E della famiglia Marani si può dire non stia adempiendo al proprio dovere di allevare, crescere ed educare con consapevolezza i propri figli perché coscientemente e motivatamente chiede di non essere costretta alla vaccinazione Sabin? Chi in nome della carriera, del benessere o del consumo sta cercando in questo caso di impostare la vita a misura dell’adulto? Si può dire questo della mia vicenda e di quelle di altre migliaia di famiglie già col danno o che cercano di evitarlo? Ma la scienza, si obietta, dà risposte tranquillizzanti: ed ecco l’altro nocciolo del problema la (in)fallibilità della scienza medica e i dati statistici sull’incidenza epidemiologica delle malattie soggette a vaccinazioni. Su questo tornerò volentieri in altra circostanza se mi sarà consentito. Qui preferisco fare un’ultima riflessione per analogia: la Costituzione sancisce il diritto all’istruzione e lo Stato ne stabilisce l’obbligatorietà per legge, ma lascia alle famiglie la libertà di utilizzare gli strumenti ritenuti più idonei (la scuola di stato, la scuola privata, la scuola paterna). Perché non deve esserci la stessa libertà di scelta sugli strumenti da utilizzare per difendere un bene altrettanto soggettivo e legato al concetto di persona qual è la salute fisica e psichica? Perché, trattandosi di strumenti, al cittadino si impone l’uso della pratica vaccinale mentre per ogni altra pratica medica gli è richiesto direttamente o implicitamente di esprimere il proprio consenso o adesione di fatto alla prescrizione? Interesse superiore della collettività, si dice, o è altro? Ringrazio per l’ospitalità e porgo cordiali saluti, confidando nella pubblicazione in spazio adeguato. Il presidente dell’Associazione “Lesi dai Vaccini” Giorgio Tremante Nella stessa pagina il direttore don Bruno Fasani, guardandosi bene dal rispondere in modo chiaro alla mia precisa domanda sulla posizione della Chiesa Cattolica riguardo all’obbligatorietà dei vaccini, così commenta la mia missiva: ”Più che dare risposte, vorrei aprire su questo tema un dibattito sereno ma serio ed approfondito lontano da toni emotivi. Personalmente credo che lo Stato e la legge debbano tutelare ogni individuo e difenderlo anche dalla famiglia, se è il caso. Questo impedisce di confinare la persona entro un orizzonte equiparabile ad una proprietà privata. Giustamente lo Stato obbliga alla scolarità, alla tutela della salute, al rispetto della dignità, arrivando a sottrarre i figli in caso di violenza o maltrattamenti. Questo è il principio. L’errore incomincia quando la legge diventa più importante delle persone, o per dirla con il Vangelo, quando il sabato diventa più importante dell’uomo. Succede allora che l’eccezione, il caso particolare finisca per piegare le persone anziché adattare le norme al loro servizio. Detto questo ritengo che la scienza debba porre molta attenzione nell’individuare i casi che realmente costituiscono un’eccezione. In caso contrario potremmo andare incontro a forme di anarchia, lasciando agli umori, alla
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cultura, alla preparazione delle famiglie il rispetto delle persone. Un sentiero davvero pericoloso”. Purtroppo però, il dibattito serio ed approfondito lontano da toni emotivi non venne più ripreso, controllai molte volte durante i mesi successivi per vedere se scorgevo su “Verona Fedele” una certa prosecuzione dell’argomento, ma notai un assoluto silenzio sul tema vaccinazioni. Forse il giornale era stato raggiunto dalla lunga mano di un certo potere? Il sacerdote nella sua interpretazione dei fatti, pur non nominando la famiglia Marani, si era reso conto che quei genitori erano nel loro pieno diritto di chiedere la sospensione della vaccinazione antipolio Sabin proprio a causa di quell’incidente occorso alla madre? Riferendosi ai “casi che realmente costituiscono un’eccezione” , mostrava a mio avviso di non avere lontanamente idea di quanti potrebbero essere questi casi e di non conoscere nemmeno l’entità dei danni che gli stessi hanno fatto gravare sulla collettività producendo un numero esorbitante di handicappati. Se un domani, non lontano, si dimostrasse che questi “casi” più o meno gravi, e con le patologie più disparate sono estremamente numerosi cosa ne penserebbe don Fasani? Suggerimenti utili per approfondire l’argomento “vaccinazioni”
