La terra che calpesto Per una nuova alleanza con la nostra sfera esistenziale e materiale
Innovation Creativity Setting
FrancoAngeli
LA TERRA CHE CALPESTO
a cura di Maria Giuseppina Lucia e Paola Lazzarini
Innovation Creativity Setting – InCreaSe Direttori: Guido Lazzarini, Maria Giuseppina Lucia Curatori relazioni internazionali: Giorgio Maria Bressa e Valentina Grosso Gonçalves La collana è espressione dell’associazione culturale InCreaSe, gruppo di ricerc-azione costituito da professori universitari, ricercatori di Isfol e Istat, imprenditori, liberi professionisti, manager del pubblico, del privato e del terzo settore di diverse regioni d’Italia. L’attività scientifica si articola in quattro sezioni di studio/ricerca: - Intangible asset in azienda e territorio; - SoIL-Sostenibilità, Innovazione, Legami; - Dinamiche sociali; - Salute e società. L’ipotesi che orienta gli studi e le ricerche di InCreaSe è la convinzione che creatività e innovazione siano profondamente radicate nei contesti locali, portatori di specifiche identità storiche e culturali che interagiscono fra loro in modo diretto e trovano stimoli in varie forme a livello globale. InCreaSe mira a cogliere tali realtà e, a seconda delle specificità delle singole sezioni, le elabora con criteri scientifici per renderle elementi di nuova creatività e innovazione. A tal fine sono stati istituiti, a supporto della mission di InCreaSe, due comitati: l’uno scientifico, l’altro di indirizzo. Ogni volume, saggio o articolo nasce da briefing di lavoro e, a ulteriore garanzia di scientificità, prima di essere avviato alla pubblicazione cartacea e/o on line, è revisionato da referee anonimi esperti nel campo tematico trattato. Comitato scientifico Intangible asset in azienda e territorio - Roberto Angotti, Isfol Roma; Giacomo Büchi, Univ. Torino; Cecilia Casalegno, Univ. Torino; Piero Giammarco, project manager; Fabrizio Mosca, Univ. Torino; Sonia Palumbo, PhD in Scienze organizzative direzionali; Anna Claudia Pellicelli, Univ. Torino; Giulio Perani, Istat Roma; Luca Simone Rizzo, PhD on Network Economy and KM; Francesca Silvia Rota, Politecnico Torino. SoIL-Sostenibilità, Innovazione, Legami - Fabio Berti, Univ. Siena; Grinde Bjorn, Norwegian Institute Univ. Oslo; Maria Stella Chiaruttini, Ist. univ. europeo Fiesole; Olivier Crevoisier, Univ. Neuchatel; Egidio Dansero, Univ. Torino; Stefano Duglio, Univ. Torino; Paola Lazzarini, PhD in Sociologia e metodologia della ricerca sociale; Dario Musolino, Univ. Milano-Bicocca; Claudio Pellegrini, Univ. Sapienza Roma; Paola Ravizza, giornalista; Francesco Scalfari, Polo univ. Asti; Annunziata Vita, Univ. Salerno. Dinamiche sociali - Luigi Bollani, Univ. Torino; Anna Cugno, Univ. Torino; Antonella Delle Fave, Univ. Statale Milano; Giulio Gerbino, Univ. Palermo; Paolo Gubitta, Univ. Padova; Gennaro Iorio, Univ. Salerno; Giuseppe Moro, Univ. Bari; Nicolò Pisanu, Pass Roma; Mariagrazia Santagati, Univ. Cattolica Milano; Fausta Scardigno, Univ. Bari; Enrico Tacchi, Univ. Cattolica Milano; Francesco Villa, Univ. Cattolica Milano. Salute e società - Giulia Bardaglio PhD in Scienze umane; Giorgio Maria Bressa, Pass Viterbo; Carla Facchini, Univ. Milano-Bicocca; Secondo Fassino, Univ. Torino; Chiara Garbarini, Univ. Torino; Valentina Grosso Gonçalves, psicologa; Alessandro Mastinu, Polo univ. Asti; Giovanni Musella, Univ. Torino; Luciano Peirone, Univ. Chieti-Pescara; Tiziana Stobbione, Polo univ. Asti; Mara Tognetti, Univ. Milano-Bicocca; Franco Valfrè, Univ. Statale Milano. Comitato di indirizzo Maurizia Albanese; Elisa Allasia; Giorgio Alifredi; Barbara Baino; Mauro Bajardi; Anna Ballarini; Paola Barbarino; Stefania Bertorello; Damiana Boggio; Guido Bolatto; Gianfranco Bordone; Federico Bressa; Marco Bricco; Simona Brino; Cinzia Buat; Leonardo Caroni; Manuela Colombero; Laura Cominetti; Anna Corti; Mirella Cristiano; Katia Stefania Fabbro; Arturo Faggio; Grazia Fallarini; Barbara Fauda; Ivana Finiguerra; Paola Gennari Santori; Enrico Gennaro; Bruna Gerbaudo; Riccardo Ghidella; Maria Rosa Guerrini; Salvatore Improta; Francesco Lazzarini; Luciana Lazzarino; Carmela Lecci; Chiara Masia; Paola Montrucchio; Lorella Nizza; Enrico Orrù; Antonella Pella; Giulia Pentella; Enrica Pejrolo; Giovanni Periale; Gian Carlo Picco; Raoul Romoli Venturi; Carlo Ronca; Vilma Rossi; Cinzia Tortola. Segreteria: segreteria.collana@increasegroup.org.
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La terra che calpesto Per una nuova alleanza con la nostra sfera esistenziale e materiale
Innovation Creativity Setting
FrancoAngeli
a cura di Maria Giuseppina Lucia e Paola Lazzarini
Si ringraziano per il patrocinio: Accademia di Agricoltura di Torino, Camera di commercio di Torino, Città metropolitana di Torino, Consiglio dell’Ordine Nazionale dei dottori Agronomi e dei dottori Forestali, Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Conferenza Episcopale Italiana.
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DALL’ALTRA PARTE DELLA CITTÀ GIULIA PENTELLA
Poiché la vita di ogni organismo è condizionata dai suoi rapporti con gli altri organismi, ne deriva che dobbiamo allungare lo sguardo e vedere quali sono le condizioni ambientali da rispettare, perché la vita sia possibile gradevole e sana, oggi su questa Terra, senza attendere l’Aldilà. Luigi Nicolini da Agricoltura e dibattito ecologico
PREMESSA “La terra che calpesto” è un titolo talmente affascinante che invita a camminare in punta di piedi. Evoca fisicità e leggerezza, identità storica, concretezza del presente e visione del futuro. Poche parole che trasmettono molteplici messaggi. L’uso della prima persona singolare ci invita a riflettere sulla responsabilità che ciascuno di noi ha verso questa Terra, troppo spesso calpestata dai nostri stessi interessi economici e politici. Al tempo stesso ci ricorda che il nostro corpo è fatto di materia e per tale ragione è soggetto alle leggi della fisica. Se da una parte quindi siamo costretti a tenere i piedi per terra, dall’altra se “calpestiamo” significa, in un certo senso, che camminiamo in avanti, verso un futuro (che è stato anche un passato) di equilibrio fra uomo e natura. Attraverso la lettura del saggio andremo quindi indietro nel tempo per comprendere le ragioni storiche e sociali della nascita dell’utopia del progresso continuo e di come, in architettura, questo si sia tramutato in un’internazionalizzazione degli stili e in una progettazione contro natura dagli effetti devastanti sull’ecosistema. Scopriremo i meriti degli ecologi, sentiremo il loro grido d’allarme sullo stato di salute del pianeta, che ha contribuito alla diffusione della cosiddetta coscienza del limite. Sarà proprio questa rivoluzione a dare vita ai primi principi della bioclimatica, ad un nuovo metodo di progettazione architettonica, basato sul dialogo con il contesto climatico e territoriale per generare edifici confortevoli dal minimo impatto ambientale. Arriveremo poi ai nostri giorni per renderci conto che, “dall’altra parte della città”, il clima sta cambiando così come le abitudini delle persone. Cammineremo quindi in punta di piedi attraverso le strade per denunciare l’insostenibile impatto ambientale che ancora oggi è legato al settore edilizio; ci spingeremo fino al confine della città per accorgerci che potrebbe non esserci più alcun confine, stando alle previsioni di crescita della popolazione urbana. Lungo questo percorso visiteremo i quartieri e racconteremo la vita delle persone e i loro desideri. Improvvisamente ci ritroveremo a camminare sulle mani e ad osservare il mondo da un altro punto di vista. Con questa nuova sensibilità ci accorgeremo di quanto sia urgente ripartire dall’esistente, di infondergli nuova vita, di andare oltre un’effimera urgenza consumistica e di quanto sia importante adottare un nuovo modello culturale, che riporti al centro la pluralità degli individui, conducendoci verso uno sviluppo umano e inclusivo. Solo allora tutte le sovrastrutture ci saranno cadute dalle tasche e saremo nuovamente liberi di progettare città resilienti a misura di un bambino, di un giovane e di un anziano nel rispetto dell’ambiente.
