Università degli Studi di Sassari Dipartimento di Giurisprudenza Master Interdipartimentale di secondo livello in Diritto ed Economia per la Cultura e l’Arte nella Progettazione dello sviluppo territoriale – DECAPRO
(Direttore del Master Prof. Domenico D’Orsogna)
DAS MAGAZINE u n a r i v i s t a p e r i l D E C A PRO
Relatore: Prof. Domenico D’Orsogna
Candidato: Dott. Giovanni Campus, PhD
Anno Accademico 2018/2019
DAS MAGAZINE La mia tesi per il master DECApro è il progetto di una rivista, DAS MAGAZINE, quella che avete tra le mani. Nasce dall'esperienza della rivista online del DECAmaster/ DECAPRO, DECAzine, e dall'opportunità di essere a contatto con un corpo docente di livello internazionale, di ricercatori e autori di assoluto valore, sempre a disposizione degli studenti e spesso impegnati nel presentare i risultati di ricerche d'avanguardia. Dai colloqui con questi docenti e con la direzione del master è nata l'idea di creare un progetto editoriale che fosse a metà strada tra la rivista d'arte e la rivista accademica, un ibrido un po' insolito, ma con una sua precisa identità. DAS MAGAZINE in cui DAS sta per Diritto, Arte e Società, nasce inoltre per essere uno strumento di comunicazione (e promozione) dello stesso master DECA. Ma più ancora, DAS MAGAZINE si offre come strumento di riflessione interna del Master, grazie al quale contributi eterogenei che vi convergono vengono ricondotti ad unità o meglio, luogo in cui l’unitarietà dei contenuti viene sintetizzata in nuove linee di sviluppo. Nell'analizzare lo stile comunicativo del DECA e di corsi analoghi (ma nessuno uguale) vediamo come tutti si caratterizzino come contenitori ma fatichino a trovare una sintesi nell'intersezione dei riferimenti. Ciò può essere disorientante per gli studenti, ma la soluzione non può stare nella rinuncia a questa ricchezza e interdisciplinarità. ’ Corsi professionalizzanti forniscono un mix di competenze, il DECA può invece, grazie alla sua natura di master universitario, unire ricerca e formazione, anzi fare della ricerca interdisciplinare il suo punto di forza. D'altra parte la coerenza dei contenuti non viene costruita a posteriori ma si basa su assunti filosofici e epistemologici comuni. DAS MAGAZINE vuole riportare la riflessione a questi fondamentali, per lanciare da posizioni solide nuove proposte di visione, di ampio respiro e sguardo lungo. Nell'identità del DECA, inoltre, oltre alla formazione e alla ricerca, c’è un terzo elemento: la progettazione. Il focus sulla progettazione, che caratterizzava il master fin dalla sua fondazione, è emerso più esplicitamente nelle ultime edizioni, fino anche a modificarne la denominazione (da DECAMaster a DECAPRO, dove “PRO” sta proprio per “Progettazione”). Questa evoluzione è l'esempio ottimale della sintesi effettiva dell'elaborazione teorica sviluppata al suo interno. DAS MAGAZINE si propone oggi come strumento di azione, proiettato all’esterno, per aggiungere o esplicitare l’elemento della prassi, e rendere sempre più il DECA stesso un effettivo strumento di sviluppo territoriale a base culturale. P.S. Questa è la quarta di copertina.
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LORENZO GIUSTI ALESSANDRO ISAIA GUIDO FERILLI
DIRITTOARTESOCIETÀ
FONDAZIONI BANCARIE COLLEZIONI PRIVATE SPAZI OCCUPATI
PANDEMIAVS
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EDITORIALE “Che ci fanno tanto divertire”
F
ORSE dietro le parole
del Presidente del Consiglio prof. Giuseppe Conte c’è molto più che una svista, o pure più di una voluta umilazione. C’è un monito per la vituperata e “inutile” categoria degli artisti - e più in generale degli operatori della cultura. Il Presidente Conte è uomo di legge, professore ordinario di Diritto, e anche dopo aver enumerato tanti provvedimenti a sostegno delle imprese e della ripresa economica, è ancora dotto abbastanza da sapere che il denaro non ha patria. Tanto più per chi parla da e per un contesto europeo. Non sarà “la ricchezza della Nazione”a definire il suo carattere, non si costruirà nessuna comunità attorno a questa ricchezza da sola, non ci sarà alcun senso né significato nei “valori” cui si vuol fare appello per ritrovare “un sentimento nazionale” (ci serve davvero? Ad ogni modo, è quello che dicono di cercare, e verosimilmente il Presidente Conte ci crede davvero).
VENI coVIDI conVINSI
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FORMEdiVITA VS Allora qui nasce un conflitto, e nasce quel monito scandidto da una posizione chiara della barricata. Se togliamo il denaro infatti restano due cose a definire una Nazione: la sua cultura e il suo ordinamento giuridico. Non è il caso di affrettarsi a indicare quale di questi due aspetti sia il più astratto o il meno definito. Il conflitto è comunque reale. L’uomo di stato oggi dice all’artista: sei un saltimbanco. Io ti nutro e ti proteggo in cambio dei tuoi servizi. Che tradotto significa: non sei tu che mi definisci. Ma se le cose non stessero così? Se esistesse un’altra via? Di quella parla il giornale che avete fra le mani. C’è in proposito una famosa storia circa un aviatore inglese che incontrò, nella Londra di fine guerra, un famoso regista teatrale. Gli rimproverò il suo ruolo dicendo: io sfido la morte ogni giorno nei cieli per difendere la nostra Inghilterra, tu cosa fai nel frattempo? Io - rispose quello - sono la ragione per cui stai
PROBo VIRUS?
combattendo.
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COLOPHON Direttore editoriale (ovvero candidato)
Giovanni Campus
Direttore scientifico (ovvero il relatore)
Domenico Dorsogna
Grafica
Giovanni Campus
Foto editing
Giovanni Campus
Comitato scientifico:
omni offic tem si dolorrum is dolore, quamus eicatquias aceroviditas nis sim que sunt vellupt aspit, quamusaes ma omni offic tem si dolorrum is dolore, quamus eicatquias aceroviditas nis sim que sunt vellupt aspit, quamusaes ma omni offic tem si dolorrum is dolore, quamus eicatquias aceroviditas nis sim que sunt vellupt aspit, quamusaes ma
Hanno collaborato:
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noFLASHplease fotomostre
NO MAN’s LIBRARY
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SOMMARIO
p.4 EDITORIALE p.6 noFLASHplease - fotomostre p.10 I CONTENUTI p.12 La GRAFICA / 1: i font p.14 La GRAFICA / 2: i paragrafi p.16 La GRAFICA / 3: i colori ARTICOLI DI ESEMPIO p.20 NO MAN’S LAND p.22 MUSEI & SVILUPPO, intervista con Lorenzo Giusti p.24 POLITICHE LOCALI E SVILUPPO DEI DISTRETTI CREATIVI p.28 TERRE DI CONFINE - fotostoria p.30 ADIEU YONA p.33 IL GESTO DELLA SCRITTURA p.34 ALDO CONTINI - THE BIG THING p.36 LA CONFERENZA DI SERVIZI e il DISTRETTO CULTURALE p.38 ALESSANDRO BERGONZONI: LA TORRE INVISIBILE p.40 le BREVI p.41 i LIBRI 8
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Carsten Nicolai, Tele, 2018
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DAS MAGAZINE
I CONTENUTI
Cosa contiene DAS magazine? La natura di DAS Mazgazine è ibrida. Vuole collegare l’approccio accademico-scientifico a quello di una rivista d’arte attuale in tutto il suo splendore. Recensioni di mostre troveranno posto accanto a articoli accademici sulla natura filosofica o giuridica dell’opera d’arte, sul diritto d’autore, il branding, la presentazione di casi studio, fotoracconti e grande spazio all’immagine, più uno spazio riservato a notizie brevi dal mondo dell’arte e recensioni delle ultime uscite librarie. DAS Magazine prende spunto da altre esperienze di riviste culturali nate in Sardegna negli ultimi 20 anni, in particolare Ziqqurat edito dalla Associaizone Time in Jazz (al quale ho collaborato per circa quattro anni anche come segretario di redazione) e NAE edita dalla CUEC. Ma DAS Magazine ha una natura diversa, il suo rulo accademico e il suo colelgamento con il DECAmaster/DECAPRO gli confersicono non solo un punto di osservazione privilegiato, ma una diversa funzione. DAS Magazine ha un’occhio di riguardo per la Sardegna in cui nasce, ma soprattutto vede la Sardegna come un laboratorio globale per progetti di sviluppo territoriale a base culturale. DAS Magazine vede anzi se stessa come parte della promozione di un’idea di sviluppo territoriale basata sull’arte e sulla culrtura. Più ancora: DAS Magazine vede se stessa come uno strumento di sviluppo territoriale. In questa bozza di impaginato ho inserito alcuni articoli “veri” presi dal DECAzine (più un piccolo inedito), articoli già editi dei docenti del DECAmaster, più altre prove di impaginazione realizzate solo con testi fittizi per testare e rendere evidente il grande numero di soluzioni possibili e le molteplici tipologie di contenuti che è possibile ospitare senza conflitto, ma anzi in un interessante interscambio e mantenendo viva l’attenzione del lettore. L’idea è quella di fornire contributi di rilievo anche a chi normalmente non vi accede, siano essi gli operatori culturali - non usi a frequentare le riviste accademiche - sia i decisori, i politici e i funzionari che con la cultura hanno quotidianamente a che fare da una prospettiva molto particolare e a volte distaccata sia dalle dinamiche reali dei territori che dalle ultime tendenze della teoria, sia per gli accademici stessi, non solo per avere a disposizione letture multidisciplinari che non troverebbero nelle rispettive riviste settoriali, ma anche per Il progetto, al di la del mero esercizio accademico, appare solido e fattibile, persino sostenibile. Viene quasi voglia di farne una rivista vera.
