Kmvero numero zero

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il magazine di Scienze Gastronomiche e del master Comet

Dicembre 2014 - Anno 0 - n.0

Il corso di laurea in Scienze Gastronomiche

2004 2014 dieci anni di formazione per il made in Italy



Editoriale “Kmvero” nasce come strumento formativo del corso di Giornalismo Enogastronomico del corso di laurea in Scienze Gastronomiche e del training di giornalismo del Master Comet. Non vuole essere una rivista scientifica ma un vero e proprio periodico del settore agroalimentare ed enogastronomico affrontato con intento divulgativo ma nel rispetto del rigore scientifico che l’ambito accademico pretende. Ciò che è stato chiesto ai giovani autori degli articoli è soprattutto di stimolare interesse e curiosità e di offrire contenuti concreti spaziando nei vari campi della cultura del cibo, ovvero della prima delle arti, quella del mangiar bene e sano. Gli articoli sono stati scritti dai singoli autori ma anche rivisti, commentati, integrati dai colleghi, pur se con l’intervento formativo e consultivo di professionisti dell’informazione. Il primo numero è molto corposo perché l’entusiasmo degli studenti ci ha messo a disposizione molti lavori di ottimo livello: uscendo con un numero unico abbiamo voluto valorizzare tutti coloro che l’hanno meritato. Ciononostante alcuni interessanti articoli usciranno nel numero 1 del 2015, quando contiamo di essere on line con cadenza bimestrale e una foliazione di 80 pagine più le quattro di copertina. Una certa prevalenza di articoli sui salumi è legata alle partecipazioni a eventi e visite aziendali particolarmente apprezzate durante l’anno accademico. Perché “Kmvero”? La scelta è stata degli studenti del corso di Giornalismo gastronomico ispirati dal “messaggio” lanciato dall’Accademia delle 5T, partner del Master e del corso di laurea in alcuni eventi: “filiera colta, etichetta corta, km vero e chimica zero”. Km vero sta a indicare

Studenti di Scienze Gastronomiche presso il Padiglione dell’AICIG (Associazione Italiana Consorzi Indicazioni Geografiche) a Cibus 2014

che il cibo è legato al territorio in cui nasce per la biodiversità e la diversità culturale che lo caratterizzano. Da km zero, oggi di moda e scelta importante per gli aspetti di sostenibilità che comprende, a km vero a significare che valorizzare ciò che è locale non significa rinunciare alla fantasia e alla ricchezza di diversità che altri territori esprimono, purché ci sia la massima trasparenza. Ringraziamo Francesco Donadini, grafico e comunicatore d’impresa, cofondatore dell’Accademia delle 5T e autore del messaggio che comprende “km vero”.

Guido Stecchi

docente del corso di Giornalismo Enogastronomico

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SOMMARIO Editoriale di Guido Stecchi................................................................1 Chi è oggi il gastronomo di Debora Avanzini............................4 Costanza si racconta e ci racconta il Comet di Giorgio Maria Zinno..................................................................... 20 Ecotrophelia a cura della redazione.........................................106 IN PRIMO PIANO Farinella: che scarpetta di Gianluca Campanella................... 10 Indovina “che” viene a cena di Giulia Ughetti.......................... 18 L’Abruzzo in bottiglia di Stefania Grifone................................. 58 Il pesce d’acqua dolce che piaceva ai Dogi di Linda Filippini ............................................................................... 78 Una polpetta fra i salami di Valeria Gatta.................................. 82 L’eccellenza dello scarto di Nivardo Suriano.........................112 Formai de mut: aromi d’alpeggio di Barbara Vezzani........122 Rami di sole di Marica Lacitignola.............................................154 ITINERARI DEL GUSTO Lo Street Food a Palermo di Marcella Bartolotta .................. 38 Fiera di S.Giuseppe di Federica Baudinelli............................... 50 Stop al tempo: si va in Romania di Clarissa Salafia ............... 70 Antiche leccornie a Manduria di Martina Marrella................ 96 Nasce il museo della pasta di Martina Mussi.........................100 La Bassa golosa pedalando di Davide Pagani ......................116 CATTEDRALI DEL GUSTO Dal Pescatore: il regno della migliore cuoca al mondo di Gualtiero Pagani........................................................................... 46 SCELTE DI VITA Una pastorella del terzo millennio di Laura Scanu................ 64 Agricoltura giovane di Valentina Lusini..................................... 74 Il coraggio di un imprenditore di montagna di Denis Figoni..................................................................................136 DA SAPERE Una dieta a colori per il nostro benessere di Stefania Grifone e Domenico Cardone................................. 28 Le “mamme” del Parmigiano Reggiano di Celeste Senelli..............................................................................162 Soppressata: il salume più adatto al gusto cinese di Ma Shuying...................................................................................139

PARLIAMONE De.Co., un’eredità di Gino Veronelli di Giorgio Maria Zinno..................................................................... 40 #foodporn mania di Martina ........................................................ 86 La rivoluzione silenziosa:il political consumerism di Nivardo Suriano............................................................................ 94 Papa Francesco: il rispetto dell’ambiente è rispetto della vita umana di Maria Elisa Zuppiroli..................................................................110 L’albergo diffuso di Marco Bellante...........................................128 Masanobu Fukuoka e la rivoluzione del filo di paglia di Michela Corradossi.....................................................................148 LA NOSTRA STORIA Negli Appennini non tanto tempo fa di Cosetta Vandelli ........................................................................... 88 La civiltà degli stazzi di Paola Azara..........................................144 Quel porcello dei tempi di Dante di Michela Bergnoli.......150 IMPRESE DEL CIBO Il business delle lumache di Alice Frescaroli............................ 52 Maribrin, un’azienda che ci mette la faccia di Marta Consonni...........................................................................140 RICETTE E DINTORNI La Cuccìa di Santa Lucia di Marcella Bartolotta...................... 26 La feijoada di Gabriela Vidotti ...................................................... 43 Non il solito raviolo di Miriam Ardigò......................................104 SPIGOLATURE GOLOSE Il Negroni di Niccolò Ferrari..............................................................9 Il nocino di Davide Pagani.............................................................. 77 SCOPERTO... Il cioccolato di Parma di Debora Avanzini................................ 25 Quando pasticceria e design si incontrano di Sara Luppi....................................................................................... 44 L’olio di Mignola di Barbara Vezzani..........................................135

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Chi è oggi il di Debora Avanzini - Scienze Gastronomiche

Lo chiediamo ad Andrea Fabbri, presidente del corso di laurea in Scienze Gastronomiche presso l’Università degli Studi di Parma e attualmente docente di Materie prime di origine vegetale Il Professor Fabbri rientra tra le figure di riferimento su cui noi studenti da sempre possiamo contare e insegna a Scienze Gastronomiche da dieci anni, ovvero da quando è stato istituito il corso. Ci racconta di essere Professore di Arboricoltura Generale e Coltivazioni Arboree e di aver insegnato materie come frutticoltura, olivicoltura e biologia. Riesce immediatamente a trasmetterci la grande passione che lo contraddistingue nel suo lavoro e non fatica a emergere il forte legame che lo mantiene vicino alla sua terra d’origine, la Toscana, per esempio quando ci racconta: «da circa vent’anni lavoro per cercare di reintrodurre la coltivazione dell’olivo nelle colline emiliane, con progetti regionali». La prima affermazione che ci permette di focalizzare l’attenzione sulla figura del “nuovo gastronomo” non può prescindere da una riflessione rispetto al percorso che si è esteso in questi dieci anni: «quando noi abbiamo iniziato eravamo i primi in Italia e gli unici per quanto riguarda le università pubbliche; abbiamo mantenuto una caratteristica di qualità anche rispetto a chi è venuto dopo, dovuta all’esperienza che abbiamo maturato nell’insegnamento, nell’organizzazione del corso, nella selezione dei docenti». «Quest’ultimo aspetto - prosegue - è di particolare rilevanza nel campo della gastronomia perché i professori di cui necessitiamo spesso non sono disponibili all’interno delle università pubbliche e abbiamo dovuto esaminare docenti che non rientrano nei classici settori scientifico-disciplinari». 4

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Gastronomo? L’importanza dei docenti professionali

«Non ci sono infatti concorsi per diventare Professore di organizzazione di fiere gastronomiche - precisa sorridendo - e abbiamo dovuto così ricercare esperti all’interno di altre facoltà come lettere o sociologia, per insegnamenti molto lontani da quelli presenti nel corso di laurea in Scienze e Tecnologie Alimentari, da cui siamo fortemente dipesi all’inizio della nostra storia, dipendenze che io ho tentato, nella mia breve gestione, di ridurre. In parte ho migliorato la situazione ma c’è ancora da fare, ci sono altre strade percorribili. Per esempio il prossimo anno gli insegnamenti opzionali diventeranno quasi tutti da 4 crediti anziché 3 per permetterci di ridurne il numero e oltretutto consentire agli studenti di approfondire meglio gli argomenti. Questi corsi devono essere sfruttati al massimo perché caratterizzanti nella formazione. Non bisogna in nessun modo ridurre la qualità e l’importanza della didattica, perciò occorre riuscire a bilanciare e ottimizzare le scelte». Emerge così il punto debole che attanaglia il corso di laurea di Scienze Gastronomiche: il dipendere più di altri corsi dall’apporto di docenti esterni fa sembrare che questo sia maggiormente dispendioso in termini di risorse economiche. Ma il nostro Professore afferma prontamente e con fierezza: «ritengo che il bilancio complessivo sia del tutto positivo perché, per quello che mi risulta e che vedo anche dagli input di studenti che provengono da altre esperienze prima di approdare qua, il nostro corso è considerato di qualità. Siamo riusciti a coprire la parte professionale con dei professionisti bravi, appassionati, capaci e che si dedicano all’insegnamento con assiduità seguendo gli studenti, con docenti interni che sono anche ricercatori a livello internazionale e quelli esterni che sono stati selezionati con grande attenzione e sono altrettanto competenti, hanno una grande dedizione e piacere a insegnare perché collaborare con noi completa la loro esperienza e li qualifica meglio nella loro professione, al di là del ritorno monetario che in realtà è spesso esiguo, soprattutto per i docenti che arrivano da fuori e devono già pagarsi il viaggio».

Qui sopra, il prof. Andrea Fabbri, qui sotto Giulia Rampini, laureata in Scienze Gastronomiche a Parma e diplomata al Master COMET effettuando il suo tirocinio presso il Consorzio del Parmigiano Reggiano, dove ora lavora occupandosi di comunicazione ed eventi.

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In alto a sinistra, il Centro Sant’Elisabetta, prestigiosa sede di diversi eventi culturali e didattici che si svolgono al Campus; al centro Andrea Amadei, laureato in Scienze Gastronomiche e diplomato nel Master Comet che ha coronato il suo sogno di fare il conduttore e autore televisivo in seguito al tirocinio con i celebri conduttori Fede e Tinto: qui mentre presenta la serata di premiazione dell’Oscar Green Coldiretti Piemonte in qualità di autore e inviato di Decanter Radio2; a destra, il prof. Fabbri consegna la laurea allo studente Luca Bedini che si è laureato con una tesi sui salumi del Rinascimento, alla destra del prof. Fabbri, il prof. Davide Menozzi, alla sinistra, nell’ordine, i professori Corrado Giacomini, Teofilo Vamerali, Cristina Mora e Guido Stecchi. Il ruolo nel mondo del lavoro Se ci soffermiamo sulle prospettive, «il nostro sforzo precisa il Professore - è migliorare il piano di studi affinché sia sempre adatto alla formazione dello studente, con una particolare attenzione alle caratteristiche professionali che da fuori ci vengono richieste. Siamo in un momento di passaggio perché il mondo del lavoro ancora non conosce completamente la figura del Gastronomo (un po’ come per il laureato in Scienze e Tecnologie Alimentari dieci anni fa) talvolta confondendolo con un cuoco specializzato. Il Gastronomo, tra l’altro, è di particolare rilievo nelle aziende di dimensioni medio-piccole che in Italia costituiscono solitamente esempi di attenzione rivolta alla qualità, dunque risulta svantaggiato se il suo ruolo e le sue potenzialità non sono correttamente comprese. Io per primo cerco di far conoscere e comprendere questa figura quando prendo parte a manifestazioni o fiere vedendo con piacere che piano piano siamo sempre più conosciuti. Spero che attraverso l’Expo 2015 riusciremo ad avere un’effettiva voce in capitolo». Arriviamo finalmente a parlare di futuro e di sbocchi occupazionali. «I campi di impiego - ci rassicura il Professor Fabbri - sono tantissimi, secondo me: in potenza non ci sono limiti perché i corsi di laurea in Scienze Gastronomiche sono pochi, per cui c’è poca concorrenza. Oggi poi si parla di cibo da tutte le parti: in TV a tutte le ore, sui giornali, sulle riviste specializzate, le offerte ristorative si moltiplicano, i prodotti tipici sono sempre più di rilievo. Questi sono tutti ambiti in cui deve intervenire il Gastronomo 6

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aggiungendo valore al prodotto. La gastronomia consiste nella conoscenza e nella valorizzazione del cibo di qualità, che è così messo in evidenza da una figura professionale altamente qualificata. Vengono affrontate discipline come marketing, giornalismo, comunicazione, l’immagine del cibo, la storia del cibo, la conoscenza del prodotto attraverso la microbiologia, nutrizione, produzioni animali e vegetali più le materie di base da cui non si può prescindere. In questo campo ci si inventano anche i mestieri: per


esempio nel master da quest’anno sarà presente un corso di fotografia del cibo che tiene Edoardo Fornaciari, un bravo e famoso fotografo che ha accumulato esperienze con varie testate giornalistiche tra cui la Gazzetta di Parma». Risulta fondamentale la collocazione geografica del corso di laurea, aggiunge il Professore: «la città di Parma ci dà una vetrina, una visibilità importante, ma non possiamo dimenticare che l’Italia intera è uno scrigno che racchiude

moltissimi prodotti eccezionali dal punto di vista enogastronomico».

Il master Comet Oltre alla laurea triennale, troviamo infatti da tre anni a Parma il master COMET (Cultura Organizzazione e Marketing dell’Enogastronomia Territoriale), un’esperienza senza dubbio interessante come spiega il Professore: «con il master abbiamo la possibilità di fare molte più uscite didattiche per avvicinare gli studenti alle realtà agroalimentari, ma anche gite che ci permettano di migliorare la nostra visibilità, come quelle organizzate lo scorso anno in Puglia e poi quest’anno nel Beneventano. «In virtù dell’esperienza trascorsa - prosegue - abbiamo diretto a Sala Baganza (PR) la “Rocca del gusto - Sentieri aperti”, un evento culturale interamente dedicato all’enogastronomia, un’iniziativa che tende a far incontrare alimenti tipici e di qualità provenienti da diversi territori. Sono stati lì presentati ed abbinati prodotti del parmense e prodotti del comprensorio di altre province italiane. Quest’anno abbiamo replicato e lo rifaremo ogni anno e ci aspettiamo che tutti gli studenti partecipino. Finora si è trattato di un avvenimento molto coinvolgente per tutti: studenti, insegnanti e gli addetti ai lavori che abbiamo conosciuto strada facendo». Non possiamo non ricordare la breve esperienza che ha riguardato qualche anno fa il corso di laurea magistrale in Scienze Gastronomiche: infatti chiediamo al Prof. Fabbri se possa essere possibile la sua ripresa: «la magi

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strale è possibile, l’abbiamo fatta, il problema è che il ministero ci ha messo dei limiti, come il numero di docenti; quindi siamo stati costretti a sacrificare il corso di laurea più giovane, che pure già allora stava andando benissimo perché da un anno all’altro aveva raddoppiato le iscrizioni... ma questa è stata la decisione congiunta della facoltà». «Stiamo pensando ad allargarci un po’ ora che siamo un dipartimento (Scienze degli Alimenti) e stiamo valutando in che direzione farlo. Abbiamo una grande attrattiva per quanto riguarda anche studenti esterni, che arrivano da percorsi di studi in ambiti affini e quindi forse l’impostazione della magistrale non sarà la stessa del passato. Le pure Scienze Gastronomiche, oltretutto, si prestano poco a una magistrale in cui occorre produrre una tesi sperimentale, però si potrebbe mette-

re a punto un biennio in cui rientrino in pieno le competenze gastronomiche, dove lo studente possa approfondire a livello scientifico alcune materie caratterizzanti». Il Professore ci confessa con una certa emozione quale sia il suo sogno nel cassetto: «quando tra qualche anno andrò in pensione vorrei lasciare un corso di laurea mantenuto nella sua posizione di primato nella qualità della formazione in Scienze Gastronomiche; ci sono sicuramente aspetti da rivedere, in primis le difficoltà logistiche, ma noi lavoriamo con dedizione cercando di essere il più possibile vicini a voi studenti e siamo felici quando vi vediamo arrivare in fondo al vostro percorso, perseguire le vostre ambizioni». n

In alto, il prof. Fabbri consegna il diploma del Master COMET alla dott.ssa in Scienza Gastronomiche Luisa Terzi, alla destra del prof. Fabbri, i professori, nell’ordine, Paolo Tegoni, Davide Menozzi e Silvana Chiesa, alla sua sinistra Marzia Morganti Tempestini e Guido Stecchi; in basso, il prof. Fabbri nel suo studio con la prof.ssa Elena Fava e le corsiste del Master COMET, Ilaria Marianacci e Alessandra Romano in una fase organizzativa dell’evento Sentieri Aperti del 2013.

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Spigolature golose

Il Negroni di Niccolò Ferrari - Scienze Gastronomiche

La curiosa storia di un cocktail che è diventato un cult Firenze. Siamo in una serata primaverile del 1920. È qui che ha inizio la storia della nascita di un cocktail unico nel suo genere, uno dei più apprezzati ma che allo stesso tempo non è per tutti: il Negroni che, grazie alla sua forte amarezza e al suo alto grado alcolico, rimane uno dei pochi aperitivi che possono essere gustati e graditi non da tutti gli individui che popolano i bar cavalcando la moda del “pre-serata”, ma principalmente da chi veramente sa apprezzare la bellezza e la magia dei cocktail. Il protagonista di questa storia è il conte Camillo Negroni, un benestante fiorentino nato a Fiesole nel 1868. Il conte era uno dei personaggi più in vista di quegli anni: vivace, creativo, ribelle, gran schermidore, poliglotta, viaggiatore... Insomma, era un personaggio che si faceva notare nella sua città, ai giorni nostri lo definiremmo un VIP. Il conte Negroni era un amante dei bar e prima di cenare amava deliziarsi di un cocktail al Caffè Casoni (ora chiamato Caffè Giacosa) in via de’ Tornabuoni a Firenze: prendeva sempre il suo Americano, preparato con Vermouth rosso e Bitter Campari in parti uguali, e con l’aggiunta di selz. Ed è proprio in questo bar, in una sera di marzo del 1920, che nacque il cocktail Negroni. Il conte, stanco della sua solita bevanda e forse preso da un po’ di malinconia derivante dal suo ultimo viaggio a Londra, chiese al barman Fosco Scarselli una modifica al suo aperitivo, precisamen-

te chiese un’aggiunta di gin agli altri due liquori, “un tocco londinese” in più nel suo bicchiere. Camillo Negroni apprezzò molto questa variante all’Americano fatta dal barman e così da quel giorno, tutte le sere, richiedeva sempre il suo “solito”; in poco tempo gli altri habitué del bar cominciarono a richiedere l’Americano alla maniera del conte Negroni, per poi finalmente chiamarlo solo Negroni. La ricetta di questo cocktail, che da quella sera a oggi non è mai cambiata, è semplicissima: Vermouth rosso, Bitter Campari e Gin in parti uguali, serviti in un tumbler basso e largo con tanto ghiaccio e una scorza di arancia. Negli anni sono state poi inventate numerose altre varianti, come ad esempio il “Negroni sbagliato”, che vede la sostituzione dello spumante al Gin. Una ricetta molto singolare e sicuramente a effetto prevede di far ghiacciare il Bitter e il Vermouth a cubetti e di lasciare invariato il Gin nel bicchiere. L’Americano alla maniera del conte Negroni adesso è conosciuto in tutto il mondo semplicemente come Negroni ed è uno dei cocktail italiani più diffusi e noti, anche nei bar oltreoceano, e deve la sua creazione a un eccentrico personaggio che, in una tranquilla serata primaverile, preso da un senso di malinconia e tristezza, richiese un ricordo inglese nel suo aperitivo italiano, così da alleviare, non solo la sete, ma anche la mente. n

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FARINELLA: che scarpetta! Prodotto antichissimo e radicato nella cultura gastronomica dei contadini di Putignano (Bari) oggi rischia di rimanere vivo solo nella memoria dei nostalgici della tradizione. Per fortuna c’è la maschera. Ma che gusto ricco e imprevedibile quando la tuffiamo e inzuppiamo nel sugo avanzato nel piatto! di Gianluca Campanella - Scienze Gastronomiche

In un viaggio culinario tra le colline della Murgia barese, tra muretti a secco e trulli incantevoli, possiamo imbatterci in uno dei cibi più antichi e popolari che si conoscano da queste parti: la Farinella. Vera icona gastronomica legata alla tradizione povera della città di Putignano, la Farinella (a far’nedd in dialetto) è uno sfarinato ottenuto dalla molitura di ceci e orzo tostati con l’aggiunta di sale. Inizialmente però era fatta soltanto con l’orzo. Da alcune testimonianze certe, raccolte nei documenti della biblioteca di Putignano, negli ultimi decenni del 1700 veniva usata anche quella ricavata dai ceci neri, in quanto più economici e più friabili di quelli bianchi. L’origine della Farinella è prettamente rurale ed era l’alimento base, e spesso unico, dei contadini Putignanesi i quali, durante il duro lavoro dei campi, avevano bisogno di consumare un pasto frugale ma al tempo stesso robusto e ricco di proteine. Solitamente i contadini la mangiavano, o 10

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meglio ingoiavano, accompagnandola solo con lunghi sorsi di vino o di acqua per evitare il rischio di rimanere soffocati. In alternativa la usavano per intingere cipolle selvatiche, car-

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doni crudi e fichi freschi o secchi a seconda della stagione. La Farinella veniva portata al lavoro appesa alla vita raccolta in un sacchetto di tela, chiamato volgarmente u volz. A cena, invece, i contadini la mescolavano a una purea di fave. Un tempo, a testimoniare la sua origine povera, la Farinella era prodotta nella casa di un contadino mettendo insieme i ceci e l’orzo di tante famiglie diverse raccogliendoli in un grosso tegame di rame. I due ingredienti, dopo essere stati abbrustoliti, venivano pestati in piccoli mortai di pietra. E quindi ogni famiglia si prendeva la propria quota.

Per i più ricchi un condimento....

Orzo

In alcuni ricettari del 1700 si hanno testimonianze dell’utilizzo della Farinella anche da parte di un ceto sociale più alto: commercianti e artigiani la usavano come condimento, in particolare spolverandola sulla pasta al sugo, in tal modo diveniva un’alterna-


... e pensare che in Parlamento l’hanno maltrattata del popolo, fecero ricorso a quel povero alimento per La Farinella è ricordata soprattutto tra Otto e Novedeplorare atteggiamenti e posizioni degli avversari. cento da inchieste parlamentari, resoconti giornalistici e racconti. Come riferisce Piero Sisto in Putignano tra A tal proposito Vincenzo Leuzzi scrive: “L’on. Vito De impresa e moda, la scrittrice inglese Janet Ross nel suo Bellis, noto per le forme brutali e violente con cui conduceViaggio nella Terra di Manfredi del 1889, individua nella va le campagne elettorali in Puglia, nel suo intervento in difesa dell’operato del sindaco di Putignano per i fatti del Farinella, il cibo dei contadini della Murgia, il simbolo maggio 1902, giunse persino ad elogiare l’alimentazione più eloquente della povertà e della miseria dell’intera zona: “E gli abitanti poi di alcuni paesi delle Murge mandei contadini costituita dalla Farinella, suscitando l’ilarità dei deputati che gli attribuirono l’appellativo di onorevogiano la così detta Farinella che è la farina del granturco, dei piselli, delle castagne già abbrustolite al forno, e che le della Farinella”. La Farinella compare anche nei menù griffati come – povera gente – mangia così, senza neanche tentare di cuocere o di impastare. Questi paesi, Noci, Alberobello, quello di Angelo Sabatelli, chef dell’omonimo ristorante a Monopoli. Il cuoco fa la Putignano ecc. sono spola più volte all’anno fino chiamati dagli altri paesi a Putignano per fare scorta di Farinella, appunto per di Farinella: «Non la uso per indicarne la povertà.” In seguito ai tumulti conasciugare i sughi - spiega ma per valorizzare il sapore tadini di Putignano del dei ceci tostati che riporta 1902 e alla dura represun po’ all’infanzia, alle feste sione da parte delle forpatronali, quelle di paese. ze dell’ordine, il dibattito Ne faccio un risotto, con politico si fece sempre crema di porcini, vincotto più aspro e violento tra e foie gras». Ingredienti socialisti e conservatori, nobili e poverissimi nello tra giolittiani e antigiolitstesso piatto, trionfo di tiani, così i contendenti, democrazia prima ancora con assai poca sensibiche di gusto. lità nei confronti delle Risotto con porcini, foie gras, vincotto e Farinella n condizioni di indigenza tiva alla “scarpetta” perché non c’era bisogno di intingere il pane per raccogliere tutto il sugo rimasto; oppure la cospargevano sulle verdure cotte e sulle patate lesse schiacciate con la forchetta e condite con olio e sale. Inoltre veniva usata per avvolgere le ciliegie o l’uva, o anche mescolata con le olive mature snocciolate e schiacciate, infine persino come un dolce, insieme allo zucchero con o senza acqua. Prodotto composto da due alimenti base dell’alimentazione mediterranea precolombiana, si è adattato benissimo ad arricchire di sostanza e di sapore i nuovi piatti e le nuove risorse giunte dopo la scoperta dell’America.

Buona e…festosa.

Ma le origini della Farinella sono così antiche e radicate nel territorio al punto tale che nel tempo lo sfarinato

si è legato anche al Carnevale di Putignano, uno dei più longevi di Italia e sicuramente il più lungo d’Europa (inizia il 26 Dicembre!), diventando il nome della maschera simbolo della città e delle sfilate carnascialesche.

Farinella

La maschera di Farinella evoca l’immagine di un buffone, un jolly dallo spirito burlesco, ma nella sua raffigurazione originale, presentata nel 1952 dal grafico Mimmo Castellano, ha ca-

ratteristiche contadine che rievocano l’alimentazione misera e povera di questi, quale, appunto, la Farinella di ceci e orzo. Oggi serve a insaporire sughi e salse di ogni tipo, a condire carni e verdure, a impanare il pesce per le fritture, ed è persino usata come sostituto delle tradizionali briciole di pane sulle orecchiette e cime di rape, il piatto re della gastronomia Pugliese. Infine è usata in dolci e pasticcini dal sapore unico. Recentemente, dal desiderio di rinnovare la tradizione e dalla fantasia di un pasticcere putignanese, sono nate le “palle di Farinella” (pensando a quelle “di Mozart”) in perfetta sintonia con lo spirito grottesco della Città del Carnevale. Purtroppo questo prodotto meraviglioso continua a essere abbastanza sconosciuto già a distanza di pochi chilometri da Putignano, e il ricordo

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Il titolare del negozio “La Farinella” si chiama Paolo Campanella ed è alla quarta generazione. Ha un Mulino a palmenti (pietra) di circa 70 anni fa e produce due tipi di Farinella: Ceci bianchi e neri, Ceci bianchi e orzo.

La Farinella

Estramurale a Mezzogiorno 176 Putignano (Ba) Tel. 335 6579764

di questo alimento è mantenuto in vita più dalla maschera che dal suo consumo. Infatti a garantirne la sopravvivenza c’è rimasto solamente Paolo Campanella, unico produttore di Farinella in tutta Putignano che, nella sua bottega del centro storico, la produce armato di un piccolo mulino a palmenti in pietra, lo stesso che usavano il bisnonno, il nonno e suo padre prima di lui. Il mugnaio putignanese non ha ere-

Paolo Campanella nel suo laboratorio

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di (“né apprendisti, perché non posso permettermelo”) e riesce a resistere solo grazie alla passione e alla tradizione di famiglia, più che a una mera richiesta di mercato…perché non si diventa ricchi macinando ceci e orzo.

È quindi destinata all’estinzione?

In questo scenario, c’è da chiedersi come sia possibile che un cibo che rappresenta la storia e l’identità di

questo territorio e della sua gente stia rischiando di scomparire senza lasciar traccia nemmeno nella memoria delle nuove generazioni. Quindi, se è vero che il cibo è cultura, dovremmo prima di tutto riscoprire e assaggiare questa rarità gastronomica, e poi diffonderla, proporla e difenderla dall’incalzare della cultura fast and easy. Di solito è proprio chi potrebbe vivere quotidianamente certi prodotti che li dimentica e li esilia, più affascinato dal nuovo e dal diverso. Questa volta però ci sono promettenti segnali che saranno i Pugliesi stessi, anzi i Putignanesi, che, con una punta di orgoglio, si rimboccheranno le maniche per non cancellare un pezzo della propria storia. La Farinella del resto merita una vera e durevole rinascita alla stregua di tanti altri prodotti più celebri della tradizione italiana oggi tornati sulle tavole ed entrati persino nel gossip gastronomico. Riuscirà, nella sua povertà splendida, a rappresentare nel mondo non soltanto il carnevale di Putignano ma la tradizione allegra e spensierata di tutta la Puglia? n


Il cuoco che la valorizza

La ricetta delle “Fave e furcèv” è un’antica tradizione che affinché non scompaia, bisogna mantenere vivo il sacro un giovane cuoco ha voluto recuperare personalizzandola fuoco, però: «Ho voluto – prosegue Luigi – reinterpretare le con l’aggiunta della curcuma, di quella che lui chiama “ce- vecchie ricette aggiungendo, togliendo o sostituendo innere di fichi” e soprattutto Farinella. Si tratta di uno dei tan- gredienti così, nelle preparazioni tradizionali, come nel ti esempi dello stile gastronomico di Luigi Pugliese: ha 35 caso dei taralli, sostituisco la farina con la Farinella ottenenanni e il suo regno è un piccolo locale nel centro storico di do un tarallo che non possiamo definire tradizionale, ovvePutignano, lo “Scinuà”. ro quello della nonna...». «Ma possiamo affermare che è Luigi è sempre guidato da un forte legame con la sua ter- putignanese! Questo sì»: aggiunge il nostro cuoco con orra e definisce la sua filosofia in cucina con una sola parola: goglio. irriverente. Irriverente nel concetto, nell’azione e nei colori. Luigi cerca di proporre la Farinella in tutte le sue forme, Così come risulta essere irriverente il carattere di Farinella. dall’antipasto al dolce, per poter dare ancora vita a un inIl suo obbiettivo è di essere provocatorio come Farinella: grediente che, oltre a rappresentare il posto in cui vive, in«mi piace prendermi gioco degl’ospiti mescolando colori, carna l’identità di una popolazione. «Per raggiungere queprofumi e forme degli ingredienti della nostra terra con un sto obbiettivo, devo ingegnarmi per incuriosire l’avventore apparente non senso, al fine di incuriosirli e guidarli alla ri- forestiero, e, nel contempo, meravigliare quello del luogo. flessione sugli aspetti secondari di una preparazione». il primo potrà raccontare della cucina di Putignano spesso Diplomatosi nel 1998 inosservata se paragonapresso l’istituto alberta a paesi limitrofi più ceghiero di Castellana Grotlebri. Il secondo potrà te, ha poi fatto diverse essere invogliato, conoesperienze anche fuori scendone le potenzialità, dalla sua Putignano: Boa usarla tutti i giorni e far logna, Bari, Bruxelles... finta che sia sempre carEd è qui che ha maturato nevale». l’idea con cui ha impostaPurtroppo al potenziato la cucina dello Scile di questo prodotto non nuà:«la mia idea era corrisponde altrettanta quella di uscire dal proattenzione dell’amminivincialismo della cucina strazione locale e dei ridelle nonne, e il miglior storatori, come fa notare modo per farlo, restando Luigi: «fare rete sarebbe comunque autentici, era l’ideale, una amministraquello di lavorare con le zione lungimirante doforme e i colori; molti vrebbe fornire gli struLo chef Luigi Pugliese (a destra) nella sua cucina dello Scinuà sono abituati a pensare menti agli operatori del che la cucina delle nonne settore per poter credere sia fatta solo di cose semplici, genuine, odori inconfondibili nel potenziale; ho proposto tempo fa che tutti i ristoratori e piatti di terracotta». «Per me questo – prosegue - appar- del centro storico promuovessero almeno un piatto del teneva alle nonne di un tempo, ma è possibile renderlo più menù utilizzando la Farinella, così da innescare un piccolo attuale e più curioso». meccanismo capace di coinvolgere anche gli utenti e poi gli Bisogna quindi rinvigorire il senso di cucina della nonna, amministratori». n

Fave e furcèv: la cui ricetta si può trovare nel box alla pagina seguente.

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Fave e furcèv con Farinella Ingredienti per 6 persone 400 g di fave secche già sgusciate 400 g di viticci (furcèv) 2 spicchi d’aglio Qualche fogliolina di menta Olio extra vergine d’oliva Farinella Fichi secchi Curcuma Sale Un paio di giorni prima mettiamo qualche fico secco tagliato a fettine nel forno statico scaldato a 60°C. Dopo due ore passiamoli in un luogo ventilato perché secchino ulteriormente. Dopo 24 ore trituriamoli più fini possibile con un coltello, possibilmente di ceramica. Laviamo bene le fave quindi immergiamole in una bacinella piena d’acqua tiepida e lasciamole a bagno per 3 ore. Dopo questo periodo di tempo le fave si saranno gonfiate e potremo iniziare la cottura, ricordandoci però di eliminare le impurità ancora presenti. Scoliamole e trasferiamole in una pentola a doppio fondo o meglio ancora nella tipica pignatta (pentola in terracotta); questo eviterà di far attaccare le fave al fondo della pentola. Copriamole d’acqua e saliamole moderatamente. Portiamo a bollore a fuoco medio, eliminando la schiuma che si formerà in superficie. Abbassiamo la fiamma al minimo e lasciamo cuocere per 2 ore senza mai mescolare. Quando le fave risulteranno sfaldate, togliamole dal fuoco e lasciamole riposare qualche minuto affinché l’acqua rimasta emerga in superficie. Togliamo quest’acqua e conserviamola. Mescoliamo con energia con un cucchiaio di legno per ottenere una purea omogenea. Se non ci riusciamo, aiutiamoci con un frullatore a immersione e, se la purea risultasse troppo compatta e densa, aggiungiamo un po’ dell’acqua che avevamo precedentemente messo da parte. Intanto avremo saltato in padella i viticci con olio abbondante, aglio, un’ombra di curcuma e sale, profumando alla fine con la menta sminuzzata. Versiamo la purea di fave nei piatti, formando una sorta di nido che riempiremo di viticci e spolverizzeremo di Farinella e un po’ di trito di fichi. Completiamo con un filo di olio extra vergine crudo. 14

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La maschera Ideata dal grafico pugliese Mimmo Castellano nel 1952, Farinella è la maschera ufficiale del Carnevale di Putignano. Ma solo dall’anno successivo l’immagine di questa maschera diventa il marchio delle sfilate dei carri allegorici. Farinella è disegnata con forme geometriche, angoli vivi e linee rette. È presentata in atto di saltare come eseguendo un ballo: mani in alto all’altezza delle spalle con indici e pollici nel gesto di schioccare le dita; le gambe piegate come fossero quelle di un ranocchio. È vestita con giubbino e calzoni aderenti a rombi irregolari di colori diversi (principalmente rosso e blu). Ha un copricapo con due corni flosci con le stesse decorazioni a rombi, e con alle estremità due sonagli. Il tutto completato da una mantellina corta con sonagli ai bordi ed anche alla punte delle scarpe. Farinella è una maschera dallo spirito burlesco, con un’espressione divertita e allegra sul viso scoperto. È l’immagine del propagginante, un contadino piantatore di ceppon’ delle propaggini, ed è quindi molto più un personaggio reale che una maschera della commedia dell’arte: personaggio il cui nome definisce l’alimentazione e le condizioni misere e Farinella, la maschera povere del contadino mangiatore di farina di ceci, che quindi viene assunto come emblema. Sono proprio queste caratteristiche povere, rurali, contadine che legano la Farinella maschera alla Farinella consumata durante i pasti. In un’intervista realizzata da Putignanonelmondo.it, Castellano racconta che il bozzetto originario aveva ben 23 colori. “Realizzai un mixage di Arlecchino e di un jolly delle carte da gioco con il naso rubizzo dell’ubriacone e le sopracciglia folte: da un pezzente era venuto fuori un personaggio elegante”. Il riferimento è a un personaggio putignanese soprannominato A’ Far’nodd, da cui Castellano avrebbe ricavato il soggetto per la maschera: si trattava di un barbone la cui identità (non confermata) è sovrapponibile a quella del propagginante Pietro Calisi.


Il carnevale di Putignano

620 anni di storia

Il carnevale di Putignano affonda le sue radici nel lontano 1394 e, da allora, lo spettacolo si rinnova di anno in anno. Si apre ufficialmente il 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, con la festa delle Propaggini. Secondo la tradizione, le origini della festa carnascialesca sarebbero legate alla traslazione delle reliquie di Santo Stefano (poi diventato patrono cittadino) dall’abbazia di Monopoli a Putignano, al fine di difenderle dalle incursioni saracene. Fu così che i contadini putignanesi, intenti a piantare le viti con la tecnica delle propaggini (che poi dà il nome alla festa), abbandonarono il lavoro dei campi per unirsi al corteo di fedeli che trasportavano le spoglie del Santo improvvisando canti e balli. Questa ricorrenza ha conservato nei secoli le caratteristiche che da sempre le hanno contraddistinte: decine di poeti dialettali in abiti contadini, i propagginanti, si alternano sul palco di Piazza Plebiscito recitando versi satirici in rima contro i politici, i potenti, personaggi noti della scena locale, mettendo letteralmente in piazza i fattacci e gli episodi più controversi della vita cittadina. Un rito che attraverso la satira denuncia i propri vizi al fine di propiziare un futuro migliore. Solo dopo arrivano le sfilate dei carri di cartapesta diventate unico riferimento del Carnevale e che rappresentano la modernizzazione della tradizione. Inizialmente questi carri allegorici erano rozzi e approssimativi, costruiti con cartone e tessuto su strutture di legno. Oggi, anche grazie all’opera dell’artista/ artigiano Armando Genco, che negli anni ’50 e ‘60 ha rivoluzionato le tecniche di costruzione dei carri, questi sono realizzati interamente in cartapesta e dotati di movimenti armonici. I “maestri cartapestai” si rifugiano per mesi nei capannoni dedicandosi giorno e notte a trasformare i giornali in Giganti di carta. Queste opere d’arte raccontano eventi di rilievo nazionale e internazionale: temi importanti legati alla politica e all’attualità, alla solidarietà e alla morale. Durante i quattro corsi mascherati, luci, colori e suoni scolpiscono nel pubblico un’emozione indescrivibile da “paese dei balocchi”. Tre domeniche fra carri allegorici, maschere di carattere e gruppi mascherati, con il gran finale in notturna del martedì grasso.

La maschera oggi Negl’ultimi anni, durante tutto il periodo carnevalesco, Farinella è stata interpretata in modo eccezionale e coinvolgente dall’attore putignanese Dino Parrotta, che ha quasi ridato vita a questa maschera trasferendo in essa tutta la passione, l’orgoglio e l’amore che la maggior parte dei putignanesi hanno per il carnevale. Dino ha iniziato ad approfondire la “storia” di Farinella nel 2002 e, dopo aver consultato Castellano e giornali degli anni Cinquanta, ha realizzato personalmente il costume. Costume identico al disegno originale in quanto dipinto a mano, con scarpe perfettamente identiche (in pelle e non fodera e spugna), con un cappello particolare, il tutto di difficile esecuzione. Dopo una decina di tentativi, con un impegno personale non indifferente, Dino ha realizzato anche la maschera. Le ultime due in cuoio sono state realizzate da Andrea Cavarra e con il controllo di Mimmo Castellano. L’attore putignanese ha interpretato Farinella facendolo esprimere in versi e rima (ispirandosi alle propaggini, nome assunto dagli scherni del carnevale) e con movimenti studiati, armonici, mai volgari ma coerenti alla sua immagine.

Qui sopra: Farinella a confronto, l’attore ed il logo. Qui sotto: il logo del Carnevale di Putignano 2014

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Taralli di Farinella Ingredienti per 700 g di taralli 400 g di farina di crusca 100 g di Farinella 100 ml di olio extra vergine d’oliva 120 ml di vino bianco Sale Versiamo in una ciotola la farina di crusca e la Farinella e, successivamente, aggiungiamo il sale, l’olio intiepidito e il vino bianco. Impastiamo gli ingredienti per circa 20 minuti, fino a ottenere un impasto elastico e compatto (più compatto di quello del pane).

Farinella piccante

Copriamo la ciotola con un foglio di pellicola trasparente e lasciamo quindi riposare l’impasto per 10 minuti in frigorifero.

Olio extra vergine d’oliva

Riprendiamolo e tagliamolo in blocchi dai quali ricaveremo dei rotoli del diametro di circa un centimetro. Dividiamo i rotoli in bastoncini di circa 7-8 centimetri di lunghezza, li arrotoliamo formando degli anelli e andiamo a schiacciare l’estremità una sull’altra. Immergiamo i nostri tarallini uno alla volta in acqua bollente, senza però riempire la pentola. Quando tornano a galla li togliamo, facendo attenzione a scolarli per bene e li sistemiamo su un telo per farli asciugare. A questo punto li trasferiamo su di una teglia e li inforniamo a 200°C per 20 minuti circa, o comunque fino a quando risultano ben dorati. Estraiamo i taralli dal forno e li lasciamo raffreddare.

La preparazione della Farinella Picccante

Ingredienti per 2 persone 1 cipolla 1 peperoncino piccante 200 g di passata di pomodoro Farinella Facciamo soffriggere in poco olio la cipolla e il peperoncino piccante. Appena rosolata la cipolla, aggiungiamo il pomodoro e lasciamo cuocere. Versiamo il sughetto in un piatto aggiungendo poco per volta la Farinella schiacciandola e mescolandola con la forchetta.

Dolcetti di Farinella Ingredienti per 8/10 persone 550 g di burro 350 g di zucchero 500 g di Farinella di ceci 500 g di Farinella di orzo 4 uova 2 tuorli Buccia di limone e di arancia non trattati grattugiata Cannella Latte fresco intero

Taralli alla farinella 16

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In una zuppiera ammorbidiamo il burro a crema, aggiungiamo lo zucchero, le uova, la buccia di limone, di arancia e la cannella. Mescoliamo e versiamo il tutto al centro della farina. Impastiamo e facciamo riposare per circa un’ora. Riprendiamo l’impasto e diamo forma ai dolcetti a fantasia. Cuociamo in forno a 160°C per 15 minuti.


Farinella calda Ingredienti per 2 persone 1 cipolla 3 pomodorini Prezzemolo Sale Pepe Olio extra vergine d’oliva Farinella

Facciamo bollire nell’acqua la cipolla, i pomodori tagliuzzati e il prezzemolo tritato. Condiamo con il sale, il pepe macinato e l’olio. Quando la cipolla è ben cotta versiamo il tutto in un piatto aggiungendo la Farinella mista di orzo e ceci pestandola con la forchetta. Questa ricetta può essere accompagnata ai lampascioni fritti senza pastella con un doppio taglio a croce sulla testa, o a quelli lessati conditi con olio, sale, pepe e aceto di mele da mangiarsi freddi e schiacciati.

Un tocco speciale: la Farinella si può aggiungere anche alle classiche orecchiette alle cime di rapa.

Farinella cotta Ingredienti per 4/6 persone 1 l di brodo vegetale ricco di aromi (prezzemolo, sedano, cipolla, aglio, carota, alloro) Formaggio grana grattugiato Olio extra vergine d’oliva Farinella Basilico Sale e pepe. Portiamo a bollore il brodo e, mentre sobbolle, facciamo cadere a pioggia la Farinella mescolando con un cucchiaio di legno fino a quando non si ottiene una consistenza pastosa. La quantità dipende da quanta ne prende il brodo. Suddividiamo, quindi, nelle singole ciotole e insaporiamo con il formaggio e qualche fogliolina di basilico sminuzzato.

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In primo piano

Indovina “che” di Giulia Ughetti - Master Comet

Nella regione che ha dato i natali ad alcuni dei più blasonati salumi d’Italia e che in passato aveva fatto del maiale quasi una religione e dei suoi prodotti una delle principali fonti di sostentamento, scopriamo un piccolo salame dal nome con un significato curioso: lo Strolghino di Culatello. I molti turisti stranieri che si recano in visita nelle zone della Bassa Parmense per scoprire le tradizioni gastronomiche (ma non solo) di questo luogo faticano a pronunciare il suo nome. Ma Strolghino è un nome ben noto e familiare tra le genti di queste terre, racchiuse tra le nebbie del Grande Fiume. Non si può però certo biasimare i nostri ospiti d’oltralpe e d’oltreoceano (la zona della Bassa Parmense è infatti meta di turisti da tutto il mondo) in quanto il nome di questo salame, lo Strolghino di Culatello, deriva da un termine dialettale ancora in uso in questi luoghi e cioè strolga, che significa indovina. Anticamente infatti, questo salame dalla breve stagionatura e dalla forma lunga e stretta, veniva consumato per primo e ancora fresco, a pochi giorni dalla sua produzione, in modo da po-

ter prevedere, dunque indovinare, la qualità delle carni dell’animale utilizzate anche per salumi più pregiati e stagionati come Culatello, Fiocco e Spalla.