CONTRO NATURA L’utopia del progresso continuo ha condizionato il nostro passato per secoli facendo forza su due concetti chiave: la linearità della storia e la supremazia dell’essere umano sulla natura. Dominare la natura è sempre stato un sogno dell’uomo: lo si trova nella Bibbia, nel primo capitolo della Genesi, dove si legge che Dio disse all’uomo e alla donna: “Siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela…” (NICOLINI, 1978). Come scrive Luc Ferry “è divincolandosi dalla natura che l’uomo diviene se stesso, è rivoltandosi contro il determinismo e la tradizione che costruisce una società di diritto, è evadendo dal proprio passato che si apre alla cultura ed accede alla conoscenza [...]. Dalla Rivoluzione francese, ossia dalla metà del ‘700 in poi, tutta la nostra cultura democratica, intellettuale, economica, artistica si fonda su questo obbligato sradicamento” (FERRY, 1992).
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Perché proprio in quel periodo vediamo nascere il rifiuto verso la storia e la tradizione e assistiamo ad una radicalizzazione del senso di onnipotenza dell’uomo sulla natura? Le motivazioni sono molteplici, ma non bisogna sottovalutare gli effetti dell’introduzione del sistema metrico decimale da una parte e dello sviluppo produttivo avviato con la prima rivoluzione industriale dall’altra. Nel 1791 infatti l’Académie des Sciences di Parigi promosse un’inchiesta sullo stato dell’arte dei metodi di misura per trovare un sistema che superasse le differenze locali e venisse riconosciuto come universale, nel rispetto del principio rivoluzionario di uguaglianza. Dopo otto anni di ricerche e sperimentazioni si passò da misure tangibili e concrete dettate dall’utilità del momento (ad es. sacco, cesto, carriola) e dalla facilità di averle sempre a “portata di mano” (ad es. dito, palmo, passo), a misure astratte e valide in qualsiasi territorio, quindi prive dell’errore causato dalle differenze dei singoli casi (il mio dito è diverso dal tuo, il tuo sacco è meno capiente del mio). Se prima ogni mercato e ogni luogo aveva le sue tradizioni secondo il tipo di economia prevalente in quel dato luogo e in quel dato tempo, in seguito si preferì un sistema di misura indipendente dalla tecnica produttiva utilizzata, invariabile nel tempo e avulsa dal contesto sociale in cui quel prodotto era stato realizzato. Si fece tabula rasa delle consuetudini locali e si introdussero concetti come universale ed internazionale che, come vedremo, ebbero effetto anche sul mondo dell’architettura. Per rendere effettiva tale riforma fu necessario attendere più di mezzo secolo. Intanto però l’umanità stava vivendo uno sviluppo produttivo mai visto grazie alla prima rivoluzione industriale, stava beneficiando dei progressi della medicina, della scienza e della tecnica che, fra gli altri effetti, garantivano una salute più duratura, una migliore alimentazione e un livello più elevato di igiene. Si costruirono fognature e acquedotti, per una distribuzione più capillare dei servizi igienici, fino ad allora riservati alle sole classi elevate, e le case divennero più salubri e sicure, grazie alla sostituzione del legno e della paglia con materiali più durevoli. In architettura, quindi, gli effetti della rivoluzione industriale si manifestarono nella modifica dei metodi di costruzione: la lavorazione dei materiali tradizionali quali pietra, laterizi, legname subì una razionalizzazione ma fu soprattutto l’uso capillare di materiali come la ghisa e il vetro, reso possibile dai progressi dell’industria, e più tardi la comparsa dell’acciaio e del cemento che rivoluzionarono i sistemi costruttivi fino ad allora utilizzati. L’introduzione stessa del sistema di misurazione universale e l’invenzione sempre in Francia della geometria descrittiva, che consentiva di rappresentare disegni in modo rigoroso ed univoco, favorirono a loro volta gli scambi commerciali e i progressi della tecnica. Per la prima volta i sistemi edilizi poterono essere svincolati dall’uso di materiali naturali e disponibili localmente. Tale cambiamento modificò in modo così radicale il rapporto fra edificio e territorio, il metodo progettuale e le dinamiche economiche legate all’edilizia, che ancora oggi possiamo vederne le conseguenze. Era un periodo di totale fiducia nel progresso. E la speranza di migliorare le proprie condizioni di vita aveva invaso le persone. Un medico inglese scriveva: “Il secolo va impazzendo dietro le innovazioni, tutte le faccende di questo mondo vanno fatte in una maniera nuova” (ASHTON, 1987) e un autore tedesco, citato da Tocqueville, affermava “fa meraviglia vedere come oggi si giudichi sfavorevolmente tutto ciò che è vecchio. Le idee nuove si apron la via sino al cuore delle famiglie e ne turbano l’ordine. Persino le nostre vecchie massaie non vogliono più vedersi dattorno i loro vecchi mobili” (TOCQUEVILLE, 1856). Era ovviamente il passato ad essere additato come la causa del malessere vissuto fino ad allora e di conseguenza sia i valori sia gli oggetti legati alla storia e alle tradizioni venivano rifiutati. Lo scoppio del dibattito sui mali sociali e di salute causati dalla città industriale, che Charles Dickens nel 1854 descriveva in Tempi difficili come un luogo di “macchine e di alte ciminiere dalle quali uscivano senza soluzione di continuità interminabili serpenti di fumo” (DICKENS, 1854), e le iniziative indirizzate alla riforma delle aree urbane - alcune utopiche, altre viziate alla base da qualche errore di valutazione come quello delle città-giardino di Howard concepite per una popolazione quasi stazionaria quando invece era in crescita - non bastarono a frenare tale clima di totale fiducia nel progresso tecnico e scientifico né a intaccare questo rifiuto verso la storia. L’atmosfera era permeata dallo spirito di intraprendenza nella ricerca di nuovi risultati e dalla sicurezza di poterli ottenere tramite il calcolo e la riflessione: parole come universale, standard, prototipo, regola e ragione arrivarono alle orecchie dei grandi autori del Movimento Moderno fino a condizionarne il pensiero e l’operato. Le Corbusier, infatti, maestro indiscusso dell’architettura razionale, sensibile alle problematiche sociali, pur non direttamente coinvolto, e spinto dal tentativo di approccio alla descrizione e definizione dei comportamenti umani mediante l’applicazione di sistemi algebrici, scriveva: “All’individualismo, frutto di delirio, preferiamo il banale, il comune, la regola piuttosto che l’eccezione. Il comune, la regola, la regola comune sono basi strategiche del cammino verso il progresso e il bello” (ZEVI, vol. I, 2001). Così come nella seconda metà del ‘700 si ricercava un sistema metrico universale che superasse le particolarità locali, gli
