Diogene Magazine

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Dicembre 2010 - Febbraio 2011 Anno 5

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www.diogenemagazine.eu

Q U O T I D I A N A

Danilo Dolci Lady Gaga John Barry Trimestrale – Poste Italiane spa – Sped in A.P. - D.L 353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1, DCB-C1-FI CM X0917F

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D O S S I E R

Il culto di Maria I L

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John Stuart Mill I L

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La società della prevenzione


Nel prossimo numero Filosofia nera La modernità è nata non solo con la scoperta delle Americhe, ma anche con la deportazione degli schiavi dall’Africa alle piantagioni e alle miniere del Nuovo Mondo. È una storia che arriva fino a noi, un dramma da cui nasce la diaspora nera e la moltiplicazione delle comunità afro o mulatte in tutti i continenti. Lato oscuro della mondializzazione, spesso sottaciuto o minimizzato, resta una ferita aperta nell’autorappresentazione delle gloriose e progressive sorti. Senza dimenticare questa ferita, ma guardando al futuro, si tesse oggi il dialogo interculturale fra intellettuali e artisti figli della diaspora. Uno di questi, Paul Gilroy, parla di Atlantico Nero per definire il fermento musicale, filosofico e sociologico da cui scaturiscono il reggae, la black theory e i cultural studies, in un gioco di richiami fra le varie sponde dell’Oceano. Dall’Africa agli Stati Uniti, dai Caraibi a Francia e Inghilterra, il “pensiero nero” riflette sulle condizioni dei pronipoti degli schiavi, sulle nuove modalità di discriminazione, sulle difficili forme di soggettività e solidarietà di una non-comunità. Il reggae, ibridando tradizioni africane e metafore bibliche, chiama Babilonia il neoliberismo globalizzato che paga stipendi da fame alla manodopera nera per pulire, ordinare, rassettare Wall Street, le sedi delle multinazionali e i centri della finanza transnazionale, insomma i punti nevralgici dell’ordine economico mondiale. Paragonando quindi i neri agli ebrei deportati nella capitale mesopotamica. Frantz Fanon, pensatore martinicano, pubblicò nel 1961, con una prefazione di Sartre, I dannati della terra, uno dei manifesti filosofico-politici dei movimenti contro la colonizzazione. La riflessione su questi temi è oggi portata avanti da filosofi africani come Achille Mbembe, autore del celebre Postcolonialismo: nel prossimo dossier di Diogene ricostruiremo il dialogo a più voci del pensiero nero contemporaneo. Judith Butler Con Scambi di genere, alla fine degli anni 80, Judith Butler destò dibattito e scandalo nella filosofia femminista: la sua tesi è che la Donna, come soggetto metafisico o politico, non esiste. E non solo: appellarsi all’universalità di una supposta identità femminile è una strategia reazionaria e controproducente nella misura in cui copre e nasconde la pluralità delle esperienze. Insomma, una critica corrosiva che l’ha consacrata fra le filosofe contemporanee più controverse.

La rivista Diogene è prodotta dall’Associazione culturale senza scopo di lucro Diogene Filosofare Oggi, il cui scopo sta nel diffondere un nuovo approccio verso la filosofia valorizzandone le connessioni con il mondo contemporaneo e la vita quotidiana. L’associazione è autonoma, indipendente e responsabile delle scelte redazionali.

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Periodico Trimestrale Anno 5, Numero 21 Dicembre 2010 - Febbraio 2011 Autorizzazione n. 617 del Tribunale di Pavia, 30/05/2005 Editore Giunti Editore S.p.A. Direttore responsabile Giorgio Boatti Direttore Ubaldo Nicola Redazione Via Cardano 34 -27100 Pavia Tel. 0382.539413 E-mail: redazione@diogenemagazine.eu Siti: www.diogenemagazine.eu e www.filopop.com Redazione Cesare Del Frate (caporedattore), Maddalena Crudeli, Francesca Bigi, Maurizio Costa, Debora Da Dalt, Francesca Facioli, Serena Magnani, Francesca Nicola, Martina Pasotti,Manuela Montessoro, Maria Maistrini, Chiara Pastorini, Alcibiade Pederini. Grafica e impaginazione Michele Magnani Fotolito e stampa Giunti Industrie Grafiche S.p.A. Prezzi per l’Italia Diogene. Filosofare oggi - Periodico trimestrale Un fascicolo € 6,00 Un fascicolo arretrato € 12,00 Abbonamento annuo, 4 numeri, € 19,20 Conto Corrente Postale 85687283 intestato a Diogene. Filosofare oggi, Firenze IBAN IT13X0760102800000085687283 Servizio Abbonati Tel. 199195525 (costo da telefono fisso 10 centesimi al minuto) oppure 055.5062424 dal lunedì al venerdì, orario continuato 9-18, Fax 055 5062397 - e-mail periodici@giunti.it Pubblicità Antonella Rapaccini (pubbli@giunti.it) Tel. 055.5062277; Fax. 055.5062543 Pubblicità interna Beatrice Bartolacci, Stefania Cinotti (grafico) Autori di questo numero Raymond John Barry, Nancy Bauer, Laura Bazzicalupo, Pasqualina Bonifacio, Paola Cantù, Cesare Del Frate, Deborah Lupton, Todd May, Brian Massumi, Tommaso Montagna, Francesca Nicola, Ubaldo Nicola, Martina Pasotti, Alcibiade Pederini, Chiara Quagliarello, Nikolas Rose, Marta Villa, Antonio Vigilante. © 2009 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze Via Dante 4 – 20121 Milano www.giunti.it – periodici@giunti.it


