Questioni deontologiche e giuridiche nell'attività dei servizi sociali: alcune questioni aperte

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Giornata di approfondimento deontologico e giuridico Genova - Venerdì 18 Ottobre 2013 Palazzo Spinola

“Questioni deontologiche e giuridiche nell’attività dei servizi sociali: alcune questioni aperte”


Intervengono

Francesca Merlini assistente sociale e sociologa, formatrice, docente Università Cattolica Sacro Cuore, Brescia, autrice di pubblicazioni di Servizio Sociale.

Massimiliano Gioncada avvocato in Milano e Piacenza, cultore della materia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Consulente Legale CROAS Liguria, Lombardia, Trentino Alto Adige, autore di pubblicazioni in materia con Maggioli – CEDAM - UTET – Giuffré. Coordina Maria Deidda Presidente Commissione Formazione Ordine Assistenti Sociali Liguria

Ringraziamenti Per la collaborazione alla sbobinatura del materiale Emanuela Liotta e Monica Bruzzo

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Nel contesto attuale, caratterizzato, da un lato, dalla necessità di contenere i costi derivanti dall’assistenza sociale prestata alle persone, e, dall’altra, dai vincoli normativi che in taluni casi ne sanciscono l’obbligatorietà, la posizione dell’assistente sociale, vale a dire il professionista chiamato, a diversi livelli, a gestire il rapporto diretto con l’utenza fino alla programmazione tecnica degli interventi, si connota per la particolare criticità e delicatezza, in relazione alla necessaria ricerca di un equilibrio, non sempre agevole e non esente da possibili rischi: da una parte, omissioni o inerzie (in certi casi, fonti di responsabilità giuridiche), dall’altra, il rischio di concretare una legittimità nel proprio agire professionale, con conseguente esposizione a richieste risarcitorie a vario titolo e responsabilità disciplinari (anche ordinistiche). La giornata di approfondimento organizzata dal C.R.O.A.S. Liguria, vuole affrontare alcuni di questi temi, offrendo un aggiornamento giuridico, a cura di Massimiliano Gioncada e un approfondimento deontologico – professionale, curato da Francesca Merlini. Mattino: Dilemmi e possibili sintesi operative tra dettato normativo e vincoli deontologici nel lavoro con le famiglie con minori.  Responsabilità giuridica e responsabilità professionale nella tutela dei minori in

caso di (rischio) abuso, con particolare riferimento al contrasto tra obblighi di segnalazione/denuncia, tutela della riservatezza, esercizio del diritto di accesso agli atti. I limiti di utilizzabilità del segreto professionale (d’ufficio). La responsabilità nei dipendenti pubblici e di cooperativa.  Il rapporto tra segreto professionale e obbligo di denuncia e di rendere testi-

monianza.  Rapporto tra responsabilità giuridico – professionale e indicazioni/limiti imposti

dalle Amministrazioni di appartenenza: l’esempio dei LEA tra risorse disponibili e diritti esigibili (la compartecipazione al costo dell’utenza, i servizi di supporto scolastico,..). Pomeriggio: Alcune novità in campo normativo La l. n. 219/2012 (rubricata Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali); La n. 190/2012 (rubricata Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione); Il d.lgs. n. 33/2013 (rubricato Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni); Il c.d. “nuovo ISEE”: il punto della situazione. Rapporto tra decreto ISEE e legislazione regionale alla luce della sentenza Corte Cost. n. 296/2012 e gerarchia della fonti.

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Prima parte

Avvocato Gioncada Si immagini l’ordinamento giuridico come un campo di calcio: all’interno di esso “giocano” gli operatori, i quali, nella loro attività, sono liberi, fino ad un certo punto, di “giocare” come meglio credono, compatibilmente con il contesto, le indicazioni dell’Ente, le c.d. risorse disponibili, in rapporto con la propria scienza, esperienza e sensibilità. Le linee del campo delimitano il limite tra la legittimità e l’illegittimità dell’agire professionale. Queste linee non sono di per sé invalicabili: non si deve pensare al testo scritto come a una sorta di scoglio insuperabile, ma le “vie d’uscita ordinamentali” sono tassative e possono essere utilizzate solo a certe condizioni. Il compito di chi, come il sottoscritto, è consulente di più Ordini professionali, non è quello della censura dell’operato dei professionisti ma, semmai, quello di sostegno, aiuto, nell’interpretare le norme, individuando le suindicate “linee del campo”, avvertendo circa le conseguenze nel caso in cui queste siano superate ovvero nel caso in cui l’agito professionale risulti illegittimo. Ma il mantenimento e il promovimento del decoro e della dignità della professione dell’assistente sociale, può provenire solamente dal corpo professionale stesso. La quotidianità della vita professionale dell’assistente sociale è scandita inesorabilmente, lo si voglia o meno, da contenuti giuridici: è lo stesso disegno generale sul procedimento amministrativo a prevedere termini e modi dell’agire professionale. Un esempio significativo può esser tratto dalla disciplina sull’accesso ai documenti amministrativi: si pensi al frequente, e spesso erroneo, utilizzo del segreto professionale; si pensi alla convinzione della sussistenza di una presunta distinzione tipo tra documenti a contenuto professionale e documenti a contenuto amministrativo. Distinzioni di questo tipo, infatti, sono del tutto sconosciute alla legge: la l. n. 241/1990 non distingue minimamente tra documenti a contenuto professionale e documenti a contenuto amministrativo, ma distingue tra documenti amministrativi e non. Di qui la diversa disciplina dell’accessibilità, o meno, dell’appunto, del diario, della relazione. Certe convinzioni, radicate perché professionalmente così tramandate, possono essere “pericolose”. Non tanto nel senso della sicura e inesorabile insorgenza delle responsabilità penali, ma perché potenziali fonti di responsabilità civili, amministrative e

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ordinistiche. Si pensi ancora al tema delle segnalazioni e delle denunce: trattasi di ambito in cui le responsabilità sono evidenti, non solo e non tanto perché il codice penale e la l. n. 184/1983 ne stabiliscono, sussistendone le condizioni, l’obbligatorietà, ma perché ci si deve anzitutto chiarire la portata delle definizioni di “incaricato di pubblico servizio”, “pubblico ufficiale” e di “persona esercente un servizio di pubblica necessità”. Queste qualifiche sono ascrivibili sia in capo al dipendente della pubblica amministrazione, sia ad esempio, integrandosi i presupposti richiesti, al dipendente della cooperativa che gestisce il servizio in nome e per conto della stessa. E dette figure si differenziano, sotto certi profili, dall’assistente sociale libero professionista. Certi obblighi riposano in capo al primo e al secondo soggetto, ma non al terzo. Gli articoli 357 e 358 c.p. individuano le due figure del pubblico ufficiale e dell’incaricato di pubblico servizio, declinando una serie di questioni: ciò che interessa sapere, a mio avviso, è che la nozione individuativa di pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio è per costante interpretazione dottrinale giurisprudenziale è da ancorarsi a un dato oggettivo, e non soggettivo, risultando assolutamente irrilevante la natura del datore di lavoro. In sintesi: dipende dalla funzione svolta, non da “chi” sia il datore di lavoro. Riguardo al “segreto professionale”, ad esempio, è un errore porre l’accento solamente (prevalentemente) sul termine “professionale”, perché è basilare comprendere, preliminarmente, cosa è definibile come “segreto”. E nella legge, rinveniamo chiaramente che il segreto professionale, a fronte di determinate situazioni, deve cedere. Un utilizzo distorto del segreto professionale mi viene spesso riferito quando l’assistente sociale sostiene di non poter condividere le informazioni col proprio responsabile di servizio: trattasi di un’aberrazione giuridica che deve essere rigettata, quale che sia la professionalità di questi. Nella pubblica amministrazione, accanto al profilo funzionale, vige e impera un principio di gerarchia: solo la sottoscrizione dell’atto da parte del responsabile dell’ufficio impegna l’amministrazione verso l’esterno. È inconfigurabile ritenere che sussistano segreti nei confronti dei propri apicali, oltretutto tenuti a loro volta al segreto d’ufficio, così come tutti gli altri appartenenti all’amministrazione stessa. Ecco che allora il diligente assistente sociale deve cercare di capire quando è utilizzabile il segreto professionale e quando non lo è.