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architetti negli anni venti e trenta del ‘900 ricercavano delle regole generali che li svincolassero dal concetto di stile, che a loro avviso peccava di essere legato ad un determinato tempo e spazio e quindi mai sarebbe potuto essere eterno. Secondo gli architetti del Movimento Moderno, l’unico modo per liberarsi dalle valutazioni di gusto, così soggettive e legate al grado di cultura del pubblico, era parlare all’intelletto dello spettatore. Erwin Piscator in Das politische Teather nel 1929 scriveva che la nuova architettura “non deve influire più sullo spettatore per via meramente sentimentale, […] ma rivolgersi in modo del tutto consapevole alla sua ragione; non deve comunicare slancio, entusiasmo, estasi, ma chiarezza, sapere, conoscenza” (PISCATOR, 1929). Non sono questi concetti propri del periodo illuminista? La regola principale del gioco diventa quindi la ricerca nell’oggetto architettonico quanto nel prodotto industriale di una funzionalità obiettiva e di un’utilità finale indiscutibile. Bruno Taut nel suo libro Die neue Baukunst in Europa und Amerika del 1929 affermava infatti che “la prima esigenza in ogni edificio è il raggiungimento della migliore utilità possibile. I materiali impiegati e il sistema costruttivo impiegato devono essere completamente subordinati a questa esigenza primaria” (TAUT, 1929) Usando sempre le parole di Taut vediamo come si fece spazio anche il concetto di standardizzazione: “La casa vive nel rapporto con gli edifici circostanti. La casa è il prodotto di una disposizione collettiva e sociale. La ripetizione così non è più considerata un inconveniente da evitare, ma al contrario il mezzo più importante dell’espressione artistica. Per esigenze uniformi, edifici uniformi.” Nel Deutscher Werkbund prima e nel Bauhaus dopo, gli architetti e gli artisti del Movimento Moderno lavorarono per trasformare l’idea in prototipo industriale, replicabile in qualsiasi luogo. Conferirono ancora più forza alla produzione industriale, facendovi confluire quelle opportunità qualitative che fino ad allora erano appannaggio del solo artigianato. “Con la produzione in serie aumenta il numero degli oggetti ma aumentano anche, per la mutata organizzazione, il tempo e il denaro che si possono dedicare alla messa a punto dei prototipi. La standardizzazione ha un aspetto estensivo ma anche uno intensivo, significa moltiplicazione degli atti esecutivi e concentrazione di quelli ideativi, produce insieme economia di danaro ed economia di pensiero. La mediazione fra qualità e quantità è possibile in quanto esiste una misura comune fra le due sfere; qui entra in gioco la ragione, in cui il compito può esser chiarito solo in riferimento a questi due poli” (BENEVOLO, 1993, p. 438-439). Seppur siano riconoscibili differenze legate alle particolarità locali e nazionali e alla personalità dei progettisti, è chiaro però che lo sforzo compiuto dai maestri dell’architettura moderna di regolarizzare i sistemi costruttivi e le tecniche di rappresentazione non fecero altro che generare un’architettura capace di “sorpassare tutti i confini”, per usare le parole di Ludwig Hilberseimer, organizzatore della mostra internazionale della “nuova architettura”, tenutasi nel 1927 a Stoccarda. Si annullò l’uso della decorazione, in quanto dava spazio all’emozione individuale, ma soprattutto si rinnegarono quegli aspetti materici e formali tipici della tradizione architettonica, in quanto troppo legati ai luoghi. Si sviluppò quindi una internazionalizzazione degli stili che in quanto tali erano svincolati dal territorio, grazie anche ai progressi nella tecnica impiantistica che permettevano proprio questo sradicamento fra forma e contesto climatico. Negli anni trenta Le Corbusier e il cugino Pierre Jeanneret ne I cinque punti di una nuova architettura, destinati a rivoluzionare radicalmente da lì in avanti il “fare architettura”, scrivevano infatti così: “Da secoli un tetto a spioventi tradizionale sopporta normalmente l’inverno col suo manto di neve, mentre la casa è riscaldata con le stufe. Da quando è installato il riscaldamento centrale, il tetto tradizionale non conviene più. Verità incontestabile: i climi freddi impongono la soppressione del tetto spiovente e esigono la costruzione dei tetti-terrazze incavati, con raccolta delle acque all’interno della casa” (BENEVOLO, 1993, p. 446) Tale senso di onnipotenza dell’uomo sulla natura di certo non venne scalfito durante il periodo del miracolo economico. Sebbene l’architetto Philip Johnson, ideatore insieme a Henry-Russell Hitchcock della famosa mostra International Style al MoMA del 1932, dichiarasse nel 1959 che l’architettura moderna fosse finita, negli anni del dopoguerra prese piede una riproposizione su larga scala, distorta ed insensata, dei principi dell’architettura internazionale. Nacquero brani di città uniformi e standardizzati, nonché alienanti, tramite la ripetizione automatica di tipologie edilizie lontane dai bisogni delle persone e dalle esigenze climatiche. “Prevalevano la politica dell’improvvisazione e l’illusione che iniziative sporadiche e contraddittorie avrebbero trovato equilibrio nel mitico quadro di una società affluente, in cui lo spreco dei consumi fosse l’inevitabile complemento di un meccanismo produttivo in crescente espansione. La cultura architettonica, in siffatto clima di irresponsabilità, restò estraniata e il boom edilizio, in cui la quantità predominava sulla qualità, ha fatto il resto”. (ZEVI, vol. II, 2001). Non bastò la catastrofe ambientale di Londra del 1952 (che, per la particolarità con cui si generò, diede origine al termine smog dall’unione di smoke con fog) per svegliare le anime degli attori del processo edilizio davanti agli interrogativi sul futuro del sistema
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produttivo, sulle città e sui fragili ecosistemi. Anzi, negli anni a seguire il controllo del territorio fu vanificato dall’indifferenza dell’opinione pubblica e dalla corruzione delle amministrazioni, delle imprese e dei professionisti; la cultura architettonica rimaneva ancorata a concetti come uniformità, standardizzazione e regola, retaggio di un passato insensibile, come abbiamo visto, alle tradizioni e alle caratteristiche dei luoghi. Il consumo di suolo e quello energetico raggiunsero valori preoccupanti che pesano ancora oggi sulle nostre spalle. Solo in Italia si era passati dal costruire una media annua di 66 536 abitazioni fra gli anni 193540 a ben 343 206 abitazioni fra il 1961-70. Lo stesso incremento valeva anche per l’edilizia pubblica: questa infatti era cresciuta da 346 unità costruite in media fra il 1931-40 ad una media di 104 091 unità fra il 196170. (ISTAT, 1976). Se dalla quantità passiamo ad analizzare la qualità, vediamo che l’uso di scheletri in cemento armato tamponati con mattoni forati non isolati, l’installazione di serramenti con vetro singolo e di impianti non efficienti diedero vita ad un patrimonio immobiliare che ancora oggi risulta essere in assoluto il peggiore dal punto di vista energetico. Prima però che l’opinione pubblica fosse raggiunta dal grido di allarme che già da tempo gli ecologi levavano al cielo sono stati necessari diversi disastri ambientali ed altrettante crisi energetiche che mostrarono la vulnerabilità dei paesi occidentali, a causa della dipendenza dal petrolio, ed evidenziarono la scarsità delle risorse sul cui sfruttamento si basava l’intero sistema produttivo. Solo dopo l’uscita del libro di Barry Commoner, The closing circle, nel 1972 in cui si attribuisce la responsabilità della degradazione ambientale alla tecnologia del profitto, ossia a quella parte di tecnologia che, per rispondere con risultati immediati ad interessi particolari, aveva sviluppato produzioni altamente inquinanti, inizierà una nuova era.