Non è poi certo anarchia rifiutare un atto sanitario rischioso, il rischio sicuramente esiste e lo ammette addirittura una legge dello stato Italiano, la numero 210 del febbraio 1992. Quante volte sono state varate delle leggi verificatesi poi sbagliate? In certi Paesi del nostro pianeta esistono leggi che impongono la pena di morte, anche nella tanto civile America. La Chiesa Cristiana combatte perché venga abolita in ogni dove la pena di morte, per salvaguardare il diritto alla vita si batte per abolire l’aborto, non mi rendo perciò conto del perché non debba essere a fianco anche di quei genitori che si battono per salvaguardare il diritto alla salute dei loro figli che, a causa delle vaccinazioni, potrebbero diventare handicappati o addirittura perdere la vita. Forse, in questi casi, si pensa che essi siano figli di un Dio Minore? Anche la legge che impone l’obbligo vaccinale, emessa molti anni addietro, quando le malattie infettive erano ancora endemiche, potrebbe essere diventata obsoleta. Oggi, certe malattie per cui s’impongono le vaccinazioni sono scomparse o sono isolate in piccoli focolai nei paesi in cui la popolazione viene mantenuta in uno stato sociale di degrado, privo delle più comuni ed elementari regole d’igiene e per di più anche carente di nutrimento, elemento utile e indispensabile per combattere eventuali epidemie di malattie infettive. Nei Paesi occidentali come il nostro, per fortuna, queste situazioni non esistono più. Le famose epidemie di colera e di peste che successero molti anni addietro non si sono più ripetute, non
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certo perché sono state debellate dalle vaccinazioni, poiché, allora non erano state ancora inventate, ma la natura stessa ha risolto quei problemi. Si potrebbe obiettare che, oggi, nei tempi della “globalizzazione”, il rischio potrebbe sussistere per il possibile ritorno di certe malattie infettive. Secondo me è solo una nuova ed ulteriore giustificazione necessaria ai i produttori di vaccini, poiché per mezzo di questo assurdo terrorismo, invece di proporre l’igiene e portare nutrimento idoneo alle popolazioni indigenti, tendono a mantenerle succubi del loro potere economico sfruttando la “loro ignoranza”. Non esiste una sola prova seria al mondo atta a dimostrare che le vaccinazioni abbiano debellato le malattie infettive! Vi sono bensì prove che dimostrano che, con l’introduzione delle vaccinazioni, si è verificato un inaspettato incremento di tipo esponenziale della curva delle malattie degenerative. Cosa sta a significare questo? Traducendo in parole povere il significato di ciò che è accaduto, dimostra, come ha dichiarato lo stesso dottor Robert Mendelsohn, uno dei più illustri pediatri Americani del ventesimo secolo: “Abbiamo barattato gli orecchioni ed il morbillo con il cancro e la leucemia!” E’ veramente questa trasformazione ciò che abbiamo guadagnato noi, “gente comune”, con l’introduzione e l’uso indiscriminato delle vaccinazioni? “Ai posteri l’ardua sentenza……!”. Le prove di quanto affermo esistono (se si vogliono vedere): due grandi Istituti di Ricerca hanno analizzato scrupolosamente l’andamento epidemiologico delle malattie infettive dall’evento delle vaccinazioni. Il primo è l’Istituto Scharp che, a livello internazionale, ha fatto delle verifiche in varie località del mondo presentando poi le curve di decremento di queste malattie che, mostrano come fossero già in calo prima dell’invenzione dei vaccini. Stavano arrivando naturalmente allo zero e con l’introduzione delle vaccinazioni, le curve non hanno dimostrato alcuna modifica in positivo, anzi, qualche volta, proprio l’uso dei vaccini ha prodotto un’impennata alle curve stesse, annotando di conseguenza un aumento del numero dei casi di malattie infettive. Un altro Istituto di ricerca a livello Italiano, l’Istat, ha palesemente dimostrato la stessa situazione nel nostro paese. Per cercare di rendere reale l’efficacia e l’utilità dei vaccini, chi aveva interesse a farlo, ha manipolato a proprio favore i dati ufficiali, ponendo sulle ascisse un dato assolutamente incompatibile con quello posto sulle ordinate, dimostrando così il contrario della realtà. Questo modo di agire sicuramente non è scientifico, ma gli interessi economici che interagiscono in questo settore fanno sì che un certo “Scientismo” prevalga sulla vera “Scienza”. Come ho già detto, io non sono un medico; nonostante ciò, la ricerca che ho compiuto in quasi trent’anni basata su pubblicazioni scientifiche di tutto il mondo e purtroppo anche sulla triplice esperienza negativa che sono stato costretto a vivere, mi permette di trarre personalmente queste conclusioni. Non è assolutamente mio intento creare del terrorismo, semmai a questo ci pensano
