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Scrittori e scrittrici ricreando i nostri mondi Mantenendo la promessa fatta dopo l’uscita del primo numero di Global Rights Magazine dedicato a interviste con scrittori e scrittrici intitolato “La parola alla letteratura”, presentiamo queste nuove conversazioni con creatori di romanzi e racconti. E mentre lo facciamo non possiamo non promettere nuovamente futuri monografici che magari faranno incursione in altri generi letterari, la poesia, la cronaca giornalistica, la testimonianza...

Se volessimo sottolineare una cosa che unisce le voci che ci rispondono in questo numero, anche in questo caso in vari modi e in lingue differenti, questo sarebbe la passione. Passione di continuare a scrivere, raccontare, narrare e trasmettere storie nel mezzo di

Scrivere potrebbe sembrare, in questi tempi urgenti, una professione poco redditizia e ciononostante constatiamo, intervista dopo intervista, traduzione dopo traduzione, che scrivere non conosce frontiere, non identifica lingue, mercati o interessi, il che si traduce in quello che dicono e vogliono dire le persone che ci rispondono, che mostrano se stessi e rivendicano i loro intensi e vitali desideri di raccontare quello che provano, quello che li commuove, quello che i nostri occhi molte volte non possono captare d’immediato. Solo questo vale la pena dello sforzo che facciamo.

In questa epoca in cui ci è toccato vivere, piena di conflitti, guerre, pregiudizi e crisi di tutti i tipi (niente di diverso da qualunque epoca precedente), saper ascoltare, dimostrare interesse nel conoscere altre realtà, intendere e accettare chi abita in altre lingue, pratica credo differenti o ha altri costumi, si è trasformato in un valore in se stesso, un valore nettamente umano da rivendicare.

Ci sembra rilevante il perché il 9 sembri in realtà un 10. Nella conversazione che apre la rivista la scrittrice del Kuwait Bothayna alEssa parla esclusivamente della censura. Un termine minaccioso che continua ad essere troppo attuale e vogliamo lasciare sottolineato in rosso (il colore preferito dai censori) questo fantasma reale che persegue la letteratura dall’inizio dei tempi.

Per questo continuiamo, e continueremo, a domandare con curiosità alle persone che scrivono e ci raccontano storie e sentimenti. Non abbiamo una roadmap precostruita, ci interessano le lingue, le persone, le loro culture e i loro contesti diversi, nell’intento di intrecciare i creatori con i loro lettori reali, o potenziali, per condividere interessi e preoccupazioni al di là di qualunque distanza geografica, idiomatica, culturale o politica.

Le dichiarazioni di principio che ci offre Bothayna al-Essa sono un regalo di franchezza e integrità in mezzo ad una difficile realtà quotidiana, un “j’e accuse” alla censura diretta, strutturata e ufficiale, ma il tema ci sembra parecchio più ampio. Per questo vogliamo lasciarlo aperto, senza alcun pregiudizio culturale. Sempre sono esistiti modi diversi di censurare, limitare e condizionare i contenuti e le forme della letteratura, a seconda delle tradizioni e dai contesti culturali e storici di ogni territorio.

Abbiamo detto che le interviste sono 9, ma sicuramente ci saranno lettori minuziosi che si renderanno conto che in realtà sono 10. La ragione è che in realtà c’è una intervista che potremmo definire doppia, ovvero alla stessa autrice (e in questo senso, sono 9 gli intervistati).

Le sfumature della censura hanno anch’esse molto a che vedere con la distribuzione, con quello che è politicamente corretto o accettabile, le linee editoriali dominate dalle grandi catene del ramo (che a loro volto sono fram-

INTRODUZIONE

INTRODUZIONE

In questo secondo appuntamento ancora una volta sono nove gli autori e autrici che parlano delle loro inquietudini, dei loro processi creativi nel contesto in cui vivono, delle loro intenzioni e influenze culturali. Siamo tentati a prendere il nove come numero magico o distintivo, però al di là della cabala, lasciamo nuovamente aperto il microfono per poter così nuovamente ascoltare le voci di persone che scrivono e creano la letteratura, con il lavoro creativo di ogni giorno.

un’epoca dove prevale l’immediato, il sintetico, che tende a lasciar sfocate le importanti sfumature e dettagli che segnano le nostre vite e percezioni quotidiane, questa visione multi-polare che ci può permettere di comprendere e capire questo enorme e variegato insieme di persone che non sono “noi”. Per questo continuiamo a proporre questa specie di viaggio, come quello di Alice attraverso lo specchio, lo straordinario romanzo del XIX secolo, scritta dall’inglese Lewis Carroll, che ci rivela tutto al contrario o da diversi angoli.


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Se leggerete con attenzione vedrete che in alcune delle interviste questo sembra essere anche un tema trasversale e ricorrente in determinati contesti regionali, per questo vogliamo lasciarlo aperto, perché riteniamo che la solidarietà reciproca e attiva tra narratori e lettori in difesa della libertà di dire non è solo legittima. E’ imprescindibile. Le nove testimonianze che offriamo in questa occasione includono due autrici della variegata e ricca letteratura araba, la già citata kuwaitiana, Bothayna al-Essa e la palestinese

Sonia Nimr; lo scrittore e giornalista uruguaiano Fernando Butazzoni, premio nazionale di letteratura del suo paese; Joseph O’Connor, considerato il massiamo esponente della vitale letteratura irlandese contemporanea; gli interessanti scrittori italiani Enrico Palandri e Gianfranco Bettin; due narratori kurdi, Dilawer Zeraq e Muharrem Erbey, criminalizzati per difendere la loro identità e la loro lingua nella Turchia di oggi; e uno scrittore molto speciale perché ha deciso, dalla sua vita di guerrigliero delle FARC-EP (Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia - Esercito del Popolo), di fare letteratura dall’interno di una guerra civile che sembra davvero e finalmente destinata ad arrivare al termine, dopo l’accordo di pace firmato tra l’organizzazione guerrigliera e il Governo colombiano.

Nove voci diverse e differenti che rispondono in questa occasione in spagnolo, inglese, kurdo, turco, arabo e italiano. Ci congediamo augurandoci che le loro parole offrano spunti di riflessione e aiutino a crearci nostre opinioni: opinioni che, per essere solide, hanno bisogno di abbastanza più caratteri dei meri 142 che ci permette twitter. Petra Probst, artista e disegnatrice/autrice per l’editoria, ci ha regalato la meravigliosa “barchetta di carta” della copertina,e le illustrazioni il “bacio” che, come “le case dei libri”, compare all’interno. Il tema del disegno di copertina è dedicato al diritto alla cittadinanza e all’asilo politico ancorato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e fa parte di un progetto espositivo del Museo Diffuso della Resistenza di Torino. Il disegno “in viaggio” delle pagine centrali è pubblicato

in “Mein großes Liederbuch” da arsEdition, che ringraziamo per consentirci la riproduzione. Le interviste di questo numero sono state possibili grazie ad una ragnatela tessuta da Sawad Hussain, Marcia Lynx Qualey, José Miguel Arrugaeta e Orsola Casagrande. Le traduzioni sono di Sawad Hussain e Marcia Lynx Qualey (araboinglese), Berna Ozgencil (turco/kurdo-inglese), José Miguel Arrugaeta e Orsola Casagrande (inglese-spagnolo-inglese e inglese-italianoinglese), mentre la grafica e l’impaginazione sono di Maider Varela Artesoro. Le foto sono state donate dagli autori e autrici all’archivio Global Rights e la foto di Enrico Palandri è di Giorgia Fiorio.

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menti di poteri più globali), la vulgata e le verità presuntamente accettate...Dilemmi sempre complessi e molte volte dolorosi per quel che riguarda le opzioni che alla fine devono accettare e scegliere gli scrittori e le scrittrici.

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Preferisco essere fonte di vergogna del Ministero di Informazione che soggetta al bisturi della censura

Il Kuwait è stata un’eccezione tra le ferie del libro arabe, che sono generalmente spazi liberi o almeno più liberi. Nonostante la vibrante e

BOTHAYNA AL-ESSA /// KUWAIT

franca comunità letteraria del paese, dal 1998, la censura è aumentata. Un breve articulo in The Guardian, “It’s like they were selling heroin to school kids: censorship hits booksellers at Kuwait Book Fair”, dà una visione generale di questa situazione. Questa intervista con la scrittrice

nostante sia una scrittrice best-seller, di al-Essa in inglese è soltanto disponibile una traduzione nel numero “Kuwait” della rivista Banipal. La scrittrice è anche molto attiva in twitter dove può essere seguita cercando @Bothayna_AlEssa /// Text: Marcia Lynx Qualey

sibilità di ridurre i margini della censura, migliorare la relazione tra libri e lettori, rivitalizzare quanto è possibile la scena letteraria e la cultura intellettuale e scientifica. Recentemente abbiamo visto ferie vicine crescere con una serie di editori e titoli partecipanti, penso per esempio a Sharjah e Abu Dhabi (Emirati), Muscat (Oman), Riyadh e Jeddah (Arabia Saudita). Ma la situazione è differente in Kuwait. Il Kuwait gode del livello di libertà politica più alto della regione e l’ironia

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Bothayna al-Essa ci offre ulteriori dettagli e un contesto preciso. No-

Recentemente sono stata alla Feria del Libro Sharjah 2016 e, come altri anni, si possono trovare negli stand della Feria libri proibiti nelle librerie degli Emirati Arabi Uniti. Lo stesso accade in altri paesi. Sembra esserci un tacito accordo per cui le ferie del libro nei paesi arabi sono uno spazio “libero”. Perché questo non accade in Kuwait? E’ vero, molte ferie del libro nel Golfo in questo momento sono considerate zone libere, o almeno quasi libere. Questo offre agli organizzatori la pos-


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Negli ultimi anni il Ministero di Informazione ha perpetrato un vero “massacro letterario“ contro libri pubblicati in Kuwait e ha proibito molti degli autori più importanti della scena letteraria

Da allora l’arena culturale si è trasformata in un luogo ideale per ottenere vittorie politiche e risolvere problemi politici. La Legge sulle Pubblicazioni del Kuwait del 2006, conferisce al Viceministro di Informazione ampia facoltà di questionare libri, ma questo processo di censura non implica nessuna spiegazione. Per impugnare un

libro proibito uno deve passare per un doloroso e quasi infinito processo che il Ministero di Informazione non prende mai sul serio, per non dire dell’atteggiamento dei giudici e giurati. Negli ultimi anni il Ministero di Informazione ha perpetrato un vero “massacro letterario” contro libri pubblicati in Kuwait e ha proibito molti degli autori più importanti della scena letteraria, tra loro Saud Alsanousi, Abdullah al-Busais, Laila al-Othman, Mays al-Othman, Abdulwahab al-Hammadi, Dala Mufti, Sarah Mikemi, Arwa Qaqayan e tanti altri. All’inizio pensavamo che il blocco di deputati-falchi era responsabile della proibizione di tutti questi libri. Ma è ingiusto colpevolizzare solo loro, visto che esiste anche il Consiglio denominato “Consiglio di un voto” che permette che le decisioni del Ministero di Informazione siano esenti da qualsiasi reclamo, voto di sfiducia o bilancio al finale della decisione. Parallelamente

la proibizione è stata accompagnata da altre leggi di “sicurezza” come per esempio quelle che controllano internet o le tracce genetiche tra le altre. Che libri sono proibiti alla Feria e perché il tuo libro è fra questi? E’ difficile rispondere a questa domanda con dati certi, vista la segretezza del Ministero di Informazione sui libri proibiti e le ragioni per cui sono stati selezionati. Nel 2010 si è svolto uno studio sulla censura dei libri del Kuwait e i dati dicono questo: il 25% erano romanzi l’11% poesia, il 10% studi e ricerche accademiche, il 6% erano memorie e biografie, il 5% storia e patrimonio e il 5% riguardavano temi politici. Il 29% dei libri non si identificò, ma da quando ho aperto la mia libreria e lavoro nel settore dei libri, posso assicurare che si trattava di opere letterarie e intellettuali.

Negli ultimi sei mesi si sono presentati circa 500 libri al Ministero di Informazione. In tre mesi il Comitato si è riunito soltanto una volta e ne ha presi in considerazione 11, di questi ne ha autorizzato soltanto uno. Questo ci dice fino a che punto questa politica si è trasformata in una situazione ridicola nel caso del Kuwait dove concetti come permettere un libro è un’eccezione. Perché proibire libri? Ci sono varie ragioni citate nell’Articolo 21 della Legge delle Pubblicazioni del 2006. Le principali sono: il “mantenimento dell’ordine pubblico”, la “protezione della sacralità” (dio e gli emiri), e la “preservazione della morale pubblica”. Ci sono altri organismi che possono presentare ragioni per proibire libri oltre al Ministero dell’Informazione, come ad esempio il Ministero dell’Awqaf e Questioni Islamiche (per le opere religiose) e il Consiglio degli Emiri (per i libri politici).

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è che questo ha portato ad una diminuzione della libertà di espressione. La democrazia può attaccare la sua stessa genesi, visto che la capacità che hanno le idee fanatiche e estremiste di creare influenza politica non si può negare. E’ iniziato nel 1998, quando il Ministro dell’Informazione Saud Nasser è stato interpellato in parlamento su quattro libri (di Nasr Hamid Abu Zeid, GhassanKanafani, Nawal El Saadawi e Adonis). Questo provocò le dimissioni del governo e un voto di censura.


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I lettori non possono comprare il mio romanzo nelle librerie qui in Kuwait, si vende sottobanco e questo mette in pericolo il libraio, come se stesse vendendo hascisc o eroina a bambini di una scuola

Però il problema non è la presenza di libri che non rispettano la morale pubblica o criticano la sacralità. Il problema è l’ampio potere interpretativo delle istituzioni censorie, per esempio è proibito un testo sulla mitologia babilonese o Una breve storia del Tempo, di Stephen Hawking. Bisogna poi citare scrittori come Nasr Hamed Abu Zeid e Mohamed Arkoun, dei quali è stata censurata la maggior parte delle opere sul rinnovamento del discorso religioso, e al tempo stes-

so si sono emesse contro di loro fatwa che hanno legalizzato il danno provocato a questi autori e la loro espulsione dalla comunità religiosa. Nel caso concreto del mio romanzo, Maps of Wandering, si argomenta che ha violato la “preservazione della morale pubblica” per una scena che riflette l’abuso sui minori. Però altri libri sono stati proibiti per ragioni anche più assurde, come il romanzo The Taste of the Wolf (Il gusto del lupo) di Abdullah al-Busais, vietata per usare

Perché è importante avere libero accesso ai libri nella feria? I lettori possono comprare il tuo libro nelle librerie di Kuwait? Perché è importante avere accesso ai libri? Perché il mondo arabo sta vivendo tempi estremi e siamo nel mezzo di guerre civili e di fazioni. Il Kuwait non è alieno a quanto accade in Iraq o Yemen e non è passato molto tempo dal recente attentato al santuario sciita propio qui nel nostro paese. Abbiamo bisogno di libri per rifiutare l’estremismo e promuovere il dialogo, abbiamo bisogno di poter essere in

disaccordo senza rischiare il nostro futuro e il futuro dei nostri figli. Abbiamo bisogno di libri perché abbiamo bisogno di vedere il mondo con i nostri occhi e non con quelli del censore, dobbiamo allontanarci dal comodo rimanere sotto l’ala del “guardiano” e cercare noi stessi. I lettori non possono comprare il mio romanzo nelle librerie qui in Kuwait, si vende sottobanco e questo mette in pericolo il libraio, come se stesse vendendo hascisc o eroina a bambini di una scuola. Che possono fare gli scrittori per cambiare questa situazione? Lo scrittore non può essere soggetto alla logica della censura. Quello che i censori vogliono è eliminare il significato essenziale della letteratura che è agitare e generare preoccupazione, fare domande al silenzio. La vera opera letteraria rivela un nuovo aspetto dell’esistenza, come dice Milan Kundera, e questo si può solo raggiungere penetrando nella storia non racconta-

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parole come “coscia” e “pipì” e altre che si possono trovare nelle opere islamiche classiche. E non possiamo non citare la proibizione del romanzo comico Mama Hissa’s Mice di Saud Alsanousi, accusata di violare l’ordine pubblico per la sua predizione di una guerra settaria tra sunniti e sciiti in un prossimo futuro, o ancora il recente romanzo di Abdulwahab al-Hammadi, censurato perché dal punto di vista del governo perché colpiva l’opposizione!


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Abbiamo bisogno di un blocco politico che difenda le nostre libertà. Finora i gruppi liberali e secolari sono stati incapaci di organizzare e presentare una posizione chiara

ta, nel terreno della politica, della religione, della società. Il ruolo dell’arte è rompere tabù mentre sottomettersi alla logica della censura significa addomesticare l’arte e rinunciare al nostro ruolo.

Abbiamo bisogno di un blocco politico che difenda le nostre libertà. Finora i gruppi liberali e secolari sono stati incapaci di organizzare e presentare una posizione chiara. La soluzione è emendare la Legge delle Pubblicazioni del 2006 e questo può accadere solo attraverso il Parlamento che è stato, come sappiamo, sequestrato dai religiosi. La speranza è ora negli sforzi di Sout al Kuwait (Voce del Ku-

Ci sono alcuni narratori grandemente riconosciuti nel panorama letterario del Kuwait...La censura può danneggiare gli scrittori nuovi e più giovani? Sì, la censura, la proibizione feriscono e danneggiano lo scrittore, l’editore, il libraio e anche il lettore. Per quello che riguarda lo scrittore, la censura provoca danni fisici e morali, però non importa in che modo aumentano la censura, in dimensione o ferocia, non credo che nessuno di noi smetterà di scrivere. Non puoi essere scrittore e non scrivere, la scrittura in questo caso deve mettersi sul piede di guerra come una forma di resistenza.

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Poco tempo fa hai pronunciato un discorso al Parlamento sulla proibizione dei libri. Il Parlamento può cambiare il destino dei libri? Chi può cambiarlo? Sì, ho pronunciato un discorso al Parlamento che è stato un appello affinché il Consiglio e il Governo risolvessero le loro controversie politiche al di fuori dell’arena culturale.

wait), un gruppo che dalla società civile sta attualmente facendo pressione sul Ministero dell’Informazione per lavorare con esso per migliorare l’efficacia del suo attuale sistema di approvazione dei libri. Questo gruppo ha già presentato un rapporto che include una indagine e una lista con 10 suggerimenti che migliorerebbero e riformerebbero l’attuale sistema.


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Le differenze sono una ragione d’essere, non solo una ricchezza

DILAWER ZERAQ /// KURDISTAN

Dilawer Zeraq è nato nella città di Amed (Diyarbakır) nel 1965. Laureato in matematica all’università Dicle, della stessa città, ha dedicato oltre trent’anni all’insegnamento di questa materia in licei e scuole superiori prima di essere sospeso dal lavoro dopo il fallito (e molto peculiare) tentativo di golpe in Turchia, a luglio 2016. Senza nessun processo né procedimento penale, Zeraq è stato interdetto dal lavoro statale per le attività culturali legate al mondo kurdo. Zeraq ha cominciato a pubblicare nel

raccolte di racconti e altrettanti romanzi che formano una trilogia. Ha curato la scrittura e redazione di dizionari e articoli e saggi di natura sociologica e teorica sulla lingua e la letteratura /// Text: J.M.A.- O. C.