LA COSCIENZA DEL LIMITE Con l’ecologia, l’ideologia del progresso incondizionato, che fino ad allora era sempre apparsa come legge storica fondamentale, entrò in una crisi radicale. Nel 1972 venne pubblicato il Rapporto sui limiti dello sviluppo, commissionato al Massachusetts Institute of Technology dal Club di Roma. Il lavoro, svolto da sedici ricercatori del MIT guidati da Dennis Meadows, per la prima volta e in modo dirompente mostrò quanto lo sviluppo della popolazione e la crescita del capitale fossero strettamente dipendenti dalla disponibilità delle risorse naturali ed alimentari e dalla possibilità di annullare gli effetti degli inquinanti. L’esempio portato dai ricercatori del MIT era il seguente: la popolazione cresce se ci sono gli alimenti; la produzione di alimenti viene stimolata dall’espansione di capitale; ma un aumento di capitale richiede un altrettanto incremento di risorse naturali, e queste, una volta sfruttate, vengono restituite all’ambiente sotto forma di rifiuti. L’aumento di inquinamento che ne deriva interferisce con la crescita della produzione di alimenti e perciò anche della popolazione (MIT, 1972). Tutti questi fattori, interagendo in un ciclo continuo, ruppero quel rapporto di causa ed effetto lineare su cui si basava la storia precedente. Lo sviluppo futuro da incondizionato diventò improvvisamente condizionato, non solo da fattori sociali, come la pace e la stabilità, l’istruzione e l’occupazione, il progresso tecnologico, ma anche da fattori materiali come la disponibilità di alimenti, di risorse naturali e di un ambiente non contaminato. Il timore delle catastrofi future sostituiva lo slancio verso un domani ritenuto paradisiaco, imponendo l’urgenza di ristabilire un nuovo equilibrio con la natura distruttiva e ribelle. Ai contestatori, che rifiutavano la tesi dell’esaurimento delle risorse, confidando nella capacità tecnica e intellettuale dell’uomo di scoprire sempre nuovi sistemi per reperire le materie, i ricercatori del MIT ribattevano nel libro Verso un equilibrio globale, contenente alcuni rapporti tecnici sulle ricerche da loro condotte: “È realistico affermare che non si arriverà mai al completo sfruttamento di una materia prima. […] Piuttosto, ad un certo punto, le risorse saranno talmente inaccessibili o disperse che non sarà economicamente possibile ottenere quantitativi apprezzabili” (MIT, 1973). Non ha quindi molta importanza che una risorsa esista se poi il suo costo, in termini economici e/o di degradazione ambientale, la rende inutilizzabile. La loro quindi non era un’opposizione cieca al progresso, ma un’opposizione al progresso cieco, corredata da valutazioni di natura economica. Il dibattito che si aprì in quegli anni vedeva quindi comparire un nuovo principio di responsabilità, specialmente nei paesi dell’Europa occidentale, poveri di materie prime e densamente popolati. Nel 1972 le Nazioni Unite organizzarono a Stoccolma una conferenza mondiale sull’ambiente umano, evidenziando come il potere di trasformare il territorio, se utilizzato in modo abusivo e sconsiderato, avrebbe potuto causare danni incalcolabili agli esseri umani, oltre che all’ambiente. La crisi in cui erano entrate le società industrializzate occidentali, e che si ripercuoteva pesantemente sulle economie dei paesi in via di
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sviluppo, evidenziava che le conseguenze della degradazione ambientale in una regione spesso si estendevano oltreconfine. Le evidenti ripercussioni sociali ed economiche negative a scala globale, causate dai fenomeni di degradazione ambientale locale, diventano il motivo per cui negli anni 1980 e 1990 proliferano convenzioni e regolamentazioni volte a proteggere l’ambiente sia su scala internazionale sia regionale. Il dibattito diventa acceso e proficuo, tant’è che in pochi anni si comprendono i limiti delle misure punitive indirizzate al rimedio del danno oramai già prodotto sull’ambiente, come quelle del “chi inquina paga”, sostituendole con misure volte alla prevenzione. La collaborazione dei vari paesi a scala globale viene identificata come indispensabile: nascono organismi come l’UNEP (United Nations Environment Programme), la Commissione Brundtland su Ambiente e Sviluppo (WCED, World Commission on Environment and Development) e il Panel scientifico intergovernativo per lo studio dei cambiamenti climatici (IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change) per avviare ricerche scientifiche sulle tematiche ambientali. Seppur i summit mondiali e le convenzioni internazionali ratificate fino ad oggi abbiano prodotto scarsi risultati concreti, quantomeno hanno contribuito ad accrescere la consapevolezza del legame di dipendenza fra dimensione economica, ambientale e sociale, andando ad indentificare nella riduzione delle emissioni di gas climalteranti la via per garantire uno sviluppo sostenibile. In questo lungo processo di rinnovamento delle coscienze (più forzato che spontaneo), si inserisce il dibattito sul consumo energetico, additato come la causa principale dei cambiamenti climatici. Il mondo dell’architettura non rimane estraneo al tema anche perché in tale periodo si apprende che circa un terzo dell’energia consumata complessivamente a livello globale è associato proprio al settore delle costruzioni (IPCC, 1996). Vengono quindi promulgate le prime leggi sul contenimento dei consumi per promuovere la diffusione di una nuova pratica edilizia contrapposta a quella energivora sperimentata fra le due guerre e durante il boom economico appena trascorso. Ecco quindi che si teorizzano le prime regole sulla cosiddetta architettura bioclimatica che, già nel termine, sintetizza il ruolo chiave del dialogo fra il contesto climatico e l’edificio: quest’ultimo viene inteso come la terza pelle dell’uomo, secondo la definizione di Karl Lotz, in grado di reagire naturalmente alle mutevoli condizioni ambientali esterne, mantenendo livelli costanti di comfort termico-acustico-visivo, con il minimo dispendio energetico, e senza il ricorso esclusivo alla componente impiantistica. Si diffonde la coscienza del genius loci, termine coniato dall’architetto norvegese Christian Norberg-Schulz, che nel 1979 auspicava il ritorno ad un’architettura integrata nel territorio e capace di ascoltarne le peculiarità. La progettazione bioclimatica si propone quindi come un’alternativa alla standardizzazione di forme e soluzioni sradicate dal contesto sociale e ambientale (NORBERG-SCHULZ, 1979). Quanto siamo lontani dalle teorie del Movimento Moderno! Se prima Bruno Taut aspirava ad una nuova estetica in architettura che non mostrasse “alcuna separazione tra facciate e piante, tra strada e cortile, tra davanti e dietro” (TAUT, 1929, p. 6), ora vediamo come la metodologia progettuale rigorosa della bioarchitettura imponga soluzioni architettoniche diverse per ogni facciata, per beneficiare degli apporti solari gratuiti in inverno e limitarli in estate. E così mentre l’ombra viene ricercata per ridurre i consumi energetici e aumentare il comfort in estate, con Le Corbusier questa veniva ricercata esclusivamente per esaltare le forme: “l’architettura è il gioco sapiente, corretto e magnifico dei volumi assemblati sotto la luce […]; i cubi, i coni, e le sfere, i cilindri e le piramidi sono le grandi forme primarie che la luce invera con efficacia” (ZEVI, 2001, p. 99) Rispetto al periodo del Movimento Moderno, la coscienza del limite impone quindi una nuova e contrapposta metodologia progettuale, che inizierà a diffondersi specialmente nella vecchia Europa. Questa deve fare i conti con un patrimonio industriale da riqualificare, con il problema della crescita incontrollata delle periferie e con la necessità di diminuire la dipendenza energetica degli Stati membri. Si avviano quindi le prime sperimentazioni a scala di edificio, che danno spazio a soluzioni architettoniche ed impiantistiche innovative, volte a ridurre la domanda energetica e a favorire l’uso di fonti di energia rinnovabile. Specialmente nei paesi del nord Europa negli anni ‘90 nascono complessi residenziali e veri e propri ecoquartieri che presto diventano oggetto di studi scientifici: dall’Austria alla Finlandia, passando per la Francia, la Germania e l’Inghilterra, solo per citarne alcuni, i concetti di sostenibilità vengono applicati a tutte le scale; l’alta percentuale di superfici verdi, il recupero edilizio incentrato sul comfort e sul risparmio energetico, l’utilizzo di soluzioni per la rigenerazione del paesaggio naturale e la presenza di strade e spazi pubblici, progettati per favorire sistemi di mobilità sostenibile, sono solo alcune delle strategie adoperate che presto contribuiscono ad accrescere la qualità di vita per gli abitanti di quelle aree. In Europa quindi si assiste ad interventi di piccola e media scala e negli anni a seguire, dagli Emirati Arabi Uniti fino alla Cina, nascono
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progetti di intere eco-città che integrano misure per lo sviluppo sostenibile. Per guidare i progettisti verso soluzioni architettoniche energeticamente più efficienti, e quindi favorire il processo di cambiamento nella metodologia progettuale, nascono numerosi protocolli e sistemi di certificazione: da quelli imposti con la direttiva europea del 2002/91/CE (alla data del 01/03/2013 solo in Italia risultavano depositati ben 2 341 141 attestati di prestazione energetica) (CTI, 2013), fino a quelli restrittivi, ma ad adesione volontaria, come lo standard Passivehouse (in Europa al 2012 risultavano addirittura 25 milioni di metri quadri costruiti secondo questo standard) (IPCC, 2014, p. 78). Persino negli Stati Uniti, che ancora oggi non hanno ratificato il protocollo di Kyoto insieme alla Cina, si diffonde il sistema volontario di certificazione Leed che, a differenza dei precedenti, ha il merito di indicare i requisiti per costruire architetture sostenibili, sia dal punto di vista energetico che dal punto di vista del consumo di tutte le risorse ambientali coinvolte nel processo di realizzazione. Eppure, se si analizzano gli ultimi dati resi disponibili dagli istituti di ricerca internazionali, europei e nazionali, vediamo che siamo ancora ben lontani dall’aver raggiunto risultati soddisfacenti sul tema della riduzione della domanda energetica e delle emissioni climalteranti, e ancora più lontani dall’aver contribuito a migliorare il benessere e la salute dei cittadini. Dall’ultimo rapporto, già citato, pubblicato dall’IPCC si legge infatti che le emissioni di gas serra, dovute al settore edile, sono più che raddoppiate dal 1970 al 2010, rappresentando il 19% delle emissioni globali al 2010 e che il complesso delle costruzioni consumano il 32% dell’energia prodotta a livello mondiale, confermandosi come uno dei settori più energivori. Il 