Vajont

Page 1

Vajont

Giulia Tassinari



Vajont

Giulia Tassinari


Vajont Giulia Tassinari IED Istituto Europeo di Design (Milano) A.A. 2014/15 3ºA Graphic Design Corso: Teoria e Metodi dei Mass Media Docente: Nazzareno Mazzini Š 2015 le opere riprodotte in questo volume sono di Francesco Niccolini e Duccio Boscoli I testi sono di Giulia Tassinari Grafica/Art Direction: Giulia Tassinari Stampa Tipografica: Arti Grafiche Panzeri Font utilizzate: Palatino Regular, Palatino Italic, Phosphate Solid


“Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi.” (tratto dall’articolo di Dino Buzzati pubblicato dal Corriere della Sera l’11 ottobre 1963)


Bibliografia:

_ Sulla pelle viva, di Tina Merlin _ Vajont, l’onda lunga, di Lucia Vastano (alcune parti) _ Vajont, Storia di una diga, di Francesco Niccolini e Duccio Boscoli

Sitografia:

_ Sito interamente dedicato al Vajont, da cui ho tratto molte informazioni, specialmente riguardanti i fatti (http://www.vajont.net/) _ Bellissima sezione di Focus.it, con tutte le informazioni più importanti riguardo la vicenda (http://dentroilvajont.focus.it) _ Sezione del Corriere delle Alpi da cui ho tratto gran parte delle notizie sulle prime pagine dei giornali il giorno dopo la strage (http://temi. repubblica.it/corrierealpi-diga-del-vajont-1963-2013-il-cinquantenario/) _ Pagine dell’archivio storico del Corriere con l’articolo sull’incontro delle Nazioni Unite (http://archiviostorico.corriere.it/2008/febbraio/12/Onu_Vajont_ maglia_nera_dei_co_9_080212133.shtml) _ Sito da cui ho tratto alcune informazioni sul film di Renzo Martinelli (http://www.film.it/news/televisione/dettaglio/art/martinelli-il-vajont-non-fuuna-fatalita-14205/) _ Sito da cui ho tratto i commenti sul film di Renzo Martinelli (http://www. mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=33633) _ Il sito “Canzoni contro la guerra”, da cui ho tratto i commenti sulla “Ballata di Longarone” (http://www.antiwarsongs.org/canzone. php?id=45384&lang=) _ Pagina di Wikipedia sul Racconto del Vajont di Paolini (http:// it.wikipedia.org/wiki/Il_racconto_del_Vajont)

Iconografia:

_ Questo progetto è supportato da immagini tratte dal fumetto “Vajont, storia di una diga” di Francesco Niccolini e Duccio Boscoli

Filmografia:

_ Vajont, la diga del disonore, di Renzo Martinelli

Teatro:

_ Vajont 9 ottobre ‘63, Orazione Civile, di Marco Paolini e Gabriele Vacis

Documentario:

_ Il disastro del Vajont, di History Channel


Con il sostegno di testi di scrittori e giornalisti attuali e del tempo, di poesie e canzoni e delle parole del grande Paolini, ho deciso di analizzare cosa si intende davvero per “disastro del Vajont”. Supportata principalmente dal bellissimo libro di Tina Merlin “Sulla pelle viva”, che racconta la storia del Vajont con l’occhio di chi quella storia l’ha vissuta a pieno, voglio ripercorrere la vicenda per poi soffermarmi su chi, a modo suo, l’ha voluta ricordare.



LA vicenda

Non ci sarebbe stata la tragedia del Vajont senza la SADE (Società Adriatica di Elettricità) ed è proprio da questa che bisogna partire. Fu fondata nel 1905 dal ventisettenne Giuseppe Volpi, conte di Misurata. Imprenditore e politico italiano, si garantì il monopolio delle acque e fissò i prezzi dell’energia elettrica; in quegli anni, a Venezia, la corrente arrivò a costare il doppio che a Parigi. Ministro delle finanze dal 1925 al 1929, Senatore e membro del gran consiglio del fascismo, Volpi muore nel 1947 e non fa in tempo a vedere il progetto di Carlo Semenza. “Fu con lui, e grazie a lui, che la Serenissima conobbe la sua ultima età dell’oro”; così lo descrive Indro Montanelli in una lettera sul Corriere della Sera al figlio Giovanni Volpi. Fondata per la costruzione e l’esercizio di impianti per la generazione, la trasmissione e la distribuzione di energia elettrica in Italia e all’estero, la SADE divenne proprietà dell’ENEL, a seguito della legge del 27 novembre 1962 che stabiliva che tutte le imprese venissero nazionalizzate. È la più grande riforma economica approvata dal dopoguerra. Nel 1929 l’ingegnere della SADE Carlo Semenza, affiancato dal geologo e professore universitario Giorgio dal Piaz, decide di costruire nella valle di Erto e Casso, tra Veneto e Friuli, la diga più alta del mondo. Tra il monte Salta, dove si trovano i due paesi, e il monte Toc, sul versante opposto, i tecnici della SADE vedono il luogo

9


perfetto per la costruzione di un enorme serbatoio idrico. Così Dal Piaz descrive la zona in una delle sue relazioni geologiche: “Fra gli abitanti della provincia di Belluno ed in generale tra i turisti della regione, la parte inferiore della vallata del Vajont, che confluisce nel Piave di fronte a Longarone, viene citata come esempio classico e suggestivo di profondissima gola che s’interna tra i monti a guisa di gigantesca spaccatura (…) Se vi è una località la quale colpisce lo spettatore per le peculiari sue caratteristiche morfologiche particolarmente adatte per opere di sbarramento in generale questa è appunto la valle del Vajont. A cominciare dal ponte di casso fino quasi allo sbocco della valle del Vajont in quella del Piave per un tratto di circa 3 km si può dire che vi sono innumerevoli sezioni in cui la gola si presta per la costruzione di una diga di sbarramento. La valle del Vajont per quanto a prima vista faccia l’impressione di una gigantesca fessura generata inizialmente da una spaccatura della roccia, non ha nulla a che fare con tale genere di fenomeni. Essa è una vera e propria gola di erosione, un autentico solco inciso nella massa rocciosa (…) I fianchi della valle del Vajont sono tra loro strettamente legati di continuità per mezzo della roccia tuttora esistente al di sotto dell’alveo.” È dunque nell’ottica di un grandioso programma della SADE che il progetto “Grande Vajont” è pronto. Scoppia la seconda guerra mondiale. La SADE ottiene l’approvazione da parte della commissione lavori pubblici nel 1943, votato solo con la presenza di 13 membri su 36 (non si arriva al numero legale). La società ha oltretutto un decreto di pubblica utilità dell’opera che impone al Comune la cessione delle proprie terre. Il 5 ottobre del 1948 la giunta comunale prende in esame la domanda della SADE e delibera “di procedere alla vendita dei terreni situati in Val Vajont di proprietà comunale di ha 88.66.40 e della rendita di lire 126,50 mediante trattativa privata con la Società Adriatica di Elettricità di Venezia” (Sulla pelle viva). Trattandosi di terreni sottoposti ad usi civici, il comune dunque perde le terre e non ci guadagna nulla, come del resto gli abitanti di Erto e Casso.