Se parliamo di influenze culturali quali segnaleresti nella tua narrativa e formazione? Senza dubbio la maggior influenza che ho ricevuto è l’incredibile numero di varianti e profondità che offre la mia lingua materna, il kurdo. Di fatto la lingua kurda è una delle ragioni principali per cui scrivo. Nella mia narrativa c’è anche una notevole influenza della musica kurda, ugualmente varia e diversa e per questo per me interessante, per la sua capacità di trasformare parole in suoni e viceversa. Da un altro lato, la convivenza e differenze tra la

lingua kurda e le altre culture così presenti nelle nostre terre, come quella araba e quella turca, mi ha spinto a concentrarmi su queste differenze e a lavorare sulle loro radici. Per questo, parte del mio lavoro è stato dedicarmi per venti lunghi anni alla scrittura di un dizionario di espressioni e circonlocuzioni in kurdo. Parlaci del tuo primo libro, Kakil (Essenza). Raccontaci la sua genesi Kakil (Essenza) è una storia che ho scritto durante anni difficili che vanno dal 1998 al 2001. L’ho pubblicato nel 2002 ed è composto da 9 racconti con al centro bambini e donne. Parla degli alti e bassi dei sentimenti, pensieri, problemi, pratiche disumane e conflitti interiori che affrontano le persone che sono state costrette a emigrare in maniera forzata verso le città perché l’esercito turco bruciava e svuotava i loro villaggi. Una politica di evacuazione forzata molto comune in quegli anni. Questi profughi interni hanno dovuto vivere in pessime condizioni, con grandi carenze economiche, in un ambiente che

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1995, opere sue ma anche traduzioni dal turco al kurdo. Ha pubblicato tre

Matematico, professore, saggista e linguista. Hai mai pensato di dedicarti solo alla narrazione? Ho cominciato a scrivere opere letterarie nel 1995 e chiaramente nel mio cuore ho sempre nutrito e mantenuto l’idea di essere solo scrittore, però ho dovuto essere realista. La letteratura kurda non ha molta diffusione né molta domanda per cui ho sempre dovuto fare altre cose per mantenermi e pagare le bollette.


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Non ho scritto questi romanzi con l’idea di denunciare una terribile realtà, ma piuttosto con l’intenzione e guidato dallo sforzo di convertire questa realtà in una verità

non era per niente familiare. Questa è stata la ragione che mi ha spinto a scrivere quel libro, le situazioni e sfide che hanno affrontato soprattutto quelle donne, in quanto donne.

Mi spiego. La persona che viene fatta scomparire lascia dietro di sé una possibile morte, una perdita che non è accettabile. E’ una morte senza ombra. L’espressione “senza ombra” parte dal fatto che non c’è una causa di questa morte, e nemmeno responsabili perché sono “sconosciuti”, non vogliono essere conosciuti. Però quelli che restano e devono affrontare questa

Quella dei desaparecidos, gli scomparsi, è tragicamente una realtà condivisa in altre latitudini, per esempio in America Latina, e ha ispirato opere in altre letterature. Per questo vale la pena soffermarsi su questa tragedia. Puoi parlarci del primo romanzo, nel quale racconti delle Mamme del Sabato Sì, le Mamme del Sabato, madri, mogli, sorelle e figlie degli scomparsi, sono un movimento sociale e civile oltre che le persone che forse soffrono in maniera più profonda e intensa il dolore al quale mi riferivo prima della scomparsa. Perché queste donne non sono solamente parenti dello scomparso, ma sono anche quelle che più

soffrono per essere rimaste, in loro si incista un dolore indelebile, nel cuore, nell’anima, nella vita. E’ un dolore che aumenta in maniera direttamente proporzionale alla diminuzione della speranza di incontrare lo scomparso. Tuttavia il cuore e l’anima di queste donne sono più forti dello stesso dolore, perché queste donne sono state capaci di affrontare questo dolore anziché in-

teriorizzarlo. Inoltre la stessa nascita della Mamme del Sabato e le loro azioni hanno aperto uno spazio pubblico diverso per l’auto-espressione delle donne kurde, una lotta separata per la loro esistenza. E in questo spazio hanno combattuto. Nel secondo romanzo, Mirina Bêsî (Morte senza ombra) affronti la sto-

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Dopo di che ha scritto tre romanzi che formano parte di una trilogia. Anche qui sono fatti reali trasferiti alla finzione I tre romanzi compongono effettivamente una trilogia e sono Şevên Winda Wêneyên Meçhûl (Notti Perdute. Immagini Sconosciute), Mirina Bêsî (Morte senza ombra) e Nex ên Li Giyan (Cisti nell’anima). Non ho scritto questi romanzi con l’idea di denunciare una terribile realtà, ma piuttosto con l’intenzione e guidato dallo sforzo di convertire questa realtà in una verità. Credo che la realtà stessa delle “sparizioni” sia una fonte di dolore che in un certo modo va al di là della perdita di una persona amata e anche della stessa sparizione.

morte senza ombra non possono “piangere, accettare, ricomporsi”. Il dolore che provoca una sparizione non trova nemmeno uno sbocco nella consapevolezza della morte, perché la sparizione porta con sé la speranza che lo scomparso “possa tornare, possa essere un giorno ritrovato”. Questa speranza, a sua volta, si sviluppa come una perdita di speranza palatina man mano che passano i giorni. Il dolore diventa parte del corpo e del cuore nei quali si incrosta, si incista. E’ in questo momento che il termine “scomparso” (desaparecido) si converte in una realtà che “non può scomparire mai più”.


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ria reale di Vedat Aydın, politico kurdo che fu fatto scomparire negli anni ’90 e fu però “incontrato” Sì, in un certo modo lui rappresenta il contrario della “morte senza ombra” della quale abbiamo parlato prima, qualcosa di simile ad un antieroe. I resti di moltissimi scomparsi non sono ancora stati ritrovati, mentre il corpo di Vedat Aydın è stato trovato e sepolto. La famiglia ha potuto piangere Vedat, c’è stato un processo di accettazione della sua morte, diciamo così, che i famigliari hanno potuto sviluppare. In questo secondo romanzo, direi che il tema principale è una specie di viaggio attraverso i fatti e gli avvenimenti vissuti dalla gente che ha fatto parte della lotta per la democrazia e la libertà prima del cruento colpe di stato del 12 settembre 1980 e che è durata fino alla fine degli anni ’90. Questo romanzo affronta il tema della coscienza crescente della società kurda in quella dura tappa, relazionata a comportamenti sociali, percezioni e necessità della vita stessa. Nell’ultimo romanzo, Nexşên Li Giyan (Cisti nell’anima), lavori sul cambio sociopolitico e il processo di

trasformazione umana fino alla fine degli anni 2000 attraverso due ragazzi e due ragazze che hanno condiviso la loro adolescenza. In questo romanzo, come nei due precedenti, ho cercato di stabilire un vincolo, una relazione con le Mamme del Sabato e le donne, restituendo al lettore i processi di rinnovamento, conquiste e lotte dei protagonisti. Ho cercato di rappresentare il ruolo attivo e protagonista delle donne kurde attraverso la loro vita, le loro relazioni e le loro forme di lotta. Scrivi in una lingua che è stata proibita per molti anni. Che significa per te scrivere in kurdo, la lingua che hai definito materna? Il significato ha a che vedere con il senso di appartenenza ad una lingua e alla sua cultura. Appartenere ad una lingua, sentire una lingua e una cultura, sentire e vedere che la lingua e la cultura alle quali appartieni ti distingue da altre persone, questo è ciò che significa. In altre parole, essere differente, essere consapevole e sentire queste caratteristiche specifiche

ti permette assumere, adottare facilmente altre diversità e manifestare un atteggiamento di curiosità e avidità nei confronti delle differenze in generale. Per questa ragioni potremmo dire che scrivere in kurdo mi ha collocato in una cornice democratica, mi ha dato una visione più progressista del mondo e di quello che mi circonda. E’ vero che scrivo in una lingua che è stata proibita per molto tempo e ciononostante questa lingua ha trovato e conquistato la sua sfera di vita e libertà. E questo mi arricchisce. In che modo il kurdo può recuperare lo spazio perso e adattarsi ai cambi sociali normali in qualunque società? Nel mondo di oggi il discorso collegato all’apprendimento di una lingua dipende anche dalla lingua della quale stiamo parlando. Per esempio è vero che la maniera di imparare la lingua materna è praticamente uguale, non importa quale sia l’idioma, però questa lingua che uno apprende da piccolo deve essere sostenuta da una educazione sistematica in questa stessa lingua e così si può trasmettere alle successive generazioni. I mezzi di comunicazione, l’arte, la letteratura, la musica sono senza dubbia alcuni di questi supporti. Ciononostante le lingue che non possono contare sull’appoggio statale o non hanno continuità nel sistema educativo inevitabilmente tendono a con-

sumarsi, in alcuni casi a trasformarsi in ombre o in un peso. Se non c’è appoggio da parte delle istituzioni, mi sembra che le altre soluzioni siano sempre temporanee. Hai sofferto qualche censura nel tuo lavoro di scrittore? Personalmente, fino a questo momento, non ho sofferto censura nel mio lavoro come scrittore. Come si distribuiscono i tuoi libri? I miei romanzi e racconti sono stati pubblicati da editrici kurde, il che equivale a dire con pochi mezzi e una distribuzione precaria. Inoltre la mia opera non è stata tradotta in altre lingue. Parliamo un po’ della scena letteraria kurda, del mondo editoriale kurdo, di riviste, programmi culturali... A parte le pubblicazioni delle case editrici, la scena letteraria kurda si articola attraverso letture, presentazioni di libri e incontri, anche se - bisogna dirlo - sono attività limitate. Forse in modo più proficuo gli autori e lettori kurdi si incontrano in ferie, giornate di lettura o giornate dedicate alla lingua kurda. Questo tipo di appuntamenti si sono stati organizzati con più frequenza in questi ultimi anni. Ci sono ancora pochi programmi di televisione che promuovono la nostra lingua e la sua letteratura.

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Scrivere in kurdo mi ha collocato in una cornice democratica, mi ha dato una visione più progressista del mondo e di quello che mi circonda


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Il progetto di Autonomia Democrática lanciato da Abdullah Ocalan [il leader kurdo incarcerato nell’isola di Imrali dal 1999] pone l’accento sullo sviluppo delle lingue e culture che convivono fin dall’antichità. Dall’altra parte, però, lo stato turco continua a reprimere e negare le differenze culturali. Perché questa paura? Non è facile essere consapevoli e apprezzare che la diversità e la differenza in realtà arricchiscono le persone. Pertanto il problema principale è che la gente sia consapevole di essere diversa.

Come nascono i personaggi, le trame? Nel mio caso non possono separare i personaggi dalla storia della quale saranno protagonisti o che vivranno. Per questo le due cose si sviluppano insieme, a volte la storia condiziona il personaggio o viceversa.

Poche persone sono coscienti della ricchezza intrinseca nelle differenze e molti vedono queste differenze come una minaccia. Dal 1923 ad oggi la gente è stata indottrinata sistematicamente da un sistema che sostiene che la Turchia è una sola, indivisibile, con una sola lingua e che tutti siamo uguali, uniti dalla “turchità”. In questa ideologia sta la risposta alla domanda, di che cosa ha paura il sistema. Essere differenti ed essere consapevoli di questo è difficile, e una sfida costante.

Ti senti parte di una generazione letteraria? Nel 1992 la lingua kurda conquistò alcuni spazi, dopo essere stata praticamente vietata. In quegli anni nacque una rivista chiamata Rewşen che si pubblicò fino all’inizio degli anni 2000. Ho scritto molto articoli per questa rivista e battezzai gli scrittori di questo momento Generazione Rewşen. Sì, mi considero una scrittore kurdo che appartiene a quella generazione. Noi scrittori kurdi siamo soliti incontrarci a eventi letterari, ferie, presentazioni di libri, dibattiti che ci permettono una discussione a volte molto interessante.

Ritornando alla tua opera, parliamo del tuo processo creativo...

Pensando a tutto il Kurdistan, come definiresti l’attuale scena letteraria?

Nel Kurdistan del Nord, la parte turca, dove il kurdo non è ancora parte integrale del sistema, la letteratura in kurdo è scarsa

La geografia del Kurdistan, come sappiamo, è divisa in quattro parti e pertanto lo stesso accade alla nostra lingua. L’opera dove si parla sorani, ossia il Kurdistan iracheno, è stata poco conosciuta per anni. Oggi ci sono molti sforzi diretti a superare questa situazione attraverso traduzioni da un dialetto all’altro. La letteratura kurda vive gli stessi problemi della lingua, per esempio qui nel Kurdistan del Nord, la parte turca, dove il kurdo non è ancora parte integrale del sistema, la letteratura in kurdo è scarsa, nonostante la maggioranza della popolazione sia kurda. Ma la lingua non si insegna nelle scuole. Possiamo dire che la letteratura kurda in ciascuna delle quattro parti del territorio in cui è diviso il Kurdistan sta cercando avanzare e progredire ma che i risultati sono ancora pochi.

Che autrici e autori segnaleresti? I romanzi e racconti di Helîm Yûsiv, Sebrî Silêvanî, Şener Özmen e Eta Nehayî, così come le poesie di Berken Bereh. Spero che i loro libri siano presto tradotti in altre lingue. Che rapporti hanno gli scrittori turchi e kurdi tra loro? La letteratura turca ha raggiunto una qualità molto alta. Penso che lo stesso accadrà con la letteratura kurda una volta che la lingua sia veicolare. Mi dispiace dire che non hai una relazione stretta e sistematica tra scrittori kurdi e turchi. Credo dipenda dal fatto che molti scrittori turchi non riescono a liberare la loro mente e ad essere coscienti delle differenze, come dicevo poc’anzi. Molti di loro non sentono la necessità di stabilire relazioni con la letteratura kurda e partecipare ai dibattiti su lingua e letteratura.

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Se una forma di vita, una cultura, dipende dal fatto che tutto quello che esiste assomigli a lei, che tutte le lingue derivino dalle sua, come può essere la Teoria della Lingua del Sole inventata per il turco, senza nemmeno chiedersi se è vero, non possiamo aspettarci che questa cultura sia democratica. E la situazione in Turchia è questa.

Il processo di creazione a volte è molto piacevole, a volte estremamente complesso e doloroso. Dipende da quello che sto scrivendo. Mi piace scrivere a casa. Quando scrivo romanzi e racconti ho bisogno di chiudermi in me stesso, lasciar fuori tutte le voci e i suoi per potermi concentrare ad ascoltare soltanto la mia voce interiore. Ciononostante se sto lavorando, per esempio, ad un dizionario o ad una traduzione, allora mi piace che mi accompagni della musica, in genere musica classica occidentale.


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All’inizio non so esattamente che storia racconterò ma ne sento la consistenza

ENRICO PALANDRI /// ITALIA

Enrico Palandri è nato a Venezia nel 1956. Suo padre era un ufficiale di carriera e sono Enrico è cresciuto in diverse città fino agli anni

anni prima di tornare a Venezia. “Dovrei dire piuttosto di venire a

Quando e come hai cominciato a scrivere? Ho sempre scritto qualcosa, fin dall’infanzia. Nell’adolescenza ho scritto canzoni che accompagnavo con la chitarra, poi sempre più prosa e poesia. Purtroppo canto molto meno, o meglio canto nella mia mente quando scrivo. Le canzoni mi piacciono sempre molto, ma non succede quasi più, come accadeva quand’ero più giovane, che una serata finisca con la chitarra a cantare canzoni. Quando sono andato a Bologna a studiare che ho cominciato a scrivere davvero. Da allora non ho più davvero smesso, ho sempre avuto progetti su cosa scrivere e tutte le volte che mi metto al tavolino, che succede quasi ogni giorno, ho sempre qualcosa da scrivere, un progetto da portare avanti, e anche se non scrivo ce l’ho in mente, lo immagino, lo aspetto.

vivere a Venezia, - puntualizza - perché non era davvero la mia città prima del 2003”. Negli ultimi anni fa avanti e indietro tra Londra e Venezia regolarmente. /// Text: Orsola Casagrande

Quali sono i tuoi “riferimenti” letterari ma anche musicali, cinematografici... All’inizio, quando avevo 14 anni, c’erano tanto Bob Dylan e Joan Baez. Finché sono rimasto un ragazzo italiano mi sono nu-

trito di molta letteratura Americana; andando a vivere a Londra invece le cose si sono aperte, sia assorbendo meglio la nostra letteratura, da Dante a Tasso e Ariosto e soprattutto Leopardi. Ma anche leggendo Proust, Tolstoj, tanti grandissimi autori. Ho anche sempre letto letteratura antica, greca e latina. Da Virgilio a Omero a Marco Aurelio o Tacito. Nella musica le cose sono cambiate intorno ai vent’anni: ho iniziato dapprima ad ascoltare dell’Opera italiana, poi musica da camera, alla fine a cercare di suonare qualche brano, prima al violino, poi al pianoforte. Così mentre con la chitarra conosco soprattutto canzoni, al pianoforte ho imparato una ventina di pezzi di Mozart, Beethoven, Bach. Non avendo fatto studi sistematici non capisco tutto quello che suono, ma mi ha consentito di avvicinarmi un poco di più alla musica da camera, a capirla meglio. Il cinema l’ho sempre amato molto, ma la sua influenza è sempre stata meno profonda. Mi piace molto riguardare i film di Hitchcock o, in questi ultimi anni, la cinematografia scandinava degli ul-

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dell’università, quando è andato a vivere a Londra dove è rimasto 23

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Come nascono i tuoi libri? Come scegli la storia da raccontare? Nascono prima i personaggi, o prima il contesto? In altre parole, descrivici un po’ il tuo processo creativo All’inizio c’è un nucleo. Ad esempio la nostalgia (per Le vie del ritorno, oppure il congedo dalla giovinezza per Angela prende il volo). Ci penso senza sapere esattamente che storia racconterò ma ne sento la consistenza, il peso, mi sembra che lì ci sia qualcosa che vale la pena esplorare. Per Le vie del ritorno il libro è cominciato da quello che è adesso il secondo capitolo, in cui i due protagonisti si parlano sull’Isola di Skye e iniziano a indagare cosa significhi essere stranieri l’uno per l’altro. Da lì sono nati an-

che gli altri capitoli, in modo piuttosto articolato. Alla fine ho costruito una cornice. Per Angela prende il volo ho invece girato intorno al materiale senza scrivere molto per qualche mese. Poi un giorno ho dato un passaggio a Ophelia Redpath, che ha fatto la copertina Feltrinelli, da Cambridge a Londra, e lei mi ha raccontato della morte di suo padre. Non la conoscevo particolarmente bene, ma quel racconto ha come dato il la alla storia che volevo raccontare, che ho poi scritto abbastanza rapidamente, un paio di anni che è per me molto poco. Direi che ogni libro si scrive da solo quando trova il punto in cui sgorgare alla superficie. A volte con più fatica. La storia, l’intreccio, sono importanti se sono realmente il percorso che quel nucleo compie per svolgersi, altrimenti rischiano di essere un elemento superficiale che dà la sensazione di un movimento che non si svolge. Mi è accaduto, non nei romanzi che ho pubblicato ma in altri cui ho dovuto rinunciare. Man mano che procedi forzi il tuo materiale e sei forzato da lui fino a quando quel che si è dato forma non puoi più davvero toccarlo perché si è separato da te. In questo senso lo svolgimento, la narrazione, l’intreccio è più importante di qualunque cosa perché è quello che davvero racconta nel romanzo. I personaggi nel romanzo sono per me di solito delle figure amiche, cui mi affeziono per qualche tempo, cerco di pormi dei problemi dal loro punto di vista. Alcuni hanno un modello nella vita reale piuttosto chiaro all’inizio. Man mano che procedi nel lavoro però questa somiglianza diviene sempre meno ovvia, il loro legame è con le motivazioni interne di quel personaggio,

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timi venti anni, soprattutto Andersson e Ostlund, ma purtroppo quando riguardo I film che mi erano sembrati così illuminanti trenta anni fa, come Tarkovskij, faccio fatica a capire cosa mi fosse parso tanto interessante allora. Credo che per l’ampiezza del testo, che include dialoghi, immagini, musica, costume e via dicendo, un film appassioni molto immediatamente, ma invecchi anche molto prima perché le canzoni appaiono datate, i vestiti fuori moda, proprio quello che ci invitava a riconoscerci con tanta immediatezza risulta rapidamente estraneo. Sarebbe la stessa cosa con il romanzo credo se potessimo ascoltare le canzonette che ascoltava Flaubert o i maniersmi dell’abate Prevost, ma non li vediamo. Leggiamo di sentimenti che restano, appaiono restare, molto più simili di generazione in generazione.