La breve stagionatura.

Un’altra versione molto accreditata, e in un certo senso simile, sull’origine di questo nome rimanda invece

alla parola astrologo, cioè indovino, in quanto era necessaria l’azione di un mago per poter ottenere una giusta asciugatura e stagionatura dei prodotti in una zona così umida. Anche se oggi lo Strolghino è diffuso e prodotto in tutta la provincia di Parma, è proprio nelle zone umide e nebbiose della Bassa Parmense, tra le città di Zibello, Busseto, San Secondo, Polesine Parmense e Colorno, che trae le proprie origini. Zone di produzione del ben più noto Re dei Salumi, il Culatello di Zibello DOP, a cui lo Strolghino è indissolubilmente legato. Per la preparazione del primo salume infatti, dalla coscia disossata vengono separate la parte posteriore (quella che darà poi vita al Culatello stesso) e la parte anteriore (utilizzata invece per il Fiocco). La prima massa muscolare verrà poi nuovamente rifi-

Lo Strolghino di culatello

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viene a cena? lata per ottenere la classica forma a pera del Culatello e i tagli scartati per questa produzione saranno invece destinati allo Strolghino, il che lo rende un salame molto pregiato e con una percentuale di grasso molto inferiore rispetto a quella dei più comuni salami. Tutti questi tagli magri vengono poi finemente macinati, insaporiti con sale e pepe e inumiditi con Malvasia (come accade per ogni salame ogni produttore ha poi la sua ricetta segreta per la concia). Il macinato

così ottenuto viene poi insaccato nella budellina, un budello naturale di maiale molto sottile chiamato in dialetto fisola (piccola fettuccia). A lavorazione terminata lo Strolghino si presenta infatti come un salame molto lungo (un tempo la lunghezza dello Strolghino della Bassa era di circa 40 cm, oggi si aggira attorno ai 20 cm) e sottile con un’estremità ricurva e dalla superficie irregolare, dal diametro di pochi cm e dal peso che si aggira attorno ai due - tre etti. Date

queste dimensioni, e dato anche lo scopo primario per cui un tempo era preparato, lo Strolghino non è adatto a una lunga stagionatura, che lo asciugherebbe troppo, ma deve essere affettato quando è ancora fresco e soffice, non più tardi di 20-25 giorni dopo la sua produzione, in modo che mantenga la sua caratteristica dolcezza, e gustato in abbinamento a un buon calice di vino Fortana. n

Uno Strolghino da record. Norcini in piazza a Zibello durante la preparazione dello Strolghino più lungo del mondo

Ogni anno si svolge nei comuni di Sissa, Polesine Parmense, Zibello e Roccabianca (PR) la staffetta più golosa d’Italia dedicata interamente al suino: “il November Porc.. speriamo ci sia la nebbia!” A Zibello il 22 e 23 novembre viene tentato il nuovo record dello Strologhino più lungo del mondo: già nel 2003 era stato battuto il record del salame più lungo del mondo con uno Strolghino di 475 metri di lunghezza entrando così nel Guinness dei Primati (pur non venendo convalidato dai giudici del Guinness World

Record, nel 2011 lo Strolghino raggiunse persino i 526 metri). Dopo la preparazione, pazientemente effettuata da un team di norcini del luogo, lo Strolghino viene poi cotto, essendo troppo fresco per essere mangiato crudo, e distribuito gratuitamente ai presenti.

Per info: info@stradadelculatello.it – telefono: 0524-939081

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Costanza si racconta... e ci racconta il Comet

di Giorgio Maria Zinno - Scienze Gastronomiche Ventottenne laureata in Scienze Filosofiche presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna, nel 2011 ha frequentato, presso la sede di Academia Barilla, il Corso ISCOM “Le Nuove Frontiere del Gusto – Tradizione e Adattamento all’insegna della Tipicità” con Project Work finale. Nel 2012 si è iscritta al Master Comet di cui oggi è Coordinatrice e Tutor. Insieme al Prof. Andrea Fabbri, Presidente del Corso di Laurea di Scienze Gastronomiche e del Master Comet, a cui Costanza fa riferimento sempre entusiasta, si dedica a progetti che oltre ad avere un valore accademico perseguono finalità etiche. Nel Dicembre 2013 ha vinto una borsa di studio per il Master in Europrogettazione - Official AICCRE della Venice International University.

Filosofia e Gastronomia, approfondimenti e riflessioni assieme a una ex studentessa del Master che poi ne è diventata Tutor Determinata ed intraprendente, ci racconta di quando, come e perché si è appassionata alle Scienze Gastronomiche e alla valorizzazione dell’Enogastronomia Territoriale. La sua carriera è decisamente curiosa. Tra la filosofa e la studiosa delle Scienze Gastronomiche sembra esserci poca affinità ma c’è un episodio che ha determinato questo binomio inusuale. «Dal 2011 – ci racconta – sono entrata a far parte di A.D.A. Onlus (Associazione Donne Ambientaliste) e mi sono occupata di tematiche ambientali. A.D.A. si interessa di divulgazione scientifica, ma anche di progettazione e nel 2011 il Presidente Andrea Fabbri è stato chiamato dall’Associazione per ideare il progetto “Il Giardino della Biodiversità” per il Liceo Marconi. Il mio interesse per la biodiversità agroalimentare è nato proprio da questa circostanza. Non conoscevo ancora il Prof. Andrea Fabbri, ma ho visto crescere il progetto che ha portato avanti con tanta dedizione. Durante una conferenza a Palazzo Soragna a Parma aveva dichiarato che la penisola italiana per la sua particolare collocazione geografica, 20

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per la diversità delle piante coltivate, ma anche selvatiche, e per la ricchezza delle specie rare, è il paese europeo che custodisce il più grande patrimonio di biodiversità. In quel momento ho capito che volevo saperne di più, mi emozionava l’idea di poter conoscere più da vicino le prassi di sviluppo sostenibile per la tutela della biodiversità agroalimentare del nostro territorio. Per questo mi sono iscritta al Master Comet.» Il Master in Cultura, Organizzazione e Marketing dell’Enogastronomia Territoriale è il primo corso universitario focalizzato sullo studio del Prodotto

Tipico. Il corso, unico nel suo genere, «è un Master professionalizzante; la figura che ci proponiamo di formare è il futuro manager del settore agroalimentare. I nostri corsisti diventano specialisti in grado di promuovere e gestire il Patrimonio Enogastronomi-

co italiano, diventano quindi dei veri ambasciatori del Made in Italy. Si parla di Enogastronomia Territoriale perché il Territorio è il contesto di riferimento per quei processi culturali, scientifici, economici e sociali che noi chiamiamo “Prodotti Tipici”. Le produzioni agroalimentari italiane sono un vero e proprio capitale e costituiscono la ricchezza materiale e immateriale, implicita ed esplicita di un Territorio. La mia passione per lo studio delle Scienze Gastronomiche è partita proprio da qui. Durante l’anno di formazione ho potuto conoscere la cultura dei prodotti tipici a 360° e ho avuto la possibilità di svolgere due stages curricolari: uno presso un ufficio di comunicazione e promozione eventi enogastronomici, uno presso l’Antica Corte Pallavicina Relais dove ho partecipato al progetto editoriale “La Mia Bassa”. I nostri corsisti al termine degli studi operano in diversi settori: consorzi di tutela e valorizzazione, riviste specializzate, programmi radiotelevisivi, enti locali, agenzie di promozione turistica e territoriale, aziende di ristorazione, aziende di distribuzione. Abbiamo un placement


più che soddisfacente perché l’80% dei nostri corsisti trova un’occupazione nei 6 mesi successivi al conseguimento del Diploma.» Per gli studenti del corso di Scienze Gastronomiche il Master può diventare, inoltre, un capitolo fondamentale per la preparazione dei candidati al mondo del lavoro in questo settore. «Il Corso – come ci spiega Costanza offre esperienze concrete sul campo che simulano contesti professionali. Un laureato in Scienze Gastronomiche ha qualche vantaggio in più rispetto ai laureati in altre materie che si approcciano per la prima volta all’argomento. Io stessa, provenendo da una laurea in Scienze Filosofiche, ho dovuto mettermi alla pari rispetto ad alcuni miei compagni che si erano laureati in Scienze Gastronomiche. All’inizio ho dovuto studiare molto e con molta determinazione per poter

recuperare. I laureati di Scienze Gastronomiche approfondiscono le tematiche svolte nel Master con maggiore consapevolezza e con un’impostazione più strutturata. Ritengo che

comunque sia giusto dare l’opportunità anche ad altri corsi di laurea di accedere e approcciarsi a questo pe-

Le foto che corredano questo servizio rappresentano “Sentieri Aperti” del 2013. Coordinato con determinazione da Costanza, “Sentieri Aperti” è un format di turismo enogastronomico teso a identificare itinerari di carattere culturale e, al contempo, sostenibile che tende a restituire valore e rilevanza a saperi e sapori della tradizione. Il modello di turismo che questo format vuole portare avanti è quello che meglio può adattarsi alle fattezze della nostra Italia, un lento viaggio di conoscenza e condivisione a basso impatto

culiare studio. Ovviamente, alla fine, i profili sono diversi. Un laureato in Scienze Gastronomiche è Gastronomo e Manager del settore food, ha un profilo quindi ancora più completo. Il Manager del Food formato dal Master è specializzato nella valorizzazione del patrimonio enogastronomico e quindi può fungere da “mediatore culturale”, in quanto, conoscendo il linguaggio del Cibo e del Vino, egli può descrivere e capire l’importanza della diversità agroalimentare.» Parafrasando Massimo Montanari, in che modo anche secondo Costanza, il Cibo è Cultura? «Il Cibo è un elemento culturale primario, un linguaggio molto articolato che se ben decifrato ci trasmette significati identitari molto profondi. Quando ci approcciamo al linguaggio del Cibo e del Vino dobbiamo considerare che abbiamo a che vedere con

ambientale. Il turista trova nel prodotto tipico il suo indicatore di direzione costruendo così una mappa piena di itinerari che si intersecano lungo tutto lo stivale. Nel 2013 “Sentieri Aperti” si è sviluppato in occasione dell’evento “La Rocca del Gusto” nella Rocca Sanvitale a Sala Baganza, con la partecipazione di una folta rappresentanza di studenti provenienti dai corsi di laurea in Scienze Gastronomiche e Scienze e Tecnologie Alimentari dell’ Ateneo di Parma.

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San Michele Bagni (PR). Allevamento di suini neri. Sotto: presso la Fiera Il Cibo Sano dell’Accademia delle 5 T, con Federico Capocasa, Elisabetta Zazzi (diplomati del Master Comet 2013) e il Presidente del Master Andrea Fabbri.

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un idioma che per il territorio detiene un’importanza pari a quella linguistica. Massimo Montanari ci parla del lessico del Linguaggio-Cibo dicendo che è talmente peculiare da precisarsi di volta in volta in rapporto al contesto culturale, territoriale, sociale, temporale ed economico di riferimento. Sia il Gastronomo che il Food Manager formato dal Master Comet, possedendo le competenze per decifrare correttamente il Linguaggio-Cibo, possono fungere da mediatori culturali.» La storia della letteratura e della filosofia è disseminata di considerazioni e riflessioni sul Cibo. Inteso principalmente come soddisfacimento del bisogno biologico di nutrirsi e curarsi, in ogni caso il Cibo, in modo più o meno dichiarato, rimanda sempre anche al concetto di Cultura. «All’Università di Bologna ho studiato Estetica. L’Estetica come la Gastronomia, per molti aspetti, può essere considerata una scienza sperimentale che si concentra sull’analisi di oggetti sensibili. Spesso e ingiustificatamente si pensa che la scienza sperimentale sia di serie b. Quando si parla di Scienze Gastronomiche si parla, invece, di Alta Cultura. L’Estetica come disciplina scientifica non ha nulla a che vedere con il termine “estetica” del senso comune. Spesso si genera confusione su questo. Con Disciplina Estetica non si intende solo la Scienza del Bello, l’Estetica è qualcosa di ben più ampio. Se parliamo di Estetica del Cibo non ci rivolgiamo quindi solo al lato puramente visivo, non si tratta dell’ornamento o della composizione di un piatto, questa banalizzazione è assolutamente erronea. Si parla giustamente di Esperienza, se vogliamo analizzare il Cibo utilizzando l’approccio estetologico, ci occupiamo del Cibo come Bene Culturale, o ancora meglio, come direbbe il filosofo Arthur Coleman Danto, potremmo considerare il Cibo come un embodied meaning (significato incarnato). L’Estetica per la Gastronomia può essere considerata una disciplina che convalidi ulteriormente il


(Sopra) Presso Vinitaly con le colleghe Valentina Gualdi e Giulia Rampini, diplomate del Master Comet 2012. (Sotto) Presso l’Antica Corte Pallavicina per l’Evento Le Centomani di Questa Terra con gli studenti del corso di laurea in Scienze Gastronomiche Gianluca Campanella e Giorgio Maria Zinno e il responsabile del Relais Zeno Ferrari.

Cibo come oggetto e strumento d’indagine conoscitiva.» È sorprendente notare come ci possa stupire l’approccio filosofico di Costanza, il suo indagare la Gastronomia lascia quasi a bocca aperta i profani della scienza dell’ essere. Costanza crede che «le Scienze Gastronomiche sono scienze sperimentali nel senso galileiano. Nella maggior parte dei Dizionari italiani la parola “Gastronomia” è erroneamente ed esclusivamente ridotta all’arte della preparazione dei cibi. Eppure il termine “Gastronomia” deriva da gastros – ventre e nomos – legge, regola. Ecco che quindi arriviamo al punto saliente della questione; stando alle categorie filosofiche occidentali la Gastronomia potrebbe essere letta come una sorta di ossimoro, in quanto il termine racchiude quella che viene considerata la sfera più bassa del sensibile, il gastros che si intreccia con l’altissimo concetto di nomos. La tendenza a

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Presso il Centro S. Elisabetta al Campus per il brindisi del Diploma della Classe 2012. 1 Costanza Ferrarini 3 Prof. Elena Fava 5 Prof. Furio Brighenti 7 Prof. Paolo Tegoni 9 Andrea Amedei 11 Prof. Corrado Giacomini 13 Giuseppe Giovannetti 15 Prof. Maura Franchi 17 Valentina Gualdi 19 Maria Pia Romano.

considerare ambigua l’associazione di ventre-legge e la conseguente destituzione culturale della Gastronomia, non è che una delle tante eredità del dualismo occidentale che ha inteso scindere il corpo dalla mente, riducendo e declassando la sfera sensibile. A mio parere le Scienze Gastronomiche sono totalmente galileiane: si parte da “sensate esperienze” per giungere a “necessarie dimostrazioni”. Si deve partire dall’osservazione della realtà empirica, una realtà che 24

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non esclude la “materia”, per poi giungere alla formulazione di ipotesi e teorie che possano risultare verificabili e condivisibili. Lo studio autonomo delle Scienze Gastronomiche in ambito universitario è molto recente, bisogna fare ancora molta strada per far comprendere alle persone che si tratta di una disciplina scientifica tout court.» Studio autonomo, come lo intende Costanza, significa quindi trattare la Gastronomia come un ambito di ri-

2 Prof. Davide Menozzi 4 Prof. Andrea Fabbri 6 Prof. Guido Stecchi 8 Celia Iglesias 10 Prof. Silvana Chiesa 12 Matteo Mantegazza 14 Jessica Gatti 16 Marta Casella 18 Giulia Rampini

cerca determinato con categorie sue proprie e non solo una focalizzazione tematica di altre discipline. Secondo lei «il problema è che le Scienze Gastronomiche sono, come la Filosofia, interdisciplinari, nel senso che in questa tipologia di studio rientrano diverse branche del sapere, quindi spesso si può far confusione e non capire che l’interdisciplinarietà in Gastronomia, come in Filosofia non implicano un punto di debolezza, ma un punto di forza.» n


Scoperto a Cibus 2014

Il cioccolato di Parma di Debora Avanzini - Scienze Gastronomiche

Alberto e Giacomo Banchini hanno riaperto nel 2012 la storica ditta chiusa dal 1957 recuperandone il ricettario. «Io e mio fratello Giacomo nel novembre del 2012, grazie alla riscoperta del ricettario di famiglia, abbiamo riavviato la Fabbrica di Cioccolata Banchini fondata nel 1879 dal nostro trisavolo Gian Battista in Piazza Garibaldi», ci racconta Alberto Banchini presso il suo stand. La ditta aveva chiuso i battenti nel lontano 1957 e fu una grande perdita per la città, come attestano i numerosi riconoscimenti ottenuti a livello internazionale nei primi decenni del XX secolo. L'impegno dei due ragazzi a rilanciare quel cioccolato che ha conquistato il gusto di tante generazioni rappresenta un esempio di giovani che, in tempo di crisi economica, si ingegnano riscoprendo le proprie radici. Ecco quindi le tavolette “Principe”, nate nel 1910 dall’antica ricetta custodita dalla famiglia, ottenute da fave di cacao venezuelane selezionate tra le varietà Criollo e Trinitario. Tra queste: il fondente 100% consiste unicamente in massa di cacao senza aggiunta di zucchero e sprigiona una inaspettata complessità di profumi e sapori; il cioccolato bianco con vaniglia Tahiti è l'esatto opposto, ovvero un’e-

splosione di dolcezza nel palato. Oppure ecco “Principino: il cioccolato che ti vizia”, barretta monoporzione ripiena che oggi rappresenta un goloso snack mentre in passato era una vera e propria merenda. Tra i vari gusti, quella all’Erba Luigia, fatta con un liquore locale molto aromatico e ricoperta di cioccolato bianco, o quelle ripiene con il Pistacchio di Bronte, il caffè macinato, l’arancia, la menta piperita, il peperoncino. I due fratelli non si limitano al cioccolato: la Parmellata è frutta concentrata che non è né confettura né marmellata. Viene prodotta con più del 120% di concentrazione di frutta, meno del 40% di zucchero totale e non contiene pectina. Il metodo di cottura sottovuoto disidrata completamente la frutta, la rende densa e spalmabile, ne estrapola tanto fruttosio così che siano aggiunti solo 15/20 g di zucchero di canna. I colori della frutta rimangono naturalmente inalterati. Fragole, albicocche, amarena, zucca, fichi, susine e arance sono le Parmellate disponibili.

Cioccolato F.lli Banchini Via Ospizi Civili, 8 43121 – Parma 333 2814965 - 349 1786643 info@cioccolatobanchini.it cioccolatobanchini@gmail.com www.cioccolatobanchini.it

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Ricette e dintorni

La Cuccìa di Santa Lucia di Marcella Bartolotta - Scienze Gastronomiche

Una preparazione semplice e povera che ci racconta storie di una Sicilia devota dove la fame, grazie alla provvidenza, viene sconfitta non solo dalla soddisfazione del bisogno ma dal cibo che più è simbolo di gioia e piacere, un dolce. La cuccìa, tipico piatto della tradizione siciliana, ha origini molto antiche e leggendarie; si tramanda infatti che, nel 1646, fu proprio la Santa protettrice di Siracusa a porre fine alla carestia che stava devastando la città. Mentre nella Cattedrale della città si pregava di fronte al simulacro della Santa perché la carestia avesse fine, il canonico Antonio De Michele affermò di aver visto volteggiare all’interno della Chiesa una colomba: nello stesso istante venne annunciato l’arrivo in città di un carico di cereali a disposizione degli abitanti. I Siracusani, per consumare in breve tempo tutti i cereali, decisero di bollirli senza prima averli macinati, dando così origine alla “cuccìa”. Il termine “cuccìa” deriva dall’italiano “coccio”, poi dialettizzato. Gli studiosi moderni hanno invece accertato che il nome “cuccìa” derivi dal greco ta ko(u)kkía, che significa “grani”, per cui si ritiene che in epoca cristiana la cuccìa in Grecia venisse utilizzata come cibo durante i riti della commemorazione dei defunti. La tradizione quindi segue due vie: una verso l’Europa orientale, che affianca la religione greco-ortodossa, l’altra verso l’Italia meridionale, soprattutto in Sicilia, dove si affianca alla festa di Santa Lucia. La “cuccìa” è un particolare dolce siciliano, a base di grano bollito. La ricetta più antica prevede il grano bollito condito con vino cotto, successivamente sono state introdotte altre ricette a base di crema di ricotta, crema di latte bianca o al cioccolato, decorate con zuccata, pezzi di cioccolato, cannella e granella di pistacchio. Viene abitualmente consumato in tutta la Sicilia, ma in modo particolare nel Palermitano, il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia. Secondo la tradizione infatti, in quel giorno, si deve evitare di consumare cibi a base di farina, preferendo la cuccìa e le arancine, altro piatto tipico della cucina siciliana. n

Chi è Santa Lucia? Lucia, donna di famiglia borghese e cristiana, orfana di padre, nacque a Siracusa nel 283. Secondo la leggenda, la madre di Lucia aveva contratto una grave malattia del sangue, per questo motivo la futura Santa fece voto di castità e di rinuncia alla vita piuttosto agiata che aveva condotto fino ad allora. E lo fece sul sepolcro di Sant’Agata a Catania. Una volta tornata a Siracusa, apprese che la madre era guarita, rinunciò così al matrimonio e la convinse a donare ai poveri tutti i loro beni. Il fidanzato di Lucia però, non essendo d’accordo con la decisione della ragazza, decise di denunciarla come cristiana. Per questo motivo Lucia fu condotta al patibolo sotto Diocleziano: venne torturata e uccisa con un colpo di pugnale alla gola. Martire, morì il 13 dicembre 304 e divenne Santa e Patrona di Siracusa. Secondo la tradizione, durante la tortura si strappò gli occhi, per questo viene raffigurata con una tazza contenente i suoi occhi e divenne la protettrice dei ciechi e degli oculisti. n

Sopra, la Festa di Santa Lucia a Siracusa. Nella pagina a lato: in alto, una suggestione di presentazione della ricetta della Cuccìa con crema di ricotta; in basso, Santa Lucia, olio su tela di scuola popolare siciliana del secolo XVIII, Chiesa Madre, Santa Maria di Licodia 26

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Cuccìa con crema di ricotta Ingredienti per 4/6 persone 500 g di frumento tenero 1,5 kg di ricotta di pecora freschissima 450 g di zucchero semolato 300 g di capello d’angelo (zuccata) 150 g di cioccolato fondente (a gocce o a pezzettini) Granella di pistacchio Cannella in polvere Sale Mettiamo il frumento in acqua tre giorni prima della preparazione della cuccìa, ricordandoci di cambiare l’acqua ogni giorno. Scoliamolo e mettiamolo in un tegame, ricoprendolo d’acqua e aggiungendo un pizzico di sale. Quindi cuociamolo per 6 - 8 ore a fiamma bassissima, lasciandolo poi riposare nell’acqua di cottura, coperto, per tutta la notte. Mettiamo la ricotta con lo zucchero in una ciotola abbastanza capiente e lavoriamola con la frusta, possibilmente con uno sbattitore. Lasciamola riposare per circa mezz’ora, poi aggiungiamo la zuccata tagliata a cubetti e i pezzetti di cioccolato fondente. A questo punto scoliamo bene il frumento, ormai freddo, e aggiungiamolo alla crema, amalgamando accuratamente. Serviamo in ciotoline, cospargendovi sopra la granella di pistacchio e la cannella in polvere.

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Da sapere

UNA DIETA A COLORI PER IL NOSTRO BENESSERE di Stefania Grifone e Domenico Cardone - Scienze Gastronomiche

Pare incredibile ma un piatto che risponda alle esigenze del nostro organismo richiede la sensibilità di un pittore: non è la stessa cosa, a seconda del nostro stato di salute o del particolare momento che attraversiamo, gustare un cibo rosso, giallo, verde, bianco o blu... Mangiare frutta e verdura fa bene, si sa! Il loro consumo regolare è associato a un ridotto rischio di patologie croniche, non è un segreto....Ma si può fare di più per raggiungere al meglio il nostro benessere? Ebbene sì! Con un rapidissimo e semplicissimo sistema. Ecco come: variando quotidianamente la scelta di prodotti ortofrutticoli in base al loro colore. A ognuno di essi, infatti, corrispondono una serie di proprietà benefiche differenti. Selezionando in modo mirato e variegato vegetali appartenenti a tutte le diverse categorie, assicuriamo al nostro organismo un apporto di sostanze che, dal punto di vista qualitativo, possa coprire il fabbisogno di nutrimento e permetterci così di mantenere, nel tempo, un buono stato di salute. Organismi quali la FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations) e la WHO (World Health Organization) consigliano di consumare almeno 400 grammi di frutta e verdura fresche al giorno, ma è meglio ancora se li consumiamo in cinque diversi momenti della giornata e componendo le varie porzioni con vegetali di cinque diversi colo-

Primavera (1563), Real Academia de Bellas Artes de San Fernando di Madrid “Arcimboldo Spring 1563” di Giuseppe Arcimboldo - Scanned by uploader. 28

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Estate (1572), Kunsthistorisches Museum “Giuseppe Arcimboldo, Italian; Summer; 1572” di Giuseppe Arcimboldo Denver Art Museum.

ri: bianco, giallo-arancio, rosso, blu-viola e verde. Grazie al loro contenuto in acqua, vitamine, minerali e fibre ci aiuteranno a rinforzare le difese e tenere alla larga il rischio di obesità e alcune patologie come il diabete, i tumori e le malattie cardiovascolari.

Autunno (1572), Denver Art Museum “Arcimboldo Autumn 1572 (private)” di Giuseppe Arcimboldo Arcimboldo. 1526-1593.

Inverno (1563), Kunsthistorisches Museum di Vienna “Arcimboldo Winter 1563” di Giuseppe Arcimboldo Wikimedia Commons


I 5 colori

BIANCO Rientrano in questo gruppo aglio, cipolla bianca, cavolfiore, finocchio, pere, porri e sedano. Sono alimenti ricchi di fibre, polifenoli, flavonoidi, isotiocianati, selenio, potassio, vitamina C e allicina, sostanze in grado di rinforzare le difese del nostro sistema immunitario. Le fibre mantengono in salute l’intestino e contribuiscono al mantenimento di livelli normali di colesterolo nel sangue; i polifenoli sono antiossidanti naturali con effetti positivi a livello cardiovascolare e di arresto della crescita tumorale; flavonoidi come la quercetina sono anch’essi antiossidanti nemici dei tumori; gli isotiocianati prevengono l’invecchiamento cellulare; il selenio contribuisce al normale mantenimen-

to di unghie e capelli, alla normale funzione tiroidea e alla protezione delle cellule dallo stress ossidativo; il potassio favorisce il normale funzionamento del sistema nervoso e la normale funzione muscolare, nonché il mantenimento di una normale pressione sanguigna; l’allicina permette di abbassare il colesterolo. Inoltre, il sedano contiene l'androsterone, un ormone maschile, che si dice essere un aiuto a stimolare l'eccitazione sessuale nelle donne; l’androsterone si crede venga rilasciato dopo aver mangiato il sedano, attraverso la sudorazione, e funziona come un feromone, quindi un afrodisiaco femminile.

GIALLO-ARANCIO Rientrano in questo gruppo arance, limoni, mandarini, pompelmi, albicocche, pesche, carote, peperoni, zucca, nespole, mais, kaki e melone: tutti vegetali ricchi di carotenoidi, flavonoidi e vitamina C, sostanze nutritive dalle proprietà antiossidanti, importanti per la salute di ossa e articolazioni. La colorazione è dovuta a elevate quantità di betacarotene, una sostanza appartenente alla famiglia dei carotenoidi, che il nostro organismo converte in vitamina A, importante nella crescita, nella riproduzione, nel mantenimento dei tessuti, nella funzione immunitaria, nel metabolismo del ferro e nella visione. Il betacarotene ha una potente azione provitaminica e antiossidante, viene

assorbito con i grassi e ci difende dal danno dei radicali liberi. Per proteggerci da vari tipi di tumore, il giallo-arancio ha a disposizione i flavonoidi, che agiscono principalmente a livello gastrointestinale, neutralizzando la formazione di radicali liberi o catturandoli prima che possano danneggiare altre molecole. La vitamina C, presente in grandi quantità in peperoni, limoni e arance, oltre ad avere funzione antiossidante contribuisce alla produzione del collagene, mantiene integri i vasi sanguigni, stimola le difese immunitarie, la cicatrizzazione delle ferite e incrementa l’assorbimento del ferro contenuto nei vegetali.

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I 5 colori

ROSSO Rientrano in questo gruppo pomodori, peperoni, rape, barbabietole, ravanelli, arance rosse, mele rosse, ciliegie, fichi d’india, fragole e anguria. Il rosso è un colore con una potente azione antiossidante dovuta a due fitocomposti: il licopene e le antocianine. Il licopene è un altro carotenoide ad alto potere ossidante che combatte i tumori al seno e alle ovaie nelle donne e il tumore alla prostata negli uomini catturando i radicali liberi agendo sulle mem-

brane cellulari e sulle lipoproteine; ne sono ricchi i pomodori e l’anguria. Le antocianine, presenti ad esempio nelle arance rosse, sono un utile alleato nel trattamento delle patologie dei vasi sanguigni, della fragilità capillare, nella prevenzione dell’arteriosclerosi procurata da alti livelli di colesterolo, nell’inibizione dell’aggregazione piastrinica e nel potenziamento della funzione visiva.

BLU-VIOLA Rientrano in questo gruppo melanzane, radicchio, fichi, frutti di bosco (lamponi, mirtilli, ribes e more), prugne e uva nera. Come la frutta e la verdura rossa anche quella di colore blu viola contiene antocianine e ancora vitamina C, carotenoidi, potassio e magnesio; aiuta a prevenire i tumori e le patologie cardiovascolari. Il ribes ed il radicchio sono particolarmente ricchi di vitamina C mentre i frutti di bosco curano la fragilità dei capillari e prevengono le infezioni del tratto urinario. I carotenoidi, oltre a essere attivi 30

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contro i tumori, contrastano le patologie cardiovascolari, incluso l’ictus, la cataratta, le patologie neurodegenerative e l’invecchiamento cellulare e cutaneo. Il betacarotene è abbondante nel radicchio; quest’ultimo, assieme a fichi, ribes, more e prugne, è ricco anche di potassio mentre di magnesio ne è ricca la melanzana. I frutti di bosco, inoltre, sono amici di un intestino sano con la loro fibra solubile che regola l’assorbimento degli altri nutrienti e alimenta la flora microbica intestinale.


I 5 colori

VERDE Rientrano infine in questo gruppo asparagi, agretti, basilico, broccoli, cavoli, carciofi, cetrioli, cicoria, cime di rapa, indivia, bieta, lattuga, rucola, prezzemolo, spinaci, zucchine, kiwi, mele verdi e uva zuccherina. Ricavano il loro colore dalla clorofilla che ha una potente azione antiossidante per il nostro organismo e sono ricchi di carotenoidi, magnesio, vitamina C, acido folico e luteina, importante per la salute degli occhi. Il magnesio é parte della molecola della clorofilla e nell’uomo contribuisce al normale funzionamento del sistema nervoso e di quello muscolare,

regola la pressione dei vasi sanguigni, è importante nel metabolismo dei carboidrati e delle proteine e risulta essere di grande aiuto al nostro benessere stimolando l’assorbimento del calcio, del fosforo, del sodio e del potassio. Gli ortaggi a foglia verde sono una grande fonte di acido folico, o vitamina B9, che, oltre ad essere utile durante i primi mesi della gravidanza, contribuisce alla riduzione della stanchezza e dell’affaticamento e alla normale funzione del sistema immunitario.

Sotto a sinistra “Arcimboldo Vegetables” di Giuseppe Arcimboldo - mechanical reproduction of 2D image. A destra la stessa immagine ruotata. Tutte le immagini dell’Arcimboldo pubblicate in questo articolo sono tratte da Wikipedia, l’enciclopedia libera con licenza Public domain tramite Wikimedia Commons.

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Un buon cuoco deve farne di ogni... Ecco una ricetta facile e colorata, ricca ed equilibrata adatta a un’alimentazione sana e per chi non vuole rinunciare al piacere e all’allegria della buona cucina...

I peperoni primavera della ricetta in questa pagina decorati con un mazzetto di aglio delle streghe (Allium carinatum), mentre il fiore giallo è nasturzio (Tropaelum majus)

Peperoni primavera Ingredienti per 4 persone: 4 peperoni gialli 4 peperoni rossi 3 zucchine 3 melanzane 200 g di salsiccia 1 porro Aglio Olio extra vergine di oliva Fontina Sale e pepe Tagliamo le melanzane e le zucchine a dadini, senza sbucciarle. Tritiamo il porro e lo facciamo soffriggere insieme all’aglio con un po’ d’olio, poi aggiungiamo le verdure a tocchetti e cuociamo per una decina di minuti aggiustando di sale e pepe. Poi tagliamo i peperoni a metà, togliendo la parte bianca interna e i semini. Scottiamoli per 5 minuti e lasciamoli asciugare capovolti. Riempiamo i peperoni con il composto di verdura a cui avremo aggiunto la salsiccia precedentemente rosolata, cospargiamo la superficie di fontina tagliata a julienne finissima e inforniamo a 200°C circa per 20 minuti. 32 Km vero


...un intero menu con un piatto per ogni colore IL BIANCO Bicchierini alla birra con crema al parmigiano e pere Ingredienti per 5 bicchierini: 115 g di farina 70 g di burro 35 ml di birra bionda 150 ml di latte fresco intero 60 g di Parmigiano Reggiano Pepe Noce moscata 400 g di pere Williams 25 g di zucchero di canna Succo di limone Parmigiano Reggiano a scaglie Prepariamo una pasta brisè alla birra: mettiamo 100 g di farina e 50 di burro in un mixer e frulliamo il tutto per ottenere un impasto sabbioso. Versiamo il composto su una spianatoia, creiamo la fontana al centro e versiamo a filo la birra. Impastiamo in modo che formi un

bel composto omogeneo. Formiamo una palla e appiattiamola con le mani quindi stendiamo l’impasto col mattarello fino a raggiungere uno spessore di mezzo centimetro. Ricaviamo dal composto 5 quadrati di circa 8-10 cm e infiliamo ogni quadrato in uno stampo in silicone o in alluminio per muffin del diametro di circa 6 cm (o in stampi monoporzione). Diamo forma ai nostri bicchierini eliminando la pasta in eccesso con un coltellino e tenendo conto che il bordo deve essere alto circa 2,5 cm. Rendiamo il bordo più regolare possibile e poi bucherelliamo la base con una forchetta. Tagliamo ora dei quadrati (lato circa 5-6 cm) di carta forno e adagiamoli dentro ai nostri bicchierini, facendoli aderire

bene all’impasto. Infine inseriamo degli stampini di una misura più piccola, oppure creiamo un peso con dei legumi secchi in modo che i bicchierini non si gonfino o creino bolle. Inforniamo in forno preriscaldato statico a 180°C per 20 minuti (se ventilato 160°C per 15 minuti). Una volta cotti, lasciamoli raffreddare e successivamente sformiamo i bicchierini su una gratella. In un pentolino facciamo sciogliere 15 g di burro, quando è sciolto aggiungiamo 15 g di farina a pioggia mescolando con una frusta per ottenere un roux. Aggiungiamo poi il latte, che avremo precedentemente riscaldato con un pizzico di pepe e noce moscata, e stemperiamo mescolando bene con la frusta. Facciamo cuocere il composto a fuoco basso, continuando a mescolare fino a che non si sarà addensato. Togliamo il pentolino dal fuoco e uniamo poco alla volta il Parmigiano Reggiano grattugiato. Amalgamiamo bene, la consistenza della crema dovrà essere tale che, se sollevata con un cucchiaio, rimanga in superficie per un po’ prima di andare a fondo. Sbucciamo e tagliamo le pere a dadini; facciamo sciogliere 5 g di burro in una padella, versiamoci dentro le pere e lo zucchero di canna. Una volta cotte, frulliamo il tutto fino a ottenere una purea densa, a cui aggiungeremo qualche goccia di limone. Prendiamo i bicchierini di paste brisè e facciamo un primo strato con circa 20 grammi di crema al parmigiano. Trasferiamo la composta di pere in una sac-à-poche con bocchetta a stella e facciamo il secondo strato sopra la crema al parmigiano. Per ultimo, guarniamo ogni bicchierino con scaglie di parmigiano.

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IL BLU-VIOLA

Norma Bianca Ingredienti per 4 persone: 2 Burratine 1 Melanzana (preferibile una Violetta lunga palermitana) 400 g di paccheri o maccheroni Olio extra vergine di oliva Farina 1 peperoncino intero secco Basilico Sale Asportiamo dalla melanzana alcune striscioline di buccia, tagliamo il resto a cubetti di 1 cm. Soffriggiamo i cubetti in una padella con poco olio finché non saranno ben dorati. Infariniamo le striscioline di bucce e friggiamole, quindi passiamole su carta assorbente e saliamole. Dopo aver tagliato la burrata a metà, e dopo aver raccolto parte del latte in eccesso, uniamo quest’ultimo a parte delle melanzane e frulliamo finché non otteniamo un composto cremoso. Cuociamo la pasta in acqua abbondantemente salata, scoliamola 34

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e saltiamola in padella con la crema ottenuta; se il tutto risultasse troppo asciutto, aiutiamoci aggiungendo un po’ di latte della burrata, se avanzato, oppure un po’ d’acqua di cottura. Adagiamo metà burrata nel piatto, poggiamoci su i nostri paccheri e la dadolata di melanzane, quindi guarniamo con una foglia di basilico, condiamo con un filo di olio e sbricioliamo sopra il peperoncino, decorando, infine, con le bucce di melanzana fritte.


IL GIALLO-ARANCIO Arista di maiale con salsa di albicocche Ingredienti per 4 persone: 800 g di arista di maiale 80 g di albicocche secche 1 dl di grappa bianca 10 g di burro 2 cucchiai di aceto di vino bianco 1 cucchiaino di senape di Digione 1 cucchiaio di farina 1 cucchiaio di zucchero Brodo di carne Olio extra vergine d’oliva 4 dl di vino bianco secco 2 chiodi di garofano 1 spicchio d’aglio 1 piccola cipolla 15 grani di pepe nero Sale e pepe Disossiamo o facciamo disossare dal macellaio l’arista di maiale. In una larga terrina mescoliamo il vino bianco, l’aglio, la cipolla, i chiodi di garofano, il pepe in grani, quindi adagiamoci la carne con le sue ossa e lasciamo marinare per una notte. In una ciotola versiamo la grappa, uniamo le albicocche, e lasciamole ammorbidire per cinque ore. In una casseruola scaldiamo un cucchiaio d’olio, mettiamo l’arista ben sgocciolata e le sue ossa, facciamo colorire, uniamo la marinata passata al colino, saliamo, pepiamo e portiamo a bollore. Proseguiamo la cottura a fuoco lento, copriamo e cuociamo per circa 40 minuti, girando di tanto in tanto la carne. Ritiriamo dal recipiente e teniamola al caldo. Passiamo il fondo di cottura da cui dovremmo ottenere tre decilitri e mezzo di liquido: se non fosse sufficiente aggiungiamo del brodo. Versiamo in una casseruola, aggiungiamo le albicocche, la grappa, la senape, lo zucchero e l’aceto, poniamo sul fuoco, cuociamo a fiamma bassa una ventina di minuti. Impastiamo la farina con il burro, amalgamiamola alla salsa e cuociamo per due minuti. Serviamo l’arista tagliata a fettine e nappiamo con la salsa calda.

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IL VERDE Misticanza verde Ingredienti per 4 persone: 1 piccola lattuga cappuccio 1 manciata di spinacini 1 manciata di rucola selvatica (e/o altre erbe di campo a piacimento) 1 mela verde 2 cucchiai di pinoli Olio extra vergine di oliva 8 foglie di basilico Aceto balsamico tradizionale 1 cucchiaino di miele di castagno Sale e pepe

Dopo avere lavato bene le verdure in foglia, asciughiamole bene. Strappiamo in piccoli pezzi con le mani le foglie di lattuga, mettiamole in una capace ciotola, aggiungiamo le altre insalatine, i pinoli, il basilico sforbiciato e la mela a fettine sottili. Condiamo con un’emulsione di olio, aceto balsamico, sale, pepe e miele, quindi mischiamo delicatamente.

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IL ROSSO Cannolo siciliano al fico d’india Ingredienti per 4 persone: Per la “scorcia” (l’involucro), 250 g di farina Strutto 20 g di zucchero semolato 25 ml di Marsala 1 uovo 1 albume Sale Per la crema di ricotta e fichi d’India, 500 g di ricotta di pecora freschissima 300 g di zucchero 1 bacca di vaniglia 70 g di cioccolato fondente (55% di cacao circa) a gocce 4 fichi d’india rossi) 50 ml di latte fresco intero Per comporre il dolce, Zucchero a velo 2 fichi d’India rossi

Per le scorce, mescoliamo 200 g di farina, zucchero, Marsala e sale. Aggiungiamo 25 g di strutto e amalgamiamo bene, quindi uniamo anche l’uovo, continuando a lavorare il composto fino a ottenere un impasto non troppo morbido ma consistente. Formiamo una palla, avvolgiamola in pellicola da cucina e riponiamo in frigo per almeno un’ora. Spianiamo l’impasto a uno spessore simile a quello delle classiche tagliatelle: spolveriamo, prima e mentre lavoriamo, il piano di lavoro con la farina rimasta e, quando abbiamo raggiunto lo spessore desiderato, ricaviamo dei dischetti del diametro di circa 10 cm (possiamo aiutarci con un coppapasta). Avvolgiamo i dischetti intorno alle apposite cannelle di latta non saldata unte di strutto, congiungiamo i bordi spennellandoli con l’albume battuto. Friggiamo in abbondante strutto ben caldo, due o tre per volta. Non appena la pasta sarà di un bel dorato scuro scoliamo e mettiamo a raffreddare su carta assorbente da cucina. Se la ricotta è molto umida, come dovrebbe essere, facciamola sgocciolare in modo da eliminare la maggior parte di siero. Amalgamiamola bene con lo zucchero. Lasciamo riposare per un’ora e quindi setacciamola. A questo punto uniamo il contenuto della nostra stecca di vaniglia e il cioccolato fondente. Puliamo i fichi d’India, tagliamoli a pezzettoni e passiamoli al mixer, successivamente, da un colino a maglia fitta per eliminare i semi, uniamo la polpa alla ricotta. Farciamo i cannoli, spolveriamo con zucchero a velo e serviamo insieme a un fico d’India tagliato a rondelle.

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Itinerari del gusto

Lo Street Food a Palermo di Marcella Bartolotta

Nel capoluogo siciliano non c’è bisogno di recarsi in mercati classici come la Vucceria o Ballarò per ritrovare antichi sapori, ma in tutta la città basta allungare una mano agli angoli delle strade per assaggiare la storia geniale del buon mangiare popolare. Con il termine street food si vuole indicare il “cibo di strada”, ovvero l’insieme di tutti quei cibi che abitualmente si consumano all’aperto, presso i venditori ambulanti e nei mercati: a Palermo i prodotti che vengono cucinati e venduti per strada sono davvero numerosi, fino al punto che possiamo considerarli il fulcro della cucina palermitana. E alcuni sono decisamente curiosi ed esclusivi.

U pani ca meusa

Il “re” dello street food palermitano è u pani ca meusa, in poche parole il panino con la milza, che viene comunemente venduto in ogni angolo della città dal cosiddetto meusaro o vastiddaro, il cui termine deriva dal tipo di pane utilizzato, la vastedda, italianizzata in focaccia. La sua origine è molto antica e ha una storia particolare: a Palermo, nel quartiere Seralca-

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dio, vi fu fino al 1492 una grossa comunità ebraica di origini spagnole; nell’827 però, con l’arrivo dei Saraceni, furono messe in atto norme igieniche e alimentari molto severe, dettate principalmente dalla propria religione. Molti Ebrei svolgevano il mestiere di macellai, non potendo però ricevere un compenso per il proprio lavoro, in quanto vietato dalla loro religione. Come ricompensa trattenevano pertanto le interiora dell’animale, da cui potevano trarre vantaggio economico. Inventarono così un piatto adatto ai cristiani (e solo a loro), costituito da frattaglie bollite, tagliate a fettine sottili e fritte nello strutto, condite solo con un po’ di limone (schetti, ovvero non sposati) o anche con formaggio grattugiato (caciocavallo) e/o l’aggiunta di fettine di ricotta di pecora, nel qual caso si dicono maritati, ovvero sposati.

Pane e panelle

Altro esempio di street food palermitano è costituito da “pane e panelle”.


Pane e panelle

Pane e cazzilli

Le panelle sono un prodotto realiz- Pane e cazzilli zato con farina di ceci, acqua e prezAltro corposo sfizio molto diffuso in zemolo. La loro storia risale a circa tutta la città è il “pane e cazzilli”, ovvemille anni fa, quando gli Arabi, che ro le crocchette. Hanno una storia dominavano la Sicilia tra il IX e l’XI molto più recente, in quanto sono stasecolo, macinando i semi dei ceci ot- te inventate soltanto dopo l’arrivo in tennero la farina di ceci che, impastata con acqua e cotta sul fuoco, dava un impasto ancora non del tutto soddisfacente. Decisero quindi di tagliare ogni impasto in fette molto sottili che, una volta fritte, davano il gusto tipico di quella che, ancora oggi, viene chiamata panella. In tempi più recenti fu introdotto l’uso del prezzemolo nell’impasto, al fine di dare Sfincione “un tocco in più” a questo cibo di strada molto particolare e apprezzato. Italia delle patate. La ricetta è molto Le panelle vengono gustate preva- semplice, dopo aver bollito e pelato le lentemente associate alla mafalda, patate, si passano per creare una putipico pane siciliano di forma roton- rea, a cui viene aggiunto prezzemolo, da, aromatizzato con semi di sesamo sale e pepe; dopo di che gli si dà forma sulla superficie, e vengono vendute ovoidale, si friggono e si inseriscono dai panellari, cioè i venditori ambu- nella mafalda, talvolta insieme alle palanti di pane e panelle. nelle.