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O T T I R I D
ARTE
DIRITTOARTESOCIETÀ
SOCIETÀ 11
DAS MAGAZINE
GRAFICA L’immagine grafica di DAS MAGAZINE deve essere innovativa, “aggressiva”e curata. L’obiettivo è quello di veicolare contenuti di assoluto rilievo sceintifico in una veste grafica accattivante e interessante. Questo è un approccio decisamente fuori dalla norma, probabilmente unico, ma proprio per questo interessante. Specialmente per una rivista stampata, è giusto utilizzare quanto di meglio il mezzo consente, anche dal punto di vista del design.
font Aa Bodoni MT condensed bold italic
Font sta per fusione. Giovanni Battista (1740–1813) faceva l’orafo e col suo cesello creò le forme per la fusione di quello che si può considerare il primo font “moderno”. Usare il Bodoni è un immediato richiamo alla tradizione tipografica italiana. Ma qui usando il corpo bold e condensed il carattere appare trasfigurato, con un impulso moderno e provocatorio.
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Aa Aa Aa Georgia regular
Il carattere Georgia ha invece grazie “vecchio stile” più curve di quelle del Bodoni, eppure il suo uso, specialmente insieme a una impaginazione del paragrafo “a bandiera”, vale a dire non “giustificata”, ci porta immediatamente al mondo del web. Georgia infatti è in uso in molti blog in quanto carattere web standard (faceva parte del pacchetto Core fonts for the Web, destinato a standardizzare l’uso dei acratteri su Internet). Nonostante il suo aspetto calssico è infatti un font creato nel 1993 per la Microsoft, destinato in origine alla lettura su schermo, ed è presente fra i font di sistema nella maggior parte dei computer del mondo.
Georgia bold
Georgia bold italic
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GRAFICA / 2
parag I paragrafi sono generalmente impaginati a bandiera, parti evidenziate, citazioni, sottotitoli, sommari, possono essere centrati. Anche queste scelte si rifanno al mondo del web, da cui traggono un’estetica informale e funzionale. Anche la rapidità della composizione della pagina è tenuta in considerazione, così come la grande varietà di impaginazioni possibili
Mihil hostra, mantem pullabermis, at, ne mentum in dit. Ime acivero essid Catum intraris pat. An seret nostrortili, Cat et intimpe ropublius ina novenatum fec temuntus dienatintil urei sciam signon postimoenit, sus, que conte, quodius verfinc ultilii squonsulis patuscis tem pos, vica avercerit porum audela eticast iferfic ienati, ac vil urnius. Aximunte nonsimilis, silint. Quam, publi in vis acta aperfecrum haetre tus publisque iam que fuid culi, facresua patil terectatrae temum ina, verei in ret; este, non a L. Mariptil coninte telin issa dit L. Ignosula notium cis. Vivesic asdaciente milla nena, ponsces consimihi, quodius, am vastum re, quonia eger hintelissid conc restricite, utem tuit, nulum a condaci egercerum invent nos nost? Ignocchici condeps erfecrem inu it perfico nonicutuus, unum huium senium inatuid effrei civis ade moltum in tem tere, Ti. Senterc erfecipio conoximis sceperf ecupica; non num perimo C. Sp. An sullege rvivirit. Ovivate ridiorei peritus; Catus, dendi sunum pratquium noncere aut de num urnula et rei fectabus nos tem. Catus; escerem, nem rei in dius perus, quam ac teatius crio Cas ium ideessilint. Ahae ine nihinternum omne que cusqua pubis, quis publibulis? Decterei factemus occivir itienari sus hentem idi pret; nihil cons peresci erbitarbem sentus Mari fuium ineriaet coertin tem octabus etilius cam. Culto in re, urisultus porteat queror pos vivides cribus omperei pos contra L. Econdam consuam sum es no. Serfit. Decrei prebatio, consum opublibus licastem iam in tanteste, tum opterox movivir ignos conculis.
Patilicavo, ina, ompes ficibusulina cessimum ne arid mortusque intemus det verfecte catum huit. Editia mis vero hoc resserum. Abemusq uiuscio nost? quam hos hos, me tum quont. Nihilneque et conver acciam noculum perus larid cla vicae peri, consus parbis furaet am dem res ad cepse pro, uracienarei publis abusque tum. Uderunimus condii se noculto uterei pulto publiquam et noris viverte renius aves libus Mae re, omne teberdies efat, ficae atilibuniac in din inatude esilici tam aur quam uterte nimusci patide nos, porum num num is pro, nesim atrenam. Locaet L. Maris rei in ta condier ionlocumus esteres vivit furbem diemenarios adhus. Il consus cae quo pricepe rissoludetem sulocchiliis nonsul hoc, senimur. Nihintiora Seresimus, quite que oraeque fuis, ublicie nemus essa nerei spienam meis intre temque faudentemqui sendica sdacioctam nos pere intem efaudef acchica esciam hacionclarem tude nos Ahaet voltus? Nos intis Mae mante, utereme deperi pularit Cuppliculvil huius? Pat gratilin strei patque nemprideo es acienti amquemerae, consulo culique nimorte perdium ina, contratquam tem, viris. Simus fachui perunum potia audem hosti, que vis fue ingulibus bon simus, inatquit ingul terimus, cure conercer pularit. Ahalatum conerfe confecus loctores pritis, quemus, ocaectumus spera, postres turorum conti, conve, convendit. Imo etors ere inatquem etermilis. Es nem fer ut ad cio estus ingulus, cret; hos aut a nericiam acii cerei se egercerra nonsullem in re ad constraequi intem tantiam pro, stideatinte, peripio te publin tur acepsenat in te quam rem, oc, conduc
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grafi Mihil hostra, mantem pullabermis, at, ne mentum in dit. Ime acivero essid Catum intraris pat. An seret nostrortili, Cat et intimpe ropublius ina novenatum fec temuntus dienatintil urei sciam signon postimoenit, sus, que conte, quodius verfinc ultilii squonsulis patuscis tem pos, vica avercerit porum audela eticast iferfic ienati, ac vil urnius. Aximunte nonsimilis, silint. Quam, publi in vis acta aperfecrum haetre tus publisque iam que fuid culi, facresua patil terectatrae
temum ina, verei in ret; este, non a L. Mariptil coninte telin issa dit L. Ignosula notium cis. Vivesic asdaciente milla nena, ponsces consimihi, quodius, am vastum re, quonia eger hintelissid conc restricite, utem tuit, nulum a condaci egercerum invent nos nost? Ignocchici condeps erfecrem inu it perfico nonicutuus, unum huium senium inatuid effrei civis ade moltum in tem tere, Ti. Senterc erfecipio conoximis sceperf ecupica; non num perimo C. Sp. An sullege rvivirit.