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il suo rapporto con le circostanze che si svolgono nel romanzo, e inevitabilmente finisce con il lasciarsi indietro il modello da cui eri partito.

Che importanza ha il linguaggio nella tua narrativa? Nel romanzo è una conseguenza di scelte che si fanno più a fondo. La semantica è contesa tra territori diversi, alcuni inconsci, altri consci, alcuni legati a vicende storiche e pubbliche e altri molto privati. Il nucleo di cui parlavo prima è un nucleo semantico. A questo si attaccano, nel tentativo di svolgersi del discorso, questioni sintattiche e lessicali che alla fine diventano la voce del libro. Credo che alla fine sia la mia voce, ma arrivarci è un percorso lungo e mai completamente soddisfacente. Per questo direi che è una conseguenza di molti problemi che ci si sono posti e ai quali si è tentato di rispondere. Se penso a Boccalone e I Fratelli Minori, penso che sono due romanzi importanti per molti versi: da un lato ci restituiscono due periodi della storia italiana diversi ma connessi tra

I fratelli minori è ovviamente più meditato: chiude un lungo ciclo in cui ho parlato di sradicamenti. Ho scelto tre momenti, uno nel 1976, uno nel 2003 e un altro in un imprecisato anno successivo. Il ’76 e il 2003 furono anni di siccità e la mancanza di acqua, il senso di soffocamento, la necessità di ritornare a vivere sono il vero filo delle diverse storie che si raccontano. A opprimere i personaggi è la sensazione che altri, i fratelli maggiori, sia quelli letterali che quelli metaforici, abbiano vissuto prima di noi, per noi quello che è stato poi difficile vivere. Non esistono ovviamente fratelli maggiori, in questo senso. A tutti l’acqua è negato da qualcosa di più grande, la siccità, appunto. Ma nell’evoluzione di questi personaggi il fratello maggiore era anche quello che impediva o comunque ingombrava la relazione con la madre e il padre, interdiva l’intimità, che si è così sviluppata clandestinamente, non in una sfida alla storia ma in una fuga. Ma è meglio che mi fermi o faccio di questa risposta un altro romanzo.

Solo un paese con un buon livello di educazione media e seri investimenti culturali può affidarsi alla democrazia

Come definiresti lo stato di salute della letteratura italiana? E in generale che hai letto di interessante ultimamente? mi riferisco a narrativa soprattutto Se parliamo del romanzo, quello italiano ha vissuto una stagione importante nel dopoguerra quando ha improvvisamente scoperto dei lettori. Questo processo si è sviluppato in modo coerente, provocando diversi snodi e sviluppi, per tutto il periodo successivo. Si sono sviluppati generi, da quello poliziesco a quello sentimentale, dalle storie di mafia a quelle politiche. Questa credo sia una situazione piuttosto salubre, anche se non conosco i dettagli di vendite. Se in questo tessuto nasceranno grandi scrittori lo vedranno i nostri posteri. Certo non è immaginabile Shakespeare senza il teatro Elisabettiano o Verdi senza che l’opera italiana avesse avuto lo sviluppo che aveva avuto. E la politica delle case editrici? Puntano solo su titoli “sicuri” o c’è qualcuno che “rischia”? Mi sembra anche questo un quadro interessante, con tante vocazioni diverse. Sono praticamente sparite le riviste letterarie o più in generale culturali. Perché? davvero era un problema di mercato? Le riviste sono la voce di gruppi. Quindi spesso di città, dove si riuniscono co-

mitati editoriali e discutono di come elaborare e proporre un discorso culturale e politico. Io sono stato coinvolto in alcune imprese molto belle, oggi non saprei da dove cominciare. Gli amici con cui ho fatto politica e scritto sono molto distanti gli uni dagli altri. Io li sento abbastanza regolarmente, o ne sento alcuni, una mezza dozzina, ma non so se fare una rivista è quello che ci piacerebbe. Vedremo, non è mai detto... Sono anni ormai che l’Italia non investe sulla cultura (e nemmeno sull’educazione). Che cosa si può fare per invertire questa tendenza prima che sia troppo tardi? O è già troppo tardi? Solo un paese con un buon livello di educazione media e seri investimenti culturali può affidarsi alla democrazia. Se non c’è un sistema educativo efficiente ci si ritrova con leader politici populisti che possono promettere di non far pagare le tasse o altre cose non realistiche, riscuotere consenso e non dover rispondere delle loro scelte. Si governa con squadre sportive e festival di musica leggera, sparando scemenze ad ogni dibattito politico per delegittimarlo. Anche a livello digitale (blog, social network) non c’è in Italia un grande fermento, contrariamente per esempio all’Irlanda dove gli scrittori nuovi (diciamo tra i 30 e i 50 anni) sono atti-

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Non direi che c’è un processo creativo che si ripete: l’unica cosa costante è il lavoro. Sedersi a scrivere, cosa che faccio ogni giorno per una ragione o per l’altra. Decidere che tra tutte le cose che accadono, il tempo che dedichi a guadagnarti da vivere, a cercare di essere presente e disponibile nelle relazioni umane che ti fanno, sia necessario difendere un tempo (e tanto tempo!) per dar vita a personaggi immaginari e storie che non sai dove andranno, ma che ti chiedono di lavorare. Poi ogni romanzo ha un suo diario di bordo che sarebbe complicato raccontare, e probabilmente non molto interessante.

loro. Boccalone ci parla di Bologna e dell’Italia della fine degli anni ’70, delle speranze, sogni, illusioni mentre I Fratelli Minori ci parla in qualche modo degli eredi di quegli anni, che hanno anche dovuto fare i conti con le delusioni della generazione precedente. Approfondiamo un po’ anche per un pubblico che non ha letto questi romanzi, che genesi hanno avuto i due romanzi? Che riflessioni ti hanno portato a scrivere I Fratelli Minori? Boccalone racconta quel che gli è accaduto in un anno e, la storia d’amore con Anna e la crisi del movimento degli studenti; raccontandolo, scopre forme, assonanze, tutto quello che può emergere intorno a quel nucleo. Un libro immediato e piuttosto efficace.


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31 vissimi anche in rete oltre che in mille iniziative, conferenze, readings. Perché secondo te? La cultura è considerata qualcosa di “elitario”? Non lo so. Sono un po’ fuori dalla fascia di età che descrivi...Mi sembra inevitabile che un prezzo sia pagato al ventennio berlusconiano in cui la società ha perso il carattere etico e progressista che l’aveva bene o male caratterizzata nel dopoguerra. In aula però trovo sempre giovani in gamba, assetati di etica e di capire, quindi non sono affatto pessimista sull’Italia.

volontaria a volte sia piuttosto velleitaria. Se faccio una campagna contro la pena di morte in un paese dell’estremo oriente dove non sono mai stato e dove non andrò mai, che contributo posso dare a parte quello del mio velleitarismo? Un altro discorso è invece per te intervenire sul Kurdistan, perché fa parte della tua storia. C’è già così tanto che fa parte di quello che siamo in un mondo globalizzato che il vero problema è accettare la responsabilità nei ruoli in cui agiamo e cercare di guidare la barca di cui teniamo le vele.

In una recente intervista lo scrittore irlandese Paul Murray diceva che gli sarebbe piaciuto vedere più coinvolgimento politico. E aggiungeva: “E’ molto complicato scrivere di politica e in un certo senso si suppone che gli scrittori non lo facciano, ma come diceva George Orwell: Credere che la politica non ha un posto nell’arte è di per sé una dichiarazione politica. Molti dei libri che escono e che sono ambientati in questo paese, sono in un certo modo nostalgici, raccontano un paese ideale e non quello reale delle banche, della crisi, della gente senza lavoro e senza casa”. Che commenteresti a riguardo? Mi sembra abbia ragione, ma come ti dicevo non credo si decida su cosa si scriverà. Tutto è politico, in un certo senso. Nasce a fondo e noi siamo ovviamente fatti anche di quello, anche quando non vorremmo. Proprio perché la politica fa così profondamente parte di quello che siamo non sopporto la propaganda, il volersi dichiarare attraverso luoghi comuni di sinistra o di destra per paura di essere visti come traditori o per guadagnarsi qualche facile patente progressista. Ognuno di noi è politico, presente in circostanze che gli chiedono di agire con intelligenza, umanità, rispettando dei principi. Credo che l’adesione

Che pensi dei premi letterari? Lo scrittore uruguaiano Ramiro Sanchiz diceva recentemente: “Non credo nei premi: mi sembra, anzi, che impoveriscano l’ambiente editoriale. in queste circostanze, dato che stampare in Uruguay è caro, le editoriali devono sopravvivere come business e questo implica alla lunga non rischiare, pubblicare solo cose sicure, conservatrici, dimenticabili o condannate dal proprio sistema attraverso, appunto, qualche premio”. Tu che pensi dei premi? Sono d’accordo. Diceva Leo Longanesi: non basta non vincerli, bisogna non meritarli. Anche questa vicenda del Nobel a Dylan ha qualcosa di grottesco da questo punto di vista, come se lui dovesse inchinarsi per ringraziare il maestro per il bel voto che gli ha dato in pagella. La violenza del premio è proprio in questo presupporre che qualcuno possa premiarti. E chi è? La letteratura? Il circolo delle pie dame di carità? La grande sinistra o la grande destra? La tradizione? La rivoluzione? Fanno parte del meccanismo editoriale e anche in parte di quello politico, sarebbe bello se riuscissimo a lasciarceli alle spalle, ma per ora mi sembra difficile.

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La storia del nostro tempo dev’essere scritta mille volte

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FERNANDO BUTAZZONI /// URUGUAY

Fernando Butazzoni è nato a Montevideo nel 1953. E’ stato militante dell’organizzazione guerrigliera Tupamaros e già esiliato ha partecipato, come volontario internazionalista al Fronte Sandinista che riuscì a sconfiggere la dittatura dei Somoza in Nicaragua, nel 1979. La sua carriera letteraria inizia proprio in questo stesso anno con il Premio di racconti Casa de las Americas di Cuba. Nel 2014 ha ottenuto il premio nazionale di letteratura dell’Uruguay, il Bortolomé Hidalgo, per il suo

risiede nella sua città natale. In questa intervista ci permette di avvicinarci non solo ad una interessante opera letteraria ma anche ad esperienze politiche di un recente passato /// Text: J.M.A. - O.C.

Quanto alla mia gioventù, il fatto è che mi arrestarono quando avevo 16 anni per aver partecipato ad una manifestazione studentesca. Botte, lacrimogeni e gattabuia. Questo mi fece vedere come funzionavano le cose. Lavoravo di giorno e studiavo di notte. Vedevo le ingiustizie ed ero un ragazzo inquieto.

Che letture ricordi di quegli anni? Quando avevo sette anni mi ammalai di epatite. A casa non avevamo televisione - credo nemmeno nel resto dell’Uruguay ci fosse! - così mi regalarono riviste e libri per bambini. Ecco, così è cominciato tutto, uno dei libri della collezione Robin Hood. Sono stato precoce: mi lessi Defoe, Dickens, Hope. E poi c’era “Bomba, il ragazzo della giungla”, che erano una serie di avventure in formato libro, scritta da un tal Roy Rockwood, che in realtà era lo pseudonimo di un editore che si dedicava a scrivere libri per bambini. In questo modo imparai anche qualcosa del commercio editoriale, fin da piccolo. Però sono grato a questo editore, perché da quel momento non ho più smesso di leggere e ritengo che la lettura sia una delle migliori occupazioni che può tenere l’essere umano.

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monumentale romanzo storico, “Le ceneri del Condor”. Attualmente

Come sono state la tua infanzia e la tua gioventù? Sono nato a Montevideo, in un’epoca in cui questa città era un paesotto, elegante ed europeo, però pur sempre un paesotto. Mio nonno materno vendeva verdure e ricordo che io andavo con lui per le principali vie della capitale. Questo ricordo potrebbe essere un buon riassunto della mia infanzia, epoca piena di povertà materiale, di diversione e di avventure. E’ stato un periodo magnifico.


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Passiamo alla tua militanza, prima nei Tupamaros Il mio ingresso nel MLN si produsse nel mezzo di un clima di grande agitazione politica in Uruguay, con repressione per le strade, prigionieri politici, oppositori perseguitati e in molti casi assassinati e un governo che ascoltava soltanto se stesso. Io ero un ragazzino e questo governo ci accusava tutti di essere una minoranza e di far parte di una cospirazione internazionale per rovesciarlo, ovviamente con aiuto e soldi stranieri. Era tutto falso, ma questo era il clima. Pacheco Areco non era tecnicamente un dittatore, era un despota, un autoritario che manipolava la Costituzione a suo gusto e piacere. Questa è l’origine della mia militanza tupamara, che si con-

cluse il 15 marzo 1985, il giorno in cui uscirono dal carcere gli ultimi prigionieri politici della dittatura. E in Nicaragua, durante la rivoluzione sandinista? Il Nicaragua tiene a che vedere con un impegno di solidarietà più maturo e più responsabile. La tirannia nicaraguense, non solo era la più antica d’America, ma era anche la più feroce. Era qualcosa di quasi gotico: celle di isolamento, torture, gente gettata in pasto ai leoni. E sia chiaro che non è una metafora: io ho visto le fosse dei leoni a El Chipote, le ossa umane. Rovesciare questa dittatura, istituzionalizzare di nuovo questo paese e convocare elezioni generali mi sembrò un buon programma di lotta.

Che valore ha oggi la militanza secondo te, nel senso più ampio del termine? Il valore della verità. Questo è uno dei grandi problemi che abbiamo avuto con la militanza. E’ stato fonte di conflitti, divisioni e lotte. Manca dibattito perché manca autocritica. E’ avvenuto tra i militanti comunisti europei e avviene oggi tra i militanti della sinistra in generale in America Latina. Non ci sono dibattiti di qualità perché non c’è un’approssimazione collettiva genuina alle possibili verità. Ci sono analisi della realtà, però la verità è un’altra cosa. In molte lingue realtà e verità sono sinonimi, ma non dovrebbero esserlo. La verità dei fatti non è aristotelica. Nietzsche scrisse in una delle sue lettere che “non ci sono fatti, ma interpretazioni”. Esagerava, chiaro, però è una dichiarazione che serve a mostrare che non tutto nasce e muore in Aristotele. Come nemmeno tutto nasce e muore in Marx. La società comunista è un’utopia perché è anti-dialettica: la sua venuta implicherebbe un congelamento, la eliminazione del conflitto e degli an-

tagonismi sociali che sono i veri motori della storia umana, proprio come insegna lo stesso Marx. Managua, 19 luglio 1979: i sandinisti prendono la capitale. Cosa ricordi di quei giorni? Ricordo lo sguardo della gente, libera e senza paura. Era emozionante vedere tutta quella gente festeggiare per le strade, ballando e cantando senza paura. La città era devastata. C’erano ancora cadaveri per le strade, barricate fumanti. Non c’era elettricità, né cibo. Furono quattro o cinque giorni da incubo, però allo stesso tempo di grandissima felicità. Nell’aria quello che si respirava era libertà. E’ un profumo inconfondibile, lo ricordo perfettamente. Come giudichi la situazione attuale della regione? La giudico molto criticamente. Il progetto delle sinistre non va da nessuna parte differente a dove andava il progetto delle destre: il capitalismo, più o meno selvaggio o civile, più o meno democratico, più o meno umanitario.

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il progetto delle sinistre non va da nessuna parte differente a dove andava il progetto delle destre: il capitalismo, più o meno selvaggio o civile, più o meno democratico, più o meno umanitario


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La sinistra sembra incapace di produrre alternative reali a un capitalismo in crisi strutturale però ancora feroce... Io ho un problema: sono sempre stato di sinistra, ma disfunzionale, atipico, un eterodosso. Nel 1990 ho criticato duramente il governo di Cuba e la piega che aveva preso la Rivoluzione, cosa che mi ha procurato una sorta di condanna di una parte della sinistra. Nel 2003, quando quelli che mi avevano condannato si scagliarono contro Fidel Castro, io ho appoggiato Cuba e questo ha fatto sì che molti intellettuali di destra mi attaccassero. Adesso, sono anni che dico che né Ortega è sandinista, né in Venezuela c’è rivoluzione. Tutti mi guardano strano. Però sì, credo che la sinistra non abbia generato alternative valide al capitalismo. Fallito il progetto sovietico, fallito il progetto cubano, l’unica cosa che ci resta è ricostruire un’alternativa, però questo avrà bisogno di decenni e sarà opera delle generazioni future, che speriamo apprendano dai nostri errori. Quando e perché hai cominciato a scrivere?

Non potevo fare altra cosa. Ero esiliato, in una specie di esilio doppio: a Cuba e dentro Cuba ero “esiliato” a Holguin a 800 chilometri dall’Avana, che era dove si trovavano la maggior parte dei miei compagni di lotta. Così mi dissi: cominciamo a raccontare qualche storia. Scrissi alcuni racconti, li mandai al Premio Casa de las Americas e vinsi la lotteria! Il Premio me lo hanno dato nel 1979. Poco dopo me ne andai in Nicaragua, per l’offensiva finale nel Fronte Sud. Quali consideri siano state le tue influenze culturali in generale? La Casa de las Americas, in primo luogo. Ho avuto la fortuna di lavorare lì per un paio d’anni, agli inizi degli anni ’80. E’ stata come una borsa di alti studi culturali. Lì ho conosciuto la creme della cultura latinoamericana, ho avuto una relazione abbastanza stretta con molti dei creatori più importanti di quel tempo, da Julio Le Parc a Cortazar. E sono stato molto vicino a Fernandez Retamar, che è stato una fonte di insegnamento e diversione permanente. Inoltre ci sono stati libri, romanzi che mi hanno segnato ed il balletto. Ero e sono un grande estimatore del balletto, e dalla danza classica ho imparato una cosa semplice e contundente che mi è servito molto per scrivere: la bellezza è una conseguenza del buon funzionamento di un determinato meccanismo artistico. Non è la causa, ma la conseguenza. Con la letteratura è lo stesso: la poesia di Borges è bella perché funziona alla perfezione. Lo stesso succede con

“Cent’anni di solitudine” o con “Il vecchio e il mare”. D’altra parte sono anche un ammiratore profondo dei fondatori di quello che si è poi chiamato “Nuovo giornalismo”. Questi fondatori sono stati: Gabriel Garcia Marquez, Jorge Vasetti e Carlos Maria Gutierrez. Gli altri, Truman Capote per esempio, sono venuti dopo. I veri inventori di questo incrocio tra reportage giornalistico e finzione narrativa sono stati quei tre. Come nascono e prendono corpo le tue narrazioni? Fondamentalmente, tutto quello che succede nella mia vita tra le sette del mattino e le cinque del pomeriggio è lavoro, anche quando ho qualche riunione o vado a passeggiare con le mie nipoti più grandi, o converso con Lucy, mia moglie, di questo e di quello. Questo vuol dire che tutto quello che accade, in un modo o nell’altro, finisce in “pentola”, e fa parte della minestra. Dopo viene la scrittura che, per fortuna, è un processo che non so bene come si produca. Non ho mai voluto smontare questo apparato, per paura di non saperlo rimontare. Quali sono gli elementi ai quali dai maggior importanza nella tua scrittura? Tutto è relazionato con tutto. Quando una storia non funziona è perché c’è qualcosa che non si incastra bene nel meccanismo. La storia e i personaggi sono quasi due facce della stessa medaglia: non esiste una senza gli altri. Poi c’è il tono, la tavolozza con cui si lavora.