24% è dovuto agli edifici residenziali mentre l’8% a quelli commerciali. Al primo posto in entrambe le tipologie edilizie risiede il riscaldamento degli ambienti (IEA, 2013), seguito dall’uso di energia per cucinare e produrre acqua calda sanitaria nelle residenze e dal consumo energetico dovuto alle apparecchiature elettriche e all’illuminazione negli edifici commerciali (IPCC, 2014, p. 678-681). Se poi dalla scala dell’edificio passiamo a quella urbana, si nota non solo come le città siano responsabili più del 70% delle emissioni di gas ad effetto serra (IPCC, 2014), ma anche che abbiano generato più di 1.3 miliardi di tonnellate di rifiuti solidi solo nel 2010; questo numero è destinato ad aumentare fino a 2.2 miliardi di tonnellate all’anno a partire dal 2025 quando si inizierà a produrre ogni giorno una quantità di rifiuti pari al peso della piramide di Cheope (WORLD BANK, 2014). Questi dati richiedono una riflessione profonda per individuare le cause per cui ancora oggi sono scarsamente visibili i risultati di questo cambio nel metodo e nell’approccio allo sviluppo. Quelle imputabili al mondo dell’architettura e della ricerca sono molteplici, e riguardano sia errori tecnici sia metodologici e di approccio/visione. Se si analizza meglio il dato sulle emissioni dovute al settore edile e si scopre che di quel 19% addirittura il 12% è dovuto ad emissioni indirette e solo il 7% a quelle dirette, significa che gli sforzi si sono sempre concentrati nel ridurre la domanda energetica e l’impatto ambientale durante la vita dell’edificio (emissioni dirette), senza però comprendere la necessità di ridurre le emissioni causate da tutte quelle attività a monte e a valle del cantiere: vale a dire l’uso di energia, acqua, suolo, materie prime e l’emissione di inquinanti per la produzione dei materiali, il loro trasporto, montaggio e dismissione. Seppur siano nati sistemi di certificazione della qualità ambientale sia del processo industriale come del singolo prodotto edile, ancora oggi l’approccio Life Cycle, ossia quello di guardare all’intero ciclo di vita dell’immobile, è ancora lontano dall’essere applicato al sistema edificio, a causa della complessità della materia ma anche per l’assenza di ricerche scientifiche e di casi-studio in merito. L’altra motivazione risiede nel fatto che il settore dell’impiantistica ha subito un processo di rinnovamento tale da offrire in pochi anni prodotti estremamente efficienti dal punto di vista energetico, mentre il mondo dell’architettura è sostanzialmente rimasto a guardare, senza ricercare soluzioni formali e costruttive innovative per ridurre l’impatto complessivo dell’intervento. Gli architetti professionisti come i ricercatori si sono limitati a investigare soluzioni tecniche per integrare al meglio gli impianti ad alta efficienza (tanto è vero che ancora oggi, nel linguaggio tecnico, non si parla più di edificio ma di edificio-impianto), dimenticando che prima del Movimento Moderno e della successiva proliferazione di edifici standardizzati e avulsi dal contesto, l’uso degli impianti non era diffuso e quindi gli unici elementi per realizzare edifici accoglienti erano proprio la forma e i materiali costruttivi, due parametri che variavano al variare del clima. Eppure Karl Lotz non intendeva proprio questo quando parlava di architettura bioclimatica come terza pelle dell’uomo? Non sono stati compiuti sforzi per attualizzare quelle stesse strategie bioclimatiche adoperate nella cosiddetta architettura vernacolare per adattarsi con i nuovi stili di vita e con le nuove tecniche costruttive. Si è preferito non vedere gli effetti che la forma da una parte e la sapienza costruttiva dall’altra hanno sui consumi di energia e risorse, per limitarsi a costruire macchine efficienti, dove addirittura l’apertura delle finestre è
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vincolata agli obiettivi di riduzione della trasmissione di calore e il ricambio dell’aria affidato al solo funzionamento dell’impianto. Non sono infatti poche le case energeticamente efficienti che manifestano seri problemi di umidità, provocando l’insorgere di patologie allergiche ed asmatiche negli occupanti. Un team di ricercatori dell’University of Exeter Medical School ha infatti evidenziato come alcuni comportamenti scorretti degli utenti, fra cui quello di non ventilare meccanicamente gli ambienti, uniti al fatto che queste case per essere energeticamente efficienti sono maggiormente isolate termicamente e con meno infiltrazioni d’aria, hanno fatto sì che siano diffuse le muffe (SHARPE, 2015). Un’ulteriore motivazione risiede nel fatto che tutti gli sforzi si sono concentrati nel ridurre l’impatto degli edifici di nuova costruzione, perché più facili non solo da trasformare in Nearly Zero Energy Building (nZEB), ossia in edifici a consumo quasi zero secondo la direttiva 2010/31/UE, ma anche da plasmare per essere maggiormente interessanti per le copertine delle riviste di settore e motivo di gloria per i committenti dell’opera. Mascherare il peccato originale di aver consumato nuovo suolo e risorse, facendo passare l’intervento per “green”, piuttosto che preoccuparsi di rigenerare il patrimonio esistente rappresenta un’ulteriore causa dell’insuccesso dell’architettura bioclimatica come finora è stata sperimentata. Ma sicuramente fra i motivi principali risiedono le scelte politiche di pianificazione territoriale, guidate più da ragioni speculative che da principi di tutela del paesaggio urbano e naturale: dal dopoguerra al 2002 la superficie complessiva delle aree urbane nel mondo è quadruplicata (da 15 milioni a 60 milioni di ettari) a fronte di un indice demografico a malapena raddoppiato. Ciò significa che le aree urbane sono cresciute ad un ritmo quasi doppio rispetto al tasso di crescita della popolazione (PROVINCIA TORINO, 2012). Solo negli Stati Uniti si registra un incremento delle aree urbane del 13% dal 1990 al 2000 e negli stessi anni in Europa oltre 800 000 ettari di territorio europeo sono stati edificati: un’estensione pari a tre volte la superficie del Lussemburgo (USDA, 2007; FERLAINO, 2010). Osservando il caso italiano, dal 2000 al 2011 le superfici impermeabilizzate sono aumentate del 8,8%, raddoppiando la media europea del 4,3% (ISTAT, 2013). Se da una parte si è consumato suolo senza nemmeno ricorrere a strategie per ridurre l’impatto ambientale, dall’altra, e questo forse è ancora più grave, si è costruito senza venire incontro alla domanda di case a basso costo. Rimanendo nel contesto italiano, assistiamo infatti ad un doppio paradosso: 8 m2 di terreno al secondo scompare per la costruzione di edifici (ISPRA, 2014) e intanto 120 000 abitazioni risultano ancora invendute (LEGAMBIENTE, 2014), nonostante 133 489 famiglie siano ancora in attesa di una casa popolare (FEDERCASA-ISTAT, 2013). Solo in Europa e in Russia circa il 10% degli edifici residenziali è inutilizzato, pari a 30 milioni di abitazioni vuote (UN-Habitat, 2011). Sebbene nei paesi sviluppati il patrimonio edilizio sia largamente sufficiente per soddisfare la domanda di abitazioni questo rimane carente in termini di qualità e performance. Nonostante gli sforzi per ridurre la domanda energetica negli edifici, il fatto che si sia continuato a costruire così tanto e con una scarsa attenzione all’ambiente e ai bisogni delle persone, ha fatto sì che non si siano raggiunti risultati soddisfacenti. E questo, oltre ad essere motivo di rammarico (per pochi), accresce la problematica del cambiamento climatico (per tutti). Le emissioni di CO2 causate dal settore edile aumenteranno da 8.8 GtCO2/anno del 2010 a 13–17 GtCO2/anno nel 2050, se non verranno adottate ulteriori strategie di mitigazione, e ciò contribuirà a far crescere la temperatura media globale della superficie terrestre dai 3.7 °C ai 4.8 °C rispetto ai valori pre-industriali (IPCC, 2014, p. 8). Tale previsione è allarmante soprattutto se si pensa alle conseguenze negative che aumento di questa entità può causare sulla vita delle persone. Senza entrare nel merito degli effetti già evidenti sulla produzione di cibo e sull’accesso all’acqua in molti paesi del globo, e ci si limita ad osservare alcuni dati degli ultimi anni, si vede che fra il 2000 e il 2012 sono stati registrati eventi naturali catastrofici, specialmente inondazioni e siccità, che hanno colpito più di 200 milioni di persone, per lo più appartenenti a paesi in via di sviluppo (UNDP, 2014). Già nell’edizione del 2011 l’United Nations Development Programme (UNDP) evidenziava il rischio associato all’aumento delle temperature nel compromettere l’eliminazione della povertà, dal momento che le comunità più povere del mondo sono anche quelle più vulnerabili alle conseguenze del cambiamento climatico. Frane ed alluvioni sono direttamente proporzionali al livello del dissesto idrogeologico e purtroppo il consumo incontrollato ed ingiustificato di suolo ha reso il territorio italiano particolarmente vulnerabile al rischio: l’82% dei comuni italiani presenta aree a rischio idrogeologico e 1 milione e 260 mila edifici sono a rischio frane e alluvioni (CONSIGLIO NAZIONALE GEOLOGI-CRESME, 2010); su queste sono nati interi quartieri ed aree industriali, sono sorte scuole, ospedali, alberghi, centri commerciali e addirittura municipi. Questi dati forse non danno la misura del problema, ma se constatiamo che dal 1960 al 2014 hanno perso la vita 4000 persone e che ancora oggi 5 milioni di italiani sono particolarmente esposti quotidianamente al
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pericolo di frane e alluvioni, il risultato di questa pianificazione territoriale diventa drammaticamente visibile. La causa non risiede solo nella geofisica del terreno. Si è costruito abusivamente e legalmente (non fa differenza ai fini del discorso), creando rischi per la sicurezza delle persone e provocando danni economici a paesi già afflitti dalla crisi, come nel caso italiano dove negli ultimi 20 anni si sono spesi 22 miliardi di euro per riparare i danni causati da frane ed alluvioni. (COLDIRETTI-CNR, 2014). Ci siamo concentrati sul tema impiantistico dimenticando il ruolo dell’architettura. E mentre si cercavano soluzioni energeticamente efficienti non ci siamo accorti (o meglio, non abbiamo voluto vedere) che intanto intorno a noi il clima cambiava e con esso aumentavano i disastri ambientali. Per evitare che tutti gli sforzi compiuti fino ad ora risultino vani e che la bioarchitettura rimanga nell’ambito teorico con scarse ricadute positive sull’ambiente e sulla vita delle persone, è opportuno riflettere sulla necessità di cambiare prospettiva, consentendo di vedere i legami fra il tema architettonico, politico, ambientale, sociale ed economico e di guardare la realtà a testa in giù attraverso la percezione degli utenti.