10


Nasce un comitato di difesa contro la Sade presieduto da Paolo Gallo marito della sindachessa, Caterina Filippin. La società si rifiuta di incontrarlo perché prima o poi si farà valere del diritto di pubblica utilità. Si installa, anche, una caserma dei carabinieri, i quali ammoniscono coloro che sono restii a vendere le proprie terre, allontanano famiglie dalle case che non vogliono abbandonare e denunciano giornalisti che propagano notizie “esagerate, false e tendenziose”. Sono proprio loro che denunceranno Tina Merlin. Improvvisamente il sindaco e il presidente del comitato di difesa cambiano atteggiamento e questo, proprio durante gli espropri delle terre, provoca la protesta dei membri che gli inviano una dura lettera. “Anche perché si è scoperto che il sindaco ha venduto nel frattempo le terre alla SADE all’insaputa di tutti” (Sulla pelle viva). Da questo si può capire quanto la Sade sia potente. Anche figure cittadine rispettabili vengono soggiogate dal suo monopolio. Agiscono addirittura segretamente. Questo porta inevitabilmente alla frattura del paese: c’è chi sta con il sindaco e chi invece ancora si batte per quello che sembra un progetto assurdo e che oltretutto non sta affatto giovando i cittadini, almeno per il momento (come si vede bene dal film di Renzo Martinelli “La diga del disonore”, le persone a favore della diga, i costruttori, i carabinieri, a coloro che si lamentano continueranno a rispondere che una volta che la diga sarà fatta porterà un’enorme ricchezza al paese). Dunque la comunità è divisa, come voleva sin dall’inizio la SADE. I cittadini che ancora non vogliono staccarsi dalle loro terre per una questione di principio, vengono espropriati d’ufficio. Non è concepibile opporsi al progresso della nazione. Si apre il cantiere. La Sade inizia la costruzione dell’impianto nel 1957 (gli scavi erano già iniziati nel ‘56 senza autorizzazioni). In aprile presenta al Ministero un progetto ancora più audace. La diga verrà alzata fino a 266 metri, cosicché il bacino avrà la capacità pari a tre volte la somma degli altri invasi della Sade. Il Ministero

11


sembra d’accordo ma chiede un’altra perizia geologica e per la prima volta il geologo Dal Piaz mostra timore per un progetto che gli fa “tremare le vene e i polsi”. La preoccupazione degli abitanti intanto cresce. “Negli ultimi tempi la situazione si è aggravata alla diga di Ponesei; si sentono ogni tanto dei rumori sordi, terra e sassi, franano dai versanti della montagna dentro il lago, non in grande quantità, ma abbastanza per preoccupare la gente. Probabilmente anche la Sade sta all’erta se comanda un servizio di sorveglianza continuo, giorno e notte. È solo un uomo l’economia non è mai troppa - ma in caso di novità pericolose può dare l’allarme. Invece, Arcangelo Tiziani, non fa in tempo. La frana si stacca improvvisamente dalla montagna sul versante destro del lago, tonfa dentro l’acqua e si porta via l’operaio seppellendolo sotto i detriti.” (Sulla pelle viva). Questo succede infatti alla diga di Pontesei, costruita anch’essa da Semenza. La Sade istituisce un servizio di sorveglianza di ventiquattro ore, dopo aver riscontrato dei problemi, con un solo operaio in turno. Il 22 marzo parte della montagna frana nel lago e genera un’onda che travolge Arcangelo Tiziani, operaio invalido di

12


turno (il suo corpo non sarà mai ritrovato). Nello stesso anno la diga del Vajont è pronta. La Sade è ora impaziente di passare al collaudo. Bisogna fare in fretta: la nazionalizzazione dell’energia elettrica è alle porte. La Sade, preoccupata dall’evento di Pontesei, chiede una ulteriore perizia geologica a Leopold Müller, ingegnere geotecnico fondatore della scuola di Salisburgo. A differenza di Dal Piaz, l’austriaco effettua carotaggi e fori piezometrici, stabilendo che sul monte Toc si trova una frana antica larga un paio di chilometri, profonda centinaia di metri. Edoardo Semenza, figlio del progettista della diga giunge alle stesse conclusioni. Il 4 novembre 1960 una frana di 800.000 metri cubi di roccia precipita nel lago artificiale. Nella sala controllo della diga si chiede a Müller se è possibile fermare il movimento del monte Toc. “Ormai no”. La Sade è molto preoccupata, ma lo sono di più gli abitanti della zona. Soltanto una giornalista riporta i fatti e le preoccupazioni di questi: Tina Merlin. A causa di uno dei suoi articoli viene accusata dalla Sade di “diffondere notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” e rinviata a giudizio.

13


Ecco parte dell’articolo di Tina Merlin pubblicato sull’Unità il 5 maggio 1959 “ (…) Sono intervenute le famiglie direttamente interessate alla difesa dei loro beni minacciati od espropriati dalla Sade e moltissimi altri montanari che nell’egoismo della società elettrica e nell’inerzia del governo intravvedono un pericolo grave per la stessa esistenza del paese a ridosso del quale si sta costruendo un bacino artificiale di 150 milioni di metri cubi d’acqua, che un domani eroderanno il terreno di natura franosa, potrebbero far sprofondare le case nel lago. Per di più il lago dividerebbe irrimediabilmente il villaggio dalle sue terre più fertili isolando oltre valle decine di case. E la Sade non vuol provvedere alla costruzione del ponte che manterrebbe congiunto il centro del paese alle sue frazioni. Inoltre un fatto grave e contrario a tutte le leggi, che ha avuto inizio da qualche mese e che tuttora, perdura, ha portato all’esasperazione gli abitanti della valle. Essi si vedono continuamente invadere ed espropriare i propri campi dalle società che hanno in appalto la costruzione della strada di circonvallazione per conto della Sade. Nessun decreto di espropriazione o trattative per la cessione dei beni sono intervenuti fra la Sade e i proprietari. La società elettrica infrange tutte le leggi dello Stato e i contadini hanno sempre dovuto sottostare finora ai soprusi della Sade. (…)” Il tribunale di Milano la assolve perché nelle sue denunce “non vi è nulla di falso, esagerato o di tendenzioso”. La Merlin prosegue le sue inchieste. Il 21 febbraio 1961 l’Unità titola: “Una frana di 50 milioni di metri cubi minaccia vita e averi degli abitanti di Casso”. Il 31 ottobre 1961, muore Carlo Semenza. Il 20 aprile 1962 muore Giorgio Dal Piaz. Intanto la Sade, preoccupata dalla possibilità di un drammatico evento franoso, commissiona una serie di test e, dopo varie simulazioni, viene fissato il livello limite dell’acqua dell’invaso da non oltrepassare: “La quota 700 metri può considerarsi di assoluta sicurezza nei riguardi anche del più catastrofico evento”.

14


15


Un anno dopo, nel marzo 1963, grazie al decreto che nazionalizza l’energia elettrica in Italia, nasce l’Enel e la diga diventa di Stato. Il 30 marzo arriva l’autorizzazione ministeriale alla nuova prova di invaso fino a 715 metri, quota di collaudo: ignorando le indicazioni di sicurezza. Il 15 settembre il monte Toc scivola improvvisamente di 22 centimetri. Sono i tecnici Enel, ora, a gestire la diga e decidono di svasare velocemente, per usare il livello del lago come freno e acceleratore della montagna. Sarà l’errore fatale. La relazione di Müller, infatti, ammoniva a non farlo: “Con svasi rapidi, bisogna aspettarsi movimenti più decisi della montagna”. Perché il muro d’acqua ha sì “bagnato i piedi” alla frana, fluidificandone l’argilla e facendo partire lo scivolamento. Ma ora, paradossalmente, è anche il “puntello” della frana stessa, ormai inarrestabile. Nei primi giorni di ottobre, Alberico Biadene, subentrato a Carlo Semenza, va a Roma e chiede un sopralluogo al geologo Penta che si dice “indisposto” e non ci va. Intanto, gli abitanti di Erto e Casso vedono i pini e i larici inclinarsi verso il lago. Sulle strade compaiono buche, prontamente chiuse dai tecnici dell’Enel. Gli strumenti di rilevazione installati dai tecnici della diga (paline luminose conficcate nel terreno) mostrano che il monte Toc si è mosso nella notte dai 57 ai 63 centimetri. La frana non si ferma più. Alberico Biadene decide di svasare il più velocemente possibile: il livello del lago deve scendere sotto quota 700 (il “limite di sicurezza” definito dalle prove sul modello di Nove) prima che la montagna vi crolli dentro. Perché su una cosa non ci sono più dubbi: il Toc sta venendo giù. Alle 22.39 del 9 ottobre 1963 duecentosessanta milioni di metri cubi di montagna precipitano nel lago a 100 km l’ora. Dalla finestra, il parroco di Casso vede il bosco correre giù. L’acqua, invece, vola in alto. Forma un’onda a tre punte, alta 250 metri.