E l’approccio, che per me è molto importante. Per dirla con linguaggio cinematografico: dove si deve mettere la telecamera? In accordo a questo, nel quadro compariranno determinate cose e altre non si vedranno. In una buona storia, quasi nulla si descrive. E’ lì ma non si racconta. E’ la teoria dell’iceberg del vecchio Hemingway. Non mi piace confondere il lettore con “varie telecamere”. Se c’è un’inquadratura che funziona, bene. Questa è quella che rimane. Chiaramente tutto è letteratura, ovvero parole. Bisogna scegliere le parole con attenzione, perché ogni parola è sacra e possiede un valore straordinario. Ci sono libri che si rovinano perché l’autore ha scelto male alcune parole. Ricordo sempre la frase “i topi presuntuosi” in uno dei primi romanzi di Faulkner. Per dio! Era Faulkner. Naturalmente io l’ho letto dopo che già si era convertito in uno scrittore magnifico, premio Nobel incluso. Però in ogni caso...una frase come quella ti rovina una storia. Topi presuntuosi? A chi può venire in mente di scrivere una cosa così terribile? Beh, ecco, a William Faulkner. Ti senti parte di una generazione letteraria? Sì certo. Però non so di quale. Non è una questione anagrafica né geografica. C’è un po’ di questo, più un po’ di spirito ribelle, più un sentimento di appartenenza all’universo latinoamericano, più una maniera di concepire la letteratura, non solo come un meraviglioso

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In molti casi, tra l’altro, ci sono processi politici e leaders che si considerano di sinistra ma che a me ricordano molto Jorge Pacheco Areco, che era di estrema destra. La sinistra latinoamericana ormai quasi non pensa. Più che idee quello che circolano sono trovate, o un anti-imperialismo piuttosto primario, tanto entusiasta quanto infantile.


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I più giovani mi entusiasmano. Ci sono molte buone scrittrici e alcuni buoni scrittori tra i giovani. Uno dei problemi che ha la letteratura uruguaiana è la sua endogamia

intrattenimento ma anche come una maniera di vedere e spiegare il mondo in cui viviamo. E’ una generazione complicata da definire e delimitare, però deve esistere, senza dubbio.

Parliamo di Las Cenizas del Cóndor (Le Ceneri del Condor). Come nasce l’idea del libro? Esattamente come lo dico nel libro. Conducevo e dirigevo uno dei programmi giornalistici più importanti di quel momento in Uruguay. Diciamo che ero una specie di “stella” del gior-

Dieci anni di lavoro... Sì perché le mie fonti si presero il loro tempo prima di accettarmi, per confidare in me e raccontarmi le loro storie. Poi mi mancava corroborare se quello che mi avevano raccontato era vero, e per farlo dovevo rivolgermi ad un’altra fonte, e poi a un’altra e a un’altra ancora. E la ciliegina sulla torta è stato incastrare il personaggio di Katia Liejman in questa storia. Non si è trattato solo di rintracciarla ma anche di darle plausibilità, perché, a priori, anche a me la storia di Katia, un’analista del KGB scomparsa a Buenos Aires, pareva poco realistica. E invece non lo era.

In questo libro ci presenti un’intera epoca, quella del Plan Cóndor, le connessioni tra dittature. Perché è importante ricostruire questo periodo così duro e violento? La memoria, la cronaca del nostro tempo deve essere scritta una e mille volte. Deve essere rivista e scritta di nuovo. Ogni giorno compaiono nuovi documenti e questo non solo getta luce su alcune cose ma cambia anche l’approccio. Diciamo che fino a poco fa eravamo illuminati dalla realtà dei fatti. Adesso possiamo attraversare questa realtà con la luce della verità. Nel libro c’è una “parte italiana”, che ha a che fare con il neo-fascismo, con Gladio, con Borghese. Come ti sei avvicinato a questa Italian connection? Licio Gelli, il factotum italiano di Gladio, aveva molte connessioni con l’Uruguay. Diciamo che si trattava di relazioni in-

time. Tra queste ne segnalo una: Umberto Ortolani, il suo banchiere preferito, che visse in Uruguay. Il figlio di Gelli, tra l’altro, oggi è ambasciatore del Nicaragua in Uruguay. Che te ne pare? E poi ci sono i fatti, la verità dei fatti: Valerio Borghese si riunì con Pinochet, Delle Chiaie è stato in Cile e a Buenos Aires in quel periodo. Loro erano Gladio. Devo segnalare che c’è un volume di informazioni su questo molto importante, soprattutto atti e risoluzioni del parlamento italiano, del parlamento belga, della giustizia di Roma. Mi sono dovuto leggere tutto questo materiale, piano piano, anche perché il francese non è la mia lingua. Questa è un’altra delle ragioni per cui ci ho messo tanto a scrivere il libro: le risoluzioni. Devo aver letto qualcosa come dodici o quattordicimila fogli di risoluzione. Adesso ho tutto digitalizzato, se no Lucy mi uccide...

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Come consideri la letteratura uruguaiana contemporanea? I più giovani mi entusiasmano. Ci sono molte buone scrittrici e alcuni buoni scrittori tra i giovani. Uno dei problemi che ha la letteratura uruguaiana è la sua endogamia. In questo senso credo che siamo un po’ chiusi e finiamo con creare prodotti con una serie di tara che sono il risultato di questa endogamia: io leggo te e tu leggi me. Come scrisse Gelman: “Mio dio/ che belli eravamo”.

nalismo. Un giorno, un ragazzo mi chiese aiuto. Mi disse che pensava di essere figlio di desaparecidos. Il mio solo merito letterario è stato giornalistico: cercare e tirare il bandolo con pazienza fino a sbrogliare queste matasse, che erano due. Perché il ragazzo che mi aveva chiesto aiuto alla fine non era quello che credeva di essere. Tutto era diverso o anche più ingarbugliato. Più incredibile e più doloroso.


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L’oblio selettivo è una tendenza naturale delle società e delle persone

Ti sembra che ci sia un oblio selettivo di quella tappa? In che misura c’è stata giustizia? L’oblio selettivo è una tendenza naturale delle società e delle persone. Nel nostro casa questa tendenza è stata rafforzata per anni da una predica continua destinata a infondere paura. In ogni caso, le società non sono solo i governi, né solo i militari, né solo i partiti politici. Sono molteplici i fattori che interagiscono. In Uruguay abbia-

mo svolto due plebisciti per derogare leggi che garantivano impunità a chi aveva violato i diritti umani. Entrambe le volte abbiamo perso. La giustizia è arrivata con il contagocce, così come la riconciliazione. I professionisti dell’odio sono ovunque e non vogliono nessuna giustizia, né vogliono nessuna riconciliazione. Però la mancanza di progressi in materia di giustizia è responsabilità di tutta la società uruguaiana. E’ molto comodo dar la colpa “ai militari”, quando in realtà tutti, in un modo o nell’altro, dobbiamo assumerci le nostre responsabilità, per azione, omissione, vigliaccheria o indolenza. In questo senso, la Colombia si trova attualmente nella fase di implementazione di un processo di pace dove il concetto di “riconciliazione” è una delle pietre miliari cruciali per il suo successo. In che misura questo processo potrebbe essere diverso da quelli vissuti nel sud del continente? La cosa fondamentale è che sono passati molti anni. I colombiani hanno di fronte le esperienze dell’Argentina, dell’Uruguay, del Cile. Di tutto il continente, quasi. Ogni processo è particolare e non conosco in dettaglio quello colombiano. Però io che ho combat-

In un mondo in cui l’identità sembra essere in una crisi profonda, come riscattare e ridefinire questo concetto? Cos’è per te l’identità? L’identità è la capacità e la possibilità di essere cosciente di chi sono, mi trovi dove mi trovi. Si trata di un concetto intimamente relazionato con quello di libertà. Essere libero è avere identità. E avere identità basicamente è essere libero. Mi sembrano ogni giorno più irrazionali i tentativi di limitare le libertà individuali delle persone. Questa è la mia identità: la libertà. Che sentimenti provocano in te i conflitti armati attuali che sembrano mettere l’accento sulla distruzione delle culture e l’annichilamento delle minoranze? Dunque, la mia risposta non può che essere disfunzionale perché, come ho detto, io sono così. Un buon esempio è il conflitto arabo-israeliano. E’ vero che i palestinesi hanno pieno diritto di costruire uno stato, il loro stato. Allo stesso tempo è vero che gli ebrei sono una minoranza in Medio Oriente e che da decenni affrontano guerre di maggior o minor intensità il cui obiettivo dichiarato è cancellarli dal pianeta. Personalmente penso che la minoranza ebrea abbia diritto ad esistere e che non possiamo permettere che la cultura ebraica sia perseguitata o eliminata da una grandissima maggioranza

di fedeli musulmani. E’ solo un esempio, però mostra la necessità di difendere i più deboli. E’ chiaro che l’attuale governo di Israele è la peggiore delle cose che potevano capitare a questa zona. Netanyahu gira con un secchio di benzina in mezzo ad un incendio. Però i governi vanno e vengono (o almeno, così dovrebbe essere). I popoli come quello palestinese o l’israeliano o il siriano o l’iracheno, sono quelli che soffrono le smanie egemoniche. Difendere le minoranze è difendere a cappa e spada tutti i diversi, non solamente quelli del mio lato. Difendere i diversi sessualmente, intellettualmente, quelli che dicono no, quelli che pensano in maniera diversa. Che ruolo può giocare la cultura nella soluzione dei conflitti? Credo che può soprattutto svolgere un ruolo nella prevenzione dei conflitti. La cultura è relazione. Avvicina, unisce. L’ignoranza, l’isolamento, la mancanza di legali, imbruttisce e rende la gente violenta e preoccupata. La cultura è utile nella misura in cui ci fa pensare, cosa assai rara oggigiorno. Basta vedere i presidenti che abbiamo: Trump, Putin, Rajoy, Maduro, Ortega: sembra il cast de “Il Pianeta delle Scimmie”. Questa lista, che si potrebbe allungare, è composta da presidenti che in ogni caso sono stati eletti dalla cittadinanza. Non è che parli molto bene di noi, elettori e cittadini.

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Un libro che è un romanzo e al tempo stesso analisi e inchiesta dettagliata e che mantiene una tensione costante Ritorniamo ai tre mostri meravigliosi: Garcia Marquez, Masetti e Gutierrez. Il giornalismo d’inchiesta è o può arrivare ad essere letteratura e questo offre certe possibilità per narrare. Già nel 1984, quando ultimai la prima versione di “El tigre y la neve”, si vedeva bene questa idea. Il giornalista e lo scrittore di finzione sono una sola persona. Mi hanno chiesto: ma questa è finzione? E’ un reportage? E la risposta che mi viene da dare è questa: che importa? La etichetta di romanzo mi piace, però le etichette in generale servono a poco, eccetto a non confondersi con la medicina da prendere.

tuto in una guerra credo che la pace sia l’obiettivo più lodevole di tutti.


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Più che scrivere storie, le racconto

E adesso sai perché scrivi per bambini e adolescenti? Ho appena compiuto 62 anni ma continuo ad averne 16, non ho mai cercato di lasciarmi alle spalle la bimba che ho dentro di me, l’ho tenuta sempre lì. A volte esce attraverso i libri, a volte attraverso altre cose. Sono professoressa all’università di Birzeit e nelle mie lezioni continua ad uscire la bambina che ho dentro.

SONIA NIMR /// PALESTINA

Approfittando delle giornate di lavoro del Festival degli Emirati, LitFest, ab-

Hai cominciato a scrivere in un carcere israeliano, negli anni ’70... Si quando ero in carcere ho scritto due racconti che furono requisiti. E allora pensai: ah, posso scrivere libri per bambini!

biamo intervistato la scrittrice e storica palestinese, Sonia Nimr, autrice di oltre una dozzina di libri per bambini e adolescenti. Il suo romanzo Wondrous Journeys in Strange Lands (Rihlat Ajeeba fi al-Bilad al-Ghareeba) ha ottenuto il Premio Etisalat 2014 di letteratura araba per bambini e adolescenti; mentre il suo libro di racconti Ghaddar the Ghoul and Other Palestinian Stories è stato pubblicato in inglese /// Text: Marcia Lynx Qualey

Perché hai scelto i bambini come lettori? Allora non lo sapevo, si trattò di una sensazione, pensai che era quello che volevo scrivere. Avevo 20 anni. Poi, quando visitai il British Museum, scrissi due racconti in inglese, entrambi basati su storie popolari palestinesi. Non vennero pubblicati in inglese ma in arabo, nel 1996, dall’Istituto Tamer.

Che rapporto c’è tra la storica, che ha raccolto racconti orali e l’autrice di letteratura per bambini e adolescenti? La storia orale è la mia carriera professionale, ma sono sicura che questo condividere con altri, ascoltare le loro storie, mi ha condizionato in un certo modo. Ma non ho raccolto le loro storie, come scrittrice preferisco scrivere altre storie. In un articolo dicevi che le storie popolari e la narrativa tradizionale hanno subito un arretramento nei campi profughi. Dopo il 1948, quando le gente si è vista sfollata nei campi profughi ha avuto bisogno di storie diverse, realiste. Non perché non gli piacevano le storie popolari ma perché volevano ricreare

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45 nostante questo non funziona per gli adolescenti. Comunque, sì, effettivamente più che scrivere storie le racconto. E questo funziona sia che tu scriva per bambini che per adulti? Sì vale per entrambi. Quando uno legge i miei libri in arabo, in realtà sta ascoltando una storia. Così è come mi piace scrivere.

Recuperi storie popolari? No, non posso dire che le recupero perché ci sono accademici che le hanno studiate in libri di carattere antropologico. Per quello che mi riguarda volevo recuperare le storie popolari per bambini in una forma nuova. Detto questo, le storie originali non sono sempre educate o politicamente corrette. Quello che sto cercando di fare è riscrivere le storie popolari, ne mantengo lo spirito, la magia, ma allo stesso tempo le riscrivo...perché siano approvate dai bibliotecari.

Perché siano approvate? Ci sono linee rosse nelle tue narrazioni? No, realmente no, per una ragione semplice: le storie popolari in Palestina non si raccontavano ai bambini, si raccontavano agli adulti. Le donne anziane che raccontavano queste storie mai si mordevano la lingua quando dovevano nominare parti del corpo, per esempio, o le funzioni corporali. Questo non mi frena, mi dà l’opportunità di riformulare la storia. Se volessi mantenere la storia nella sua forma originale, pubblicherei un libro di antropologia. Quando uno ascolta le tue storie, lette da te in diretta, si incontra di fronte ad una magia molto speciale. Nella tua opera utilizzi tecniche che provengono dalla letteratura orale? Nei libri per bambini cerco di mantenere le rime. A volte sento che la musicalità nei racconti per bambini conferisce loro più interesse, ciono-

In ogni modo tutto dipende dalla storia che sto raccontando perché alcuni dei miei libri sono scritti in arabo standard. La letteratura palestinese per bambini e adolescenti è uno spazio molto più vibrante che in altri paesi arabi. Questo si deve alla presenza dell’Istituto Tamer? No, non è solamente per la presenza dell’Istituto Tamer. Negli ultimi vent’anni ci siamo resi conto dell’importanza di offrire una lettera-

La vita sotto l’occupazione è dura in Palestina, non è una vita felice, per questo gli scrittori per bambini cercano di raccontare non solo storie vibranti ma anche colorate, magiche, perché i nostri bambini sappiano che esistono altri mondi. Come può la letteratura per bambini e adolescenti diffondersi maggiormente ed essere più accessibile? Beh, una cosa che bisogna riconoscere all’Istituto Tamer è che aiuta a distribuire libri per bambini in tutte le scuole, comprese quelle di Gaza. Che significa avere nelle scuole anche libri di letteratura infantile e non solamente libri di testo? Negli ultimi dieci anni i bambini hanno cominciato a discutere dei libri che leggono, il che è molto bello. Questo permette all’autore un contatto che è normalmente onesto da parte dei bambini. L’idea è che discutere dei libri significa che la loro opinione conta. E questo fa capire ai bambini che loro, in quanto bambini, contano nello stesso modo in cui contano le loro opinioni. I premi sono importanti per l’aumento della produzione letteraria per adolescenti? Non sono sicura di questo. Ho appena pubblicato un libro intitolato “La Fenice”. Da quando è uscito, qualche mese fa, ho fatto vari incontri con bambini e adolescenti, in scuole e bib-

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la Palestina che avevamo perduto. In quel momento le storie popolari sono state rimpiazzate da storie su come abbiamo lasciato la Palestina. Il viaggio della sofferenza: come era la nostra madre-patria, la nostra casa, il nostro giardino. Era un mix tra la storia orale e le nuove storie che la gente aveva bisogno di trasmettere alla generazione successiva.

Che rapporto hai con l’arabo moderno standard e l’arabo colloquiale quando scrivi libri per bambini? Questo è stato un grande dibattito in Palestina. La maggioranza dei miei libri per bambini sono scritti in arabo colloquiale. Allo stesso tempo non sono strettamente colloquiali e si avvicinano all’arabo standard senza per questo perdere la caratteristica colloquiale. Penso che se voglio scrivere in rima, in arabo colloquiale, allora mantengo la musica e la magia. I bambini si relazionano più con il linguaggio colloquiale, non perché sia migliore ma perché l’arabo standard ricorda ai bambini i testi di scuola, e a loro non piacciono i libri di scuola perché sono noiosi.

tura diversa ai bambini. Pensa a questo come parte della resistenza. Beh, non è che la mia agenda sia resistere. Però in un certo modo la resistenza è sullo sfondo, volevamo dare ai giovani qualcosa di diverso.


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lioteche, per ascoltare le loro opinioni e commenti e per discutere il libro con loro. Per me questo è ciò che conta. Dimenticati degli adulti, perché gli adulti hanno le loro idee strane, ciniche e i giovani al contrario capiscono il libro esattamente nel modo in cui volevo raccontarlo.

bro. Erano delusi per il finale, però gli è piaciuto molto sapere che in realtà questo libro era la prima parte di una trilogia, ossia che il finale che avevano letto non era il vero finale. Chiaramente sono uscite dal dibattito moltissime cose, e alcune erano ottime idee.

E dunque, non scriveresti un libro per adulti? Oh, ne sto scrivendo uno, anche se non l’ho ancora terminato. Non è esattamente un romanzo e nemmeno una memoria. Voglio raccontare come vedevo la Palestina mentre stavo crescendo. La Palestina è cambiata, io sono cambiata. Sto cercando di terminare questo libro, qualche frammento è stato già pubblicato in alcune riviste.

Ti capita di cambiare cose che stai scrivendo a partire dall’opinione e le idee dei bambini? Alcune cose non posso usarle. Per esempio, se c’è una donna malvagia o una cattiva matrigna bambini vogliono vendetta, però non funziona così... In ogni caso, ci sono altre cose che sì utilizzerò nel mio prossimo libro.