Estibus quat. Dolupis itiusciatque id endest asperorat et odipsapernat apit quatios atectur, omnit quatem sequis eum imolut ratia doluptas eostrum evellaciet estecum, expel iunt evendus amusande porpore re eum venimin ctiuntemos diciaes aut aut volorero quident elictoribus sintia voluptate explaborem archict atatus cone mo bla sapiet lam faccaectur? Quibus intust aut renimilia con re, sunt aliquas rem. Faccat aut fugianiendis prenis et rernatatus est, qui dolorendae illesed quam lanihici cor aut in eatis dolor a dellabo. Ut audam eum verio quo evella sequia aliquod ex esecae et latibusanis doloreped et vendaere mincipsant asped erum iliquiant qui id quis aut latius, sus alit quate poribus reprorepro velit ulpa nobitatibus similit la quiate pa accusam etur sitiaspe licition nus. Inim etusdae parum, accupta diciend enest, quas quid endem. Ut ex entumquam laborep
Estibus quat. Dolupis itiusciatque id endest asperorat et odipsapernat apit quatios atectur, omnit quatem sequis eum imolut ratia doluptas eostrum evellaciet estecum, expel iunt evendus amusande porpore re eum venimin ctiuntemos diciaes aut aut volorero quident elictoribus sintia voluptate explaborem archict atatus cone mo bla sapiet lam faccaectur? Quibus intust aut renimilia con re, sunt aliquas rem. Faccat aut fugianiendis prenis et rernatatus est, qui dolorendae illesed quam lanihici cor aut in eatis dolor a dellabo. Ut audam eum verio quo evella sequia aliquod ex esecae et latibusanis doloreped et vendaere mincipsant asped
Ovivate ridiorei peritus; Catus, dendi sunum pratquium noncere aut de num urnula et rei fectabus nos tem. Catus; escerem, nem rei in dius perus, quam ac teatius crio Cas ium ideessilint. Ahae ine nihinternum omne que cusqua pubis, quis publibulis? Decterei factemus occivir itienari sus hentem idi pret; nihil cons peresci erbitarbem sentus Mari fuium ineriaet coertin tem octabus etilius cam. Culto in re, urisultus porteat queror pos vivides cribus omperei pos contra L. Udeintemusquam.
rovitat libus, ut ulpari nosam ipient as dolorep ellam, conseque voluptas am enduntiis que nihit magnis ipsandae por sitatem dolorempor mossinc temolupta aut es sed ma nihilicto excersp idest, assunt quam sequia cus inulparum quosape dem eritas atur rempori quam, consequ untio. Nobitii squosam verae. Nam dolupta dolorectis int faciunt iorrupiti con nesequis sumquiassi aut quaturit eum et lis et volut ellit, susam re pernatusam faccus aliquidus, nonsere sincipsunt accus untinve lictiatumqui derro deseque verae pero maximpe rnatia cum que presequo ipsam recaero bea sim aut et dolupis consequiasin num exerum simpore mporestis esto voluptaeptis si delit aut quia consequiae aliatur? Nemporum est entorum qui dolo volor maionse quibusantios magnimo dipsam vero consent otatior escipsam fugitiis as ad maio odistium etur alit, serunt fugit fuga. Et militatum re
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GRAFICA / 3 Colori facili da stampare, difficili da sbagliare. Un occhio alle esigenze tecniche e all’economia di gestione. DAS Magazine deve essere stampabile pressoché ovunque, oltre a “funzionare” bene anche su qualunque schermo. Quasi tutto “nero su bianco”, con due ulteriori possibilità di gradazione del nero (60%, 20%). Il colore distintivo è il rosso (15/100/100/0) usato in copertina e in pochi altri elementi. Il magenta pieno (0/100/0/0) servirà per invece i contenuti più estrosi o le trovate un po’originali, o articoli di costume. Un bel blu “ministeriale” può invece marcare gli articoli giuridici di taglio più accademico.
colori ESEMPIO ESEMPIO ESEMPIO 16
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0/100/0/0 15/100/100/0 0/0/0/100 K60% K20% 100/90/10/0
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ARTICOLI di ESEMPIO
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NO MAN’S LAND
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Unt quae iliberuptias voluptiae prero minctis doloreh endiscimpora autem quiae vit el molor alit laboria consendi con ressinciam a solorescia et ligendusdae veliciae ne re quasit inient experrumqui blaborum quia nis dipsum aut offic tem quias eum aborem facid magnis ut harum estrum qui bero moditaque voluptaepero omnissi re voloressi dolut aboremp orehendus, que quam eic temperspid enimos sitatur?
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MUSEI & SVILUPPO
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Intervista con Lorenzo Giusti | di Giovanni Campus
G.C.: Cominciamo con il parlare del suo rapporto con il DECA master. L.G.: Era il 2014 o il 2015, ero direttore del MAN di Nuoro quando mi venne presentato dal professor D’Orsogna il progetto di questo nuovo master. Ovviamente mi interssava molto, perché parlava di arte e perché, come fu all’inizio della storia del Master, la sede doveva essere proprio a Nuoro. Accettai di collborare ma al tempo non insegnavo ai corsisti - il mio ruolo era piuttotsto quello di un direttore artistico del master. Segnalavo artisti o personalità da invitare per lecture o corsi, o con cui attivare collaborazioni. Queste collabora-
zioni riguardavano in genere sia il master che il museo che dirigevo: erano funzionali anche alle attività dello stesso museo. Alcune delle lezioni - o quantomeno gli incontri e i seminari - si svolgevano infatti in sedi individuare dal museo stesso, ed erano almeno in parte aperte anche al pubblico generale, non solo agli studenti del master. Al tempo il programma didattico del DECAmaster non parlava ancora esplicitamente di sviluppo territoriale, ma solo di “diritto e economia dell’arte”. Tuttavia il concetto di sviluppo territoriale vi in qualche modo già incluso. Possiamo dire che il DECAmaster stesso era uno strumento di sviluppo territoriale.
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A me, del resto, interessava anche come occasione di parlare di arte contemporanea a un pubblico diverso da quello del museo, e di far crescere la cultura del contemporaneo sul territorio della Sardegna. Mi sembrava un’idea brillante. G.C.: E per quanto riguarda invece il suo ruolo come docente? L.G.: A insegnare ho inziato dopo, forse nell’ultimo anno in cui la sede dei corsi è stata Nuoro - quando io da Nuoro ero già andato via. Il tema dei corsi riguardava i processi di attribuzione di valore all’opera d’arte contemporanea. Facevamo delle interessanti esercitazioni,
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Possiamo dire che il DECAmaster stesso era già dal principio uno strumento di sviluppo territoriale. [..] Oggi al suo interno racconto il funzionamento dei musei in Italia e studio il loro ruolo come strumento di questo sviluppo.
con gli studenti, per imparare a comprendere e anche anticipare i processi di valorizzazione delle opere. Era molto istruttivo anche per me, e molto divertente. Adesso invece, anche per il mutato focus didattico del corso, mi occupo piuttosto del funzionamento dei musei in Italia e del loro ruolo come strumento di sviluppo territoriale. G.C.: Abbiamo visto e analizzato durante il corso una grande quantità di statuti di musei. Uno studio come quello che abbiamo fatto - che entra nel merito delle compagini societarie, dei sistemi di gestione, dei regolamenti iinterni, richiede competenze diverse da quella dello storico o del critico d’arte, e anche del curatore, sono competenze giuridiche e molto raffinate. Sono necessarie nel suo lavoro^ Dove e come ha potuto acquisirle? L.G.: In realtà certe competenze giuridiche sono già presenti richieste negli studi ad esempio di museologia e museografia, che ho affrontato nella scuola di specializzazione di Siena. Lavorando poi nelle istituzioni queste questioni, apparentemente legate alla dottrina, diventano invece molto concrete. Non è solo un problema di traduzione di linguaggio, ovvero della necessità di conoscere il linguaggio giuridico per poter realizzare progetti... [...]