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Una questione dibattuta concerna l’ampiezza della discrezionalità valutativa, ove emerge l’autonomia tecnico professionale che l’art. 1 della vostra legge professionale riconosce: a fronte di una medesima situazione, diversi operatori possono interpretarla in diverso modo. Quello che è fondamentale, in effetti, è la motivazione. È sempre necessario motivare adeguatamente il proprio operato, perché la motivazione regge tutto il lavoro dell’assistente sociale, ed è una motivazione sia professionale sia giuridica. Ed è riguardo alla “lettura professionale” che l’assistente sociale gode di un’autonomia pressoché totale: nessun dirigente può legittimamente imporre all’assistente sociale di scrivere una cosa piuttosto che un’altra, quando ciò non corrisponda al vero, ma il dirigente/responsabile può opporsi alla produzione esterna di un atto istruito dall’assistente sociale, ovviamente sotto la propria responsabilità. Ed anche il dirigente ha i propri limiti operativi: pensiamo al provvedimento ex art. 403 c.c. Trattasi, è noto, di un procedimento amministrativo. Ma chi lo può sottoscrivere? Il Sindaco o il dirigente? Stante il fatto che l’intervento ex art. 403 c.c. incide su una libertà costituzionalmente garantita, ritengo che, pur essendo un procedimento amministrativo, e non giudiziale, almeno nella fase iniziale, il provvedimento debba necessariamente essere un provvedimento sindacale, e non dirigenziale. Si consideri che nemmeno al pubblico ministero minorile è dato il potere di attivare un intervento ex art. 403 c.c. e, dunque, mi pare corretto ch’esso possa essere attivato dalla massima autorità locale, il Sindaco, ovvero l’Assessore delegato con delega scritta. Ma l’integrazione del concetto/situazione di “abbandono morale e materiale” è frutto della lettura autonoma discrezionale di esperienza, di scienza del singolo operatore. Domanda: Forse faccio confusione ma il 403 non recita che sono le Forze dell’Ordine con l’ausilio del servizio a fare il 403? No, il codice parla di “pubblica autorità”. Nell’interpretazione originaria del codice, si intendeva con tale dizione la forza pubblica; successivamente la giurisprudenza ha esteso tale concetto dalle forze di polizia al personale sanitario, alla scuola (giusto perché, tanto per non scordarcelo, gli insegnanti e i direttori dei plessi scolastici sono, rispettivamente, incaricati di pubblico servizio e pubblici ufficiali, e hanno gli stessi obblighi di tutti coloro che ricoprono tale status). Quindi non è affatto una cosa limitata alle forze dell’ordine. Segnalazione e denuncia però sono due cose diverse: la segnalazione è fatta a fronte di una situazione di pregiudizio, mentre la denuncia è presentata quando si ritiene

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di essere al cospetto di una figura di reato procedibile d’ufficio. E qui si possono aprire altre questioni, perché non è affatto semplice, in certe circostanze, riconoscere quale sia la condizione di procedibilità sottesa al presunto reato. L’art. 609-quater c.p. è paradigmatico: la fattispecie colà descritta è prevista come punibile a querela di parte, salvo che ricorrano determinate circostanze, colà contemplate. Ma la lettura giuridica “del fatto” può non essere affatto semplice. Domanda: Faccio una domanda rispetto alla denuncia. Se in un colloquio la persona fa una minaccia esplicita nei confronti di altro soggetto ben individuato, magari brandendo un’arma, come ci dobbiamo porre? L’art. 612 del codice penale, rubricato Minaccia, stabilisce che “[I]. Chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno è punito, a querela della persona offesa, con la multa fino a euro 1.032. [II]. Se la minaccia è grave, o è fatta in uno dei modi indicati nell’articolo 339, la pena è della reclusione fino a un anno e si procede d’ufficio”. La procedibilità, dunque, è a querela di parte (primo comma); d’ufficio (secondo comma). Ricadono nell’ambito del citato art. 339 c.p., la minacce commesse con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite, o con scritto anonimo, o in modo simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte. Mi pare di poter osservare che si integra tale reato anche quando, rivolgendosi all’operatore, la minaccia è prospettata nei confronti di terzi non presenti. Quindi ritengo che, in generale, sussista l’obbligo della denuncia. Ad esempio, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8898/2010, sez. VI, ha rilevato che ai fini della configurabilità del delitto di minaccia non occorre che le espressioni intimidatorie siano pronunciate in presenza della persona offesa e quindi della persona a cui la minaccia è diretta, potendo quest’ultima venirne a conoscenza anche attraverso altre persone, purché ciò si verifichi in un contesto dal quale possa desumersi che il soggetto attivo abbia avuto la volontà di produrre l’effetto intimidatorio. Ancora, nella pronuncia n. 6496/2011 della sez. V., è stato affermato che “è integrato il reato di minaccia aggravato dall’uso dell’arma, nella specie coltello a serra manico, la cui lama è rimasta piegata nel manico, allorché la minaccia verbale sia accompagnata dall’ostentata presenza dell’arma della quale il soggetto abbia immediata disponibilità così da rendere credibile che essa possa essere accoltellata in

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qualsiasi momento e in stretta continuità con la condotta minatoria.” È chiaro che l’assistente sociale valuta anche “cosa mette in gioco” denunciando il soggetto, pur se la tenuta, mantenimento, del setting, non può costituire un “altare” sul quale sacrificare ogni tutela, propria e di terzi. Domanda: Invece quando l’utente magari minaccia di suicidarsi? Abbiamo l’obbligo di segnalarlo alla salute mentale? Quello forse è più rilevante sotto il profilo sanitario. Mi viene da pensare che in molti casi una simile volontà viene esplicitata da soggetti che sono già in carico anche a quel plesso. Il fatto è che l’ordinamento, e la normativa internazionale, non prende posizione, se non in termini di sostanziale terzietà, di fronte alle scelte consapevoli di ciascuno sul proprio corpo. Chiaro che un passaggio con l’ufficio di salute mentale territoriale è consigliabile. Più sfumato, e complesso, è configurare un obbligo in tal senso. Domanda: Però se l’utente non fosse d’accordo ad essere segnalato, cioè non c’è il rischio che poi ci denunci perché lo abbiamo segnalato alla salute mentale? A parte il fatto che gli artt. 19 e 20 del d.lgs. n. 196/2003 pongono le basi essenziali per la disciplina del trattamento dei dati c.d. sensibili, l’operatore potrebbe comunque segnalare, facendo riferimento all’art. 54 c.p., rubricato Stato di necessità, a mente del quale “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. Si tenga conto del fatto che ove il legislatore abbia inteso riconoscere un diritto assoluto all’anonimato, vi sono disposizioni di legge che così prevedono. Diversamente, quale disposizione stabilisce che i servizi sanitari non devono trasmettere informazioni ai servizi sociali, o viceversa? Se sul caso sta lavorando una équipe, è difficile ritenere che non vi sia trasmissibilità dell’informazione o, almeno, di certe informazioni. Intervento: Però mi permetto di aggiungere una cosa. Il problema in questo momento non si pone per le situazioni che hanno determinate diagnosi e che sono anche diagnosi gravi. Il problema si pone soprattutto, rispetto a Comuni e parte sanitaria, per situazioni davvero molto al limite in cui si tratta di persone seguite dai servizi sociali e in carico ad un dipartimento di salute mentale ma con patologie molto lievi. Per cui il discorso dell’autodeterminazione come dire è totale.

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Domanda dott.ssa Deidda: Queste persone di cui si chiedono informazioni da parte del servizio sociale hanno figli o non hanno figli? Intervento: I problemi si pongono anche con gli adulti. Il problema io ce l’ho rispetto all’autorizzazione della persona a dare informazione ad altri, laddove peraltro non c’è un progetto chiaro. C’è con quelle persone che creano comunque delle difficoltà e sono seguite ma non hai l’autorizzazione.

Dottoressa Merlini La domanda posta dalla collega può essere trattata ponendo in evidenza il dettato del Codice Deontologico, che ci aiuta a dipanare la questione nei suoi articolati aspetti. Come sappiamo, il Codice individua le responsabilità professionali dell’assistente sociale in relazione ai diritti degli utenti e orienta rispetto alle regole di comportamento da adottare nell’esercizio dell’attività professionale. Nella propria attività il professionista deve continuamente operare delle scelte, a fronte di situazioni che richiedono il suo apporto professionale, trovandosi talvolta davanti a opzioni alternative, come nel caso descritto dalla collega, rispetto alle quali a volte non sa come agire. Il Codice rappresenta uno strumento, oltre ai riferimenti disciplinari, per orientare le scelte operative. l Codice indica i fondamenti etici ai quali conformare gli atti professionali, non è un mansionario con soluzioni standardizzate per qualsiasi situazione. Esclusa la possibilità di poter avere soluzioni pronte per ogni necessità, la strada che può essere proposta per far fronte ai crescenti problemi etici è quella del confronto rispetto alle situazioni concrete che i professionisti si trovano a dover gestire. Tale metodologia aiuta a sviluppare la capacità di riflettere su situazioni complesse, caratterizzate da un livello elevato d’incertezza rispetto all'esito e su ciò che in una situazione concreta risulta “bene” o “male” minore. A mio parere, la domanda della collega richiama due questioni molto importanti per la professione, il principio dell’autodeterminazione e il tema della tutela delle persone in condizioni di fragilità. Il tema può essere trattato considerando tre articoli del Codice, l’art. 11, l’art. 14 e l’art 24. L’art. 11, “L’assistente sociale deve impegnare la propria competenza professionale per promuovere la autodeterminazione degli utenti e dei clienti, la loro potenzialità