Che tipo di commenti ricevi dai bambini? Recentemente sono stata a Betlemme, ad una discussione su uno dei miei libri nel Campo Profughi di Aida. I bambini vivono nel campo, erano una trentina ed erano molto eccitati di dirmi quello che pensavano del li-

Daresti qualche consiglio ai nuovi autori? Prima di tutto la passione, soprattutto la passione. E poi che si divertano, se non si divertono metre scrivono, nessuno si divertirà leggendo. A partire da questo, tutto il resto si può imparare. Che libri leggevi quando eri bambina? Quando ero bambina nella mia città

non c’erano né librerie né biblioteche, così mia madre era solita portarmi a Nablus per comprare libri. Mi ricordo ancora del primo libro che ho letto, quando avevo solo 5 anni. Poi ho sviluppato una passione per la lettura e visto che non c’era molto da leggere, leggevo tutto quello che mi capitava per le mani: Hugo, Dickens, Mahfouz... Qualche autore preferito? Quando sto leggendo un libro, il suo autore o autrice si trasforma nel mio preferito. I libri per bambini e adolescenti hanno una buona distribuzione in Palestina. Accade lo stesso negli altri paesi arabi? E’ un problema. Per esempio, anche se ho vinto il Premio Etisalat, mi piacerebbe che i bambini e gli adolescenti di Egitto, Marocco o Arabia Saudita potessero leggere i miei libri. Perché non li trovano? Potrebbero essere disponibili. Per esempio negli Emirati il Ministero di Educazione ha comprato il libro del premio e voleva distribuirlo nelle scuole, ma dopo una revisione, ovvero, dopo averlo reso più “corretto”.

E che hai deciso? Ho dovuto pensarci bene: accettare una revisione o rinunciare alla possibilità che il libro venisse letto da un gran numero di studenti. Alla fine ho accettato, anche se la revisione realmente non mi pareva necessaria. Ho scritto questo libro per degli adolescenti, questo significa che non potevo non parlare d’amore. Hanno cambiato cose come osteria, divenuta caffetteria. Così la narratrice che deve andare ad incontrare dei pirati, li dovrà incontrare alla “caffetteria”, anche se non esistono caffetterie per pirati...Queste cose mi intristiscono, veramente, vedere come cambiavano il libro, però alla fine gli eventi principali sono rimasti intatti e spero che le ragazze coglieranno il messaggio che è che hanno il potere di fare qualsiasi cosa desiderino. I tuoi libri contengono un messaggio? No, no, il messaggio esce solo. Se mettessi un messaggio, si convertirebbe in un libro scolastico e io odio l’idea. Il mio lavoro non è mettere la saggezza della mia vita in un libro e nemmeno dar consigli. Di questo ce n’è abbastanza nella scuola! Per me è sufficiente che i ragazzi si divertano con il libro e che quando lo finiscono ne traggano qualcosa, ma non ho messaggi da mandare, ho solo storie da raccontare.

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Quando scrivi per bambini usi elementi, dettagli personali, autobiografici? No. Le mie storie personali in realtà non sono importanti. Voglio raccontare loro cose diverse. Ma allo stesso tempo sono sicura che in qualche modo quando scrivo, anch’io salto fuori: facendo un commento su qualcosa o facendo una battuta. Ossia, anche la mia personalità esce ad un certo momento.

Raccontacene qualcuna... Una bambina mi ha chiesto perché non parlavo del mondo dei djinn [esseri fantastici della mitologia semita], dato che nel libro ci sono dei djinn. Le ho risposto che nel libro si dice che il mondo degli umani e quello dei djinn devono rimanere separati e lei mi ha detto: ma tu sei la scrittrice e puoi unirli. E allora ho pensato, certo che posso farlo!

Mi ricordo ancora del primo libro che ho letto, quando avevo solo 5 anni. Poi ho sviluppato una passione per la lettura


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Il linguaggio diventa ancora più pregnante se tiene musicalità

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Joseph O’Connor è nato a Dublino il 20 settembre 1963. E’ sposato con la scrittrice Anne-Marie Casey e ha due figli. Nel 2014 è stato nominato professore “Frank McCourt” di scrittura creativa all’Università di Limerick. E’ fondatore e direttore della Scuola Estiva di Scrittura Creativa all’Università di New York.

JOSEPH O’CONNOR /// IRLANDA

O’Connor ha partecipato, come narratore orale, a diversi progetti con musicisti e cantanti come Camille O’Sullivan, Paul Brady, Glenn Hansard, Andy Irvine, Eimear Quinn, Sam Amidon, Caomhín Ó Raghallaigh, Thomas Bartlett, Martin Hayes, Scullion e alla conosciuta banda irlandese The Chieftains. E’ autore dei testi dello spettacolo di danza Heartbeat of Home che ha avuto la sua premiere a Dublino nel settembre 2013 ed è stato posteriormente presentato

di scrittori irlandesi che hanno partecipato al “Dia de Irlanda” organizzato alla Feria del Libro dell’Avana. Il libro “Star of the Sea”, pubblicato nella sua traduzione spagnola dall’editrice cubana Arte y Literatura è stato presentato dal Presidente della Repubblica irlandese, Michael D Higgins /// Text: O. C.

Ho studiato letteratura e storia all’University College di Dublino. Scrivo da sempre. Agli inizi scrivevo per i giornali studenteschi e ho lavorato come giornalista a metà tempo e come critico e giornalista per la rivista Magill e per il Sunday Tribune. Quali sono gli autori che hanno influenzato nella tua formazione letteraria? Beh, ho amato la letteratura fin da bambino. Mio padre aveva una passione per l’opera e la poesia del periodo vittoriano, mentre mia madre amava l’opera di Oscar Wilde e Kate O’Brien. La casa è sempre stata piena di libri di ogni genere: tra i miei favoriti di allora c’erano Brendan Beban, Flannery O’Connor, Sean O’Faolain, Liam O’Flaherty, Kingsley Amis, Yeats, James

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in Cina, Canada e Stati Uniti. A febbraio 2017 ha fatto parte della delegazione

Come ti auto-presenteresti? Sono nato a Dublino. I miei genitori, Sean O’Connor e Marie O’Grady, erano amanti della letteratura, la poesia, il teatro, la musica. Mio padre è di Francis Street, una delle zone più antiche della città, a Liberties. Molte delle storie e canzoni di quel luogo, molto bohémien e liberale compaiono nei miei libri. Le memorie di mio padre, Growing Up So High, sono state pubblicate nel 2013 diventando un best-seller. Mia sorella Eimear O’Connor è scrittrice e accademica e il suo libro sull’artista irlandese Sean Keating è stato pubblicato nel 2013. La nostra altra sorella, Sinead O’Connor è una cantautrice famosa a livello internazionale. Nostro fratello più piccolo, Eoin, lavora per la Sony Music Irlanda e l’altro fratello, John, è psicoterapeuta.


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La mia permanenza in Nicaragua mi ha influenzato molto. Lì ho conosciuto e amato le opere di Gabriel Garcia Marquez, Jorge Luis Borges, Mario Vargas Llosa, Rubén Darío...

Plunkett, Patrick Kavanagh, Steinbeck, Hemingway, Graham Greene, Maupassant, i vecchi Penguins e le storie popolari di Sinead de Valera, così come le edizioni economiche della nuova narrativa irlandese che allora pubblicava Poolbeg Press. Ci sono due libri che mi hanno segnato moltissimo quando li scoprii, a solo 17 anni: The Catcher in the Rey (Il Giovane Holden) di JD Salinger e la raccolta di racconti

di John McGahern, Getting Through (Tirando avanti). Due libri che mi hanno fatto voler essere uno scrittore. Il tuo primo racconto, Last of Mohicans (L’ultimo dei moicani) è stato pubblicato nel 1989, il secondo, Ailsa, qualche mese dopo. Quindi uscì il tuo primo romanzo. Sì, Cowboys and Indians, pubblicata nel 1991 a Londra da Sinclair-Steven-

Con True Believers comincia anche la tua incursione nel cinema. Sì, ho scritto il copione di Ailsa, basato sul racconto omonimo che fa parte di True Believers. Il film fu diretto da Paddy Breathnach e vinse varie premi e festival, tra i quali il Festival di San Sebastian. La collaborazione con Breathnach è continuata con altri due corti dei quali ho scritto il copione, A Stone of the Heart (Premio Cork Film Festival) e The Long Way Home. Il tuo secondo romanzo, Desperadoes, ha a che vedere con la tua esperienza nel Nicaragua rivoluzionario. Senza dubbio, la mia permanenza in Nicaragua mi ha influenzato molto. Lì ho conosciuto e amato le opere di Gabriel Garcia Marquez, Jorge Luis Borg-

es, Mario Vargas Llosa, Rubén Darío... Tutte queste letture mi hanno portato all’immensa opera poetica di Pablo Neruda, che semplicemente adoro. Continuando con l’America Latina, il tuo romanzo Star of the Sea, è stato pubblicato nel 2002 e quest’anno, 2017, ha visto la luce una riedizione cubana, in spagnolo, che è stata presentata alla Feria del Libro dell’Avana. La storia si svolge durante una traversata per mare che parte da Liverpool e nel quale viaggiano vittime della carestia irlandese del secolo XIX, e che via Cobh, nella Contea di Cork, arriva a New York. Si tratta anche di una importante digressione rispetto ai miei libri anteriori. Nel romanzo si utilizzano ballate, lettere e parti di diari per raccontare la storia. Ci sono influenze di Charles Dickens e George Eliot e Cime Tempestose, così come di Toni Morrison, Garcia Marquez e Peter Carey. E ovviamente ci sono molte influenze musicali. Dopo Star of the Sea, hai pubblicato Redemption Falls che il Sunday Tribune ha definito “un’opera maestra”.

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son. Lo stesso anno si pubblicò anche la mia raccolta di racconti True Believers (Veri Credenti, in Italia pubblicata da Gamberetti Editrice nel 1994). Il romanzo ottenne buone recensioni e fu un best-seller in Irlanda. Lo selezionarono per la categoria Nuovo Romanzo del Premio Whitbread.


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In questo romanzo ritroviamo alcuni dei bambini protagonisti di Star of the Sea. Effettivamente, Redemption Falls sviluppa un approccio narrativo polifonico che era iniziato in Star of the Sea. Il romanzo segue alcuni dei bambini della generazione del precedente libro attraverso la guerra civile americana e le sue conseguenze.

Il tuo ultimo romanzo, The Thrill of it All, prende il titolo da una canzone dei Roxy Music. Perché la musica è così presente nella tua narrativa? Perché per me la musica è la più importante delle espressioni artistiche e il linguaggio diventa molto più significativo quando possiede musicalità. Inoltre la musica è una parte importante

della tradizione letteraria irlandese. Quando comincio a scrivere un racconto o un romanzo cerco sempre di trovare la sua musica. Le parole, prima di qualunque altra cosa sono suoni e dobbiamo utilizzare i suoni allo stesso tempo che i significati per poter costruire la trama di una storia. Credo che tutta l’arte aspiri ad essere musica, per questo quando lavoro con i miei studenti di scrittura creativa dico loro di sentire la loro prosa come una specie di performance. In una occasione la scrittrice Toni Morrison disse una cosa incredibile, riferendosi ad un discorso dell’allora presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton: “Quando sta facendo un discorso in pubblico non ricorderete quello che ha detto, ma sì ricorderete come vi ha fatto sentire”. Ecco, credo che qualcosa di simile è presente nelle grandi narrazioni. Qual è la tua relazione con i grandi nomi della letteratura irlandese? Hai mai sentito il bisogno di “seppellirli” o ti senti piuttosto un discepolo di questa tradizione? Rispetto la tradizione e ammiro molto le opere di James Joyce e Samuel Beckett in particolare. Però credo che sia importante che tutti gli scrittori incontrino il loro cammino personale. Mio figlio adolescente mi considera un po’ ridicolo come padre però mi viole bene e credo che questo sia un equilibrio importante. Per esempio, Joyce quando è brutto è così brutto che è quasi impossibile leggerlo e ciononostante quando è buono è migliore di qualunque altro nel passato e nel futuro.

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Dopo di che sono usciti The Salesman, un thriller psicologico contemporaneo e Inishowen, una storia d’amore. Nel 2010 pubblichi un romanzo molto bello, Ghost Light, particolare per la delicatezza dei toni. E’ una storia narrata da una donna, la protagonista. Un’opera scelta come romanzo dell’anno da diversi quotidiani. Parliamo un po’ di questo libro. Ghost Light è una storia d’amore che si sposta dalla Londra degli anni del Re Eduardo, all’Irlanda per arrivare alla scena teatrale di New York nel 1910. La sua eroina, Molly Allgood, si basa liberamente su un personaggio reale, l’attrice dell’Abbey Theater che fu per anni amante e musa del grande scrittore di teatro irlandese John Synge. E’ un libro più corto degli altri e segue Molly mentre cammina per Londra in un giorno davvero pesante del 1952, diretta a fare un lavoro alla BBC.

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Molta gente al Sud soffre di una specie di amnesia rispetto al Nord Irlanda

E quali furono i riflessi di questi cambiamenti nella letteratura? Senza dubbio quell’epoca è stata segnata dall’arrivo di una nuova generazione di narratori irlandesi, poeti, autori di teatro, di racconti, sceneggiatori che erano unici nel senso che non erano influenzati gli uni dagli altri e nemmeno dalla generazione precedente. Scrivevano delle vite di irland-

esi in altri paesi o delle vite di persone che non erano irlandesi. Avevano poco in comune a parte una sorta di inquietudine condivisa che per me è stata meravigliosa. Mi sembra bello aver cominciato a pubblicare in quel periodo. Hai nominato il Nord Irlanda. In una intervista che abbiamo fatto in passato commentavi che c’è una specie di “amnesia collettiva” nella Repubblica quando si tratta del Nord... Sì, continuo a pensare che molta gente al sud soffre di una specie di amnesia rispetto al Nord Irlanda. Io provo molta affinità con scrittori di ogni parte dell’isola e ho un gran affetto per la moglie di mio padre che è una protestante del Nord Irlanda, così come al mio editore, Geoff Mulligan, che è di Belfast. Ma a parte loro, non ho grande connessione con il Nord e ci vado molto raramente. Personalmente sento il Nord come un paese differente. Ho amici che la pensano diversamente e desiderano l’unificazione dell’Irlanda. Io sono agnostico su questo tema. Non sono un nazionalista e sento il nazionalismo come qualcosa senza senso.

La generazione posteriore alla tua e che oggi ha tra i 30 e 40 anni sembra piuttosto prolifica. Come giudichi l’attuale scena letteraria irlandese? Credo che questa giovane generazione di scrittori irlandesi sia probabilmente la migliore di tutti i tempi. Hanno un talento straordinario, sono gran lavoratori e molti di loro sono davvero molto dotati. Mi riferisco a scrittori e scrittrici come Donal Ryan, Colin Barrett, Claire Louise Bennett, Danielle McLoughlin, Sara Baume, Vanessa Ronan, Thomas Morris, Gavin Corbett, Lisa McInerney. Sono semplicemente incredibili. E più che i temi che trattano io segnalerei il

fatto che possiedono frasi splendidamente scolpite e personaggi potenti. C’è ancora troppa Dublino nella letteratura irlandese? Sì, probabilmente troppa! In che maniera influiscono le politiche culturali nel panorama letterario irlandese? Pensi che queste politiche possano indurre una sorta di autocensura o auto-controllo negli autori? Storicamente credo che i governi irlandesi abbiano fatto un lavoro significativo per appoggiare le arti, per esempio permettendo agli artisti di pagare tasse relativamente basse sui loro guadagni creativi. Questo ha aiutato varie generazioni di artisti e scrittori, consentendo loro di vivere della loro arte e sostenere una famiglia con il loro lavoro. Abbiamo un’organizzazione governativa, Culture Ireland, che promuove l’arte e la letteratura irlandese all’estero. Anche l’Irish Literature Exchange aiuta e appoggia la pubblicazione di letteratura irlandese in altri paesi. Contemporaneamente, molto spesso, i nostri diplomatici hanno sostenuto, individualmente, e sono stati di grande aiuto per la diffusione della letteratura irlandese all’estero. Quanto all’auto-censura, sono felice di dire che qui non ne vedo. Per finire, si può sapere a cosa stai lavorando in questo momento? Non rispondo mai a questa domanda. Sono superstizioso!

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Durante gli anni ’90 l’Irlanda ha vissuto un intenso momento di cambiamenti sociali e politici. Come ricordi quegli anni? In realtà io ho vissuto a Londra la maggior parte di quegli anni, però sì, sono d’accordo che è stato un periodo di grandi cambiamenti e di trasformazioni di fatto fondamentali nella vita e la politica irlandesi. L’elezione di una presidente con idee nuove e donna, Mary Robinson; l’introduzione di una legge relativa al divorzio civile contro le pressioni della chiesa cattolica; in quegli anni poi inizia il processo di pace in Irlanda del Nord, solo per citare qualche questione. E’ stato un periodo in cui le vecchie certezze vennero messe radicalmente in discussione e, secondo me, questo è stata una cosa buona e positiva.

Parliamo del processo creativo. Come nasce e si sviluppa in te l’idea di un romanzo? Tutto il mondo pensa che abbia risposte a queste domande, però la verità è che non lo so. Immagino che in qualche modo inizio rendendomi conto del fatto che qualcosa sta crescendo nel mio cuore o nella mia alma, o come vogliamo chiamarlo. La mia prima reazione è sempre ignorarlo e sperare che se ne vada. La maggior parte delle volte, per fortuna, se ne va. Però in otto occasioni non se ne andò e ho dovuto scrivere un romanzo. Questa è la risposta più onesta che posso dare. Scrivo per scoprire quello che penso e provo su qualcosa, normalmente un personaggio. Non inizio mai da un tema. Non mi piace questo approccio, credo che si scopre il tema di un romanzo, quando è già scritta.


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Seguo sempre più piste quando scrivo romanzi, saggi o indagini narrative

GIANFRANCO BETTIN /// ITALIA

della città di Venezia e responsabile del Centro Pace e Politiche Giovanili. Promotore di numerose attività culturali che si sono svolte nella città lagunare come per esempio il Festival di Letteratura Fondamenta /// Text: O. C.

Il Veneto è una regione complessa. Molto democristiano (con alcune isole rosse), però anche una regione con delle importanti università e tante fabbriche. E’ la regione del “miracolo” nordest e del suo declino, delle lotte operaie e politiche di sinistra, dei misteri neri, di omicidi “familiari” efferati, della mafia del Brenta… Nella tua narrativa c’è tanto Veneto. Quali aspetti hai cercato di sottolineare? Quanto ha influito nella scelta dei soggetti dei tuoi libri il tuo essere sociologo da un lato e politico dall’altro? La mia formazione in scienze sociali e politiche certamente pesa e influisce sul mio modo di scrivere e di raccontare, ma, ancor prima, di guardare

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Scrittore e politico, Gianfranco Bettin è stato per molti anni vice-sindaco

Prima di tutto, puoi farci una piccola presentazione e dirci quando e come hai cominciato a scrivere. Qual è il primo ricordo di te scrivendo? Sono nato a Porto Marghera, nel comune di Venezia, nel 1955. Scrivo da sempre, da quando a scuola ho imparato a farlo, ma forse da prima, cose immaginifiche, per simboli o disegni che chissà cosa volevano dire. La prima cosa scritta di cui mi ricordi è una specie di fiaba, imitazione di una fiaba russa letta da uno dei primi libri che ho visto in vita mia (una raccolta di fiabe russe, appunto), però so soltanto che l’ho scritta, non mi ricordo di altro, forse c’era della neve e un fuoco, con un piccolo personaggio mezzo magico e mezzo vagabondo.