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già le multinazionali che traggono enormi guadagni dalla situazione di paura delle malattie che si è creata nelle popolazioni: io non ho niente da guadagnare nell’affermare ciò, invece dovrei solo temere le ritorsioni di una cultura e di un potere che poggiano su questa ormai mal ferma colonna dei vaccini. (Vedere bibliografia) Sciopero della fame messo in atto da vari genitori a Venezia
Sempre più persone si stanno ponendo l’interrogativo sull’efficacia delle vaccinazioni, e sempre più ne rifiutano l’uso su se stessi e sui propri figli. Venne organizzato a Venezia, il 23 maggio 1996, nel piazzale antistante la stazione di Santa Lucia, uno sciopero della fame di una settimana compiuto da dei genitori che si opponevano all’esecuzione dei vaccini ai propri figli. Uno di loro era Carlo Marani, lo stesso che a Verona si era posto davanti al Distretto della USL con i cartelli per chiedere di non fare la vaccinazione antipolio Sabin ai suoi figli. L’intento era quello di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica attorno al problema dell’obbligatorietà dei vaccini e, nel contempo, sollecitare lo Stato e le sue Istituzioni affinché si arrivasse a modificare la legge che ne impone l’obbligatorietà. Intervennero alla manifestazione anche dei parlamentari che si assunsero l’incarico di fare da portavoce presso il Governo per fargli prendere atto di questo annoso problema. Mi accorsi, però, proprio in quel frangente, che la gente era poco ricettiva alle mie parole: sembravo un extraterrestre quando mi sforzavo di spiegare i pericoli e le conseguenze che potevano essere derivate dall’uso dei vaccini. Le persone si ponevano sulla difensiva, obiettando che se esisteva l’obbligo bisognava assolutamente sottostare a questo dettato di legge. Il loro modo di agire derivava dalla spasmodica ricerca di scaricare su qualcuno la salvaguardia della propria salute. Per la gente comune, questa salvaguardia si realizzava esclusivamente attraverso l’uso dei vaccini, come gli era stato da anni insegnato, e non potevano minimamente concepire che questa loro certezza potesse essere messa in dubbio. Capii così quanto era radicato nella collettività l’indottrinamento ricevuto fin da bambini, soprattutto attraverso l’educazione scolastica, da molti lustri cassa di risonanza solo ed esclusivamente dei benefici che le campagne vaccinali hanno prodotto. Mi stavo rendendo conto che non riuscivano a prendere in considerazione che la realtà, poteva forse anche essere diversa da come l’avevano sentita sempre raccontare. L’ostacolo più evidente per tutti è quello di doversi impegnare a cercare di persona la verità; dover impiegare del tempo quando poteva essere più comodo dedicarlo ad attività più remunerative od allettanti; per di più delegando le Istituzioni a fare ciò che sarebbe doveroso fare, non si creano dubbi e nuovi problemi, preferendo come gli struzzi nascondere il problema sotto la sabbia fingendo di non vederlo. In
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occasione di quella manifestazione, come pecore quasi tutte disattente, i cittadini passavano, osservavano distrattamente quei cartelloni, defilandosi davanti ad essi. Non cercavano spiegazione al problema che io stesso tentavo di proporre, guardandosi bene dall’affrontarlo. Il loro passare disinteressato era per me un segno evidente dell’accettazione passiva dei rischi che sarebbero potuti derivare a loro ed ai loro figli sottoponendosi alle pratiche vaccinali. Questa situazione di sconcerto derivava dal fatto che i vaccini sono sempre stati considerati dalla collettività un grandioso e meraviglioso segno di progresso civile. La convinzione che la prassi vaccinale sia un fatto positivo è sempre stata inculcata nella popolazione, per cui viene dato per scontato un senso di sicurezza nei suoi confronti. Sentirsi dire che questo dogma non è poi così sicuro ha creato uno stato di incertezza e di insicurezza che disturba alquanto l’acquisita tranquillità. Questo pensiero una volta entrato come un tarlo nel cervello crea scompiglio, perché non si può più essere totalmente sicuri del “mito” in cui si è fermamente creduto per molti