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ed autonomia, in quanto soggetti attivi del progetto di aiuto, favorendo l'instaurarsi del rapporto fiduciario, in un costante processo di valutazione”, richiama alla necessità di investire nella costruzione di progetti d’aiuto partecipati e sottolinea che tale investimento permette di costruire rapporti fondati sulla fiducia, obiettivo fondamentale per un assistente sociale. L’articolo ci richiama all’importanza di considerare gli utenti soggetti attivi del progetto di aiuto, considerando responsabilità primaria dell’assistente sociale quella di garantire alle persone la possibilità di compiere scelte per sé in modo consapevole e libero, individuando come strumento cardine del lavoro dell’assistente sociale la relazione d’aiuto. L’art. 14 si occupa della difesa dei diritti delle persone in condizioni particolari, “L’assistente sociale deve salvaguardare gli interessi e i diritti degli utenti e dei clienti, in particolare di coloro che sono legalmente incapaci e deve adoperarsi per contrastare e segnalare all’autorità competente situazioni di violenza o di sfruttamento nei confronti di minori, di adulti in situazioni d’impedimento fisico e/o psicologico, anche quando le persone appaiono consenzienti”. Gli aspetti più significativi di questo articolo sono riconducibili alle azioni professionali doverose a difesa di tutte quelle persone che, per varie ragioni, sono in condizioni di limitata possibilità di far valere i loro diritti. In particolare la domanda della collega richiama la situazione di soggetti che l’assistente sociale valuta non essere pienamente in grado di manifestare la propria autodeterminazione, situazione in cui gli assistenti sociali si trovano spesso nell’esercizio della loro attività. Ci collochiamo in questo caso su un versante che i colleghi che si occupano di chi perde la capacità in modo progressivo di occuparsi di sé, attraversano con interrogativi e con grandi dilemmi. Quando è arrivato il momento per fare un intervento che l’altro non chiede, anzi che l’altro dice di non volere? Qual è il limite rispetto al riconoscimento dell’autodeterminazione delle persone e la responsabilità rispetto alla possibilità che queste persone possano farsi del male, fare del male ad altri o essere pregiudizievoli anche nei confronti della comunità? Le domande che gli operatori si pongono riguardano il grado di responsabilità rispetto a situazioni di grave emarginazione per le quali non c’è una richiesta d’aiuto diretta, situazioni in cui l’utente fa scelte personali che potrebbero pregiudicare la qualità della sua vita e quella dei familiari, ecc . La prima strategia da adottare per assolvere alle responsabilità che questo articolo pone in capo all’assistente sociale è quella di valorizzare la relazione d’aiuto con i diretti interessati per individuare modalità “non invasive” di fronteggiamento delle difficoltà. L’assistente sociale in quanto appartenente alla pubblica amministrazione non ha il potere di imporre limiti alle libertà indivi-

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duali, in quanto il nostro ordinamento attribuisce questa competenza all’autorità giudiziaria. Il solo spazio di lavoro possibile per l’assistente sociale è quello della consensualità. Quando le persone non condividono le valutazioni formulate dall’assistente sociale in relazione a condizioni di rischio e/o pericolo, la strada da percorrere, indicata chiaramente anche in questo articolo, è quella di segnalare la situazione all’autorità giudiziaria competente. L’articolo 24, richiamando la natura fiduciaria della relazione con utenti e clienti “La natura fiduciaria della relazione con utenti o clienti obbliga l’assistente sociale a trattare con riservatezza le informazioni e i dati riguardanti gli stessi, per il cui uso o trasmissione, nel loro esclusivo interesse, deve ricevere l’esplicito consenso degli interessati, o dei loro legali rappresentanti, ad eccezione dei casi previsti dalla legge”, pone l’accento sui due criteri previsti dall’Ordine Professionale per l’utilizzo e la trasmissione dei dati e delle informazioni che riguardano le persone: l’esclusivo interesse degli utenti e l’esplicito consenso degli interessati o dei loro legali rappresentanti. Sarà dunque possibile condividere le informazioni con i diversi soggetti solo a condizione che i diretti interessati siano d’accordo e ne ravvedano l’utilità. Ancora una volta, la strada indicata è quella della condivisione, della partecipazione attiva delle persone a tutto ciò che le riguarda. Domanda: In questo caso non avrebbe senso domandarci perché lo chiede a noi? Ogni volta che come operatori siamo destinatari di una richiesta dobbiamo chiederci e chiedere all’interlocutore, chiunque esso sia (cittadino, operatore, amministratore, ecc.) che cosa si aspetta da noi, in modo da poter valutare se l’aspettativa esplicitata è congruente con il nostro mandato, sia istituzionale che professionale. Tale valutazione ci permetterà di stipulare un accordo per l’avvio o la prosecuzione del nostro successivo rapporto, al riparo da rischi di fraintendimento. A volte questa capacità di fare un’attenta analisi della domanda si attenua, in particolare quando l’interlocutore è un interlocutore competente, ad es. quando è un collega, un operatore di una altro servizio. Credo importante utilizzare il bagaglio metodologico proprio della professione, indispensabile per orientarsi nella complessità dell’agire quotidiano. Intervento: Io con questo concludo perché non vorrei essere invadente, però il problema è che rispetto alla professione significa comunità professionale in cui ci si chiede di essere, come dire, più unite, però questo significa anche riflettere a livello culturale non so bene in che spazi e in che modo. Anche rispetto a delle normative regio-

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nali per esempio, vedi quella che prevede l’UVM, su cui abbiamo anche fatto segnalazioni più volte. Talvolta ci troviamo di fronte a quindici professionisti a parlare su una situazione, peraltro sconosciuta da buona parte dei presenti, e la persona neanche sa che parliamo di questo. E’ successo per esempio nella nostra ASL alla quale è stato chiesto il verbale di questa UVM dalla persona interessata ed è scoppiato il putiferio. Ecco su questi punti dove peraltro l’assistente sociale viene chiamata direttamente, io chiedo all’Ordine a chi, noi poveri territoriali, possiamo chiedere delle consulenze giuridiche, e anche di tipo professionale, ma consulenze che possano dare risposte immediate anche dietro una mail , perché sono quotidiane. La complessità delle situazioni che tutti affrontiamo in questo momento è talmente alta che sia i dilemmi etici sia i dilemmi giuridici sono quotidiani, e noi ci troviamo in una situazione di grossissima difficoltà. Sarebbe importante che l’Ordine se ne facesse carico, perché penso che accomuni tutta la professione rispetto a determinate questioni.

Avvocato Gioncada È una questione di sicura complessità, anche perché ci permette di osservare come, direttamente, il diritto scritto non contempla tutte le fattispecie. Vi possono certamente

essere

situazioni

di

non

trasmissibilità

dell’informazione.

Concordo

con

l’osservazione di Merlini: ad esempio, il fatto che l’utente sia in carico oppure no è già un primo discrimine. Anche ipotizzando l’esistenza di una norma che vieti la trasmissione, l’operatore, in assoluta autonomia e discrezionalità, può convincersi che tale trasmissione è necessaria per il perseguimento di un fine “benefico” per l’utente e, dunque, procedervi, utilizzando, ad esempio, la scriminante di cui sopra. Nel silenzio del diritto positivo si inseriscono le prassi, le consuetudini, con tutti i rischi del caso, dipanati in maniera anche difforme, dalla giurisprudenza. Intervento: Spero di non semplificare troppo le cose però mi riferivo proprio a quello che diceva la collega e al lavoro e alla fatica che si continua a fare, che si fa da sempre, in diversi servizi, nel cercare di intendersi, di affinare le capacità di collaborazione e di lavoro congiunto. La mia è una riflessione banale. Quello che mi ha colpito è che il servizio di salute mentale nella sua interezza, (anche le colleghe ma soprattutto i medici), a me pare che rappresentino i servizio come con un mandato istituzionale preciso, che definisce loro un campo dentro cui agire, che è avulso o comunque

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che è diverso assolutamente dal nostro. Nel senso che quello che si percepisce, rispetto al lavoro sui minori, in particolare che per quello che per noi è dominante (l’interesse preminente del minore), il fatto che si debba comunque, se c’è un vizio di pregiudizio per il minore, agire in sua tutela e tutto il resto è subordinato, in qualche modo in una visione molto grossolana, là appare invece capovolto. L’interesse del servizio è rivolta alla tutela del malato, della persona che ha stabilito con il servizio un contratto terapeutico, che però, dal mio punto di vista, forse sbaglio, mi sembra di leggere che quel contratto definisce in toto il lavoro e il resto deve essere accessorio. A meno che non ci sia un evento eclatante, come una mamma che sgozza il bambino . Cioè il resto (in questo caso il bambino a rischio) ci sta se sta dentro il mio contratto terapeutico. La nostra posizione è contraria mi sembra. C'è prima l’interesse del minore. Dal punto di vista anche giuridico, la responsabilità che sta su ognuno di noi, incaricati di pubblico servizo o pubblici ufficiali, di mettere in atto azioni di tutela verso i minori, o anche gli anziani, incombe allo stesso modo anche sui servizi sanitari oppure no? Intervento

Dott.ssa

Deidda:

Raccoglierei

un

po’di

domande,

poi

farei

io

un’osservazione che mi deriva dall'esperienza che ho maturato nella mia attività professionale, e poi darei la parola ai nostri ospiti per la risposta. In conclusione chiederei a Gioncada di riprendere le fila dei vari argomenti per un inquadramento giuridico più organico, rispetto ai temi che avevamo tracciato, perché stiamo aprendo a ventaglio con questi quesiti e mi piacerebbe ritornare a monte. Intervento Dott.ssa Ciaccia: Io mi sento chiamata in causa in qualità di consigliere dell’Ordine uscente. La nostra professione è veramente molto difficile e molto complessa. Come diceva Merlini non c’è mai una risposta standardizzata, sono pochi i quesiti ai quali troviamo la risposta nella legge o in quello che c’è stato insegnato nel nostro corso di studi. In questi quattro anni di Ordine direi che sono arrivati moltissimi quesiti professionali sul come ci si debba comportare nelle diverse situazioni. Oggi è presente anche il Presidente della Commissione Deontologica uscente, dalla quale sono passati quasi tutti questi quesiti, ai quali, prima con il supporto dell’avvocato Bottaro, e adesso con il supporto dell’avvocato Gioncada, abbiamo cercato di dare sempre una risposta. Non ho capito se la collega stava dicendo di aver inviato quesiti ai quali non ha avuto risposta. Perché questa è un’occasione, se qualcuno non lo sapesse, per far sapere che è possibile far pervenire dei quesiti all’Ordine. Quesiti ai quali viene data risposta. Non sempre con una tempestività immediata anche per-

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ché le risposte vanno ponderate, vanno valutate, perché comunque il rischio di dare indicazioni sbagliate c’è. Quindi ci tenevo a dire che l’Ordine è assolutamente a disposizione. Lo è stato in passato e immagino che lo sarà anche il Consiglio entrante quindi, perché questa è stata una parte di lavoro importante anche per noi. Intervento: Io volevo fare due domande. Una sulla segnalazione, perché spesso gli insegnanti a noi chiedono se sono liberi dall’obbligo della segnalazione al proprio responsabile, al proprio dirigente. E poi nel caso in cui noi facciamo in forma scritta una segnalazione di una persona adulta dove non ci sia un mandato specifico dell’autorità giudiziaria, o richiediamo delle informazioni, noi possiamo comunque incorrere in una denuncia nostra personale o no? Quando noi facciamo delle richieste al servizio sanitario, all’ospedale, o al consultorio o anche quando chiediamo alla scuola determinate informazioni di solito i dirigenti sono fermi sul richiedere copia del provvedimento o altrimenti la firma, per quello che riguarda il minore, la firma di entrambi i genitori, o a volte quando c’è il provvedimento del Tribunale, lo richiedano o comunque richiedano la firma della persona interessata. Domanda: Io lavoro in un ATS del Comune di Genova come servizio sociale area minori ma anche adulti. Allora la mia prima domanda è quella sulle insegnanti e questa è chiara. Sulla firma: la questione è che, se noi richiediamo delle informazioni, ad esempio alle insegnanti di una scuola, ci sono scuole per le quali non viene richiesto nulla e noi andiamo e poi nel momento in cui magari, riportiamo cose dette dalle insegnati, ci viene fatta quasi un’accusa per averle dette, perché precisano << ma noi l’abbiamo detto informalmente >>. Altre volte ci sono dirigenti scolastici che ci chiedono, e questo anche come servizio comunale, come Servizi 0-6, copia del provvedimento, a cui noi ci rifacciamo per poter chiedere informazioni su quel dato minore, nell’eventualità che non ci siano le firme di entrambi i genitori. Non parlo di trattamento sanitario, io adesso sto parlando semplicemente di richiesta di informazioni. Nel momento in cui si parla di un adulto diventa indispensabile la firma della persona. Riflessione Dott.ssa Deidda Io vorrei fare solo dare qualche spunto che spero possa servire a fornire qualche pista

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di riflessione in più. In particolare sulla questione delle segnalazioni dei minori, e sul tema della centralità dell'interesse del minore nei rapporti tra servizi. Su questi punti poi penso che Merlini e Gioncada possano integrare con inquadramenti più corretti dal punto di vista giuridico e deontologico. Negli anni ho visto crescere tra tutti i servizi, quelli per minori e quelli per adulti, una consapevolezza condivisa, che era quella di mettere l’interesse del minore al centro di qualsiasi decisione. Qualcosa che non sta scritta in una norma esplicita, poi Gioncada mi confermerà o meno. Rientra in una modalità di interpretazione delle norme, a partire dalla Costituzione, fino all’ultima legge che riguarda nello specifico gli strumenti di tutela del minore, ma è un interpretazione. Quindi il problema, ma non lo penso solo io, l'ho sentito ripetere spesso nelle occasioni formative, è come costruire consenso e accordo su una lettura delle norme che vada in una direzione piuttosto che in un’altra. Quello che io ho colto un po’negli anni è il fatto che su questa chiave di lettura .delle competenze e delle responsabilità dei servizi e dei professionisti, i servizi sono cresciuti anche nel rapporto tra di loro, ma, nonostante questo, restano pensieri difformi, attaccamenti alla propria "mission", pregiudizi reciproci. Una cosa che mi aveva colpito tantissimo parecchi anni fa era il fatto che una collega della salute mentale, che seguiva una ragazza in stato di gravidanza, la sesta, nonostante questa avesse "perso" tutti i figli avuti precedentemente (chi perchè deceduto in circostanze misteriose, chi perchè avviato all'adozione, chi perchè affidato ai nonni), non aveva ritenuto di dover segnalare il caso ai servizi sociali, in nome della "tutela della sua paziente". Questo lo dico perché anche tra di noi, questa era una collega assistente sociale, non una psichiatra o una psicologa (dalle quali ci potremmo aspettare una lettura del segreto professionale anche un po’ più rigida di noi), esistono le diffidenze, le divergenze interpretative, letture condizionate da scuole di pensiero, culture, anche di servizio, diverse. Forse anche processi di identificazione diversi, che si traducono in prese di distanza, difficoltà a collaborare. E cito questo caso perchè mi sembra emblematico, anche se mi sembra che, per certi versi, i casi citati da voi siano più difficili, perchè le decisioni viaggiano su fili più sottili. In questo caso, c'erano in gioco tre assistenti sociali di servizi diversi, ertamente con competenze e quindi con mandati istituzionali diversi, ma anche con un vissuto rispetto alla propria utenza particolare. In quel caso, la collega non aveva ritenuto di condividere con i colleghi dei servizi sociali e consultoriale l'informazione che avrebbe tutelato il minore. L’esito è stato drammatico, perché questa mamma è andata a partorire senza che nessuno ne sapesse nien-

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te e, dopo la nascita, è scappata dall’ospedale con il bambino. solo dopo affannose ricerche è stato trovato in uno scantinato in condizioni disastrose. E’ molto facile questo esempio, me ne rendo perfettamente conto, ma mi sembrava paradigmatico, su cui, peraltro le riflessioni potrebbero essere tante. Rispetto all’ UVM, mi sembra di dover ricordare solo che è stato introdotto (legge regionale) proprio per consentire, nelle situazioni più problematiche, di discutere dei casi tra operatori e professionisti dei diversi servizi e delle diverse professionalità, superando la barriera delle separatezze e del lavoro a compartimenti stagni, per prendere delle decisioni più condivise e più consone a quell’utente. La mia non è una risposta. Però mi sembra utile da un lato richiamare l'importanza delle norme, a cui dobbiamo fare riferimento e che devono guidare il nostro comportamento, ma come una cornice di sfondo, rispetto alla quale un peso ce l'anno le chiavi interpretative, che sono anche condizionate dalla cultura, dalle culture professionali che vanno avanti. Comprese quelle relative all'uso del segreto professionale, ad esempio quando sia evidente che si ha di fronte una persona pericolosa. Altre letture, e altre interpretazioni, non tradizionali, dicono che in quelle situazioni anche il segreto professionale può e/o deve essere superato. E finisco con un’altra provocazione. A proposito di codici e di identificazione nella propria mission, che per gli avvocati si traduce nella frase “è compito mio difendere il mio cliente a ogni costo”. Si tratta di un'affermazione che ho sentito ripetere più volte da avvocati, per i quali l'obiettivo principale era vincere la causa, anche a costo di veder rientrare dei bambini presso i nonni, sui quali pendevano pesanti accuse di abuso. Senza entrare nel merito, che ci porterebbe lontano, vorrei solo segnalare che stanno nascendo associazioni di avvocati che cercano di contemperare la mission e il mandato professionale (difesa del cliente qualunque/comunque esso sia) con/ all’interno di regole che considerino la pericolosità dello stesso, soprattutto quando a correre i rischi sono i minori, all'interno di un concetto di etica più generale. La stessa cosa si potrebbe dire della legge sulla Privacy, che può essere utile per noi solo se letta e interpretata in maniera integrata con le altre norme e contemperi aspetti diversi, compresi quelli relativi al concetto di preminente interesse del minore, che affonda nel dettato costituzionale. Aver trascurato questo aspetto, dando una lettura restrittiva (e in parte errata, perchè non ha tenuto conto delle indicazioni del garante in merito alla possibilità di trasmissione di informazioni tra servizi, pur con tutti i limiti) della legge, ha portatato ad esempio al fatto che per anni, a Genova, si è interrotta una prassi di lavoro integrato, che passava anche attravero le "riunioni d'équipe"