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le cose. E’ un impasto di decifrazione analitica e di comprensione intuitiva, che si traduce in frasi a volte suggestive e a volte descrittive. Spero si amalgamino bene...Con questo sguardo e questi strumenti, del mondo in cui ho vissuto, in particolare tra Veneto e Marghera-Venezia, ho sempre cercato di cogliere, al tempo stesso i lati oscuri, d’ombra (l’ipocrisia, la connivenza e complicità con i poteri, la condivisione di pregiudizi, un certo latente razzismo, la tolleranza verso politiche anche

regressive purchè acquiescenti a interessi egoistici diffusi, l’incapacità di porre limiti a uno sviluppo deregolato, distruttivo, pervasivo etc.) e gli aspetti luminosi, che vi sono in gran numero (dal paesaggio ai beni culturali ai caratteri sociali e personali di molti soggetti che vi si possono incontrare). Sei stato per tanti anni vice-sindaco della città di Venezia, interessante e contraddittorio esperimento di quello che “avrebbe potuto” essere

un laboratorio importante per la sinistra italiana. Mi raccontava un amico libraio anarchico ormai quasi novantenne degli appassionati incontri che si svolgevano nella sua libreria vicino ai Frari. Sono passati di là tutti gli intellettuali e artisti più importanti della città e non solo. Venezia è quella della Biennale del ’68, ma anche quella delle scellerate scelte di De Michelis... Quando e perché Venezia ha smesso di puntare sull’essere laboratorio politico (che coniugava tra l’altro l’essere allo stesso tempo città “intellettuale” e artistica e città operaia) preferendo l’opzione quasiDisneyland? In realtà, due Venezie hanno convissuto da quasi mezzo secolo. Una cercava di abbandonarsi alla modernità che portava facili profitti, soprattutto riplasmandosi sull’offerta turistica, sulla speculazione e sulle risorse legate alla grande opera nel frattempo in costruzione, il Mose [Progetto di paratie mobili] (con tutta la conseguente corruttela). L’altra ha cercato, in maniere diverse a seconda dei soggetti e delle epoche, altre strade. In una fase che va dai primi anni novanta all’inizio del decennio successivo, ha anche cercato di essere un laboratorio politico. Poi non ce l’ha più fatta, cedendo a più tradizionali e meno innovative formule politiche, che potremmo definire di centrosinistra moderato e senza audacia, senza capacità di integrare le innovazioni politiche e di rispondere le istanze che la società locale e nazionale produceva. Preparando così la strada a una regressione politica di tipo qualunquista e liberista ora in corso.

Tu sei arrivato quando sostanzialmente questa scelta di campo - Disneyland anziché laboratorio - era già in corso. Che cosa credi sia mancato alle giunte Cacciari per riuscire ad invertire la rotta? Era solo in parte questione di giunta comunale. In realtà molto delle sorti di Venezia dipende da altri poteri, specialmente in campo economico e di competenze, poteri sovraordinati rispetto al Comune (Regione e governo nazionale, parlamento) e Autorità esterne, come l’Autorità portuale, il Magistrato alle acque, le Sovrintendenza etc. o altri soggetti private molto potenti, come il Consorzio Venezia Nuova e la società che gestisce l’aeroporto o le compagnie crocieristiche. Per quanto sta nei suoi poteri, il Comune non ha comunque saputo coinvolgere la città nel suo insieme contro i guasti che tale espropriazione di poteri comportava, così come i tagli spietati alle risorse locali imposte dai governi centrali e la spoliazione ulteriore di competenze che si è prodotta nel tempo. Quindi, il limite maggiore lo vedo in questa incapacità di integrare iniziativa istituzionale e sviluppi amministrativi con una dinamica sociale, un percorso di partecipazione e condivisione delle scelte, che è un grave limite politico. Il Veneto, come abbiamo già detto, è regione molto complessa. Tu hai scelto di raccontare da una parte il Veneto degli emarginati (Qualcosa che brucia) però non ti sei sottratto alla difficoltà di raccontare anche il Veneto più oscuro, quello dei Pietro Maso per dire, o di una immigrazione respinta ma necessaria (ai padroni).

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Seguo sempre più piste, per romanzi o saggi o indagini narrative, ne coltivo la materia anche per un tempo lunghissimo, tenendo una specie di giacimento letterario a cui attingere. Questo mi consente di scrivere sempre, di una cosa o dell’altra. Poi, infine, una storia mi “chiama” più di tutte e allora mi ci dedico, la concludo e, nel caso, la pubblico.

Che importanza ha il linguaggio nella tua narrativa? Come in ogni scrittura, è la cosa più importante di tutte. Tu, (intellettuale e politico) sei stato promotore della creazione di un interessante spazio culturale e soprattutto letterario a Venezia. Negli anni ’90 dando vita ad una serie di interessanti incontri con e per scrittori italiani nuovi (penso a Tiziano Scarpa, Ferrucci ma anche ai torinesi). In seguito hai poi dato vita al Festival Fondamenta. Nonostante il berlusconismo imperante questo era un paese (e Venezia certamente è stata una città molto vivace) che produceva ancora buona letteratura e più in generale buon cinema, buona cultura, buona musica. Gli anni 2000 però hanno visto spegnersi un po’ la luce, e adesso? Vedi luce in fondo al tunnel? Questo è per Venezia il momento più difficile da almeno mezzo secolo in qua. Non vuol dire che non vi siano fermenti, in molti campi, compreso quello culturale e anche in quello politico, ma ad oggi sono fermenti che non trovano significativa rappresentanza e che certamente non sono presenti nel governo della città. Può darsi, però, che proprio questo ne favorisca una propagazione per vie orizzontali, una crescita più libera, più selettiva e quindi fortificante. Che, insomma, i fermenti stessi portino in sé un po’ di luce...malgrado tutto. E’ certo, comunque, che le esperienze di quegli anni sono irripetibili, sia perché superate sia perché la loro genuina e feconda ricerca di strade nuove ha infine certamente aperto quelle strade ma, per ciò stesso, le ha consumate. Portandoci al punto da cui andare oltre.

Naturalmente, nel romanzo mi sento più libero ma, in questo caso, più legato all’efficacia della parola, alla scelta di ogni singola parola e frase e perfino punto o virgola e spaziatura

Quanto a me, non vedo molta differenza tra essere un intellettuale ed essere un attivista politico. Quali sono i tuoi “riferimenti” letterari ma anche musicali, cinematografici... Nel mio mix formativo c’è di tutto, anche se credo prevalgano i riferimenti letterari (i classici italiani, alcune letterature: soprattutto russe e americane, poi le francesi, iberiche e inglesi), i fumetti (all’inizio, gli italiani e i soliti americani, poi le strisce e il graphic novel) e il cinema (Kubrick su tutti, poi western, noir, fantascienza, questi ultimi anche in letteratura). La musica è spesso un corollario indispensabile, anche se non sempre fonte ispiratrice. Come definiresti lo stato di salute della letteratura italiana? In questi anni recente direi abbastanza buono, sono emersi numerosi buoni autori, anche originali.

E la politica delle case editrici? Puntano solo su titoli “sicuri” o c’è qualcuno che “rischia”? Rischiano di più i piccoli editori, sempre più in difficoltà però a farsi spzio in un mercato e in una distribuzione che punta al successo immediato del titolo “sicuro” o presunto tale. Più raro che lo faccia un grande editore. Sono praticamente sparite le riviste letterarie o più in generale culturali. Perché? davvero era un problema di mercato? E’ un problema di mercato, cioè di distribuzione, ma anche di pubblico. Oggi c’è maggiore orizzontalità di circolazione delle idee, grazie alla rete, con più rapidità, efficacia ed economicità. Questo mette fuori gioco soprattutto la forma rivista, o la spinge a trasformarsi in sito web, in blog etc., quindi a smettere la forma cartacea, anche per i costi e, spesso, per l’inefficacia della modalità. Per fortuna questo non impedisce la circolazione delle idee, anzi.

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Come nascono i tuoi libri? come scegli la storia da raccontare? Nascono prima i personaggi, o prima il contesto? In altre parole, descrivici un po’ il tuo processo creativo. Storie e personaggi che decido di raccontare nascono da una ricca serie di appunti o note, a volte anche solo mentali, che tengo in me, in forma scritta oppure no, anche per molto tempo, osservando la realtà o immaginandomene sviluppi in modo creativo, arbitrario. Se scrivo di cose reali, come nell’indagine narrativa su Pietro Maso (un ragazzo che, con alcuni complici coetanei, uccise i genitori per averne l’eredità, un delitto che sconvolse l’Italia all’inizio degli anni ’90), tengo un rigoroso sguardo sui fatti e sui dati e laddove mi spingo oltre, dichiaro che in quel punto del racconto immagino, ma per lo più resto fedele alla ricostruzione che ho potuto farne sia con dati e fatti sia immergendomi nei luoghi e nelle situazioni, nel contesto anche fisico oltre che culturale, in cui la storia si è svolta. Naturalmente, nel romanzo mi sento più libero ma, in questo caso, più legato all’efficacia della parola, alla scelta di ogni singola parola e frase e perfino punto o virgola e spaziatura. Il romanzo è tutto lì, è fatto di queste cose, la sua credibilità nasce da questo e non tanto dalla veridicità di dati e fatti, come nell’indagine narrative su vicende realmente accadute.


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Anche a livello digitale (blog, social networks) non c’è in Italia un grande fermento, contrariamente per esempio all’Irlanda dove gli scrittori nuovi (diciamo tra i 30 e i 50 anni) sono attivissimi anche in rete oltre che in mille iniziative, conferenze, readings. Perché secondo te? La cultura è considerata qualcosa di “elitario”? Su questo non sarei molto d’accordo. In Italia il fenomeno è molto esteso, in realtà, a volte mi verrebbe da pensare perfino troppo (per tutto il velleitarismo e la paccottiglia che ciò si trascina, illusioni comprese). Quindi, non direi che la cultura venga trattata come “elitaria”. Al contrario, a volte forse un po’ di selettività e di “elitarismo”, cioè un vaglio più rigoroso di ciò che è di valore, sarebbe addirittura necessario, vista la gran quantità di megalomani, ciarlatani o peggio che infestano la rete. In una recente intervista lo scrittore irlandese Paul Murray diceva che gli

sarebbe piaciuto vedere più coinvolgimento politico. E aggiungeva: “E’ molto complicato scrivere di politica e in un certo senso si suppone che gli scrittori non lo facciano, ma come diceva George Orwell: Credere che la politica non ha un posto nell’arte è di per sé una dichiarazione politica. Molti dei libri che escono e che sono ambientati in questo paese, sono in un certo modo nostalgici, raccontano un paese ideale e non quello reale delle banche, della crisi, della gente senza lavoro e senza casa”. Che commenteresti a riguardo? Penso che il valore e l’importanza di un libro dipendano esclusivamente da come il libro è scritto. Potrebbe anche parlare di fatti lontanissimi o di cose apparentemente insignificanti ma essere scritto in modo tale da “rompere il mare ghiacciato dentro di noi” (Kafka, ovviamente). Non è, insomma, il tema, ma come lo si affronta che decide del valore e dell’attualità di un libro (e perfino della sua “politicità”). Che pensi dei premi letterari? Lo scrittore uruguaiano Ramiro Sanchiz mi diceva recentemente: “Non credo nei premi: mi sembra, anzi, che impoveriscano l’ambiente editoriale. in queste circostanze, dato che stampare in uruguay è caro, le editoriali devono sopravvivere come business e questo implica alla lunga non rischiare, pubblicare solo cose sicure, conservatrici, dimenticabili o condannate dal proprio sistema attraverso, appunto, qualche premio”. Tu che pensi dei premi? Sono, come i festival, occasioni come altre per far parlare di qualche libro, sperando che tocchi a un libro buono. Non ne farei un problema.

A volte forse un po’ di selettività e di “elitarismo“, cioè un vaglio più rigoroso di ciò che è di valore, sarebbe addirittura necessario, vista la gran quantità di megalomani, ciarlatani o peggio che infestano la rete

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Sono anni ormai che l’Italia non investe sulla cultura (e nemmeno sull’educazione). Che cosa si può fare per invertire questa tendenza prima che sia troppo tardi? O è già troppo tardi? Non è troppo tardi, però è certo tardi. Oltre a fare quello che possiamo, con libri, testi, siti web, perfino riviste dove resistono etc., la questione decisiva è se si riesce a sviluppare un movimento politico capace di cambiare il governo del paese e, dunque, a cambiarne le priorità, stabilendo quindi la priorità della questione educative e culturale (questione, tra l’altro, una formidabile opportunità economica per un paese come l’Italia).


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Ci sono tante storie da raccontare sulla nostra lotta Gabriel Angel è stato per trent’anni un guerrigliero delle FARC-EP. A quarant’anni ha deciso che oltre a scrivere testi politici doveva iniziare a scrivere letteratura. La sua opera ha come protagonisti guerriglieri e contadini ma anche militari e paramilitari e riflette storie che trascorrono nella Colombia più rurale, dove la guerra civile ha raggiunto una intensità speciale. La sua lettera-

dere questa fase della violenza alla quale oggi la società

colombiana sta cercando di porre fine /// Text: J.M.A. - O. C.

GABRIEL ANGEL /// COLOMBIA

Come nasce la tua vocazione letteraria? E’ difficile dirlo con precisione. Credo come conseguenza del mio amore per la letteratura fin da giovane. I miei genitori erano di origine contadina, umile, non ho ricevuto da loro un amore per le lettere. Anche se ricordo, e ora mi domando perché, mia madre leggeva molto, faceva le ore piccole leggendo nel suo letto. Forse questo mi ha segnato. Ma sono stati amici della famiglia a incamminarmi verso la lettura di romanzi, e poi la scuola superiore. Ad un certo punto, direi dopo i vent’anni, ho pensato che dovevo scrivere. Era bello leggere molto, però da tutte queste letture uno doveva anche tirare fuori qualcosa di suo, in un certo modo. Per molti anni ho avuto questa inquietudine, fino a che sui quarant’anni ho cominciato a scrivere con una certa serietà. Già ero nella guerriglia da una dozzina d’anni, avevo già molte cose da raccontare.

Come e perché sei entrato nelle FARC-EP? Sono stato militante fondatore del movimento politico Union Patriotica, nato dopo i colloqui di pace tra le FARC e il governo di Belisario Betancur nel 1985. Ricordo l’entusiasmo, l’idealismo con il quale ci dedicammo a questo compito, eravamo un gruppo di giovani, già professionisti (io ero avvocato e avevo 26 anni). Coltivavo l’illusione che per la prima volta la sinistra avrebbe potuto arrivare alla Presidenza, durante le prime elezioni alle quali partecipò la nostra forza, nel 1986. Non ce la facemmo, il partito liberale ottenne dieci volte più voti di noi. Nonostante ciò il voto per la sinistra raggiunse i livelli più alti della sua storia. Subito dopo però sopraggiunse la valanga di omicidi contro la dirigenza e la militanza dell’Union Patriotica. Ci chiusero in un angolo, non c’era altra strada da scegliere.

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tura ci avvicina ad un altro modo di guardare e compren-

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Scrivevi già prima del tuo impegno militante? Che differenza c’è nella tua letteratura, prima e dopo la decisione di entrare nella guerriglia? Avevo scritto qualche poesia e articoli che pubblicavo sul giornale locale che usciva nella città dove vivevo. Nelle FARC ho cominciato scrivendo articoli per i nostri bollettini e riviste. Mi affidarono la redazione di comunicati, documenti e dichiarazioni politiche. Tutto molto razionale e realista. Il passo verso la letteratura propriamente detta l’ho dato con la creazione di racconti sulla vita guerrigliera che a loro volta erano un omaggio ai nostri morti. Ho sempre creduto che i primi documenti erano un compito dell’organizzazione, mentre i secondi scritti, quelli di funzione, erano l’espressione personale delle nostre esperienze.

Nella tua scrittura l’impegno politico, sociale ed umano è evidente e molto chiaro. Credi che questo possa condizionare la qualità letteraria o al contrario le dà in qualche modo un valore aggiunto? Fin da quando ho preso la decisione di scrivere fiction, i primi racconti e l’embrione di romanzi, mi sono sempre proposto di evitare ad ogni costo che sembrassero volantini, pamphlet, documenti con chiaro contenuto propagandistico. Volevo fare letteratura pura ma per narrare la nostra vicenda storica e umana. Penso di esserci riuscito. Si è sempre detto che la buona letteratura e la politica non sono esattamente alleati, che quando una causa politica si converte in motivo letterario chi perde è la letteratura. Ho deciso di accettare questa sfida, con la chiara consapevolezza che per via dei miei contenuti avrei perso pubblico. Penso che si tratti

A Quemarropa invece si inserisce nella celebrazione del venticinquesimo anniversario delle FARC, nella Sierra, anche se l’ho scritto molti anni dopo, quando mi trovavo nel Blocco Orientale, agli inizi del cosiddetto Plan Patriota nel 2003. Avevo già una visione già ampia della nostra lotta e per questo il romanzo ha un certo respiro nazionale, la dichiarazione di guerra integrale del Presidente Gaviria. Uno mescola i fatti, li fonde e ci aggiunge la finzione, però fondamentalmente la storia nasce da persone e situazioni reali.

Diciamo che non costruisco personaggi né dilemmi, narro la storia di persone che ho conosciuto e i dilemmi nei quali sono stati coinvolti. Sono persone e fatti che ho conosciuto da vicino. E’ sempre necessario introdurre finzione, per riempire alcuni vuoti. A meno che non si faccia cronaca, cosa che mi seduce enormemente, quasi un racconto giornalistico esatto di quello che si è conosciuto direttamente o che ci è stato raccontato. Sfortunatamente in questa lotta si entra in contatto con grandi narratori di storie, solo che purtroppo non hanno la sufficiente capacità di sedersi e scrivere. Se lo facessero, non avremmo nulla da fare. In un certo senso uno è un parassita, si alimenta i ciò che hanno vissuto e sofferto altri. E riceve applausi per questo. Sarà giusto?

Addentrandoci nella tua opera, come nasce la narrazione. Inizi dai personaggi, dalle storie concrete? Direi che in un momento dato nasce in me l’idea di raccontare un certo episodio interessante della vita guerrigliera, una esperienza che raccoglie in sé diverse sfaccettature della natura umana e politica della nostra lotta. Qualcosa che è avvenuto realmente. Allora lascio che l’idea maturi qualche mese, o perfino anni, fino a quando all’improvviso

Quali influenze letterarie riconosci? Sicuramente ce ne sono molte. Però ho cercato consapevolmente di fare quello che sento, come lo sento, senza lasciarmi attrarre dal modo in cui altri fanno le cose. Direi che dopo aver trascorso venticinque anni leggendo romanzi e racconti degli autori più diversi, qualcosa di tutto entra nella costituzione di uno stile e una maniera di narrare le cose. Ho sempre ritenuto che i grandi autori lo fanno sempre molto meglio,

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Parlaci un po’ della raccolta di racconti appena pubblicata e di A Quemarropa (A bruciapelo) e Los Mensajeros del Diablo (I messaggeri del Diavolo), i due romanzi I racconti della Luna del forense hanno come contesto l’esperienza guerrigliera nel Magdalena Medio, una delle regioni più colpite dalla violenza in Colombia. In essi si può respirare la nostalgia per il mio tempo nella Sierra Nevada di Santa Maria, dove ho trascorso i primi cinque anni di vita guerrigliera. Per questo ho pubblicato anche poco dopo Los Mensajeros del Diablo, la ricreazione di un fatto reale che si verificò nella Sierra.

si accende una luce nella mia testa, devi fare così, così lo devi raccontare, integrando questo a quello, contestualizzandolo in questo modo...Allora comincio a scrivere la storia e non mi fermo fino a che non la considero terminata. Può essere un lavoro di mesi, anni. Mano a mano che la scrivo la storia si arricchisce, ci sono personaggi che cominciano ad esigere una maggior presenza. Però questo nasce mentre si lavora, non corrisponde esattamente ad un piano predeterminato.