VERSO UN CAMBIO DI PROSPETTIVA L’adozione di una visione olistica e lungimirante dell’architettura, che travalichi la propria area di competenza per abbracciare tematiche afferenti alla sociologia, all’economia e all’ecologia, diventa essenziale per capire che il tema energetico è solo uno dei problemi che le comunità devono affrontare e che queste problematiche, fra loro interconnesse, necessitano di essere analizzate insieme per poter essere risolte in modo efficace. L’architettura e l’urbanistica devono svincolarsi da qualsiasi logica speculativa e riappropriarsi del loro ruolo sociale, affiancando agli obiettivi di tutela ambientale quelli di benessere sociale. L’architettura bioclimatica non deve più essere considerata come un obiettivo fine a se stesso, ma come un mezzo utile per costruire una società ambientalmente sana e socialmente giusta. L’attenzione quindi si sposta da soluzioni che riducono l’impatto energetico ed ambientale degli edifici verso soluzioni che mirino all’autosufficienza delle comunità, ne diminuiscano la vulnerabilità alle diverse scale (paese, comunità, famiglia, individuo), e contribuiscano ad incrementarne la resilienza, secondo una visione collettiva di sviluppo. In sostanza l’edificio o il quartiere sostenibile non sarà mai davvero tale finché non avrà contribuito a generare stili di vita sostenibili. Lo stesso IPCC individua proprio nella capacità di incidere sugli stili di vita la chiave per ridurre l’impronta ecologica delle attività umane, più di quanto non sia stato fatto finora imponendo dall’alto politiche ambientali. Gli stessi stili di vita sono al centro dell’analisi di alcune iniziative nazionali e sovranazionali, volte a capire le cause che favoriscono benessere e quelle che sono fonte di diseguaglianza e discriminazione, nonché di perdita di identità. Una di queste è l’iniziativa congiunta di CNEL e ISTAT per trovare i giusti indicatori che rappresentino la complessità della società da affiancare a quello esclusivamente economico del PIL. Questa ricerca ha dato vita al BES, cioè all’indicatore di Benessere Equo e Sostenibile, composto da 12 dimensioni o parametri: Salute; Istruzione e formazione; Lavoro e conciliazione tempi di vita; Benessere economico; Relazioni sociali; Politica e istituzioni; Sicurezza; Benessere soggettivo; Paesaggio e patrimonio culturale; Ambiente; Ricerca e innovazione; Qualità dei servizi. Ribaltare il punto di vista e riportare al centro del dibattito la persona, fatta di sogni, necessità e aspirazioni, permetterà di comprendere più facilmente la complessità del reale e di individuare la strada per dare vita ad ambienti fisici che, come sottolinea l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), contribuiscano alla salute, allo svago e al benessere, alla sicurezza, all’interazione sociale, alla mobilità facile. Se gli anni ‘70 hanno visto emergere il concetto di responsabilità ambientale, grazie al contributo dell’ecologia, oggi è giusto estendere tale concetto alle tematiche sociali, grazie al contributo della sociologia. Esiste infatti uno stretto legame fra l’urbanistica, intesa come progettazione di tessuti edilizi, e la sicurezza e la salute dei cittadini, come dimostrano gli studi condotti nel 2001 dal team di ricerca guidato da Mattheos Santamouris su un campione di circa 30 aree urbane e suburbane: il cosiddetto “effetto isola di calore”, ovvero di quell’aumento di temperatura riconducibile alla riduzione della velocità del vento per via dell’erronea conformazione edilizia e alla continua esposizione al sole di materiali quali l’asfalto e il cemento, causa un incremento della domanda energetica per raffrescamento. Questo si tramuta in un rischio per la salute dei cittadini: si sono infatti registrati casi di stress termico che sono fonte di disagio, di ridotte prestazioni fisiche e mentali e di cambiamenti fisiologici e comportamentali specialmente nei soggetti più vulnerabili, ossia gli anziani, i bambini e le famiglie a basso reddito che non possono permettersi di pagare il costo dell’energia elettrica per il condizionamento estivo (EVANS, 1982; MOONEN, 2012).
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Anche la qualità architettonica dei singoli edifici ha un effetto determinante sulla salute degli abitanti: basti pensare che il 15% delle abitazioni soffre di infiltrazioni dal tetto e il 7% presenta un’illuminazione naturale non adeguata (BRAUBACH, 2011; EUROSTAT, 2011), costituendo un elemento di rischio per la salute per 30 milioni di cittadini europei. In Italia il panorama non è molto diverso se si pensa che due miliardi di metri quadrati di edifici aspettano una rimessa a nuovo (UNIONCAMERE e FONDAZIONE SYMBOLA, 2013), che il 17% delle abitazioni manifestano problemi di umidità (ISPRA, 2013) e che sono in forte aumento i casi di legionellosi, ossia di un’infezione polmonare batterica: tra il 1996 e il 2010 si passa da 2,3 a 17,9 casi per milione di residenti (ISPRA, 2013, Allegato). Questi dati diventano ancora più allarmanti se si pensa che le persone trascorrono il 90% del loro tempo all’interno degli edifici. Allargando il punto di vista e analizzando i dati che altre discipline rendono disponibili, scopriamo che il 36,9% delle famiglie italiane indica come primo problema della zona in cui vive il traffico, seguito dalla difficoltà di parcheggio (35.2%), dall’inquinamento dell’aria (34.4%), dalla difficoltà di collegamento con i mezzi pubblici (30,7%) e dal rumore (30.6%) (ISTAT, 2014). Da una parte quindi vediamo come le previsioni sui cambiamenti climatici impongano una riprogettazione degli spazi urbani per impedire che questi causino a loro volta effetti negativi sul microclima cittadino e sulla salute e benessere dei cittadini; dall’altra la condizione in cui versano oggi gli edifici mostra l’urgenza di attuare interventi di ristrutturazione energetica e statica per abbattere i consumi e aumentare la sicurezza degli abitanti. Riqualificare, rigenerare, ristrutturare diventano quindi strategie chiave per il futuro delle nostre città, soprattutto se si pensa che nel 2007, per la prima volta nella storia umana, le persone che vivono in aree urbane sono diventate più di quelle che vivono nelle aree rurali e che questo dato è in continua crescita. Secondo le recenti proiezioni dell’UNDESA (United Nations Department of Economic and Social Affairs Population Division) nel 2030 ci saranno 41 metropoli con più di 10 milioni di abitanti ed entro il 2050 la popolazione cittadina sarà divenuta il 66% di quella mondiale (UNDESA, 2014). Se non si incentivano interventi di rigenerazione dello spazio abitato che restituiscano aree ed edifici abbandonati alla comunità, aumentando quindi la densità urbana, e la crescita demografica ed economica non si arresteranno, l’aumento della popolazione nelle città si tramuterà in una domanda di terreno periurbano sempre più pressante. Secondo i dati dell’IPCC la superficie urbanizzata potrebbe espandersi dal 56 al 310% fra il 2000 e il 2030. Solo la produzione di materiali per far fronte alla domanda di nuove infrastrutture potrebbe generare 470 GtCO2 di emissioni. Per evitare che qualsiasi processo di rigenerazione, seppur condotto con i migliori intenti ambientali, si tramuti in un investimento dalle scarse ricadute sociali o addirittura sia ostacolato dalla comunità, come spesso è avvenuto in passato, è necessario che questi progetti siano cuciti su misura sulle esigenze attuali e future degli abitanti, attraverso l’attuazione di processi partecipativi e l’analisi delle dinamiche sociali. Come denuncia il XX Rapporto di Ecosistema Urbano di Legambiente del 2013, si deve tenere conto del fatto che c’è una