16


Gli abitanti escono e vedono che oltre Casso non c’è più nulla, neppure la strada. Intanto, sentono un rumore come di un treno in corsa, lontano, oltre il ciglio della gola. Poco sotto l’abitato di Erto c’è uno sperone di roccia, che spezza la seconda onda, proteggendo il paese. Ma non salva le frazioni, che avranno 347 morti. In tutto, 50 milioni di metri cubi d’acqua volano oltre la diga. Un “lago volante” spesso 70 metri che punta verso Longarone. A Longarone la gente è nei caffè per l’eurovisione: Real Madrid - Glasgow Rangers, finale di Coppa dei Campioni. Va via

17


la luce. La gente esce, si accendono sigarette mentre si guarda su, verso la diga. Si vedono lampi. “...Sarà un temporale”. Sono i cavi della corrente che si strappano. Intanto arriva il vento. Un vento costante, umido, che aumenta. Come un rumore di treno in corsa. Bagna i vestiti, ha un cattivo odore di terra, toglie il respiro. L’aria, compressa dall’acqua che la spinge, acquista potenza. Tanta potenza: il doppio dell’esplosione della bomba di Hiroshima. La metà delle vittime è polverizzata: di loro non si troverà nulla. Dopo l’aria, arriva l’acqua. Un volo di 4 minuti, percorso a 80 km l’ora. Alle 22.43 l’onda che ha scavalcato la diga colpisce il letto del Piave. Ne raccoglie le pietre e piomba su Longarone, cancellandolo. L’acqua si allarga sul greto del Piave, scendendo a valle e risalendo a monte per 2 km. Il livello del fiume si alza di 12 metri in pochi istanti. Dopo 15 minuti, l’onda di riflusso torna giù a lisciare tutto, come la risacca sulla spiaggia. Trasformando la valle in una spianata di fango. (da “Dentro la Diga”, sezione speciale di Focus.it) Alle 5 del mattino del 10 ottobre la radio annuncia la devastazione di Longarone. Longarone non esiste più, è stato spazzato via. Dalle 5,30 iniziano ad arrivare le prime squadre di soccorso: in elicottero, via terra, fin dove esiste ancora una strada. Come si può immaginare, le ferrovie non funzionano più e giungere al luogo del disastro è un’impresa. Inizia anche il penoso rituale dei riconoscimenti, mentre si aiutano i superstiti e si interviene per cercare di impedire le epidemie. “[...] Oltre al dolore per le perdite subite si dice ci siano state le soluzioni disinfettanti erogate quotidianamente con un apparecchio automatico su tutta l’area disastrata, in particolare a Fortogna dove vennero raccolti i corpi poi inumati in quello che diventò il cimitero delle vittime. Il disinfettante fu messo a disposizione dal Ministero della Sanità, tranne una quantità di cloruro di calce donato da vari enti che venne distribuito sulle

18


macerie. Durante il recupero dei cadaveri fu utilizzata una soluzione di formaldeide, mentre le pozzanghere vennero irrorate di creosolo. Lungo tutto il greto del Piave fu spruzzato cloruro di calce. Nei mesi successivi, nonostante il freddo numerose mosche cominciarono a infestare i campi di inumazione. Si dovettero usare altri disinfestanti soprattutto per rispondere alla crescente preoccupazione degli abitanti della zona e al trauma psicologico causato ai visitatori del cimitero. Un’ulteriore fonte di preoccupazione fu la perdita di 61 fusti di cianuro di sodio prodotti dallo stabilimento Faesite e finiti nel Piave. Alcuni vennero recuperati quasi subito, ma altri non furono mai trovati”. (Dal libro di Lucia Vastano, Vajont, l’onda lunga) Successivamente Longarone viene ricostruita, nello stile architettonico di quegli anni, con il cemento armato a vista, anche se, insieme alle sue tradizioni, perde il ruolo di punto nevralgico per la valle del Piave. Allontanati dalle case di una vita, sparpagliati a chilometri di distanza, senza più i pascoli e senza il “grosso centro” nella valle, per gli abitanti di Erto e Casso iniziano gli anni più difficili, e Longarone, ricostruita, resta l’unico simbolo di tutta la tragedia. Il presidente del Consiglio, Giovanni Leone, promette giustizia. Visita il luogo giorni dopo la tragedia e rassicura gli abitanti. Proprio lui, sarà il capo degli avvocati Enel-Sade sostenendo l’imprevedibilità del disastro. “Fu proprio l’avvocato dell’Enel Giovanni Leone, che nella precedente veste di Presidente del Consiglio aveva promesso “giustizia”, a scovare nel codice civile quell’articolo che fece risparmiare l’azienda in base all’articolo n.4 del codice civile sulla commorienza (quando di due persone sia impossibile dedurre quale sia deceduta per prima, al fine giuridico si considerano morte nello stesso istante) i nipoti non vennero mai risarciti per i nonni, morti assieme ai loro genitori. Fu il tribunale di Belluno a utilizzare per

19


primo, per le vittime del Vajont, l’articolo 4”. (Dal libro di Lucia Vastano, Vajont, l’onda lunga) Tre giorni dopo il disastro, l’11 ottobre, il Ministro dei Lavori Pubblici, in accordo con il Presidente del Consiglio, nomina la Commissione di inchiesta sulla sciagura, che si insedia il 14 ottobre. Essa dispone di due mesi di tempo per presentare una relazione. Suo compito è quello di accertare le cause, prossime e remote, che hanno determinato la catastrofe. Il 20 di febbraio 1968 il Giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri, deposita la sentenza del procedimento penale contro Alberico Biadene, Mario Pancini, Pietro Frosini, Francesco Sensidoni, Curzio Batini, Francesco Penta, Luigi Greco, Almo Violin, Dino Tonini, Roberto Marin e Augusto Ghetti. Due di questi, Penta e Greco, nel frattempo muoiono, mentre Pancini si toglie la vita il 28 novembre di quell’anno. Il giorno dopo inizia il Processo di Primo Grado, che si tiene a L’Aquila, e che si conclude il 17 dicembre del 1969. Biadene, Batini e Violin vengono condannati a sei anni, di cui due condonati, di reclusione per omicidio colposo, colpevoli di non aver avvertito e di non avere messo in moto lo sgombero; assolti tutti gli altri. La prevedibilità della frana non viene riconosciuta. Il 26 luglio 1970 inizia all’Aquila il Processo d’Appello. Il 3 ottobre la sentenza riconosce la totale colpevolezza di Biadene e Sensidoni, che vengono riconosciuti colpevoli di frana, inondazione e degli omicidi. Essi vengono condannati a sei e a quattro anni e mezzo (entrambi con tre anni di condono). Tra il 15 e il 25 marzo del 1971 si svolge, a Roma, il Processo di Cassazione, nel quale Biadene e Sensidoni vengono riconosciuti colpevoli di un unico disastro: inondazione aggravata dalla previsione dell’evento compresa la frana e gli omicidi. Il 3 dicembre 1982, la Corte d’Appello di Firenze ribalta la sentenza precedente, condannando in solido ENEL e Montedison, società in cui è confluita la

20


Sade, al risarcimento dei danni sofferti dallo Stato e la Montedison per i danni subiti dal comune di Longarone. Il ricorso della Montedison non si fa attendere ma il 17 dicembre del 1986 la Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso alla sentenza del 1982. Infine il 15 febbraio 1997 il Tribunale Civile e Penale di Belluno condanna la Montedison a risarcire i danni subiti dal comune di Longarone. Nello stesso anno viene rigettato il ricorso dell’ENEL nei confronti del comune di Erto-Casso e del neonato comune di Vajont, obbligando così l’ENEL al risarcimento dei danni subiti. (dalla sezione “Il processo” del sito Vajont.net)

21



Scontro tra i giornali, natura cieca o responsabilità umane?