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I guerriglieri e i campesinos sono la fonte viva delle mie narrazioni, è su di loro che scrivo

E altri elementi non letterari strettamente che hanno importanza nella tua scrittura? La musica, la natura... Tutto è letterario, assolutamente tutto. Quello che si scrive è un riflesso del mondo reale che è pieno di eventi di tutti i tipi. A mio avviso quello che non si può essere, è essere estremamente ambiziosi e introdurre troppe cose in una opera. Mi sono sempre sforzato tanto per fare in modo che quello che scrivo non sia noioso, non provochi sonno nel lettore, pigrizia di andare avanti. Così cerco di tradurre in racconto soltanto quello che ritengo necessario alla storia, ci sono molte cose che rimangono per aria, che potrebbero essere state usate, però è necessario evitare a tutti i costi di saturare il lettore. Ci sono molti, troppi libri e eventi nel mondo, non si tratta di introdurli tutti nel proprio. L’importante è dire qualcosa di nuovo, o almeno cercare di dirlo in maniera diversa e piacevole. Come definiresti il panorama letterario colombiano? Che autori ti sembrano interessanti? Devo confessare una cosa che potrebbe suonare come una eresia o ignoran-

za. Sono stato quasi trent’anni nella selva, nel mezzo di una lotta armata. Anche se sempre si porta un libro nello zaino e si sta leggendo qualcosa, non sempre si legge in modo sistematico su un tema o argomento. Si passa da un argomento all’altro, diciamo da un libro sul capitalismo neoliberista a uno su Simon Bolivar o da un libro di Garcia Marquez o Vargas Llosa a un saggio sull’intelligenza del combattimento o la discriminazione della donna. Non sono riuscito a seguire seriamente la letteratura contemporanea del mio paese. Per questo preferisco non parlare di argomenti che non conoscono bene. La tua esperienze personale e narrativa dimostra che la realtà è parecchio più immaginativa che la finzione? Puoi disegnare e tessere la trama più interessante del mondo, ma questa sarà sempre il prodotto della tua mente, di quello che tu vuoi fare con la tua storia. La realtà è diversa, incredibilmente sorprendente, la maggior parte delle volte inaspettata. Ricordo una volta, nel mezzo di una operazione militare di grandi dimensioni contro un fronte del Magdalena Medio nel quale mi trovavo, il comandante del Fronte mi fece un commento sulla incredibile velocità con cui cambiano le cose in guerra. Sei tranquillo e sicuro quando da un momento all’altro si verifica un assalto o uno scontro con il nemico

e allora la tua vita si altera completamente. Il tuo gran amico o la tua compagna sono morti, ci troviamo a trasportare feriti che si lamentano e il nemico ti segue per distruggerti. Cinque minuti prima, nessuno immaginava che tutto ciò stava per accadere. Così come non riesci adesso ad immaginare come uscirai vivo da ciò che sta succedendo. E una volta passato questo momento, ti vedi lì a raccontarlo con altri compagni, magari ridendo di questo o quell’episodio. Definitivamente, sì, la realtà è straordinariamente cangiante e piena di novità. Immagino che il contenuto “politicamente incorretto” della tua letteratura la rende difficile da pubblicare Effettivamente è così. Nessuno vuole marcare la sua casa editrice. Per quanto clandestinamente si faccia, pubblicare e distribuire un libro proibito implica molte persone e non di tutte ci si può fidare, politicamente parlando. Il rischio

esiste, nessuno vuole finire in galera o vedere il suo business sparire per una bomba a mezzanotte. Forse non c’è nulla più innocente della letteratura, ma se il regime decide di perseguirla, la questione si fa delicata. La Colombia è curiosa: capi paramilitari come Carlos Castaño e altri criminali pubblicano le loro memorie attraverso terzi, in maniera legale, e nessuno nel potere pensa di detenere o perseguire autori o editori per la diffusione di ideologie perverse. Però il trattamento non è uguale quando si parla di insorgenza rivoluzionaria. Con questa solitamente sono implacabili. Nella tua letteratura, oltre alla guerriglia, c’è una ricreazione molto viva della realtà contadina e anche del “nemico”, paramilitari e militari. Come ci si addentra in questo immaginario? I guerriglieri e i campesinos sono la fonte viva delle mie narrazioni, è su di loro che scrivo. Pero questi guerriglieri e con-

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così non vale la pena imitarli. Non si potranno uguagliare mai. Credo che con molta umiltà e essendo ricettivi di critiche e commenti si possa riuscire a creare qualcosa di proprio, che altri non hanno fatto. Allora uno comincia a riconoscersi come creatore.


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I tuoi compagni e compagne leggono le tue opere? Le criticano, fanno suggerimenti, commenti? Non c’è nulla che mi dà maggior gioia che incontrarmi con guerriglieri di luoghi molto lontani, come mi è successo a settembre durante la X Conferenza Guerrigliera nella savana del Yari, e sentirmi dire che hanno letto i miei romanzi, i racconti, le cronache e articoli. Ci sono quelli che se li sono scaricati da internet, che li hanno stampati nei campi e fatto libretti, che li leggono nelle ore culturali o altri spazi. Ai guerriglieri emoziona sapere che qualcuno racconta le loro vite, soprattutto quando lo fa da una prospettiva guerrigliera, cosa che è davvero scarsa. Tutti quelli che scrivono sulla guerriglia, anche con le miglior intenzioni, lo fanno da fuori, senza la sufficiente conoscenza della realtà di una lotta di tanti anni con le sue caratteristiche. Il guerrigliero trova sempre qualcosa che non gli piace, che non è ben riferito, che gli sembra incorretto. Quando chi scrive è un interno, chi legge pensa di guardarsi allo specchio. Per questo sono riconoscenti e applaudono questi sforzi. Pochi o nessuno mi critica, in realtà mi stimolano a continuare a scrivere, e a scrivere di più.

Nella guerriglia uno chiede vettovaglie, generi di prima necessità...Tu chiedevi anche libri? La guerra è dura e difficile. C’è una disposizione delle FARC che ordina a ogni guerrigliero di portare un libro nel suo zaino perché così ogni unità ha una piccola biblioteca mobile con sé. Ci sono segretari politici e di educazione che si fanno carico di controllare che questa disposizione venga rispettata e di controllare le letture personali. Ma a volte i tempi si fanno duri e pesanti, amari, nel mezzo di un combattimento e succede che con tanto peso da trasportare in spalla i libri si trasformano in un peso in più, ed è preferibile lasciarli in qualche posto per fare spazio a esplosivo, o altre cose. Per quanto possa sembrare irrazionale, arriva il momento in cui non si può criticare questo comportamento. Ci sono stati tempi in cui uno andava da unità a unità mendicando un libro e non se ne trovava nemmeno uno. Inoltre un libro si legge in pochi giorni e quindi diventa un peso. Se nessuno lo vuole trasportare, finisce con l’essere abbandonato. Tutto questo si vive in una guerra. Ci sono momenti in cui parlare di libri risulta impertinente. Da tutto ciò si traggono lezioni. Allora è più opportuno osservare con l’obiettivo di scrivere dopo. Credo che è anche così che uno si forgia come scrittore. Nella disperazione di non avere nulla da leggere. I gruppi mediatici sottovalutano la letteratura impegnata di sinistra accusandola di essere segnata da una certa intenzionalità... Direi che il disprezzo più che la sottovalutazione, non deriva tanto dal fatto di essere letteratura impegnata quanto piuttosto dal fatto di essere

impegnata per una causa che è apertamente contraria agli interessi di classe della gente al potere. I grandi media di comunicazione, in generale grandi corporazioni monopoliste, sono oggi il principale diffusore della ideologia e cultura dominanti. Quando i media sentenziano che questo è bene e quello è male, quando appoggiano o condannano un’opera, lo fanno motivati dalla difesa chiusa di un sistema che favorisce in modo incredibile i loro padroni. Essere rivoluzionario non è qualcosa che merita applausi. E’ qualcosa da ridicolizzare e detestare. Vogliono che la gente pensi in questo modo, per questo esistono. Fanno parte della realtà che dobbiamo affrontare. Ma un giorno questo cambierà. C’è chi dice che la letteratura e la cultura forse non cambieranno il mondo ma che possono contribuire a fare in modo che ci sia più consapevolezza. Come pensi potranno contribuire alla costruzione della pace e di una nuova società colombiana In realtà penso che se la letteratura aiuta a rendere migliore il mondo e a creare coscienza, allora non c’è dubbio che lo sta anche trasformando. Un’opera letteraria può contribuire a far aprire gli occhi a molta gente, a motivarla a pensare. E qualcuno pensando può finire con l’attuare sulla realtà e trasformarla. O almeno indurre altri a farlo. Credo che lo stesso valga per altre espressioni culturali. Non c’è qualcosa che cambi radicalmente il mondo, non si è mai visto. Vogliamo vedere cambi definitivi in poco tempo, in anni, in decadi se siamo molto pazienti. Ma alla lunga, tutto è un processo, un cammino lungo e pieno di ostacoli. La Bibbia o il Manifesto Comunista hanno cambiato il mondo? Perfino la

scoperta o invasione dell’America, come la si voglia chiamare, ha tardato secoli prima che si sentissero le sue conseguenze. La Rivoluzione d’Ottobre in Russia credeva di trasformare il mondo totalmente, e cent’anni dopo vediamo che non ha cambiato tanto come sperava di cambiare. Tutto è come una goccia d’acqua su una roccia immensa, un giorno finirà con il farla a pezzi, pero non sappiamo quanti milioni di anni saranno necessari perché questo accada. E poi ci sono i punti di vista. Piccoli cambi portano a altri maggiori. E’ importante lasciare un’impronta nel mondo anche se in cinquemila anni nessuno sarà in grado di dire esattamente a chi apparteneva il piede che ha camminato su questa terra prima che si trasformasse in roccia con i secoli. Questa è la lunga esperienza dell’umanità. Un romanzo o un racconto non conseguirà la pace in Colombia però saranno un mattone in più nella sua costruzione. Ci puoi dire su cosa stai lavorando al momento? E con la costruzione della pace, che temi e personaggi ti piacerebbe esplorare in futuro? Ho un progetto di romanzo che è nella sua fase finale. Sto lentamente maturando l’ultimo capitolo. La vittoria del No al plebiscito [il 2 ottobre 2016. Ndr] mi ha costretto ad aspettare un poco più a lungo. Per il resto scrivo per le FARC, per la causa della pace, articoli, cronache e molti altri testi in cui nemmeno appare il mio nome! Quanto a quello che mi piacerebbe esplorare, diciamo così, in tempo di pace, credo che ci siano moltissime cose da raccontare sulla nostra lotta. Sarà un’opportunità eccezionale, la pace.

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tadini hanno un nemico addosso, tutto il tempo, che sempre li attacca. Questo permette di conoscerli, nel loro permanente agire, permette conoscere i suoi valori, i suoi criteri, motivazioni. I soldati nemici parlano con i contadini, raccontano le loro ire, risentimenti, amarezze. Per questo è possibile sapere come pensano.


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cultura e delle terre del Kurdistan

Muharrem Erbey è uno scrittore, poeta e avvocato kurdo. Vive attualmente nella città di Amed (Diyarbakır), che con il suo milione e mezzo di abitanti è considerata la capitale del Kurdistan “turco”. Durante gli studi di legge all’Università di Istanbul, Erbey si unì alla lotta degli studenti patriottici negli anni ’90 e venne arrestato una prima volta per far parte dell’organizzazione giovanile dell’HEP (Partito Laburista del Popolo). In quella occasione venne torturato per una settimana. Erbey già da quel momento aggiungeva alla sua militanza politica le sue inquietudini culturali, essendo un attivo partecipante del lavoro teatrale del Centro Culturale della Mesopotamia (MKM) fondato a Tarlabaşı, Beyoğlu (Istanbul) nel 1990. Dopo il suo ritorno ad Amed, Erbey lavorò molti anni all’Associazione per i Diritti Umani (IHD) insieme ad altre importanti figure che hanno “scritto” e continuano a scrivere la storia politica della lotta di liberazione dei kurdi, come Selahattin Demirtaş, Osman Baydemir, Meral Danış Beştaş, Reyhan Yalçındağ Baydemir e Ayla Akat Ata. Nel 2002 viene nominato Segretario dell’IHD di Amed e nel 2008 Presidente della stessa. Appena un anno più tardi Erbey è arrestato nelle detenzioni di massa dell’operazione denominata KCK: migliaia tra sindaci, consiglieri, militanti e attivisti politici e sociali, sindacalisti, giornalisti, accademici, difensori dei diritti umani kurdi finirono in carcere. Dopo quattro anni e mezzo, Erbey è stato rilasciato. Attualmente lavora come avvocato e collaboratore dell’IHD. E, naturalmente, continua a scrivere fiction. /// Text: J.M.A. - O.C.

MUHARREM ERBEY /// KURDISTAN

Iniziamo da una breve presentazione personale Sono nato il 23 luglio 1969 a Hazro, Diyarbakır. Mio padre, Selhaddin è in pensione dopo aver lavorato tutta la vita nella Direzione Stradale, mentre mia madre, Fatma, è morta di cancro nel 1997. Era casalinga. Siamo sei fratelli e due sorelle. Le superiori le ho fatte a Diyarbakır e da quando avevo 10 anni ho fatto molti lavori diversi: venditore d’acqua, di dolci, per strada, ho pulito scarpe, sono stato garzone di bottega in barbieri e caffetterie. In altre parole, ho imparato quello che è la vita lavorando per le strade. Quando ero piccolo mi piaceva tantissimo disegnare a matita. Crescendo hanno cominciato a piacermi le storie kurde che ascoltavo. Ho cominciato a scrivere nel 1981, un racconto che in quell’anno vinse il primo premio in un concorso per bambini. Mi

pagarono 75 lire turche: ero felice come se fossi stato sulla luna! La tua vita è stata segnata in buona parte da un forte impegno politico e inquietudini culturali. Non hai mai desiderato dedicarti esclusivamente alla scrittura? Oh sì, sempre. In realtà quello che più mi piacerebbe è potermi dedicare totalmente alla scrittura, isolarmi e mettere su carta quello che mi sorge dal cuore. E’ una passione incredibile. Ciononostante, essendo un kurdo dissidente, sento che devo sempre stare dalla parte della democrazia e dei diritti umani e questo significa che in molte occasioni ho dovuto mettere la scrittura in secondo piano. Per molti anni il kurdo è stato una lingua proibita. Tu scrivi sopratutto in

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Sono uno scrittore kurdo. Mi nutro della


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Molta gente è stata arrestata, attaccata e anche assassinata per parlare in kurdo o per scrivere in kurdo

turco e a volte in kurdo, che è la lingua che più usi quando parli. Che tipo di relazione hai con la tua lingua? Come dici correttamente, non si poteva scrivere in kurdo perché era una lingua proibita, illegale. Non ho potuto studiare in kurdo, la mia propria lingua. Solamente potevo parlarlo in casa, in segreto, protetto dalle quattro mura, e anche in questo caso dovevamo parlare a voce bassa, per evitare che qualcuno ci sentisse. La lingua turca era obbligatoria, è la lingua ufficiale e la sola accettata così che bisogna utilizzare il turco in ogni sfera della vita, il lavoro, la scuola, la strada...Bisogna scrivere e parlare in turco. Anch’io ho dovuto scrivere e

parlare in turco invece che nella mia lingua materna. E questa chiaramente è una cosa che mi pesa tantissimo e qualcosa che, tu lo voglia o no, ti condiziona in modo molto forte. Ed è così vero che mi costa scrivere in kurdo. Data la situazione che ci descrivi e il carattere di lingua di casa o solo familiare alla quale si è cercato di condannare il kurdo, che importanza hanno e possono avere le vecchie generazioni nella trasmissione, apprendimento e mantenimento della lingua in vita? Guarda, a meno che i bambini non ascoltino la loro lingua fin da piccoli, rapiti dalla magia delle storie, leggende

Visto che lo accenni, bisognerebbe parlare di censura, non solo nei contenuti ma anche nell’uso di una lingua, in questo caso la kurda? Sì, chiaro. E non è necessario andare molto lontano: la antologia kurdo-turca che ho preparato nel 2004, per esempio, è stata pubblicata dalla municipalità di Diyarbakır e il sindaco è stato processato per questo. Quando mi hanno arrestato, nel 2009, le accuse avevano a che fare soprattutto con discorsi, scritti, comunicati stampa che avevo fatto in kurdo. Passiamo alla scena letteraria kurda. Come si organizzano per sopravvivere le editrici, riviste, classi di scrittura creativa in kurdo, programmi culturali in una situazione così repressiva? La lingua kurda è stata vietata per molti anni. Si poteva parlare, come dicevamo,

soltanto di nascosto, in ambiti familiari. Abbiamo passato molti anni nei quali la gente ha sofferto emarginazione e si guardava con sospetto per il solo fatto di parlare in kurdo in spazi sociali o pubblici. Eravamo esclusi, ignorati, umiliati ed è ancora così. Molta gente è stata arrestata, attaccata e anche assassinata per parlare in kurdo o per ascoltare musica in kurdo o per scrivere in kurdo. Alla fine della decada del ’90 sono state fondate in Turchia alcune case editrici in lingua kurda come Avesta, Arma, Lis. Negli anni successivi il numero è aumentato, però molte hanno dovuto chiudere perché i lettori erano pochi. Si sono aperte riviste che sono state chiuse questa volta dalla magistratura, accusate di propaganda separatista, di appoggiare il “terrorismo” e qualunque altra scusa. Oggi come oggi non rimangono molte riviste, di fatto quelle che restano sono in pericolo di estinzione a causa di una repressione sistematica e violenta dello stato turco contro qualunque istituzione culturale kurda, artistica, musicale, teatrale o editoriale. Perché questa ossessione turca contro i kurdi? La Turchia teme i cambiamenti, una amministrazione democratica. Ha pau-

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e racconti, a meno che la lingua non sia accettata e insegnata nella scuola, utilizzata nella vita culturale e sociale della gente, non potranno impararla davvero. Non riusciranno a interiorizzare il loro idioma perché in un certo senso le loro menti lo respingono.


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La cosa normale sarebbe che tutti avessimo diritto ad essere differenti, uguali e liberi

Nella pratica tutto ciò significa una polarizzazione sistematica, narrative discriminatorie che dividono la società. La cosa normale sarebbe che tutti avessimo diritto ad essere differenti, uguali e liberi. Le diverse identità e culture dovrebbero essere riconosciute dal Governo, altrimenti le tensioni non finiranno mai.