Sfincione

Un’altra delle bontà di strada diffuse a Palermo è lo sfincione, venduto dallo sfincionaro. Si tratta di una preparazione molto simile alla pizza, anche se di uno spessore maggiore e condita in modo particolare: sulla pasta di pane, infatti, si aggiungono salsa di pomodoro, cipolla, acciughe, caciocavallo e origano.

Stigliole

Infine, ultimo ma non per importanza, abbiamo le cosiddette stigliole: budella di agnello, capretto o vitellino da latte avvolte a spirale attorno a fettine di lardo e rametti di prezzemolo, condite con sale e limone e cotte allo spiedo. La storia delle stigliole risale all’Antica Grecia, quando le città siciliane facevano parte della Magna Grecia: si facevano arrostire nel thermopolion, il luogo dell’agorà (la piazza centrale di una città, perlopiù sede del mercato) in cui si potevano consumare cibi fritti e bolliti. n

U pani ca meusa

Stigliole

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Parliamone...

De.Co., un’eredità di Gino Veronelli di Giorgio Maria Zinno - Scienze Gastronomiche

Le Denominazioni Comunali sono un’idea dello scrittore ed enogastronomo lombardo e possono sostenere l’artigianato agroalimentare – e non solo – senza una burocrazia disincentivante, ma agli apparati non piacciono Un puzzle di culture, sapori e colori come l’Italia, una terra ricca di storie di eroi e personaggi illustri ma anche di tanti uomini dalle scarpe grosse e dal cervello fino, ha avuto bisogno, dopo tanti secoli di costruzione del suo patrimonio enogastronomico, di un tesoriere. Quella terra che, con le sue caratteristiche multiformi, con i suoi colori e le sue luci tanto variegate, chiedeva giustizia e visibilità è stata la patria di un uomo che per oltre cinquant’anni ha dato se stesso per lei. Quell’uomo è stato Luigi Veronelli. «Maestro della cultura enogastronomica - così lo definisce Alfredo Zini (vicepresidente EPAM - Associazione Provinciale Milanese dei Pubblici Esercizi) in un’intervista – ha speso la sua vita in battaglie, intuizioni e stimoli a favore di un’idea del gusto che tenesse assieme la sensibilità sociale e i migliori prodotti di casa nostra.» Gino, come si faceva chiamare dagli amici, era alla ricerca di quei valori dell’enogastronomia e del territorio che avevano fatto grande il nostro paese. Aveva lavorato sui cru di casa nostra per la valorizzazione dei terroir altamente vocati a determinate produzioni vinicole e, negli ultimi anni della sua vita, aveva dedicato interi numeri del bimestrale Veronelli EV, gli ultimi che diresse, alla promozione di due grandi progetti: il Prezzo Sorgente, ovvero la conoscenza del costo all’origine per evidenziare le distorsioni del mercato, e le De. Co. (Denominazioni Comunali di Origine). Veronelli aveva visto come le ricchezze territoriali di piccole dimensioni sarebbero state destinate a scomparire se non ci fosse stata la consapevolezza dell’interesse a preservarle. Si era reso conto che i picco40

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Luigi Veronelli

li grandi tesori del territorio italiano e della cultura degli italiani andavano sempre più incontro all’estinzione totale per colpa dello strapotere delle multinazionali. I piccoli artigiani e i contadini che di quei prodotti della terra e della loro cultura avevano fatto tesoro per anni avrebbero perso il loro grande patrimonio senza neanche poter combattere per tenerlo stretto a sé. Allora come preservare queste ricchezze? Come avrebbero potuto i cittadini dei piccoli borghi vedere riconosciuta la loro dedizione a quelle terre e a quei prodotti? La risposta a queste domande fu la definizione e la costituzione della certificazione De. Co. come attestato di appartenenza e marchio di proprietà. Veronelli si battè a lungo per ottenere una mediazione con le istituzioni e per dare il via a una grossa campagna di diffusione dell’idea. Con l’aiuto de-

gli amici dell’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) alla fine riuscì a strappare allo Stato una delibera molto significativa. In seguito alla legge nº142 dell’8 giugno 1990 ogni Comune aderente all’iniziativa può conferire il marchio De. Co. per certificare un prodotto dell’enogastronomia territoriale. Il percorso per la sensibilizzazione e per l’affermazione del progetto è stato lungo e difficoltoso e lo è ancora oggi. Grazie ad alcune norme e sentenze delle corti di giustizia nazionali e comunitarie, le certificazioni di questo tipo possono essere emanate a pieno diritto sebbene non esista un regolamento ufficiale. Né lo Stato né l’Unione Europea riconoscono le De. Co. come certificazioni ufficiali: esse infatti non possono essere validate da disciplinari comunitari ufficiali ma, in quanto assimilabili a prodotti a “Indi-


Lametta di Luras, Asparago rosa di Mezzago, Sopressa del Pasubio cazione Geografica semplice”, vengono riconosciuti come marchi identificativi di competenza locale e quindi comunale.

Le controindicazioni secondo la U.E. Secondo l’Unione Europea, però, il marchio di cui parliamo non ha tanti lati positivi: se le già conclamate DOP, IGP, STG, DOC e DOCG dovessero trovare concorrenza nell’affermazione delle De.Co. si creerebbe un enorme caos di sigle, simboli e marche. Inoltre le caratteristiche fortemente privatistiche e pubblicistiche che possono assumere le Denominazioni Comunali, qualora si accompagnassero a prodotti non propriamente di fattura artigianale, potrebbero essere sfruttate per la costituzione di mercati di concorrenza sleale, se non monopolistici. Non essendo infatti

regolamentate da un disciplinare unico, i marchi non potrebbero essere emessi in numero e quantità definita così come invece succede per le denominazioni prima citate. In attesa che la corte di giustizia europea approfondisca queste controversie, è giusto che le piccole produzioni italiane abbiano lustro e si facciano conoscere al pubblico per quello che sono. Tanto più che troppo spesso le DOP e le IGP sono state regolamentate con un disciplinare su misura per la grande industria e non per i contadini e gli artigiani che hanno saputo qualificare il prodotto.

Ciò che in realtà rappresentano La De.Co. sarebbe quindi simbolo del legame del prodotto con il territorio che l’ha generato, con gli uomini e il sapere che hanno portato alla nascita di quelle particolarità inconfondibi-

li e di caratteristiche ineguagliabili che lo caratterizzano, un attestato di quei valori identitari che hanno fatto grandi le specialità del Made in Italy e che devono continuare a essere la vera anima del prodotto fatto in Italia: un baluardo a difesa della biodiversità e della diversità culturale agroalimentari che hanno generato la ricchezza delle tavole povere lungo tutto lo stivale. Il marchio in sé è il riconoscimento di ciò che un determinato prodotto rappresenta per il suo Comune. I cittadini, che sono i veri e propri detentori di quel bene, in quanto storicamente e culturalmente legato al Comune in cui essi vivono, possono così sentire quel legame più saldo perché garantito dalle istituzioni del Comune stesso. La nascita del marchio ha portato grande fiducia ai piccoli produttori di alcune zone. Nel Vicentino, in Cala

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bria, alle pendici dell’Etna e in molti altri posti ci sono stati forti movimenti di sensibilizzazione. Questa sorta di censimento delle aree ad alto tasso di “tipicità” ha portato utili suggerimenti su come modificare il loro modo di fare mercato e di comunicare i loro prodotti. Il turismo all’italiana, quello attento e sostenibile, che meglio si adatta alle bellezze della penisola, che chiama il viaggiatore per farlo entrare in contatto che gli strati più intimi della sua ricerca, ha iniziato a riprendere forma. È solo seguendo i ritmi della natura, accarezzando le vallate e ammirando i paesaggi con lo spirito dei grandi appassionati del Grand Tour che si possono conoscere le vere autenticità. Così il Comune entra in gioco facendosi portatore e promotore

di cultura, diventando strumento funzionale alla valorizzazione dei patrimoni, banca che custodisce saperi e sapori. Oggi l’adozione della De.Co. è un ottimo strumento per la valorizzazione e la fortificazione delle economie rurali dei piccoli borghi, un marchio che si distingue per il suo forte valore sociale, per la forza del suo legame con la comunità cittadina. Il progetto De.Co. sta assumendo sempre più le sembianze di un consorzio di piccoli produttori e dei loro piccoli, grandi prodotti. L’intenzione originaria di salvare gli artigiani e le culture della gastronomia italiana dall’incombente fagocitazione da parte delle multinazionali e della globalizzazione, sebbene a rilento, sta prendendo forma. La famiglia delle

Denominazioni Comunali oggi si avvicina a 300 tra preparazioni gastronomiche e prodotti dell’agricoltura e dell’artigianato; ora non ci sono solo formaggi, salami e ortaggi particolari ma anche ricette tradizionali come la barbajada milanese e il risotto alla pilota o oggetti come coltelli sardi e fischietti a forma di galletto. Gino Veronelli ci ha dunque lasciato una grossa eredità da difendere e tutelare, un ulteriore mezzo per valorizzare il territorio incentivando un turismo sostenibile basato sulle sinergie tra le risorse culturali, gastronomiche, paesaggistiche. De e Co, una coppia di sillabe che significano concretezza e consapevolezza, punti di forza se il Comune sa guardare a ciò che dovrebbe effettivamente rappresentare: i suoi cittadini con i loro atavici saperi. n

Maiale nero di Teano, Cioccolato di Modica, Fischietto di Rutigliano, Limoni di Procida 42

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Ricette e dintorni

La feijoada di Gabriela Vidotti – Master Comet

In italiano possiamo tradurlo in “fagiolata” ed è il piatto più noto della cucina brasiliana che una giovane gastronoma e disegnatrice di moda di San Paolo (ma di origine italiana), neodiplomata al Master Comet, ci propone in una versione con ingredienti di casa nostra. La cucina brasiliana è il risultato della fusione tra la tradizione culturale portoghese con quelle indie e africane, e successivamente degli immigrati europei, in modo predominante italiani e tedeschi. Più recentemente si è aggiunta l’influenza degli immigrati arabi e giapponesi. La feijoada ne è senza dubbio il piatto più rappresentativo. Secondo la teoria più diffusa, ebbe origine nelle cucine degli schiavi africane che utilizzavano i più insipidi scarti di carne di maiale a loro disposizione mischiandoli ai fagioli neri, ma in realtà, come dimostrato dagli storici culinari Carlos Augusto Ditadi e Luis da Camara Cascudo, questo corposo piatto sarebbe nato in Portogallo, poi, nel suo passaggio oltreoceano nell’epoca coloniale, la ricetta originaria avrebbe subito variazioni a seconda delle regioni e dei costumi locali, ma soprattutto sarebbe diventata la preparazione classica della tradizione culinaria brasiliana. Della feijoada, succulento stufato a base di carne di maiale e fagioli neri servito con riso, non esiste una ricetta unica ma possiamo trovarne diverse varianti. Eccone una versione preparata con i nostri ingredienti italiani.

La feijoada Ingredienti • 800 g di fagioli neri • 500 g di costine di maiale • 300 g di salsiccia • 200 g di salsiccia affumicata • 200 g di pancetta affumicata • 2 cipolle • 2 spicchi d’aglio • 3 pomodori • 1 peperoncino rosso • 1 rametto di prezzemolo • 1 foglia di alloro • Olio extra vergine d’oliva • Sale e pepe • Riso bollito Preparazione: Laviamo bene i fagioli neri e lasciamoli per 12 ore in una pentola con un litro d’acqua. Facciamoli cuocere in abbondante acqua insieme alla salsiccia tagliata a pezzi per circa 1 ora e 30 minuti o fino a quando i fagioli risultino cotti. In una padella a parte facciamo soffriggere in due cucchiai d’olio extra vergine di oliva l’aglio tritato, la cipolla tritata, il peperoncino, la foglia d’alloro, la pancetta e la salsiccia affumicata. Dopo qualche minuto aggiungiamo un po’ del brodo di cottura dei fagioli. Uniamo anche i pomodori tagliati a cubetti. Lasciamo soffriggere tutto per qualche minuto, quindi uniamo il soffritto ai fagioli in una casseruola di terracotta. Mettiamo nella casseruola anche le costine di maiale e una tazza d’acqua, sale e pepe. Lasciamo cuocere a fuoco lento fino a quando lo stufato sarà denso e la carne ben cotta. Accompagniamo con riso in bianco. n

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Scoperto al Cibus

Quando pasticceria e design si incontrano di Sara Luppi – Master Comet

L’azienda di Dario Loison, pasticcere vicentino, vive una straordinaria espansione internazione senza nulla togliere alla qualità artigianale e all’attenzione a ogni dettaglio, nel prodotto e nel modo di presentarlo. Li abbiamo incontrati a Cibus 2014 e ci ha colpiti subito la varietà del packaging. Poi abbiamo anche assaggiato e abbiamo scoperto che ciò che viene così ben presentato è persino meglio. La Dolciaria Loison è un’azienda vicentina leader nella pasticceria tradizionale che ha saputo conciliare arte e gusto, tradizione e sperimentazione, made in Italy ed export. Pasticceri dal 1938 incontrano la dimensione internazionale dal 1992 grazie a Dario Loison che, con grande spirito

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imprenditoriale, decide di esportare i prodotti di pasticceria in Europa e oltre oceano verso un pubblico sempre più affezionato ed esigente. Lo stand: una sorta di mostra artistica, un percorso che in pochi metri quadrati ci ha permesso di ammirare le opere d’arte vicentine di maggior rilievo, e di assaggiare prelibati dolci tipici della tradizione veneta. Percorso che incuriosisce e che rispecchia in toto la filosofia aziendale che abbiamo poi scoperto esserne alla base.


Due sono i segreti di queste tre generazioni di pasticceri: gusto e arte. Il gusto si ritrova nell’artigianalità che è “arte del tempo” e garantisce una cura maniacale dei prodotti dalla scelta delle materie prime al processo di lavorazione. La tradizione si trasforma così in qualità e, come ci insegna Dario Loison, le scelte non sono mai casuali: ogni ingrediente è selezionato e messo in risalto nella ricetta. Il latte e le panne sono quelle di montagna, il sale è marino integrale di Cervia, il Prosecco è di Valdobbiadene, le arance di Sicilia, la vaniglia è Mananara del Madagascar, il cedro è di Diamante in Calabria e si potrebbe continuare per ogni variante ideata e realizzata dei loro numerosi prodotti. La pazienza è alla base della lavorazione che non prevede nessuna forzatura industriale: nei classici dolci lievitati, per esempio, 72 ore di attesa sono indispensabili per fare di un

nostra storia, l’arte è territorio, dunque che Palladio, Canova, Tiepolo e Zelotti ci invitino a tavola e ci spieghino come “gusto è arte”. Dalla collezione di Natale del 2014 si è infatti iniziato ad arricchire i prodotti con packaging che ritraggono le maggiori opere vicentine e venete: stampe e raffigurazioni sono arricchite da nastri e tessuti pregiati, da monete antiche e dall’utilizzo che del packaging stesso si può fare dopo il consumo. Dal Barocco al Rococò, dalla “Venere e Adone” di Zelotti ai temi floreali, da “Le Tre Grazie” di Canova alle scatole di latta con il bassorilievo “Danza dei figli di Alcinoo”, sempre di Canova, da immagini architettoniche a raffigurazioni veneziane, il packaging diventa risultato di una attenta ricerca ed è amore a prima vista per un prodotto esclusivo. L’arte diviene simbolo di gusto, gusto estetico e gusto come sapo-

dolce una soffice creatura dal profumo inebriante e coinvolgente, dal calore casalingo e dalla preziosità unica e irripetibile.

re. L’estetica incontra anche l’utile: è infatti possibile utilizzare i packaging eleganti e raffinati come borsette, shopper, complemento di arredo, trousse da viaggio: una seconda vita, un valore rispetto alla semplice confezione usa e getta a cui siamo abituati. E il prezioso “vestito” avvolge panettoni, pandori, colombe, biscotti, sbrisolone, plum-cake, focacce, veneziane..., la più impegnativa tradizione pasticcera italiana che, grazie a Dario Loison, è ambasciatrice della creatività italiana in ben oltre cinquanta diversi paesi di tutti i continenti. n

Un bel vestito fa la sua parte L’arte è il secondo segreto ed è sapientemente combinata grazie a Sonia Pilla, designer responsabile dell’immagine aziendale. Il suo compito è coinvolgere il consumatore, attirarlo, dare un valore aggiunto a tutto quello che le magiche mani pasticcere realizzano. Il packaging è dunque esclusivo e rende il prodotto unico non solo al palato e all’olfatto, ma anche alla vista e al tatto. Il Made in Italy é retto da due importanti pilastri: il food e il design e non è facile incontrare aziende capaci di conciliare e incastrare questi due aspetti in modo così naturale. L’arte si esprime attraverso la

Dolciaria Loison SS. Pasubio, 6 Costabissara (Vi) 0444 557844 loison@loison.com www.loison.com

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Cattedrali del gusto

Dal Pescatore:

il regno della migliore cuoca al mondo di Gualtiero Pagani - Scienze Gastronomiche

Dove la corposità padana e la solarità mediterranea non sono alternative ma si esaltano a vicenda: l’accogliente e prestigioso “nido” di Nadia Santini, vincitrice nel 2013 del “Veuve Clicquot World’s Best Female Chef ”. Per incontrare quella regina della ristorazione italiana e mondiale che risponde al nome di Nadia Santini ci siamo diretti in quell’angolo di Val Padana in cui si incrociano le province di Mantova, Parma e Cremona. È qui, all’interno del Parco protetto dell’Oglio Sud, che ha sede uno dei più blasonati ristoranti italiani, “Dal Pescatore” della famiglia Santini. Il locale nasce nel lontano 1925 quando un certo Antonio Santini decise di avviare un’attività che offrisse ristoro

agli studenti e ai viaggiatori che si spostavano lungo il battuto asse Mantova-Parma. Pare impossibile che quello che oggi è un approdo bramato dai gourmet di ogni parte del globo fosse, poco meno di un secolo fa, una baracca di canne e mattoni ai bordi di un laghetto creato da un’ansa del fiume. L’insegna, ai tempi, recitava umilmente “vino e pesce”. In primis veniva infatti il vino, il Lambrusco che il patriarca Antonio produceva in pro-

La famiglia Santini. Da sinistra: Valentina, Giovanni, Alberto, nonna Bruna, Antonio e Nadia

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prio. Poi, ad accompagnare, c’era il pesce, quello che si pescava nell’adiacente fiume Oglio, cucinato dalle abili mani della moglie Teresa. La storia di questo fiore all’occhiello della cultura gastronomica padana non è solo quella di un ristorante ma quella di una famiglia. Gli intrecci tra lavoro e vita rendono ancora più significativo osservare l’evoluzione di “Dal Pescatore” e ci permettono di ammirare il coraggio imprenditoriale della famiglia Santini.


Cos’è stata la Nouvelle Cuisine L’invenzione del termine Nouvelle Cuisine viene attribuita ai critici gastronomici Henri Gault e Christian Millau con riferimento al lavoro di grandi chef francesi dei primi anni Settanta come Michel Guerard, Roger Vergè e Paul Bocuse. Il termine è diventato negli anni un sinonimo di piatto grande con porzioni piccole e prezzo elevato ma questo è un errore. La nuova cucina francese si propose di alleggerire i piatti, passando

L’equilibrio di chi ha cultura Sono passate ormai tre generazioni e oggi a gestire il ristorante è un altro Antonio, nipote dell’omonimo nonno, affiancato dalla moglie Nadia. Sarà infatti grazie all’attuale gestione, in particolare alla cultura e all’amore per l’ambiente di Antonio, alla voglia di conoscenza e alla sapienza atavica di Nadia, che questo piccolo locale disperso tra le nebbie si eleverà ad alfiere della cucina italiana nel mondo riuscendo a creare un immaginario ponte tra i nobili ristoranti del Nord Italia e le grandi materie prime

I famosi tortelli di zucca di Nadia

da salse eccessivamente grasse ad altre più leggere, almeno a livello organolettico, impreziosite da erbe aromatiche e puntò maggiormente sulla stagionalità dei prodotti e su cotture meno aggressive degli alimenti. Osservando questo movimento con gli occhi di oggi pare evidente la volontà di avvicinarsi alla Cucina Mediterranea diffusa nel Sud della Francia e, soprattutto, in Italia. n della cucina mediterranea. Bisogna fare un salto nel passato per capire come i coniugi Santini siano riusciti a conquistarsi uno spazio importante tra i più grandi ristoratori della nostra epoca. Tutto iniziò negli anni Settanta, quando nel mondo della cucina esplodeva il fenomeno della Nouvelle Cuisine e in Italia c’era chi provava a seguire quel trend, con esiti alterni. Fortunatamente vi erano figure che rivendicavano il valore della cucina regionale italiana e l’unicità della nostra materia prima senza dover scopiazzare dai cugini d’oltralpe.

Paul Bocuse

Tra questi patrioti possiamo annoverare Mirella e Peppino Cantarelli con il loro ristorante a Samboseto (PR), Franco Colombani della Locanda del Sole di Maleo (LO), Gianni Cosetti del ristorante Roma di Tolmezzo (UD), Alfonso Iaccarino del Don Alfonso di Sant’Agata sui Due Golfi (NA) e tutti quei ristoratori che confluiranno nel progetto “Linea Italia in Cucina”.

Viaggiare per conoscere, mai per copiare Questi riferimenti culinari porteranno Antonio e Nadia alla ricerca delle migliori materie prime, con un occhio alla territorialità ma senza la moderna ossessione del chilometro zero, al rispetto della stagionalità dei prodotti e a ridurre l’uso dei grassi nelle preparazioni, accorgimento che, invece, non era nello stile dei protagonisti della Nouvelle Cuisine francese. Frequenti erano i viaggi in Francia, ma non per vacanza, andavano dalle grandi maison tipo Troisgros, Bocuse e Pic non per rubare idee ma per imparare il rigore nella gestione della sala, la professionalità nel servizio e capire maggiormente cosa contribuisse a rendere la cucina francese la più blasonata al mondo. Tutte queste esperienze si ritrovano oggi varcando la soglia del ristorante Dal Pescatore. Il merito di Antonio Santini è stato, per l’appunto, quello di aver capito, prima di tanti altri, come dare il giusto valore alle grandi materie prime del Bel Paese con un servizio e una presentazione rigorosi, pur senza nulla togliere al calore e alla spontaneità di casa nostra. Per la gioia dei clienti provenienti da ogni parte del globo, il matrimonio tra la campagna italiana, con i suoi pro Km vero 47


Una vista sul giardino

dotti e i suoi profumi, e l’alta cucina, fatta di suggestioni e sorprese, viene così celebrato quotidianamente in un piccolo borgo mantovano di neanche quaranta anime. Negli ultimi anni Antonio e Nadia hanno intelligentemente deciso di dare più spazio ai figli, Giovanni in cucina e Alberto in sala, in modo da formare al meglio la nuova generazione di Santini e garantire un radioso futuro all’attività familiare; questo mostra, oltre a una lungimiranza gestionale, il forte attaccamento di tutta la famiglia al lavoro di ristoratori e il rispetto delle nuove leve per i sacrifici fatti negli anni passati per creare quello che Dal Pescatore è oggi.

Il racconto di un’ospitalità indimenticabile Varcato il cancello, affacciato sull’unica strada che attraversa Runate, ci ritroviamo nel piccolo parcheggio e ci prepariamo a un’esperienza tra il sogno e l’alta gastronomia. Le porte si aprono e veniamo accolti con puntuale cordialità, quindi fatti

accomodare nella bella sala, di un’eleganza classica, con camino e vetrata sul giardino. I tavoli sono ben distanziati e i coperti raggiungono a stento le trenta unità. In un ristorante di questo livello è fondamentale coccolare il cliente e qui le attenzioni non mancano. Dai Santini il protagonista è l’ospite, non lo chef. La sorridente Valentina, moglie dello chef Giovanni, ci presenta il menu che, oltre a offrire un’ampia scelta alla carta, propone due percorsi degustazione: un Menu stagionale (vi era quello di Primavera durante il nostro passaggio) e un Menu della Campagna (incentrato sui piatti del territorio). I piatti prendono spunto dalla tradizione mantovana e italiana indugiando in ammiccamenti all’alta cucina francese. Le migliori materie prime locali e di stagione trovano adeguato supporto in quelle più caratteristiche dell’ambiente gourmet. Troviamo così Lumache, Sorbir di Agnoli, Anguilla del Mincio, Coscette

di Rana e salumi della zona accompagnati da preparazioni più blasonate come Foie Gras, Piccione e Sella di Capriolo. Nell’attesa viene proposto un aperitivo a scelta tra Champagne, Franciacorta e Kyr Royal da accompagnare a ottime Tuiles di Parmigiano Reggiano. Giunge un altro fatidico momento di questa visita quando al tavolo si palesa il sommelier nipponico, Hayashi Mototsogu, con una monumentale carta dei vini in grado di sciorinare il meglio della produzione italiana e internazionale. Tocca quindi al vassoio del pane, presentato dal cameriere e composto da pane bianco, con le noci, con cipollotto e grissini. Tutto rigorosamente fatto in casa. A fare da gradita amuse-bouche, come a voler ricordare all’ospite in che provincia si trovi, vi è una corroborante Zuppa di zucca con olio extra vergine di oliva. Il Menu di Primavera è un compendio della versatilità della cucina di Nadia:

Il sodalizio dei pionieri

Frsnco Colombani

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Linea Italia in Cucina fu un movimento gastronomico italiano di fine anni Settanta che ebbe come faro Franco Colombani della Locanda del Sole di Maleo. Fu la risposta dei nostri cuochi alla Nouvelle Cuisine francese e all’imperante uso sulle tavole dello stivale di troppa panna e grassi inutili. Colombani volle riscoprire e nobilitare la cucina regionale italiana, dandole un tocco in più e rendendola più raffinata. Un altro merito importante di

questo ristoratore, tragicamente scomparso nel 1996, fu quello di riuscire a fare sistema e raccogliere intorno a sé altri ristoratori coraggiosi e intraprendenti che condividevano la stessa linea di pensiero come Dal Pescatore a Canneto sull’Oglio, Romano a Viareggio, La Contea a Neive, il Bersagliere a Goito, il Giardino a S.Lorenzo in Campo, il Roma di Tolmezzo, il Don Alfonso di Sant’Agata sui Due Golfi e altri. n


Terrina di astice con caviale Oscietra Royal, Anguilla in carpione del Mincio

• Terrina di astice con Caviale Oscietra Royal, Anguilla in carpione del Mincio • Risotto (Vialone nano) con pistilli di zafferano e Aceto Balsamico tradizionale • Gnocchi di patate con Pezzogna (è il nome napoletano del Pagello occhialone, n.d.r.) marinata al sale, capperi, olive e crema al cipollotto • Ombrina in guazzetto con verdure di stagione e Olio Extra vergine toscano • Maialino Cinta Senese (dell’allevatore Paolo Parisi) con salsa al Pepe di Sichuan • Formaggi italiani • Soufflé all’arancia con coulis al frutto della passione Non possiamo non ricordare, però, anche due piatti che rappresentano la storia del ristorante e del luogo: i Tortelli di zucca (con zucca, amaretti, mostarda e parmigiano reggiano) e le Coscette di rana gratinate alle erbe fini. Cotture perfette, pasta tirata ad arte e sapori ben definiti in ogni piatto fanno di questo ristorante un approdo emozionante per ogni gastro-viaggiatore. La cucina di Nadia Santini è solida e calorosa come poche, l’attaccamento alla tradizione è forte ma non per questo manca la modernità che si palesa nella pulizia delle presentazioni; quello che non si trova è la suggestione modaiola fatta di spumette, artifizi molecolari e trompe-d’oeil culinari. I piatti creati da Giovanni trovano

sempre più spazio in carta, abbinando le competenze derivate dalla laurea in Scienze e Tecnologie Alimentari con gli insegnamenti della nonna e della madre. Nonna Bruna Santini, infatti, è un’altra figura cardine di Dal Pescatore; nonostante abbia scollinato le ottanta primavere è ancora oggi ai fornelli ed è l’autrice di quello che, senza ombra di dubbio, è il miglior tortello di zucca che si possa gustare al mondo. Il servizio gira meglio di un orologio svizzero, professionale senza essere opprimente.

Qualche dettaglio che fa la differenza? Lo zafferano è coltivato nell’orto di famiglia e presentato orgogliosamente al cliente. Quando si accorgono che uno dei commensale è mancino, l’apparecchiatura viene adeguata con forchetta a destra e coltello a sinistra. Se ci sentono dire che vi sarebbe piaciuto assaggiare le loro rane ne arriva al tavolo un piattino in degustazione. Antonio Santini, da gran patron quale è, riempie di garbate attenzioni tutti gli ospiti, che siano clienti abituali o neofiti così da poter vivere un’esperienza capace di riempire il cuore prima di saziare la pancia. A fine pasto è d’obbligo il tour della proprietà dalla cucina alle cantine, dall’acetaia all’orto, dall’aia con oche e galline (come si dice materie prime a

chilometri zero) fino all’eliporto creato per la clientela più facoltosa ed esigente. Al momento dell’arrivederci, non sarà mai un addio, una costante è il saluto degli chef, il menu in omaggio (autografato e numerato) e l’obbligatorio alcol test. Abbiamo lasciato volutamente alla fine il discorso relativo al prezzo. Si deve per forza valutare tutto in termini economici? Anche le emozioni? Ammettiamolo, il costo è rilevante però bisogna ricordare che quando si desidera l’eccellenza occorre essere disposti a retribuirla adeguatamente e in locali come questo, con un’attenzione maniacale verso ogni dettaglio, non avrete mai la sensazione di aver speso più del dovuto. Dal Pescatore è un posto in cui ogni appassionato di cucina dovrebbe andare almeno una volta nella vita per capire veramente cosa significhi oggi la parola ristorante. n

Ristorante Dal Pescatore Loc. Runate, 17 46013 Canneto sull’Oglio (MN) www.dalpescatore.com Tel 0376 723001 Km vero

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Itinerari del Gusto

Fiera di San Giuseppe

cuore e tradizione nella città di La Spezia di Federica Baudinelli - Scienze Gastronomiche

San Giuseppe è il patrono della Spezia, la decisione di assumere come santo protettore della città San Giuseppe risale al lontano 1653 quando il “Consilium Spediae” decise anche di celebrarlo in concomitanza con la grande fiera del periodo del 19 marzo, giorno a lui dedicato. Ogni anno, nei giorni 17, 18 e 19, marzo si svolge a La fiera in almeno uno dei suoi tre giorni o che rinunci a comSpezia la “Fiera di San Giuseppe”, santo protettore della prare qualcosa di tipico sulle varie bancarelle: non si può città. Questa ricorrenza nasce nel 1565 con l’intento di fare a meno di gustare i brigidini o il croccante, o di paspromuovere gli scambi commerciali nella città, a quel seggiare in fiera degustando un panino alla porchetta, artempo dominata dalla repubblica di Genova che, con la rivando a chiudere in bellezza la giornata con la tipica zepsua politica protezionistica, pola di San Giuseppe. ne limitava l’economia. Ogni anno si propongono All’epoca infatti le fiere erasempre nuovi operatori che no l’occasione per sviluppaarricchiscono la gamma dei re le attività commerciali dei prodotti offerti, in particolaluoghi in cui si tenevano. In re prodotti alimentari spesorigine la fiera di San Giuso non in vendita nella granseppe si svolgeva in cinque de distribuzione, contrigiornate, con mercanti che buendo così all’arricchimenprovenivano da ogni dove to gastronomico dello spezproponendo soprattutto zino medio. prodotti alimentari, ma anOvviamente oggigiorno le che stoffe, utensili, oggetti fiere non sono più l’unico per la casa e quant’altro. luogo di scambi commerciaUna suggestiva vista dell’antica fiera Oggi la fiera si svolge in tre li, la nostra società, perdengiornate e si dispiega nelle do tanto della sua identità, zone dei giardini pubblici e ha creato le grandi catene di sulla passeggiata a mare. supermercati che ci portano Gli operatori che parteciogni giorno sulla tavola i più pano ogni anno a questo svariati prodotti alimentari evento sono circa 600, proprovenienti non solo da tutvenendo da svariate regioni te le regioni italiane, ma anitaliane. Alla fiera di San che da altri paesi. Giuseppe si possono trovare Ma nulla può ricreare la prodotti di ogni tipo, dall’abmeravigliosa atmosfera di bigliamento all’oggettistica, una fiera all’aria aperta, con ma soprattutto una grande mille colori e profumi di varietà di bancarelle gastroogni genere, ed è per quenomiche dove si incontrano sto che la fiera di San GiuI classici Brigidini della tradizione ligure prodotti tipici di ogni geneseppe, che ha un’anima e re, dal Parmigiano reggiano una storia diversamente da al cannolo siciliano. tante squallide sagre comQuesta ricorrenza è entrata ormai nella tradizione citta- merciali moderne costruite sul nulla, continuerà a vivere dina e non c’è spezzino che non trovi il tempo di visitare la nella tradizione spezzina. n 50

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Le Zeppole Ingredienti per circa 8 zeppole: 3 uova medio-grandi 70 g di burro 115 g di zucchero La scorza grattugiata di 1 limone 2 g di sale 3 tuorli d’uovo 25 g di farina o maizena !/2 bacca di vaniglia 250 ml di latte fresco intero Ciliegie candite (o amarene sciroppate) Strutto Riscaldiamo il latte in un pentolino con la metà di una bacca di vaniglia e i suoi semi; sbattiamo in una ciotola, con la frusta, i 3 tuorli e 75 g di zucchero quindi aggiungiamo la farina. Con una pinza, togliamo la bacca (che possiamo riutilizzare fino ad altre quattro volte) e versiamo a filo il latte riscaldato sul composto, amalgamando con la frusta. Riportiamo il composto sul fuoco e mescoliamo continuamente fino a che la crema non si sarà addensata. Trasferiamo la crema pasticcera in una ciotola e facciamola raffreddare conservandola con un foglio di pellicola a contatto. Prepariamo ora l’impasto delle zeppole: in un pentolino dal fondo spesso poniamo il burro a pezzetti e versiamo 250 ml di acqua, uniamo il sale e portiamo lentamente a ebollizione, rimestando con un cucchiaio di legno. Non appena il burro sarà sciolto e l’acqua bollirà, togliamo il pentolino dal fuoco e versiamo al suo interno la farina setacciata; riportiamo il pentolino sul fuoco e amalgamiamo gli ingredienti, all’inizio con una frusta poi con un cucchiaio di legno. Giriamo il composto fino a quando vedremo formarsi una patina biancastra sul fondo del pentolino e otterremo una palla compatta (ci vorranno circa 10 minuti). Spegniamo il fuoco e aggiungiamo lo zucchero rimasto, mescoliamo bene per incorporarlo al composto, poi versiamo l’impasto in una ciotola e lasciamolo intiepidire. Una volta tiepido, uniamo la scorza del limone grattugiata e le uova, una alla volta, aggiungendo la seguente solo quando la precedente sarà stata completamente assorbita. Alla fine otterremo un composto liscio e omogeneo che, facendolo cadere con una paletta o un mestolo, formerà una specie di “nastro”.

La ricetta dedicata al Santo Secondo la tradizione, dopo la fuga in Egitto con Maria e Gesù, San Giuseppe dovette vendere frittelle per mantenere la famiglia in terra straniera. Per questo motivo, in tutta Italia, le zeppole sono i dolci tipici della festa del papà, preparati per festeggiare e celebrare la figura di San Giuseppe. Ogni città, provincia o regione ha ovviamente la sua variante delle zeppole ma l’elemento fondamentale che accomuna e contraddistingue questi dolci è che devono essere fritti in abbondante strutto, proprio come tradizione vuole.

Trasferiamo il composto ottenuto in una sac-à-poche con bocchetta stellata. Ritagliamo dei quadrati di carta forno che abbiano i lati di 8 cm e spremiamo sopra ogni quadrato un dischetto di pasta del diametro di 5 cm che formeremo con un movimento a spirale. Sul bordo esterno di ogni dischetto sovrapponiamo un anello di pasta come per formare una scodellina. Modelliamo così circa altre 7 zeppole o finché il composto non sarà terminato. In un tegame dal bordo alto, poniamo lo strutto portandolo a una temperatura compresa tra i 160° e 170° C: il grasso dovrà friggere dolcemente permettendoci di rigirare le zeppole più volte perché si possano gonfiare uniformemente. Quando lo strutto avrà raggiunto la temperatura

ideale, immergiamo non più di 1-2 zeppole ancora attaccate ai quadrati di carta forno sulle quali sono appoggiate; la carta si staccherà da sola dopo qualche secondo e potremo quindi toglierla dal grasso servendoci di una pinza da cucina. Rigiriamo le zeppole più volte fino alla completa doratura, quindi sgoccioliamole con una schiumarola e poniamole a scolare su più fogli di carta assorbente da cucina. Quando avremo fritto tutte le zeppole spremiamo la crema pasticcera, che avremo trasferito in una sac-à-poche con bocchetta stellata, al centro delle zeppole. Guarniamo le zeppole con un’amarena sciroppata, o una ciliegia candita, sulla sommità del ciuffo di crema. n Km vero 51


Imprese del cibo

Il business delle lumache di Alice Frescaroli - Scienze Gastronomiche

Elicicoltura: un’attività che offre opportunità di investimenti abbastanza redditizi grazie a un mercato in continua espansione che non risente della crisi. L’elicicoltura è una branca della zootecnia che si dedica all’allevamento intensivo delle chiocciole. È una pratica che è stata riconosciuta a livello europeo nel 1986, in seguito alle normative di protezione del mollusco che hanno fortemente limitato la raccolta degli esemplari selvatici. Da allora rappresenta un mercato in continua espansione e oggigiorno vede impegnate in Italia circa 6500 imprese. Esistono due tipologie di allevamento: uno prevalente nei luoghi a clima freddo che prevede la crescita delle chiocciole in serre o in ambienti chiusi e l’altro costruito all’aperto, denominato “a ciclo biologico completo” che rappresenta la maggior parte degli impianti in tutta Italia. Le tre specie di lumaca più adatte alla vita in ambiente recintato sono: Helix aspersa, detta zigrinata o maruzza, che è la più diffusa nella fascia mediterranea e la più allevata, in quanto giunge la maturità in breve tempo e presenta forte riproduttività; Helix pomatia, o nel gergo comune vignaiola bianca (in Francia gros blanc o escargot de Bourgogne), si ritrova soprattutto in Europa centrale e nelle regioni settentrionali italiane, ma, a causa dei lunghi tempi necessari alla sua crescita risulta la specie meno allevata, pur se le sue carni bianche e raffinate sono di ottima qualità e si prestano bene per l’industria di conservazione; Helix vermiculata, chiamata anche rigatella, molto conosciuta e apprezzata nell’Italia centro-meridionale e nelle isole mediterranee, ciononostante poco allevata. Questi piccoli animali vengono cresciuti secondo i ritmi del loro ciclo biologico il quale varia a seconda del clima, dell’altitudine, delle zone geografiche e della specie, e prevede due fasi principali che si alternano: ingrasso, in cui crescono di dimensione grazie al cibo fornito e si riproducono (primavera ed estate) e letargo, in cui si chiudono dentro al guscio autoproducendo una sorta di tappo definito opercolo (fine autunno e inverno o in periodi di siccità).

Helix Aspersa”

Helix pomatia”

Cosa mangiano

Uno dei fattori chiave determinante per la produzione è la gestione dell’alimentazione (come del resto per qualsiasi altro tipo di allevamento) che si riflette ovviamente nella qualità delle carni. Gli alimenti migliori che l’elicicoltore può offrire alle chiocciole nella fase di ingrasso sono vegetali teneri e giovani della famiglia delle Brassicaceae

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Helix vermiculata


Un allevamento di lumache opportunamente recintato.

(ad esempio cavolfiore e broccoli), insalate e bietole a foglie grandi, cereali, girasole, frutti e verdure ricche di acqua (zucchine, zucche, meloni o similari). Altri fattori chiave per il successo di questo tipo di allevamento sono la manutenzione delle recinzioni, che devono proteggere da eventuali predatori, e dell’impianto idrico, che deve assicurare la permanenza di un terreno particolarmente umido, habitat ottimale per il mollusco. Quando le lumache hanno raggiunto il livello di crescita adeguato, vengono raccolte e, in base alla loro destinazione d’uso, subiscono diverse procedure. Infatti in

commercio si possono trovare in diverse varianti: se si acquistano vive in allevamento, è necessario provvedere alla spurgatura, a meno che non si comprino nel periodo che va da novembre a febbraio, mesi in cui la chiocciola è in letargo e quindi a digiuno; se si prendono confezionate o congelate sono già pronte per essere cucinate, e si può così evitare questa spiacevole operazione. I prezzi all’ingrosso variano a seconda della specie: Helix aspersa, da € 4,30 a € 5,60 al kg; Helix pomatia,da € 3,00 a € 4,50 al kg; Helix vermiculata, da € 4,00 a € 5,00 al kg.

Babbaluci a stricasali

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La spurgatura Questo lavoro è fondamentale per rendere il mollusco commestibile, in quanto serve a eliminare il contenuto intestinale dell’animale, il quale può aver ingerito delle sostanze in grado di conferire sapori sgradevoli o che possono avere effetti tossici sul consumatore. Ci sono svariati metodi per compiere questa operazione. Il metodo tradizionale di spurgatura consiste nel far digiunare le lumache per 5 o 6 giorni dentro a gabbie di legno oppure di plastica,

purché abbiano un fondo ben areato; altri metodi sostituiscono l’alimentazione delle bestiole per qualche giorno con mollica di pane bagnata e lattuga, oppure con farina di mais o semola, o, meglio ancora, con la crusca. Alcuni durante questa fase aggiungono anche erbe aromatiche per migliorare il sapore delle carni. 1) conchiglia 2) fegato 3) polmone 4) ano 5) poro respiratorio 6) occhio

13) poro genitale 14) pene 15) vagina 16) ghiandola mucosa 17) ovidotto 18) stiloforo 19) piede 20) stomaco 21) rene 22) mantello 23) cuore 24) vaso deferente

7) tentacolo 8) ganglio cerebrale 9) dotto salivare 10) bocca 11) gozzo 12) ghiandola salivare

L’eliminazione della bava Nel caso si acquistino chiocciole vive, un’altra operazione indispensabile dopo la spurgatura e prima dell’estrazione dalla conchiglia, è la pulizia del mollusco che serve per rimuovere la bava e altri residui e può essere effettuata lavando le lumache con acqua salata e aceto di vino (5/10%), ovvero immergendole in questo liquido in un recipiente non di metallo, agitandole con le

mani e cambiando il liquido quando si è formata molta schiuma. L’operazione va ripetuta finché non c’è più schiuma. Un altro metodo, più usato per le chiocciole in letargo, consiste nell’asportare gli opercoli, coprirle con sale grosso, spruzzarle con aceto e, dopo qualche ora, procedere alle sciacquature. C’è anche chi ritiene possibile effettuare l’eliminazione della bava dopo la cottura.

Cottura e pulizia finale Una volta spurgate le chiocciole vanno cotte per estrarre il mollusco dal guscio: consigliamo una prebollitura breve ponendole in acqua fredda acidulata (con un 5% di aceto) senza sale, portando a bollore e scolandole dopo 10 minuti circa di cottura. A questo punto si estrae il mollusco, si elimina l’appendice molle (l’intestino) della parte carnosa (il cosiddetto “piede”) e si strofina quest’ultima tra le mani preventivamente immerse nella farina gialla. Si procede poi a un’ultima sciacquatura in acqua acidulata. In tal modo ogni residuo di viscidità viene eliminato. 54 Km vero

Al termine di questi passaggi si può procedere con la preparazione di varie ricette o con il congelamento. Alcune ricette prevedono un’ulteriore prolungata bollitura (da 40 minuti a un’ora a seconda delle dimensioni), ma in un court bouillon, ovvero in un liquido aromatizzato con erbe e verdure. In altre ricette, l’ulteriore cottura può essere in umido direttamente con gli ingredienti dell’intingolo finale. Se si vuole recuperare i gusci per la ricetta “alla bourguignonne”, questi vanno lavati, una volta svuotati, con acqua e soda.