“Gli inviati speciali sul luogo della sciagura sono i giornalisti più importanti del paese. Arrivano la notte stessa, quasi mattina, spaventati come formiche sotto la diga, perché non è mica facile anche solo arrivarci, non è facile anche solo capir dove sei… è solo fango qua… Non sanno neanche più dove mettere i piedi, perché gli tiran sassi, anche ai giornalisti… “Via de qua! State pestando la mia casa!”. “Via coi piedi che gh’è i morti a cavar su…”. (da “Vajont 9 ottobre ‘63, Orazione Civile” di Marco Paolini e Gabriele Vacis) La stampa dell’epoca non diede molto peso agli allarmi lanciati dalla giornalista dell’Unità, Tina Merlin, mentre molti giornali stranieri, i più autorevoli e diffusi, come il Times, il New York Times, New York Herald Tribune e Le Monde riferirono invece con ampiezza di particolari le rivelazioni dell’Unità. La stampa italiana, invece, fece in modo che si continuassero a sostenere le tesi della catastrofe naturale, come vedremo, fino alla conclusione dell’inchiesta giudiziaria e al rinvio a giudizio di alcuni responsabili. Il giornalista Indro Montanelli scrisse un articolo sul periodico “La Domenica del Corriere” nel novembre 1963 in cui accusava i comunisti di speculare su una così grave tragedia (cosa che vedremo fare anche da altri i giorni direttamente successivi la tragedia). “Nella vita delle nazioni ci sono sempre state tragedie di ogni genere, carestie, pestilenze,

23


terremoti, che vanno affrontate con coraggio e senza creare odi interni” (Indro Montanelli). Nel 2000 un lettore del “Corriere “della Sera” scrisse al giornalista: “Lei si è sempre definito una «stecca nel coro». Allora oggi, a 37 anni di distanza, sarebbe ancora pronto a chiamare «sciacalli» persone che, come Tina Merlin, avevano denunciato i rischi del Vajont e non erano stati ascoltati? Sciacallaggio è aver avuto ragione a ribadirlo?” (Denis Vidale). “Io non davo né ragione né torto a nessuno” rispose Montanelli “Dicevo soltanto che aizzare gli uni contro gli altri gli scampati a quell’immane disastro nel momento in cui era necessario unirci tutti per salvare il salvabile (e farlo per portare fascine alla campagna contro l’impresa privata, che poi abbiamo visto che bella roba ha fruttato), era da sciacalli. E se un simile caso (Dio non voglia) si ripetesse, tornerei a dirlo. Ci vollero anni per istruire un processo. E non mi pareva quello il momento di anticiparne il verdetto.” Ma torniamo indietro di una trentina d’anni. Tina Merlin, da tempo, denunciava con i suoi articoli quello che stava avvenendo nella valle di Erto e Casso. Pochi, d’altronde, le davano ascolto. La sostenevano le persone del luogo, le quali, quando fu processata, testimoniarono a suo favore. Da tempo, dunque, c’era chi, dopo essersi insospettito e dopo aver indagato a fondo, aveva capito che qualcosa non andava nella grandiosa opera che doveva essere la diga del Vajont. Molto interessante è l’analisi della reazione dei giornali il giorno successivo la strage. La frana del Vajont precipitò di notte, mentre i quotidiani erano in chiusura. Dal giorno dopo la stampa si divide: ci sono da una parte coloro che attribuiscono il disastro alle forze della natura, che spesso si ribellano all’azione dell’uomo, e dall’altra coloro che incolpano, senza timore o dubbi, l’uomo, la sua superficialità e sordità. La notizia arriva nel bel mezzo della notte; i giornali modificano presto la prima pagina del quotidiano e molti giornalisti si mettono in viaggio. Automobili partono

24


da Milano, Torino, Venezia. Arrivano fino a Ponte nelle Alpi e poi devono risalire a piedi, alcuni però non riescono a passare. Chi ci riesce d’altronde non capisce a pieno cosa si trova davanti. La notte del 9 ottobre la valle di Longarone è ricoperta da una coltre bianca che sembra nebbia. Non si vede nulla, nemmeno la diga. In molti pensano erroneamente che sia crollata e alcuni giornali la mattina seguente apriranno proprio con questa falsa notizia. Ma la diga è perfetta. I giornalisti arrivano e non vedono case, né strade, né persone. Il Piave è grosso e nero, camminando si incrociano cadaveri nudi e gonfi e animali morti. (notizie tratte da un’intervista a un inviato dell’Unità - “Corriere delle Alpi” Scontro tra i giornali). Ma cosa dicono i giornali? Molti non sanno cosa pensare e non hanno tutti i torti. Nessuno senza un’accurata indagine avrebbe potuto sospettare a un’errata azione umana. Quello che ai giornalisti si mostra è una strage, non c’è segno di vita, tranne per una cosa che sembra aver resistito a ciò che ha spazzato via un’intera città, ed è proprio la diga. Come si può dunque pensare che qualcosa sia andato storto nella costruzione che doveva far vantare l’Italia di tanta maestria? La diga è l’unica sopravvissuta al disastro. Proprio per questo trovo che non si possano accusare i giornali che il giorno seguente incolparono la natura dell’accaduto, anche se alcuni erano evidentemente di parte. Giorgio Bocca sul Giorno scrive: “In tempi atomici, si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani, tutto è stato fatto dalla natura, che non è buona e non è cattiva, ma indifferente (…) Non c’era niente da fare, non ci sono colpevoli.” Sul Gazzettino di Venezia (per anni quotidiano della SADE e di Giuseppe Volpi) scrive Giuseppe Longo: “Come si può ardire in piena coscienza di attribuire colpe e responsabilità senza certezza in una simile circostanza? Come si può sostenere che qualcuno possa aver voluto per avidità di guadagno, quello che è avvenuto?” Sul Gazzettino invece scrive Armando Gervasoni: “Non è stata la più alta diga ad arco d’Europa, una delle realizzazioni più ardite della tecnica idraulica, a

25


causare uno dei più grandi disastri che si ricordino; è stata la montagna che ha tradito.” C’è chi sa invece che la montagna non ha affatto tradito. Anzi, la montagna aveva avvisato più volte coloro che la stavano disturbando, ma nessuno le diede ascolto. Troviamo poi l’articolo di Dino Buzzati pubblicato sul Corriere della Sera l’11 ottobre 1963. Commovente, profondamente commovente, dal mio punto di vista. Lo scrittore bellunese non sa chi sono davvero i colpevoli di questa tragedia ed intitola il suo articolo “Natura Crudele” proponendo l’immagine di una rivincita della terra sulla scienza e sulla tecnica. Regala comunque parole bellissime, da leggere e rileggere. Anch’egli incolpa la natura ma il suo testo è meraviglioso e qui lo riporto. “Stavolta per il giornalista che commenta non c’è compito da risolvere se si può, con il mestiere e con la fantasia e col cuore. Stavolta per me, è una faccenda personale perché quella è la mia terra, quelli i miei paesi, quelle le mie montagne, quella la mia gente. E scriverne è difficile! Un po’ come se a uno muore un fratello e gli dicono che a farne il necrologio deve essere proprio lui. Conosco quei posti così bene, ci sono passato tante centinaia e forse migliaia di volte che da lontano posso immaginare tutto quanto come se fossi stato presente. Per gli uomini che non sanno, per i paesi antichi e nuovi sulla riva del Piave, là dove il Cadore dopo tante convulsioni di valloni e di picchi apre finalmente la bocca sulla pianura e le montagne per l’ultima volta si rinserrano le une alle altre, è soltanto una bellissima sera d’ottobre. In questa stagione l’aria è lassù limpida e pura e i tramonti hanno delle luci meravigliose. Ecco, il sole è scomparso dietro le scoscese propaggini dello Schiara, rapidamente calano le ombre, giù dalle invisibili Dolomiti