anni. Oggi molte persone, poste davanti a dei fatti concreti che dimostrano gli innumerevoli danni che le vaccinazioni hanno prodotto, incominciano a pensare ed a rendersi conto che loro stesse avrebbero potuto esserne coinvolte in prima persona. Per questo motivo, pian piano, iniziano a ricercare con maggior accuratezza quel tipo d’informazione che fino a quel momento non gli è interessata più di tanto e, di conseguenza, non portano più ad occhi chiusi i loro figli a compiere l’atto vaccinale ma bensì cercano e pretendono sempre più di essere informati. E’ una vera presa di coscienza, da parte di molti genitori che fino oggi non hanno avuto modo di conoscere nessun’altro tipo d’informazione, se non quella che gli è stata data a senso unico; hanno sempre e solo sentito parlare dei benefici che le pratiche vaccinali hanno portato, mai dei danni che le stesse hanno procurato. Moltissimi padri e madri incominciano così ad opporsi ai vaccini, avendo capito che forse il gioco non vale la candela; poiché i rischi esistono e sono anche molto gravi, non vale la pena affrontarli per delle malattie che probabilmente non esistono più, essendo già state debellate da altri fattori anziché dai vaccini. La gente incomincia a capire che questi prodotti contengono dei composti pericolosi per l’essere umano, quali, per esempio il mercurio, che è incluso nel vaccino contro l’epatite B. Esso è stato reso obbligatorio in Italia, unica nazione al mondo, perfino contro il parere di grossi nomi della stessa Scienza Ufficiale. Oggi, finalmente, la gente sta prendendo atto di questa verità e l’opposizione alla prevenzione vaccinale si fa sentire in modo sempre più forte ed incisivo. Purtroppo però, nonostante gli innumerevoli rifiuti da parte di migliaia di famiglie e nonostante che, anche i mezzi d’informazione stiano incominciando a parlare abbastanza apertamente e chiaramente riguardo ai danni che hanno comportato le pratiche vaccinali, i nostri politici fanno ancora orecchie da mercante e l’obbligatorietà non viene ancora tolta. Per quanto riguarda la vaccinazione
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antipolio ci si è limitati a reintrodurre il vaccino di Salch che contiene virus morti definendolo un “cambiamento radicale”; non viene più usato il vaccino di Sabin che contiene virus attenuati vivi, i quali possono rivirulentarsi anche a distanza di anni e creare delle malattie molto gravi ed irreversibili. Nessuna voce importante nel campo della Sanità si è alzata per dire che la stessa “musica” era stata già suonata, qualche lustro fa, quando fu ritirato il Salch ed introdotto il Sabin, imputando al primo la responsabilità di aver creato molti danni ed osannando il secondo perché maggiormente sicuro. La gente dimentica molto facilmente questi eventi, specialmente quando non è colpita dalle conseguenze letali dei “giochi” di potere. A mio avviso ci stanno trattando come emeriti idioti se non ci accorgiamo che, così facendo, le Istituzioni Sanitarie, prima sostituendo il Salch col Sabin, ed oggi tornando a sostituire il Sabin col Salch hanno solo “rovesciato la stessa frittata”. Manifestazione di protesta davanti alla stazione S.Lucia a Venezia
Alberto oggi, agli inizi del terzo millennio
La Chiesa Cattolica sta celebrando, proprio quest’anno, con grande quantità di fastose cerimonie in tutti i settori delle attività dell’uomo e con la partecipazione di folle oceaniche, il Giubileo del 2000. Io, Alberto e la mia famiglia ci sentiamo ancora lasciati soli a lottare contro un triste destino. Le belle e confortevoli parole pronunciate da Giovanni Paolo II, durante l’incontro che avemmo con Lui nel lontano 1980, “Amore, Giustizia, e soprattutto Verità”, sono per ora volate come un alito di vento. La Comunità Cristiana si è mostrata fin qui indifferente nei confronti della nostra vicenda, ed a noi, ma soprattutto ad Alberto, è rimasto solo uno sfumato ricordo di quell’ormai remoto appuntamento. Per fortuna, personalmente, sono sorretto ancora dalla “fede in Dio” nonostante l’indifferenza e talvolta le umiliazioni che i Ministri della Cristianità mi hanno fatto subire. Credo fermamente che la forza che mi ha sorretto e che mi continua a sorreggere in una così ardua lotta derivi da “Lui”. Sono spinto da una forza interiore a “testimoniare questa verità” per la nostra generazione e per quelle future, in modo tale che anche la Chiesa possa prendere atto di “questi Martiri” che, nel silenzio, sono stati immolati sull’altare di una falsa Scienza senza essere innalzati poi agli onori degli altari. La mia più grande soddisfazione è quella di poter ancora guardare negli occhi mio figlio Alberto convinto di aver fatto solo e semplicemente il mio dovere di padre. Contro il parere di quasi tutta la classe medica il mio ragazzo è vivo e vive nella normalità familiare grazie soprattutto all’aiuto della sua mamma. Lei gli ha