Avviciniamoci alla tua opera letteraria. Se parliamo di influenze culturali, quali segnaleresti nella tua narrativa? Sicuramente le leggende, i racconti kurdi, i dolori in queste terre ferite nelle quali vivo. Le tragedie, lo spirito di resistenza e ribellione, la lotta costante contro lo Stato, la necessità di andare separatamente, questa sensazione di essere perennemente escluso, il figlio bastardo, le aspettative e la pressione perché accettiamo una “turchità” che non ci appartiene. E poi le canzoni dei dengbej (i cantastorie nomadi) così piene di eroismo e dolore. Però forse una influenza più grande è quella di mia nonna Hezime che mi raccontava storia antiche e leggende kurde, questa è la mia fonte più potente. Com’è nato il tuo primo libro? Come nacque l’idea...? Il mio primo libro è stato pubblicato nel 2004 dall’editrice Bajar e si intitola Genealogia Perduta. Dopo questo ho pubblicato una selezione di 35 racconti, in kurdo e turco, chiamata Racconti di Pace. La seconda edizione del libro l’ha stampata l’editrice Agora nel 2006 e questo mi ha reso molto felice. Vedere i tuoi libri pubblicati ti riempie di gioia, è un privilegio e in un certo senso la

Come si sviluppa il tuo processo creativo? Scrivo a casa, però sempre prendo appunti prima, accumulo cose. A volte ho un’idea in testa e mi dico, “la scriverò dopo” e ovviamente mi rattristo e mi arrabbio con me stesso perché mi dimentico i dettagli. Considero le parole e le frasi che dimentico e perde come essere viventi che ho ucciso. Quando scrivo ascolto musica, classica e etnica. Quello che sì mi risulta impossibile è scrivere senza aver prima svuotato la mia mente. Dormo un paio d’ore quando arrivo a casa alla sera dopo il lavoro. E quando mi alzo tutti gli altri non ci sono, stanno già dormendo. In questo momento la vita è ridotta, in un certo senso, non c’è nessuno in giro, e in questa serenità, in questo silenzio, sorgono le parole. Credo che se non scrivessi non mi sarei potuto adattare alla vita, in un certo modo non puoi moltiplicarti se prima non ti isoli. Cerco rifugio nella notta. Posso scrivere nell’oscurità, nell’abbandono, negli

incubi di quelli che dormono, in questo mondo notturno, nero pece, degli altri, di quelli che sono migliori di noi. A volte ho bisogno di una motivazione per iniziare a scrivere e allora visito Shaharazad delle Mille e una Notte e ascolto uno dei suoi racconti, o leggo alcune pagine di Cent’anni di solitudine, di Gabriel García Márquez, o de Il dio delle piccole cose, di Arundhati Roy. E la storia, le trame, i personaggi? La storia mi intriga sempre. Non credo negli eroi, i miei personaggi sono insignificanti. La storia è quello che è vivo, piena di sangue e la esperienza la plasma. Io seguo la storia. I racconti kurdi, la forza della letteratura orale della quale mi nutro sempre sono presenti nella mia vita. A volte incontro delle persone e decido di mettere nei miei romanzi e racconti, così come li vedo io. Li tengo per mano e li faccio entrare, però a volte non vengono, allora li inganno, pongo trappole e li chiudo nella mia storia, tiro la chiave e lascio Ifrits, delle Mille e una Notte, davanti alla porta perché non scappino. Una storia ha una lezione finale, però l’esperienza che si vive ha più valore; i criteri morali astratti non attirano la gente. Saranno sempre più integranti un re misterioso, una principessa viziata, un commerciante desideroso di grandi profitti.

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ra di mettersi al pari con i tempi nuovi e mentre questo timore prevarrà i problemi e la repressione aumenteranno. L’insistenza per una amministrazione centralizzata accentua e aumenta i problemi. Lo status politico dei kurdi, uno dei popoli autoctoni più antichi della Mesopotamia, continua ad essere una questione centrale. L’autonomi è un sistema accettato nel mondo e di fatto venne implementato nella tappa dei Selgiuchi e degli ottomani. Anche nel periodo di Kemal Atatürk il sistema democratico contemplato dalla prima Costituzione avrebbe potuto aiutare, ma sfortunatamente non è stato così. La Turchia teme la frammentazione e per questo lavora quotidianamente per acuire l’odio verso ciò che considera diverso, e per questo minaccioso per l’unità del paese.

conferma che sei davvero uno scrittore. Così ho cominciato a sognare con altri libri. In Genealogia Perduta ho riunito le nostre storia, ho scritto quello che i kurdi cercano nel luogo dove vivono i kurdi, perché la vita è una ricerca costante e in questo primo libro ho voluto raccogliere racconti di gente che cerca le cose che ha perso.


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La letteratura kurda è sopravvissuta grazie ad una grande tradizione orale

Quando parliamo di letteratura kurda non possiamo riferirci solamente a quella creata in Turchia, vero? Certo. La letteratura kurda è sopravvissuta grazie ad una grande tradizione orale. Nell’ultimo secolo ci sono state varie opere in kurdo, però la maggioranza dei libri sono stati pubblicati nell’Unione Sovietica e in Europa, a causa dell’oppressione in Kurdistan. Dopo la decada del 1990 si sono pubblicati libri in Bashur (Kurdistan

iracheno) e in Bakur (Kurdistan di Turchia), grazie alle lotte dei kurdi. Sono stati pubblicati vari giornali, riviste, e la letteratura è fiorita anche nel Kurdistan siriano, nonostante la repressione. Nel caso del Kurdistan di Iran, il regime è molto repressivo e lì la letteratura kurda non ha potuto svilupparsi molto. Che libri e autori raccomanderesti ad un pubblico che voglia avvicinarsi alla letteratura kurda? Ci sono nomi importanti però sfortunatamente pochissimi romanzi e racconti sono stati tradotti in altre lingue. Ahmed Xani è stato un grande scrittore e pensatore, Piremerd è il nostro Anton Chekhov. Anche Eres Semo è un grande che ha scritto il suo primo romanzo nell’Unione Sovietica e Cigerxwin è il grande poeta del Kurdistan del Sud. Mehmed Uzun è la pietra miliare del romanzo moderno kurdo. Ci sono poi scrittori e poeti molto interessanti e più giovani, come per esempio Selim Temo e Şener Özmen.

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Avviciniamoci ora al panorama della letteratura kurda. Come definiresti la sua situazione attuale? Io mi considero uno scrittore kurdo. Mi nutro della cultura e delle terre del Kurdistan. Il mio palcoscenico sono le terre kurde e gli “eroi” sono i kurdi. Come dicevo prima, però, non mi sento molto sicuro quando scrivo in kurdo. Non sono cresciuto in un villaggio rurale, non ho potuto approfittare delle opportunità che offre la ricca lingua kurda perché sono cresciuto in città. Scrivo perché amo la letteratura, perché per me la scrittura è più importante di qualunque altra cosa. Conosco tutti gli scrittori ed editori kurdi. Sono in contatto e ho relazioni permanenti con l’Associazione di Scrittori kurdi e il PEN kurdo. Le istituzioni kurde hanno molti problemi, economici, mancanza di lettori, pressioni visibili e invisibili, problemi di distruzione, mancanza di pubblicità e promozione...La realtà, anche se è triste, è che non c’è molto interesse per la letteratura kurda.


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Scrivere per me è sperimentare, cercare di rispondere ma anche fare domande

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BOTHAYNA AL-ESSA /// KUWAIT

Bothayna al-Essa é nata in Kuwait il 3 settembre 1982. Ha pubblicato sette romanzi e una raccolta di racconti. Ha vinto molti premi nazionali e internazi-

2013. E’ la fondatrice della piattaforma letteraria Takween, la prima del suo genere in Kuwait, che aiuta nuovi scrittori e scrittrici. /// Text:Sawad Hussain

mi piacciono i suoni, le lettere, mi piace la strana energia che nasce dalla fusione di una lettera con un’altra, di una parola con la successiva. Quale ritieni sia il risultato più significativo che hai ottenuto? Credo che la vita di uno scrittore sia una ripetizione di tentativi. C’è sempre qualcosa da imparare, a volte ce la facciamo a volte no; però per essere sincera non giudico l’azione dello scrivere con una logica di successo o fallimento, non voglio vederla in questa

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onali ed é stata selezionata nella longlist del Sheikh Zayed Book Award nel

Perché hai scelto la scrittura come forma di espressione? Non penso se ho voce o meno quando scrivo. Scrivere è il modo in cui posso esprimermi pienamente, ma la mia relazione con le parole è più che una forma di espressione. Credo che abbia a che fare con il modo in cui sono cresciuta: da bambina ho studiato il Corano, imparandolo tutto a memoria, e in quel periodo c’erano voci contrarie ad altre forme di espressione, di modo che scrivere era l’unica che non era stata dichiarata tabù. Inoltre


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Il mondo attuale è disegnato per trasformarci in consumatori e sfinisce le persone

di parole. La seconda cosa è interagire con la scrittura come se fosse una gamba che ha bisogno di fare esercizio e rafforzarsi. Uno deve fare esercizi di scrittura continuamente. Anche quando si tratta di esercizi facili, ci mantengono “in forma” come scrittori, ci aiutano a sviluppare i nostri strumenti.

Prendiamo come esempio I Grew Up and Forget how to Forget (Sono cresciuta e mi sono dimenticata come dimenticare). L’obiettivo del libro era denunciare la realtà dell’oppressione, soprattutto l’oppressione delle donne. Credo che nei miei lavori precedenti giravo intorno a questo tema, ma avevo timore di affrontarlo con questo livello di chiarezza e trasparenza. Forse perché a noi donne non piace ritrattarci come perenni ed eterne vittime. In questo romanzo ho deciso andare al cuore della questione che mi stava molestando.

Quali sono state le reazioni della tua famiglia a questo romanzo? La mia famiglia non è davvero letteraria, è più interessata al commercio, però questo è stato sempre così, fin da quando ho iniziato a scrivere, non soltanto con questo titolo. E’ strano che la mia famiglia si legga un libro mio dall’inizio alla fine, con eccezione di mia madre e mia sorella che sono le sole che leggono i miei libri. E le loro reazioni nel caso di questo romanzo sono state molto positive. Hai creato Takween, uno spazio per performance, libreria e una scuola per giovani scrittori. Che consigli dai ai giovani? Consiglio sempre quattro cose. La prima è leggere. Impossibile essere un vero scrittore se non si è un lettore serio. Per scrivere una parola è necessario aver letto prima centinaia

L’ultima cosa che sottolineo è che abbiamo bisogno di molto dialogo, di ascoltare altre prospettive e opinioni. Io imparo molto dalla lettura, però sicuramente imparo molto di più quando dialogo con qualcuno sopra quello che ho letto. C’è un romanzo che preferisci tra quelli che hai scritto? Maps of Wandering (Mappe itineranti). Credo perché ho sentito di matura-

Due dei tuoi romanzi sono al vaglio di editori inglesi per una possibile traduzione. Cosa pensi della traduzione in altre lingue? Considero la traduzione come una modo per raggiungere lettori con i quali non avevo originariamente pensato comunicare. Forse non appartengono a questa regione, non condividono le stesse questioni, non condividono la stessa religione, ma sarà interessante per me vedere come le mie storie sono ricevute da questi nuovi lettori. Che cosa stai scrivendo in questo momento? Sto lavorando ad un romanzo. Ma non è ancora finito. Con lo stesso stile dei precedenti? Lo stile è più simile a Maps of Wandering che ad altri romanzi. Dovrebbe essere pubblicato alla fine dell’anno dalla stessa casa editrice. Penetra l’attuale clima politico del Kuwait e

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prospettiva. Per me si tratta di sperimentazione, cercare di rispondere a domande ma anche fare domande. Seguendo questa logica, allora, ogni libro raggiunge l’obiettivo che si è proposto.

La terza cosa che mi sembra importante è che abbiamo bisogno di star soli per creare. Il mondo attuale è disegnato per trasformarci in consumatori e sfinisce le persone. Quando entriamo in questo circolo, ci perdiamo e perdiamo la voce autentica di quello che sentiamo al nostro interno. Tocca allo scrittore, in realtà a tutti noi come persone, andare contro questa forma di vedere la vita.

re mano a mano che lo scrivevo, sia come scrittrice che come persona. Sono riuscita ad andare al di là delle mie preoccupazioni come donna del Golfo Persico. Ci sono state molte sfide ma anche molto piacere nello scrivere questo libro.


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Quello che realmente mi fa paura è che un giorno non sarò capace di scrivere. E a causa di questo timore, sempre trovo tempo per farlo

come questo si riflette nelle nostre case e nella vita quotidiana. E cosa stai leggendo in questo momento? Sto leggendo Emerald Mountain, di Mansoura Ez Eldin. Abbiamo partecipato ad un dibatto insieme e abbiamo pensato che sarebbe stata una buona idea leggere i nostri libri.

Come trovi il tempo di scrivere? Sei mamma, hai Takween... E’ questione di organizzarsi. Non è questione di non avere abbastanza tempo. Solo di essere organizzati. Ho scritto in condizioni peggiori, dove c’erano più richieste del mio tempo. Quello che realmente mi fa paura è

Ti senti rilassata quando scrivi? E’ stancante e rilassante allo stesso tempo! Quando hai finito le prime bozze, le mostri a qualcuno? Se sì, a chi? Sì, certo, a cinque persone almeno. Le bozze di Maps of Wandering, le ho condivise con varie persone. Le ho date per esempio a Mohammed Hassan Alwan perché nel romanzo ci sono sezioni sulla sua città in Arabia Saudita. Alcuni dei recensori sono amici, altri scrittori dei quali apprezzo l’opinione e che contatto per chiedergli di dare un’occhiata al mio lavoro. Alla fine usi le varie raccomandazioni quando fai la revisione? Sì, certo. Se migliorano il lavoro, sono più che disponibile a rivedere quello che ho scritto.

* Questa intervista è stata realizzata in arabo e tradotta originariamente in inglese da Sawad Hussain

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Segui una routine quando scrivi? Ho una routine quando scrivo, sì, ma varia da romanzo a romanzo. Così per esempio per Maps of Wandering, ero solita scrivere al mattino e fino alla notte. Ma con il romanzo al quale sto lavorando ora le cose sono diverse: al mattino sono nella libreria Takween. Quindi, visto che di mattina lavoro e poi devo badare ai miei figli quando rientrano da scuola e fare i lavori di casa, alla fine inizio a scrivere alle 8 di sera e fino a mezzanotte.

che un giorno non sarò capace di scrivere. E a causa di questo timore, sempre trovo tempo per farlo, anche solo per un’ora. Se non scrivo, questo si ripercuote sulla mia vita, sul mio temperamento.


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Biografie

Bothayna al-Essa Nonostante sia una scrittrice best-seller in inglese è soltanto disponibile una traduzione nel numero “Kuwait” della rivista Banipal. La scrittrice è anche molto attiva in twitter dove può essere seguita cercando il suo account: @Bothayna_AlEssa. Dilawer Zeraq E’ nato nella città di Amed (Diyarbakır) nel 1965. Laureato in matematica all’università Dicle, della stessa città. ha cominciato a pubblicare nel 1995, opere sue ma anche traduzioni dal turco al kurdo. Ha pubblicato tre raccolte di racconti e altrettanti romanzi che formano una trilogia. Ha curato la scrittura e redazione di dizionari e articoli e saggi di natura sociologica e teorica sulla lingua e la letteratura. Enrico Palandri E’ nato a Venezia nel 1956. Suo padre era un ufficiale di carriera e per questo Palandri è cresciuto in diverse città fino agli anni dell’università, quando è andato a vivere a Londra dove è rimasto 23 anni prima di tornare a Venezia. Fernando Butazzoni E’ nato a Montevideo nel 1953. E’ stato militante dell’organizzazione guerrigliera Tupamaros e già esiliato ha partecipato, come volontario internazionalista al Fronte Sandinista che riuscì a sconfiggere la dittatura dei Somoza in Nicaragua, nel 1979. La sua carriera letteraria inizia proprio in questo stesso anno con il Premio di racconti Casa de las Americas di Cuba. Nel 2014 ha ottenuto il premio nazionale di letteratura dell’Uruguay, il Bortolomé Hidalgo, per il suo monumentale romanzo storico, “Le ceneri del Condor”. Gabriel Angel E’ nato in Colombia, nel 1958. E’ stato per trent’anni un guerrigliero delle FARC-EP. A quarant’anni ha deciso che oltre a scrivere testi politici doveva iniziare a scrivere letteratura. La sua opera ha come protagonisti guerriglieri e contadini ma anche militari e paramilitari e riflette storie che trascorrono nella Colombia più rurale, dove la guerra civile ha raggiunto una intensità speciale. Gianfranco Bettin E’ nato a Porto Marghera, nel comune di Venezia, nel 1955. Scrittore e politico, è stato per molti anni vice-sindaco della città di Venezia e responsabile del Centro Pace e Politiche Giovanili. Promotore di numerose attività culturali che si sono svolte nella città lagunare come per esempio il Festival di Letteratura Fondamenta. Joseph O’Connor E’ nato a Dublino il 20 settembre 1963. E’ sposato con la scrittrice Anne-Marie Casey e ha due figli. Nel 2014 è stato nominato professore “Frank McCourt” di scrittura creativa all’Università di Limerick. E’ fondatore e direttore della Scuola Estiva di Scrittura Creativa all’Università di New York.

Muharrem Erbey E’ nato il 23 luglio 1969 a Hazro (Diyarbakır). Scrittore, poeta e avvocato kurdo. Vive attualmente nella città di Amed (Diyarbakır). Ha cominciato a scrivere nel 1981. Quello stesso anno il suo racconto vinse il primo primo premio in un concorso per bambini. Sonia Nimr Palestinese. E’ autrice di oltre una dozzina di libri per bambini e adolescenti. Il suo romanzo Wondrous Journeys in Strange Lands (Rihlat Ajeeba fi al-Bilad al-Ghareeba) ha ottenuto il Premio Etisalat 2014 di letteratura araba per bambini e adolescenti; mentre il suo libro di racconti Ghaddar the Ghoul and Other Palestinian Stories è stato pubblicato in inglese. Sawad Hussain E’ una traduttrice di arabo e specialista in letteratura araba. Laureata in Letteratura Moderna Araba alla SOAS (School of Oriental and African Studies, Londra). Scrive regolarmente critiche di letteratura araba in traduzione. Ha una passione per tutto ciò che riguarda la cultura, storia e letteratura araba. L’ultimo libro che ha tradotto è un romanzo di fantascienza giordano che sarà pubblicato alla fine del 2017. Marcia Lynx Qualey E’ la direttrice e fondatore di ArabLit (www.arablit.org), una rivista online e uno strumento multi-uso, vincitrice, nel 2017, del premio “Literary Translation Initiative” alla Feria del Libro di Londra. Scrive, edita e traduce per vari giornali e riviste e lavora anche come consulente per progetti di letteratura araba, inclusi Kitab Sawti e Library of Arabic Literature. E’ tra gli autori del volume MLA di prossima uscita “Teaching Modern Arabic Literature in Translation”. Petra Probst È artista e disegnatrice/autrice per l’editoria. Vive e lavora tra la Germania e l’Italia. La sua ricerca artistica e la sua attività espositiva la portano in giro per l’Italia e all’estero. A Genova nel 2014 è ospitata a Villa Piaggio/ContemporarArt con il progetto “Oltre il buio-il teorema di Bavcar” e partecipa nel 2016 alla mostra “Touch of Water” al Castello di Rapallo. Nel 2017 al MuMA di Genova, Museo del Mare e delle Migrazioni, cura insieme a Flavio Tiberti il progetto espositivo dedicato al Mare Mediterraneo “ROVI DI MARE Visioni di un orizzonte in bilico”. È specializzata in danza/movimento terapia e in tecniche di arte terapia. Da diversi anni realizza e gestisce progetti artistici interculturali in scuole, biblioteche e musei indirizzati a bambini, ragazzi e adolescenti e si occupa della formazione al fine di promuovere la multiculturalità con il linguaggio artistico. Collabora con psicologi e assistenti sociali in aree di prevenzione del disagio giovanile. Ha pubblicato libri per l’infanzia in numerosi paesi. Attualmente collabora con il Goethe Institut Turin ad un progetto di teatro e di arte visiva che coinvolge dei giovani profughi non accompagnati. www.petraprobst.com/

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