1) suture 2) columella 3) labbro interno 4) apertura (chiusa dall’opercolo) 5) labbro esterno 6) ombelico


Non ne produciamo abbastanza Gli allevamenti attualmente presenti sul territorio nazionale riescono a soddisfare il 30-35% della domanda, il che rende l’elicicoltura un business da non sottovalutare perché la produzione non è ancora sufficiente per assecondare la crescente domanda di questi invertebrati: ecco perché li importiamo, con certificazione, da altri Paesi europei. Ulteriori prospettive di mercato si stanno aprendo con la possibilità di utilizzare in ambito cosmetico e farmaceutico la bava della lumaca e l’efficacia della sostanza di nome Elicina che si estrae da essa. Queste imprese non hanno bisogno di un costo elevato per essere avviate: per aprire un allevamento con una dimensione di un ettaro, che può portare a una produzione annua con un fatturato di 55.000 euro, sembra essere necessario un investimento iniziale di circa 2022.000 euro. Nelle spese figurano principalmente la manodopera per la gestione e la raccolta, l’ammortamento del costo dell’impianto, la manutenzione e i piccoli acquisti di semi, topicidi e disinfestanti: investimenti non eccessivi e spazi di mercato che possono essere quindi una spinta alla crescita dell’elicicoltura lungo lo Stivale. Da tenere presente è il fatto che l’elicicoltura è un tipo di allevamento che non è soggetto a stagionalità e quindi porta guadagno in tutti i mesi dell’anno. Oggi le chiocciole che vengono immesse sul mercato hanno un’etichettatura come i frutti di mare e altri molluschi: in questo modo si offre un’indicazione ai consumatori riguardo la provenienza, e si dà quindi la certezza che non siano importate da Paesi extra europei dove non esistono controlli. Restano però le eccezioni, specialmente al Sud, dove esiste una maggiore tradizione nel consumo di questo mollusco e dove i controlli sono meno stringenti e dove è assai più diffusa la raccolta di lumache nei campi. Lumache che sono “abusive”, non controllate e fuori dal mercato regolare. Ben diverso è il discorso che riguarda piccole lumachine di terra presenti sul mercato in alcuni periodi stagionali che vengono cotte e servite nel loro guscio come stuzzichini appetitosi. Sono protagoniste dello street food tipico di alcune regioni e preparate in modo diverso a seconda della tradizione: in Veneto vengono chiamate bovoletti e una volta cotte, vengono condite con olio, prezzemolo, sale, pepe e aglio. In Sicilia prendono il nome di babbaluci quelle piccole, bianche e senza opercolo che vengono condite con olio,

Elicina

aglio e prezzemolo e consumate rigorosamente il 14 luglio, data in cui si festeggia la patrona di Palermo, Santa Rosalia. Sempre in Sicilia si possono trovare i crastuni che sono invece più grossi con la conchiglia di colore scuro, e nella ricetta viene aggiunto anche il pomodoro.

Veduta di un ampio allevamento

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La lumaca è servita!

Le lumache alla bourguignonne, un classico della cucina internazionale

La lumaca è presente nella cucina popolare italiana fin dall’antichità ed è apprezzata in ogni regione, ognuna delle quali la esalta con diverse ricette, generalmente in umido o trifolate, e la rende spesso protagonista di sagre di paese. Nasce come piatto povero, associato dunque alle classi meno abbienti, tuttavia all’inizio dell’Ottocento, nella cucina francese si guadagna un posto tra le prelibatezze e la ricetta delle “lumache alla bourguignonne” è già diffusa nel 1840. Si tratta di lumache prebollite in un court bouillon con abbondante vino bianco, quindi reinserite nel guscio insieme a un burro salato e profumato con aglio, scalogno, prezzemolo e/o dragoncello; infine si ricuociono in forno per qualche minuto utilizzando un apposito padellino. Nel sistema di preparazione c’è disaccordo fra la tradizione italiana e quella francese: in genere i francesi tendono a impiegare le lumache solo nei periodi di letargo, quando le carni sono più magre e delicate e necessitano di una preparazione che tende solo a eliminare le mucosità, tralasciando la fase di spurgo. Nella tradizione italiana invece le lumache si mangiano anche quando non sono in letargo e quindi sorge la necessità di sottoporle a una più complessa spurgatura prima che vengano cucinate. n

Gnocchi con lumache, santoreggia e salsa all’aglio Ingredienti per 4 persone:

della stessa dimensione.

500 g di patate a pasta bianca

Per il sugo: in una padella facciamo soffriggere la cipolla nell’olio e aggiungiamo le lumache e i pomodori tagliati. Aggiustiamo di sale e pepe e cuociamo per due ore.

170 g di farina 00 Olio extra vergine di oliva Una cipolla di medie dimensioni 50 g di pomodori ciliegini 20 lumache sgusciate e pulite 5 spicchi di aglio

Per la salsa all’aglio: uniamo aglio, sale e pepe al latte in una pentola e cuociamoli a fuoco basso per 15

150 ml di latte fresco intero Un cucchiaio di foglioline di santoreggia fresca 1 uovo Sale e pepe Per gli gnocchi: facciamo lessare le patate in acqua salata, sbucciamole ancora bollenti e passiamole subito allo schiacciapatate, disponendole sulla spianatoia infarinata. Aggiungiamo 1 uovo intero e la farina e lavoriamo l’impasto fino a ottenere una massa omogenea. Formiamo delle strisce di circa 1 cm di diametro e tagliamole a cubetti 56

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Il piatto della ricetta: gnocchi con lumache, santoreggia e salsa all’aglio

minuti,poi frulliamo fino a ottenere una consistenza cremosa. Cuociamo gli gnocchi in acqua salata, quindi uniamoli al sugo di lumache e serviamo in un piatto dove mettiamo anche un po’ di salsa all’aglio. Infine spolveriamo con la santoreggia precedentemente tritata. n


Borghi Autentici d’Italia è una rete fra territori dove protagoniste sono le persone e le comunità realtà che decidono di non arrendersi di fronte al declino e ai problemi, ma che scelgono di mettere in gioco le proprie risorse per creare nuove opportunità di crescita: realtà che appartengono a quell’Italia che

ce la vuole fare

Borghi Autentici d’Italia accompagna i Comuni nel dare avvio sul territorio a un processo di cambiamento e di miglioramento partendo dalle risorse e dalle opportunità presenti, per accrescere la qualità della vita della comunità e rendere attraente lo “stare”, il vivere e il lavorare in quei borghi. Per aumentare,

la bellezza di vivere il territorio www.borghiautenticiditalia.it


In primo piano

L’Abruzzo in bottiglia di Stefania Grifone - Scienze Gastronomiche

Il Montepulciano è tra i vini più venduti in Italia e all’estero, e non solo oggi, se è vero che da quasi mezzo millennio è celebre per il buon rapporto qualità-prezzo, come già scrisse un umanista del Cinquecento: “... con tutto che siano vini preciosi, sono nondimeno per lo più del tempo a bonissimo mercato...”. Ovidio ne “Le Metamorfosi” descrive l’Abruzzo come “terra ferax Cereris, multoque feracior uvae”, ossia fertile di grano ed ancor più fertile di uve, celebrando la bellezza dei vigneti della Valle Peligna; ma d’altronde già una famosa leggenda, raccontata anche dallo storico greco-romano Polibio enuncia che il condottiero cartaginese Annibale, che tenne sotto scacco Roma per molti anni, faceva bere al suo esercito questo vino prodotto in “Abrazzo” e con esso guariva le ferite dei suoi uomini e i suoi cavalli dalla scabbia. Che si riferissero proprio al Montepucialno? E vi si riferiva forse anche l’umanista Serafino Razzi quando durante il suo soggiorno a Vasto nel 1576 scrisse “... ciaschedun’anno se ne caricano assai barche per Ischiavonia e per Vinezia, e per altri luoghi. E con tutto che siano vini preciosi, sono nondimeno per lo più del tempo a bonissimo mercato...” ? Ciò che è certo è che il Montepulciano è stato da sempre il vino dal buon rapporto qualità/prezzo. Come attesta anche il 58

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racconto dell’abruzzese Giuseppe Devincenzi, proprietario di un’estesa proprietà nel Teramano, Senatore del Regno e presidente della Società dei Viticoltori Italiani all’epoca dell’Esposizione Universale di Bordeaux del 1882 nella quale aveva esposto i suoi vini: “... e su questi prezzi, per rapporto alla qualità, furono premiati questi vini in quella solenne Esposizione Universale tenuta nel Paese che produce i migliori vini del mondo, con una delle maggiori ricompense, ossia con una delle due medaglie d’argento del merito concedute agli Espositori dei vini italiani; l’altra fu conceduta al Duca d’Aumale per i celebri vini che produce in Sicilia. E il nostro rappresentante governativo presso quella esposizione mi scriveva che solo per un equivoco non fu concesso ai miei vini la medaglia d’oro al merito”.

Un’uva giunta dalla Grecia Giunto probabilmente dalla Grecia in tempi antichi, come tutte le tipologie mediterranee a bacca nera, non è certo se anche il vitiogno Montepul-


ciano sia passato prima dalla Magna Grecia, come le uve Apianae (i moscati, così dolci da essere amati dalle api) o il Marzemino, per poi risalire la Penisola. A questo proposito, numerosi studiosi (tra i quali il professor Franco Cercone e il dottor Giuseppe Cavaliere dell’Arssa-Agenzia Regionale per i Servizi di Sviluppo Agricolo in Abruzzo) si sono adoperati per recuperare ipotesi sulla vera origine di questo vitigno e di come sia nato o stato portato in Abruzzo, diventando nel tempo sempre più oggetto di attenzione oltre che il protagonista dell’importante sviluppo che ha avuto l’agricoltura regionale. In ogni caso il vitigno è documentato come presente nella Regione, dove ha trovato il suo posto d’elezione, già dalla metà del Settecento, anni in cui si ebbe un enorme sviluppo della coltura della vite nella valle Peligna e nell’alta val Pescara (in particolar modo nei territori di Pietranico e di Torre de’ Passeri), per merito di alcune importanti famiglie della zona, come i Mazzara e i Tabassi; é qui che nel 1793 lo storico napoletano Michele Torcia scrisse per la prima volta di un vino chiamato Montepulciano e fin dal 1821 nella vallata del Pescara

(presumibilmente nella zona di Tocco da Casauria – Bolognano dove risiedeva la famiglia Guelfi) si trovano notizie di produzione e commercializzazione di “vino Montepulciano” che veniva inviato fuori regione attraverso la ferrovia. Tale affermazione è documentata da un rarissimo documento manoscritto di proprietà dell’arch. Tommaso Camplone di Pescara. Da diversi archivi risulta anche che alcuni cloni scampati alla devastazione della fine dell‘Ottocento (anche il Montepulciano subì l’attacco della fillossera e in qualche anno l’estensione e la qualità degli impianti furono ridotti drasticamente) vennero reperiti nella Marsica, su suoli nei quali la fillossera non riesce a diffondersi, situati probabilmente a Gioia dei Marsi, Aielli o San Pelino-Paterno; e il punto di partenza del Montepulciano attualmente coltivato in Abruzzo fu la zona attigua di Torre de’Passeri, nell’apertura della Valle Peligna verso l’Adriatico.

Anche oggi a buon prezzo Tornando al buon rapporto qualità-prezzo premiato a Bordeaux, il vino Montepulciano ha mantenuto questo primato per secoli, fino ad

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oggi, favorendone l’inconfutabile conquista dei mercati soprattutto esteri (gli americani rappresentano oltre il 20% dell’export regionale), e favorendo, ovviamente, l’enorme crescita dell’enologia regionale. Il Montepulciano è protagonista non solo di mercati ma anche del paesaggio: oltre il 50% dei 33 mila ettari di vigneti che occupano il territorio abruzzese, sulle colline che scendono dalle cime della Majella e del Gran Sasso fino ad arrivare al Mare Adriatico, è dedicato

al vitigno Montepulciano, per una produzione che arriva a toccare i 600 mila ettolitri. Il vivere secondo natura difendendo i prodotti autoctoni ha ripagato gli Abruzzesi con una delle denominazioni d’origine, il Montepulciano d’Abruzzo Doc, più estese per la frammentata produzione italiana e forse l’unica che si identifica in maniera così dimensionalmente ampia e così produttivamente intensa con il territorio di un’intera Regione. 60

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Il vino Montepulciano d’Abruzzo è un rosso ottenuto dal vitigno omonimo ed è uno dei migliori vini rossi italiani. Un’indagine svolta nel corso del 2008 (Iri Infoscan per Vinitaly 2008) ha dimostrato, infatti, che il Montepulciano d’Abruzzo è al secondo posto, dopo il Chianti, tra i vini a denominazione d’origine più venduti in assoluto dalla grande distribuzio-

Il Montepulciano d’Abruzzo Doc, per disciplinare, viene ottenuto unicamente dai vigneti ubicati in terreni collinari o di altopiano, la cui altitudine non deve essere superiore ai 500 m s.l.m. ed eccezionalmente ai 600 m per quelli esposti a mezzogiorno, e quasi esclusivamente dalle uve del vitigno omonimo, con l’eventuale piccola aggiunta (massimo 15%) di altre uve provenienti da vitigni a bacca rossa idonei alla coltivazione nel territorio abruzzese (ad

ne nel 2007. Inoltre, da solo, rappresenta oltre l’80% del totale dei vini a denominazione prodotti in Abruzzo. Riconoscerlo è facile: un invitante rosso rubino intenso, l’inconfondibile profumo di frutti rossi, fiori e spezie, il sapore asciutto, morbido, giustamente tannico, rendono il Montepulciano d’Abruzzo unico. Daniel Thomases, noto giornalista degustatore, definì questo vino “il classico pugno di ferro in guanto di velluto”.

esempio Sangiovese). Il vitigno è autoctono del centro Italia e in particolare della zona tra Marche e Abruzzo; nello specifico la terra nativa di tale vitigno, ovvero dove ha acquisito nel tempo le caratteristiche attuali, sembra essere la Valle Peligna, in provincia dell’Aquila, magnifica zona naturalistica tra la Majella a est e il Gran Sasso a ovest che offre un profilo pedologico (composizione del terreno) e climatico molto particolare

“Un pugno di ferro in un guanto di velluto”


per la produzione di vino. Assieme al Sangiovese rappresenta al meglio la tradizione “rossa” dell’Italia centrale, è un vitigno vigoroso e mediamente tardivo (la maturazione si colloca quasi sempre tra la prima e la seconda decade di ottobre), adattabile a vari sistemi di coltivazione (è dibattuto se sia preferibile il tradizionale sistema della pergola, localmente chiamato tendone, o il sistema a spalliera, verso il quale si stanno orientando molte aziende nell’ultimo decennio),

delle nuances olfattive. Danno origine a vini dalle caratteristiche organolettiche decisamente interessanti: di immediata piacevolezza se bevuti giovani (da sei-otto mesi sino a diciotto mesi dalla vendemmia, come avviene in molti dei vini di fascia economica); complessi e di stoffa superiore se maturati a lungo in botti di rovere. Un tempo esclusivamente riservati per il taglio, i vini a base di Montepulciano si caratterizzano per gli aromi che ricordano la viola, la marasca e

uve Montepulciano troviamo l’Offida Rosso Docg e il Rosso Piceno Superiore Dop del sud delle Marche e il Rosso Conero Docg prodotto nella zona centrale delle Marche, nei pressi del Monte Conero, tutti di antichissime tradizioni. In Abruzzo, il vino Montepulciano ha ottenuto la Docg con la vendemmia del 2003 della sottozona “Colline Teramane”; nel 2005 il disciplinare di produzione ha subito alcune modifiche ed è stata riconosciuta la menzione “Riserva” ad altre aree,

resistente e generoso, ha un grappolo di grandezza e compattezza media, di forma piramidale o conica con acini rosso-violacei dalla buccia spessa, ricchi di polifenoli e antociani che permettono il colore intenso e la grande struttura del vino.

l’amarena matura, la mora e la liquirizia a seconda delle zone di produzione; fruttati e asciutti al gusto, con tannini fitti, morbidi e non molto aggressivi, sono arricchiti da note erbacee, di vaniglia, di caffè e di cioccolato acquisite con la maturazione; il finale è pieno e sostenuto da una notevole forza estrattiva e alcolica. Oltre agli abruzzesi Cerasuolo d’Abruzzo e Montepulciano d’Abruzzo, tra i vini ricavati principalmente da

con la denominazione Montepulciano d’Abruzzo Riserva, e alcune Igt sono passate a sottozone Doc. Per la provincia di Pescara, dalla vendemmia 2006 del Montepulciano d’Abruzzo, sono state riconosciute due sottodenominazioni: “Terre dei Vestini” e “Casauria” (o “Torre di Casauria”). Dalla vendemmia 2010, invece, per la provincia di Chieti, dalla quale proviene oltre l’80% della produzione regionale, è stata riconosciuta la sottozona

Dalla stessa uva anche altri vini Le uve Montepulciano sono capaci di espressioni di levatura mondiale per potenza, eleganza e ampiezza

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Perché un nome toscano? L’uva Montepulciano è presente in Abruzzo da tempo immemore, ma solamente dal XVII secolo si inizia a chiamare con il nome attuale, ed é da allora che va ormai avanti la disputa sulla paternità di quest’ultimo, conteso tra gli abruzzesi e i viticoltori di Montepulciano (SI); va precisato che il Vino Nobile di Montepulciano, prodotto in provincia di Siena, non ha legami con questo vitigno, ma è vinificato con un clone di Sangiovese (Prugnolo Gentile) e prende il proprio nome dalla città omonima in cui è prodotto. Le confusioni sono dovute ad alcune caratteristiche ampleografiche e alla produzione di vini simili. È plausibile che a questo vitigno fu dato il generico nome di Montepulciano - dal’omonimo paese, anche se in Toscana non esisteva alcun vitigno così chiamatose si accetta la ricostruzione storica che ipotizza che la

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famiglia dei Medici, istituendo la Baronia di Carapelle e il Marchesato di Capestrano tra il 1579 e il 1743, importò in Abruzzo le prime tecniche viticole ed enologiche evolute in Toscana. Altra ricostruzione afferma invece che ben prima le tecniche viticole furono importate in questa zona e non dai Toscani, bensì dalle popolazioni che abitavano i Balcani e la Grecia, ai tempi in cui i Romani sconfiggendo Piceni e Sanniti conquistarono le terre d’Abruzzo e scoprirono un nuovo sbocco sul Mare Adriatico, al di là del quale vivevano questi popoli, che già dalla preistoria coltivavano uve autoctone e commerciavano vino con luoghi di grandissima tradizione viticola come Calabria e Sicilia, e ai quali i romani diedero volentieri cittadinanza, proprio per la loro abilità nel fare vino e venderlo. n


“Teate” mentre per la provincia de L’Aquila sono state riconosciute le sottozone “Terre dei Peligni” e “Alto Tirino”.

E c’è pure quello più chiaro Per quanto riguarda il Montepulciano d’Abruzzo Cerasuolo si può dire che per secoli è stato lui il vino tradizionale degli Abruzzesi; localmente “lu rusciulett” è un rosato delicato e fresco ottenuto da uve Montepulciano vinificate in bianco, ovvero lasciando il mosto a contatto con le bucce solo per qualche ora (6-10), anziché per 7-8 giorni come avviene nel Montepulciano classico (“lu fermentat”), ottenendo così un vino rosso ciliegia (“cerasa” appunto) di media intensità con profumi fruttati di marasca, rosa e viola e sapore secco con retrogusto mandorlato; è sempre stata considerata, a livello di disciplinare, come una tipologia appartenente

al Montepulciano d’Abruzzo, in quanto prodotto fondamentalmente dalle stesse uve, ma a partire dalla vendemmia 2010/2011 è stato modificato il nome, in quanto è stato riconosciuto come vino Doc a sé stante; per tale motivo la denominazione esatta è di Cerasuolo D’Abruzzo Doc, uno dei migliori vini rosati italiani. Il vitigno è destinato, in genere, alla produzione di vini rossi da lungo invecchiamento ma può essere immesso al consumo il 1° marzo successivo

alla vendemmia con una gradazione alcolica minima di 11,5%. La Docg Montepulciano d’Abruzzo Colline Teramane deve essere sottoposta a un periodo di invecchiamento non inferiore a due anni (tre per la Riserva) in botti di rovere o castagno e affinamento di sei mesi in bottiglia (il periodo di invecchiamento decorre dal primo novembre dell’annata di produzione delle uve) e deve avere una gradazione minima di 12,5%; per questa particolare Docg sono previsti, oltre ai terreni non superiori ai 550 m s.l.m., impianti con densità non inferiore a 3000 ceppi/ha e sono vietate le forme di coltivazione in tutto o in parte orizzontali e ogni pratica di forzatura, ma è consentita l’irrigazione di soccorso; tutte le operazioni di vinificazione debbono ovviamente essere effettuate nella zona Docg della provincia di Teramo. n

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Scelte di vita

Una pastorella del terzo millennio di Laura Scanu - Scienze Gastronomiche

Cristina avrebbe potuto fare la vita della veterinaria, sicuramente più comoda, ma ha scelto di occuparsi delle sue pecore seguendo i ritmi di sempre. È contenta e le rinunce sono assai meno di quello che si crede. “La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi: ventiquattromila chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso dovrebbero coincidere con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come paradiso”.

sempre in cerca di pascoli più verdi e più vasti. Ritmato dall’interminabile colonna sonora dei campanacci appesi al collo degli ovini, il pastore sardo rimaneva mesi lontano da casa, a volte in completa solitudine. Questa situazione gli ha permesso di sviluppare quell’arte dell’arrangiarsi che, oltre al far da sé per necessità, ha lasciato in eredità un pizzico di orgoglio. Un orgoglio che ritroviamo tutt’oggi come un marchio di fabbrica del sardo tout court. Molto più fiabesca è però l’idea che il pastore di allora avesse la consapevolezza di avere a disposizione risorse uniche che servissero per creare prodotti caratteristici del territorio. In realtà, la sapienza era l’esperienza e, attualmente, se per alcuni settori il ritorno al passato è impedito dall’indispensabile utilizzo di tecniche innovative, la pastorizia sarda fa ancora parte di quel segmento che si rifà alla memoria dei nostri nonni. La Sardegna, con la sua eterogeneità di tradizioni, ci offre infatti una lunghissima lista di prodotti ancora lontani da un’ottica prettamente industriale, che caratterizzano il territorio e che permettono di valorizzarlo.

Un mestiere per pochi

Vita di paese, paesaggi poetici, storie di pastori fanno parte di quella Sardegna che anche Fabrizio de Andrè ci ha descritto nelle sue canzoni: un’ulteriore conferma che le bellezze dell’isola non si limitano solamente a mari cristallini e spiagge da bandiera blu, ma inglobano anche le tradizioni secolari tipiche dell’entroterra. Proviamo a immaginarci turisti in una Sardegna di cent’anni fa: certamente avremmo trovato lidi deserti, in contrapposizione alle popolose campagne animate da centinaia di pecorelle guidate al pascolo da abili pastori. La transumanza era una pratica diffusa in gran parte della Sardegna: consisteva nello spostamento del bestiame dalle zone di montagna a quelle più pianeggianti e viceversa, 64

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Che sia un mestiere tramandato soprattutto di generazione in generazione, ci è ormai chiaro. Tuttavia, difficilmente incontriamo giovani che al giorno d’oggi vogliono dedicarsi al lavoro in campagna e che sono disposti a sporcarsi le mani. Dobbiamo anche precisare che il lavoro del pastore non è proprio alla portata di tutti: ci vuole forza fisica e perseveranza perché, lo sappiamo bene, le pecore non vanno in ferie! Figlia di pastori, Cristina è una ragazza di 23 anni che vive a Nulvi, un paesino di poche migliaia di abitanti nel cuore dell’Anglona, in provincia di Sassari. Da sempre vicina al mondo agro-pastorale, ci racconta di aver frequentato l’Istituto Tecnico Agrario e che da grande avrebbe voluto fare la veterinaria. «Quando ero alle superiori non avevo per niente le idee chiare - ci spiega - ma il mio sogno sin da piccola era quello di stare a contatto con gli animali. Tuttavia, a mano a mano che passavano gli anni, mi sono resa conto che lo studio e i libri non erano il mio forte e che entrare all’Università di medicina veterinaria sarebbe stato troppo complicato». L’azienda agricola Posadinu è a


conduzione familiare: si allevano circa trecento ovini, otto maiali e, per hobby, anche tre cavalli. Cristina ci parla con entusiasmo della sua esperienza iniziata già quando era a scuola e di come la natura la meravigliasse ogni qualvolta nascesse un cucciolo in azienda e continua: «lavoravo quando potevo, di domenica e durante le vacanze; preferivo sempre andare in campagna piuttosto che stare a casa a studiare». Con molta serenità, ci racconta anche il motivo di questa scelta: «all’inizio era solo una “prova” con me stessa, ma poi mi sono resa conto che era la mia vita, così ho deciso di seguire mio padre in azienda anche perché so i sacrifici che ha fatto e l’impegno che ci ha messo fin da bambino per portarla avanti; non vorrei mai che la nostra azienda finisse in mani sbagliate quando, un giorno, mio padre non ci sarà più». Sia culturalmente che grammaticalmente, l’appellativo di “pastore” ci riconduce a una figura maschile. Ci sembra perciò ancora più strano pensare che una ragazza così giovane ne abbia fatto il proprio mestiere. «Sono ogni giorno più contenta ed entusiasta della mia scelta - ci spiega Cristina - anche se all’inizio non è stato molto semplice: mio padre non era poi così contento e la gente non lo vedeva come un mestiere adatto a una ragazza. All’inizio mi sono fatta condizionare dalle opinioni altrui, ma poi ho preso coraggio e me ne sono fregata». Orgogliosa e fiera del proprio lavoro, Cristina non si lascia sfuggire un commento un po’ di parte: «diciamoci la verità: ci vuole sempre un tocco femminile! I maschietti non hanno quel fare dolce con gli animali e, soprattutto, la pazienza di tenere tutto pulito».

Una giornata da pastorella Ci può sembrare bizzarro pensarlo, ma chi guida il gregge sono le pecore stesse. Il pastore, in questo sistema, è solo un mediatore che sfrutta al meglio questa magnifica collaborazione con gli ovini per ricavarne una risorsa. Ecco allora che Cristina ci racconta in cosa consiste questo mestiere, molto variabile a seconda della stagione: «nel periodo inverno-primaverile la sveglia suona alle 6 del mattino, in dieci minuti io e mio padre siamo in azienda, prepariamo la sala di mungitura e, a piccoli gruppi, facciamo entrare le pecore per mungerle; quando abbiamo finito, laviamo tutto e io mando le pecorelle al pascolo». «Nel frattempo - prosegue - ci occupiamo di dar da mangiare e da bere agli altri animali presenti in azienda: in campagna il tempo vola e infatti è già ora di rientrare a casa per riposarci e pranzare. Alle 14.30 torniamo in azienda e portiamo le pecore in un terreno dove abbiamo seminato l’erbaio. Nel mentre puliamo la zona di sosta, dove le pecore attendono prima di entrare nella sala di mungitura. Prepariamo il locale di ricovero con un bel letto di paglia e mettiamo fieno in abbondanza come cibo per la notte. Come al mattino, prepariamo la sala di mungitura e alle 17.30 si munge nuovamente. Una volta finito, porto le pecore nel capanno (il locale di ricovero n.d.r.), dove rimarranno fino all’indomani e rientriamo a casa. Finalmente anch’io posso rilassarmi e mangiare con tranquillità». Quello che ci stupisce è come una ragazza così giovane riesca a trovare

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anche il tempo per se stessa e per gli amici. «Per come la vedo io - continua - il lavoro del pastore bisogna solo saperlo fare e bisogna organizzarsi. Non è poi così impegnativo. Ovviamente non si hanno giorni festivi, ma essendo in due in azienda, capita spesso di alternarci». Un invito, quello di Cristina, a non scoraggiarsi di fronte alla fatica e ai pregiudizi. La soddisfazione è quindi sì quella di veder crescere gli animali, ma non da meno quella di produrre delle bontà. «Mia madre è una buona casara e fa qualche forma di formaggio giusto per il consumo familiare. Ora

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sto imparando anche io a farlo sia osservando lei, sia frequentando dei corsi specifici». Ecco confermato che in mano ai giovani non stiamo lasciando esclusivamente il futuro, ma stiamo affidando loro anche il nostro passato e il nostro presente. Per la valorizzazione del territorio abbiamo quindi bisogno di una bella manciata di tradizioni culturali e gastronomiche ma, come in ogni ricetta che si rispetti, bisogna anche avere un ingrediente segreto. Qual è? «Un amore intenso e indistruttibile per la propria terra, e la Sardegna, fidatevi, si fa amare.»


La tosatura è l’occasione per stare insieme

Alla pastorizia sono legati tantissimi momenti di convivialitĂ . Tra maggio e giugno in particolare, parenti e amici si riuniscono per su tunninzu o tusonzu (letteralmente la tosatura), il momento in cui, dopo aver trasformato la

campagna in un vero e proprio salone di barbieri professionisti, la festositĂ si esprime ai massimi livelli. Si apparecchiano lunghe tavolate e le si imbandiscono con pietanze di ogni tipo. Le brave massaie si dilettano nella preparazio-

ne di eccezionali manicaretti e gli uomini si riuniscono intorno al fuoco per arrostire carne in abbondanza. Non mancano formaggio, salsicce stagionate, pane, olive e vino... n

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Su pane frattau Ingredienti per una porzione 3 o 4 sfoglie di pane carasau Sugo al pomodoro Formaggio pecorino grattugiato 1 uovo (come variante di alcune zone) Prendiamo un piatto piano e creiamo una base di sugo e formaggio. Spezziamo in quattro ogni sfoglia di pane, immergiamo velocemente un pezzo di pane in acqua bollente e salata e adagiamolo sul piatto. Cospargiamolo nuovamente con sugo e formaggio e continuiamo con questo procedimento stratificando di volta in volta fino a finire le sfoglie. Se vogliamo, possiamo guarnire con qualche foglia di basilico. Per una variante, tipica di alcuni paesi del centro Sardegna, possiamo aggiungere sopra il nostro pane frattau un saporito uovo in camicia. n

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il pastore che rimaneva fuori casa per molto tempo aveva Negli ultimi decenni, la ricerca dei valori e dei sapori del- la possibilità di avere sempre il pane a disposizione. L’arte la tradizione è diventato sempre più diffusa. Quando deci- di àcchere su pane (fare il pane) è ancora il mestiere di diamo di fare un viaggio e qualsiasi sia la località in cui molte donne che si riuniscono intorno al forno a legna e vogliamo andare, siamo spesso guidati dalla curiosità di ne producono instancabilmente chili e chili ogni giorno. È assaggiare i piatti tipici della zona. La Sardegna, da questo un lavoro molto faticoso e perciò il forno deve essere rigorosamente basso per permettere alle punto di vista, ci offre una vastissima panificatrici di restare sedute. Ancora gamma di prodotti e di preparazioni oggi l’aiuto tra famiglie è molto imporgastronomiche che variano a seconda Il nome carasau deriva da tante ma, soprattutto nel passato, esidel paese o città in cui ci troviamo. “carasare”, ovvero l’atto di stevano sas cochidoras, ovvero donne Pensiamo solo al pane: ogni zona dell’isola (e addirittura ogni paese) ha abbrustolire nuovamente le del paese che andavano di casa in casa il suo, anche se il pane sardo per eccel- due sfoglie di pane ottenute e aiutavano a fare il pane. Le anziane massaie dicono che un lenza è il pane carasau, tipico della dalla divisione della spianata buon pane si riconosce dal colore e Barbagia e conosciuto da molti anche appena tolta dal forno. dallo spessore: presa una sfoglia e come carta musica. Sfumature dialetmessa controluce, bisognerebbe quasi tali ne variano il nome, mentre diversi vederci attraverso. Ottimo con affettametodi di lavorazione e differenti ricette ne cambiano il sapore e donano a questo prodotto ti e formaggi, squisito con olio e sale, la versatilità di quequelle caratteristiche inconfondibili che testimoniano del- sto pane ne permette un uso non solo come accompagnala straordinaria diversità culturale che ci caratterizza. Le mento, bensì anche come materia prima per la creazione sue origini si fanno risalire intorno al II millennio a.C e, nel di molti piatti tradizionali. Il pane frattau, per esempio, è corso della storia, è stato la salvezza del pastore. Le sue una ricetta semplice che, come ogni prelibatezza, nasce n sfoglie sottili e croccanti potevano durare per tanti mesi e dalla cucina povera.

Il pane quotidiano

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Itinerario dei sapori

Stop al tempo: si va in Romania! Un viaggio che blocca l’orologio e ci fa riscoprire valori perduti: una piacevole sorpresa per chi, qui in Italia, conosce i sapori rumeni in base ai prodotti industriali proposti nei negozi per emigrati. di Clarissa Salafia - Scienze Gastronomiche Qualche timore, qualche dubbio…e siamo già sul volo per la Romania. Un viaggio inusuale, un invito di Camelia, un’amica rumena per farci conoscere i luoghi della sua infanzia e la sua famiglia. All’arrivo prendiamo un’auto e ci lasciamo subito alle spalle Timisoara per raggiungere il suo paesino, a più di tre ore di viaggio dall’aeroporto. Poco più di una ventina di minuti e ci fermiamo in uno sfarzoso ristorante alle porte della città dove gustiamo la Ciorbă, una minestra tipica rumena a base di carne e ortaggi di vario genere, rigorosamente accompagnata dalla Smântână, una sorta di panna acida. Rimaniamo stupiti notando che con tutto quello che abbiamo mangiato spendiamo non più di 50 Lei a testa (circa 10 Euro). Piacevolmente sazi riprendiamo il viaggio e davanti ai nostri occhi scorre un paesaggio piatto, vasto a perdita d’occhio e scarsamente popolato, se si esclude qualche piccolo agglomerato di case che spunta qua e là in mezzo a tanta campagna in cui gruppi di anziane signore con il panno in testa scrutano chi passa. Il suo paese si rivela poco più di un villaggio, con strade in terra battuta e sentieri sconnessi e polverosi, fabbricati rurali con animali da cortile e da fattoria un po’ ovunque e attorno vaste distese coltivate. Ovviamente la precedenza va a mucche, pecore, cavalli e anatre che percorrono le strade senza porsi troppi problemi. La prima impressione dominante, girovagando nel caldo di un mese di maggio torrido, è di essere finiti in un 70

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telefilm ambientato in un tempo antico e di non vedere l’ora che il regista chiuda il set per tornare agli agi della quotidianità. A rafforzare la sensazione di vivere in un’altra epoca provvede una donna che porta in testa una cesta di panni e un calessino trainato da un cavallo pezzato che sopraggiunge trotterellando e sollevando nugoli di terra polverosa. Veniamo colpiti dal cimitero di questo paesino, che si affaccia sulla strada sterrata come fosse un qualsiasi giardino di un’abitazione, davanti a cui ogni persona che passa si fa il segno della croce salutando i propri cari ivi sepolti. I suoi parenti ci fanno salire sul carretto e assaporiamo i tanti profumi che arrivano alle nostre narici dai prati e dalla campagna che ci attorniano. Ci sentiamo bambini alle giostre e scattiamo una serie infinita di foto con l’allegria di chi è sorpreso e compiaciuto da un’esperienza del tutto nuova! In casa, un fabbricato semplice ma decoroso, la semplicità degli arredi e delle attrezzature rivela una realtà con pochi agi, una quotidianità cruda in cui però tutti sembrano solidali nell’aiutarsi e nel rendere piacevole la convivenza parlando, ridendo e gio-


cando insieme. E uscendo nel cortile, ci sembra di essere nella famosa “vecchia fattoria” in cui gli animali sono liberi, sereni e trattati con affetto. Le mucche poi vengono portate spesso al pascolo nella moltitudine di campi che circondano la zona, ricchi di erba medica in fiore. I bambini sono curiosi e affascinati dalla nostra presenza, ci prendono per mano correndo a farci vedere ciò che hanno e indicano a destra e a sinistra cercando di farci imparare qualche parola di rumeno. Sono totalmente immersi nella natura e sono contenti di ciò che hanno: si prendono cura degli animali, vanno alla sor-

gente a prendere l’acqua e ci portano con loro per mostrarci come corrono le mucche quando sentono il rumore dell’acqua. Anche se le difficoltà della diversa lingua si fanno sentire, con loro si conclude tutto con una risata. In cucina, il cibo si prepara e si gusta ritualmente insieme; le ricette si basano su ingredienti naturali, autoprodotti da ciascuna famiglia, che coltiva e alleva quanto necessario al sostentamento familiare (caspita, un vero chilometro zero!). I sapori non standardizzati delle carni degli animali, nutriti con prodotti naturali, e delle verdure appena colte caratterizzano il gusto di ogni preparazione locale che abbiamo po-

tuto assaggiare nei pochi giorni trascorsi al villaggio. Stridente in quell’oasi bucolica è il deciso richiamo all’industrializzazione: non mancano le bottiglie da due litri e mezzo di coca cola che, troneggiando sul tavolo da pranzo assieme a pacchetti di sigarette, accorciano le distanze tra bisogni reali e bisogni indotti dalla “civiltà”. Un’altra cosa che certo non manca è l’alcol: bottiglioni di birra aiutano i contadini a superare la giornata e la grappa viene usata addirittura come moneta di scambio (ci torna in mente con un sorriso la simpatica scena di una contrattazione di copertoni per la macchina in cambio di 8 litri di grappa...).

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La sera scende sul villaggio come un mantello pesante e porta con sè il vero buio di un cielo scuro, bucato da miriadi di stelle che le luci abbaglianti delle nostre città ci nascondono alla vista e che sembra di poter toccare con un dito. E cala il silenzio. Quel silenzio immenso di notti immerse nel nulla circostante, dove lievi ronzii e piccoli scricchiolii diventano rumori che accompagnano il canto dei grilli e il gracchiare di qualche ranocchia raminga. C’è da sentirsi persi a camminare in quel buio, non possiamo fare a meno della torcia per vedere dove mettere i piedi mentre andiamo a trovare la nonna, che abita in una piccola stanzetta con una stufa a legna e un vetu-

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sto televisore. Siamo sorpresi dalla grande ospitalità con cui ci invita a sederci sul letto (unico punto di appoggio) per chiacchierare un po’ dopo averci pregato di vedere la casa, composta dalla sua stanza e da un’altra stanza in cui vivono la figlia e il nipote con la fidanzata e la neonata. Con enorme stupore osserviamo la cucina esterna alla casa, composta da un unico pezzo di ghisa posto su un tavolo di legno traballante. Capiamo quindi il drammatico conflitto che alberga in questo piccolo mondo: non essere assediati dalla “modernità” spesso crea rapporti umani più stretti e personali, ma nel contempo, materialmente, le fatiche di una vita poco o per niente aiutata dalla tecnologia, in aggiunta alla scar-

sa disponibilità di denaro, portano molti a desiderare una vita diversa altrove, abbagliati dal guadagno che può procurare ciò che sembra loro mancare. Ma le radici restano nel cuore e Camelia quando passa qualche mese in Italia a lavorare non vede l’ora di tornare nel suo villaggio dai suoi animali. Al ritorno da questo viaggio restano ricordi di piacevole umanità e umiltà e la riflessione su quanti dei tanti oggetti di cui ci contorniamo ci siano davvero utili, su quante delle molteplici attività che riempiono le nostre giornate siano davvero soddisfacenti e ... su quanto poco riescano a colmare il vuoto di relazioni umane superficiali, opportunistiche e fugaci. n


Il piatto delle feste Il Sarmale è un piatto tipico rumeno che viene preparato in vista di occasioni importanti come Natale o Pasqua o per cerimonie e celebrazioni, ma è gradito da tutti e per questo viene riproposto nelle cene in cui gli ospiti sono numerosi. Il procedimento è semplice ma la preparazione è molto lunga. Per tradizione si colgono le verze dopo la gelata, che le rende più gustose, e vengono messe a “fermentare” in un bidone con acqua e sale per almeno un mese. Questo processo fa sì che la verza si ammorbidisca e acquisisca il sapore agro che caratterizza in questo piatto. Per velocizzare questa fase possiamo sbollentare la verza in acqua salata addizionata di qualche cucchiaio di aceto (il risultato ovviamente non sarà il medesimo!).

Il Sarmale

Ingredienti per circa 4 persone: 1 verza 750 g di macinato misto (maiale e manzo/vitello) Olio di semi di girasole 1 uovo Dado granulare rumeno (in alternativa sale) 2 cipolle grandi Passata di pomodoro (o pomodori freschi a cubetti, in base alla stagione) 2 cucchiai di riso Alloro Aneto tritato Aceto (per inacidire la verza nel procedimento veloce) Prezzemolo tritato Pepe Smântână (in vendita nei negozi rumeni, o sostituibile con panna acida)

La preparazione inizia tagliando le due cipolle molto finemente. Prendiamo metà del trito di cipolle e lo facciamo rosolare in padella con un filo d’olio di semi di girasole e una goccia di passata di pomodoro. Amalgamiamo la carne in una ciotola molto capiente e aggiungiamo la cipolla rosolata precedentemente, la cipolla cruda, i due cucchiai di riso, il pepe, il prezzemolo, un uovo, il dado (o il sale) e il trito di aneto (le donne ci spiegano che alcune preparazioni vedono anche l’uso del finocchietto). Una volta amalgamato il tutto, prendiamo le foglie di verza e le tagliamo a metà (preferiscono gli involtini di una misura normale, piuttosto che avere degli involtini grandi lasciando la foglia intera, perché più sono piccoli, più vengono saporiti). Bisogna ricordarsi di tenere due o tre foglie di verza da parte che ci serviranno successivamente. Qui entra in gioco l’abilità delle donne rumene, che con grande maestria riempiono l’involtino in una mano. Noi ci abbiamo provato con scarsi risultati, perciò abbiamo preferito arrotolarli sul tagliere! Per chiuderli è sufficiente ripiegare le estremità dell’involtino verso l’interno. Una volta riempiti tutti gli involtini, riprendiamo le foglie di verza che avevamo tenuto da parte e le tagliamo a pezzettini ponendole sul fondo di una capiente casseruola. Questo passaggio nacque per evitare di bruciare gli involtini. Sulla verza adagiamo a strati gli involtini a raggiera, aggiungiamo l’alloro, un goccio d’acqua e un po’ di passata di pomodoro e così per ogni strato fino ad esaurire gli involtini. Riempiamo poi la pentola d’acqua e copriamo con foglie di verza, se ce ne sono avanzate. Poniamo infine la pentola sul fornello a fuoco basso e lasciamo cuocere per un’ora- un’ora e mezza. Serviamo il Sarmale nel piatto accompagnandolo con la smântână.

Poftă bună!

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Scelte di vita

Agricoltura giovane di Valentina Lusini - Scienze Gastronomiche

“Il lombrico felice” è un’azienda agricola biologica nata dalla passione per la terra di un giovane imprenditore che a Città di Castello, nella campagna umbra, fa il contadino con amore ed entusiasmo nel rispetto dell’equilibrio dell’ambiente. Luca, 34 anni, è un giovane calabrese trapiantato nelle campagne limitrofe a Città di Castello (Pg) che, da qualche anno, ha intrapreso un cammino lento e faticoso con la speranza di realizzare quello che, forse, era il sogno di Girolamo e Dino. Girolamo, perito agrario, Dino, semplice contadino del “fattore”, sono legati dal fatto di essere entrambi nonni di Luca, al quale sono riusciti a trasmettere tutta la passione e l’amore per quella risorsa da molti ignorata , ma così importante da garantire la sopravvivenza del genere umano: la terra. Spinto da questo sentimento, il nostro giovane amico intraprende gli studi presso la facoltà di agraria

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dell’Università di Perugia e, superati quelli che sono i piccoli ostacoli della vita di uno studente, inizia la costruzione del suo sogno. Per poter gettare il primo mattone viene aiutato dai genitori, che prima di lui hanno ereditato questo affetto per la terra e che, con nostalgia, in tal modo possono rivivere i valori e i ritmi dell’ infanzia. Vengono così acquistati i terreni dove, pezzettino dopo pezzettino, vedrà la luce “Il Lombrico felice”, l’azienda agricola biologica che era nei sogni di Luca. «Il sostegno ricevuto dai miei genitori è stato essenziale - ci dice - perché anche se ho potuto usufruire degli aiuti messi a disposizione dallo Stato, questi risultavano praticamen-

te nulla. o quasi, in confronto all’effettivo costo dell’impresa».

Perché bio? E perché no? Poste le fondamenta dell’impresa, perché la scelta dell’agricoltura biologica? A questa domanda Luca risponde prontamente: «E perché avrei dovuto fare agricoltura convenzionale?». Il suo quesito rivela appieno l’amore e il rispetto che il ragazzo porta nei confronti della terra, il desiderio di rispettare i tempi e le esigenze di cui un terreno, un seme, una pianta necessitano per ottenerne, alla fine, prodotti con caratteristiche di qualità e di gusto autentici. Pertanto rotazioni, maggese, alternanza delle coltivazioni, stagionalità


sono i principi sui quali si basano le attività dell’azienda per quello che riguarda tutte le produzioni di vegetali. Poi Luca non utilizza pesticidi, insetticidi, sostanze chimiche di varia natura, mentre la localizzazione lontana dalla città e, di conseguenza, dall’inquinamento incentiva ulteriormente la scelta di aiutare la natura e l’ambiente a rimanere sani. Tutto ciò contribuisce ad aiutare il territorio a restare integro e, come ci tiene a sottolineare, «l’accettazione di tanti ostacoli è necessaria avendo l’obbiettivo di non deturpare, derubare e snaturare quello che è un magnifico spettacolo e che, talvolta, ti fa rimanere con il fiato sospeso, mostrandosi in tutta la sua bellezza». Sappiamo, quindi, qual è l’idea sulla quale è stata fondata questa azienda ma questa rigorosa scelta di campo con quali tipi di coltivazioni si concretizza? Quali sono i prodotti che Luca offre ai suoi affezionati clienti e attraverso quali metodi fa conoscere i frutti del suo lavoro? Alla nascita, nel 2002, le produzioni, rigorosamente biologiche, erano rivolte in special modo all’alimentazione degli animali, ma dal 2006 si è

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fatto un passo in avanti, aggiungendo prodotti destinati direttamente al nostro consumo, ovvero: cereali, legumi e ortaggi freschi.