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congiunte sui casi seguiti da servizi sociali e consultoriali. Con risultati di frammentazione e divisione nella visione del problema e degli interventi, in vece dell'unitarietà e coerenza auspicata e necessaria. Quindi mi sembra che le parole possano essere: norme, codici, cultura, cambiamenti, consapevolezza obiettivi prioritari. Domanda: Volevo chiedere ci sono alcuni casi in cui l’autorità giudiziaria chiede ai servizi sociali di intervenire? Ad esempio, il caso in cui la Procura chiede alle Forze di Polizia di fare un’indagine, con l’ausilio dei servizi sociali, perché magari è la situazione in cui ci sono più minori. Oppure il caso in cui in un decreto di allontanamento di minori è prevista la presenza delle Forze di Polizia e dei servizi sociali, e poi ancora è capitato anche che l’ufficiale giudiziario, in un caso di sfratto esecutivo, chiedesse la nostra presenza poiché nel nucleo erano presenti dei minori. Io vorrei sapere come ci dobbiamo comportare in questi casi. Domanda: Io volevo chiedere all’avvocato Gioncada, visto che il maltrattamento di animali ormai è un reato, ho saputo di diverse situazioni di colleghi che si occupano di minori, una collega che si occupa di minori, mi ha detto di essere venuta a conoscenza che ci sono stati maltrattamenti che hanno portato alla morte di animali, all’interno del nucleo, e per non rovinare il rapporto con la famiglia che stava seguendo, con la famiglia che aveva in carico, ha omesso la denuncia di reato. Intervento: Se ricordo bene il maltrattamento intra-familiare è perseguibile d’ufficio e quindi, sono situazioni che capitano spesso, e ne deduco che ogni volta che una mamma, o che veniamo a conoscenza di una situazione di maltrattamento intrafamiliare dovrebbe partire una segnalazione alla Procura della Repubblica della situazione. Domanda: La domanda è l’interpretazione è corretta? Cioè secondo me ogni volta che tratto una situazione di maltrattamento intra-familiare a carico di bambini, o anche della moglie, dovrei fare una segnalazione al Procuratore della Repubblica perché è un reato perseguibile d’ufficio. Sbaglio? Il Procuratore della Repubblica Ordinario.

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Avvocato Gioncada Rispondo nell’ordine. Non mi pare che nell’ordinamento siano configurabili segreti di “serie A” e segreti “di serie B”, in particolare quando si voglia affermare ciò in relazione al tipo di professione esercitato. Il discrimine, semmai, in sede di trattamento e, quindi, di diffusione, anche istituzionale, è nella tipologia di dati (informazioni) trattati, che la legge distingue tra personali, sensibili, giudiziari, ecc. In punto di fatto è evidente che la professione di assistente sociale, rispetto ad altre, ad esempio quella di medico, è meno riconosciuta a livello sociale, ma questo è un problema che va al di là del singolo operatore, perché investe l’Ordine professionale, inteso come comunità, nella sua interezza. L’obiettivo complessivo è anche quello di far crescere, dunque, l’intera comunità professionale. E ciò è possibile, anche, ma non solo, attraverso lo studio costante e la distinguibilità del professionista assistente sociale rispetto ad altri professionisti. Si è accennato, dianzi, al tema delle segnalazioni. Ci si può domandare: la segnalazione al superiore gerarchico libera da responsabilità il singolo operatore? Si deve ritenere, in un contesto diverso da quello militare, che non sia così, giacché detta segnalazione, c.d. interna, non pare dirimente ai fini dell’esonero da responsabilità, fermo restando che anche in capo al superiore in parola riposano precise responsabilità, sul punto. Oppure: l’assistente sociale può agire senza un previo mandato? Il confine è molto labile. Una corrente di pensiero mette al centro la tutela dell’utente, privilegiando la possibilità di un’autonoma attività, quasi a scopo special-preventivo. Altra corrente di pensiero ritiene necessario un mandato specifico, ed è quella cui personalmente aderisco, salvi i casi, vedi ad esempio l’intervento ex art. 403 c.c., in cui l’ordinamento, pur nella indeterminatezza residuale che si rinviene, abbia predeterminato la possibilità di intervento. Ancora una volta si è in presenza di un bilanciamento di interessi, che il professionista è chiamato a compiere, discrezionalmente, motivando la propria scelta. Domanda: Ma lei come mandato intende solo il mandato del Tribunale o anche il mandato per dire il parente viene e mi segnala che un anziano a casa sta male e io vado a vedere quant’altro. A volte anche se l’anziano non lo sa.

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No, faccio riferimento a segnalazioni qualificate, istituzionali. Le altre situazioni sono gestibili col buon senso, senza necessità di vedere particolari risvolti giuridici, almeno inizialmente. Riguardo alla richiesta di presenza del servizio sociale in occasione degli “sfratti”, premettendo che un diritto sociale all’abitazione non è esattamente configurabile nei termini “il Comune mi deve dare la casa”, mi pare di poter rinvenire che la presenza pretesa dall’avvocato della proprietà sia sostanzialmente inconfigurabile, perché questi non può disporre degli uffici della pubblica amministrazione. Più complesso è allorquando detta presenza sia richiesta dall’ufficiale giudiziario, che, a norma del codice di procedura civile, procede con l’ausilio della forza pubblica. Ma è noto che la “forza pubblica” non è il servizio sociale. Riguardo alla presenza eventualmente disposta direttamente dal giudice, vi sono esempi di accordi territoriali in cui ciò non avviene mai. Purtuttavia ritengo che il servizio sociale debba mostrarsi collaborante, eventualmente fornendo la disponibilità all’intervento, ove ciò si rendesse necessario, e tenendo a mente che, comunque, lo sfratto del nucleo familiare non significa automaticamente insorgenza di situazioni di pregiudizio a carico del minore tali da procedere obbligatoriamente ad un intervento ex art. 403 c.c. Riguardo ai maltrattamenti agli animali, mi pare che trattasi di reato procedibile d’ufficio, quindi a stretto rigore vige l’obbligo della denuncia, in capo ai pubblici ufficiali e agli incaricati di pubblico servizio. Salvo che non ricorrano scriminanti che giustifichino un comportamento diverso.

Dottoressa Merlini Raccolgo le diverse domande e rispondo a ciascuna. Una prima area d’interrogativi riguarda la richiesta e lo scambio d’informazioni fra servizi, la seconda concerne il tema del madato/segnalazione. Partiamo dalla prima; per poter rispondere al quesito circa l’opportunità/possibilità di scambiare informazioni fra servizi ritengo necessario distinguere il contesto in cui si colloca la richiesta. Sappiamo che l’assistente sociale può agire in “contesto spontaneo” oppure in un “contesto giudiziario/coatto”.

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Parliamo di contesto spontaneo quando l’interlocutore dell’assistente sociale (individuo, famiglia, ecc), chiede aiuto autonomamente ai servizi. Parliamo di contesto giudiziario o coatto quando l’interlocutore non sa chiedere aiuto (es. genitore, minore, anziano in grave difficoltà, ecc..) e viene definita una cornice d’intervento che lo riguarda da parte dell’Autorità giudiziaria. Nel contesto spontaneo gli assistenti sociali sono a diposizione delle persone per accogliere le loro richieste d’aiuto e collaborano con loro per accompagnarli in un percorso di cambiamento che possa portare a un miglioramento della condizione di vita. La relazione di fiducia che si cerca di costruire nel contesto spontaneo credo possa nutrirsi solo di un percorso fatto di ascolto, trasparenza, attenzione all’altro, rispettando la sua dignità e sostenendo la sua capacità di autodeterminazione. All’interno di un lavoro in contesto spontaneo qual è la necessità di chiedere informazioni ad altri servizi senza parlarne con l’interessato? Il Codice deontologico, all’art. 12, ci offre un importante riferimento, ricordandoci la necessità di essere chiari e trasparenti e di chiedere sempre al soggetto l’autorizzazione, prima di attivarci per lui “L’assistente sociale ha il dovere di dare, tenendo conto delle caratteristiche culturali, delle capacità discendenti l’interessato, la più ampia informazione sui loro diritti, vantaggi, svantaggi, impegni, risorse, programmi e strumenti dell’intervento professionale per i quali, deve ricevere esplicito consenso salvo diposizioni legislative amministrative”. Diversamente, in contesto coatto, un contesto regolato dall’autorità giudiziaria, quando l’assistente sociale riceve un mandato ad agire l’a.s. è autorizzato a chiedere e scambiare informazioni anche se l’interessato non ne è a conoscenza e anche non fosse d’accordo. Un esempio è rappresentato dalle situazioni in cui l’a.s. riceve mandato dall’Autorità giudiziaria a svolgere un’indagine sociale circa le condizioni di vita di un minore. Una situazione complessa si presenta quando l’assistente sociale che lavora in contesto spontaneo valuta la necessità di attivare l’Autorità giudiziaria e quindi trasformare il contesto di lavoro in coatto. Nell’accompagnare il passaggio di contesto è importante continuare a porsi interrogativi al fine di non cadere nei rischi di ledere i diritti delle persone e di agire azioni professionali non adeguate dal punto di vista deontologico. Ad esempio, la collega richiamava la situazione dell’invio di una segnalazione alla Procura Minorenni e si chiedeva se necessario condividerla con i genitori. Ritengo che per rispondere al quesito non ci dobbiamo porre solo interrogativi di ordine giuridico, ma anche metodologico e deontologico. Come ci muoveremo in questa situa-