Nusdam, con nonsecab inulluptis quis deria inumque nobita et esed utat quibus et pos endis aut endem. Itatquostem etur? Onem quiae nullendi nobis sequatisqui offictur ande pa dolorit harupture nihiliquiam is sinvent ari aut ut voloriorum licae. Nonem resendis ut re plic te cumquia erchil ipsamus, utenditatur aut imus eari tem et quatur modipic aecust eium rem a nat odia qui iminvel incta denditi am re voluptasit alit quam volorit atemque iduciata simincturia quiam sitaquam ium velit audit ligenimusdam rem estrum quo et qui occullit moste landebis custrum veliquas rera dolorenimi, qui dunt ad unt occus ut vendam aci quis ma voluptur? Qui utem quasperrum que velecti oreium vollabo repelest, il inulluptas doloruptatem qui derunt offictur? Udit mos pa corem quatque re, qui audit landant, nis dolles ipsa verum, as autessequunt utem eostibus, quibus inciatem voloreperori ipiderum, inullab ipsum que nest volorem ide nos eaquiam etur re, sunte molorum quiscii sciatint. Elit, am, videbit atisserum harum ent vel modis poriore pore velitio dem ea ius quosame rero blab ipsapel iquist as reium quo berspidem harum ex evenihil imos asped maximus? Riam, velestiis aut et quiasperiti inveriori utectaturem fugiatessum, voluptias exeribus inim fuga. Nienis mo il magniminctia
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in et voluptat am quam facium sed quis volorem reicium quuntibera iumquam quos quas mincte voluptur, est, officil et, commolo tem. Voluptio offic tores descipsam es rent expellandit audanimus a ex et voluptae evelestisque corerferibus eos intur si omnimperum sediae. Itati audis sitia excepere et moditationem rem etur si rem. Enist quia conectibus, eum laboribus reptatem int accum quis del molesequam, num andi doluptatiae. Nem nobitatur abor restota dolore, quam re lab inihici aut vendae consecera aut plaut fugiaspiet lab intibus soluptat. Ximpore mi, opta delestio venit as quam etus endisque et ommolec tempora cuptatis unti blaut hit parum aditatur mi, vent, torero beaquidusci ut audae. Nam aut liae nobis suntiis aut parias es maxim ipsunte accusa se dipisto culpari onecepre lacernam, si omnisinciis alis et faccuptatque invelitatur? Boreiciet exere lacia nonsectatia et et ut magnisquiam evelitatem illorit minvele ctorro maximint eum este eatin conseque nessi asperovid que pel mo dolestiatur sunt fugiatem at ute volorei cipsandia volorruptur sae. Ihicte diae volupta temquiam, sant vendant et pe moluptatur sunt debis et volore expel ilia illupta vide dem re, iuriaes dolorest, offictae militem undaectio eost, net laut mod que porepudi incipidus solupta tiantem sa
POLITICHE LOCALI E SVILUPPO DEI DISTRETTI CREATIVI
DAS MAGAZINE
Guido Ferilli e Pierluigi Sacco
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a cultura è divenuta, con gli anni, un fattore importante per le società postindustriali; essa entra sempre più massicciamente all’interno dei nuovi processi di creazione del valore econo-mico e ha aperto un nuovo terreno di competizione internazionale, quello della creatività. Tut-ti i centri urbani che perseguono oggi una strategia minimamente coerente e ambiziosa di svi-luppo economico locale fanno della cultura un punto di forza, inaugurando musei, speri-mentando forme sempre più avanzate di divulgazione delle attività culturali nel tessuto della città, favorendo l’insediamento di artisti, costruendo i processi di riqualificazione urbana in-torno a sempre più grandi e complessi interventi culturali che hanno una funzione pilota. Que-sto risultato va attribuito alla crescente competizione dei Paesi più avanzati in cui le economie che si sviluppano non sono generate dai classici mercati culturali, quanto dalle attività creati-ve che possono crescere e svilupparsi nell’integrazione con le varie dimensioni della vita so-ciale ed economica quotidiana. È su queste basi che nasce il modello del distretto culturale evoluto: un modello nel quale la di-mensione di sistema è ancora più forte e decisiva rispetto a quella del vecchio distretto industriale, e che richiede un’integrazione complessa tra una molteplicità di attori (pubblica amministra-zione, imprenditorialità, sistema formativo e università, operatori culturali e società civile). Il valore della cultura È ormai unanime il riscontro a livello internazionale del ruolo della cultura nei processi di sviluppo delle economie più avanzate che, in altri termini, vengono definite postindustriali. Ciò che non appare tanto chiaro, almeno nel nostro contesto nazionale, è il ruolo che la cultura può assumere per lo sviluppo economico. Quando si parla di cultura si continua, infatti, a fa-re riferimento a elementi che sono assunti per «definizione»: il patrimonio artistico e i beni architettonici (di cui andiamo tanto fieri) da una parte, e il livello di istruzione e innovazione che si cerca di portare sul territorio con investimenti in centri di ricerca (nei limiti dei fondi disponibili) dall’altra. Per quanto riguarda il primo aspetto il riscontro con la realtà è abbastanza deludente, dato che la tendenza, in molte aree del territorio, è di investire esclusivamente sui beni materiali, senza accompagnare questi processi con politiche volte a riorientare e rimotivare il tessuto sociale che vi risiede. Il più delle volte, infatti, le ristrutturazioni di edifici stori-ci sono accompagnate da iniziative di marketing territoriale, in cui si propone la passeggiata per visitare il patrimonio artistico e l’offerta dei prodotti tipici locali, le sagre ecc. Ma il risultato in molti casi (si vedano Venezia, Firenze, per citare i più conosciuti) è la «disneylandizzazione» di queste aree, che assumono l’aspetto di veri e propri luoghi in cui l’attrattiva è data dalla forma e non dal contenuto. Nel secondo caso vi è il rischio di investimenti non contestualizzati che, proprio perché avulsi dal loro contesto, danno sì vita a centri di eccellenza ma sono al contempo responsabili dell’annosa fuga di cervelli e acuiscono la mancanza di iniziative incisive volte ad attrarne di nuovi dall’estero. Mentre in altre regioni le politiche volte a ridefinire il profilo culturale, sociale ed economico di un’area stanno dando degli ottimi risultati, nel nostro Paese si continua a discutere su chi abbia il campanile più antico. Un esempio di quanto siamo lontani dal resto del mondo ci viene proposto da un recente studio del Consiglio europeo -
Per l’Europa dei trenta, comprese Islanda, Norvegia e Liechtenstein, nell’anno 2003 il fatturato complessivo dell’industria culturale è stato di 654 miliardi di euro. ...e noi?
Direzione generale per l’educazione e la cultura, che prende il no-me dal commissario europeo che lo ha realizzato, il rapporto Jan Figel. In questo rapporto, presentato alla fine del 2006, ma da noi praticamente sconosciuto, emerge che la cultura svolge un ruolo determinante per la crescita, la competitività, lo sviluppo sostenibile, l’innovazione, l’occupazione, la coesione sociale, il senso di appartenenza e la diffusione di lavori condivisi. Per l’Europa dei trenta, comprese Islanda, Norvegia e Liechtenstein, nell’anno 2003 il fattu-rato complessivo dell’industria culturale (così definita) è stato di 654 miliardi di euro. È un dato che risulta più chiaro se lo si confronta con quello del settore automobilistico del 2001; le cifre sono leggermente diverse, sfasate temporalmente, ma in un momento di prezzi stabili e comunque abbastanza confrontabili. Nel 2001 il fatturato del settore automobilistico in Europa era di 271 miliardi di euro, all’incirca meno della metà di quello dell’industria cultura-le del 2003. Sempre nel 2003, il fatturato dell’ICT nell’Europa a quindici Paesi (e quindi in un’Europa più ristretta ma che produceva la maggior parte del valore aggiunto) era di 541 miliardi di euro. Possiamo pertanto affermare che la cultura, nella sua dimensione economica, è grande più o meno il doppio del settore automobilistico e quasi quanto il settore delle telecomunicazioni. Per quanto riguarda il contributo che la cultura dà alla formazione del PIL europeo, sempre nel 2003, l’incidenza totale della cultura era del 2,6 percento. Un dato sicura-mente importante se confrontato, ad esempio, con quello immobiliare che aveva un’incidenza del 2,1%, quindi mezzo punto in meno, o con il settore del cibo, delle bevande e del tabacco dell’1,9%, o quello tessile (su cui pure si sono concentrate, per tanto tempo,