26


comincia a soffiare un vento freddo, qua e là si accendono e si spengono i lumi, i buoi si assopiscono nelle stalle, gruppetti operai dalla fabbrica di faesite pedalano canterellando verso casa, un’eco di juke box con la rabbiosa vocetta di Rita Pavone esce dal bar trattoria con annessa colonnetta di benzina, rare macchine di turisti passano sulla strada di Alemagna, la stagione delle vacanze è finita. Proprio di fronte a Longarone la valle del Vajont è già buia, più che una valle è un profondo e sconnesso taglio nelle rupi, un selvaggio burrone, mi ricordo la straordinaria impressione che mi fece quando lo vidi per la prima volta da bambino, a un certo punto la strada attraversava l’abisso, da una parte e dall’altra spaventose pareti a picco. Qualcuno mi disse che era il più alto ponte d’Italia, con un vuoto sotto, di oltre cento metri. Ci fermammo e guardai in giù con il batticuore. Bene, proprio a ridosso del vecchio e romantico ponticello era venuta su la diga e lo aveva umiliato. Quei cento metri di abisso erano stati sbarrati da un muro di cemento, non solo; il fantastico muraglione aveva continuato ad innalzarsi per altri centocinquanta metri sopra il ponticello e adesso giganteggiava più vertiginoso delle rupi intorno, con sinuose e potenti curve, immobile eppure carico di una vita misteriosa. Notte. Due finestre accese nella cabina comandi centralizzati, nell’acqua del lago artificiale si specchia una gelida fascetta di luna, ronzii nei fili, giù nel tenebroso botro lo scrosciare dello scarico di fondo, a Longarone. Faè, Rivalta, Villanova dormono, ma c’è ancora qualcuno che contempla il video, qualcuno nell’osteria intento all’ultimo scopone. In quanto alle montagne esse se ne stanno immobili, nere e silenziose come il solito. No, a questo punto l’immaginazione non è più capace di proseguire, la valle, i monti, i paesi, le case, gli uomini, tutto riesco ad immaginare nella notte tranquilla poiché li conosco così bene, ma adesso non bastano le consuetudini e i ricordi. Come ricostruire ciò che è accaduto, la frana, lo schiantamento delle rupi, il crollo, la cateratta di macigni e di terra nel lago? E l’onda spaventosa, dal cataclisma biblico, che è lievitata gonfiandosi come... Sì come un immenso dorso di balena, ha scavalcato il bordo della

27


diga, è precipitata a picco giù nel burrone, avventurandosi, terrificante bolide di schiuma, verso i paesi addormentati. E il tonfo nel lago il tremito della guerra, lo scrole dell’acqua impazzita, il frastuono della rovina totale, coro di boati stridori, rimbombi, cigolii, scrosci, urla, gemiti, rantoli, invocazioni, pianti? E il silenzio alla fine, quel funesto silenzio di quando l’irreparabile è compiuto, il silenzio stesso che c’è nelle tombe? Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere quindi non si può, come nel caso del Gleno, dare della bestia a chi l’ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d’arte, testimonianza della tenacia, del talento, e del coraggio umano. La diga del Vajont era ed è un capolavoro perfino dal lato estetico. Mi ricordo che mentre la facevano l’ingegnere Gildosperti della S.A.D.E. Scheda mi portò alla vicina centrale di Soverzene dove c’era un grande modello in ottone dello sbarramento in costruzione ed era una scultura stupenda, Arp e Brancusi ne sarebbero stati orgogliosi. Intatto, di fronte ai morti del Bellunese, sta ancora il prestigio della scienza, dell’ingegneria, della tecnica, del lavoro. Ma esso non è bastato. Tutto era stato calcolato alla perfezione, e quindi realizzato da maestri, la montagna, sotto ai lati, era stata traforata come un colabrodo per una profondità di decine e decine di metri e quindi imbottita di cemento perché non potesse poi in nessun caso fare dei brutti scherzi, oppure apparecchiature sensibilissime registravano le più lievi regolarità o minimi sintomi di pericolo. Ma non è bastato. Ancora una volta la fantasia della natura è stata più grande ed asciutta che la fantasia della scienza. Sconfitta in aperta battaglia, la natura si è vendicata attaccando il vincitore alla spalle. Si direbbe quasi che in tutte le grandi conquiste tecniche, stia nascosta una lama segreta e invisibile che a un momento dato scatterà. Intatto, e giustamente, è il prestigio dell’ingegnere, del progettista, del costruttore, del tecnico, dell’operaio, giù fino all’ultimo manovale che ha

28


sgobbato per la diga del Vajont, ma la diga, non per colpa sua è costata diecimila morti. I quali morti non sono della Cina o delle Molucche, ma erano gente della mia terra che parlavano come me, avevano facce di famiglia e chissà quante volte ci siamo incontrati e ci siamo dati la mano e abbiamo chiacchierato insieme. E il monte che si e’ rotto e ha fatto lo sterminio è uno dei monti della mia vita il cui profilo è impresso nel mio animo e mi rimarrà per sempre. Ragione per cui chi scrive si trova ad avere la gola secca e le parole di circostanza non gli vengono. Le parole incredulità, orrore, pietà, costernazione, rabbia, pianto, lutto, gli restano dentro col loro peso crudele.” Isolato rispetto al coro degli altri giornali, è l’Unità, unico giornale che dal giorno successivo al disastro può dire di aver preannunciato la sciagura. L’Unità, però, è un piccolo giornale di partito, per di più comunista. Sono gli anni Sessanta della Guerra fredda: ben presto il racconto del Vajont diventa espressione dello scontro tra blocchi contrapposti. Da una parte ci sono i comunisti dell’Unità e i socialisti dell’Avanti, che accusano governo e monopolio elettrico di aver sacrificato la gente, il popolo, per il profitto: «È stato un assassinio!». Dall’altra parte, la maggioranza dei giornali esprime le posizioni delle istituzioni economiche e politiche. Alcuni quotidiani accusano Pci e sinistre di speculare sul Vajont, di strumentalizzarlo: «Sciacalli!». Altri si limitano a raccontare la tragedia con compassione, concentrandosi sui soccorsi e sulle storie tragiche dei superstiti.

29



Il cinquantesimo

“#presidentedellarepubblica - Domani, 14 gennaio 2015 il nostro amato presidente della repubblica darà le dimissioni e tornerà a casa. In molti diranno finalmente. Noi no. Lo abbiamo atteso invano sul Vajont. Non è mai comparso. Nemmeno per il 50° anniversario si è fatto vedere. Conoscevamo il Presidente per i tanti meriti, le tante visite ufficiali. E per le commozioni improvvise, che in certe occasioni, lo portavano alle lacrime. Per noi niente visite ufficiali, niente commozioni, niente lacrime. Duemila morti privi di una sua presenza in loco. Nell’augurarle buona vita, Signor Presidente, quando sarà nella sua casa in veste di uomo normale, le auguro pure qualche rimorso. Con stima, Mauro Corona.” Così recita il post di Mauro Corona su Facebook il 13 gennaio di quest’anno. Poche parole che si portano dentro ancora tanta rabbia per qualcosa che è ormai avvenuto più di cinquant’anni fa. Chi l’ha vissuto in prima persona, d’altronde, non può dimenticare e non può neanche dimenticare di essere stato in parte dimenticato. È proprio questo il sentimento dello scrittore ertano che il giorno del cinquantesimo anniversario dalla strage del Vajont del 1963 commenta perentorio: “Tragedia dimenticata da papi e re. A Erto non è mai venuto nessuno, né papi, né re, né cardinali, né presidenti della repubblica”. Anche in quello stesso giorno di commemorazione, Corona fa un chiaro e legittimo riferimento al Presidente Napolitano e ag-

31


giunge “Ho fatto una polemica mesi fa nei riguardi del Presidente Giorgio Napolitano, è venuto in Friuli a porgere omaggio, peraltro doveroso, ai morti del terremoto, a cinquanta chilometri da qui. Perché non è venuto da noi? Certo, in questo 2013 saranno cinquant’anni, e tutti gli altri? La felicità si dimentica, ma il dolore rimane dolore, diceva Lord Byron”. Tutti i più importanti giornali, però, la ricordano la vicenda. Alla catastrofe avvenuta cinquant’anni prima, vengono dedicate sezioni sui siti web della Stampa, della Repubblica, del Corriere e di altri importanti quotidiani. Panorama e il sito dell’Ansa mostrano una galleria di foto dell’epoca: le immagini della disperazione di allora, ma anche della speranza e della ricostruzione. Focus crea una meravigliosa sezione che intitola “Dentro il Vajont”, con testi che ripercorrono tutta la vicenda, immagini e descrizioni dei personaggi principali, una timeline degli eventi e un’animazione della frana. Anche la radio, a cinquant’anni dal disastro del Vajont, l’ha voluto ricordare. Mix24 (radio del Sole24ore) dà voce ai protagonisti di quel disastro, a partire dalla giornalista Tina Merlin. Ai microfoni di Mix24 sentiamo anche la voce di Francesca Chiarelli, figlia di Isidoro, notaio di Belluno, che ricorda l’importante testimonianza che il padre rilasciò al processo. Credo sia importante che i siti web dei giornali ricordino il Vajont, ma semplicemente per il fatto che molte persone, specialmente della mia età, non conoscono affatto la vicenda. Per il resto, trovo assurdo che una strage come quella venga ricordata così profondamente solo nel giorno del suo “compleanno”. Non dico che bisogna pensarci per forza ogni giorno, ma perché dobbiamo essere costretti a pensarci? “Per non dimenticare” dicono. Chi conosce la vicenda, di sicuro non se la dimentica. Ovviamente questo mio pensiero non vale solo per il caso Vajont. Tra poesia, teatro, letteratura, cinema e musica, sono in molti a ricordare il Vajont, a raccontarlo, a prendere ispirazione dalle parole di altri e a dire la loro.