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zione determinerà le possibilità di prosecuzione del lavoro con la famiglia. Certamente la fase di esplicitazione della nostra preoccupazione e della nostra intenzione di coinvolgere l’autorità giudiziaria è un passaggio difficile, che richiede una riflessione attenta su come agire. Tale passaggio è però cruciale per condividere con i genitori che la nostra non è una scelta punitiva nei loro confronti, ma una scelta a “favore” della loro famiglia, un’ulteriore possibilità affinché i genitori si possano occupare della loro genitorialità e del benessere dei loro figli. Conseguentemente, il passaggio della lettura della relazione di segnalazione ai genitori rappresenta un passaggio determinante, che ancora una volta si muove in un’ottica di rispetto e trasparenza. Questo passaggio mira a preservare le condizioni per il mantenimento di una relazione di fiducia, anche nel momento in cui l’operatore si assume la responsabilità di coinvolgere un soggetto altro che contribuirà, da quel momento in poi, a occuparsi del benessere di quei minori e di quella famiglia. Potrebbero esserci, con buoni motivi, alcune situazioni in cui si valuti non opportuno compiere tale passaggio; considererei tali situazioni con attenzione, cercando il confronto con colleghi e/o superiori, al fine di esplicitare le buone ragioni che ci muovono verso altre scelte. Circa la domanda della collega che s’interroga rispetto al mandato del Tribunale/ mandato del parente ritengo importante evidenziare una differenza e anche la necessità di utilizzare linguaggi diversi che definiscano la situazione che si configura. Nel caso di un parente, un vicino, un volontario che si preoccupa per una persona in situazione di disagio e si rivolge all’assistente sociale non parlerei di “mandato”, lasciando questo termine alle richieste dell’Autorità giudiziaria. Configurerei tali situazioni come possibili segnalazioni, invii o richieste di collaborazione. In queste situazioni riterrei necessario chiarire con chi si presenta dall’assistente sociale quali siano le sue aspettative, al fine di poter interagire con queste e tentare il più possibile di tenere agganciato il segnalante, al fine di ridurre al minimo le situazioni in cui l’assistente sociale si mobiliti senza il consenso del diretto interessato. Siamo di fronte a passaggi molto delicati, sui quali prestare molta attenzione perché il desiderio di aiutare e di tutelare persone in condizioni di fragilità può metterci in una condizione dilemmatica circa il rispetto della dignità e il riconoscimento dell’autodeterminazione delle persone. Questo è un crinale molto delicato e quindi credo che siano ottimi i vostri interrogativi e importante che la professione continui a interrogarsi e a mantenere alta l’attenzione per non correre il rischio di essere discriminanti nei confronti delle persone che si rivolgono al servizio sociale.

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Anche per quanto riguarda il mandato dell’AG, come ci ricordava Gioncada, alcuni enti locali hanno costruito con i Tribunale dei protocolli per lavorare in sinergia, al fine di rispettare i mandati e le specificità professionali di ciascuno. Ritengo importante che il servizio sociale non perda la capacità di riconoscersi come una professione che ha un suo bagaglio, che ha delle norme deontologiche precise, che ha una cultura professionale di riferimento, dentro la quale andare a cercare delle risposte agli interrogativi che quotidianamente l’operatività propone.

Avvocato Gioncada Particolare attenzione deve essere posta dall’operatore quando, chiamato a gestire un procedimento di accesso ai documenti amministrativi, si trova destinatario, in quella veste, di un’istanza di accesso documentale che riguarda documenti riferentesi a terzi, contenenti dati sensibili (ad esempio lo stato di salute, l’orientamento sessuale, ecc.). La legge disciplina queste ipotesi, sia dal punto di vista sostanziale sia procedurale, e vale la pena evidenziare che non esistono equivalenze del tipo “dato sensibile” uguale “dato inaccessibile”. Questa è una semplificazione grossolana e abnorme che deve essere rigettata. Una simile fattispecie non può essere risolta solo considerando il dato deontologico, perché, appunto, la legge detta modi e tempi di valutazione/evasione della richiesta. Semmai è vero che, all’esito del procedimento, l’amministrazione è chiamata a una valutazione discrezionale, contemperando gli interessi in gioco e con l’obbligo di motivare la propria scelta. Diversamente da quanto molti credono, però, l’amministrazione non è chiamata a fare un giudizio prognostico sull’utilità del documento richiesto, perché questo esorbita i compiti della stessa. Semmai il discrimine è tra ciò che costituisce documento amministrativo e ciò che non lo è. Di qui la sostanziale inaccessibilità degli appunti dell’assistente sociale, così come l’inaccessibilità, per quella via, degli atti afferenti un’indagine penale. Riguardo all’appunto dell’assistente sociale, esso non è accessibile, ma non perché coperto dal segreto professionale ma, più semplicemente, perché non è un documento amministrativo.

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Si può ritenere che anche la relazione inviata all’autorità giudiziaria non sia accessibile, pur essendo qualificabile come documento amministrativo. Giurisprudenza recente ritiene che in quei casi l’accesso debba essere negato, perché assumendo l’assistente sociale, in quei casi, si ribadisce, la funzione di ausiliario del giudice, si realizza una fattispecie per cui la conoscenza documentale può correttamente esplicarsi nell’ambito del procedimento pendente, nell’ambito del quale l’interessato potrà eventualmente conoscere dell’intero contenuto del fascicolo d’ufficio, e può essere relativa soltanto agli atti pertinenti alla decisione di quel ricorso. Ma se non fosse disposta dall’autorità giudiziaria l’indagine, e la relazione fosse stata predisposta in altro contesto, si tratterebbe di un documento amministrativo, sussistendone le condizioni, accessibile. Domanda: Invece il diario? Il c.d. “diario dell’assistente sociale” pone qualche problema in più. Abbiamo visto come la relazione debba riconoscersi quale documento amministrativo, mentre l’appunto no. In giurisprudenza solo in un caso è stata affrontata la questione, ma con riferimento al diario infermieristico, che per certi versi differisce da quello dell’assistente sociale. In quell’occasione, fu rilevato che essendo l’infermiere un incaricato di pubblico servizio, essendo fondamentale il suo apporto all’equipe assistenziale per pianificare, gestire e valutare gli interventi assistenziali individualizzati, al diario infermieristico, secondo la giurisprudenza (soprattutto penale) si deve riconoscere la qualifica di atto pubblico in senso lato, sia pure atto interno, posto in essere da un pubblico impiegato incaricato di un pubblico servizio per “documentare fatti inerenti all’attività da lui svolta e al pubblico servizio per uno scopo inerente alle sue funzioni”. Natura quantomeno analoga deve presumibilmente riconoscersi alla cosiddetta cartella infermieristica. Non ritengo sia così agevole estendere analogicamente detta pronuncia agli assistenti sociali, pur con tutti i punti di contatto presenti, quindi non ritengo che si tratti di un documento certamente accessibile, ma nemmeno mi sento di escluderne l’accessibilità. È da valutare caso per caso. Domanda: La segnalazione anonima ai servizi di solito noi non la prendiamo in considerazione perché qualche volta mi è venuto il dubbio che magari invece poteva in

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qualche maniera offrire una possibilità di approfondire delle situazioni. Volevo chiedere se dal punto di vista giuridico e dal punto di vista del servizio sociale è corretto non considerare le segnalazioni anonime. Dott.ssa Merlini: Anche questa è una domanda sulla quale non direi in modo assoluto “non le prendiamo in considerazione”. Dipende da cosa riporta la segnalazione, da com’è formulata. Sentiamo anche il giurista ma io ritengo che a seconda del contenuto e delle modalità d’invio assumerei una decisione specifica. Noi siamo sul territorio, abbiamo la possibilità di avere dei sensori. Non la metterei nel cestino, la terrei in evidenza per vedere se arriva qualche altro segnale che permetta di orientare l’azione, considerando il livello di gravità delle informazioni riportate. Avvocato Gioncada La disciplina codicistica dello scritto anonimo, faccio riferimento al codice di procedura penale, è tutto sommato chiara. In base all’art. 333 co. 3 c.p.p., “delle denunce anonime non può essere fatto alcun uso” salvo che nei casi previsti dall’art. 240 del medesimo codice (quindi salvo che costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall’imputato). La Corte di Cassazione ha comunque riconosciuto che agli scritti anonimi può esser riconosciuto un ruolo di stimolo dell’iniziativa del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, al fine di assumere informazioni dirette a verificare se può essere individuata una valida notitia criminis. Intervento: Posso riferire una breve storia nel senso che abbiamo trattato partendo da una segnalazione anonima una situazione di minore, che poi è stata anche ampiamente riportata sui giornali. Riceviamo la segnalazione anonima in segretariato da parte di una signora che riferisce di una bimba che viene sottoposta a maltrattamenti gravissimi. La persona non vuole dare i suoi dati. Da degli elementi che poi successivamente consentono anche di identificare la bambina ma non è identificata direttamente. Questa cosa succede in primavera. Nell’estate una nuova segnalazione, la stessa donna. Dopodiché dopo qualche mese viene un’altra persona, che noi conosciamo, perché collabora con noi, e ci dice che la sua amica le ha chiesto di portare questa segnalazione e di nuovo dice un contenuto molto analogo a quello. Io a quel punto chiedo, cerco di arrivare alla segnalante vera, di bypassare per capire, ne parliamo e vedremo se questa persona è abbastanza attendibile oppure no. E passa del tempo nella ricerca per una serie di problemi. Dopodiché arriva una segnalazione del Telefono Azzurro anonima, perché il Telefono Azzurro te le fa anonime le segnalazioni.