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tante politiche) dello 0,5%, o ancora il settore della chimica e della gomma del 2,3 percento. Per quanto riguarda la crescita del valore aggiunto nel periodo 1999-2003, il tasso di crescita accumulato nel settore culturale è stato del 19,7 percento. Lo scarto positivo rispetto alla me-dia del sistema economico europeo è stato del 12,3 percento. Si è cresciuti, in media, più del 10% nell’arco dei quattro anni. L’occupazione totale nell’Europa a venticinque Paesi nel settore culturale era del 3,1% nel 2004 e nell’arco di tempo 2002-2004, a fronte di un’occupazione decrescente a livello assoluto in Europa, il settore culturale cresceva dell’1,85 percento. Stiamo parlando, allora, di un settore di attività che in questo momento in Europa è assolutamente trainante: è uno dei settori più grandi, più dinamici e che nel futuro creeranno più valore aggiunto e più occupazione. Ma qual è la cultura analizzata nel rapporto Figel che ha dato performance così importanti? In generale si parla di settore culturale e creativo. Il rapporto distingue tre settori: i settori culturali di base (arti visive, arti performative, patrimonio), quelli delle industrie culturali (film e video, televisione e radio, video giochi, musica, editoria) e quelli delle industrie e attività creative (design, architettura, pubblicità). La cultura, così intesa e analizzata nel rapporto, non ha dunque nulla a che vedere con quel-la che ci ostiniamo a prendere in considerazione nelle strategie economiche del nostro Paese. L’atteggiamento italiano tende quasi a emarginare la cultura identificandola con il tempo libero e considerandola così più una spesa che una risorsa economica, in molti casi è ritenuta un eccellente complemento del settore turistico, che a sua volta è considerato la panacea per risolvere problemi strutturali o congiunturali di vaste aree del Paese. Ecco allora che vari pro-getti e interventi di «recupero architettonico» o di marketing territoriale passano per attività rivolte alla valorizzazione del patrimonio culturale o alla costituzione di distretti culturali, termine che ormai è utilizzato per definire qualsiasi forma di investimento sul patrimonio artistico, architettonico, paesaggistico e sulle tradizioni di un’area. Non si spiega in questo modo come in tante città d’oltreoceano, come Denver, Austin, Vancouver ecc., il settore culturale stia assumendo il ruolo trainante dell’economia, nonostante vi sia un’assoluta mancanza delle risorse materiali che caratterizzano la maggior parte dei Paesi europei, compresa l’Italia. Forse è arrivato anche per noi il momento di ripensare alla cultura in modo più ampio, di riconsiderare il reale ruolo che può avere il giacimento di capitale fisico che dà al nostro Paese un vantaggio competitivo rispetto agli altri, ma che non è ancora emerso come tale nei fatti. Cultura, consumo e territorio La cultura ha assunto recentemente una valenza sempre più importante nei processi di crea-zione del valore. La stessa domanda del consumatore è cambiata, grazie anche ai cambiamenti del rapporto tra consumo e benessere individuale. Mentre nelle società industriali il rapporto tra identità individuale e sociale era statico, con una scarsa criticità dei modelli culturali di riferimento, nella società postindustriale la maggiore elasticità della struttura sociale permette agli individui di determinare in modo sempre più autonomo e mutevole la propria condizione di vita e quindi anche le proprie preferenze, i propri bisogni e le dinamiche di competizione sociale. Nella società postindustriale domina la possibilità degli individui di esprimersi liberamente, per raggiungere il proprio benessere personale. Tutto ciò lo si riscontra anche nell’atto del consumo, in quanto le persone cercano sempre di più beni a va-
Lo sviluppo di modelli identitari sempre più differenziati, la capacità dei singoli individui di elaborare autonomamente il proprio modello identitario e quindi il proprio modello culturale, si riflette anche nella capacità produttiva di un territorio lenza culturale, che li aiutino a confermare le proprie strutture mentali, permettendogli di rafforzare la loro posizione nel mondo e il ruolo che essi vi assumono. Nella società postindustriale l’accesso a una maggiore ricchezza rende obsoleti i modelli di sviluppo legati alla logica della sopravvivenza. Raggiunto un certo livello di benessere, l’ulteriore incremento è valutato dando maggiore importanza a indicatori che non sono più materiali. Il conseguimento di esperienze culturali da parte degli individui e della società favorisce la capacità degli stessi, una volta assimilata una certa dotazione di capitale culturale identitario e simbolico, di attivare un meccanismo di sostegno dell’offerta di ulteriori nuove dimensioni di consumo e di produzione, attraverso un processo di acquisizione di competenza. L’esperienza culturale permette, quindi, ai singoli individui di sviluppare nuove competenze che determinano la necessita di ampliare il proprio paniere di consumo, favorendo così lo sviluppo virtuoso di nuove forme di consumo. Questo circolo virtuoso innesca un processo di continuo rinnovamento dei prodotti di consumo e di nuova domanda. Il consumatore richiede sempre nuovi prodotti e servizi nei quali la componente creativa innovativa diviene fondamentale. Lo sviluppo di modelli identitari sempre più differenziati, la capacità dei singoli individui di elaborare autonomamente il proprio modello identitario e quindi il proprio modello culturale, si riflette anche nella capacità produttiva di un territorio, che passa progressivamente da produttore di beni e servizi a produttore di modelli identitari. La stessa attrattività di un territorio si identifica sempre più nella sua capacità di offrire la componente immateriale più che quella materiale (capitale fisico, naturale). È un dato riscontrabile nella capacità di molti Paesi, ad esempio quelli del Nord Europa, di sviluppare modelli di crescita endogena basata sul-la componente immateriale dell’offerta culturale. In questi ultimi anni lo sviluppo del territorio, spontaneo o indotto, ha quindi rappresentato un terreno fertile di ricerca multidisciplinare da parte di urbanisti, architetti, economisti, antropologi, geografi ecc. per interpretare le componenti proprie di questi nuovi fenomeni di sviluppo. Gli elementi che caratterizzano il successo di un territorio sono sempre più dati dalla correlazione tra produzione e sistema sociale e ambientale. La competitività dell’offerta di-pende in misura crescente dal contesto complessivo in cui essa opera e che essa stessa può
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La platea allestita per il “Rebeccu Film Festival”
influenzare grazie ai processi di crescita del sistema sociale su cui interviene. In altre parole, la crescita di un territorio avviene attraverso un processo di distrettualizzazione, di concentrazione geografica di vari elementi endogeni ed esogeni ambientali e sociali che cooperano tra di loro per porre il territorio in chiave competitiva. Emerge quindi come la relazione tra economia, società e territorio sia un sistema complesso in grado di generare crescita e sviluppo, e diventa sempre più evidente come nelle società postindustriali la competizione non riguarda solo più singoli agenti ma sistemi territoriali, in cui lo sviluppo organico degli elementi materiali e immateriali diviene condizione necessaria al-la crescita competitiva del sistema e della sua capacità di attrarre risorse dall’esterno. In questa realtà, il concetto di valore assume nuovi connotati, quale chiave strategica di sviluppo territoriale. Il distretto culturale È proprio da queste considerazioni che si vuole introdurre il concetto di distretto culturale evo-luto. Le origini di questo termine si possono fare risalire a quelle del distretto industriale: modello di sviluppo di un determinato territorio grazie all’integrazione verticale realizzata dal sistema locale su un’unica filiera di prodotto. È il modello di sviluppo economico che fa riferimento storicamente agli agglomerati di piccole e medie imprese specializzate e concentrate in un determinato territorio aventi una serie di caratteristiche comuni, sospese tra l’autonomia e l’interdipendenza. Il distretto culturale classico, quello che nasce nel Regno Unito negli anni Settanta grazie agli esiti di politiche di riqualificazione di aree urbane degradate, ne è un esempio, anche se il concetto di cultura già allora assunse un’accezione più ampia, ricomprendendo la produzione culturale e i settori a essa connessi. I casi più interessanti di distretto culturale si possono riscontrare dagli anni Ottanta nei Paesi anglosassoni, mentre in Italia si inizia a discutere di questo modello di sviluppo a partire
dagli anni Novanta. Un primo modello di distretto culturale proposto è quello che si focalizza sul concetto di di-stretto come sistema di relazioni, territorialmente delimitato, che integra il processo di valorizzazione delle dotazioni culturali, sia materiali sia immateriali, con le infrastrutture e con gli altri settori produttivi che a quel processo sono connessi. In questo modello di distretto, le risorse valorizzabili riguardano tutto il patrimonio demo-etno antropologico, che comprende gli spettacoli dal vivo, la produzione di arte contemporanea, l’industria cinematografica, televisiva, editoriale e multimediale, i prodotti tipici locali, nonché l’industria della moda e del design. Il distretto in questo caso è costituito dalla filiera che caratterizza il bene: dai proprietari dei beni che ne sono oggetto, a quelli delle altre risorse locali, alle imprese fornitrici di materiali e servizi, alle imprese che utilizzano il prodotto finale all’interno della propria catena del valo-re, alle infrastrutture di accoglienza, a quelle del tempo libero (come i teatri e gli impianti sportivi), alle istituzioni della formazione professionale ecc. Ogni area territoriale organizzerà il suo modello di distretto intorno alla sua dotazione più pregiata sia in termini di offerta di servizi, coordinata e coerente con gli obiettivi del processo di valorizzazione, sia in termini di qualità dei servizi di accoglienza, adeguati al segmento di domanda che si vuole attrarre, sia ancora in termini di relazioni con le imprese che integrandosi all’interno della strategia di valorizzazione, ne incorporano gli elementi simbolici distintivi e si attivano per attrarre ulteriori risorse economico-produttive. Si tratta in altre parole dell’intera filiera produttiva del bene da valorizza-re, tipica anche dei distretti industriali, ma con alcune differenze. In primo luogo, la produzione e il consumo di prodotti culturali non possono essere separati geograficamente, come avviene per i prodotti del distretto industriale, destinati all’esportazione. Inoltre, può esserci l’intrusione di soggetti esterni interessati al semplice sfruttamento delle potenzialità del distretto, con l’obiettivo del profitto, spesso con il conseguente scadimento dell’offerta culturale.