32


a teatro con paolini

“Non puoi sfuggire, lo insegnano anche a te, il progresso, così ti vien voglia di progredire, in fretta, di crescere, crescere subito. E come fai a crescere? Leggi libri! Questo mi dicevano sempre: “Vuoi venire grande presto? Leggi libri”. Ogni viaggio in treno un libro: I ragazzi della via Pal. Bello! Letto. Altro viaggio: Ventimila leghe sotto i mari. Bello! Letto. Altro viaggio, altro libro. I pirati della Malesia, Le tigri di Mompracem, Sandokan. Bello! E la perla di Labuan! Bellissima! Altro libro, altro viaggio. Ivanhoe, due volumi. Due viaggi: andata e ritorno. Si diventa grandi per forza con Ivanhoe! Dopo arrivano i libri che ti scegli tu, quelli che compri coi tuoi soldi. Il primo: Siddhartha. Capivo niente la prima volta, ma bello! E poi Cent’anni di solitudine. Bellissimo. Capivo niente tre volte, ma bello, bello, bello! Un anno, mi ricordo, ho letto anche Porci con le ali: una porcheria! lo non so a cosa serve leggere quella roba là... E’ che per diventare grande devi leggere tutto e non puoi saperlo prima se è una porcheria o no. Un anno, alla stazione di Calalzo, suona la campanella, arriva il treno, finite le vacanze più noiose della mia vita: “Le ultime vacanze in famiglia: giuro!”. Solo che dalla noia avevo letto tutti i libri che mi ero portato... “E adesso, per il viaggio di ritorno, come faccio?”. Edicola della stazione. Giallo Mondadori: mai piaciuti. Urania: già letto. Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont. Vajont? Mi interessa? Non c’è altro...” E’ in partenza dal primo binario ... “. Dai, dai, compra il libro, parte il treno... Tutuntutun... Leggi il libro... Sulla pelle viva... Tutun-tu-

33


tun...Come si costruisce una catastrofe... Tutun-tutun... Tutun-tutun... Come si costruisce una catastrofe? Ma non hanno costruito una diga?” (da “Il racconto del Vajont” di Marco Paolini e Gabriele Vacis) Ed ecco, a mio avviso, il migliore ad aver raccontato questa storia. Come ho accennato nell’introduzione, ho visto per caso in televisione il suo spettacolo e mi ha subito affascinata. Mi affascina ogni volta. “Vajont 9 ottobre ’63 – Orazione civile” è un monologo teatrale che ti strega. Scritto da Marco Paolini, anche interprete, e dal regista Gabriele Vacis, l’opera dura due ore e mezza e ricostruisce la vicenda del Vajont attraverso accurate ricerche e collezioni di documenti ufficiali. L’opera fu trasmessa in televisione in occasione del trentaquattresimo anniversario del disastro, nel 1997, su Rai 2. Il teatro fu allestito proprio presso la diga del disastro, precisamente nel versante riempito dalla frana e un tempo sede del bacino. (Wikipedia, pagina “Il racconto del Vajont”) In piedi, solo sopra un palcoscenico, affiancato soltanto da una lavagna e da pochi altri oggetti, Paolini ripercorre le vicende di due paesi e dei loro abitanti. Si ride, o si sorride spesso, nella prima parte dello spettacolo. Paolini, per sua stessa ammissione, inventa alcune cose, colorisce con simpatia e con delicatezza la vita e i problemi degli abitanti del luogo ma intanto, quasi inavvertitamente, segnala date e avvenimenti, chiama in causa i protagonisti con nome e cognome, spiega termini tecnici, costruendo così un quadro molto più ampio rispetto alla piccola valle bellunese che sarà teatro del dramma. Piccoli imbrogli, superficialità nel valutare i problemi, storie di quotidiani soprusi, arroganza di un potere che pensa di poter sconvolgere tranquillamente la vita della gente comune in nome di un ipotetico “interesse superiore” accompagnano lo scorrere degli anni fino agli ultimi giorni, alle ultime ore.

34


Il racconto del Vajont, riproposto da Paolini centinaia di volte nelle piazze e nei teatri, non presenta nessuno scoop. L’attore non rivela al pubblico documenti inediti o nuove testimonianze, ma, basandosi su fatti già noti anche se spesso trascurati dai grandi mezzi d’informazione, riavvicina alle nostre coscienze una tragedia che stavamo dimenticando. “Le storie non esistono finché non c’è qualcuno che le racconta” dice Paolini. Questo è il racconto del Vajont. Un racconto di parte, forse, ma che non lascia indifferenti, perché nessuno possa ancora dire “non c’ero”, o “non sapevo”.

35



sul grande schermo

Sulla pagina web MyMovies, i commenti da parte del pubblico sul film “Vajont, la diga del disonore” di Renzo Martinelli non sono del tutto positivi. Si legge: “Il film come denuncia è una grossa bufala, non bisogna lasciarsi impressionare da immagini computerizzate e manovrate. Coloro che hanno assistito alla disgrazia hanno per caso avuto bisogno di effetti speciali per ricordarsi dei loro cari?”. E poi: “C’è una patetica e inverosimile storia d’amore che si sta infiltrando nelle fondamenta del film. Se qualcuno non la ferma qua si rischia che cada tutta la struttura. Per fortuna qui il regista, a differenza degli ingegneri, è riuscito a salvare la baracca contenendola a sufficienza.” La rassegna stampa invece, offre visioni differenti. Alberto Crespi sull’Unità scrive “Vajont sembra un ritorno al cinema civile e spettacolare, un genere che in Italia ha avuto grande tradizione e che Martinelli aveva già preso robustamente di petto nel suo lavoro precedente.”. Maurizio Cabona sul Giornale afferma “Fare un film oggi su quella tragedia significa fare un film sul potere e sull’uso che ne fanno le classi sociali e politiche che lo detengono. È sorprendente che in questi quarant’anni nessun cineasta abbia sentito il dovere di raccontare la storia del Vajont. Severo ma giusto, Renzo Martinelli è consapevole di essere il primo ad aver sentito quel dovere.” Il film a mio parere è ben fatto e denuncia quello che in tanti non vollero o non seppero capire: non si tratta di fatalità ma di un even-

37


to annunciato. Con un cast composto da Michael Serrault, Daniel Auteuil e Laura Morante, che interpreta la giornalista Tina Merlin, si racconta la storia del Vajont dal 1959, quando la diga stava per essere completata, e nel mentre si intrecciano le storie di Olmo e Ancilla, due innamorati. Tra inchiesta e narrazione questo film mostra un’Italia che si sta costruendo. La diga più alta del mondo doveva rappresentare una crescita economica di un paese che voleva dire la sua dopo il silenzio e forse anche la vergogna degli anni del dopoguerra. Il titolo della Stampa a seguito dell’uscita del film nel 2001 recita “Spettacolo e impegno civile: è da questa unione che nasce Vajont, il film di Renzo Martinelli su una delle pagine più nere della storia italiana.” “All’epoca dei fatti ero solo un ragazzo e ricordo benissimo che tutti, da Bocca a Montanelli, da Biagi a Buzzati, parlarono di fatalità. Solo leggendo il libro di Tina Merlin “Sulla pelle viva” ho provato un senso di indignazione. Mi auguro che i ragazzi riflettano sui tanti Vajont pronti ad esplodere in assenza di una coscienza civile. In fondo anche le tragedie della Valtellina, di Sarno e persino l’ultima di Linate, sono dei tanti Vajont.” (da un intervista della Stampa a Renzo Martinelli) Dopo tre anni di lavoro per realizzare un film che “non ha nulla da invidiare ai kolossal americani”, come sostiene il regista, Renzo Martinelli racconta una storia di omissioni e sopraffazioni e riporta alla memoria un passato per molti dimenticato ed archiviato, sapendo giustamente mescolare la ricostruzione di una catastrofe all’emozione delle storie private dei protagonisti.