Sani, freschi e a domicilio L’innovazione di Luca sta, però, anche in un servizio davvero unico o quasi da parte di un’azienda agricola: il frutto del suo lavoro viene consegnato a domicilio, così da evitare intermediari e mantenere dei prezzi giusti, senza costi di trasporto o passaggi intermedi. In pratica il consumatore, scelta la pezzatura della cassetta che viene riempita con i prodotti disponibili in giornata, la riceve comodamente a casa. Luca non disdegna inoltre di fare quattro chiacchiere con la clientela andando così a vendere anche ai mercati di quartiere, a quelli a km 0, alle fiere agricole.. Inoltre, per aumentare gli amici, l’azienda aderisce a vari Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) e propone degustazioni dei suoi prodotti con cene o pranzi tutti all’insegna del bio e del naturale presso la propria sede, dove

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ha allestito una vera e propria struttura di ristorazione. Un personaggio così impegnato non può sicuramente far mancare il suo contributo verso i bambini e così, con la Fattoria Didattica, bimbi e ragazzi di varie età possono passare delle giornate imparando la vita di fattoria in tutte le sue sfaccettature, dalla semina alla produzione del miele all’allevamento di animali da cortile, attraverso giochi, dimostrazioni e visite guidate. E Luca ci tiene a precisare che, se è riuscito a farsi conoscere, è proprio grazie al passaparola perché sostiene: «chi meglio di colui che ha provato la qualità dei nostri prodotti può esprimerne l’apprezzamento e riferirlo così all’amico?».

«Un consiglio? Fate come me!» Il nostro giovane imprenditore sostiene che la strategia più adatta per fidelizzare il cliente/consumatore sia quella di fargli capire come un’azienda biologica sia condizionata non solo dal naturale ciclo stagionale, ma anche dalla quantità dei prodotti che

possono essere offerti; quantità non illimitate: « una volta che l’acquirente comprende tutto questo, il gioco è fatto e la fiducia è conquistata!» Ma oggi Luca rifarebbe la stessa scelta? Consiglierebbe ad un giovane di intraprendere la sua stessa strada? La risposta viene preceduta da uno sguardo pieno di fiducia e orgoglio: «rifarei certamente le stesse scelte, per i miei nonni, per i miei genitori per i miei figli e anche per me ... e poi... sì...certamente consiglierei a un ragazzo con passione e volontà di percorrere questo cammino; quello dell’agricoltore è un lavoro duro è faticoso, ma i risultati che si possono ottenere regalano grandissime soddisfazioni…inoltre a oggi il settore del biologico è in continua ascesa, le prospettive sono buone, anzi ottime, quindi…a tutta agricoltura!». n

Il Lombrico Felice Località Galliano, 1 Città di Castello 06012 Pg www.illombricofelice.com


i frutti dell’albero di noce (Juglas regia)

Spigolature golose

Il nocino di Davide Pagani – Master Comet

Il liquore casalingo per eccellenza non solo a Modena, dove è un culto Il noce comune europeo (Juglans regia) è un albero im- senziali e principi attivi. ponente che cresce lentamente fino a 30 m, presente fin Ciò avviene alla fine di giugno, quando all’interno si indai tempi dei Romani in Italia. L’uomo ha utilizzato il suo travede il disegno del futuro frutto maturo ma non c’è anlegno pregiato per il mobilio e l’ebanistica, mentre il suo cora alcun cenno di lignificazione del guscio. Puliamoli, “seme” (ricoperto dal mallo fino a maturazione) è da sem- tagliamoli in quattro parti (per eliminare eventuali e metpre uno dei più apprezzati tiamoli in un contenitore con come alimento e come fonte l’alcol etilico puro (1 litro per di olio commestibile. Recenogni kg di malli). Già dopo temente ha assunto grande qualche minuto osserviamo importanza come alimento come il mallo verde inizi a nutraceutico per la sua ricperdere sostanze coloranti chezza in ω-3 e ω-6. (polifenoli e tannini) donanUn modo per apprezzare do sfumature marroni-nerainvece il frutto intero del stre al liquido. Chiudiamo il Le noci raccolte al giusto punto si maturazione noce è quello di preparare un contenitore e lasciamolo sot“digestivo” che permetta di to il sole per 25 giorni. Traconservarne per anni l’aroscorso questo periodo, prema, il profumo e il gusto. pariamo uno sciroppo di acIl nocino, infatti, è tra i liquori più antichi e, secondo il qua (450 g per litro di alcol) e zucchero (400 g per litro di notaio modenese Pellegrino Grappi, vissuto nel XVIII seco- alcol), lasciamolo raffreddare e poi travasiamolo nel conlo, ci vogliono tre cure particolari per prepararlo: “le noci tenitore con l’alcol che ormai ha un colore scuro intenso. devono essere raccolte immatuChiudiamo il contenitore e lare, da piedi scalzi e da mani femsciamolo riposare per 30 giorni, minili, la notte di San Giovanni quindi filtriamo e imbottiglia(24 giugno) e il frutto non deve molo. Sarà pronto dopo 3-4 essere tagliato con il ferro bensì mesi, perfetto da “inaugurare” con la lama di legno”. alla fine dei lunghi e abbondanti Speriamo che codesto notaio menù natalizi in compagnia dei ci possa perdonare se non riparenti. spettiamo rigorosamente tutte Un’altra versione, più “ufficiale condizioni. È molto importanle”, prevede la macerazione dei te, però, raccogliere il frutto con malli con lo zucchero, la loro torla drupa ancora verde perché è chiatura e l’aggiunta di alcol ai la fase ideale per l’infusione (gli liquidi ottenuti dalla macerazioerboristi la chiamano “tempo ne e della torchiatura senza biIl nocino balsamico”), per il suo profumo sogno dell’aggiunta d’acqua. intenso e la ricchezza di oli esn

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In primo piano

Il pesce d’acqua dolce che piaceva ai Dogi di Linda Filippini - Master COMET

Il Carpione del Garda, apprezzato dai Romani e protetto da Decreto della Repubblica di Venezia, è un’eccellenza esclusiva del Benaco che ha dato il nome a una preparazione gastronomica nota in tutta Italia ma che ha rischiato in questi decenni di scomparire. Gli sforzi per il ripopolamento sono una vera scommessa per il territorio. Il lago di Garda è un luogo di rara bellezza: il territorio circostante regala allo sguardo del viaggiatore una notevole varietà di paesaggi, dalle dolci colline che caratterizzano la parte meridionale del bacino alle rocce scoscese che dominano verso nord. Oltre alla produzione di olio extra vergine d’oliva e di vino, il Garda può vantare un’eccellenza gastronomica senza eguali: il Carpione. Appartenente - come la trota e il salmerino - alla famiglia dei Salmonidi, il Carpione è una specie autoctona ed endemica del lago di Garda. Vani sono stati infatti i tentativi di acclimatazione in altre acque, il Benaco è l’unico luogo in cui il Carpione è in grado di vivere e di riprodursi. Il basso e medio lago è il suo habitat ideale, qui il Carpione si nutre di plancton e di altri invertebrati presenti sul fondo lacustre. Il periodo di frega, ovvero di deposizione delle uova, avviene sia in inverno, tra dicembre e febbraio, sia in estate, tra luglio ed agosto. Le dimensioni raggiunte dal Carpione difficilmente su78

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perano i cinquanta centimetri di lunghezza e il chilo di peso. Ma per quale ragione il Carpione rappresenta oggi una scommessa per il territorio? Nel 2006 l’IUCN (Unione Mondiale per la Conservazione della Natura) ha inserito il Carpione nella lista rossa delle specie a forte rischio di estinzione. Se fino agli anni sessanta si poteva contare su una presenza consistente di Salmo carpio – i dati storici

Cos’ è la frega Durante un determinato periodo dell’anno, diverso da specie a specie, le femmine dei pesci si sfregano (da cui il nome dell’operazione) contro il ghiaietto del fondo o contro altri pesci in modo da far uscire le uova. I maschi le irrorano immediatamente di sperma. Dopo pochi giorni nascono i cosiddetti avannotti, ovvero i neonati, che cercano punti dove è più difficile che giungano i pesci predatori (spesso le acque bassissime sottoriva) per svilupparsi.


Carpione del Garda alla griglia

indicano un pescato annuo superiore a duecento quintali Slow Food ha istituito, con il supporto del Consorzio del – a ridosso del nuovo millennio la quantità di Carpione vino Lugana, il Presidio a tutela del Carpione del Lago di pescato è ben al di sotto dei cinquanta quintali annui. Le Garda. ragioni per cui questa specie è a rischio d’estinzione sono Dal punto di vista gastronomico il Carpione rappresenta rintracciabili principalmente: un’eccellenza di antica memoria. nell’abbassamento delle temperaPare che le sue carni fossero molto Il Carpione è stato considerato ture delle acque; nella competizioapprezzate già da Catullo, in epoca prima come specie vulnerabile ne con le altre specie alloctone inromana, e che la Repubblica di Vee successivamente come specie trodotte in passato nel Garda che nezia nel 1464 decise di protega forte rischio. La progressione si nutrono delle sue uova; infine in gerlo con un decreto perché consinegativa rischia di renderlo una derato un piatto d’onore servito una pratica della pesca che non ha tenuto conto dei lunghi tempi di nei banchetti ducali. Massimiliano specie estinta in natura. riproduzione di cui il Carpione ned’Asburgo, fratello dell’imperatore cessita. Francesco Giuseppe e futuro imperatore del Messico, pur Attualmente si sta facendo fronte a questa emergenza abitando sul mare vicino a Trieste (nel Castello di Miramasu più fronti. Le istituzioni locali e statali hanno messo a re), aveva una spiccata preferenza per questo pesce d’acdisposizione dei fondi per studiare metodi adeguati di in- qua dolce. cubazione e ripopolamento della specie, mentre nel 2012 In effetti è un pesce con un sapore di gran personalità,

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Salmo carpio

Riconosciamo il vero Carpione Purtroppo fare i furbi è un mestiere tipico di troppi Italiani e alcuni (solo alcuni, per fortuna) ristoratori del Garda non fanno eccezione e rifilano per Carpione una normale trota. Poco male se si tratta dell’eccellente trota di lago, altrettanto rara e preziosa, ma il più delle volte è una banale trota iridea di allevamento. Osservando la coda, a rondine nel Carpione, possiamo cogliere l’oste con le mani nel sacco.

Oncorhynchus mykiss

Salmo trutta trutta

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vagamente simile a quello del salmone ma più delicato e con un profumo fragrante; inoltre ha una consistenza particolarmente succosa e non è mai stopposo. Va servito in preparazioni semplici, che esaltino questa succosità, ovvero a vapore, alla griglia o al forno, con olio extra vergine d’oliva, poco sale e gli aromi essenziali, tuttalpiù un po’ d’aglio e rosmarino o erbe aromatiche, non spezie. C’è chi fa risalire proprio alla necessità di conservare il Carpione nel viaggio dal Garda a Venezia il nome assunto dall’omonima preparazione gastronomica. Si definiscono “in carpione” tutte quelle preparazioni prevalentemente a

base di pesce d’acqua dolce che, dopo essere stato infarinato, viene fritto e conservato in aceto di vino bianco (a volte diluito con vino) aromatizzato con cipolle e foglie di alloro. Troviamo preparazioni simili in altre parti d’Italia, in Veneto è chiamata anche “saor”, mentre al sud è conosciuta col nome di “scapece”. Resta tuttavia curioso e fortemente significativo lo slittamento semantico tra il Carpione-specie ittica e il carpione-preparazione gastronomica. n

Un curioso abbinamento di “carpioni”: il carpione del Garda marinata con le alborelle in carpione.

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In primo piano

Una polpetta fra i salami di Valeria Gatta - Master COMET

Sconosciuta al di fuori della zona pedemontana friulana, la Pitina stava scomparendo: grazie all’intuizione e alla buona volontà di alcuni produttori locali e all’impegno di alcune associazioni culturali, questo salume è sopravvissuto. Con un impasto simile a quello di un salame, la Pitina è una sorta di polpetta affumicata a base di carne di capra, pecora, camoscio o capriolo. Originaria della Val Tramontina e della Val Cellina, a Nord di Pordenone, è uno dei pochi salami non insaccati. Nacque dall’esigenza di conser-

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vare la carne nei mesi freddi in zone povere quando si uccideva un capriolo o un camoscio oppure si feriva una pecora o una capra. Le loro carni erano preziosissime ed era fondamentale non sprecare nulla. In origine la Pitina, infatti, era composta esclusivamente da carni ovine

o caprine e da selvaggina (camoscio e capriolo). Nelle zone di alta montagna era impossibile reperire budella per insaccare la carne e quindi questa forma a polpetta permetteva di sopperire alla loro mancanza. La preparazione non richiedeva particolari strumenti e perciò la Pitina veniva


La Val Cellina del Friuli Venezia Giulia

La sua casa La Val Tramontina, in friulano Cjanâl di Tramonç, è una vallata delle Prealpi Carniche in provincia di Pordenone. Al suo interno si trovano i comuni di Tramonti di sopra, Tramonti di sotto e Meduno. Il patrimonio naturalistico è di particolare bellezza. Meta ideale per gli appassionati di parapendio, escursionisti e ciclisti. La Val Cellina è una vallata del Friuli Venezia Giulia

percorsa dal torrente Cellina in provincia di Pordenone. La Valle è parzialmente ricompresa nel Parco naturale delle Dolomiti Friulane. Ricca di acque e di ambienti ideali per i rapaci, è un paradiso per i cultori degli sport estremi e per i naturalisti. n

Una veduta della Val Tramontina

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La Pitina, da prodotto di sussistenza a specialità per gourmet

prodotta anche in malghe lontane dai centri abitati. L’animale veniva disossato e la carne triturata nella pestadora (ceppo di legno incavato). Si aggiungevano sale, aglio e pepe nero spezzettato. Una volta che le “polpette” erano formate, venivano impanate nella farina di mais e lasciate affumicare sulla mensola del fogher (focolare), bruciando soprattutto legno di pino

mugo. Una volta affumicata la Pitina si conservava per molti mesi ed era fondamentale per l’alimentazione delle popolazioni locali. Col passare del tempo si formavano sulla superficie delle muffe bianche, segnale che il prodotto stava maturando correttamente. Al momento del consumo la Pitina veniva spazzolata per togliere le muffe e lavata con olio e aceto. Solo dopo averla asciugata,

veniva mangiata accompagnata da un bicchiere di vino: di solito le fette venivano scottate velocemente nel burro, servite su una polentina morbida e cosparse di un po’ di ricotta fusa. Oppure, piatto davvero unico e irripetibile lontano da qui, la Pitina veniva cotta con il cao, (la prima crema del latte appena munto). Col passare del tempo la carne tendeva ad asciugarsi molto e il salume risultava

Peta e Petuccia

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La Pitina cotta con il cao

abbastanza duro e veniva mangiato anche crudo.

La versione “moderna” Oggi alle carni si aggiunge lardo o capocollo di maiale che smorza il sapore intenso e un po’ selvatico o ercinico delle carni e rende la Pitina più morbida. L’affumicatura si realizza con diversi legni, talvolta mescolati fra loro, con una prevalenza di faggio.

Dopo un’affumicatura di 2 giorni e una stagionatura di almeno trenta/ quaranta, la Pitina può essere consumata anche cruda a fettine. Solitamente dopo la stagionatura viene messa sottovuoto e conservata in frigorifero. Il periodo di produzione va da settembre a giugno. Esistono due varianti della Pitina, la Petuccia e la Peta. La prima contiene diversi aromi di montagna nell’impa-

sto come finocchio selvatico e bacche di ginepro mentre la seconda si differenzia per le dimensioni in quanto può pesare anche un chilo. Si pensa che il nome Pitina faccia riferimento alla forma del salume che ricorda una piccola forma di formaggio, chiamata un tempo Peta. La Pitina fa parte dei PAT (Prodotti Agroalimentari Professionali). n

Gustiamola anche così

Cucinando con LA PITINA Pitina all’aceto Ingredienti 2 Pitine crostini di pane o polenta 1 spicchio di aglio 2 cucchiai di aceto balsamico (di mosto e senza caramello), meglio se il friulano Asperum burro e olio extra vergine d’oliva Tagliamo le Pitine in fette di mezzo centimetro, scaldiamo in una padella poco burro e rosoliamo le fettine da entrambi i lati fino ad arrossare la carne, quindi bagniamole con l’aceto balsamico e togliamo il tegame dal fuoco. Serviamo sui crostoni abbrustoliti con olio e aglio oppure sulla polenta abbrustolita. n

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Parliamone

#foodporn mania di Martina Mussi - Scienxe Gastronomiche

Uno degli hashtag più usati su instagram, il più usato fra i cosiddetti foodhashtag. Ma il #foodporn non è solo un tipo di tag utilizzato nei social network. È una vera e propria mania. Chi non è avvezzo alla terminologia della rete e non bazzica sui socials si starà chiedendo: cos’è il foodporn? Nonostante il nome, non si tratta di una tipologia di film a luci rosse ambientato in cucina e nemmeno di un gioco erotico a tema culinario. Il termine è stato coniato dagli internauti per descrivere la maniacale ossessione per la condivisione di foto di piatti e pietanze, che rasenta la stessa morbosità della pornografia: “la raffigurazione esplicita di soggetti erotici, eccitanti, un delirio estetico mirato a suscitare desiderio negli astanti.” In parole povere, il foodporn consiste nel fotografare cibo di ogni genere. La malattia è virale: chiunque abbia un profilo Instagram si sarà cimentato, almeno una volta, in questa disciplina. Ma la concorrenza è spietata, e la guerra al maggior numero di likes la può vincere solo chi si specializza: nascono così innumerevoli profili monote-

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matici, con un unico e solo tema, il cibo. Il foodporn è un fenomeno talmente diffuso che, nel tempo, si è categorizzato: c’è chi fotografa le proprie creazioni, dalle più semplici alle più elaborate; c’è chi immortala i piatti al ristorante o il vassoio del fastfood; cibi light e cibi ipercalorici, trend e mode alimentari, gusti personali e tradizioni famigliari. La parola d’ordine è una sola: condividere. Ovvero mostrare e mostrarsi. Non ci sono regole, nessuno pretende la rispondenza a uno standard. L’importante è sapere mettersi a nudo e far partecipi gli altri di ogni momento di piacere, se pur piccolo, che proviamo durante la giornata. Per avere tanti likes è importante che le foto siano ben illuminate, con un taglio ben studiato, con il brand ben visibile, se presente, e utilizzando un filtro che fa risaltare al meglio i colori, le luci e le ombre e che enfatizza (e altera) la nostra esperienza. n


Glossarietto per chi ha qualche annetto in più Like: dal verbo inglese “to like” (piacere). È un’opzione di vari social network, fra cui Facebook e Instagram, che permette all’utente di esprimere il proprio apprezzamento nei confronti di un contenuto (frase, foto, video, ecc.), semplicemente cliccando sull’icona predisposta o, nel caso di Instagram, facendo doppio click sull’immagine. È spesso tradotto in italiano con “mi piace”. Hashtag: gli hashtag sono un tipo di tag utilizzato in alcuni social network per creare delle etichette. Essi sono formati da parole (o combinazioni di parole concatenate) inserite nei commenti precedute dal simbolo #(cancelletto). La parola deriva dall’inglese hash (cancelletto) e tag (etichetta). La loro popolarità però è legata alla loro introduzione su Twitter, come caratteristica per contrassegnare parole chiave. (omissis) Essi sono utilizzati principalmente come strumenti per permettere agli utenti del web di trovare più facilmente un messaggio collegato a un argomento e partecipare alla discussione, ma anche per incoraggiare a partecipare alla discussione su un argomento indicandolo come interessante. Sostanzialmente, sono dei collegamenti ipertestuali che fungono da etichette. (da Wikipedia, l’enciclopedia libera)

re filtri, e condividerle su numerosi servizi di social network, compreso Facebook. (omissis) Instagram, in omaggio alle Polaroid, presenta le fotografie in forma quadrata. (omissis) L’8 settembre 2013, Instagram raggiunge i 150 milioni di utenti attivi ogni mese. (da Wikipedia, l’eciclopedia libera) Post: è un messaggio testuale (oggi il termine si è allargato anche a immagini e video, nda), con funzione di opinione o commento, inviato in uno spazio comune su Internet per essere pubblicato. (omissis) L’azione del lasciare (o affiggere) un messaggio in italiano spesso è espressa con

il neologismo postare, ma molti usano più semplicemente il termine “pubblicare”, che rende ugualmente l’idea e appare più conforme alla lingua italiana. L’etimologia della parola deriva dall’inglese “to post” ovvero spedire, inviare. (da Wikipedia, l’enciclopedia libera) Tag: un tag (cioè etichetta, marcatore, identificatore) è una parola chiave o un termine associato a un’informazione (un’immagine, una mappa geografica, un post, un video clip ...), che descrive l’oggetto rendendo possibile la classificazione e la ricerca di informazioni basata su parole chiave. n

Instagram: è un’applicazione gratuita che permette agli utenti di scattare foto, applica

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La nostra storia

Negli Appennini, non tanto tempo fa... di Cosetta Vandelli - Scienze Gastronomiche

... la vita era scandita dagli alberi, dai campi, dal cielo, si viveva in tanti, tutti insieme, per bisogno e per amore, poche cose davano sostentamento e gioia... cose che oggi sono svago, ma pure uno sprone per stare ancora insieme. Tutto inizia intorno a un fuoco, sempre acceso, simbolo di alimentazione e vita, mai solo, un paiolo di rame nel quale cuoce sempre qualcosa, scalda l’acqua o tiene semplicemente bassa la fiamma. La cucina, cuore della casa, era sempre animata, gli odori che ne scaturivano sapevano svelare i cibi ma anche le stagioni e l’ora del pasto, un ambiente vissuto in vera convivialità con tutta la famiglia e la porta sempre aperta a tutti. Nonostante una situazione di penuria, fatta di pochi lezzi e tanta povertà, la maggioranza delle famiglie erano molto numerose, riunite sotto lo stesso tetto e attorno a un medesimo tavolo, dal nonno all’ultimo nipotino, è questa la prima immagine che Gaetano Patarozzi , indietreggiando fino all’infanzia, ci riporta della sua e di tante altre case sull’Appennino modenese dove è nato e vive. «Gli anni che seguirono la fine della guerra non furono esenti da difficoltà e per i successivi quindici anni il tempo sembrò essersi fermato, in particolare per le zone appenniniche e rurali. L’economia di una famiglia di montagna era un’economia autarchica, prevalentemente agricola, nella quale le materie prime dovevano essere ottenuti in azienda e i prodotti dovevano essere consumati all’interno della stessa. Tutti contribuivano ai lavori di casa, ogni cosa veniva recuperata e riutilizzata; supponiamo che qualcuno coltivasse la canapa per ottenere i filati per il telaio, dagli scarti dei fusti, macerati e sfibrati, ricavava dei piccoli bacchetti che una volta raccolti in una mannella (mazzo) si intingevano nello zolfo liquido così da ottenere i zuifanin fiammiferi utilizzati per accendere il fuoco. Le case iniziarono ad avere le tubazioni per l’acqua, ma era preziosa e non si doveva sprecare.» Gaetano dice che lui e suoi fratelli, nella stagione invernale, facevano il bagno una volta alla settimana, di solito il sabato o la domenica prima di andare alla Santa Messa: ad uno ad uno dentro una tinozza, unico pezzo ovale scavato dentro il tronco di un castagno, davanti al camino con il sapone fatto con gli scarti del maiale, non profumato e che durava una vita. 88

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Gaetano Patarozzi


Gruppo familiare ai tempi in cui l’essiccazione delle castagne impegnava tutti i componenti

Anche la gestione del fuoco aveva le sue regole, mai legna accatastata ma disposta sempre diritta e alla sera si doveva andare a letto presto per non consumarne troppa, ecco perché nascevano tanti bambini! Le braci venivano riparate con un coperchio di lamiera per evitare che il gatto, in cerca di caldo, si bruciasse la coda o ancor peggio bruciasse la casa, ma anche con l’intento di trovare qualche tizzone ancora acceso il mattino seguente. «Nonostante il cibo fosse soprattutto un mezzo di sostentamento – prosegue Gaetano - quei sapori e quegli aromi tornano alla memoria come manicaretti di eccellente gradevolezza. Regina indiscussa di tutta la casa era la rezdora, che portava avanti i lavori e cucinava per tutti e non sedeva mai a tavola, indispensabile divulgatrice di saperi e instancabile lavoratrice ma anche brontolona molto temuta.» È proprio dal cibo che bisogna partire per addentrarci nella scoperta culturale di un popolo e le pratiche alimentari raccontano tutto del posto in cui vengono attuate. Il pane si faceva una volta alla settimana e, nonostante nel borgo ognuno avesse il suo forno, ci si accordava su un giorno e, per risparmiare stecchi si utilizzava tutti lo stesso forno: a casa di Gaetano si faceva il venerdì, poi veniva riposto nella panera, insieme ai salami, e custodito dalla golosità dei bambini con un grosso ceppo di legno sul coperchio.

L’albero del pane

«A San Martino, undici di novembre, le giornate sono stranamente calde e i vecchi dicono che è “l’estate di San Martino che dura un giorno e un pochino”, a pensarci oggi – così il nostro amico, non nascondendo tanta nostalgia, prosegue il suo racconto - mi ricordo una cucina invasa da caldarroste, da castagne bollite, da torte di castagne, da mele selvatiche, le Campanine che da verdi diventavano rossastre se stese al sole dopo la raccolta, dolci e buone senza pesticidi e veleni, da pere volpine cotte insieme alle castagne nel paiolo appeso al camino; poi noci, nocciole selvatiche di piccole dimensioni ma tanto saporite... Eravamo tutti molto gelosi del nostro castagneto per cui ognuno raccoglieva nel proprio: il castagno era ritenuto l’albero del pane, tanto che le castagne bollite erano chiamate “tortellini matti”, buone ma nulla a che vedere con i veri tortellini. Fortunatamente nelle nostre zone quasi tutti possedevano un pezzetto di castagneto e quindi tutti mangiavano castagne, la raccolta iniziava verso metà ottobre e durava circa quindici giorni. L’accesso alle selve altrui era vietato da statuti rurali (come risulta depositato in numerosi archivi di stato di Lucca e non solo, n.d.r.), erano giorni di duro lavoro , ma anche momento di ritrovo per adulti e ragazzi. La castagnata era considerata uno degli avvenimenti più importanti della vita agricola, si partiva al mattino quando era ancora buio, in silenzio per non farsi sentire e poter eventualmente beccare i ladri, e si

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Sebbene esteriormente possano essere diversissimi tra loro i metati hanno tutti la stessa impostazione interna come mostrato dal disegno qui a lato. continuava fino a che non faceva buio di nuovo. Diverse le varietà di frutto, le più preziose sono i Marroni, più chiari e grossi ma rari, ottime per la farina la qualità Pastinese, meno gradite le selvatiche rosse di solito lasciate alle bestie. A fine raccolta si lasciava splighè, detto anche ruspo, cioè si permetteva a chi non possedeva un castagneto di passare a prendere ciò che rimaneva a terra, come si faceva peraltro anche per la raccolta del frumento e del granoturco. Le castagne venivano portate nell’essiccatoio, un piccolo casupolo posto nel castagneto o vicino alle abitazioni, chiamato metato, il quale aveva il fuoco sotto e delle graticole (cannicci) sopra disposte a formare due piani sepa-

di una presenza continua e sapiente, se la temperatura era (ed è) troppo alta la farina sarà scadente e le castagne si dicevano muiane. L’essicazione era (ed è) completata quando battendo una castagna contro l’altra si sbucciano bene e così si può procedere con la giovatura (sbucciatura). Il recipiente dove venivano riposte, una volta pulite, era chiamato vassora, che con l’aiuto della corrente d’aria e rivoltandole le vassorava, cioè toglieva la fuliggine. Alla sera, in compagnia di tutto il borgo, si mondavano, cioè si sceglievano le più belle per la vendita, le restanti per la farina e le più brutte per il bestiame.»

Che fatica pigiare con i piedi!

rati, dove venivano stese le castagne a essiccare. Il fuoco veniva tenuto acceso giorno e notte, necessitando quindi 90

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«Il 17 gennaio, giorno di San Antonio, veniva il sacerdote – prosegue Gaetano cambiando argomento - a benedire gli animali, la stalla veniva ripulita in modo straordinario e le bestie erano ornate da un bel fiocco rosso, si preparava un sacchetto con del sale che, una volta benedetto, veniva messo nelle mangiatoie. La stalla era molto vicina alle abi-


tazioni e gli animali, inclusi quelli da cortile, facevano parte della famiglia, a volte alla sera si stava nella stalla fino a che ci si vedeva (non c’era la luce nella stalla) per fare quattro chiacchiere, rigorosamente in dialetto, con i vicini, al caldo in compagnia del bestiame». Un altro momento di sana aggregazione era la vendemmia, univa ancora una volta tutta la famiglia, in un rituale antico con un fascino tutto particolare e misterioso che pochi altri riti legati al raccolto possono vantare. La vigna catturava l’attenzione del contadino per l’intero anno, quindi massima attenzione per non perdere tanto lavoro: potatura con luna favorevole cioè calante, quando favorisce lo sviluppo radicale, gli innesti invece con luna nuova. Ed è sempre la luna che influenza imbottigliamento e travaso, portando un segno magico in cantina. A protezione della vite c’erano e ancora oggi ci sono, una o più piante di rose, che manifestano per prime l’attacco del parassita e danno l’allarme: «che ci siano o non ci siano – aggiunge Gaetano - riscontri scientifici del valore di questo accorgimento, il fatto di vedere delle rose belle e sane a inizio filari o ai bordi del vigneto rende tutti più sollevati». «La pigiatura – prosegue - al contrario di ciò che si vede nei film non era compito di donne e bambini, ma era affidata agli uomini perché molto faticosa, si pigiava per ore in grandi tini da 15/20 quintali, per arrivare esausti a fine lavoro. Ci voleva poi una settimana per riavere i piedi bianchi! La sera della festa della vendemmia si beveva il vino ciocco accompagnato da pancetta fritta e si cantava; anche ai bambini si lasciava bere questa bevanda dal mosto non ancora trasformato in alcool, ma quasi sempre finiva a mal di pancia e dissenteria».

Il mosto, poi, lasciato riposare, iniziava a scaldarsi per opera della fermentazione. «Una volta ottenuto del buon vino guai a dimenticarsi di omaggiarne il sacerdote e qualche volta anche il campanaro! Si usava così e non era “conveniente” dimenticarlo». I grappoli d’uva più belli venivano appesi e fatti appassire per essere consumati a volte fino a Natale: i bambini si illudevamo di mangiare delle caramelle. E l’olio di oliva? «Dalle nostre parti – spiega Gaetano era veramente raro e rimpiazzato dallo strutto per friggere e dal burro per condire». Gaetano ricorda, però, un olio di noce ma dal sapore cattivissimo. «Il noce, in effetti, è un albero strano, le fragole che ci crescono all’ombra risultano amare, nessuna pianta riesce a sopravvivergli sotto, alla sua ombra non si può nemmeno dormire perché viene l’emicrania...»

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Il cibo più semplice, il più amato Tra i cibi più apprezzati senz’altro le crescentine occupano il podio più alto, da studi fatti dal notaio Amato Cortelloni pare siano nate esattamente nel 1522 anno di costruzione del Ponte di Olina, manufatto molto importante per la viabilità dell’Appennino commissionato dal Governo Estense ai Maestri Comacini, famosi per le strutture in sasso. Pare che questi maestri, costretti a fermarsi nel luogo di Olina per parecchio tempo, sentissero il desiderio di scaldare il proprio pane e, per mancanza di pietra refrattaria naturale sulle nostre montagne, si inventarono un impasto di terra castagnina (di bosco di castagno) e polvere di preda (pietre ricche di carbonato di calcio) che potesse tenere il calore come una vera pietra refrattaria tanto da poter cuocere le crescentine. Nascono così le tigelle, formelle di terracotta del dia-

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metro di 10-12 cm, spesso decorate con la Rosa Comacina a sei petali, un arcaico simbolo di buon auspicio. L’impasto era semplicissimo: farina, acqua e sale, senza lievito. Dopo aver formato un impasto bello duro, lo si mette nella panera a lievitare, successivamente si formano delle palline della grandezza di un mandarino e si schiacciano con il palmo della mano, infine si tirano con il canela (mattarello) formando un disco alto un centimetro circa. Per la cottura, una volta scaldate per bene le tigelle, si alternano una tigella e una crescentina fino a formare una torre, avendo cura di mettere tra la pasta della crescentina e la tigella una foglia di castagno, meglio se Pastinese perché conferisce delle note dolci molto gradevoli. Le foglie potevano essere anche di noce o olmo e, per poterle utilizzare fuori stagione, si raccoglievano in mazzi da settembre in poi e si mettevano a essiccare; al bisogno


si bagnavano con acqua calda per reidratarle. La funzione della foglia è di trasmettere il calore alla crescentina impedendo che la pasta si bruci, impendendo pure la formazione della crosta superficiale e conferendo sentori di bosco. Tornando alla nostra pila davanti al camino, quando inizia a pendere (fa la torre di Pisa) si tolgono le crescentine e si ripassano nella tigella una seconda volta senza la foglia; alla fine un ultimo passaggio nella cenere. La crescentina risulta perfetta quando a fine cottura non ha mollica all’interno La castratura (apertura) della crescentina è rigorosa: si avvolge in un canovaccio, si crea un taglio orizzontale di pochi cm giusto lo spazio per introdurre la forchetta con una leggera quantità di cunza e si schiaccia. La cunza è un battuto di lardo, pancetta, aglio e rosmarino. Lasciando riposare qualche minuto, il lardo si scioglie manifestando

tutti i suoi profumi. E non basta, con un cucchiaio si aggiunge una spolverata di Parmigiano, sempre all’interno. Le crescentine vengono condite una alla volta e riposte sotto il canovaccio, solo a fine lavoro si possono mangiare. Questo cibo ha accompagnato per svariati anni la colazione del contadino, quando gli uomini della famiglia si recavano nei campi di buon ora per i lavori stagionali. Le donne restavano a casa a preparare le crescentine e Gaetano ricorda quando raggiungeva suo padre nei campi con un cavagn (cesto) con le crescentine avvolte in un ampio tovagliolo che le teneva ben calde. Naturalmente non doveva mai mancare un buon fiasco di vinello, ovvero la bevanda ottenuta ripassando acqua sulle vinacce (il vino vero era per il dì di festa o veniva venduto). Doveva dare vigore, ma non ubriacare, perché il lavoro doveva continuare: erano solo le sette del mattino. n

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Parliamone

La rivoluzione silenziosa IL POLITICAL CONSUMERISM di Nivardo Suriano - Master Comet

In una società fondata sul consumo, acquistare in modo consapevole e critico è un atto di resistenza, così sono sempre di più i cittadini che hanno scelto una maniera costruttiva e utile per l’ambiente come forma di ribellione. Cosa sono il buycotting e il boycotting? L’attuale società postmoderna, definita dal sociologo polacco Zygmunt Bauman come “società dell’incertezza” o “modernità liquida” e dal politologo britannico Anthony Giddens “età globale”, caratterizzata appunto dall’incertezza, dalla perdita di senso, da una sfiducia nei movimenti culturali degli anni Sessanta e Settanta, risulta essere apparentemente distaccata e disinteressata alla partecipazione politica. È probabile che i nuovi movimenti sociali, a causa del cambiamento del contesto (globalizzazione,

processi decisionali sovranazionali, modernizzazione dei sistemi di comunicazione), delle global issues (tematiche globali), del target a cui sono rivolti (Fondo Monetario Internazionale, World Trade Organisation, multinazionali..), risultino impercettibili, in quanto differenti da quelli tradizionali. Il cittadino postmoderno tende a utilizzare il mercato come luogo in cui porre problemi politici, etici e ambientali (political consumerism), indirizzando il suo acquisto verso prodotti che rispettino una certa valenza etica

e boicottandone altri responsabili di politiche di sfruttamento, inquinamento, junk food (cibo spazzatura) ecc.. Questa nuova forma di attivismo politico, non istituzionalizzata, di ordine sparso, disorganizzata, poco strutturata, personale, quotidiana ma con fini collettivi, sfugge alle organizzazioni legate ai modelli di partecipazione, di inclusione nella comunità politica, di mobilitazioni manovrate attraverso il gioco più o meno democratico della rappresentanza politica, diventando quasi impercettibile. Il political consu-

DAL BOTTEGAIO ALLO SPOT Per molto tempo i prodotti agricoli sono stati destinati alla sola sussistenza degli agricoltori, fino al Quattordicesimo secolo la maggioranza degli italiani viveva e svolgeva la propria attività lavorativa in campagna. Con lo sviluppo della civiltà industriale prima e di quella postindustriale poi, si è verificata una drastica riduzione numerica degli addetti al settore primario che, insieme all’esodo verso le città, ha portato a un profondo cambiamento del rapporto fra cibo, zona di produzione e collocamento dei consumatori. Fino a qualche decennio fa esisteva un rapporto fiduciario tra i negozianti e i clienti che si concretizzava soprattutto nella vendita di 94

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prodotti sfusi come pasta, vino, olio, spezie, conserve eccetera. Rapporto che s’incentrava chiaramente sulla fiducia che il consumatore riponeva nel negoziante (distributore), in pratica il suo consulente per gli acquisti, riguardo la qualità e la regolarità della merce. La fase successiva alla distribuzione di prodotti sfusi è stata, quindi, quella dominata dalla grande industria alimentare di trasformazione la quale, attraverso una pubblicità ossessiva, è riuscita a imporre i propri prodotti ai consumatori finali, costringendo il dettagliante a fornirsi di merce richiesta dai clienti. n


LE OFFERTE, UN’ARMA A DOPPIO TAGLIO... Attualmente il baricentro della commercializzazione degli alimenti è passato dalla grande industria di trasformazione alla Gdo, la quale, attraverso queste strutture di grosse superfici con facilità di parcheggio, dove è possibile acquistare di tutto e a prezzi contenuti (grazie alla grande forza contrattuale rispetto ai fornitori) o apparentemente contenuti, ha segnato la fine di molti negozi di vicinato e anche di molti piccoli produttori. In questo è stata aiutata da politiche urbanistiche alienanti e asociali e da una grande forza di lobbie che ha consentito una concorrenza sleale di assai dubbia legalità senza un vantaggio per il consumatore: i sottocosto e simili manovre, infatti, sono specchietti per le allodole che portano, di fatto, a consumi eccedenti il bisogno e ad altri acquisti inutili. Ora quest’arma sta rivoltandosi contro chi l’ha lungamente utilizzata: l’avanzamento della crisi, che ha portato molte famiglie al limite della sussistenza, ha condotto molti consumatori a comprare solo prodotti in promomerism (consumerismo politico) si realizza attraverso due tipologie di azioni il buycotting e il boycotting.

Cosa comprare e cosa non comprare Il buycotting è un atteggiamento positivo verso determinate categorie di prodotti selezionati in modo etico, consapevole e alternativo: al loro acquisto viene attribuita una funzione politica. Ecco quindi la scelta a favore dei prodotti da agricoltura biologica o biodinamica, senza additivi chimici, che rispettino l’ambiente o che abbiano un valore sociale, in modo da sostenere i produttori virtuosi. Semplice boicottaggio da non acquisto Il boycotting, invece, è un atteggiamento negativo, ovvero di rifiuto, perché si limita a privare di risorse, attraverso il non acquisto, determinati attori economici, per esempio boicottando i prodotti delle multinazionali, prodotti e marchi accusati di sfruttamento del lavoro minorile, prodotti di paesi in conflitto con minoranze etniche eccetera. A tal proposito nel 2013 un gruppo di giovani programmatori americani ha realizzato un’applicazione per smartphone (buycott), la quale, attraverso la lettura del codice a barre, riesce a fornire in-

zione e nei limiti dei propri bisogni senza comprar nulla o quasi di ciò che è venduto a prezzo normale. Questa scelta, che per i più è dettata dal bisogno, diventa per i consumatori particolarmente impegnati un’altra forma, più subdola, di boycotting: al supermercato selezionano solo i prodotti con forti ribassi destinando tutti gli altri acquisti ai mercatini di quartiere o contadini. Ciò è possibile anche per chi pretende roba buona e sana perché di solito anche tra i sottocosto c’è qualcosa (poco) di buona qualità. In tal modo il consumatore impegnato in questa rivoluzione silenziosa è convinto che con simili modalità di spesa non favorisce la struttura in cui acquista. Tale forma di consumo, sicuramente politica, danneggia senza dubbio le multinazionali della Gdo, provocando però, allo stesso tempo, un danno economico anche ai produttori dei prodotti in offerta, i quali, a causa della loro scarsa forza contrattuale, in occasione di forti ribassi sono i soggetti che perdono la maggior parte dei margini di guadagno. n

formazioni sull’origine, le caratteristiche del prodotto, il produttore, il rispetto per i lavoratori e l’ambiente e tutte le criticità etiche a esso legate, consentendo al consumatore di decidere in base ai propri principi etici se acquistarlo o meno. Queste azioni politiche diventano particolarmente interessanti quando si attuano nel mercato agroalimentare, evidentemente il primo sia per origine che per importanza. Secondo Terry Marsden (professore di Politica Ambientale e Pianificazione presso l’Università di Cardiff) il futuro dell’agroalimentare dipenderà dallo sviluppo della coscienza sociale e politica dei consumatori, i quali possono, attraverso le loro scelte, influenzare il sistema produttivo e imporre comportamenti, obblighi e norme che regolano i processi. Negli ultimi anni, per esempio, abbiamo assistito a un grande interesse da parte dei consumatori verso i prodotti biologici, al punto da spingere quasi tutte le aziende della Gdo a fornirsi di una linea di produzione biologica. Quasi una coproduzione... Questo risultato, pur non essendo, ai fini economici, ambientali e di equità sociale, di grandissima rilevanza, è significativo per le potenzialità che i consumatori hanno

rispetto alle scelte produttive delle aziende. Attualmente la gran parte delle azioni politiche dei consumatori converge verso reti agroalimentari alternative, i cosiddetti Alternative agri-food networks (AAFNs). Questi sono fondati sul rifiuto della produttività spinta, della standardizzazione dei prodotti, dell’uso della chimica, della destagionalizzazione e sul ritorno a un’interazione con i produttori attraverso l’acquisto diretto nelle aziende, nei mercatini, presso le fiere e via dicendo. Questi sistemi di commercializzazione consentono ai consumatori di avere un rapporto diretto con i produttori, favorendo la coesione sociale, il senso di fiducia e reciprocità (assenti nella moderna distribuzione), la condivisione delle tradizioni gastronomiche e culturali, lo scambio d’informazioni e, soprattutto, consentono di potersi sentire partecipi alla produzione (o coproduzione) influenzando le scelte produttive degli agricoltori e degli artigiani alimentari. È auspicabile, pertanto, che tali forme di commercializzazione possano sempre più consolidarsi e ingegnarsi per rendere maggiormente semplici questi scambi e determinare un vantaggio per i piccoli produttori, i consumatori e l’ambiente. n

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Itinerari del gusto

Antiche leccornie a Manduria di Martina Marrella - Scienze Gastronomiche

In Puglia, nella città del vino Primitivo, ogni anno nei primi giorni di marzo si svolge l’antica Fiera Pessima, un’occasione per ritrovare, tra le tante specialità regionali, quelle che le nonne facevano (e qualcuna ancora fa) per i nipotini. Ma perché “pessima”? Il nome poco invitante non inganni: la fiera della seconda settimana di marzo a Manduria non a caso è un evento che si ripete da ben 274 anni consecutivi. Qui troviamo produzioni agroalimentari e d’artigianato, prodotti per il tempo libero e l’offerta di numerosi servizi, tanto che nel corso degli anni ha assunto il carattere di fiera campionaria regionale risultando la seconda per importanza dopo la Fiera del Levante e attirando così visitatori ed espositori da tutte le regioni centro meridionali. Le sue origini risalgono ai tempi della regina Giovanna II di Napoli, la quale, prevedendo una guerra imminente, fece appello ai suoi sudditi per soccorsi e aiuti; Manduria non era che un piccolo casale che contava una sessantina di abitanti ma, alle ri-

Taralli dolci glassati

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chieste della regina, corrispose con più delle sue forze, cedendo le rendite percepite dalle saline. La regina, grata degli sforzi fatti dai sudditi, li autorizzò con un decreto a tener una

nome della fiera al periodo poco favorevole per visitarla... e, ironizzando, anche ai probabili mancati guadagni degli espositori per colpa del maltempo.