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TERRE DI CONFINE Cesare Gallizzi
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foto di Alessandro Mirai, 2017 Il Festival Terre di confine al bar Secci di Asuni Molorum volupta preptatiis quid quunt, nust quam aut aut fugiam volupta volum ipsaper ioreribus quam quo quam aboriostrunt event lam reictur aciis et volor secullibus andae prepelectas delitaque nem num re in corum latem ut molum eveniam laborehenim nit litate natia quat hiciatu risciendicid eaquiasperio officturit offic to dolorem esequatur accuptat reptatection re, core doluptatur? Nos ipsandus. Ut dolorpo repudi tento temquos aperis et, ut lania suntecta pliquid unt veliquist acit eos que evel
incia sedit, quodian dignimus quassimusa nos quia quam et maionsequia debit quiatiis eturit ullitat usdaepe reiust etus corror re core, veliciam, tem hit qui renistem fugiae con net magnisit re invelis eatibus perum rem quo blautec atemodit molupta tecatet lant et aut lam, quam vitiusdae volore occab in et hilia dior ant venducitia sapiciantis dolupis event. As rem. At. Rias ent evere volupta tentium, tenis vendam est, aut et lam dolupta qui voluptibus doluptas et et ommossim voluptate laccusaperum
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iminctus. Os ilicitio. Ut es dolo incider sperepe riorem quaestiatet dolupta turitat ibusciam, qui beataspid qui conectam nonesto tatemporio molori con pereptur? Acipsam di dipid quae vitem ventia est laccus eos nonsed ma pa et et, aut quo imo officiis enduciuntur, ut arum, nesti tet aliquunt arum es vit inimpor ercientus dolum dolum es ducit exerum solo corem nobit, ipiet que magnatur, corem ex et, oditatem qui con con exerchite sitio qui blam quisciature doluptur sed maio maion estias asinulparum ium
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ADIEU YONA di Giovanni Campus
Yona Friedman (a sinistra) con Jean Baptiste Decavèle. Sullo sfondo: Yona Friedman, disegno di una “Ville spatiale”
È
scomparso all’età di 97 Yona Friedman. Se ne va un gigante del pensiero, dell’architettura e dell’arte, che ha segnato la cultura del secolo trascorso e di quello in corso, e la cui influenza resterà negli anni. Friedman, nato nel 1923 in Ungheria da una famiglia ebraica aveva conosciuto gli orrori dell’ascesa del nazismo e della guerra. Al termine del conflitto completò la sua formazione in Israele per poi trasferirsi a Parigi, dove visse dal 1957. È stato docente in molte università soprattutto americane e ha pubblicato
innumerevoli saggi, anche di argomento disparato – ma al centro della sua riflessione sono sempre state l’architettura e l’urbanistica, e il loro inestricabile rapporto. Anche se realizzò pochi edifici, i suoi disegni e i suoi scritti hanno indirizzato il lavoro di generazioni di architetti e urbanisti: è certa la sua influenza ad esempio sui gruppi di architettura radicale come Archigram e Superstudio, così come anche sugli architetti giapponesi del movimento metabolista, oltre che per lo stesso Kenzo Tange. Ma la sua influenza – diretta o indi-
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retta – si estese ben oltre il suo campo disciplinare, al cui “confinamento” era per altro refrattario. È stato piuttosto un pensatore, un filosofo, che sapeva scrivere anche col disegno e che non ha inseguito l’originalità a tutti i costi ma ha piuttosto coltivato la sincerità radicale del suo sguardo originale – ma sensatissimo – sul mondo. Essendo nato nell’Ungheria del ‘23, Friedman aveva forse visto già nella realtà della guerra – nell’esperienza primordiale dei bombardamenti – la natura mutevole delle città. Anche al grado zero di architettura sopravviveva il funzionamento
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urbano: questa esperienza gli rivelò probabilmente proprio la pasta di cui le città sono fatte, che non sono più gli edifici, e nemmeno le strade. Anche in mezzo a quelle rovine abitate, la città viveva. Nella sua visione, le rovine erano ben altro: “Un architetto non crea una città, ma solo un accumulo di oggetti – diceva – sono gli abitanti a inventare la città. Una città disabitata, anche se è appena costruita, non sono che rovine”. Già nel 1956 aveva presentato al X Congresso Internazionale di Architettura Moderna (CIAM X), tenutosi a Dubrovnik il suo determinante “Manifeste de l’architecture mobile” (Manifesto per l’architettura mobile). Quella proposta era un’architettura basata sull’uso flessibile dello spazio e sulla collaborazione degli abitanti. Capì subito che il CIAM non era pronto per le sue idee, o forse non era già allora più servibile come strumento di innovazione. Formò un suo gruppo autonomo e da quel congresso i concetti di “architettura mobile” e il suo corrispettivo urbano, la “ville spatiale” – una visionaria città modulare – trasformabile e sopraelevata – divennero il centro del suo insegnamento e dei suoi numerosi scritti. Già allora i problemi o meglio i temi dell’urbanistica erano molto cambiati: non erano più mascherati di “tecnica” ma dichiaratamente filosofici, e anche decisamente politici. Per quanto Friendman stesso, in chiara polemica con il razionalismo, rivendicasse la necessità di una “architettura scientifica” (Pour une architecture scientifique, 1968) che evidentemente nonostante le pretese non
vedeva realizzata in alcun luogo, l’urbanistica – e l’architettura – erano ormai un modo per interrogarsi sulla condizione dell’uomo nel mondo e anche sulla sua capacità di trasformarlo per il meglio, con laicità e coraggio. Friedman per questa sua visione fu accusato dai di essere un “utopista” – accusa che accettava di buon grado, chiamando le sue però “utopie realizzabili”. Le sue frasi pacate ma radicali suonano oggi di un rivoluzionario buon senso: “L’architettura è iniziata senza architetti, ed è iniziata con strutture mobili, quello che faccio è solo cercare di tornare indietro” e ancora “l’architettura è un’attività popolare come quella di vestirsi o prepararsi del cibo”. Friedman e il DECAmaster: Sentieri Contemporanei. Con la scomparsa si Yona Friedman salutiamo non solo un pensatore rivoluzionario, ma anche un amico e una guida ideale per la comunità del DECAmaster e per i progetti nati attorno ad esso. I suoi ultimi lavori, realizzati in collaborazione con Jean Baptiste Decavèle, hanno infatti attraversato la Sardegna con il progetto Sentieri Contemporanei, progetto promosso dalla Fondazione di Sardegna e realizzato in collaborazione con Zerynthia Associazione per l’arte contemporanea OdV. Sentieri Contemporanei ha trovato il suo punto focale attorno a una geniale intuizione di Friedman: una grande struttura-scultura “vuota” modulare e itinerante chiamata “No Man’s City / La Città di Tutti” che ha costituito lo scenario, mobile e trasformabile, delle varie tappe dell’iniziativa. Il viaggio della struttura è stato accompa-
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No Man’s City nel Chiostro dell’Università degli Studi di Sassari
gnato da interventi artistici, momenti di approfondimento scientifico e iniziative collaterali organizzate in collaborazione con partner pubblici e privati. L’installazione materializza l’idea/progetto di un’auto-costruzione collaborativa e rappresenta forse la sintesi della sua idea di un’architettura mobile, ultima tappa di un percorso tutto realizzato in Italia da Friedman e Decavèle: cominciato con “La Montagne de Venise”, realizzato a Venezia con la collaborazione dell’Università IUAV e poi “No Man’s Land” realizzato a Contrada Rotacesta di Loreto Aprutino (Pescara) e “Vigne Museum” (Rosazzo). L’operazione triennale è stata inaugurata nel 2016 con una conferenza di presentazione ad Alghero, che ha ospitato l’anno successivo la prima tappa dell’iniziativa con la mostra “In-Giro / A-round”, inaugurata in occasione della partenza – proprio da Alghero – della prima tappa del Giro d’Italia. Ad agosto i 400 cerchi di legno della grande installazione modulare hanno preso il nome e la forma di “No Man’s City / La Stazione di Tutti”, installati presso le stazioni ferroviarie di Berchidda e Oschiri in occasione dei concerti di Raffaele Casarano e Marco Bardoscia, per il festival internazionale Time in Jazz. In seguito la struttura ha raggiunto il Chiostro della sede centrale dell’Università di Sassari, accompagnata da un calendario di interventi artistici e momenti di approfondimento scientifico conclusosi con la grande mostra “No Man’s Library / La Biblioteca di Tutti” all’ex Biblioteca universitaria.
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IL GESTO DELLA SCRITTURA di Giovanni Campus
L’installazione itinerante di Antonello Fresu, artista e psichiatra. Un progetto aperto per riconnettersi con l’atto dello scrivere, fra memoria e cura.