38


in rima

Nel sonno Io ero il bambino più piccolo della valle. Dormivo l’altra notte fra il mio papà e la mia mamma. Così sono andato con loro nel fiume. Ma non è stato triste. Ora siamo tutti insieme su un prato verde in un grande amore. (anonimo, tratta dalla raccolta di poesie sul Vajont) Non era un fiume, e noi lo sappiamo, ma è sicuramente bello pensarlo. Questa poesia è tratta da una raccolta voluta dall’assessore alla cultura del Comune di Longarone, Viviana Capraro. “Mancava un libro di poesie alla vasta fioritura di testimonianze, studi e ricerche intese a scandagliare quella che è stata l’immane tragedia del Vajont” dice l’assessore. Bellissime sono le parole, a mio parere, di questa donna, che ha sentito il bisogno di raccontare l’accaduto anche attraverso i versi di poeti, gente comune, testimoni, insegnati, bambini, tutti coloro che trovano nell’amore per la parola un modo per esprimere gioia dolore e frustrazione. “Ci si può chiedere come già hanno fatto

39


insigni pensatori e poeti, come sia possibile scrivere poesia dopo certi orrori della storia, e se non sia il silenzio la risposta più adeguata di fronte a un evento innominabile e intraducibile che paralizza e inaridisce la parola. Dubbio senz’altro legittimo quando l’uomo si sente impotente ad assumere su di se il male di un dramma collettivo la cui portata trascende l’orizzonte della quotidianità. Spesso la parola è insufficiente a descrivere i sentimenti che si provano, ma altre volte è proprio quella che colpisce di più. L’espressione poetica nella sua nuda essenzialità, sa avvicinarsi all’inesprimibile, porgersi sull’abisso del dolore, di inquietudini e angosce, non già per dare delle risposte o per consolare, ma per far emergere dalle radici dell’essere quei bagliori di speranza che sono l’essenza stessa della vita”. Il nastrino rosa La mamma mi pettinava i capelli e mi metteva un nastrino rosa. Ho ancora il mio nastrino rosa nel mio sacco di cellofan ma si è un poco sporcato di fango. (anonimo, tratta dalla raccolta di poesie sul Vajont) Il grande silenzio Sento da lontano soltanto un grande silenzio e intorno a me il buio più assoluto. I miei pensieri ritornano ai ricordi di una comunità povera, ma tranquilla, ai momenti in cui tutti si sarebbero ritrovati in piazzetta, a raccontarsi

40


la loro giornata di lavoro, dura sicuramente, ma serena. Ed ora, davanti a questa maestosa opera dell’ uomo , mi sento incapace di esprimere giudizi. Non è la modernità che ci rende liberi, ma la libertà che ci da la forza di credere che contro la natura l’ uomo è abbandonato a se stesso. (Eleonora de Fanti) Il Vajont si ricorda anche nelle parole dello scrittore e poeta napoletano Erri De Luca, nella sua poesia “Diga”, contenuta nella raccolta “Opera sull’acqua e altre poesie”. De Luca, al momento sotto processo per istigazione a delinquere in relazione ad alcune dichiarazioni in cui affermava che la TAV (Treno ad alta velocità) va sabotata, è sempre stato socialmente e politicamente impegnato. “Io non sono contro i treni veloci” afferma lo scrittore “Sono contro “quel” treno veloce, perché “quella” montagna è velenosa. Bucarla significa liberare amianto”. Ancora una volta si parla di montagna. Quella del Toc si trova un po’ più ad ovest rispetto alla Val di Susa, ed è una storia diversa. De Luca, del resto, anche a quest’altra storia, quella del Vajont, regala delle parole. Le urla di quelle vite spezzate, la voce della montagna, dell’acqua, del cielo: tutte catturate e dipinte in una poesia. “Diga” mostra anche la presunzione del dominio dell’uomo che interviene sulla natura senza interpellarla affatto.

41


Chiasso di acque nei cieli, «hamòn màim bashamàim». Così un profeta intese la voce che grondava su di lui da un acquario di stelle. Ascolta un altro chiasso, una montagna intera che sfracella sopra l’invaso di una diga. Era di notte, aggredite dal crollo esplosero le acque verso l’alto a strappare le case di Erto e Casso dai pendii a meridione e poi di nuovo in giù, acque su acque, oltre la muraglia-sgabello a sradicare a valle Longarone, lago, fiume e tempesta di Vajont, duemila nostri spenti. Ascolta il tutto del sangue quando l’amore stringe: moltiplicalo per il quadrato delle stelle fisse, per il grido del capretto sgozzato ogni Pasquanatale, per la sega del fulmine e il piccole del tuono, aggiungilo agli schianti del bosco cancellato, larici, abeti, càrpini, betulle, cervi, gufi, lepri, martore, uova, ali, zampe, artigli stritolati: e poi dividi per il silenzio di un minuto dopo. Non giocare con l’acqua, non chiuderla, frenarla, è lei che scherza dentro grondaie, turbine, ponti, risaie, mulini e vasche di saline. È alleata col cielo e il sottosuolo, ha catapulte, macchine d’assedio, ha la pazienza e il tempo: passerai pure tu, specie di viceré del mondo, bipede senza ali, spaventato a morte dalla morte fino a metterle fretta. (hamòn màim bashamàim: il riferimento è al libro del profeta Geremia, capitolo 51 versetto 16, che nella traduzione recente della Conferenza Episcopale Italiana così suona: “Al rombo della sua voce rumoreggiano le acque nel cielo”.)

42


con le note

“Costruirono la diga più alta del mondo per fare più energia, più soldi La montagna gli parlava ogni giorno ma loro non ascoltavano, sordi” (dalla canzone “Vajont” di Siruan). Nel giorno del cinquantesimo anniversario dalla strage del Vajont, la musica si unisce nel ricordo, nonostante i differenti generi: dal rap del bellunese Siruan al “Concerto della memoria”, con Remo Anzovino al pianoforte. “La tragedia del Vajont è una storia che va raccontata e soprattutto ricordata” dice Matteo Gracis, in arte Siruan “e non essendo mai stata scritta una canzone sul tema, ed essendo io originario di queste zone, ho pensato di scriverne una”. Siruan affida alle sue rime la denuncia della tragedia e delle sue responsabilità, raccontando una storia che ha sentito dai nonni e dagli anziani del paese. Il testo cita la giornalista Tina Merlin ed esprime una netta condanna verso i politici e i tecnici che non hanno saputo e voluto evitare ai tempi la tragedia. La strofa rappata si ispira al ritornello del brano Hurricane di Bob Dylan e il suo video musicale alterna immagini di prime pagine di giornali e foto d’epoca. A volte scontate le rime, a mio parere, e for-

43


se anche un po’ discutibile la scelta di una canzone rap per ricordare la tragedia, ma d’altronde ognuno si esprime come meglio riesce. “La musica può a volte aiutare la memoria. Cinquant’anni dalla notte del Vajont sono tanti per chi vuole si dimentichi. Sono niente per chi vuole sapere perché.” Così sostiene Remo Anzovino, pianista e compositore, che con un grande evento gratuito chiude le terza giornata di commemorazione dedicata al sistema di Protezione Civile Nazionale e al Raduno dei Soccorritori, che già la mattina seguente la catastrofe accorsero da tutta Italia sui luoghi del Vajont. Il compositore friulano ha composto “9 ottobre 1963 (Suite for Vajont)”, suite per pianoforte e coro civile che chiude il suo quarto e ultimo album “Viaggiatore Immobile”. Anzovino si è avvalso di 42 voci del Coro Polifonico di Ruda e di tre musicisti che rappresentano tre mondi musicali differenti: la musica classica contemporanea, il pop e il jazz rock. Con la musica di Daisy Lumini, è Beppe Chierici , dal mio punto di vista, che riesce, nel 1969 a raccontare al meglio la vicenda in una ballata al pari delle canzoni medievali; “un discorso senza tempo, o meglio, di sempre. Come di sempre è il lamento del contadino, della tessitrice, del vignaiolo. Di sempre è il desiderio di giustizia: ma è di sempre la prepotenza di chi giustizia nega, perché è più forte.” (dal sito “Canzoni contro la guerra/La ballata di Longarone). Scritta di getto e per protesta il giorno successivo all’infame sentenza di Primo Grado a L’Aquila nel 1969, Chierici ebbe alcuni problemi di censura sia per il tema sia per il testo, che qui riporto.