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Intervento: Ci scrive il Telefono Azzurro dicendo “ti segnalo che esiste una situazione ma non ti dico né il nome, né dove abita perché devo tenere l’anonimato”. A quel punto arriva anche finalmente la persona, che aveva visto una cosa, che viene in colloquio che alla fine ci racconta. E’ passato del tempo poi la cosa l’abbiamo mandata in Procura ed è partita tutta l’indagine. Io poi debbo dire che francamente e personalmente mi sono sentita un po’ responsabile per il tempo che è passato. Intervento: Avrei potuto andare direttamente alla scuola, ce lo siamo posti. Avvocato Gioncada: Mi sembra di aver capito che voi avete avuto sentori di verosimiglianza. Intervento: Di verosimiglianza no, di gravità. Avvocato Gioncada: In quel momento avrei fatto partire una comunicazione alla Procura, senza attendere. Dott.ssa Merlini: Sono d’accordo con Gioncada; in realtà non la considererei anonima in quanto la persona è venuta e ha parlato con me. Avete potuto parlarle. Avete avuto la possibilità di valutare l’attendibilità della persona e del suo racconto. E’ diversa la lettera anonima dalla persona che viene al segretariato sociale che non vuole dare il proprio nome. Avvocato Gioncada Mi pare di poter osservare che il Telefono Azzurro, e il Servizio Emergenza Infanzia 114, sono autonomamente tenuti alla segnalazione, senza che sia necessario il passaggio intermedio al servizio territoriale. Intervento: E sicuramente non potevamo chiedere alla scuola. È interessante il caso contenuto e deciso in T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 29 ottobre 2008, Sent. n. 1469, che rappresenta forse l’unico caso in cui il giudice amministrativo ha dissertato sul segreto professionale dell’assistente sociale, ed a cui faccio integrale rinvio, pur se il disposto non mi pare impeccabile.

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SECONDA PARTE M.Bruzzo versione corretta da M.Gioncada

Rapporto tra segreto professionale e obbligo di denuncia/testimonianza L’incaricato di pubblico servizio e/o il pubblico ufficiale nel momento in cui captano, in ragione dell’esercizio del proprio ufficio, una notizia di reato procedibile d’ufficio, sono tenuti (obbligati), a denunciare il fatto e, in un futuro eventuale, a rendere testimonianza sul medesimo. Diversa la disciplina per il libero professionista, tenuto alla denuncia solo a fronte di determinati fatti di reato. Sussiste sempre l’obbligo, ma possono sussistere anche situazioni che scriminano dalla mancata osservazione del medesimo: sono le famose scriminanti di cui all’articolo 50 e ss. del codice penale: consenso dell’avente diritto; legittima difesa; adempimento di un dovere; stato di necessità; ordine legittimo dell’autorità. Se l’assistente sociale ritiene siano integrati una di queste cause di giustificazione può anche motivatamente decidere di non presentare denuncia. Ovvio che ciò non lascia indenne il professionista, che ben può esser soggetto, a quel punto, a procedimento penale, ma detto procedimento, nel caso in cui effettivamente si rinvengano come esistenti le scriminanti descritte, potrà concludersi in senso favorevole. Parte della dottrina sostiene l’esistenza delle c.d. “cause di giustificazione non codificate”, frutto di motivazioni trovate all’esito del bilanciamento degli interessi in gioco. La giurisprudenza, invero, è più orientata a ritenere che le cause di giustificazione sono solamente quella tassativamente indicate nel codice di merito. L’accesso ai documenti amministrativi da parte del consigliere comunale. Circa l’accesso ai documenti amministrativi del consigliere comunale, e del consigliere regionale, sul quale tra l’altro, recentissimamente vi è un pronunciamento del garante della privacy piuttosto interessante, preme rilevare come la giurisprudenza riconosce al primo un diritto di accesso particolarmente ampio, con pochi limiti, ben precisi. La norma di riferimento è contenuta nell’articolo 43 del d.lgs. n. 267/2000, sì che l’accesso esperito nell’esecuzione del proprio mandato consigliare è già una motivazione bastante, anche per accedere a informazioni di carattere sensibile, col solo limite dell’inammissibile accesso esplorativo ovvero non circostanziato. Anche il consigliere è tenuto, come chiunque altri, a indicare a quali atti intende accedere o comunque a mettere in condizione l’amministrazione di individuarli. Ovvio che i docu-

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menti richiesti devono essere già formati, poiché per la via dell’accesso ai documenti amministrativi non si può imporre un facere agli uffici, cioè chiedere l’accesso ad atti non esistenti e quindi chiedere l’elaborazione di documenti ad hoc. È interessante notare come la legge prevede l’accesso agli atti formati o anche solo detenuti dalla pubblica amministrazione, quindi anche dei documenti formati da altre amministrazioni. Tale disciplina non riguarda, ovviamente, i decreti del tribunale per i minorenni, giacché non si tratta certo di documenti amministrativi, sottoponibili alla relativa disciplina dell’accesso (non è per il tramite dell’istanza di accesso ai documenti amministrativi che la parte viene a conoscenza di un provvedimento che la riguarda!). Come regolarsi a fronte di consulenze tecniche d’ufficio che riteniamo avere contenuti falsi? L’esposto contro il consulente tecnico d’ufficio asseritamente infedele, al punto tale da aver depositato ben più che inesattezze, nella propria consulenza, non deve esser presentato all’ordine professionale di appartenenza, ma al Presidente del Tribunale, giusto quanto disposto dall’art. 19 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile. L’accesso ai documenti amministrativi è inibito se è contestualmente pendente un contenzioso civile e/o un’indagine penale? La pendenza di un giudizio civile di per sé è sostanzialmente irrilevante, quindi non si tratta di fatto preclusivo all’accesso ai documenti amministrativi. In sede penale è ovvio che se gli atti son stati secretati ovvero sequestrati ovvero comunque si è in una fase di indagine garantita dal relativo segreto, qualche dubbio è legittimo. Se già non vi sono chiare indicazioni, sarebbe ideale averne direttamente dalla Procura. Nel dubbio, uno dei possibili esiti del procedimento di accesso ai documenti amministrativi è il silenzio, quindi… Esiste una limitazione all’obbligo di rendere testimonianza? Ovviamente il segreto professionale è opponibile, sussistendone le condizioni, anche in sede di escussione testimoniale, utilizzando formule del tipo “ritengo di non dover rispondere a questa domanda avvalendomi del segreto professionale”. Semmai il problema è che nessuno (né il giudice, né il pubblico ministero, né gli avvocati delle parti) è tenuto a dirvi che, con riferimento a quella domanda, esiste la possibilità di appellarsi al segreto professionale. Dunque se rispondere o meno è frutto di una valutazione assolutamente discrezionale

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e soggettiva, tenendo comunque presente che se il giudice si convince che non esiste segreto professionale, ordinerà di deporre, e in quel caso dovete farlo. Diversamente, si ricordi che il segreto professionale è comunque opponibile sia al pubblico ministero sia alle forze dell’ordine. A volte noi assistenti sociali abbiamo la sensazione che l’Ordine regionale non ci tuteli. Che ne pensa? Talvolta il riconoscimento che dell’Ordine danno gli assistenti sociali di quel territorio non è sempre corretto. L’Ordine non è un sindacato, pur essendo deputato alla tutela dell’immagine del corpo professionale. Il supporto al singolo può essere un supporto di esperienza, ma in certi casi, e questo è stato particolarmente vero fino a poco tempo fa, quando vi è stata una significativa apertura giurisprudenziale, all’Ordine non era riconosciuta nemmeno legittimità ad agire in certe sedi. Purtuttavia mi preme evidenziare che tanto alte, e quindi sovente deluse, sono le aspettative degli iscritti, tanto modesta è la partecipazione alla vita associativa; ne sono un esempio le basse percentuali di partecipazione alle tornate elettorali per le cariche regionali. Forse si è perso di vista il fatto che la difesa della professione si fa anche partecipando alla vita associativa. I riconoscimenti da parte di altre professioni non sono certamente frequenti, e la difesa di una professione si fa dall’interno del corpo professionale, sarebbe opportuno prenderne coscienza. Finché la comunità professionale resterà divisa, come “corpo”, tale riconoscimento sarà ancor più difficile da ottenere. Rapporto tra responsabilità giuridica professionale e indicazione e limiti imposti dall’amministrazione di appartenenza: l’esempio dei LEA, tra risorse disponibili e diritti esigibili. A fronte di un disegno normativo chiaramente definito, ed inquadrabile dalla lettura del d.P.C.M. 29/11/2001, d’insieme, per una miglior comprensione, con il d.P.C.M. 14/02/2001, le prestazioni sussumibili nell’alveo dei c.d. LEA, dovrebbero essere garantite, dalle amministrazioni a ciò preposte, senza possibilità di assoggettarle al limite delle risorse disponibili. Ne è un esempio, tra i tanti, la giurisprudenza sulle c.d. “liste di attesa”, che ne ha, appunto, in certi casi, sancito l’illegittimità, con possibili conseguenze anche sotto il profilo del risarcimento del danno. È veramente “curioso” rilevare come a fronte di un dato normativo che stabilisce il pieno diritto a certe prestazioni, queste non sono sempre erogate nei modi/tempi conformi alla legge.