rivoluzione in atto negli stili di vita dei cittadini, nel lavoro, nell’innovazione tecnologica e nell’uso delle risorse. Solo per fare un esempio, la crisi economica sta imponendo uno spostamento di valore dal consumo di risorse (cowboy economy) a forme di condivisione delle medesime (sharing economy), grazie anche all’aiuto di rinnovati sistemi di comunicazione. Se, come abbiamo visto, l’architettura e l’urbanistica influenzano i comportamenti umani, allora è corretto passare da una progettazione prettamente funzionale ad una progettazione umana, dando spazio ad interventi di micro-architettura e di rifunzionalizzazione degli spazi urbani e condominiali, per incentivare il rinnovato piacere del dialogo con il prossimo e offrire luoghi adeguati alla condivisione di idee e strumenti. Rientrano in questa casistica gli spazi di coworking che, come dice il termine stesso, sono luoghi di lavoro condivisi, dotati di postazioni personalizzabili cui possono accedere singoli professionisti, che altrimenti non avrebbero le risorse per coprire le spese di gestione di un ufficio; i Fab Lab, ossia quelle officine che offrono servizi di fabbricazione e stampa 3D, grazie all’uso di tecnologie open source; le antiche biblioteche, che sono state in grado di rinnovarsi, trasformandosi in piazze coperte con servizi a misura di bambino, studente, famiglia e anziano e infine le cucine comuni e gli orti urbani come luoghi ideali di socializzazione e di incontro multiculturale, facendo leva sul cibo come strumento di integrazione sociale e di sensibilizzazione ambientale. Insieme agli stili, anche la conformazione della società sta cambiando: da una parte in questi anni stiamo assistendo ad un processo di invecchiamento della popolazione che addirittura non ha precedenti nella storia umana, dall’altra le crisi economiche ed umanitarie stanno modificando il profilo delle famiglie, nel reddito, nel numero dei componenti e nell’identità culturale. Secondo il rapporto dell’UNDESA, pubblicato nel 2001, la proporzione di persone di età uguale o superiore ai 60 anni è destinata a raddoppiare fra il 2007 e il 2050 fino a comprendere due miliardi di individui nel 2050, mentre continueranno a ridursi i dati sulle nascite.
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Nello stesso periodo il numero di coloro che avranno più di 80 anni aumenterà di quattro volte raggiungendo i 400 milioni. L’Europa continua ad essere l’area con la più alta percentuale di anziani e le previsioni dello stesso istituto affermano che il 35% della popolazione europea avrà un’età uguale o superiore ai 60 anni nel 2050 ma, contrariamente a quanto si pensi, la maggior parte delle persone anziane, ossia il 64%, vive nei paesi sottosviluppati. Questo numero è destinato a diventare l’80% nel 2050. Un altro aspetto sul quale gli architetti dovrebbero soffermarsi a riflettere riguarda il rapporto fra architettura e disabilità. Secondo l’EDF, ossia l’organizzazione non governativa dell’European Disability Forum, le persone con disabilità in Europa sono 80 milioni, pari al 15% del totale della popolazione, il che significa che una persona su quattro ha in famiglia un parente disabile. Al di là delle problematiche di accesso al mondo lavorativo, il dato che dovrebbe essere sufficiente per scuotere le coscienze dei progettisti è che solo una persona disabile su due svolge attività sportive, culturali o ricreative, a causa delle barriere sociali ed architettoniche che, ad esempio, impediscono l’accesso o la fruizione di teatri, cinema, auditorium e biblioteche. La necessità di rigenerare il tessuto urbano e di ristrutturare gli edifici travalica quindi quelli che sono gli obiettivi puramente energetici, diventando un’occasione unica per offrire spazi finalmente inclusivi, e a misura d’uomo, che vengano incontro alle esigenze e ai desideri delle persone. La ricerca di questa nuova etica professionale richiede un profondo cambiamento nell’approccio e negli strumenti progettuali: passare dal modello attuale, dove la costruzione dello spazio e dell’oggetto avviene sulla base di un’idea di uomo-fruitore standardizzato e tramite l’applicazione passiva di prescrizioni tecnicodimensionali avulse dal contesto, ad un modello che riporti al centro una pluralità di individui diversi per fisicità, età, cultura, sesso e capacità funzionali ci consentirà di elogiare le differenze invece di appiattirle. In poche parole è necessario intaccare quello stesso concetto di universalità, su cui si basa il nostro sistema metrico decimale, reintroducendo temi come diversità, particolarità che la rivoluzione culturale avviata nel ‘700 ha contribuito ad eliminare. Sottoporre tale sistema ad un processo di umanizzazione non significa ovviamente rinnegare il sistema metrico decimale in sé; significa passare dal misurare IL corpo a misurare I corpi. La conoscenza della complessità del reale e la capacità di rappresentarla diventa quindi una condizione di partenza affinché l’architetto torni a progettare per l’identità culturale, la diversità dei corpi e del contesto climatico-culturale, dando luogo a nuove tipologie edilizie e a soluzioni architettoniche che rispondano alle necessità spaziali e funzionali e di bellezza di una pluralità di individui, anziani, bambini, famiglie numerose e culturalmente diverse. I dati sulla crescita della popolazione nelle città ci hanno portato finora ad analizzare soprattutto il contesto urbano. Per rispondere alle sfide sociali ed ambientali future è però necessario guardare dall’altra parte della città. Solo così ci rendiamo conto del rapporto di reciproca dipendenza fra aree urbane e rurali: le prime, in quanto luoghi dove si concentrano le risorse economiche e la maggior parte della popolazione, diventano indispensabili per avviare percorsi di fruizione turistica e di rigenerazione del territorio a vasta scala; le seconde, facendo leva sulla propria identità culturale e paesaggistica, diventano indispensabili per fornire ai cittadini servizi culturali e ricreativi altrimenti assenti, mentre le conoscenze agricole si tramutano in uno strumento essenziale per assicurare alla popolazione urbana quantitativi sufficienti di cibo. È chiaro quindi che, per far fronte alla sfida dell’urbanizzazione crescente e per raggiungere gli obiettivi di resilienza, bisogna valorizzare quelle risorse presenti nel territorio a vasta scala e dare vita a nuove sinergie fra città e territorio periurbano e rurale. In quest’ottica si inserisce una recente iniziativa di ripopolamento e rigenerazione del borgo di Cortereggio, frazione di San Giorgio Canavese in provincia di Torino. Sebbene motivi economici e demografici abbiano causato l’abbandono del villaggio per diversi lunghi anni, questo sta oggi rinascendo grazie allo sforzo congiunto della comunità e dell’Associazione Piattella Canavesana di Cortereggio da una parte, in quanto custodi delle tradizioni agricole e culinarie, e Slow Food dall’altra, in quanto ente promotore di attività di tutela delle specie in via di estinzione e della biodiversità dei territori. Attorno al desiderio di ricominciare a coltivare la piattella canavesana, una specie rara di fagiolo rampicante dalla forma “piatta”, che per anni è stata fonte di reddito e di cibo per le famiglie, è nato il progetto che lo ha certificato come Presidio Slow Food, per tutelarne la produzione, e con essa salvaguardare l’intero ecosistema naturale: le proprietà organolettiche del terreno, la presenza del torrente Orco e dei boschi, uniti alle conoscenze dell’agricoltore hanno permesso la rinascita di una microeconomia e quindi il sostentamento economico della nuova comunità residente, che oggi ammonta a 200 abitanti.