E D I T O R I A L E

Il rischio della salute

K Cesare Del Frate Caporedattore di Diogene.

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a filosofia del Novecento, da Bataille ad Heidegger, ci ha insegnato a guardare al corpo come parte essenziale dell’esperienza: siamo soggetti incarnati, viviamo il mondo respirandolo, toccandolo, udendolo e gustandolo, le vicende della carne sono tutt’uno con quelle dello spirito e del pensiero. Scrive Merlau-Ponty, in Fenomenologia della percezione: “Riflettere autenticamente significa darsi a se stesso, non come una soggettività oziosa e recondita, ma come ciò che si identifica con la mia presenza al mondo e agli altri come io la realizzo adesso. Io sono come mi vedo, un campo intersoggettivo, non malgrado il mio corpo e la mia storia, ma perché io sono questo corpo e questa situazione storica, quindi per mezzo di essi”. La medicina moderna nasce con l’autopsia, quindi l’esame del corpo morto e di organi isolati, grazie a un’opera di analisi che letteralmente scinde le parti e le funzioni come premessa allo studio. Similmente, il medico vede del paziente, più che la persona, l’organo malato; da qui il problema della spersonalizzazione dei degenti cui si cerca di por rimedio con i corsi sull’etica e sulla comunicazione per specializzandi e infermieri. La medicina, poi, diventa negli ultimi due secoli una scienza fondamentale negli stati nazionali, che moltiplicano i programmi di cura, d’igienizzazione delle metropoli, di gestione della salute del corpo nazionale: tutte cose che il filosofo Michel Foucault riassume nel concetto di biopolitica, cioè politica della vita stessa. In questa storia i dispositivi della prevenzione rappresentano una svolta, o meglio uno sviluppo ulteriore. Medicina e biologia iniziano a interessarsi, più che al singolo organo malato, alle classi di rischio, cioè a classificazioni che raggruppano vastissimi insiemi d’individui secondo i rischi cui sono esposti: ad esempio i fumatori, le donne in gravidanza, gli anziani, gli ipertesi, i diabetici, gli obesi. Ognuna di queste classi ha maggiori probabilità di altre di contrarre determinate malattie, o di soffrire di determinate disfunzioni: medicina e biologia si

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Isadore Posoff, Don't jay walk. Watch your step, manifesto per la prevenzione di incidenti automobilistici, Pennsylvania, 2009.

incaricheranno allora di prevedere, e quindi prevenire. Lo screening genetico, con tutto ciò che comporta per l’etica riproduttiva, è forse la più avanzata ed emblematica tecnologia preventiva. Persino la distinzione fra normale e patologico risulta alterata: se ci concentriamo sui rischi potenziali, invece che sulla malattia in essere, siamo tutti a rischio, cioè tutti potenzialmente malati, quantomeno in un futuro più o meno lontano. All’ubiquità del pericolo corrisponde l’imperativo della prevenzione: se nessuno può dirsi al sicuro, ognuno e ciascuno dovrà adoperarsi per prevenire tutte quelle patologie su cui quotidianamente siamo informati dai media. Mai come oggi sorvegliamo con attenzione quasi maniacale i nostri stili di vita, abitudini alimentari, pratiche igieniche. L’amministrazione della salute acquista una tale importanza da assurgere a questione etica primaria: ammalarsi è quasi sintomo d’incuria, disattenzione, incapacità. L’esempio più noto è quello degli obesi: la mancata prevenzione viene spesso equiparata a un attentato alla propria salute, un farsi male da soli che suscita biasimo morale. Fin qui ho seguito le teorie più pessimiste sulla cosiddetta società della prevenzione: da un altro punto di vista, i costanti richiami medici e specialistici possono produrre una forma più consapevole di rapporto col proprio corpo, e un’etica riflessiva della cura di sé. Promessa o incubo, il paradigma della prevenzione ci accompagnerà sicuramente ancora a lungo. K