Ma i dolcetti valgono una bagnata

fiera per quindici giorni e il mercato tutte le domeniche. La fiera ebbe uno sviluppo rapido e acquisì presto importanza tanto da oscurare quelle di Lecce e Ostuni che si svolgevano nello stesso periodo; questo successo, però, portò i Comuni danneggiati a segnalarlo al re di Napoli il quale, con un altro decreto, la ridusse a quattro giorni, dal 9 al 12 marzo, date giunte immutate fino ai giorni nostri. Il guaio è che le paure della regina si avverarono tanto che in quel periodo diversi casali furono incendiati e, subito dopo la guerra, scoppiò la peste che si protrasse fino a settembre. Per scongiurare la tragedia, i Manduriani pregarono S.Gregorio affinché li proteggesse dal minaccioso spopolamento e pare che proprio da questi nefasti eventi la mostra-mercato abbia preso il nome Fiera Pessima. In tempi più recenti, nei giorni in cui si svolge quest’evento si verificano spesso condizioni atmosferiche avverse, tanto che c’è chi accosta il

I golosi e i nostalgici dei sapori e delle consistenze di un tempo non si spaventano certo per un po’ d’acqua e sfidano il marzo pazzerello pur di trovare, tra le tante prelibatezze locali e non, quei prodotti poco diffusi altrove ma che vale sicuramente la pena di assaggiare o ritrovare. L’esposizione varia dai formaggi locali alle numerose conserve sottolio o in salamoia, dalla scapece (pesciolini marinati allo zafferano) alle più svariate verdure essiccate, dai vini della zona alla pasta fresca di semola di grano duro, dalle friselle ai tarallini caserecci per arrivare soprattutto a una vasta presentazione dei classici pasticcini e dolci caratteristici che rievocano spesso le origini della Fiera. I dolci antichi sono

Fichi secchi mandorlati


Fichi secchi al cioccolato

molto diversi tra di loro ma hanno tutti origine da ingredienti semplici e spesso poveri; tra questi: la cupeta, una sorta di croccante con le mandorle locali; biscotti particolarmente cioccolatosi e molto speziati chiamati mustazzoli; i fichi cucchiati, fichi secchi con dentro la mandorla tostata, i semi di finocchio selvatico e la buccia del limone grattugiato, in alcuni casi anche intinti nel cioccolato; i taralli zuccherati, ricoperti da una glassa spesso bianca ma a volte anche colorata; le mandorle ricce simili a dei confetti ma con l’esterno che appare ruvido e ricco d’increspature; i tarallini dolci al vino, bocconcini particolarmente aromatici e friabili; per finire la cotognata ovvero la marmellata di mele cotogne dalla consistenza gelatinosa a cui vengono date forme diverse, la più comune è quella romboidale. n

Cotognata

La cupeta ingredienti: 300 g di mandorle sbucciate e tostate 350 g di zucchero 1 cucchiaino di succo di limone 2 cucchiai di acqua Mettiamo in una casseruola lo zucchero, il limone e l’acqua, scaldiamo a fiamma bassa finché non avrà un colore biondo, poi aggiungiamo le mandorle e mescoliamo il tutto a fuoco spento; versiamo immediatamente su un piano di marmo o in una teglia ricoperta con carta forno e bagnata leggermente con il succo del limone. Livelliamo la superficie e tagliamo il croccante a pezzetti o in fasce lunghe e sottili quando è ancora caldo e non ha ancora assunto una consistenza vetrosa.

Cupeta di mandorle

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Mustazzoli

Tarallini dolci al vino

Mustazzoli

ingredienti: 1 kg di farina 00 200 g di strutto 200 g di olio extra vergine d’oliva 8 cucchiai di zucchero semolato 3 cucchiaini di baking 1 pizzico di sale Vino bianco

Ingredienti: per i biscotti: 1 kg di farina 00 250 g di zucchero semolato 100 g di olio extra vergine d’oliva leggermente scaldato 4 uova 70 g di cacao amaro 1 cucchiaino di cannella in polvere 1 cucchiaino di chiodi di garofano in polvere 20 g di ammoniaca per dolci (bicarbonato di ammonio) La buccia grattugiata di un limone per la glassa: 800 g di zucchero a velo 6 albumi 75 g di cacao amaro Il succo di un limone

Impastiamo tutti gl’ingredienti (tranne metà dello zucchero) aggiungendo vino fino a ottenere un impasto omogeneo ma non troppo morbido, comunque abbastanza elastico da poterne ricavare dei tarallini. Rotoliamoli nello zucchero rimasto e cuociamoli in forno a 180° C per una ventina di minuti o non appena cominceranno a dorarsi.

Tarallini dolci al vino

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Diluiamo l’ammoniaca in poco latte tiepido in una tazza grande perché tende a fremere e schiumare. Mescoliamo tutti gli ingredienti dei biscotti fino a ottenere un impasto morbido e omogeneo. Ricaviamone delle palline delle dimensioni di una noce e poi appiattiamole con il palmo della mano ottenendo così dei dolcetti tondi ma dallo spessore di circa un centimetro. Allineiamoli in una teglia e inforniamoli a 180° C per circa un quarto d’ora o finché il fondo dei biscotti non risulterà dorato. Intanto montiamo gli albumi e aggiungiamo a mano a mano il succo del limone, lo zucchero e il cacao fino a ottenere una bella glassa dalla consistenza densa e spumosa. Una volta raffreddati i biscotti, ricopriamoli con la glassa e lasciamoli asciugare all’aria. n


“La nostra storia, il nostro impegno sono garanzia di qualità...” “Amiamo la Bassa e siamo fieri di essere uomini del Po” Massimo e Luciano Spigaroli “La nostra storia, il nostro impegno sono garanzia di qualità...” “Amiamo la Bassa e siamo fieri di essere uomini del Po” Massimo e Luciano Spigaroli

“La nostra storia, il nostro impegno sono garanzia di qualità...” “Amiamo la Bassa e siamo fieri di essere uomini del Po” Massimo e Luciano Spigaroli

POLESINE PARMENSE

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Itinerari del gusto

Nasce il museo della pasta di Martina Mussi - Scienze Gastronomiche

Il cibo è cultura, a Parma ce la raccontano nel circuito dei Musei del Cibo: quello dedicato alla pasta, nato quest'anno, ci racconta una storia che non è affatto scontata. Nella Corte medievale di Giarola, a Collecchio in provincia di Parma, sabato 10 maggio 2014 è stato inaugurato il museo della pasta. Si inserisce nel circuito dei Musei del Cibo, dopo quello del Parmigiano Reggiano a Soragna, del prosciutto a Langhirano, del salame a Felino e del pomodoro nella stessa corte. Il cerchio si è chiuso con l'ultimo nato, il Museo del vino, a Sala Baganza, aperto sabato 17 maggio all'interno della Rocca.

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Un museo dedicato alla pasta era il sogno di Pietro Barilla: il magnate della pasta aveva iniziato a raccogliere cimeli già negli anni Settanta, attingendo dalla collezione di macchinari Guatelli. Questi pezzi di storia dell'agroalimentare si possono trovare oggi all'interno del museo e raccontano come la produzione primaria sia il ponte che unisce la terra alla produzione industriale, che trovò proprio a Parma, nell'industria Baril-

la, la massima espressione.

Tra storia, cultura e gastronomia Non è automatico e neppure scontato associare Parma alla pasta. Il primo collegamento che viene in mente è piuttosto quello con il sud Italia, la Campania, la spaghettata di "Miseria e nobiltà" di Totò o la celeberrima scena di Sordi in "Un americano a Roma." Ma, nonostante ciò, è a Parma che si compendiano i marchi in-


dustriali d'identificazione dell'italianità, pensiamo alle grandi aziende di pasta e pomodoro. A spiegare la "biografia" della protagonista è il professore Massimo Montanari, illustre medievalista dell'Università di Bologna nonché maggiore esperto italiano in storia e cultura dell'alimentazione. La storia della pasta ha radici molto ampie. In tempo greco-romano, come ci spiega il professore, non era considerato un genere alimentare autonomo ma bensì un ingrediente che entrava nella preparazione di altre pietanze. Non possiamo parlare di "cultura della pasta" fino all'inizio del medioevo, che ne sancisce la nascita come prodotto a se stante. Sì, certo, la pasta già si consumava, ma da qui in poi cambia il modo di "pensarla". Il modello culturale che si inizia a diffondere proviene dal Medio Oriente, in particolare dalla tradizione araba e ebraica che prevedeva il consumo di pasta secca. Tramite il contatto con questi popoli si diffondono in Italia nuovi modelli e nuovi formati, grazie soprattutto alla lunga conservabilità che deriva dall'essiccazione. Grazie alle sue caratteristiche reologiche (struttura, consistenza...), la pasta secca ha infatti, sin da subito, una chiara vocazione commerciale e industriale, permettendone la produzione in grandi quantità e il commercio anche a lunga distanza.

Parallelamente alla diffusione, si sviluppano nuove forme: dal modello largo e piatto, a quelle in miniatura e ai formati lunghi. A partire dal 1400,

grazie a Maestro Martino da Como (cuoco autore del Libro de Arte coquinaria, pietra miliare della storia della gastronomia), la pasta entra ufficial-

mente nel mondo dei ricettari.

Da edonismo a sopravvivenza Solo verso la metà del 1600 la pasta diventa un genere di sussistenza, mentre prima si poteva trovare più che altro nella cucina signorile. La necessità era quella di trovare un cibo pratico ma nutriente per nutrire il popolo. La pasta diventa così la base della nutrizione delle popolazioni urbane, in primo luogo a Napoli. Con l'unità d'Italia il modello meridionale si diffonde poi anche al nord. "L'Artusi" del 1891 è il primo ricettario che propone il piatto di pasta come componente del menù quotidiano e uno dei primi a proporre pomodoro come condimento. L'unità d'Italia è difficile su molti fronti: lingua e gastronomia differenti si incontrano e si scontrano, per poi trovare punti d'incontro: la pasta gioca un ruolo fondamentale in questo processo formativo, facendo da punto di congiunzione fra identità e culture che erano state accomunate politicamente ma che, di fatto, presentavano sostanziali differenze. In rapporto all'emigrazione del primo Novecento si diffonde in tutto il mondo il concetto di Italiani “mangia-maccheroni”. Ed è questo pregiudizio che spinge Marinetti nel 1930 a chiedere l'abolizione della pasta, "assurda religione gastronomica italiana", come se il processo fosse invertibile.

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Montanari ci ricorda, raccontandoci del legame fra pasta e italianità, come sia impossibile definire un'identità gastronomica in modo univoco o costante nel tempo, perché l'identità è una realtà che si costruisce nel tempo è una categoria instabile, dinamica, in evoluzione continua. "L'identità non è nel passato, come molti sono portati erroneamente a credere. L'identità è adesso."

Pasta si o pasta no? Negli ultimi decenni si è assistito a una sempre più crescente demonizzazione della pasta, ritenuta un alimento nocivo per la linea. Il professore Furio Brighenti, prorettore e docente di nutrizione umana dell'Università di Parma, ci aiuta a sfatare i miti delle diete iperproteiche anti-pasta molto in voga negli ultimi tempi. Come tutti sanno, la pasta ha un elevato contenuto di glucidi, sotto forma di amido (circa 80%), e un contenuto proteico del 10% circa. 100 g di pasta apportano 350 kcal, esclusi i condimenti. L'indice glicemico è medio elevato. Da questi dati nutrizionali si evince che la pasta non è un alimento particolarmente adatto a una persona con uno stile di vita sedenta102

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rio. Tuttavia, in un contesto di dieta equilibrata e di moderata attività fisica, la pasta non solo è permessa, ma consigliata, al fine di apportare all'organismo tutti i macro-nutrienti necessari al suo funzionamento, compresi i carboidrati, il "carburante" del nostro corpo. La pasta è un elemento sostanziale e insostituibile nella vita della maggior parte del popolo italiano. La nostra cultura, il nostro modo di mangiare e la nostra caratterizzazione all'estero passano anche attraverso

questa mutevole e indefinibile pietanza. All'interno del museo, il viaggio dalla terra alla tavola passa attraverso gli attrezzi e gli strumenti, le opere d'arte, i ricettari, le storie. Troviamo le macchine per lavorare la terra, un intero mulino antico ricostruito in loco, centinaia di piccoli arnesi casalinghi come le rotelle e le trafile, manifesti pubblicitari e tanto altro. Per chi capita da quelle parti è sicuramente una tappa obbligatoria se si vuole "gustare" un po' della nostra storia. n



Ricette e dintorni

Non il solito raviolo... di Miriam Ardigò - Scienze Gastronomiche

Il Marubino cremonese, la pasta ripiena di Cremona che va cotta nei “tre brodi”, non solo è buona ma porta pure bene: saperlo apprezzare ha salvato la vita a un imperatore e a un antipapa! Ma qual’è la ricetta autentica? Se è storia o leggenda non si sa, ma uno dei tanti ravioli che sono vanto della nostra cucina, il Marubino di Cremona, avrebbe contribuito a cambiare il corso della storia salvando la pelle a uno degli imperatori che più fu incisivo sugli eventi futuri d’Italia e d’Europa: Sigismondo di Lussemburgo, quello del Concilio di Costanza (1414-1418) per risolvere lo scisma d’Occidente, lo stesso che propiziò l’ascesa dei Savoia dando loro il titolo di Duca. Avvenne, infatti, che costui fu ospite, insieme all’antipapa Giovanni XXIII, di un tal Cabrino Fondulo, signorotto dell’epoca divenuto Vicario Imperiale dopo aver comprato il titolo nobiliare dall’ Imperatore Sigismondo. Fondulo, assetato di potere, invitò i due personaggi proprio per ucciderli gettandoli dal Torrazzo. La tradizione vuole che proprio durante questo banchetto Fondulo abbia fatto servire i famosi Marubini di S.Omobono, piatto che tradizionalmente riveste 104

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molta importanza proprio nella festa del patrono, Omobono appunto. Quando il piatto fu servito, venne accompagnato da innumerevoli complimenti da parte dell’antipapa e dell’Imperatore, a tal punto che Sigismondo di Lussemburgo uso l’espressione “il sole è giunto in tavola!”, collegando i marubini proprio ai rubini, la pietra del sole. Cabrino Fondulo si emozionò per i giudizi espressi dai due “ospiti”, tanto che non compì più l’omicidio. La voce del colpo incompiuto girò molto in fretta per Cremona e oltre, così i nostri Marubini, grazie alla scampata morte dei due malcapitati, si guadagnarono la fama di piatto propiziatorio e simbolo di fortuna.

Una ricetta contestata Questo piatto di pasta ripiena ha un forte rilievo nel panorama gastronomico cremonese ma si è dovuto combattere molto per avere un’identità riconosciuta a livello nazionale.

Uno dei temi messo più in discussione è il ripieno. Già in una pubblicazione dell’editore Salani del 1896, dove per la prima volta compare il termine “marubini”, viene riportata la ricetta dei “Marubini alla cremonese”, che oltre al nome ha ben poco di cremonese: infatti il ripieno è costituito da pangrattato, Parmigiano grattugiato, midollo di manzo, tuorlo d’uovo, un poco di brodo, prezzemolo tritato e spezie, mentre possono essere cotti nel brodo oppure serviti asciutti conditi con ragù di carne. Purtroppo questa ricetta arriverà fino al 1966, quando anche nel famoso “Il Carnacina” del noto cuoco e Luigi Veronelli, nelle ricette di cucina rustica regionale compare ancora la versione errata. Bisognerà aspettare “Il Codice della Pasta” di Vincenzo Buonassisi del 1973 per incontrare la versione corretta di questo piatto, anche se negli anni successivi riscontriamo comunque una gran confusione tra le diverse versioni. n


MARUBINI CREMONESI AI TRE BRODI (ricetta ufficiale) Ingredienti per 6 persone Per i “tre brodi”: carcassa di gallina o cappone carne di manzo con osso salame da pentola sedano carota cipolla Per la pasta: 480 g di semola di grano duro 120 g di farina di grano tenero 6 uova

Marubini cremonesi ai tre brodi

Per il ripieno: 500 g di carne bovina magra 300 g di carne di vitello anteriore 300 g di lonza di maiale 300 g di Grana Padano 3 uova intere Salvia, rosmarino o altri odori a piacere Olio extra vergine d’oliva o burro Sale, pepe e noce moscata Prepariamo il brodo il giorno prima con tutti gli ingredienti messi sul fuoco con abbondante acqua fredda e lasciando cuocere per tre ore a fuoco basso e con pentola coperta. Filtriamolo e facciamolo raffreddare, poi, quando il grasso si addensa in superficie, eliminiamolo col mestolo forato. Cuociamo le carni al forno con eventuali odori, sale, pepe, olio o burro: iniziamo a calore vivace per fermare i succhi, poi abbassiamo la temperatura e portiamo a cottura bagnando di tanto in tanto con un po’ di brodo. Ci vorranno una quarantina di minuti. Passiamo al tritacarne le carni, uniamo il grana grattugiato, le uova, la noce moscata, sale e pepe; amalgamiamo fino a ottenere un composto omogeneo. Mettiamo sulla spianatoia la farina a mo’ di fontana, rompiamo nel mezzo le uova e impastiamo aggiungendo, se serve, un poco d’acqua tiepida. Lavoriamo la pasta energicamente per almeno 15 minuti; lasciamo riposare per una decina di minuti. Stendiamo in sfoglia sottile l’impasto; con il ripieno formiamo delle palline della grandezza di una castagna e posizioniamole su metà sfoglia. Sovrapponiamo l’altra sfoglia, chiudiamo intorno al ripieno e tagliamo i marubini con un tagliapasta a forma circolare con contorni seghettati del diametro di circa 3 cm. Cuociamo i marubini nel “tre brodi” precedentemente aggiustato di sale per 5 o 6 minuti. n

Cabrino Fondulo

Il Torrazzo di Cremona

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ECOTROPHELIA aperta la porta ai giovani imprenditori. a cura della redazione

Secondo posto assoluto della squadra del Dipartimento di Scienze degli Alimenti dell’università di Parma al concorso per l’innovazione sostenibile nell’agroalimentare: la premiazione è avvenuta al Cibus. Una grande emozione, già in queste prime tre parole si riassume l’esperienza vissuta dai quattro studenti dell’Università degli Studi di Parma che hanno partecipato a Ecotrophelia, concorso indetto da Federalimentare, la cui finale si è tenuta il 7 maggio 2014 presso CIBUS a Parma. Una grande emozione che ha coinvolto il tatto, il gusto, l’olfatto, la vista e l’udito non solo dei partecipanti ma pure di giuria e pubblico, che hanno potuto constatare quanto l’inventiva, la genialità e l’amore per il mondo dell’agroalimentare sia vivo anche nelle nuove generazioni, con un occhio attento e vigile all’ecologia, alla lotta allo spreco e alle tematiche in ambito dell’ecosostenibilità che sempre più prepotentemente si fanno strada nel panorama europeo. Infatti in questo concorso l’innovazione è strettamente legata a queste emergenze emerse nel sentire comune del terzo millennio e i lavori candidati hanno proposto nuovi alimenti partendo da prodotti che usualmente

vengono scartati oppure non sono usati per questo scopo. La presentazione dei prodotti è stata molto curata, accompagnata dalla frizzante atmosfera generale respirata durante questo evento, che di anno in anno stupisce e coinvolge numerosi atenei, studenti, appassionati e curiosi. Entusiasti dell’iniziativa, i partecipanti hanno lavorato sodo, a partire dall’intuizione fino alla realizzazione del prodotto, e hanno apprezzato l’opportunità di avvicinarsi concretamente al mondo del lavoro e dell’industria alimentare. Il concorso affonda le sue radici nella valorizzazione di nuove idee e nella promozione dell’imprenditorialità giovanile coinvolgendo centinaia di ragazzi che hanno voluto valorizzare l’energia creativa tipica di questa fase della vita. Ecotrophelia nasce nel 2000 con l’intento di favorire l’eco-innovazione nei prodotti agroalimentari con un’attenzione del tutto particolare alla so-

stenibilità e al rispetto ambientale e promuovendo la competitività nel settore alimentare. Il concorso è destinato a gruppi di studenti universitari e mira a creare un collegamento concreto tra l’Università e il mondo dell’imprenditoria, incentivando la cooperazione tra studenti, docenti, ricercatori e aziende, tramite l’attuazione di nuove idee per creare i prodotti alimentari ecosostenibili di domani. La particolarità di Ecotrophelia è l’effettiva adozione dei progetti più innovativi e interessanti per nuovi prodotti, che vengono messi in produzione nelle aziende alimentari europee: ad oggi sono già 35 quelli selezionati a Ecotrophelia che vengono commercializzati in vari paesi dell’Unione Europea. Nell’ottica del miglioramento per le prossime edizioni alcuni protagonisti del concorso suggeriscono di valutare e considerare che non tutti gli studenti operanti nel settore hanno già nel proprio bagaglio di studi le competenze commerciali e di marketing

Qualche numero... 6°

edizione italiana organizzata autonomamente da Federalimentare 22 squadre italiane partecipanti 17 prodotti italiani presentati 45 competizioni nazionali ECOTROPHELIA 3 concorsi Europei ECOTROPHELIA Più di 180 università coinvolte Circa 800 studenti partecipanti 12 paesi partecipanti a 106

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ECOTROPHELIA EUROPA 2011 paesi partecipanti a ECOTROPHELIA EUROPA 2012 18 paesi partecipanti a ECOTROPHELIA EUROPA 2013 Più di 35 prodotti commercializzati sul mercato europeo Più di 1000 aziende interessate ai nuovi prodotti 700 articoli sulla stampa e on-line e diverse partecipazioni radio e TV 15


Squadra Ecociliegility - Università degli Studi di Parma (da sinistra: Milani Giulia, Salafia Clarissa, Corte Roberto, Zinno Giorgio Maria).

strategico per realizzare il Business Plan dettagliato richiesto dal regolamento del concorso stesso. Entrambi i progetti presentati dalle due squadre finaliste - selezionate tra altre sette – sono stati ritenuti particolarmente brillanti: gli ABCheese, il team della facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Perugia, hanno proposto “Natur’ al TOP”, una glassa gastronomica la cui

particolarità consiste nell’utilizzo come ingrediente di base della scotta fermentata, un prodotto derivante dalla lavorazione della ricotta, normalmente non reimpiegato nell’ambito dell’alimentazione umana e il cui smaltimento può risultare economicamente oneroso. Il prodotto presentato dagli Ecociliegility, team del Dipartimento di Scienze degli Alimenti dell’Università

degli Studi di Parma, come il simpatico appellativo del gruppo fa intuire reimpiega invece le “mandorle” (ovvero i semi), contenute nei noccioli di ciliegia come ingrediente del ripieno dei “CiocKernel”, golosi cioccolatini presentati in una scatola elegante ed ecologica. Due intuizioni per uno stesso prodotto: anche la scatola, infatti, rispetta e addirittura supera gli standard dell’ecologia e del riciclo, es-

Il “CiocKernel”: cioccolato fondente con il 55% di cacao Valrhona è farcito con un ripieno (50% in peso del cioccolatino) di burro di cacao, pralinato di mandorle dolci (quelle vere) e nocciole, farina di “mandorle” di ciliegia.

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La premiazione della squadra della nostra università.

sendo composta dai materiali di scarto dei birrifici, ovvero dalle trebbie. «Inoltre - come ci racconta Giorgio Maria Zinno, portavoce della squadra - vi è la possibilità di sfruttare anche i gusci dei nocciolini delle ciliegie nella produzione di biomassa, mentre la tecnologia one-shot, da noi scelta, diminuisce le fasi di colaggio, pertanto anche i costi energetici dovuti ai raffreddamenti». Tra le due agguerrite squadre che si

sono contese la vittoria, l’hanno spuntata gli ABCheese non solo grazie all’originalità del prodotto, idoneo alla partecipazione a Ecotrophelia Europa, ma soprattutto grazie al costo di produzione dell’elemento base della glassa e al prezzo finale di vendita. Goloso anche il premio: la squadra vincente si è aggiudicata un cachet di 3.000 euro e l’ancor più interessante possibilità di presentare il prodotto al Salon International de l’Agroalimen-

taire (SIAL) di Parigi, che si terrà il 1920 ottobre 2014, in vista della finale europea di Ecotrophelia. I complimenti per la piacevolezza del gusto vanno alla squadra degli Ecociliegility, per un prodotto evergreen come il cioccolatino, una finezza che non passa mai di moda!

Per approfondire: www.ecotrophelia.org

Foto di gruppo alla conclusione del concorso con gli studenti delle due squadre, i professori e la giuria: il primo a sinistra in piedi è il prof. Franco Antoniazzi che ha guidato la squadra della nostra Università.

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Progetto Food Campus Food Campus è un luogo di sperimentazione e realizzazione, incui il saper fare diventa essenziale elemento della formazione “on the job”. Ciò che caratterizza Food Campus è la valorizzazione del lavoro di squadra, in cui il tutor esperto guida lo sviluppp o ratico dei prodotti, finalizzato all’innovazione richiaesd t al mercato. Al termine del Food Campus, il partecipante avrà appreso operativamente le applicazioni di alcuni processi produttivi, avrà compreso con qauli logiche lavora un'azienda ed avrà acquisito quell’esperienza richiesta dal mercato del lavoro, ma soprattutto avrà compreso l' intero ciclo: dall’ideazione del prodotto alla sua realizzazione. Food Campus è ideato e promosso da CAST Alimenti, uno dei più importanti centri italiani di formazione e specializzazione nell’ambito delle discipline alimentari. CAST Alimenti da oltre 20 anni forma i futuri professionisti nelle discipline di pasticceria, cucina-gastronomia, panificazione, gelateria, ecc. Food Campus si avvale inoltre della supporto tecnico e metodologico del prof. Franco Antoniazzi, docente dell’Università di Parma.

Food Campus si struttura nella frequenza, a moduli di singole giornate, sui seguenti temi: • • •

I fondamentali: prodotto/processo/impianti Analisi del mercato: prodotti innovativi e di rifreimento Preparazione prototipi

Le tecnologie/prodotti previste sono le seguenti: • 30/1/2015 - Preparazione della birra (1 giornata) • 6/2/2015 - Pani, focacce e pizze (1 giornata) • 13/2/2015 - Cioccolatini anche con ripieni liquiid(1 giornata) • 20/2/2015 - Caramelle, torrone e croccante (1 gironata) • 27/2/2015 - Preparazione della birra (2 giornata) Orari: 9.00-13.00; 14.00-17.00 circa Ciascun modulo/giornata viene proposta al prezzo di € 120,00 a persona( 240,00 € per la Birra .) Per coloro che intendano frequentare l’intero percorso di 6 giornate il costo è di € 600,00. Il prezzo si intende Iva inclusa e comprende materiale didattico e colazione di lavoro e attestato di partecipazione.

Per informazioni e iscrizioni contattare CAST Alimenti allo 030 2350076


Parliamone

Papa Francesco:

il rispetto dell’ambiente è rispetto della vita umana di Maria Elisa Zuppiroli – Master Comet

Jorge Mario Bergoglio non ha scelto a caso il nome del Santo di Assisi: lo dimostra la sua costante presa di posizione per uno sviluppo sostenibile già manifestata durante la Giornata Mondiale dell’Ambiente del 2013. Le Nazioni Unite organizzano la Giornata Mondiale dell’Ambiente il 5 giugno di ogni anno: il tema proposto nel 2013 era “Think – Eat Save” (“pensa – mangia – risparmia”), con lo scopo di sensibilizzare sulla riduzione dello scarto alimentare, sul risparmio e sulla riduzione dell’impatto ambientale nel processo produttivo del cibo. Nell’udienza che ha tenuto in quella occasione, Papa Francesco si è collegato a questi temi prettamente ecologici per denunciare l’allontanamento dell’uomo dalla natura e dal creato, affidato da Dio all’uomo per la sua cura e custodia. Il creato è però anche l’uomo, pertanto l’allontanamento da esso ha una valenza di tipo sociale: il discorso di

Papa Francesco è stato una fortissima denuncia sulla mancanza di etica nella società e nelle scelte quotidiane

che privilegiano il consumismo alla cura degli altri, dei poveri e bisognosi, dando sempre più spazio a una cultura dello scarto di tipo sociale. Tutto il suo discorso si è incentrato sulla presenza di due mondi ormai paralleli che non comunicano tra loro: Sud contro Nord dell’emisfero, il mondo dei poveri in contrapposizione alla società abbiente che ha perso il valore della persona, la custodia e la cura del creato contro lo sfruttamento e l’incuria di ciò che è stato donato, la generosità contro il dominio e il possesso, le necessità e i bisogni primari contro capitali e tecnologie usati in maniera non eticamente corretta. L’espressione “sviluppo sostenibile” non è stata mai citata ma ogni parola del Papa

LA GIORNATA MONDIALE DELL’AMBIENTE DELLE NAZIONI UNITE La Giornata Mondiale dell’Ambiente (World Environment Day, WED) è una iniziativa delle Nazioni Unite, nata nel 1973, con lo scopo di sensibilizzare sulle problematiche principali relative alla salvaguardia dell’ambiente. Si tiene ogni anno il 5 giugno, viene ospitato da un Paese diverso e ad esso viene attribuito un tema specifico: tra i tanti temi trattati, la desertificazione, l’acqua, i cambiamenti climatici, lo sviluppo sostenibile, le città verdi ecc. Nel 2013 il WED è stato dedicato al tema del cibo (“Eat – Think – Save”): 110

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partendo dal dato che ogni anno vengono sprecati 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, le Nazioni Unite hanno posto l’accento sul persistente disequilibrio nella sua distribuzione a livello mondiale e sulla scarsa conoscenza del relativo impatto ambientale. La WED 2014 (con lo slogan “Raise your voice, not the sea level”) è stata dedicata alla vulnerabilità e ai rischi cui sono soggette le piccole isole a causa dei cambiamenti climatici. Per maggiori informazioni: www.unep.org/wed/ n


COS’È LO SVILUPPO SOSTENIBILE La definizione universalmente accettata di “sviluppo sostenibile” è quella del Rapporto Brundtland (“Our Common future” del 1987) della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo: per sviluppo sostenibile si intende “uno sviluppo che risponde alle esigenze del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie”. Vuole essere quindi uno sviluppo in cui le tre componenti principali (ambiente, economia e sociale) vengono integrate tra loro e riequilibrate in modo tale da non compromettere le risorse per le generazioni future. Il Rapporto Brundtland segnala anche

riportava a questo tema così importante che ritorna come unico modello per una convivenza possibile con l’ambiente. Tutti e tre i pilastri dello sviluppo sostenibile (ambientale, economico, sociale) sono stati toccati ma è stato naturalmente il tema sociale quello prevalente e trattato in maniera così forte in Papa Francesco: la vita umana è un valore primario da rispettare e tutelare.

Lo spreco del cibo è un furto Il Papa collega quindi la cultura dello “scarto-persona” allo “scarto-cibo”: lo “scarto persona” è l’abbandono dei bisognosi, dei poveri, degli anziani e dei nascituri, diventati nel mondo di oggi dei soggetti/oggetti privi di valore, deprivati del rispetto e della dignità umana. È una mancanza

come un fattore molto importante per uno sviluppo sostenibile un uso attivo della democrazia, con la partecipazione effettiva dei cittadini nei processi decisionali, concetto che sarà alla base di “Agenda 21”, altro documento approvato dalle Nazioni Unite durante il Summit su Ambiente e Sviluppo di Rio de Janeiro 1992. Pertanto lo sviluppo sostenibile può essere idealmente identificato come la intersezione tra quattro diverse componenti: sostenibilità economica, sociale, ambientale e istituzionale. n

di rispetto della vita che si riflette anche sul cibo: lo spreco e la distruzione del cibo non sono ammissibili. Lo “scarto-cibo” è e deve essere un furto agli occhi del credente. Nell’udienza, Papa Francesco ha ricordato anche l’episodio della moltiplicazione dei pani: già qui si parla di evitare lo spreco (“Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi avanzati: dodici ceste”) ma si parla anche di equa distribuzione del cibo rimasto. Esso viene infatti simbolicamente distribuito tra le 12 tribù di Israele: è una condivisione alla base di una società solidale, che non lascia indietro nessuno e che attribuisce il giusto valore alle cose e all’uomo. La Giornata mondiale dell’Ambiente è un evento mondiale a cui la Chiesa Romana ha sempre dato il proprio

supporto. Sia Papa Giovanni II sia Papa Benedetto XVI hanno dato rilievo all’iniziativa affrontando più volte il tema della cura del creato e sottolineando il legame tra l’ecologia umana e ambientale. Papa Francesco, come appunto dimostra il nome che ha scelto, ne ha fatto un caposaldo del suo messaggio pastorale e lo ha confermato il suo discorso breve ma di grande impatto e di forte denuncia sull’etica dei nostri giorni, che necessita di più letture per comprenderne appieno la portata. Ogni lettura ne amplifica il messaggio e crea nuovi collegamenti che fanno comprendere come tutto sia interconnesso - l’ambiente, la solidarietà, la vita - e come uno sviluppo equo e sostenibile sia possibile solo con l’intervento umano. n

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In primo piano

L’eccellenza dello scarto di Nivardo Suriano - Master Comet

Se il “progresso” ha portato all’attuale crisi economica, energetica e alimentare, quindi al “regresso”, sarebbe saggio guardare al passato e recuperare alcune pratiche positive dei nostri avi per evitare gli sprechi alimentari: la Pezzente di Lucania è un significativo esempio. L’unica regione italiana a doppia denominazione – Basilicata e Lucania – è poco conosciuta e poco popolata, ma, proprio grazie al suo mancato sviluppo industriale e urbano, è riuscita a conservare un territorio vergine, tradizioni ancestrali e una gastronomia autentica. Anticamente denominata Lucania, dal latino Lucus, terra dei boschi, questa regione risultava già in età pre-romanica particolarmente adatta all’allevamento suinicolo, soprattutto lungo la dorsale appenninica, grazie alla presenza di querceti, castagneti, faggete e pioppeti. Probabilmente furono proprio gli abitanti di questa regione gli artefici di uno dei sistemi di conservazione più geniali della storia, conservare la carne di maiale nelle budella dello stesso animale. Non è un caso che in diverse località italiane ed estere si utilizzino termini derivati dal nome Lucania

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per identificare una tipologia di insaccato di carne suina, di piccole dimensioni: luganega, luganiga, luganica nell’Italia settentrionale, loukaniko in Grecia, longaniza in Spagna (in questo caso venne aggiunta la “n” da longus), lukanka in Bulgaria. Diverse sono anche le fonti storiche che attribuiscono ai Lucani la diffusione di questo prodotto, da Cicerone e Marziale, i quali nei loro scritti testimoniano che la lucanica venne introdotta a Roma dalle schiave lucane, a Varrone che la descrisse come: “…una carne tritata, speziata, insaccata in un budello, così chiamata perché i nostri soldati hanno appreso il modo di prepararla dai Lucani”. Altra antichissima fonte storica è il ricettario di Timachida di Rodi (I-II sec. a.C.), nel quale al famoso loukaniko o loukanika viene attribuita un’origine greca, anche se è riconosciuto che furono i Lucani deportati in


NON C’È PEZZENTERIA SENZA DIFETTI!! Nun c’è pzzentarij senza rfett!: è un proverbio lucano, diffuso anche in Calabria. La saggezza popolare sintetizza con questa massima un concetto di grandissima attualità, ovvero che non può esistere povertà senza difetti. L’eccessivo consumismo, gli enormi scarti alimentari, la produzione intensiva rappre-

sentano alcuni difetti dell’attuale società che ci stanno inevitabilmente trasportando verso una crisi alimentare senza precedenti. La Pezzente rappresenta uno dei prodotti gastronomici tradizionali che valorizza parte degli attuali scarti alimentari convertendoli in una gustosa risorsa. n

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Grecia da Alessandro I d’Epiro durante la battaglia del 323 re durante la notte prima di essere insaccati a mano in a.C., a trasmettere questa preziosa eccellenza culinaria al budelli naturali. La salsiccia Pezzente così preparata venipopolo greco. va appesa per l’asciugatura, generalmente su pertiche di La capacità dei Lucani di trasformare ogni necessità in legno, e lasciata asciugare vicino al focolare. Durante la virtù ha permesso la nascifase di asciugatura veniva ta di un altro prodotto, consumata sia alla brace sia meno noto e meno pregiabollita insieme alle verduto rispetto alla famosa lucare, invece stagionata (15-30 nica, ma che, seguendo lo giorni) veniva conservata stesso sistema di conservasotto sugna (strutto) e Oltre alla bollitura insieme alle verdure, questo insaccazione, consente di nobilitamantenuta in ambiente re le parti meno pregiate to si presta benissimo alla cottura sotto la cenere (avvol- fresco per essere poi mandel maiale, si tratta della to in carta d’alluminio) e nella preparazione di un primo giata cruda. Questo prodotPezzente detta anche piatto tipico del carnevale potentino: gli strascinati con to è riuscito a sopravvivere “l’inciampo” – I strascnat cu’N’truoppk. Nnugghia o Nnuglia. al “progresso” solo grazie Un sugo di pomodoro dove “l’inciampo” è rappresenall’importanza culturale tato appunto dalla Pezzente, servita nascosta tra gli Con quel che resta che ha rivestito all’interno delle famiglie contadine luQuesto particolare pro- strascinati (pasta fatta a mano) e la salsa di pomodoro. cane. Queste hanno contidotto è una delle dimostranuato ad autoprodurre i zioni che “del maiale non si salumi perpetuando il rito butta via niente”. arcaico dell’uccisione del Dopo aver realizzato promaiale per il consumo fasciutti, guanciale, lucanimiliare. Nel corso dei secoche, soppressate, pancette li, pur avendo raggiunto e quanto di più buono quemaggiori possibilità econosto animale possa offrire, miche, i contadini hanno con i resti meno nobili delle continuato a produrre lavorazioni, quindi organi quella che per molti anni interni (fegato, polmoni..), era stato l’unico insaccato grasso di scarto delle altre accessibile per le loro menlavorazioni, stomaco, nerse: la Pezzente. vetti, parti della gola invase Oggi il ritorno alla gastrodal sangue, cotenna (prenomia tradizionale e la vocedentemente bollita) e addirittura pezzi di budello, veniva realizzata la salsiccia glia di recuperare prodotti e sapori quasi estinti, ha spinto pezzente, l’insaccato dei poveri. Tutti queste parti veniva- alcuni salumifici lucani ad avviare una piccola produzione no sminuzzate a punta di coltello e condite con peperone artigianale di questa eccellenza culinaria, fortificato dall’idolce di Senise, o peperone piccante, ridotto in polvere, scrizione di questo prodotto nell’elenco regionale dei PAT aglio fresco tritato, sale e, a seconda della zona di produ- (Prodotti Agroalimentari Tradizionali) e dal presidio Slow food Pezzente della Montagna Materana. zione, finocchio selvatico, coriandolo o pepe. La carne e la concia amalgamati manualmente, mediann te un massaggio energico a pugni chiusi, dovevano riposa-

LA PEZZENTE IN CUCINA

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“Parma nel cuore del gusto” tutela la qualità dei prodotti di Parma e garantisce autenticità e unicità ad ogni esperienza nella nostra città.

Qualità, genuinità, cordialità e, naturalmente, esclusività dei prodotti:

duecento operatori aderenti al club rispettano questi valori e li arricchiscono con le loro personalità per garantire un’esperienza profonda e immersiva nell’enogastronomia parmense, un estratto del migliore Made in Italy.


Itinerari del gusto

La Bassa golosa pedalando di Davide Pagani – Master Comet

Il cicloturismo gastronomico sta imponendosi tra i gourmet che amano guardarsi intorno e conoscere da vicino, senza inquinarlo con fumi e rumori, l’ambiente naturale e culturale da cui hanno avuto origine il prodotto e il piatto tipico... E che amano tenersi in forma. Parma-Busseto, a separarli sono circa quaranta chilometri e, in mezzo, quella fetta di “Bassa parmense” che sta tra il fiume Taro e il torrente Ongina che marca il confine politico con la provincia di Piacenza. Questa terra ha ispirato Giovannino Guareschi nel 1946 per creare le storie di Don Camillo e il “compagno” Peppone; è la terra che ha dato i natali al Maestro Giuseppe Verdi; è la terra dal quale hanno avuto origine le nostre eccellenze gastronomiche più conosciute a livello internazionale, tanto da richiamare ogni anno migliaia di turisti. Stiamo parlando del Parmigiano Reggiano e dei salumi che per secoli sono stati degli espedienti della società rurale per combattere la fame e allontanarla il più possibile, prolungando la durata delle materie prime dalle quali provengono: il latte e la carne di maiale. Sono prodotti che richiedono una 116

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lunga e lenta stagionatura che rispecchia il lento scorrere delle stagioni: lunghi mesi estivi afosi che si alternano a lunghi mesi dalle nebbie ghiacciate. Oppure del pane che li accompagna, anch’esso figlio di una materia prima locale, il frumento, e di microrganismi tanto più bravi nel loro mestiere quanto più si rispettano i tempi dei loro cicli vitali. Quale miglior modo per scoprire un territorio se non in bicicletta? La bicicletta è il mezzo di trasporto ideale che coniuga la mobilità sostenibile, nel pieno rispetto dell’ambiente, con la possibilità di vivere il territorio e di conoscerlo, osservando ciò che scorre attorno. Dà la possibilità di raggiungere direttamente i luoghi di produzione dei prodotti tipici del territorio e capire, quindi, perchè hanno quelle determinate caratteristiche che li rendono unici e non riproduci-

bili da un’altra parte. Non si è rinchiusi in una scatola di acciaio, isolati da tutto e tutti: il corpo sente il calore del sole, il soffio del vento o la pioggia che bagna. Si è un tutt’uno con il territorio circostante.

Da Parma al Parmigiano di Fontevivo Partendo dalla centralissima piazza Garibaldi di Parma, seguiamo la lunga pista ciclabile che porta fino alla Via Emilia, che di poetico ormai non ha più nulla e che dobbiamo percorrere il più veloce possibile per abbandonare questa strada trafficata, circondata da capannoni, aziende, benzinai e che non può regalarci di certo emozioni. Uno dei tratti più brutti è l’attraversamento del Ponte sul Taro. Maria Luigia (duchessa di Parma dopo il congresso di Vienna), quando decise di costruirlo nel 1816, non poteva sapere che prima o poi qualcuno avreb-


Il taglio della punta di Parmigiano

Vista della Rocca di Fontanellato dall’esterno

be inventato la bicicletta e che questa avrebbe avuto bisogno di un percorso alternativo rispetto alle auto (magari una bella pista ciclabile) per attraversare il fiume parmense: il ponte è molto stretto, con un alto traffico veicolare anche di mezzi pesanti. Dopo dieci chilometri dal centro di Parma abbandoniamo la via Emilia e svoltiamo verso Nord, verso il Po, e dopo pochi minuti finalmente iniziamo a pedalare lungo le tipiche stradine della Bassa circondate da campi di cereali, di pomodori e di mais con poche case sparse lungo la strada. In località Bellena, frazione del comune di Fontevivo, oltre alla chiesa del 1700 e a quattro case si troviamo, attivo qui dalla fine dell’800, il Caseificio Nigroni. Danilo fa parte della quarta genera-

Davide Pagani

zione della famiglia Nigroni che produce ogni mattina Parmigiano Reggiano. È un piccolo “casello” a gestione familiare che prepara 36-38 forme al giorno, a seconda della stagione. Il loro latte viene raccolto da 18 stalle provenienti solo dal comprensorio stabilito dal disciplinare. Mentre parliamo con lui passiamo accanto ad una ex-porcilaia. Un tempo ogni caseificio aveva il suo allevamento di maiali che venivano nutriti con il siero che avanzava dopo l’estrazione della cagliata, conferendo alla carne un sapore e una consistenza unici. Oggi, il siero cotto (che ha ancora dei macronutrienti) non viene più utilizzato come mangime ma viene mandato ad aziende specializzate che lo disidratato e lo utilizzano come eccipiente per i farmaci, aggiunto al latte in polvere,

o come coadiuvante negli alimenti. Questo è il controsenso dell’attuale sistema: spedire un prodotto a centinai/migliaia di chilometri di distanza quando lo si potrebbe utilizzare “sotto casa”. Ci confida Danilo che gli piacerebbe molto che questa tradizione casearia possa continuare ed essere portata avanti anche dai suoi figli preservando il lavoro artigianale che gli permette di ottenere forme di Parmigiano con una pasta più morbida, fine, ormai difficile da trovare. Ed ecco il primo acquisto: nel suo punto vendita Danilo ci taglia una piccola punta di Parmigiano di 24 mesi che noi, con cura e attenzione, mettiamo nella borsa da viaggio della bicicletta. Tra i 22 e i 28 mesi il Parmigiano Reggiano ha raggiunto l’età ottimale per essere degustato ed esprime al naso e al palato una ricchezza di odori e aromi in perfetto equilibrio e armonia.

Dalla buona acqua di Fontanellato a Soragna Continuando a percorrere la strada arriviamo a Fontanellato. Qui ci fermiamo per bere da una delle tante fontanelle tipiche di questa zona, all’interno delle mura del centro storico. Il nome del paese deriva infatti dall’antico toponimo “Fontana Lata” che richiama la ricchezza d’acqua e la particolarità delle risorgive che caratterizzano l’alta e la bassa pianura padana. Ne approfittiamo anche per visitare la principale attrazione del pae

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se: la Rocca, costruita nel 1124 per volere dei Pallavicino per poi diventare proprietà dei Sanvitale. Quando ci fermiamo davanti notiamo subito il grande fossato colmo d’acqua che la circonda, con quattro torri agli angoli. Gli ambienti del piano nobile mantengono inalterato il loro fascino da più di cinque secoli. Sempre dentro la Rocca possiamo ammirare i primi affreschi di Francesco Mazzola, detto il Parmigianino, ma anche due grandi nature morte di Felice Boselli che colorano le pareti della sala da pranzo. Felice Boselli fu pittore di corte della famiglia dei Sanvitale tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo: un curioso personaggio che firmava le opere con un gatto, data l’assonanza del suo nome con la parola latina di gatto (Felix). Nella sala da pranzo possiamo osservare due grandi nature morte “di magro” con pesci che occupano per intero le pareti, mentre nella sala da biliardo ce ne sono altre due che 118

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sono i pranzi “di grasso” con carne rossa, pollame e selvaggina. Queste nature morte erano il biglietto da visita del padrone della Rocca verso i suoi ospiti per poter sfoggiare l’abbondanza, la ricchezza e l’opulenza della sua casata.

seo del Parmigiano Reggiano, uno dei sei Musei del Cibo sparsi per il territorio parmense, che sorge all’ombra dei giardini della Rocca dentro un antico caseificio ottocentesco di forma circolare.