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La giurisprudenza, di fronte a certe queste questioni, si pone in modo comprensibilmente rigido: il giudice stabilisce l’obbligo all’amministrazione di erogare quella prestazione, ma non entra nel problema di come e dove trovare le risorse. I LEA, quelli sanitari e sociosanitari, sono individuati nel d.P.C.M. 29 novembre 2001, successivamente “legificato”. Questo decreto ha valenza nazionale: tutte le Regioni sono tenute ad applicarlo. Viceversa, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, nel 2001, la competenza in materia socioassistenziale è, in via esclusiva, delle Regioni. A me pare di poter osservare che è molto delicata la questione sulla legittimità della legislazione regionale in materia, perché ho seri dubbi, uso un eufemismo, a riconoscere che la Regione possa derogare, in pejus, ai livelli essenziali stabiliti dal legislatore nazionale. Ciò in quanto, torno a ripetere, ai sensi dell’articolo 117 comma 2 lettera m della Costituzione, la garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni civili e sociali che devono essere garantiti in maniera uniforme su tutto il territorio dello Stato è attribuita in via esclusiva allo Stato, e non alle Regioni. Un esempio controverso di quel che è (o non è) da considerarsi livello essenziale, lo rinveniamo anche nel d.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159, in tema di “nuovo ISEE” e, in particolare, all’art. 2. Quale sarà lo spazio applicativo sul territorio regionale, lo si valuterà in seguito, ma questo decreto tocca tante questioni (individuazione del nucleo familiare rilevante, distinzione tra i vari ISEE in relazione alla tipologia di prestazione erogata, insussistenza degli obblighi dei tenuti agli alimenti, riconduzione delle prestazioni accessorie alla frequentazione di un centro diurno disabili, etc.), di assoluta rilevanza. E a nulla vale il richiamo “al Regolamento del Comune”: la questione dev’essere risolta in base alla gerarchia delle fonti, ed è evidente che la legge ha un valore ben superiore al regolamento comunale, il quale è applicabile sole se è rispettoso della normativa sovraordinata. Ecco quale è la responsabilità dell’assistente sociale: rendersi conto se c’è una criticità nel regolamento rispetto alla norma, essa deve essere evidenziata, per iscritto, a chi di competenza, per le decisioni conseguenti. L’assistente sociale non deve farsi carico di decisioni e responsabilità che competono ad altri livelli. Domanda: Invece in tutto questo, mi perdoni, la figura dell’amministratore di sostegno può semplificare in qualche modo la procedura. Esso è tenuto, in questo caso, a presentare un’azione legale o ad avere l’autorizzazione dal giudice?

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Risposta: Innanzitutto ci deve essere l’autorizzazione del giudice. Intervento: Allora in questo caso l’amministratore di sostegno può essere uno strumento per aggirare l’ostacolo e chiedere che un familiare compartecipi. Risposta: In teoria sì, ma vi sono casi in cui il ricorso è stato rigettato perché l’interesse agito era quello del Comune, e non della persona interessata. Domanda: Altro caso: rispetto, invece, alla problematica dell’integrazione delle rette, quota alberghiera e quota sanitaria, per chi era in quota sanitaria; esiste normativa regionale in tema di posti letto convenzionati e punteggi (punteggio AGED) per rientrare in questa graduatoria e quindi copre la competenza sanitaria. Allora noi ci troviamo invece, spesso e volentieri, chiamati a dover ricoprire addirittura la quota sanitaria laddove la persona non abbia le possibilità di pagare la quota per intero e quindi necessariamente non possa neanche rientrare a casa perché ha necessità di assistenza, anche di tipo sanitario, piuttosto pesante, e purtroppo l’ASL ci dice che il posto letto convenzionato ad oggi non c’è nelle strutture. Risposta: Questo è tipicamente l’oggetto dei prossimi giudizi che partiranno in Lombardia. È ovvio che ogni “plesso” della pubblica amministrazione deve farsi carico solo degli oneri di propria competenza. La più recente giurisprudenza, ha chiarito che, per quanto riguarda i Comuni, ma non solo, ovviamente, quella di attivarsi presso la Regione e altri enti al fine di verificare la possibilità di ottenere contributi non è una semplice facoltà, bensì costituisce un vero e proprio obbligo giuridico (Cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 25-03-2013, Sent. n. 291; id., sez. II, 07-05-2013, Sent. n. 432; Cons. St., sez. III, 14-12-2012, Sent. n. 6431). Corrispondente e speculare a tale dovere di attivarsi da parte dei Comuni, vi è pure l'obbligo da parte delle amministrazioni regionali e dell'A.S.L. di riferimento di porre in essere tutte quelle attività amministrative volte ad una corretta erogazione del servizio socio sanitario. Domanda: I figli conviventi con l’anziano che entra in struttura son tenuti a pagare la retta? Risposta: dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 296/2012, che ha di fatto demolito il dogma dell’art. 3 co. 2-ter del d.lgs. n. 109/1998 e, quindi ha fatto rivivere le legislazioni regionali così per come sono, se la vostra legge regionale dice che per la valutazione della capacità economica si deve usare l’ISEE familiare, direi che non vi sono ostacoli a che questa richiesta compartecipativa sia applicata. Domanda: Se la legislazione regionale non prevede niente, né in un senso né nell’altro? Risposta: Allora si deve far riferimento al d.lgs. n. 109/1998, almeno fino a quando non

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entrerà in vigore il d.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159. Domanda: Se nella legge regionale è previsto che si deve procedere alla valutazione della capacità economica del nucleo familiare, e risulta la presenza di una persona che non è parente, questa persona è comunque tenuta a compartecipare al pagamento della retta? Risposta: Credo che si debba capire cosa intende la legge regionale per “nucleo familiare”. Diversamente credo sia corretto rifarsi al d.P.C.M. 7 maggio 1999, n. 221. Domanda:

Ma

se

il

regolamento

è

palesemente

illegittimo,

e

purtuttavia

l’amministrazione impone all’assistente sociale di applicarlo? Risposta: chiarito quanto sopra in termini di gerarchia delle fonti. Ad ogni buon conto, a fronte di un ordine scritto del superiore gerarchico, l’assistente sociale può opporre il c.d. potere di rimostranza, obiettando le incongruenze esistenti. Se l’ordine viene reiterato, per iscritto, l’assistente sociale è obbligato ad eseguirlo, salvo che l’ordine non sia manifestamente criminoso. Ovvio che in quest’ultimo caso, anche l’assistente sociale

esecutore

risponde

per

le

conseguenze

antigiuridiche

che

derivano

dall’applicazione dell’atto criminoso. Domanda: I genitori di un minore con certificazione di gravità ex l. n. 104/1992 sono tenuti a compartecipare al costo per la prestazione di affido educativo? Risposta: Posso dare un indicazione generale: salvo che non vi sia normativa di settore che, per determinati servizi, ne sancisce la sostanziale gratuità (v. ad esempio la l. n. 118/1971 in tema di trasporto di studenti disabili), è prevedibile una forma di compartecipazione della spesa. Laddove non c’è una previsione di gratuità non vi è motivo per non chiedere una contribuzione, anche se, ovviamente, ciò è a discrezione dell’amministrazione comunale. Albo dei beneficiari di contributi economici: ostensibilità dei nominativi. L’attuale disegno normativo è improntato alla più ampia trasparenza in ordine all’attività della pubblica amministrazione. Si pensi non solo alla l. 07 agosto 1990, n. 241 e al d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 ma, più recentemente, alla l. 06 novembre 2012, n. 190 e al d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33. In particolare la l. n. 190/2012 ha portato molti a pensare che la trasparenza dell’operato della pubblica amministrazione fosse assurta a regola invalicabile e che prescindesse da ogni altra normativa. Tutto ciò ha allarmato i servizi sociali, con particolare riferimento all’ostensibilità dell’albo dei beneficiari delle contribuzioni economiche. Personalmente non ho mai ritenuto che la l. n. 190/2012 autorizzasse ogni tipo di pub-

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blicazione dei beneficiari di denaro pubblico, in nome della tracciabilità dei flussi di denaro e, quindi, dell’assoluta trasparenza dell’agire amministrativo, e sin da subito mi son trovato a “scontrarmi” con diversi segretari comunali. In effetti, sulla scorta di un “altolà” posto dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, nel mese di gennaio 2013, il legislatore, all’art. 26 co. 4 del citato d.lgs. n. 33/2013, ha espressamente stabilito che “4. È esclusa la pubblicazione dei dati identificativi delle persone fisiche destinatarie dei provvedimenti di cui al presente articolo, qualora da tali dati sia possibile ricavare informazioni relative allo stato di salute ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli interessati”, disposizione che mi pare chiara e non equivocabile.

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Pubblicazione a cura dell’Ordine degli Assistenti Sociali della Liguria Comitato Scientifico Dott.ssa Maria Deidda Dott.ssa Francesca Merlini Avvocato Massimiliano Gioncada Collaboratrici Dott.ssa Emanuela Liotta Dott.ssa Monica Bruzzo Progetto grafico Giovanni Cabona

Via Paolo Emilio Bensa 2/5A 16124 Genova C.F. 95040780108 Tel. 010 2758830 Fax 010 8695736


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