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Editoriale Il rischio della salute

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Blob Vite medicalizzate Forum Il governo della vita Politiche dell’igiene Profilassi e società Cesare Del Frate

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La società della prevenzione Il governo della salute e la privatizzazione dei rischi Deborah Lupton

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La politica della vita stessa Medicina e politica Nikolas Rose

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La guerra contro i deboli Eugenetica liberale Alcibiade Pederini

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Eugenetetica greca Platone e la selezione degli individui Alcibiade Pederini

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Mondi volatili, corpi vulnerabili Etica della fragilità Nigel Clark

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Il governo dei corpi e degli affetti Il modello politico ed economico della biopolitica Laura Bazzicalupo

fondatrice di nazioni 45 LaDevozione e senso di comunità

Filosofia dell’emergenza Crisi e vita quotidiana Brian Massumi

e Grandi Madri 50 Archetipi Jung e il dogma dell’Assunzione

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Non è una fortuna L’esperienza della disabilità Pasqualina Bonifacio

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L’apparizionismo moderno Secolarizzazione e nuovi culti Ubaldo Nicola

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Prevenire o curare? Le ragioni del parto naturale Chiara Quagliarello

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Maria e le Alpi I sentieri della devozione Marta Villa

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La Madonna imperatrice Il culto mariano nasce a Bisanzio Ubaldo Nicola

Ubaldo Nicola

Ubaldo Nicola

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S O M M A R I O

In copertina: Leah Tiscione, Manifesto per la campagna di Ron Paul, 2008, cortesia dell’autrice.

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VITA

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MUSICA

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Filosofia di Lady Gaga Emancipazione o mercificazione? Nancy Bauer

ETICA

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F I L O S O F O

Filosofare in coppia. John Stuart e Harriet Taylor Un sodalizio intellettuale cementato dall’amore Ubaldo Nicola

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L’amicizia ai tempi dell’economia Come costruire rapporti autentici? Todd May

CINEMA

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Il gioco dell’attore Intervista a Raymond John Barry Tommaso Montagna

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Curarsi con la poesia Una sperimentazione educativa radicale Francesca Nicola

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Harriet and John Un rapporto inteso e paritario Francesca Nicola

del malocchio 88 Antropologia Cornetti, specchi, gatti e scale

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Sul conoscere le donne L’uso della logica per comprendere l’altro sesso John Stuart Mill

VITE ESEMPLARI

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Utilitaristi e femminismo Mill e Bentham sul voto alle donne Alcibiade Pederini La logica dell’asservimento Critica all’antisuffragismo Paola Cantù

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SUPERSTIZIONI

Martina Pasotti

maieutica di Danilo Dolci 91 LaUnonuova stile di vita radicale Antonio Vigilante POLITICA Grillo e il problema del pubblico 95 Beppe Limiti e contraddizioni del guru digitale Antonio Vigilante 5


Blob Vite medicalizzate

La bufala aviaria Il terribile flagello che avrebbe dovuto falcidiare il mondo intero, annunciato da alti allarmi ministeriali e servizi sugli apocalittici untori contemporanei, i maiali, l’influenza suina o H1N1, oggi viene denunciato come “uno dei più grandi scandali sanitari del secolo” da Wolfgang Wodarg, presidente della Commissione Sanità del Consiglio d’Europa: una vera e propria truffa costata miliardi di euro in prevenzione (vaccini e campagne stampa). Le inchieste giornalistiche del “Daily Mail” hanno ricostruito gli stretti legami fra un folto gruppo di dirigenti OMS e le case farmaceutiche a cui sono stati commissionati i vaccini. Secondo Wodarg: “Per promuovere i loro farmaci brevettati e i vaccini contro l’influenza le case farmaceutiche hanno influenzato scienziati e organismi ufficiali così da allarmare tutto il mondo: li hanno spinti a sperperare le ristrette risorse finanziarie per strategie di vaccinazione inefficaci e hanno esposto inutilmente milioni di persone al rischio di effetti collaterali sconosciuti per vaccini non sufficientemente testati”. La sifilide Una delle malattie su cui più insiste la prevenzione è la sifilide, che ha una lunga storia. Endemica ma poco virulenta nell’antichità, si è trasformata durante il Medioevo dando origine a gravi epidemie, la prima delle quali iniziò a Napoli nel 1495, a seguito dell’invasione francese di Carlo VIII. La risalita verso Nord dell’esercito diffuse il male prima in tutta Italia, poi in Europa fino al Medio Oriente, prendendo il nome di “mal francese”. A lungo si ritenne che la sifilide fosse stata portata nel vecchio continente dai marinai di Cristoforo Colombo: in realtà gli esploratori in6