Dal Museo del Parmigiano alla mostra di Guareschi Uscendo dalla Rocca si prosegue in direzione Soragna, percorrendo la Strada Provinciale 11 che collega Busseto a Parma e che dovremo seguire da qui in avanti. Sono sette i chilometri da percorrere prima di superare il torrente Stirone ed entrare nel piccolo centro abitato di Soragna che ospita anch’esso una Rocca che appartiene tutt’ora alla casata dei Meli Lupi, abitata dal principe Diofebo, discendente dell’antica famiglia nobiliare. L’attrazione principale, però, rimane, per gli appassionati di gastronomia, il Mu-

All’interno contiene, nello spazio espositivo, gli strumenti e gli attrezzi anticamente utilizzati per la lavora-


zione del formaggio tipo grana, mentre i locali dell’ex camera del latte sono stati allestiti per ospitare il percorso dedicato alla storia e alla cultura del Parmigiano Reggiano. Nella parte più moderna dello stabile invece, sono presenti le sezioni collegate alla stagionatura e alla commercializzazione oltre a quelle relative all’impiego gastronomico del prodotto. Questa tappa è utile per conoscere più approfonditamente il formaggio che abbiamo in borsa e provare a scoprire il segreto per il quale questo prodotto è conosciuto ormai in tutto il mondo da diversi decenni. Finita la visita al museo, attraversiamo la porta Sud del paese di Soragna, ci troviamo di fronte alla Rocca e, percorrendo la strada in senso antiorario attorno all’edificio, torniamo sulla Strada Provinciale 11. Il nostro tour prosegue sempre in direzione Busseto: sono cinque i chilometri che separano Soragna da Roncole Verdi. Questa piccola frazione di Busseto, durante il mese di ottobre, anniversario della nascita di Giuseppe Verdi, viene invasa da un numero incredibile di turisti che, da tutto il mondo, arrivano nel cuore della Bassa per conoscere nei dettagli i luoghi e la vita del Maestro. Qui è

I fratelli Dallatana circondati dai loro salumi

possibile visitare la casa natale di Verdi, che fu l’osteria dei sui genitori e anche la chiesa di Roncole dove Verdi imparò a suonare l’organo, grazie al suo mecenate Antonio Barezzi, e da dove iniziò il suo lungo e glorioso successo di compositore. Adiacente alla casa natale di Verdi c’è la mostra antologica permanente di Giovannino Guareschi, gestita dal figlio. Anche Guareschi era un grande amante della bicicletta e grazie ai suoi personag-

I fratelli Dallatana circondati dai loro salumi

gi e al suo Mondo Piccolo ha fatto conoscere a milioni di persone i territori della Bassa, la loro gente, le loro abitudini, le loro storie.

Dallo strolghino di Roncole Verdi al pane con lievito madre Poco fuori da Roncole Verdi, ci fermiamo presso il salumificio Dallatana. Più di dieci anni fa, i fratelli Dallatana ebbero la possibilità di rilevare un’attività di produzione di salumi in territorio piacentino: decisero di abbandonare gli studi e di proseguire con l’attività dei loro nonni, il norcino. Nel 2005, però, si trasferirono a Roncole Verdi, all’interno della zona di produzione del Culatello di Zibello Dop, per poter iniziare a produrlo e commercializzarlo. Oltre al “Re dei salumi della Bassa” preparano strolghini, fiocchi di Culatello e Spalle Crude di Palasone, eccellenza gastronomica di nicchia, cugina delle più popolari Spalle Cotte di San Secondo. Per terminare la stagionatura del Culatello di Zibello, acquistarono il vecchio mulino del 1600 dietro la casa natale di Verdi riuscendo a creare un ambiente dove stagionare, ma, soprattutto, dove somministrare i salumi preparati a poche centinaia di metri di distanza nei laboratori. Ogni settimana lavora

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Il pane con lievito madre silla bocca del forno

no dalle 120 alle 150 cosce di maiale e ci tengono a sottolineare che lavorano solo la coscia intera e non la fascia muscolare del culatello già smontata perchè altrimenti perderebbero la garanzia di qualità della materia prima. Ed ecco, così, che un intero strolghino di culatello va a fare compagnia nelle borse da viaggio al Parmigiano Reggiano. Prosegue la nostra “marcia trionfale” verso la capitale della musica verdiana ma, prima di fermarci a Busseto, dobbiamo percorrere altri dieci chilometri per poter andare a trovare la signora Nadia, titolare dell’azienda “I Due Tulipani” a Sant’Andrea di Busseto, e scoprire come prepara il pane

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per poter accompagnare il companatico recuperato durante il tragitto. Partendo per scherzo una decina di anni fa, grazie alla sua passione per il forno a legna, Nadia inizia a preparare pane con solo lievito madre donatogli da un fornaio. Decide con il marito quindi di partecipare ai mercatini degli agricoltori dei paesini sulla riva del Po. Col passare del tempo, sempre più forte è il loro desiderio di assecondare il maggior numero di persone che vogliono acquistare i suoi prodotti. Creano allora una piccola azienda familiare e iniziano a coltivare il frumento, portandolo direttamente a un mulino a pietra che gira con la forza dell’acqua nella Lunigia-

na, ultimo superstite di questa antica tradizione. Come già accennato, coltivano solo la varietà di frumento Blasco, tradizionale di queste terre e ottima per la panificazione sia per il sapore del prodotto finito sia per la lievitazione. Contemporaneamente hanno realizzato il laboratorio con il forno a legna e così ora possono essere presenti nei mercati rionali dei comuni nella provincia di Parma e di Piacenza, riuscendo a vendere prodotti “come quelli che si mangiavano cinquant’anni fa”: pane con lievito madre senza l’aggiunta di grassi, biscotti impastati a mano senza grassi idrogenati, focacce e dolci, con un occhio di riguardo per le intolleranze alimentari e i vegetariani. Salutiamo Nadia e la nostra borsa si arricchisce di una pagnotta da 600 g appena sfornata, tiepida e con un’inebriante fragranza di pane.

E a Busseto il giusto premio Ormai mancano pochi chilometri alla meta finale: la piazza centrale Giuseppe Verdi di Busseto. Le indicazioni sono facili e ben visibili, il paese potrebbe essere definito “amico delle biciclette” per la comodità nel muoversi in bici grazie alle piste ciclabili, al territorio pianeggiante e una vasta zona a traffico limitato. Tutte le indicazioni portano verso il centro del paese e, dopo aver percor-


La Federazione Italiana Amici della Bicicletta è un’associazione nazionale ambientalista, nata per promuovere l’uso della bicicletta come mezzo di trasporto quotidiano e di svago, promuovere la pratica dell’escursionismo in bicicletta, vale a dire di una forma di turismo particolarmente rispettosa dell’ambiente, scoprendo il territorio in modo dolce e lento. Inoltre, promuove la salute degli individui per mezzo dell’attività motoria per migliorare la qualità della vita, diminuendo lo stress, il rumore e la qualità dell’aria nelle città italiane. Riunisce oltre 130 associazioni autonome locali, sparse in tutta Italia che svolgono il proprio compito fa-

so via Roma, la via maestra interamente porticata, arriviamo finalmente nella piazza con la statua del Maestro seduto su una sedia e alle sue spalle il teatro di Busseto a lui dedicato, inaugurato nel 1868. Ora non resta che cercare una panchina dove poterci rilassare dopo questo lungo viaggio ed estrarre dalle borse i tre prodotti recuperati durante il tragitto. Con un coltello tagliamo due fette di pane, qualche fetta sottile di strolghino e tre scaglie di Parmigiano Reggiano. Finalmente, dopo aver faticato, pedalato ed essere arri-

cendo lobbying nei confronti delle istituzioni pubbliche per ottenere interventi e provvedimenti a favore della circolazione sicura e confortevole della bicicletta e, più in generale, per migliorare la vivibilità urbana (piste ciclabili, moderazione del traffico, politiche di incentivazione, uso combinato bici+mezzi collettivi di trasporto). La FIAB aderisce all’European Cyclists’ Federation (ECF) e alla Confederazione della Mobilità Dolce (Co.Mo.Do). n Sito internet www.fiab-onlus.it

vati alla meta prefissata, possiamo godere dei prodotti tipici del territorio che abbiamo scoperto, conosciuto e trasportato con noi. Sicuramente hanno un gusto e un sapore diverso dal solito, dato che ce li siamo meritati e siamo andati direttamente nei luoghi di produzione per recuperarli. Molte energie sono state spese ma il pranzo “preparato durante il viaggio” fa dimenticare subito tutto ciò. Viviamo in un’epoca in cui si cerca di avere tutto il prima possibile e i ritmi di vita giornalieri sono sempre più frenetici, stressanti. Ma, anche per

questo, a volte c’è bisogno di rallentare, di viaggiare lentamente, di scoprire il territorio circostante e di ottenere qualcosa come premio solo dopo esserselo sudato. Dopo il pranzo non ci resta che visitare questo piccolo paese incastonato nella Bassa parmense e, infine, rimontare in sella. Altri quaranta chilometri ci attendono per tornare a Parma e molte cose possiamo ancora scoprire. Il viaggio di ritorno non è mai uguale a quello dell’andata: se non altro il panorama è l’opposto. n

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In primo piano

Formai de Mut: aromi d’alpeggio di Barbara Vezzani – Master Comet

Del cacio d’alpeggio della Val Brembana (Bg) si parla fin dall’antichità nei documenti in cui erano stabilite le modalità di affitto e di vendita del pascolo, in epoche in cui i pagamenti erano fissati in pesi di formaggio. Oggi è una Dop con un curioso nome in dialetto e un disciplinare che tutela sul serio la sua origine. Formaggio grasso a pasta semicot-

na con la salatura: negli alpeggi viene

ta, Il Formai de Mut è un prodotto

effettuata a secco distribuendo a

della tradizione dell’alta Valle Brem-

giorni alterni sale marino sulle due

bana, in provincia di Bergamo. Nel

facciate per otto giorni di seguito. La

dialetto locale la parola mut si riferi-

stagionatura si effettua sulle scalere

sce al pascolo di monte delle Alpi

(scaffalature in legno) e dura da un

Orobiche dove le vacche di razza Bru-

minimo di 40-45 giorni, per il formag-

na trascorrono i mesi estivi, a un’al-

gio da consumarsi fresco, fino a supe-

tezza compresa tra i 1200 e i 2500

rare abbondantemente anche i 6

metri, cibandosi esclusivamente di

mesi. Un periodo di stagionatura più

erba, fresca o sotto forma di fieno. I

prolungato conferisce al formaggio

pascoli sono ricchi di essenze aroma-

una maggiore complessità olfattiva e

tiche che si trasmettono al latte.

gustativa.

La tecnica di produzione è regolata da un disciplinare che ne tutela le peculiarità. Per produrre un chilogram-

La forma ottenuta è cilindrica, con

mo di formaggio occorrono circa 10

diametro di 30-40 cm e scalzo diritto

litri di latte vaccino che viene lavora-

o leggermente convesso di 8-10 cm.

to subito dopo la mungitura della

Con il termine scalzo ci si riferisce alla

sera e del mattino. Il latte viene por-

superficie laterale della forma di for-

tato, spesso ancora oggi su fuoco di

maggio che ne costituisce lo spesso-

legna, alla temperatura di 35-37° C e

re. Il termine deriva dal fatto che si

addizionato con il caglio di origine

tratta della parte che viene discalza-

animale, di solito di vitello. L’estrazio-

ta, cioè estratta, dalla fascera laterale

ne della cagliata avviene con partico-

nella quale era racchiusa la cagliata e

lari teli filtranti o pate e ad essa se-

che ne determina l’aspetto esteriore.

gue la messa in forma nei tipici stam-

L’altezza dello scalzo è fondamentale

pi circolari in legno detti localmente

per stabilire l’uniformità di stagiona-

fassere. Qui la forma subisce una

tura della pasta in rapporto al tipo di

pressatura con grossi sassi. Dopo un

prodotto che si vuole ottenere.

giorno di riposo, la lavorazione termi122

Km vero

Il primo Dop lombardo

La crosta è sottile e compatta, di un


colore giallo chiaro che tende al grigio con la stagionatura. Il peso di ciascuna forma varia tra gli 8 e i 12 kg. La pasta è compatta di colore avorio con occhiatura diffusa. Il sapore è delicato, non piccante, poco salato e conserva la fragranza delle erbe di montagna che gli conferiscono un caratteristico aroma. Il Formai de Mut dell’Alta Valle Brembana si contraddistingue grazie al marchio, presente sulla faccia di ogni singola forma, che riproduce con tratto stilizzato il caratteristico campanaccio al collo delle vacche. È il primo formaggio lombardo che ha ottenuto il riconoscimento Doc (1985) e Dop (1996).

6000 forme in 21 comuni Oggi si produce durante tutto l’anno, anche se il migliore è indubbiamente quello estivo. Intorno al 21 settembre, festa di San Matteo, il bestiame rientra dal pascolo e si susseguono manifestazioni e concorsi caseari. Durante l’inverno la dieta del be-

Valori per 100 g di prodotto: • UMIDITÀ 33,29 g • PROTEINE GREZZE 23,98 g • GRASSO 32,77 g • CENERI 3,94 g • CARBOIDRATI 9,02 g • VALORE ENERGETICO 427 Kcal 1774 kjoule • FOSFORO 684 mg • CALCIO 875 mg • POTASSIO 145 mg • MAGNESIO 344 mg • VITAMINA A 0,253 mg • VITAMINA B2 0,5 mg

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123


stiame è integrata con miscele di ce-

che il bestiame ha a disposizione.

re qualità: i fattori ambientali posso-

reali o insilati di mais o erba e, in at-

“Dal foraggio al formaggio” è l’effica-

no incidere sia in positivo sia in nega-

tesa del ritorno della primavera, ini-

ce slogan coniato in Val Brembana

tivo. Ottimo

zia la produzione

for-

invernale di for-

maggio da tavo-

maggio.

la, viene anche usato come in-

Il Consorzio dei produttori per la

grediente

Tutela e valoriz-

ricette della cuci-

zazione del For-

na locale, come

mai

Mut

la polenta tara-

Val

gna (di grano sa-

de

dell’Alta

Brembana raccoglie i produttori del

Il Formai de Mut dell’Alta Valle brembana si contraddistingue grazie al marchio apposto sulla faccia di ogni singola forma, che riproduce con tratto stilizzato il caratteristico “campanaccio” che le vacche portano al collo.

amministrativo di 21 comuni della

raceno). Tra i vini consigliati in abbinamento,

territorio per promuovere il Formai de Mut.

nelle

i

bianchi sono da preferire con le for-

zona di origine. Le forme marchiate

Il Consorzio ha ideato una diversifi-

me fresche di breve stagionatura. I

sono state lo scorso anno oltre seimi-

cazione della marchiatura sulla for-

rossi sono invece più adatti per il for-

la.

ma per identificare l’origine del latte:

maggio maturato oltre sei mesi (per

Il Formai de Mut è molto diverso

il marchio blu distingue le forme pro-

non allontanarci troppo: Botticino

dal Bagoss o dal Silter, due formaggi

dotte in alpeggio, il marchio rosso

Rosso, Capriano del Colle Rosso,

d’alpeggio bresciani prodotti con una

quelle prodotte in latteria. Non è

Franciacorta Rosso e Valcalepio Ros-

simile metodologia. È una questione

però automatico dedurre che il mar-

so).

di latte e ancor prima del foraggio

chio blu sia sinonimo di una maggio-

124

Km vero

n


Crespelle di grano saraceno con formaggi di malga Ingredienti per 4 persone: 250 g di latte fresco intero 50 g di farina bianca 50 g di farina di grano saraceno 1 uovo intero Burro Sale Per il ripieno 300 g di formaggella della Val di Scalve 100 g di formaggio di Branzi di media stagionatura 500 g di latte fresco intero 50 g di farina 50 g di burro Noce moscata Sale Per condire 250 g di panna fresca 100 g di Parmigiano Reggiano grattugiato 50 g di burro 100 g di Formai de Mut di media stagionatura Erba cipollina per guarnire Mischiando le farine per le crespelle, aggiungiamo il latte e lavoriamo con una frusta. Incorporiamo l’uovo intero e un pizzico di sale e lasciamo riposare per 30 minuti. Imburriamo una padella antiaderente, mettiamola sul fuoco e versiamo una cucchiaiata di questo preparato smuovendo la padella stessa perché si distenda sul fondo in uno strato sottile. quando è rappreso, giriamo la crespella con una spatola perché rapprenda bene e si colori anche sull’altra facciata. Proseguiamo così con tutto il preparato lasciando poi raffreddare le “frittatine” ottenute. Prepariamo il ripieno tagliando a cubetti la formaggella

della Val di Scalve e il Branzi. Fondiamo il burro in una casseruola, aggiungiamo la farina amalgamando bene e il latte. Portiamo ad ebollizione sempre mescolando. Saliamo e aggiungiamo la noce moscata, proseguendo la cottura su fuoco molto basso fino a ottenere una morbida besciamella. Aggiungiamo i formaggi tagliati a cubetti e continuiamo a mescolare fino a ottenere una crema densa e liscia. Spalmiamo un mestolo di crema di formaggio per ogni crespella e la richiudiamo a triangolo. Imburriamo una pirofila, vi adagiamo le crespelle, aggiungiamo la panna, il parmigiano grattugiato e il burro fuso a filo. Mettiamo a gratinare in forno a 180° C per 20 minuti. Guarniamo il piatto da portata con l’erba cipollina e le scaglie sottili di Formai de Mut.

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125


Risotto al Formai de Mut e tartufo bianco Ingredienti per 6 persone: 360 g di Riso Carnaroli 1 l di brodo di carne 1 cipolla media 125 g di burro 1 bicchiere di vino bianco 80 g di Parmigiano Reggiano 80 g di Formai de Mut di media stagionatura 25 g di tartufo bianco Affettiamo finemente la cipolla bianca e lasciamola imbiondire in una pentola antiaderente con 80 g di burro. Uniamo il riso e lasciamolo tostare per due minuti. Sfumiamo con il vino bianco, aggiungiamo il brodo bollente un po’ alla volta e portiamo a fine cottura. A cottura ultimata mantechiamo con il restante burro e pezzetti di Formai de Mut che dovrà sciogliersi. Spolverizziamo con Parmigiano Reggiano e con le scaglie di tartufo bianco.

Gnocchi di zucca con fonduta Formai de mut Ingredienti per 6 persone: 500 g di polpa di zucca cotta in forno 1 tuorlo d’uovo 50 g di Parmigiano Reggiano 50 g di Formai de Mut stagionato 200 g di farina 00 Noce moscata Rosmarino Olio extra vergine di oliva Sale Frulliamo la zucca cotta con il Parmigiano, il tuorlo d’uovo, la noce moscata e il sale. Uniamo la farina e mescoliamo con un cucchiaio di legno. Riempiamo una tasca da pasticcere con il composto e tagliamo gli gnocchi con l’aiuto di un coltello facendoli cadere direttamente nella pentola con l’acqua in ebollizione. Dopo circa tre minuti, non appena torneranno a galla li scoleremo in una ciotola e li condiremo con olio extra vergine di oliva, rametti di rosmarino e abbondante Formai de Mut grattugiato. Mescoliamo e serviamo. 126 Km vero


Km vero

57


Parliamone

L’Albergo Diffuso di Marco Bellante – Master Comet

Il punto della situazione su una realtà che sta cambiando il modo di visitare il nostro bel paese e, soprattutto, ci aiuta a valorizzare in modo intelligente l’edilizia storica e rurale: niente cemento e una sognante immersione nella vera storia. Era il 2001 quando si iniziò a parlare per la prima volta in televisione di Albergo Diffuso: un giovane imprenditore aveva trasformato un intero paesino quasi del tutto abbandonato, situato tra i colli Abruzzesi, in un albergo di nuova concezione. Stradine strette ed edifici in pietra di origine medievale erano però solo due degli elementi che distinguevano quel posto da favola dove per la prima volta, grazie a questa nuova forma di accoglienza turistica, sembrava veramente possibile respirare l’atmosfera di

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un luogo e provare lo stile di vita delle persone che lo abitavano. Il primo pensiero fu: “che idea fantastica!”; e soprattutto: “che idea redditizia per chi, come quel giovane imprenditore, avesse saputo metterla in pratica in un paese ricco di storia e tradizione come il nostro!”. Quel giovane si chiama Daniel Elow Kihlgren, è svedese e il nome del paesino dove ha creato il suo albergo diffuso è Santo Stefano di Sessanio (Aq). Fortunatamente questa non è rimasta una storia isolata, da quell’anno

infatti sempre più numerose sono state le iniziative imprenditoriali di questo genere nel nostro bel paese e oggi l’Albergo Diffuso in Italia è una realtà affermata e in espansione. Tutte le regioni si sono dotate ormai da tempo di un regolamento in tal senso, per definire e regolamentare con chiarezza una forma di accoglienza turistica unica e particolare, mentre nel 2006 è nata un’Associazione Nazionale degli Alberghi Diffusi, l’ADI, con l’intento di promuovere e sostenere il loro sviluppo.


Cosa significa albergo diffuso Ma da dove nasce questa straordinaria idea imprenditoriale tutta made in Italy e in cosa consiste veramente un albergo diffuso? Se cerchiamo sui libri o, se vogliamo essere più moderni, su internet, per esempio su Wikipedia o sul sito dell’ADI, una definizione continua a tornare, quella messa a punto dal professore Giancarlo Dall’Ara docente di Marketing del turismo presso l’università di Perugia e il CST (Centro Internazionale di Studi sul Turismo) di Assisi, oltre che consulente per varie regioni. L’albergo diffuso, secondo quanto scritto nel modello messo a punto dallo studioso umbro, è “un’impresa ricettiva alberghiera situata in un unico centro abitato, formata da più stabili vicini fra loro, con gestione unitaria e in grado di fornire servizi di standard alberghiero a tutti gli ospiti”. Questa è la spiegazione “tecnico-istituzionale” ma siamo sicuri che l’albergo diffuso sia solo questo? Sia il professor Dall’Ara sia i vari regolamenti regionali nati nel corso degli anni sono chiari su questo punto: l’albergo diffuso non è solo un’iniziativa imprenditoriale con caratteristiche logistiche e organizzative ben precise, è innanzi tutto un nuovo modo di vivere il turismo e di conseguenza il territorio. Pertanto, per non snaturarsi, deve rispettare requisiti ben precisi. Il primo e forse il più importante di tutti questi requisiti è quello di sorgere all’interno di una realtà abitativa con determinate caratteristiche, in particolare che non superi certe dimensioni, per non catapultare il turista in realtà che abbiano perso gran parte della loro tipicità e della loro unicità omologandosi allo stile di vita metropolitano. Ed è fondamentale che questi piccoli centri siano ancora abitati! Potrebbe anche trattarsi di luoghi non più economicamente vitali, magari in via di spopolamento, ma devono comunque ospitare comunità vive: la caratteristica principale, infatti, di un albergo diffuso, forse ancor

Caratteristiche dell’albergo diffuso (Modello Dall’Ara) Gestione unitaria e imprenditoriale Offerta di servizi alberghieri e di ambienti comuni a tutti gli ospiti alloggiati nei diversi edifici che lo compongono. Ambiente autentico fatto di case di pregio, arredate e ristrutturate non “per turisti”, ma per residenti anche se temporanei. Distanza tra gli immobili tale da permettere alla gestione di offrire a tutti gli ospiti non solo servizi alberghieri, ma anche l’esperienza della formula ospitale. Presenza di una comunità viva. Gestione professionale non standard, coerente con la proposta di autenticità dell’esperienza e con radici nel territorio. Stile riconoscibile: un’identità leggibile in tutte le componenti della struttura ricettiva, che non si configura come una semplice sommatoria di case ristrutturate e messe in rete.

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più della sua organizzazione “orizzontale”, è proprio il suo radicamento alla cultura e alla comunità presenti in un luogo, grazie al quale è in grado di offrire ai propri ospiti un’esperienza di immersione totale in una cultura e in uno stile di vita autentici. Se questa possibilità non dovesse esserci, per quanto un luogo possa essere bello, accogliente e turisticamente appetibile non potrebbe assumere la definizione di albergo diffuso. Non confondiamo l’albergo diffuso con le altre forme di ospitalità diffusa esistenti, magari con caratteristiche simili, come per esempio il caso dell’affittacamere, ma che non possono essere definite alberghi diffusi.

L’idea sorge dopo il terremoto Come sottolinea la definizione stessa, un albergo diffuso è prima di tutto un albergo e come tale, seppure con modalità nuove, deve garantire a tutti i suoi clienti un servizio di livello alberghiero, cosa che non tutte le forme di accoglienza diffusa possono sempre fare.

Alcune di queste sono state tra l’altro riconosciute e normate dalla stessa ADI, come il “paese Albergo”, il “Residence Diffuso” o l’ultimo nato “l’Albergo Diffuso di Campagna”, regolamentato solo di recente dalla regione Molise. Ma da dove nasce questa idea? Il professor Dall’Ara è stato colui che ha codificato in maniera formale i parametri distintivi di ciò che noi oggi chiamiamo albergo diffuso mentre Daniel Kihlgren è stato il primo ad aver applicato parametri simili a un’impresa di successo ma l’idea originale da dove arriva? Come per la gran parte delle grandi invenzioni italiane anche questa intuizione viene dalla nostra grande capacità di saperci arrangiare e soprattutto di saperci reinventare dopo un momento di crisi. Il concetto di albergo diffuso viene infatti teorizzato per la prima volta in Carnia, nel Friuli-Venezia Giulia, a seguito del terremoto che devastò quelle zone il 6 maggio del 1976. Mentre la ricostruzione andava avanti sorse infatti la necessità di tro-

vare un modo per valorizzare le case rimaste vuote che a mano a mano venivano ristrutturate e fu pensato di farlo proprio in funzione turistica. Il primo vero progetto che riporta la dicitura di albergo diffuso risale però al 1982, e si tratta di un progetto pilota del comune di Comeglians (Borgo Maranzanis), sempre in Friuli, firmato dall’architetto Carlo Toson e nato da un’idea del poeta e scrittore Leonardo Zanier, un progetto che ha fatto da apripista per ciò che è venuto in seguito. Dodici anni dopo nasce infatti il primo esperimento parzialmente riuscito, prosecuzione proprio del progetto-pilota del 1982 e facente parte del piano turistico del comune di Sauris, in Friuli, a cui fecero seguito esperienze simili a Bosa in Sardegna e successivamente ad Alberobello, in Puglia. Mentre il primo vero riconoscimento formale di questa forma di accoglienza risale al 1998 quando la regione Sardegna emana la prima normativa specifica in Italia a questo riguardo. Parlando invece del perché un al-

Santo Stefano di Sessanio (Aq)

130

Km vero


Che cosa è l’ADI L’Associazione Nazionale degli Alberghi Diffusi nasce in occasione della primo “Raduno Nazionale dei Gestori dell’Albergo Diffuso” tenutosi a Rimini il 15 giugno 2006. I suoi obbiettivi sono quelli di promuovere e sostenere lo sviluppo degli alberghi diffusi in Italia, tutelandone l’immagine e la reputazione presso le istituzioni pubbliche, la stampa, il sistema intermediario e la domanda turistica. Sede operativa: Via Filangieri, 1 86095 Frosolone (IS) Tel/Fax:0874 899482 - 339 3709835 info@alberghidiffusi.it

bergo diffuso rappresenta un’occasione non solo per l’imprenditore che lo possiede ma anche per la comunità, il più importante è sicuramente la possibilità di valorizzare e rivitalizzare, anche dal punto di vista economico, territori e piccoli borghi dal grande valore culturale e artistico ma in via di spopolamento a causa di un sistema socio-economico che fino a poco tempo sembrava non averne più bisogno.

Un motore di cultura Il movimento di ritorno a una vita più genuina, più sana e soprattutto più lenta che negli ultimi anni si è diffuso in tutto l’Occidente invece ha cambiato le cose, ponendo le basi per la nascita e la diffusione di questo nuovo modello di ospitalità turistica e donando a noi la possibilità di recuperare questi luoghi tanto importanti per la cultura e la storia di un paese come il nostro, luoghi che erano andati quasi perduti. Un albergo diffuso può infatti mettere in moto una catena positiva di condizioni in grado di dare nuova vita a un territorio e animare un centro storico stimolando eventi e iniziative dal punto di vista sia culturale sia economico. Può creare o incentivare: posti di lavoro e servizi dove prima era-

no assenti o si erano persi; occasioni di incontro culturale e sociale dove prima non si faceva nulla; possibilità maggiori di espansione per gli artigiani e i piccoli produttori agroalimentari locali; opportunità per far conoscere i prodotti del territorio sia attraverso iniziative come sagre e mercati periodici, sia attraverso punti vendita stabili all’interno dei borghi, divenendo parte integrante di quell’esperienza autentica che gli stessi gestori degli alberghi diffusi puntano a proporre ai propri ospiti. E il merito più importante dell’albergo diffuso è che si tratta di un modello di sviluppo del territorio a impatto ambientale nullo: infatti, per la sua realizzazione non è necessario costruire nulla ma soltanto recuperare e mettere in rete quanto già esiste. E la sua alta sostenibilità nasce pure dall’essere un “luogo” ospitale, che si differenzia dai “non-luoghi” per il suo essere fortemente radicato nel territorio e nella sua cultura, che diventano componenti di base dei servizi offerti. La domanda turistica che è in grado di accontentare, infatti, è interessata a soggiornare in un contesto urbano di pregio vivendo a contatto con i residenti più che con gli altri turisti. n

I modelli di ospitalità diffusa riconosciuti dall’ADI a fianco all’ “albergo diffuso” a) Paese Albergo Proposta che coinvolge un intero paese o un centro storico abitato attraverso una rete di camere, case, bar, ristoranti, servizi di accoglienza e spazi comuni per gli ospiti anche lontani tra loro. Il tutto messo a disposizione dei turisti tramite un servizio di prenotazione centralizzato, ma privo di gestione unitaria. Non è un albergo, bensì una “rete ospitale” che centralizza alcuni servizi, lasciando gli operatori indipendenti. b) Residence Diffuso Strutture ricettive extra alberghiere che forniscono alloggio in più case a volte sparse anche in un territorio molto ampio, assieme a servizi di

accoglienza e di assistenza, il tutto situato all’interno di un unico territorio comunale e integrato dalla centralizzazione di un unico ufficio ricevimento e prenotazione. c) Albergo Diffuso di campagna Struttura ospitale realizzata grazie al recupero, la ristrutturazione e la valorizzazione a fini turistici di un borgo disabitato, gestito in forma unitaria, che propone camere e servizi dislocati in edifici diversi a volte vicini fra loro e che può proporre servizi alberghieri. Si tratta di un albergo diffuso vero e proprio che però non opera in un piccolo comune ma in un contesto rurale. n

Km vero

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Da sapere

Le “mamme” del Parmigiano Reggiano di Celeste Senelli – Scienze Gastronomiche

Sono 1000 anni o poco meno che i monaci Benedettini hanno iniziato a produrre il formaggio che presto sarebbe diventato il più famoso e pregiato del mondo. E lo facevano con il latte munto da “Vacche Rosse” di Razza Reggiana. La Vacca Rossa di razza Reggiana è una bovina, caratterizzata per l’appunto da un mantello rossiccio, autoctona dell’Italia settentrionale, arrivata nell’area di Parma e Reggio Emilia a seguito delle invasioni barbariche nel IV secolo d.C. Fu dal loro latte che, nelle abbazie dei monaci benedettini, intorno all’XI secolo, ebbe origine l’antenato del Parmigiano Reggiano. Le vacche di questa razza sono più robuste e longeve, ma meno produttive, in 305 giorni di lattazione producono mediamente 5.557 kg contro i 9.190 kg della Frisona; inoltre si prestano meno

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alla mungitura meccanica. Per questo la tendenza degli allevatori italiani del dopoguerra fu di sostituirle con vacche più produttive, così le bovine di razza Reggiana rischiarono l’estinzione: nel 1981 si raggiunse il minimo storico con 450 vacche e fu allora che un gruppo di allevatori e di personalità del mondo scientifico e agricolo si adoperarono per dar vita a un progetto di recupero di questa razza che si concretizzò nel 1991 con la messa a punto di un programma di valorizzazione realizzato in collaborazione con il Centro Ricerche Produzioni Animali di Reggio Emilia e finanziato dal Mini-

stero dell’Agricoltura. In questo stesso anno nacque il Consorzio di Valorizzazione dei Prodotti dell’Antica Razza Reggiana che durò solamente due anni, ma diede il via alla costituzione dell’oggi conosciuto “Consorzio VaccheRosse”; il passo successivo fu apporre il logo dell’Associazione Nazionale Allevatori Bovini di Razza Reggiana (ANABoRaRe) su entrambe le facce della forma.

Un allevamento sostenibile Le modalità per allevare questo tipo di vacca possono essere considerate a basso impatto ambientale: è una


grande consumatrice di foraggi caratterizzati da un ciclo produttivo con bassa necessità di lavorazioni meccaniche e, quindi, evitando gli scompensi derivanti dall’utilizzo delle macchine. Viene infatti alimentata soprattutto con erba medica e con foraggi derivanti dal ciclo di coltivazione tradizionale di prati stabili che può essere concimato con letame e liquami della stessa bovina. Essendo Parmigiano Reggiano DOP, anche quello prodotto da latte di questa razza deve sottostare alle medesime regole, ma con ulteriori restrizioni. Il disciplinare redatto dall’ANABoRaRe specifica che, per poter fregiare le forme con il marchio VaccheRosse, prima di tutto, come è ovvio, il formaggio dev’essere prodotto unicamente da latte di vacche di razza Reggiana, poi c’è una fondamentale differenza proprio nel tempo minimo di stagionatura: per le caratteristiche proprie di questo latte e della sua trasformazione in formaggio, la maturazione minima dev’essere di 24 mesi, mentre per il Parmigiano Reggiano classico è di 12 mesi. Ancora più specifico, rispetto a quello predisposto per la razza Frisona, è il regolamento che stabilisce l’alimentazione delle vacche: gli allevamenti che conferiscono il latte per la trasformazione in Parmigiano Reggiano Vacche Rosse devono garantir loro un’alimentazione a base di erba e fieno almeno per il 50% di produzione aziendale e almeno per il 90% derivanti da colture presenti nel comprensorio del Parmigiano Reggiano. Viene vietata poi un’alimentazione a unifeed (a piatto unico, ovvero con ingredienti triturati e miscelati tutti insieme) favorendo quella di tipo tradizionale. Infine, prima che il formaggio venga messo in commercio, viene effettuato un controllo qualità dove le forme vengono classificate: quelle di tipo A e AB vengono marchiate con il logo VaccheRosse e vendute intere, quelle di tipo B ricevono la marchiatura ma possono essere commercializzate solo porzionate; le forme classificate C e D

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non possono ricevere il marchio VaccheRosse e vengono conferite ad una struttura designata dall’ANABoRaRe con delibera con Comitato Direttivo.

Dal latte al formaggio Come abbiamo detto, quantitativamente questa razza produce meno della Frisona, ma il suo latte ha una maggior resa nella caseificazione grazie alla presenza in quantità molto elevate di varianti della caseina che renderà il formaggio più adatto alla stagionatura e gli garantirà, a prodotto finito, una migliore digeribilità. Le varianti genetiche di k-caseina e β-caseina presentano caratteristiche che permettono una migliore coagulazione del latte, migliori qualità reologiche (capacità di trasformazione, ndr) e di spurgo del siero che fanno diminuire l’insorgenza di anomalie nella fermentazione, oltre a migliorare gli andamenti delle operazioni in caldaia e migliorare i rendimenti finali dal punto di vista produttivo. L’alta

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presenza di k-caseina porta alla creazione di un quadro micellare (composizione dell’aggregato di caseine, ndr) diverso che permette un’ottimale coagulazione del latte; questa caratteristica fa in modo che il latte abbia una migliore attitudine all’affioramento del grasso e all’attività fermentativa. Recenti studi avvalorano la tesi che la presenza di queste varianti della caseina siano legate alla maggior concentrazione nel latte di acidi grassi essenziali, come coniugati dell’acido linoleico. È stato stimato che se mangiamo 100 g di prodotto questo verrà digerito in circa 45 minuti, mentre per digerire alimenti proteici animali come carne o pesce le ore sono 3-4. Rispetto a quello di tipo classico possiamo apprezzare la sua estrema palatabilità, ovvero la scioglievolezza in bocca, e, in modo abbastanza marcato, le differenze di aromi. Un’altra caratteristica che differenzia il formaggio è il colore paglierino più marcato dovuto,

anche, all’alimentazione delle vacche costituita, soprattutto nei mesi estivi, da erba verde che, grazie ai pigmenti delle fioriture di stagione, conferisce la colorazione più marcata. Il latte di Reggiana - troviamo specificato nel sito dell’ANABoRaRe - in genere è più ricco in residuo secco e in ceneri, oltre a presentare concentrazioni maggiori in proteine, caseine, fosforo e calcio; una minore presenza di acido citrico gli conferisce un sapore più dolce Per quanto riguarda la stagionatura il disciplinare prevede che le forme, solo quelle che hanno superato la verifica di idoneità, subiscano un invecchiamento di almeno 24 mesi, ma questa lunga attesa è in realtà quella minima, perché si può arrivare allo stravecchio, stagionato 40 mesi, una piccola riserva non sempre disponibile, con aromi e profumi ancora più concentrati per gli amanti delle sensazioni decise. n


Scoperto in giro

L’olio di Mignola di Barbara Vezzani - Master Comet

Tra i cinque oli extra vergini monocultivar proposti da Giorgio Tonti nelle Marche, abbiamo provato quello di una piccola oliva autoctona. Sulle colline marchigiane di San Marcello, non lontano da Senigallia, Giorgio Tonti, addetto part time presso un mobilificio locale, ha realizzato il suo sogno di diventare olivicoltore. A 35 anni, Giorgio produce con successo cinque oli extra vergini che contengono un’unica varietà di olive. Cinque tipologie differenti che hanno reso questa sfida avvincente. Ora tutto è curato nei dettagli: dalla bottiglia, all’etichetta, alle eleganti confezioni regalo. I risultati non mancano. Grazie alla sua passione, Giorgio ha ricevuto numerosi riconoscimenti a livello sia locale sia nazionale. La sua produzione viene così tempestivamente esaurita e le prenotazioni giungono con largo anticipo anche dall’estero. Oltre alla degustazione in una sala dedicata presso la sede dell’azienda, Giorgio organizza nella sua proprietà, con cadenza settimanale durante tutta l’estate, un appuntamento alla ricerca delle erbe commestibili e del loro possibile utilizzo in cucina in linea con la tendenza del momento, il foraging. A breve Giorgio si convertirà al metodo biologico perché ritiene necessario prediligere il rispetto per l’ambiente, anche a scapito della produttività. Oggi la sua azienda, Olio Colle Nobile, collabora con la facoltà di Agraria per il recupero delle cultivar autoctone della regione Marche. Prodotto di punta dell’azienda è l’olio ottenuto dalla cultivar Mignola, tipica dell’entroterra marchigiano, che vie-

ne raccolta a metà novembre. Il colore dei frutti varia tra il verde intenso e il nero inchiostro. L’olio ha un colore verde con riflessi gialli, perché ricco di caroteni. All’esame olfattivo sprigiona sentori di frutti di bosco e mela matura. Al gusto, una netta sensazione di dolce iniziale lascia il campo a un amaro persistente, dato dalla ricchezza in polifenoli, e a una nota piccante spiccata. Il nome Mignola deriva dalla dimensione molto ridotta dell’oliva. Viene anche chiamata Scagacciona, per l’elevata facilità di distacco della polpa dal nocciolo, o Carbonella, per il colore intenso. Ogni varietà di olio è espressione delle caratteristiche pedoclimatiche dell’ambiente di coltivazione: la Rassegna Nazionale degli oli monovarietali, che si tiene ogni anno in provincia di Macerata, mira a porre l’attenzione sul patrimonio olivicolo italiano. Durante la manifestazione si raccolgono e si classificano le diverse varietà. Non si tratta di un concorso, bensì di un centro di studio e di promozione per il settore degli oli extra vergini di oliva i cui dati sono accessibili al pubblico. Azienda Agriicola Tonti Giorgi via Montelatiere, 13 San Marcello (An) 333 9140609 www.collenobile.it

Km vero

n 135


Scelte di vita

Il coraggio di un imprenditore di montagna di Denis Figoni – Scienze Gastronomiche

Francesco Chinosi, affascinato dallo stile di vita e dalla passione per la terra del nonno, si è dedicato alla valorizzazione della Patata di Farini (PC) con uno spirito moderno e innovativo, costruendo intorno al tubero una gamma di prodotti tradizionali ma in linea con la domanda di autenticità di oggi. Immerso nelle suggestive vallate dell’alta Val Nure troviamo un piccolissimo borgo di nome Predalbora. Si trova in prossimità di Groppallo, paese situato nel comune di Farini in provincia di Piacenza, a circa 950 metri di altitudine. Nonostante le caratteristiche impervie del terreno unite a tutte le difficoltà economiche e sociali che si possono riscontrare in questi luoghi, c’è un coraggioso ragazzo, Francesco Chinosi, che ogni giorno, con impegno e passione, da ormai sei anni conduce meravigliosamente l’impresa agricola ereditata dall’affezionato nonno. Questa azienda è specializzata nella coltivazione e quindi nella produzione di patate. Vengono coltivate principalmente la varietà Kennedy (bianca e farinosa), utilizzata per la produzione di patate fritte e gnocchi viene prodotta in maggiori quantità, a seguire la Desirèe (la rossa) e la

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Monnalisa. Nel corso degli anni, Francesco, si è prefissato come obiettivo quello di aggiungere nuovi prodotti alla sua produzione standard, ad esempio la coltivazione di frumento per la successiva produzione di farine, importantissime per l’ottenimento di pane e ottime torte di patate, specialità del territorio. Francesco ci spiega come le caratteristiche del terreno siano ottimali per la produzione di queste patate: fresco e friabile, non ha bisogno di molta irrigazione, questo permette quindi alle patate di non assorbire acqua e quindi di rimanere di piccola taglia, caratteristica che le differenzia enormemente dalle patate prodotte in pianura. Le sementi di cui si serve Chinosi vengono reperite e acquistate in Val Pusteria (Alto Adige) da aziende situate a circa 1000 metri s.l.m., in modo tale che non subiscano


sbalzi né termici né di altitudine. Questi suoi prodotti, ottenuti con le regole del biologico, hanno un prezzo di circa il 50% in più del normale, ovvero di 1 euro in più al chilo, prezzo giustificato dalla particolare confezione ma soprattutto dall’alta qualità del prodotto.

La patata è DeCo La sua attività si svolge in collaborazione con il mulino Provini di Groppallo, mentre il pane lo fa un panettiere di Fidenza data la scarsa collaborazione nei paesi limitrofi,

una realtà spiacevole ma che ritroviamo, purtroppo, anche in altre vallate. Per tutti questi motivi e meriti, solo dopo un anno di attività, nel 2009, Francesco Chinosi ha ottenuto il marchio De.Co. (Denominazione Comunale) per la patata locale. La considera una grandissima opportunità per far conoscere i suoi prodotti anche fuori dalla provincia di Piacenza ma soprattutto per rendere le patate di montagna più competitive. n

Tutto con le Patate di Farini DeCo Il pane

Gli gnocchi

Il pane casereccio di patate di Farini e l’ultima specialità in ordine di tempo ad aver ottenuto il riconoscimento DeCo. Preparato con farina, acqua, lievito madre, patate, olio extra vergine e sale; viene fatto lievitare ben 3 volte e poi cotto nel forno a legna. Sono la lavorazione artigianale e gli ingredienti di prima scelta a conferire alla ‘’micca’’ una crosta esterna croccante e un interno morbido, reso ancora più gustoso dalle patate.