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Le condizioni di vita ancora molto precarie della popolazione hanno però fatto emergere i limiti nascosti dietro al processo di rigenerazione finalizzato alla semplice tutela della biodiversità. Consapevoli di questo e della presenza di ulteriori elementi di ricchezza locale, oggi ancora poco esplorati e valorizzati, Slow Food e l’Associazione Piattella Canavesana di Cortereggio hanno quindi stipulato nuovi accordi per redigere un protocollo di certificazione che, a partire dal presidio di prodotto locale (la piattella), consenta di rigenerare l’intero tessuto urbano (il villaggio di Cortereggio), fatto di edifici, infrastrutture ma anche di relazioni, dando vita al Presidio Territoriale di Sviluppo Locale. È emersa infatti l’esigenza di coinvolgere un numero maggiore di professionisti che individuino quelle strategie sociali, economiche, ambientali ed architettoniche per avviare un processo più esteso di rigenerazione territoriale che tuteli insieme all’ecosistema anche la salute e la sicurezza delle persone. Questo potrà avvenire grazie al recupero degli edifici ai fini strutturali ed energetici e al ripristino delle infrastrutture locali; alla tutela della memoria storica del luogo attraverso lo studio delle tradizioni costruttive, artigianali e culinarie e dei valori affettivi e simbolici, legati alle abitudini della vita quotidiana e agli elementi identitari del paesaggio geografico; alla valorizzazione dello spirito imprenditoriale locale, attraverso la creazione di nuovi legami economici e relazionali con i villaggi e le città circostanti; alla promozione di stili di vita sostenibili, attraverso campagne informative ed eventi pubblici. In sostanza si vuole adoperare un approccio olistico che rimetta al centro i bisogni degli abitanti e, facendo forza sulle risorse presenti sul territorio, contribuisca a fermare il processo di spopolamento e a generare una comunità resiliente e autosufficiente. Tale esperienza ancora in corso è simile per molti aspetti alle iniziative di ripopolamento dei borghi antichi attraverso strategie di valorizzazione turistica e artigianale: gli edifici di valore storico, architettonico e identitario vengono recuperati e ristrutturati per offrire percorsi museali all’aperto o strutture ricettive diffuse nel villaggio, il quale così diventa parte integrante dell’esperienza turistica, offrendo agli abitanti del posto la possibilità di beneficiare in maniera diretta delle ricadute economiche e sociali. Anche in questi casi sono stati avviati processi virtuosi di recupero dei valori del contesto rurale, con funzioni idonee alle proprie caratteristiche, incentivando l’uso agricolo e forestale dei suoli e restituendo spazi e villaggi alla fruizione della comunità. I casi sopra riportati ci invitano a riflettere sul potere inesplorato dell’architettura e supporta la tesi iniziale di questo paragrafo, in cui si evidenziava l’importanza di riportare la disciplina architettonica ad essere uno strumento per generare benessere e migliore qualità di vita. Colui che da qualche tempo promuove l’uso di soluzioni architettoniche basate sulla reale capacità imprenditoriale locale, per trasformare l’architettura in un social business, è Muhammad Yunus, ideatore e realizzatore del “microcredito moderno”. Il suo intento è quello di dare spazio a ricerche formali e tecnologiche che trasformino l’oggetto costruito in un mezzo per offrire servizi, specialmente in quelle aree del mondo dove il diritto alla casa e all’accesso ai servizi sanitari e all’energia elettrica è compromesso. Ancora oggi 100 milioni di persone nel mondo sono infatti senza casa e questa per più di un miliardo non è classificabile come adeguata; 780 milioni di persone sono senza acqua potabile e 1.3 miliardi di persone non hanno accesso all’energia elettrica, come riportano le associazioni Water.org e l’organizzazione IEA (International Energy Agency). Secondo il CECODHAS (Comité Européen de Coordination de l’Habitat Social) ossia l’Osservatore europeo sulla casa, in Europa il 22% del reddito è speso nell’acquisto o affitto della casa e nel pagamento delle utenze, mentre 52 milioni di cittadini europei non riescono a riscaldare adeguatamente le proprie abitazioni (CECODHAS, 2012). L’evoluzione finalizzata all’adeguamento ai moderni stili di vita di quelle metodologie costruttive vernacolari, nate in assenza di impianti di riscaldamento e condizionamento, viene riconosciuta dallo stesso IPCC come strategia prioritaria per far fronte all’emergenza abitativa ed evitare che la risposta architettonica si tramuti in un rinnovato problema energetico e ambientale. Ricercare la giusta combinazione fra forma, clima, materiali locali e tecnologie sostenibili diventa l’unica soluzione in territori martoriati da povertà, guerra e prospettive nulle di crescita. Il caso di Gaza diventa esemplificativo: là dove non sono disponibili materiali edili a causa dell’embargo e solo il 10% dell’acqua risulta potabile e inoltre l’accesso all’energia elettrica avviene in modalità intermittente, l’unica alternativa possibile sarebbe proprio quella di trasformare l’architettura in un social business, promuovendo pratiche costruttive che adoperino materiali riciclati, ossia gli unici disponibili localmente, integrino strategie passive per mantenere condizioni costanti di comfort termico e visivo e soluzioni tecnologiche a basso costo per la produzione in loco di energia elettrica e termica e per il recupero e riuso delle acque piovane e di scarto. Eppure anche in questi territori si continua a costruire secondo uno standard energivoro e poco attento ai bisogni delle persone e alla disponibilità di risorse locali privilegiando una risposta immediata all’emergenza umana in atto, senza adottare un approccio lungimirante che guardi al futuro dell’area. La sicurezza
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energetica, la qualità dell’aria, lo stato di salute della popolazione e i livelli di occupazione, la produttività, la competitività della nazione, e quindi la capacità di adattarsi alle avverse condizioni climatiche diventano merce di scambio fra interessi politici ed economici. Questa esperienza mostra che in una società dove le grandi decisioni sono prese da pochi, senza tanta pubblicità e tante spiegazioni, questi nuovi orientamenti entrano apertamente in contrasto con gli interessi costituiti. Oltre ai limiti naturali, la cui analisi ha dato vita all’ecologia come finora l’abbiamo raccontata, esistono altresì i limiti sociali, culturali, e addirittura politici che ostacolano questa necessaria rivoluzione culturale che consenta di uscire dalla logica del produttivismo e dalle diseguaglianze che questo causa. Lo stesso concetto di sviluppo sostenibile su cui finora si è fondato il dibattito ecologico necessita una revisione a partire dalla terminologia usata. Il fatto che oggi “il modello economico appaia ancora incapace di produrre ricchezza senza produrre insieme processi di inquinamento e di degrado ambientale” (REGIDOR, 1992) ci deve disincantare dalla bellezza apparente legata al concetto di sviluppo sostenibile, per scoprire che dietro a questo si nascondono forze politiche ed economiche che vogliono assicurare una sostanziale continuità di sviluppo al sistema capitalistico, barando al gioco ed offrendo come progresso sostenibile ciò che invece continua ad essere una corsa al suicidio. Finora abbiamo assistito ad una sorta di “capitalismo verde” che ha subito la tentazione di limitarsi ad integrare le preoccupazioni ecologiche nel modo di produzione dominante, senza più metterlo in discussione. Del resto è sempre stata evidente una contraddizione di fondo in quella che chiamiamo economia globale, che spinge verso la continua ricerca dell’innovazione e della performance su scala internazionale, e la reale e limitata capacità locale di sostenere con le proprie forze gli stessi processi di sviluppo, mascherato come sostenibile. Ancora una volta quindi l’architettura di qualità, per contribuire ad avviare processi di rigenerazione ambientale e sociale, deve essere accompagnata da un reale cambiamento nelle coscienze di tutti, strutture governative e non governative incluse, che finalmente identifichi come malsviluppo tutto ciò che non è in grado di soddisfare i bisogni essenziali degli uomini, trasformando il concetto di sviluppo sostenibile in sviluppo umano. In conclusione, usando le parole di Josè Ramos Regidor “la ricerca di questa nuova etica richiede un profondo cambiamento della società a livello strutturale (da una economia di morte a una economia di vita) e una profonda conversione a livello personale e culturale, un capovolgimento della nostra mentalità, del nostro stile di vita, del destino dell’uomo sulla terra, dei valori che ispirano la vita quotidiana. [...] Tutto ciò implica un serio tentativo di passare dalla logica della crescita quantitativa illimitata alla cultura del limite. Un limite che non è rinunciatario ma semplicemente presa di coscienza che i limiti sono la condizione di ogni vita, [...] cercando di far emergere e valorizzare le potenzialità racchiuse nello stesso limite, come stimolo a creare la possibilità di vivere il presente nella sua intensità, senza lasciarci trascinare dalla frenesia e dallo stress prodotti dal consumismo e dalla logica del profitto.” (REGIDOR, 1992)
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