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sacrificato tutta la sua vita fin dall’inizio quando stava segregata giorno e notte nei piccoli ed angusti spazi che le erano concessi durante i vari ricoveri ospedalieri che Alberto è stato costretto a subire. Grazie anche a mio fratello Salvatore, che pur non capendo talvolta fino in fondo la motivazione profonda della mia lotta, ci è sempre stato vicino col suo affetto e con la sua partecipazione. Per mezzo di una assidua ginnastica Alberto ha potuto ricostruire la sua muscolatura, passando dall’ipotonicità alla tonicità muscolare per cui ora è in grado di gestire la sua seggiola a rotelle, afferrare oggetti ed andare sulla sua bicicletta a tre ruote. Ultimamente, e questo avviene nell’anno 2000, Alberto può stare in piedi sorretto e qualche momento anche da solo. La sua respirazione, pur costringendolo ancora durante la notte a subire il respiratore automatico, è notevolmente migliorata e gli ha permesso di frequentare quasi quotidianamente l’Istituto Magistrale, e qui va un grazie alla sua insegnante Silvana che ad Alberto ha dedicato pienamente quindici anni della sua vita. Proprio quest’anno è riuscito a superare l’esame di stato magistrale con ottima valutazione e con piena soddisfazione oltre che di noi tutti anche dei suoi insegnanti curriculari che per anni si sono meravigliati nel trovarsi in classe un soggetto con un handicap così grave da non sapere come fare ad insegnargli le nozioni utili per arrivare al superamento della maturità magistrale. Quello che è stato raggiunto è sicuramente un grande traguardo, pensando poi che per raggiungerlo, abbiamo dovuto lottare contro tanti ostacoli, con l’aiuto di alcune persone che ho precedentemente nominato e forse altre che in questo mio racconto non ho menzionato; spesso nella più grande indifferenza e opposizione delle Istituzioni che non volevano venisse alla luce una ”verità” assai scomoda. Un particolarissimo ringraziamento da parte di tutta la mia famiglia, e soprattutto da parte di Alberto, va certamente all’emerito professor Giulio Tarro per la sua onestà, per la dedizione che ha sempre manifestato nei confronti di mio figlio; oltre a salvargli la vita, mettendo per l’ennesima volta in mostra le sue innate qualità di scienziato e ricercatore scrupoloso è riuscito a dimostrare scientificamente il madornale errore commesso dalla scienza medica nel sottoporre Alberto alla prassi vaccinale, essendo anch’egli come i fratelli Andrea e Marco carente di certe difese immunitarie. Questa nostra vicenda deve diventare uno stimolo per tutte le famiglie che si trovano in condizioni simili alla nostra, un incitamento a non arrendersi mai, nemmeno quando tutto e tutti ci sembrano contro, e a credere fermamente che Dio sempre e sicuramente, anche nei i momenti più bui dell’esistenza, ci dona la forza per superare le più ardue difficoltà . Alberto davanti alla Commissione per l’esame di Maturità Magistrale
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Dimostrazione che le vaccinazioni sono state introdotte quando le curve epidemiologiche stavano arrivando, senza i vaccini, a quota zero.
Recrudescenza della malattia “Tetano” dopo la vaccinazione obbligatoria
Dimostrazione della ininfluenza del calo di casi di epatite e difterite con l’uso dei vaccini
Incidenza del nesso di causalità tra vaccinazione e SIDS
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La dimostrazione pratica di ciò che abbiamo ottenuto con “l’uso indiscriminato delle vaccinazioni”
GRAFICO COMPARATIVO delle MALATTIE
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Intensità delle malattie malattie degenerative 7-6-5-4-3-2--
malattie in genere 1--
malattie infettive I
I
I
I
I
I
I
I
I
I
I
1945
1950
1955
1960
1965
1970
1975
1980
1985
1990
1995
1966: anno d’inizio delle vaccinazione di massa (Antipolio)
I
2000
1991: anno d’inizio della vaccinazione obbligatoria (Antiepatite B)
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