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installazione è costituita da una scrivania con una lampada ed un libro, accanto al questo è posto un altro libro, sulle cui pagine bianche il pubblico è invitato a trascrivere a mano, fedelmente ed integralmente, in sequenza, i diversi paragrafi del libro originale. Un piccolo segno sull’ultima parola copiata indica la fine di una trascrizione, ma anche il punto di partenza per l’intervento del “trascrittore” successi-
vo. Un terzo libro raccoglie firme, commenti e impressioni di chi ha partecipato. L’opera finale è un libro scritto “a mano” dai tanti partecipanti che si sono alternati alla scrivania fino al completamento della ricopiatura del libro originale. La scelta del libro oggetto della trascrizione viene affidata, nelle diverse sedi, alla sensibilità dei membri delle istituzioni o dei luoghi che ospitano il progetto. La scrittura amanuense è uno strumento di apprendimento diffuso ed efficace ma
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progressivamente abbandonato, sopravanzato dalla scrittura al computer utile, rapida, funzionale. Tuttavia, l’abbandono della scrittura riduce l’identità individuale e potrebbe ridurre il consolidamento della traccia. La Ritrascrizione, in un’epoca in cui la “velocità” del digitale condiziona sempre di più la nostra vita, offre un simbolico e poetico ritorno alla riflessione, grazie al recupero dei tempi “lenti” dell’originaria manualità della scrittura.
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ALDO CONTINI
A
THE BIG THING
rriva a conclusione domenica 26 gennaio 2020 la mostra “Aldo Contini – Le alchimie della ragione – 1959/2009” allestita alla Pinacoteca Comunale “Carlo Contini” di Oristano, a cura di Giannella Demuro e Ivo Serafino Fenu. Si chiude così la prima retrospettiva dedicata all’artista di Sassari, a dieci anni dalla sua scomparsa. Le oltre 70 opere in mostra – molte delle quali
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inedite – permettono di gettare uno sguardo su un percorso di ricerca ricco e stratificato, e di ricostruirne almeno in parte la continuità e la completezza. I curatori promettono inoltre di proseguire presto nel loro doveroso lavoro di documentazione – appena cominciato. È del resto fuori discussione che Aldo Contini meriti una storicizzazione e un riconoscimento che sono fin qui mancati. Contini – come emerge bene dal
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percorso espositivo – è stato infatti un ricercatore instancabile – dotto e raffinato, meticoloso, connesso con la scena artistica locale – di cui è stato spesso ispiratore e punto di riferimento – e con il dibattito artistico internazionale. Già negli anni ‘50 fu collaboratore di Eugenio Tavolara e contribuì con lui alla grande riforma dell’artigianato sardo che era nel progetto dell’Istituto I.S.O.L.A. La sua ricerca pittorica iniziò però a
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Si prepara la prima grande retrospettiva dell’artista
metà degli anni ‘60 con i quadri su stagnola, qui documentati. Dei primi anni ‘70 è la serie dei “teatrini”, opere formate da tele sovrapposte o sezionate, che affrontano la tridimensionalità cercando solo apparentemente di sfuggire al formato-quadro: meta-opere dall’imprescindibile carattere concettuale – teatri – appunto, della rappresentazione. Nel ‘76 fonda il Gruppo della Rosa – e a partire dal ‘77 realizza forse le sue opere forse più note, le Tautologie, quadri che raffigurano tubetti di colore e riportano scritte, tautologiche appunto, che ne indicano la tinta: “carminio”; “celeste” o anche le misure “Cento per centoventi olio su tela giallo indiano garanza rosa”. L’aspetto concettuale è qui al suo massimo e per interrogarsi esplicitamente sulla natura del quadro e del colore. In mostra troviamo anche i monocromi realizzati fra la fine degli anni ‘70 e gli ‘80, e la serie dei quadri denominati Vetrate, in cui lo smalto rosso, materico, è intervallato da linee nere, e in cui l’esplorazione del colore prende la strada di quella del suo rapporto con la luce: superficie opaca contro superficie riflettente. Una doppia natura della materia e del suo modo di reagire al mondo che riappare negli anni ‘90 con la serie Magnificat, che chiude la mostra di Oristano e il percorso dell’autore, che qui sublima in una purezza di forme e di concetti. Ispirandosi alla ricerca della e sulla luce dell’arte bizantina e medioeva-
le, Contini utilizza foglie d’oro e d’argento vero e falso, che reagiscono al tempo ossidandosi in modo differente per restituire differenti cromie e interrogativi sulla natura stessa della “verità” della rappresentazione. Una nota di merito va al titolo dell’esposizione. Si tratta infatti qui proprio di “alchimie”, sia per quello che riguarda la ricerca simbolica, che le sperimentazioni sulla materia e i materiali – ma di alchimie razionali – di uno spirito critico sempre acceso e dotato di grande ironia e savoir-faire urbano. Ne viene fuori la figura di un Contini alchimista scettico, un materialista che sapeva parlare il linguaggio del sacro. Il finissage è doppiamente importante perché segna anche la fine del mandato in qualità di direttore della pinacoteca da parte dello stesso Ivo Serafino Fenu, dopo setta anni di eroica conduzione e mostre importanti realizzate fra mille difficoltà e con budget estremamente ridotti. Fenu ha appena rifiutato una proroga temporanea del suo incarico e il Comune di Oristano dichiara ora che avrà presto pronto il bando per la nomina del nuovo direttore.
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LA CONFERENZA DI SERVIZI NELL’OTTICA DEL DISTRETTO CULTURALE di Domenico D’Orsogna
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a recente riforma offre un materiale cospicuo su cui ragionare, inedito rispetto al passato soprattutto in riferimento al contesto culturale, al corredo informativo e alle innovazioni di processo sottesi all’intervento del legislatore1. Non è questa la sede per cimentarsi in un esame analitico dell’intera nuova disciplina dell’istituto della conferenza di servizi2 e dei provvedimenti normativi, alla prima intimamente collegati, dedicati all’accelerazione dei procedimenti, al silenzio assenso tra amministrazioni e alla segnalazione certificata di inizio attività3. Nella mia relazione, quindi, dopo aver richiamato alcuni dati di base dal percorso di evoluzione della figura, per come ricostruiti ed anche de-costruiti dalla riflessione scientifica, mi concentrerò soprattutto su tre aspetti della nuova disciplina generale, a mio avviso significativi per verificare se e in che misura possano dirsi realizzati (o realizzabili) obiettivi di semplificazione: la nuova “modellistica” introdotta nell’art.14 della legge n.241/1990, oggi rubricato, a differenza del passato, “conferenze di servizi” (al plurale); la nuova disciplina del “rappresentante unico” contemplata nell’art.14 ter; il nuovo meccanismo di gestione dei dissensi “qualificati” disciplinato nell’art. 14 quinquies. La conferenza di servizi da strumento a oggetto di semplificazione. Il tema assegnato (“Semplificazione e conferenza di servizi”) impone alcune notazioni di carattere preliminare. Il riferimen1. Ci si riferisce alla riforma dell’istituto della conferenza di servizi di cui alla Legge 7 agosto 2015, n. 124: “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” e al D.lgs. 30 giugno 2016, n. 127: “Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi, in attuazione dell’articolo 2 della legge 7 agosto 2015, n. 124”. La riforma della disciplina della conferenza di servizi varata nel biennio 2015/2016 è stata preparata da numerosi studi e ricerche «sul campo» della prassi applicativa della disciplina previgente: vedi infra. 2. Per un inquadramento critico della riforma dell’istituto è possibile consultare R. DIPACE, La resistenza degli interessi sensibili nella nuova disciplina della conferenza di servizi, in Federalismi, 10, 2016 e E. SCOTTI, La nuova disciplina della conferenza di servizi tra semplificazione e pluralismo, in Federalismi, 10, 2016 3. Si rinvia alle relazioni del convegno specificamente dedicate a questi temi.