In alta Val Nure la coltivazione delle patate è diffusa da almeno 3 secoli, così come il suo utilizzo in cucina soprattutto tra le classi meno abbienti. Anche se oggi può sembrare strano, le patate, introdotte in Europa dai conquistadores di ritorno della Americhe, vennero utilizzate a lungo come piante ornamentali, solo a partire dal 1700 vennero usate anche in ambito alimentare complici la fame e le epidemie. È solo da allora che questo tubero divenne

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La torta di patate

l’ingrediente principale degli gnocchi, che prima venivano preparati solo con acqua e farina. Gli gnocchi di patate di Farini, che hanno ottenuto il riconoscimento DeCo, sono una delle specialità più apprezzate della gastronomia piacentina di ispirazione contadina. Conditi con sugo di funghi raccolti nel bosco dell’Appennino diventano un piatto raffinato e gustoso.

venivano bollite e ridotte in purea con lo schiacciapatate. Alla purea si univa poi un soffritto di lardo, cipolla, formaggio grattugiato. Con

La polenta

La torta Ecco un ottimo esempio di come sia possibile fare di necessità virtù. La torta di patate, una delizia della cucina contadina, è un piatto di riciclo, nato dall’esperienza di non buttare via le patate che durante il raccolto si erano rovinate, e che quindi non potevano essere usate in autunno. La terza settimana di settembre, nel giorno dedicato a San Savino, le patate ammaccate 138 Km vero

e preparata in tutti i ristoranti e agriturismi del luogo. È ottima gustata da sola appena tiepida come antipasto o addirittura per merenda, accompagnata da una fetta di buon salame. La festa della torta di patate che si svolge ogni anno a Farini è l’occasione ideale per assaporare questo ottimo prodotto immersi in uno splendido scenario naturale dell’alta val Nure.

il ripieno così attenuto si farciva una sfoglia ottenuta con acqua, burro e farina che veniva poi cotta in forno. Quest’antica ricetta è seguita ancora oggi, tant’è che ha ottenuto la DeCo. Per la fortuna di tutti i golosi la torta di patate si può gustare tutto l’anno nel territorio comunale di Farini, venduta in tutte le gastronomie

La polenta con le patate è una delle ricette più tradizionali della cucina contadina. Preparata con farina di granoturco, farina bianca e aggiunta di patate bianche di montagna, è un piatto povero ma molto sostanzioso. Facile e veloce da cucinare, la polenta di patate si sposa benissimo con il sugo di funghi, ma anche con i salumi e i formaggi nostrani, per diventare così un ottimo piatto unico. n


Da sapere

Soppressata:

il salume piu’ adatto al gusto cinese. di Ma Shuying - Scienze Gastronomiche

In un paese come l’Italia le tipologie di salumi sono veramente varie, cambiano a seconda dei territori, dei climi, delle storie e delle culture. Invece all’estero non è cosi chiara la classificazione: per esempio in Cina con il termine 萨拉米 (salami) si intende quasi tutti i tipi di salumi. Oggi andiamo a scoprire un salume specifico: la soppressata. Perché la soppressata?

fase di essiccazione, dandogli la caratteristica forma appiattita. È riconosciuto come prodotto agroalimentare tradizionale della Basilicata e da alcuni documenti storici si apprende che questo salume viene prodotto in questa regione da almeno tre secoli. Quasi tutte le regioni italiane hanno però la loro soppressata e viene chiamata

in modi diversi, come sopressata o soprassata a seconda delle zone (in Nella storia e cultura gastronomica toscana capofreddo, ma l’impasto è cinese il consumo della carne suina differente). La soppressata più famoassume un ruolo molto importante, sa è quella calabrese che è l’unica ad per cui anche in Cina ci sono numeroaver ha ottenuto la DOP (Denominasi tipi di salumi che sono nati per conzione di Origine Protetta). servare la carne fresca come nella La carne utilizzata per produrre la storia gastronomica italiana. L’obiettisoppressata è carne di suino fresca vo è simile, i metodi di preparazione tagliata rigorosamente a “punta di pure, ma le modalità di consumo e coltello”, in modo che la carne non i gusti cinesi sono piuttosto diversi perda le proprie proprietà organoda quelli italiani: innanzitutto in lettiche anche dopo la pressatura. Cina non esiste la cultura di consuLa soppressata è preparata con tamare carne cruda, anche se i salugli nobili di parti del suino come: mi sono stagionati, per i cinesi prosciutti, spalle, rifili di pancetta sono sempre crudi e per questo e lardo tenero. La carne così tamotivo i salumi cinesi prima di esgliata viene condita con sale, pepe sere portati a tavola vengono cucigrosso e peperone macinato in nati sempre. Invece i salumi italiapolvere. Successivamente tutto il ni sono destinati ad essere consupreparato viene inserito in un bumati crudi e spesso la morbidezza, dello proveniente dall’intestino caratteristica tipica della carne crasso, ben lavato con acqua e licruda, viene apprezzata molto. La mone e messo a mollo. Una volta consistenza della soppressata è È la soppressata calabrese di maiale nero riempito il budello viene forato abbastanza compatta grazie alla dell’azienda Romano (di Acri, in provincon uno spillo e legato a mano. Il sua modalità di preparazione parcia di Cosenza) a meritare il vertice della tutto viene poi lasciato asciugare ticolare. Sarebbe il salume più classifica CIS (Campionato italiano del all’aria, durante questa fase avvieadatto al gusto cinese anche se Salame) 2014. Questo è un prodotto ne la pressatura che conferisce il consumato senza fare prima un biologico, senza conservanti e addittivi, nome al salume. Nella fase finale trattamento termico. viene usato solo la carne e il grasso del le soppressate vengono lasciate La soppressata è un insaccato siprosciutto di solo suino nero autoctono stagionare. mile alle salsiccie tradizionali. Il calabrese allevato al pascolo. A parte le Un eccellente esempio è la Sopnome della Soppressata deriva dal caratteristiche tecniche, anche quelle pressata dolce dell’Azienda Agridialetto lucano: “sapursat”, “suborganolettiche sono eccellenti: colore cola Romana che si è posizionata bursata”, “soperzata”, dal verbo rosso scuro, poco grasso e con una consial primo posto alla 9°Edizione del soppressare (stringere con sopstenza magra e compatta, molto profu“Campionato Italiano del Salame”. pressa), cioè l’azione di pressione mato, saporito e aromatico, leggermente n compiuta mentre il salume è in speziato.

La migliore Soppressata dell’ Italia

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Imprese del cibo

Maribrin, un’azienda “che ci mette la faccia” di Marta Consonni - Scienze Gastronomiche

Spesso restiamo delusi dopo aver mangiato pesci considerati pregiati come i branzini o le orate: sono infatti quasi sempre d’allevamento. Ma i pesci allevati sono sempre mediocri? No, dipende da cosa mangiano e dalla qualità dell’acqua: a Brindisi, per esempio, troviamo pesce buono anche se allevato in vasca. «Da sempre ci dedichiamo all’allevamento di spigole (branzini) e orate perché sono specie molto richieste dal mercato locale, hanno un’altissima qualità e inoltre (soprattutto l’orata) sono tipiche dei mari italiani», così si presenta Licinio Corbari, uno dei due titolari di Maribrin, un’azienda di allevamento ittico situata nella zona industriale di Brindisi, in periferia, a ridosso delle saline. Maribrin non è la sola ad allevare spigole e orate nel bacino mediterraneo. Ci spiega Licinio che Grecia e Turchia sono ad oggi tra le maggiori concorrenti sul mercato in quanto offrono lo stesso prodotto a costi nettamente inferiori. Ciò è possibile perché queste aziende straniere adottano politiche di “minima spesa, massima resa”, mano d’opera sottopagata, nessun investimento nello sviluppo e i controlli da parte delle autorità competenti sono occasionali e poco approfonditi. Ciò ovviamente va a discapito della qualità finale del pesce che sarà mediocre. Diametralmente opposto è il concetto di lavoro di Maribrin che investe prioritariamente sulla qualità della sua merce. Una scelta fruttuosa poiché tutti i mercati del pesce brindisini vendono il loro prodotto. Ma cosa fa la differenza per ottenere un pesce di alta qualità? «Noi pratichiamo – spiega Licinio - quella che viene chiamata “acquacoltura marina a ciclo continuo”, ossia una tecnica di allevamento in vasche a terra contenenti acqua di mare che permette di ottenere un pesce di elevata qualità partendo da uova depositate e fecondate in loco. L’acqua è prelevata in mare a grande profondità e viene convogliata continuamente nelle vasche così da non creare ristagni. Inoltre spigole e orate sono 140

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pesci molto esigenti, necessitano di un habitat sano e pulito per crescere al meglio. Per questo le acque in vasca sono costantemente irrorate di ossigeno puro».

L’habitat da solo non fa il pesce! Maribrin, oltre ad avere uno stabilimento conforme alle norme di legge che permette di creare condizioni di crescita favorevoli, fornisce ai propri pesci un’alimentazione sana e corretta. Le orate e le spigole sono predatori che si nutrono principalmente di piccoli pesci, molluschi e crostacei, così, grazie a un’intensa attività di ricerca e sviluppo, Maribrin ha studiato una dieta completa e bilanciata il più possibile fedele a quella naturale del pesce, a partire da prodotti ittici di elevata qualità. Inoltre è attualmente in corso una ricerca sull’utilizzo dei nutraceutici, ovvero alimenti funzionali, nell’alimentazione dei pesci, in particolare licopeni e oleuropeina, con lo scopo di ottenere un prodotto ad alto valore nutrizionale per il consumatore. Il licopene è un composto appartenente al gruppo dei carotenoidi, in particolare ai caroteni, ossia idrocarburi che si trovano nelle piante. I carotenoidi, oltre a essere dei pigmenti svolgono un ruolo importante nei meccanismi anti-ossidativi combattendo i radicali liberi. L’oleuropeina è

Vivaria antistanti la Villa di Tiberio


I vivai degli antichi Romani «...il lusso dei ricchi arrivò a chiuder il mare e a imprigionare lo stesso Nettuno» (Lucio Giugno Moderato Columella, “De Re Rustica” VII,16). Le tecniche di allevamento adottate da Maribrin hanno radici antiche. Dopo la conquista di Cartagine, Roma divenne una grande potenza marittima e iniziò ad allargare i propri confini geografici. Questo permise di avere a disposizione più pesce di mare, consentendo a chi se lo poteva permettere di affinare il proprio gusto. In poco tempo i ricchi riconobbero e apprezzarono la diversa qualità tra pesce di mare e di acqua dolce, lasciando quest’ultimo per il popolo. Consumare pesce di mare divenne ben presto uno status symbol tra i ricchi per dimostrare l’elevato ceto sociale. Il problema maggiore però era l’alta deperibilità dell’alimento. Nascono così nella Roma Imperiale del I secolo le prime forme di pescicoltura: si iniziarono a chiudere parti di mare per creare stagni e piscine, i vivarium. La Villa di Tiberio a Sperlonga fu una delle prime ad avere i vivarium. Allevare pesci e molluschi nelle ville sulle coste

Il vivarium nella villa di Tiberio a Sperlonga (Lt)

divenne una moda a cui i patrizi non potevano rinunciare, nonostante i costi di mantenimento dell’impianto fossero elevatissimi. Manie di grandezza diedero vita alla costruzione di dighe sotterranee e canali comunicanti con il mare così che le maree favorissero il ricambio di acqua nelle piscine. Nel tempo le strutture adibite alla piscicoltura situate sulla costa laziale e campana divennero di alto livello ingegneristico con percorsi obbligati per i pesci che venivano allevati intensivamente, la divisione in vasche, accorgimenti per il ricambio dell’acqua ecc. Inoltre la costruzione delle piscinae accresceva il valore e l’importanza degli edifici attigui. Lungo il litorale tirrenico, tra Tosca-

na e Campania, si trovano ancora resti di numerosi vivaria che, anche se con caratteristiche diverse, presentano numerosi elementi comuni: pianta quadrangolare, scavati nella roccia o costruiti in muratura e moli frangiflutti ad arco che avevano lo scopo di smorzare l’impeto delle onde. Col tempo si formarono dei veri e propri allevamenti costituiti da tante vasche collegate tutte a una centrale adibita alla pesca. Il pesce meno pregiato, le interiora e gli scarti non venivano buttati ma messi in recipienti a macerare per fare il garum, una salsa di pesce rancido di cui i romani andavano ghiotti. n

Il personale che gestiva i vivaria si muoveva tra una vasca e l’altra mendiante ponteggi o piccole imbarcazioni.

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un componente polifenolica dell’olio da olive, anch’essa ad azione antiossidante. Queste molecole funzionali una volta entrate nell’organismo del pesce si legano ai tessuti e diventano così disponibili per chi li mangia. Tutte queste buone norme di allevamento permettono a quest’azienda brindisina di assicurarsi un prodotto eccellente.

Pesce ipercontrollato Per ora il mercato di riferimento è solo quello locale: «Vendiamo solamente a grossisti e commercianti pugliesi. Uno dei nostri punti di forza è proprio la vicinanza dal luogo di produzione a quello di destinazione, siamo un’azienda a km0. Il pesce appena pescato viene messo sotto ghiaccio in cassette di polistirene, sigillato, etichettato e spedito subito. In questo modo il pesce arriva freschissimo sul banco del mercato». Le norme di legge italiane riguardo all’etichettatura prevedono che venga indicato solamente il nome del pesce, il sistema di allevamento e la provenienza; Maribrin, forte della sua qualità, inserisce in etichetta anche il proprio marchio. Non meno importanti sono i controlli ufficiali da parte delle autorità competenti che sono una discriminante a favore del prodotto italiano. Il nostro allevatore ci informa che in azienda i controlli sono all’ordine del giorno, ricevono ispezioni dai NAS, dall’ASL, dal Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri (NOE), dal Servizio Vigilanza Anti-frode Doganale (SVAD), dall’Autorità portuale di Brindisi e da molti altri. A confermare la buona riuscita di tutto questo lavoro

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basta aggirarsi tra i banchi del mercato o fare un assaggio in qualche ristorante della zona.

L’ovodeposizione nelle vasche Nell’acquacoltura marina in vasche a terra la tecnica a ciclo completo consente di produrre pesce partendo direttamente da uova depositate e fecondate in loco. Una volta conclusi diversi cicli riproduttivi, gli esemplari selezionati per la riproduzione vengono pescati e sostituiti con dei nuovi “genitori” più prestanti. Le larve liberatesi dalla schiusura delle uova crescono in apposite vasche diventando avannotti, “giovani pesci”, fino a raggiungere la taglia commerciale, tipicamente tarata sui 500 g, momento in cui il pesce viene pescato. Un altro fattore determinante per la qualità del prodotto è il tipo di impianto utilizzato. Maribrin adotta un particolare sistema di riflusso dell’acqua, detto a circuito aperto. Questa tecnica consente un ricircolo di acqua nuova continuo, in quanto questa viene prelevata dal mare a elevata profondità, sterile e a temperatura costante, e convogliata direttamente nelle vasche, le quali riversano l’acqua in eccesso in mare. Grazie a questo procedimento, funzionante 24 ore su 24, si evita la formazione di depositi organici dei pesci e di ristagni. Inoltre le vasche vengono costantemente irrorate di ossigeno puro (O2) per garantire al pesce un habitat ancora più sano e ideale per crescere. n


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La nostra storia

La civiltà degli stazzi di Paola Azara - Scienze Gastronomiche

Il Vermentino è giunto in Gallura da poco più di un secolo e ne è ora il vino simbolo, inserito tra le risorse di una terra dove vigna e pastorizia vanno da sempre a pari passo in un mondo di genti per cui i valori della vita di comunità sono tuttora sacri. La vitivinicoltura sarda ha origine lontanissima, testimoniata dal ritrovamento in vari siti archeologici di semi di vite risalenti al XV secolo, segno di una coltura millenaria. Il vitigno Vermentino, proveniente probabilmente dalla penisola iberica, è arrivato in Sardegna attraverso la Corsica alla fine del 1800, e dall’area nord-orientale, la Gallura, si è poi diffuso in tutta la regione, dove attualmente occupa una superficie di circa 3900 ettari. Questo vitigno, che ama il sole e “sente il mare” ha trovato in Gallura, area nord-orientale dell’iso-

una cussorgia diventata agriturismo

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la, l’habitat che esalta le sue peculiarità. I terreni di disfacimento granitico, il clima temperato caldo, con inverni miti e buone escursioni termiche nel periodo estivo, e la costante ventilazione risultano fattori fondamentali nel corredo organolettico del Vermentino di Gallura. È un vino bianco di grande personalità olfattiva e gustativa, con un carattere minerale deciso e sentori vegetali propri della macchia mediterranea. I vigneti sono parte integrante del paesaggio, dalle pianure più fertili vicino al mare sino all’alta collina, così il

vino è espressione autentica del territorio, il suo prodotto più nobile.

Una storia di povertà ma mai di miseria Per capire il terroir gallurese bisogna tornare indietro nel tempo, a quello che è stato il modello economico e culturale della società per centinaia di anni, e alla figura tipica del pastore-contadino. La Gallura è caratterizzata da una pastoralità stanziale, diversa rispetto al resto della Sardegna che è connotata da pastorizia transumante. Fino al Settecento i pa-


stori galluresi sono nomadi e ogni anno si spostano verso le aree costiere di pascolo invernale con tutta la famiglia, al contrario dei pastori transumanti che compiono le migrazioni stagionali da soli, mentre il resto della famiglia rimane nel villaggio. Tra il Settecento e l’inizio del secolo successivo, abbandonano la pratica degli spostamenti per stabilirsi definitivamente nei territori di pascolo. Fulcro della vita rurale era lo stazzo (dal latino statio, luogo di sosta, di dimora) che è contemporaneamente abitazione e spazio di lavoro e rappresenta una forma di economia autosufficiente dove le attività agropastorali soddisfano i bisogni familiari. È una struttura semplice, posizionata nei siti più soleggiati e riparati dalle intemperie, spesso vicino a una sorgente o un ruscello; all’esterno si trovano il forno e piccoli locali di servizio e poi l’orto, la vigna, la stalla, il pollaio, la porcilaia. La cussorgia, ossia l’insieme di più stazzi, è un’entità geografica e sociale basata su relazioni molto forti tra famiglie e vincoli di aiuto reciproco e collaborazione. A rappresentarli, l’usanza della manialìa secondo la quale è automatico e sottointeso l’intervento degli altri stazzi in caso di improvvisa necessità del vicino o di lavori che richiedono molte braccia come la mietitura, la tosatura, la vendemmia, la scorzatura del sughero e così via. È una prestazione d’opera gratuita, oggi a favore di uno, domani dell’altro. La vita negli stazzi è storia di duro

Uva Gallura

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vigneto in Gallura

lavoro, di povertà e mai di miseria, è soprattutto, però, storia di dignità e libertà e tanta generosità e accoglienza. Persino i girovaghi e i mendicanti trovano sempre ricovero e cibo caldo, anche per molti giorni, in cambio di lavoretti o racconti di altri luoghi. La donna partecipa alla gestione dello stazzo a tutti i livelli e gode di parità economica, potendo anche ereditare la proprietà come i maschi; inoltre, è la prima a fruire dell’alfabetizzazione a opera dei maestri itineranti.

Il vino dei pastori Il rito annuale della vendemmia è l’evento per eccellenza, simbolo di gioia comune, che rompe l’isolamento e la solitudine del nucleo familiare dello stazzo e lo mette in contatto con l’intera comunità. Giovani e anziani, donne e uomini, lavorano fianco a fianco in allegria: tutti sono contenti di stare insieme, dal ragazzo che carica le ceste di frassino o le plance di sughero piene di grappoli, al vecchio che guida il carro a buoi bardato a festa. Lungo i filari d’uva e a tavola, na146

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Sughere, albero simbolo della Gallura


scono amicizie, amori, si cancellano rancori e si concludono affari. Accantonata per una volta la frugalità quotidiana, la condivisione del cibo e del vino avviene nel segno dell’abbondanza secondo la regola per la quale chi più ha, più dà. Il pastore-contadino ha un rapporto speciale con la terra, che ritiene un privilegio e che considera sua anche se non la possiede, perché la lavora e la conosce più del padrone. È consapevole che la sopravvivenza dipende dalle sue capacità di singolo, dalla sua intelligenza, dall’allenamento alla fatica. Organizza il lavoro nell’assoluto rispetto dei cicli della natura, inserendosi nell’alternanza di stagioni e fenomeni atmosferici con la concatenazione di fasi produttive e rotazioni delle colture, in una continua lotta con la macchia mediterranea che invade il campo appena lasciato a riposo. Ogni luogo è produttivo e importante per la sua autonomia, pure l’incolto che offre cibo per le capre e gli consente di cacciare e fare legna. Il Vermentino di Gallura è testimone di quell’antica civiltà, di quella filosofia di vita, è messaggero di quell’aria, di quei silenzi, di quei colori, di quelle poche e bellissime cose di un mondo lento. Oltre al Vermentino, che qualifica l’intero territorio, esistono altri vitigni tipici dell’areale come il Moscato di Tempio, il Nebbiolo di Luras, il Muristellu, il Ritagliadu, la Caricagiola.

un antico stazzo

ture locali associate, per creare un legame con il cliente e rendere il consumo un’esperienza emozionale. Lo sviluppo turistico ha comportato lo spopolamento delle campagne e l’abbandono degli stazzi ma l’attacca-

mento alla terra, il senso di appartenenza alla comunità, i valori della solidarietà e dell’ospitalità contraddistinguono, ancora oggi, la gente di Gallura. n

Il Vermentino oggi Le cantine, grazie anche al crescente interesse professionale dei giovani verso il settore del vino e la conseguente disponibilità di figure preparate e appassionate, puntano sempre più alla ricerca della qualità in tutti gli ambiti dell’attività aziendale: dall’allevamento dei ceppi alla vendemmia, dal processo di vinificazione all’imbottigliamento di alto design. Non potendo competere con l’enologia mondiale sulla quantità e sul prezzo, devono proporre prodotti con gusti differenziati, personali e riconoscibili, frutto delle zone d’origine e delle cul-

Qualificata rappresentanza di Vermentino di Gallura

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Parliamone

Masanobu Fukuoka

e la rivoluzione del filo di paglia di Michela Corradossi - Master Comet

Il messaggio dell’agricoltura naturale di questo “innovatore” nipponico potrebbe “rinnovare” il rapporto tra l’uomo e la terra più che “innovare”. Ma sarebbe necessaria una maggiore consapevolezza del consumatore. Quella di Masanobu Fukuoka (2 febbraio 1913-16 agosto 2008) è una storia di avventura, esplorazione e cambiamento. Una storia che ha portato il botanico e filosofo giapponese a ideare un metodo di coltivazione ri-

sempre più artificiali desideri dei consumatori. Costoro, non avendo più un contatto diretto con la terra, hanno sempre meno conoscenza delle origini del cibo, così possono essere manipolati in modo da far loro scegliere

nella storia dell’agricoltura e di una nuova concezione del suolo, diventato mero strumento di incubazione per le radici e sottoposto a irrigazioni continue, fertilizzazioni chimiche e trattamenti fitosanitari. Tutto questo

voluzionario con cui è stata messa in discussione l’intera visione dell’agricoltura, oggi sempre più legata alle esigenze del mercato. A detta dell’autore, basta dare un’occhiata ai banchi frigo del supermercato per rendersi conto della situazione attuale: la scelta di ciò che oggi viene coltivato – tipi di frutta e verdura e loro varietà - non si ispira più ai ritmi della natura e alle caratteristiche pedoclimatiche di ogni territorio ma preferisce strizzare l’occhio alle “tendenze” del momento e ai

ciò che mangiano come scelgono un telefonino o un detersivo, ovvero in base agli ammiccamenti degli spot o a “offerte speciali” più o meno veritiere. Tradizioni locali e “vocazione” naturale di un territorio sono sempre meno importanti, tanto che non si parla più di “cultura” ma solo di “coltura”. Quali sono le conseguenze di queste scelte? Ne “La rivoluzione del filo di paglia”, Fukuoka narra di una perdita di circa il 90% delle varietà coltivate

genera cambiamenti importanti anche nel mercato del lavoro: per coltivare, infatti, c’è sempre meno necessità di operatori, resi superflui da una tecnologia che si sta progressivamente sostituendo all’uomo.

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Perdita dei ritmi naturali L’agricoltura vive oggi proprio quella deriva che Masanobu Fukuoka ha cercato per tutta la vita di evitare. Nato in un piccolo villaggio, da giovane Fukuoka andò a Yokohama per seguire la carriera di microbiologo.


Divenne specialista in malattie delle piante e lavorò in un laboratorio come ispettore agricolo doganale, ma dopo alcuni anni decise di tornare alle sue “radici” trasferendosi nella fattoria di famiglia dell’isola di Shikoku per coltivare mandarini. Stanco della progressiva industrializzazione che stava uccidendo l’antica cultura contadina giapponese, Fukuoka comincia uno studio approfondito dei sistemi di agricoltura biologica e compatibile, applicando alcune sue intuizioni alla coltivazione quotidiana. Il suo metodo, che prende avvio nel 1938, s’ispira alla filosofia del “non fare” e al concetto del Mu, nucleo dell’insegnamento del Buddhismo Zen. Una visione per cui la vita non è lotta né fatica, né un mezzo per raggiungere chissà quali obiettivi. La vita è un fine e come tale va vissuta e coltivata. Proprio come la terra: cambiando il modo di coltivare il nostro cibo, infatti, cambiamo anche il nostro cibo e con esso la società e i suoi valori. Fukuoka cerca di spiegare con i fatti le sue teorie sull’agricoltura naturale, cooperando con la natura e lavorando prima con i mandarini poi nei campi di riso fino alla coltivazione di ortaggi, cereali e agrumi e seguendo quelli che secondo lui sono i quattro pilastri dell’agricoltura naturale: - nessuna lavorazione, ovvero niente aratura né capovolgimento del terreno perché la terra si lavora da sé

grazie all’azione di penetrazione delle radici e all’attività dei microrganismi e della microfauna del suolo; - nessun concime chimico né composto preparato in quanto le pratiche agricole oggi più diffuse finiscono per impoverire il suolo di sostanze nutritive essenziali e portano a un esaurimento del terreno; - nessun diserbo delle erbacce che hanno un ruolo nella costruzione della fertilità del suolo e nell’equilibrare la comunità biologica; - nessuna dipendenza da prodotti chimici…la natura lasciata fare è in equilibrio perfetto. Fukuoka riesce a coltivare una grande varietà di piante su uno stesso appezzamento e la fertilità del terreno aumenta sempre più, stagione dopo stagione, ottenendo anche due raccolti nello stesso anno. In sintesi, è proprio attraverso il “filo di paglia”, simbolo della Permacultura e dell’agricoltura naturale, che l’autore spiega in maniera molto semplice e al contempo pratica ed efficace che è possibile fare attenzione ai rapporti fra tutte le cose, alle cause e agli effetti. Con questo suo approccio e con i suoi ideali, in 50 anni di effettivi e straordinari risultati, Fukuoka è riuscito a mettere in dubbio tutte le certezze sia dell’agricoltura tradizionale sia di quella scientifica, mettendo in luce l’importanza rivestita dal legame tra l’uomo e la terra. n

Cos’è la Permacultura La Permacultura (con cui il pensiero di Masanobu Fukuoka ha molte affinità, n.d.r.) è un processo integrato di progettazione che dà come risultato un ambiente sostenibile, equilibrato ed estetico. Applicando i principi e le strategie ecologiche si può ripristinare l’equilibrio di quei sistemi che sono alla base della vita. La Permacultura è la progettazione, la conservazione consapevole ed etica di ecosistemi produttivi che hanno la diversità, la stabilità e la flessibilità degli ecosistemi naturali. Allo stesso modo si applica a strategie economiche e alle strutture sociali. La Permacultura si può definire una sintesi di ecologia, geografia, antropologia, sociologia e progettazione (da www.permacultura.it, sito dell’Accademia Italiana di Permacultura) n

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La nostra storia

Quel porcello dei tempi di Dante di Michela Bergnoli - Master Comet

Dalla decadenza alla rinascita della Cinta senese, una razza antica di suino italiano che è sopravvissuta all’estinzione: conosciamo meglio questi maiali diventati delle star e che vivono liberi nei boschi di luoghi storici e ricchi di fascino. La Toscana è la terra dove i sapori di ieri si uniscono ai saperi di oggi. La prima testimonianza della presenza della razza di Cinta Senese ci viene fornita da Ambrogio Lorenzetti nel suo affresco del 1340, l’allegoria del “Buongoverno”, sito nel Palazzo Civico di Siena, dove si rappresenta un esemplare di tale razza. Molto più avanti, nel 1890, Giuseppe Dondi, titolare della Cattedra ambulante di agricoltura di Siena, parla della razza di Cinta senese come della “più antica razza italiana adatta al duro ambiente delle colline e della montagna toscana”, e ancora il professor Ettore Mascheroni, nel 1927, dichiara che “la carne è ottima e molto saporita e sono noti in commercio i prodotti senesi di salumeria, in particolar modo le salsicce, mortadelle e prosciutti, prodotti in notevole quantità da stabilimenti locali che di preferenza at150

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tingono la materia prima dalla montagna senese” (dal disciplinare della Dop Cinta senese). L’utilizzo di questa razza si afferma e si diffonde fino agli anni Cinquanta del secolo scorso quando si registra un forte calo della produzione in seguito alla diffusione in tutta Italia delle razze danesi e inglesi, più produtti-

ve rispetto alle nostre, che causarono una perdita definitiva di un enorme patrimonio genetico. Delle 21 razze esistenti solo 5 sono state salvate: la Cinta Senese, la Mora Romagnola, la Casertana, la Nera Calabrese e la Siciliana (dei Nebrodi). Gli allevatori di allora, spinti dal solo interesse riproduttivo della razza, incrociarono alcu-


CINTA SENESE? SI SE POSSIEDE QUESTE CARATTERISTICHE La taglia è media, con scheletro leggero ma solido, come sottili e solidi sono gli arti. La pelle e le setole sono di colore nero, con una fascia chiara continua che circonda il tronco all’altezza delle spalle includendo gli arti anteriori. I suini di Cinta senese Dop destinati alla macellazione vengono allevati allo stato brado/semi brado. All’inizio gli allevamenti erano concentrati nell’area senese, poi si sono diffusi nell’area del Chianti e in tutta la Toscana, fino all’altitudine di 1200 metri sul livello del mare. Queste aree sono caratterizzate da boschi misti, coltivati a foraggere da pascolo, e con la presenza di specie quercine idonee alla produzione delle ghiande. Questi ambienti difficili hanno portato a una selezione naturale degli animali: sopravvivevano solo i suini più resistenti e con capacità di adattamento. n

ni esemplari di Cinte Senesi in relativa purezza con le razze bianche. La scrofa di Cinta Senese veniva infatti incrociata con il verro Large White (razza giunta in Italia già nel 1873) per la produzione di maiali detti “Grigi” o “Tramacchiati”, ricercati dagli allevamenti del nord Italia per la produzione di suini pesanti dotati di rusticità, precocità nello sviluppo e qualità della carne molto elevata.

L’ha salvata la “toscanità” L’interesse per l’utilizzo in purezza della Cinta Senese, non più ai fini della sola riproduzione ma a quelli della valorizzazione della razza, è molto più recente. All’inizio c’è stato impegno di pochi appassionati e lungimiranti imprenditori che hanno intuito il valore della forte identificazione con un territorio “che vende” di una carne già di per sé

molto buona, oltretutto in un momento in cui era necessario trovare una risposta italiana ai prosciutti di ghianda spagnoli. Nel 1998 le amministrazioni pubbliche regionali hanno iniziato, così, un’importante attività di valorizzazione delle qualità della razza, in quanto espressione della tradizione alimentare toscana. Iniziò così, nei ristoranti, l’inserimento in menu come proposta di pregio di vari piatti con tagli di carne suina espressamente indicati come di Cinta. Nel 2000 è nato il Consorzio di Tutela della Cinta Senese con sede a Siena, e nel 2006 è stata richiesta la Dop (Denominazione di Origine Protetta). Con il Reg. 271 del 13 marzo 2012, la Commissione europea ha definitivamente approvato la Denominazione di Origine Protetta per le carni dei suini di razza Cinta senese allevati nella regione Toscana. La Dop “Cinta Sene-

se” è riservata esclusivamente alle carni derivanti da animali nati, allevati e macellati in Toscana e che rispettano i requisiti del disciplinare di produzione.

Un prosciutto eccezionale La carne di Cinta senese Dop si presenta di colore rosa acceso/rosso, ha una tessitura fine, una consistenza compatta, è venata di grasso in modo omogeneo e questo assicura gusto e sapidità alla carne. I prodotti ottenuti (oltre naturalmente alla carne fresca) sono quelli classici della norcineria toscana: Arista (Lonzino), Buristo, Capocollo, Finocchiona, Gota, Guanciale, Lardo

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stagionato, Pancetta, Prosciutto, Rigatino, Salame, Salsicce, Soppressata, ovviamente tutti con la precisazione “di Cinta Senese”. Per le caratteristiche del grasso, ricco di polinsaturi, la carne è superiore dal punto di vista del valore nutrizionale ma poco adatta per fare salami, che tendono a sgranarsi: i salumi che vengono meglio normalmente sono il prosciutto, il lardo e il guanciale. In particolare, il prosciutto si riconosce dalla zampa lunga e fine, la carne è salda e di colore rosso bruno, il grasso è bianco avorio o appena rosato. La salatura avviene nelle celle frigorifere dove le cosce rimangono per circa un mese. Nella fase successiva, la coscia viene pulita dal sale e viene messa a riposare in una cella apposita per la disidratazione. Infine i prosciutti vengono messi a stagionare in ambienti con buona circolazione di aria; il periodo di stagionatura va dai 12 ai 18 mesi. Il sapore sapido e deciso lascia trasparire note di nocciola e castagna. Tutti i prodotti di cinta senese, indirizzati alla fascia alta dei consumatori, sono venduti prevalentemente a gastronomie e ristoranti; soltanto alcuni produttori forniscono salumi alla grande distribuzione, mentre altri vendono anche all’estero (Giappone e nord Europa). Le aziende produttive gestiscono tutta la filiera, vendono al pubblico tramite i punti vendita aziendali e i mercati. n

SALUMI MA NON SOLO La carne di Cinta, grazie alla sua marezzatura (la distribuzione del grasso nella massa muscolare: più è intensa la marezzatura più la carne è di qualità), riesce a mantenere un buon livello di morbidezza anche se giunge a completa cottura, ovvero non è cotta al sangue o in rosa. Un piatto prelibato è il maialino cotto intero al forno, che, se sono ben controllati temperature e tempio, si presenta con una croccante cotenna e mantiene la carne morbida all’interno. Degli esemplari adulti sono molto apprezzate le braciole alla griglia oppure la lonza al forno. Ma la qualità di queste carni si presta a tutte le preparazioni classiche della cucina toscana (dolceforte, in casseruola, in scottiglia...), pur se nei piatti più semplici se ne apprezza meglio la specificità. n

Rostinciana di Cinta Senese

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STANDARDIZZAZIONE? NO GRAZIE NON ACCETTIAMO COMPROMESSI La produzione di Salame di Cinta Senese deve fare i conti con l’abbondanza di Omega 3 nel grasso della sua carne. Gli Omega 3 sono una categoria di acidi grassi essenziali, detti polinsaturi. Il grasso così è oleoso, per questo motivo ha una riduzione della temperatura di fusione. La presenza di Omega 3 causa una sgranatura della pasta del salame, Come evitare questo? Alcune aziende utilizzano addensanti come la polvere di latte o addirittura farine e fibre vegetali (di soia), abbondando pure in additivi chimici, zuccheri, lattosio, colture di fermentazione, correttori di acidità... a scapito della quantità di carne. Questa è la strada più semplice, quella che porta a ottenere un prodotto standardizzato, dello stesso colore, morbidezza, grana sempre e comunque. Ma oltre a queste realtà, ci sono ancora aziende che lottano per il proprio prodotto di qualità. La carne di Cinta senese non sarà mai tutta uguale, la qualità della carne e del grasso dipende da tanti fattori, diversi per ogni realtà e condizione di allevamento: l’offerta è parcellizzata in piccoli allevamenti sparsi sul territorio, ognuno di essi utilizza formulazioni, per-

Arista di Cinta Senese

centuali, pascoli diversi. Come risolvono loro il problema dell’Omega 3? Le pozioni magiche le lasciano agli altri, è una questione di esperienza, di controllo delle temperature del grasso e della carne e di monitoraggio del Ph (acidità). E se la carne non va bene per fare il salame? Si destina a un’altra produzione. n

NORCINI DAL 1800 Quello del norcino è un mestiere tramandato di padre in figlio. Lo sa bene Filippo Gambassi titolare dell’azienda Terra di Siena, nonché norcino, come lo era suo padre, il padre di suo padre, il suo bisnonno... La società della famiglia Gambassi ha origine antiche, il primo punto vendita è stato aperto alla fine del 1800 nel centro storico di Poggibonsi. L’azienda segue tutta la filiera di produzione, dall’allevamento alla lavorazione, e tutto viene realizzato secondo i metodi tradizionali. I prodotti, non solo di Cinta senese, vengono venduti nei quattro punti vendita dell’azienda. Dal 2006 esportano anche all’estero, in particolare in Giappone, Francia, Germania, Olanda e America. Nel 2013 è stato inaugurato il risto–macelleria Porkville (www.terradisienasalumi.com), un punto di ristoro ideale per organizzare merende, degustazioni, cene, barbeque. Inoltre ogni primo sabato del mese viene organizzato un evento diverso con una cena a tema. Un esempio concreto di come i sapori di ieri possono unirsi ai saperi di oggi. n Km vero 153


In primo piano

Rami di sole di Marica Lacitignola – Scienze Gastronomiche

Passeggiando per le campagne pugliesi, tra gli uliveti secolari, possiamo scorgere sulle pareti delle bianche masserie e delle case di campagna dei grappoli rosso fuoco; sono i “pomodori appesi”. Si tratta di pomodori Regina di Torre Canne, che da centinaia di anni sono coltivati e successivamente conservati in grandi mazzi, le ramasòle, “rami di sole” nel grigio dell’inverno. Nel Parco Naturale Regionale delle Dune Costiere, lungo l’antica via Traiana nel territorio dei comuni di Fasano e Ostuni (Br), a un passo dal mare è coltivato il pomodoro Regina di Torre Canne (dall’omonima frazione), una varietà antica di pomodoro da serbo che si conserva per tutto l’inverno senza subire trattamenti. Il suo nome deriva dalla forma a corona che assume il pedicello. Le bacche sono piccole e tondeggianti, il colore va dall’arancio al rosso, la buccia è piuttosto spessa, caratteristica essenziale per la conservazione. La pianta è irrigata con l’acqua dei pozzi artesiani (pozzi naturali in cui l’acqua sotterranea riaffiora autonomamente) situati in prossimità del mare, acqua lievemente salata che dona al pomodoro il caratteristico sapore acidulo-salmastro e ne aumenta la conservabilità e la resistenza ai parassiti. La germinazione avviene a febbraio, con successivo trapianto tra aprile e maggio. Nel mese di luglio, quando il pomodoro ha raggiunto la sua maturazione ottimale, si interrompono le irrigazioni per circa 2 settimane, poi inizia la raccolta; una parte è venduta e consumata fresca, un’altra è adibita alla produzione delle ramasòle, per godere fino all’estate successiva della sua bontà. Il “pomodoro con la corona” continua a sopravvivere nel corso degli anni grazie alla passione dei 154

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contadini di queste terre che lo coltivano di generazione in generazione.

La ramasòla I grandi grappoli rossi sono prodotti legando i pomodori tra di loro con il filo di cotone, per questo motivo è


essenziale che siano raccolti a mano, a uno a uno, avendo cura di lasciare il peduncolo attaccato, senza il quale non sarebbe possibile annodarli. Una volta ottenute, le ramasòle sono appese alle pareti o ai soffitti della casa (per questo sono chiamati po-

modori appesi), dove si conservano perfettamente fino alla primavera, mantenendo intatta la succosità e la bontà del pomodoro Regina. Il filo di cotone deve essere di buona qualità e molto resistente, considerando che il peso medio della ramasòla è di

3-4 kg. Questo prodotto ha alle spalle una lunga tradizione contadina. I pomodori erano raccolti nelle prime ore del mattino, poi si tornava in casa, per trovare ristoro dalla calura estiva: è allora che avveniva la magia. Tutte le donne della famiglia e talvolta di famiglie diverse si riunivano e con perizia e maestria preparavano le ramasòle, condividendo racconti e aneddoti della vita quotidiana. I pomodori appesi erano molto più di un prodotto alimentare, erano simbolo di ricchezza e saperli produrre era requisito essenziale che tutte le ragazze da maritare dovevano avere. Quelle che ne possedevano di più erano le più ambite del paese.

In cucina I “pomodori appesi” sono un ingrediente essenziale per la cucina pugliese. Sono usati in inverno e primavera in tutte le preparazioni a base di carne, di pesce e legumi in sostituzione dei pomodori freschi; immancabili sulla focaccia barese e come condimento per le friselle. Grazie all’inconfondibile sapore e alla naturale salinità donano a tutti i piatti un marcia in più e rendono particolarmente saporiti anche i piatti più semplici. n

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TORRE SAN LEONARDO

IL PARCO NATURALE Il Parco Naturale Regionale delle Dune Costiere, da Torre Canne a Torre San Leonardo fino a Egnazia, lungo l’antica via Traiana, si estende nella zona costiera tra le città di Fasano e Ostuni, in provincia di Brindisi. Tra i piÚ interessanti del sud Italia ha un forte ruolo di tutela ambientale e sviluppo sostenibile. Comprende numerosi habitat naturali: lame (solchi erosivi che convogliano le acque meteoriche verso il mare), estesi seminativi (pomodoro Regina di Torre canne, pomodoro Fiaschetta, Caroselli, Barattini, cime di rapa) protagonisti di progetti di tutela delle colture con metodi biologici, uliveti secolari, frantoi e antiche masserie; siti archeologici e di rilevanza storico-culturale, aziende produttive a Marchio del Parco e numerosi centri abitati. Itinerari turistici e laboratori didattici favoriscono la promozione del territorio e dei prodotti locali. http://www.parcodunecostiere.org n

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Uova col pomodoro Ingredienti per quattro persone: 4 uova 1 cipolla 16 pomodori appesi Olio extra vergine di oliva Sale Pepe Pane casereccio

Tagliamo la cipolla a julienne (listerelle sottili) e la facciamo imbiondire in padella con l’olio extra vergine di oliva, una volta dorata aggiungiamo i pomodori appesi tagliati grossolanamente e bagniamo con un po’ di acqua. Cuociamo a fuoco basso con il coperchio e avendo cura di controllare che l’acqua non evapori del tutto. Quando i pomodori sono cotti, posiamo le uova sulla base di cipolla e pomodoro. Lasciamo cuocere per pochi minuti, fino a quando l’albume sarà ben rappreso o comunque fino al grado di cottura dell’uovo desiderato (consigliamo di non far cuocere troppo il tuorlo). A fine cottura saliamo, pepiamo e serviamo caldo accompagnato da buon pane casereccio. n

SUL FILO DELLA TRADIZIONE Sin dal 1300 e fino a circa metà 1800, in Puglia si coltivava il cotone per l’artigianato domestico. Con gli anni, però, queste coltivazioni hanno perso superfici a disposizione, lasciando spazio alla produzione di pomodori e grano. Il cotone tuttavia non è scomparso del tutto, ancora oggi alcune aziende agricole continuano a mantenerne in vita una piccola produzione che è utilizzata per realizzare i fili con cui s’intrecciano le ramasòle.

I produttori Giuseppe Donnaloia Pezze di Greco (Br) Via Eroi dello Spazio, 75 Cell. 3396366732

Azienda Agricola di Moretti Gianbattista Pezze di Greco (Br) Via dei Pianeti, 24 Cell.3392212438

Pasquale Mastrochirico Fasano (Br) Via Egnazia, 37 Tel. 080 4420844/ cell.3392394321

Francesco Rubino Ostuni (Br) C.da Difesa di Malta Cell. 3408117605

Daniele Cosimo Mizzi Fasano (Br) C.da Lamascopone Cell. 3389527361

Masseria Giummetta di Giovanni Sabatelli Montalbano di Fasano (Br) C.da Ottava, 16 Cell. 347 0594894 / 360 425141

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Programma ore 9:00-13:00

La dieta mediterranea: l’alimentazione per il terzo millennio

con Mario Mancini, Università degli Studi di Napoli Elisabetta Moro, Università degli Studi Sant’Orsola Benincasa Alessandro Casini, Università degli Studi di Firenze Alessandro Pinto, SAPIENZA - Università di Roma Cristina Mora, Università degli Studi di Parma modera Furio Brighenti, Prorettore alla ricerca dell’Ateneo di Parma ore 13:00-14:00 consegna dei diplomi del Master COMET & celebrazioni per il decennale del Corso di Laurea di Scienze Gastronomiche apre i brindisi Andrea Fabbri, Presidente del Corso di Laurea di Scienze Gastronomiche e del Master COMET A seguire light-buffet tematico presentato da Antica Corte Pallavicina di Massimo e Luciano Spigaroli in collaborazione con Istituto Superiore G. Magnaghi di Salsomaggiore Terme

ore 15:00-18:30 La riqualificazione dell’enogastronomia italiana grazie a Luigi Veronelli con Gian Arturo Rota, Presidente del Comitato decennale L. Veronelli Alfonso Iaccarino, Chef Ristorante Don Alfonso 1890 Colomba Mongiello, Vicepresidente commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di contraffazione Riccardo Illy, Imprenditore Illycaffè Nichi Stefi, Filosofo e scrittore Paolo Tegoni, Università degli Studi di Parma modera Guido Stecchi, Presidente dell’Accademia 5T

Registrazione partecipanti: ore 8:30-9:00 Nota La partecipazione al convegno è libera, ma i posti disponibili sono limitati, per cui è consigliabile comunicare l’adesione prima possibile. Le richieste di iscrizione vanno indirizzate a: verokeys@gmail.com

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Direttore:

Guido Stecchi

Grafica:

Marco Bianchi

Progetto Editoriale:

NEI PROSSIMI NUMERI IN PRIMO PIANO

I salumi di carne equina di Marco Bellante La spalla cotta di S.Secondo di Davide Pagani Quella Salama piena di vino di Barbara Vezzani Susézza màta di Michela Corradossi El strigheto di Alberto Gulì La ciuiga e... Mac Donald di Monica Magnaguagno ITINERARI DEL GUSTO

Cercatori d’olio in Toscana di Barbara Vezzani Dalle acciughe la salsa “globale” di Giorgio Maria Zinno SCELTE DI VITA

Ritorno al rifugio di Naomi Pavesi “Il mio è il lavoro più bello del mondo!” di Cosetta Vandelli Mangiare l’immagine di Nicola Spagnuolo Chef per migliorare la lingua di Martina Marrella LE CATTEDRALI DEL GUSTO

Nella dimora dell’imperatrice di Paolo Faraj DA SAPERE

Aceto balsamico: quello vero è il tradizionale! di Gualtiero Pagani PARLIAMONE

Una filiera per la carne di caccia di Laura Scanu LA NOSTRA STORIA

Onore al porco di Paola Azara La fabbrica di ghiaccio di Marica Lacitignola Il pesto di cavallo di Matteo Bonfini RICETTE E DINTORNI

La Cassoeula di Nonna Piera di Clarissa Salafia 160

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Associazione Glocaldev


Un’idea sul cibo, parla di vita. Condividiamola.

www.edizionidellarco.com www.glocaldevprogetti.wix.com/glocaldev



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