44


Si dice che un giorno un Dio scocciato dei mali del mondo lo abbia affogato.

di starsene fermo dov’era piantato, scoprendosi intorno la vallata bella si disse “Un bel giorno ci andrò in camporella!...”

Ma prima di usare gli idranti celesti Lui volle salvare gli uomini onesti.

Da tempo smaniava quel monte iracondo e alberi e massi mandava nel fondo.

Fra tutti Noè salvò la pellaccia, gli altri, ahimé! Eran tutta gentaccia...

La gente sapeva di questi “traslochi”,

Le bestie, va detto, non sanno peccare E su un “vaporetto” le fa galleggiare.

di lui si diceva: “ ‘Sto monte ...va in tòchi !” E Tòc fu chiamata l’inquieta montagna “ Neanca ‘e cavre e a sù più no ‘e magna!” Nessuno mai non ebbe il sentore più vago che in quella vallata facessero un lago.

Per quanto spietato quel Dio genocida salvò gli animali dall’idro-corrida. Or giunti a ‘sto punto possiamo affermare che a volte il buon Dio sa ‘discriminare’...

Invero nessuno, a parte un cretino, poteva pensare di farci un bacino. Qualcuno si mosse,

Or son nove anni che un monte annoiato

45


tentò di spiegare che un lago col Toc non era un affare.

che lento si estende. Ma il Toc ha deciso di andarsene a spasso, non dà preavviso e scende da basso...

“Sa, quella montagna, non vuole star ferma, mi creda è una “lagna”! ne chieda conferma.

E a notte nel lago si fa un pediluvio E su Longarone si avventa il diluvio.

È velleitaria, rivoluzionaria, ci pianta una grana, le dico, è una frana!...”

È un’onda tremenda che oscura le stelle, tre oceani insieme che il globo si espelle.

“Faremo la diga! lo abbiamo deciso, la gente del luogo ne avrà preavviso.”

Distrugge ogni casa le bestie, la gente Fa “tabula rasa” non resta più niente.

“ Mi creda, siòr... No sè ostruzionismo!... (Eh eh...) Suvvia, signore...! Un po’ di SADE...ismo !”

Vajont, Longarone, duemila e più morti, sei anni d’inchiesta, controlli, rapporti, dossier d’istruttoria, e per ogni perizia c’è il suo promemoria: “Si vuole Giustizia!”

È nato il bacino in quella vallata, la gente ha paura si sa condannata. Si chiudon le porte si tiran le tende sul lago di morte

46


Illustri togati e “Azzeccagarbugli” decidon che “Onde evitar tafferugli, si spostino altrove imputati e processo, lontano da dove il fatto è successo.” Accusa e difesa... Tre mesi di udienza e al mondo in attesa si dà la sentenza. Trecento cartelle per dir suppergiù : “È acqua passata, ... non macina più ! “ Ma sopra una tomba lassù a Fortogna, son scritte sul marmo diciotto parole che gridano al mondo la nostra vergogna : Barbaramente e vilmente trucidati per leggerezza e cupidigia umana, attendono invano giustizia per l’infame colpa. - Eccidio premeditato -

47



e il resto del mondo?

Il 12 febbraio 2008 si incontravano le Nazioni Unite a Parigi in occasione dell’International Year of Planet Earth (Iype). Queste dovevano presentare il giorno stesso la classifica dei cinque peggiori esempi di gestione del territorio. Ed ecco che l’Italia si aggiudica il primo posto proprio con la tragedia del Vajont. “Il Vajont è un classico esempio del fallimento di ingegneri e geologi nel comprendere il problema che tentavano di risolvere” dice il documento indirizzato a governi ed esperti. Alla domanda dell’inviato del Corriere della Sera a Parigi sul perché dedicare il 2008 alla terra e agli ecosistemi, il direttore dell’Iype, Eduardo De Mulder, risponde “Perché il genere umano ha raggiunto la capacità di spostare materiali più di quanto il pianeta faccia con i processi naturali: sedimentazione, orogenesi e dinamica delle placche. Inoltre l’uomo con le sue attività può modificare il clima. Siamo una forza della natura che ha impatti devastanti sulla terra”. E come sappiamo, la notte del 9 ottobre 1963, le conseguenze devastanti dovute all’azione dell’uomo purtroppo non colpirono solo la terra.

49


perché il vajont?

Quella del Vajont è una tragedia, ma non va ricordata solo come tale. Come sostengono in molti, la storia del Vajont fu una storia di sopraffazioni, di ricerca del profitto a tutti i costi, di arroganza di poteri troppo forti. Sono d’accordo. “Se l’uomo non può impedire tutto, può prevedere molto” disse Marcel Roubault. Il disastro del Vajont era prevedibile, basta digitare la parola Vajont su Google per saperlo. Se non si sa, è solo perché questa storia proprio non la si conosce. Ma questo è un problema di disinteresse personale di cui non voglio discutere. Il caso Vajont, non fu solo una storia di arroganze dei forti e di lotta della povera gente che difendeva la propria terra. É una storia in cui manca l’informazione, quella vera. La diga del Vajont fu considerata un’opera irrinunciabile in risposta alla necessità di crescita di un paese che stava affrontando un difficile cambiamento. Ma siamo in pieno boom economico, la società civile è in grande evoluzione, la Costituzione sancisce libertà e democrazia: non siamo più ai tempi del fascismo. Se negli anni precedenti la strage, non si parlava del Vajont perché non si era interessati, in quelli successivi il silenzio stampa rimane, perché è meglio così. Si rischia di andare contro lo Stato, uno dei personaggi principali di tutta questa storia, e fino ai processi molti sostengono ancora la tesi della crudeltà della natura.

50


Non bisogna credere a tutto quello che si legge. Questa storia lo dimostra. A qualcuno, però, bisogna credere ma come in ogni tragedia umana c’è chi non viene ascoltato o non viene compreso o, ancora, è volutamente messo a tacere. Ed è spesso colui che ha ragione. Parlo del Vajont perché mi piace la storia e mi piace informarmi su fatti in cui la giustizia non è quella che intendo io. Mi piace impegnarmi a capire il perché. Ma non c’è molto da capire qui. La giustizia del Vajont fu lenta, frenata da mille polemiche e contrapposizioni politiche, come quella di adesso d’altronde. E dopo la rabbia arriva la tristezza. Ma non quella per la strage. Quella dovrebbe esserci ancor prima della rabbia. Parlo di tristezza nei confronti dell’uomo, perché a mio avviso, non c’è nulla di più triste di un’umanità che violenta la natura, illudendosi di poterla gestire e governare, senza tenere conto delle conseguenze.

51



indice

La vicenda...........................................................................................................9 Scontro tra i giornali...................................................................................... 23 Il cinquantesimo.............................................................................................. 31 A teatro con Paolini........................................................................................ 33 Sul grande schermo....................................................................................... 37 In rima................................................................................................................ 39 Con le note........................................................................................................ 43 E il resto del mondo?..................................................................................... 49 PerchĂŠ il Vajont?.............................................................................................. 50




“Se l’uomo non può impedire tutto, può prevedere molto”

- Marcel Roubault

In copertina: illustrazione tratta da “Vajont, storia di una diga” di Francesco Niccolini e Duccio Boscoli


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.