to ad una sola delle due finalità tradizionalmente riconosciute all’istituto della conferenza di servizi (la semplificazione, non anche il coordinamento), intende forse suggerire di valutare la nuova disciplina di legge rispetto all’unico obiettivo di assicurare “rapidamente” una decisione, tralasciando la considerazione della “qualità” della stessa e del relativo processo formativo? Se l’analisi dovesse limitarsi a censire le numerose previsioni cd. “taglia oneri” per il privato ovvero ad incrementare gli automatismi procedimentali, sarebbe molto agevole pervenire alla conclusione che, per lo meno sulla carta, la riforma appresta molteplici congegni di semplificazione del procedimento. Penso, tuttavia, che la conferenza di servizi debba continuare ad essere esaminata rispetto ad una accezione ben più ampia e pregnante di semplificazione, che attiene (non al livello del singolo procedimento, ma) alla scala della sagomatura complessiva dell’attività amministrativa necessaria per la soluzione unitaria di problemi “complessi” di amministrazione. Semplificazione quale efficienza amministrativa, intesa in senso simoniano quale idoneità funzionale: emanazione diretta del canone di buon andamento quale precetto di doverosa razionalizzazione dinamica (continua e adattativa) del processo decisionale. L’idea di fondo – che oggi, forse, può finanche apparire poco attuale – è che il migliore antidoto alla cattiva amministrazione non possa che essere la buona amministrazione, perché l’amministrazione pubblica continua a (dover) essere, in tesi, un soggetto produttore di decisioni legali e (tendenzialmente) razionali. L’obiettivo perseguito non può che essere la decisione buona: celere e tempestiva, ma, al contempo, anche ben formata (equa e ragionata), all’esito di un processo produttivo congruente rispetto ai dati sostanziali del problema amministrativo. La circostanza che venga sempre più enfatizzato il tra il regime dell’azione amministrativa e le peculiari esigenze della libertà di iniziativa economica privata non dovrebbe mutare i termini di fondo della questione. L’esigenza di accelerazione dei procedimenti che condizionano l’avvio di attività economiche private, infatti – nei limiti in cui tali procedimenti (seppur semplificati) permangono –, non dovrebbe andare a discapito della necessità di configurare, in ogni caso, contesti decisionali idonei alla produzione di decisioni
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corrette. Se dal piano delle notazioni di inquadramento generale e delle dichiarazioni di principio e di metodo si passa a quello dell’analisi degli enunciati normativi introdotti dalla riforma, tuttavia, il quadro si fa immediatamente meno nitido e rassicurante: è questa la ragione per cui nelle proposizioni che precedono ho utilizzato per due volte il condizionale “dovrebbe”. La riforma della conferenza di servizi è infatti parte integrante del c.d. processo di riforma Madia: una galassia in espansione di provvedimenti normativi che mira in modo dichiarato ad affermare, nella sostanza e nel metodo, una “rinnovata visione di pubblica amministrazione”, in cui “la certezza e la stabilità delle decisioni (in quanto tali)” segnano il primato dei “diritti dell’impresa e dell’operatore economico rispetto a qualsiasi forma di dirigismo burocratico”4. Ancor prima di interpretare la nuova disciplina (secondo principi, modelli e figure di qualificazione costruiti ed affinati prima della recente riforma) siamo dunque chiamati a sottoporre a verifica l’adeguatezza stessa del nostro strumentario concettuale. Basti un esempio: le mie notazioni di apertura davano per presupposta la natura strumentale della semplificazione amministrativa. Dalla riforma, invece, stando per lo meno alla lettura offertane dal Consiglio di Stato in sede consultiva5, emergerebbe anche un’ulteriore accezione di semplificazione, quale bene o valore di natura finale: una sorta di contrappeso (o contrappasso) dell’attività amministrativa, sempre più spesso considerata, anche dal legislatore, quale ostacolo da evitare e, se necessario, eliminare6. La nuova disciplina della conferenza di servizi non è immune da questa impostazione. I precedenti interventi di riforma della conferenza di servizi, nonostante la diversità delle soluzioni accolte, mostravano un elemento in comune: la ricerca di un punto di equilibrio tra l’esigenza di snellimento del processo decisionale (evitare il potere di veto) e quella di salvaguardia del principio dell’attenta (e legittima) valutazione comparativa degli interessi. Detto in altri termini: l’idea di fondo sottesa a tutti i precedenti interventi di riforma dell’istituto è la presa d’atto del dato (fisiologico) della complessità sostanziale (sociale e istituzionale) del problema amministrativo; che richiede, per essere gestito in modo efficiente, una risposta sistemica: un adeguamento della funzionalità complessiva dell’amministrazione. In tale prospettiva la conferenza di servizi rileva quale strumento di semplificazione dell’attività amministrativa che opera, in senso tecnico, grazie a un incremento della “complessità” dell’attività decisionale, nel senso che la stessa viene integrata e coordinata in sistema. In sintesi: essa segna il passaggio dalla razionalità procedimentale (lineare e disaggregata) alla razionalità com-
4. Così Consiglio di Stato, nel Parere n.1640 del 13 luglio 2016, reso dalla Commissione speciale in risposta a un quesito della Presidenza del Consiglio dei Ministri su alcuni problemi applicativi dell’articolo 17-bis della legge n. 241 (introdotto dall’articolo 3 della legge 7 agosto 2015, n. 124). In tema cfr. P. MARZARO, Silenzio assenso tra Amministrazioni: dimensioni e contenuti di una nuova figura di coordinamento “orizzontale” della “nuova amministrazione” disegnata dal Consiglio di Stato, in Federalismi, n. 19/2016, p. 1 ss, che definisce il citato parere «un “manifesto” per la funzione consultiva del Consiglio di Stato nel processo di attuazione della legge n.124 del 2015». 5. Ci si riferisce di nuovo al parere citato nella nota precedente. 6.
In tema cfr. F. FRACCHIA, L’amministrazione come ostacolo, in Il Diritto dell’economia, , 2/2013, p. 357 ss.
plessa: operazionale7 o se si preferisce, topologica8. La c.d. riforma Madia, invece, sembra voler mettere in discussione, per la prima volta, anche il dato di base della complessità sostanziale. Ciò perché la (prima forma) di semplificazione è ricercata “a monte”, sul piano sostanziale, facendo leva sul (tentativo di) recupero della capacità ordinativa astratta della norma (ammesso che tale “capacità” abbia in un passato risalente davvero assunto la consistenza di fatto storico). L’idea è che alcuni interessi siano selezionati direttamente dalla norma ed innalzati, da questa, al rango di interessi (pubblici) super-primari, che sfuggono alla ponderazione discrezionale. In tale schema rinnovato (o forse auspicato) la semplificazione procedimentale è concepita in primo luogo quale corredo o corollario della semplificazione sostanziale. Da ciò è possibile ricavare un’importante indicazione di lavoro. Nell’analisi della nuova disciplina della conferenza di servizi è necessario tener conto della circostanza che, per la prima volta, risulta in parte messo in discussione (o, quanto meno, relativizzato) anche il dato di base (giustificativo) della figura e che, di conseguenza, la conferenza è ora presa in considerazione dal diritto oggettivo in due modi del tutto diversi: quale strumento di semplificazione e quale oggetto di semplificazione. La costruzione della figura (cenni). Tale rilievo suggerisce di richiamare l’attenzione su alcuni dati di base della figura, isolandoli dal suo percorso di evoluzione. Non si tratta di ripercorrere, ancora una volta, l’intera “storia” della conferenza di servizi; ma, più semplicemente, di trarre alcuni spunti da tre momenti peculiari: il punto di attacco del percorso evolutivo; alcuni snodi decisivi dello stadio intermedio di maturazione della figura; la genesi della disciplina attuale. Ciò al fine di stimolare, in questa appropriata sede, una riflessione (ed anche una sorta di auto-riflessione) critica sia sulla disciplina vigente sia sull’orientamento complessivo degli studi sull’argomento. In estrema sintesi: vanno richiamate in primo luogo le origini «informali» della conferenza9 di servizi, quando questa si affermò in modo spontaneo nella prassi amministrativa, già nei primi anni ‘50 del secolo scorso, per tentare di ovviare alle «strettoie» e alle «fisiologiche inefficienze» del modello tradizionale di amministrazione, che andava mostrando, fin da allora, evidenti limiti di razionalità, in particolare nell’ambito dei «procedimenti complessi» di formazione ed approvazione dei piani urbanistici, nei quali era necessario coinvolgere una pluralità di attori e ponderare una massa rilevante di interessi pubblici. La prima conferenza (centrale) di servizi promossa dal Ministero dei Lavori Pubblici risale al 1952, e ad essa ne fecero seguito tante altre, al ritmo di quattro/sei al mese, per poi essere all’improvviso abbandonate – nonostante la loro “notevole efficacia” ed il loro “grande successo” – paradossalmente, proprio nel momento in cui tali inediti e “utilissimi” strumenti di 7. Sia consentito rinviare a D. D’ORSOGNA, Contributo allo studio dell’operazione amministrativa, cit., passim. 8. Così G.D. COMPORTI, Il principio di unità della funzione amministrativa, in M. RENNA E F. SAITTA, Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, p. 307 ss. 9. Le conferenze furono utilizzate nel procedimento di formazione di molti piani regolatori del periodo: tra questi i piani di Pescara, Mantova, Comacchio e Latina; Como, Ancona, Trani, Pisa e Pistoia, Montecatini Terme, Spoleto, Chieti, Assisi, Brindisi, Lucca, Sulmona, Gaeta, Viterbo, San Benedetto del Tronto, Lecce, Rieti, Macerata, Massa, Padova, Salerno, Macerata.
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LA TORRE
INVISIBILE ...e altri folli progetti di Alessandro Bergonzoni
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BREVI
TELLAS more! Dicci di più. Nuovo intervento di urban art, da Cagliari per Cagliari.
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Pavel Florenskij La prospettiva rovesciata
Federica Pirani Che cos’è una mostra d’arte
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