contrarono in America unicamente un ceppo ancora poco virulento di sifilide, mentre in Europa la malattia era già non poco mutata. I consigli del governo americano Il Dipartimento della salute statunitense offre linee guida per la prevenzione fra cui: fare quotidianamente esercizio fisico e fitness, tenere una dieta sana comprensiva del giusto apporto di vitamine, minerali e proteine, dando la precedenza a frutta, vegetali, cibi poveri di grassi, evitare abitudini alimentari che possano portare all’obesità, vaccinarsi annualmente contro l’influenza, non fumare e moderarsi nel bere alcolici, in presenza di certi sintomi sottoporsi a test per la depressione, il diabete e registrare i test in un’apposita tabella temporale. L’astinenza è prevenzione? In una legge per la sanità pubblica, promulgata quest’anno, il Senato degli USA ha approvato un emendamento proposto dai repubblicani che reintroduce un finanziamento pari a 250 milioni di dollari per finanziare programmi che prevedono l’astinenza come metodo privilegiato di prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili. Nella precedente amministrazione Bush avevano promosso campagne scolastiche per l’astinenza come unico metodo sicuro di prevenzione, nonostante le numerose obiezioni degli studiosi. Lady Montagu Moglie dell’ambasciatore inglese a Istanbul, all’inizio del ’700 portò in Europa la prima forma di vaccinazione dal vaiolo. I medici dell’Impero Ottomano avevano sviluppato una tecnica consistente nell’inoculare frammenti di tessuto infetto nelle persone sane per

prevenire il contagio. Lady Montagu, che aveva contratto il vaiolo da giovane, fece inoculare suo figlio e inviò a sua sorella e ai suoi amici una descrizione dettagliata del procedimento. Quando tornò in patria, nel 1718, si adoperò per diffondere il sapere medico appreso. La rivolta del vaccino Nel 1902, il presidente brasiliano Rodrigues Alves decise di migliorare le condizioni igienicosanitarie di Rio de Janeiro, conferendo uno specifico mandato al direttore sanitario locale, Oswaldo Cruz. Il Congresso promulgò la legge della vaccinazione obbligatoria contro il vaiolo, e Cruz inviò le “brigate della sanità” in tutte le case di Rio de Janeiro. Nei confronti di chi avesse rifiutato il vaccino, le brigate avrebbero usato la forza. La situazione degenerò in una rivolta popolare aiutata da reparti militari ammutinati. Il governo ritirò la legge sulla vaccinazione obbligatoria. Una famiglia a dieta È il titolo del primo reality show italiano sull’obesità, iniziato a giugno su Sky: un dietologo si reca in famiglie con problemi di sovrappeso per cambiarne le abitudini alimentari. Negli Stati Uniti è da anni avviata una campagna di prevenzione dell’obesità, oggi classificata come malattia endemica, e proliferano programmi di informazione e di autoaiuto per le persone che soffrono di questo stato. Sempre negli Stati Uniti è nato il movimento di fat acceptance, che considera discriminatoria e infondata la patologizzazione dell’obesità, sostenendo che queste campagne preventive producono solamente odio e una stigmatizzazione ingiusta nei confronti delle persone grasse.

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Forum Il governo della vita

La prevenzione come forma di controllo C’è un governo degli altri, cioè il biopotere, e c’è il governo di sé. C’è una tecnologia di governo sugli altri e c’è una tecnologia di governo su se stessi. Come nell’analitica del potere anche qui c’è uno sdoppiamento tra due nozioni di governo che non possono essere separabili, ma sono sempre distinte. Per questa ragione, così come non è più pensabile un’analitica del potere senza un’analitica della soggettività, non è nemmeno pensabile un governo di sé senza un governo degli altri. Gli ultimi corsi che vengono immediatamente dopo “Nascita della biopolitica” e “Sicurezza, territorio e popolazione” sono ispirati a questa stessa duplicità. Questo significa che in Foucault emerge finalmente l’altra parte della politica che è quella della soggettività che Foucault chiama “etica” ma che in realtà è quello spazio di problematizzazione, di creazione di strategie, in cui gli uomini storicamente si conoscono come soggetti. Judith Revel

In terzo luogo, è perché le forme di sapere che modellano la conoscenza che abbiamo di noi stessi sono esse stesse sempre più biologiche, mediche ovviamente, ma anche più direttamente derivate dalla genomica e dalla neuroscienza, nelle loro versioni vulgate, nelle loro elaborazioni scientifiche e nelle modalità ibride che assumono nei discorsi profani della vita comune. E, in quarto luogo, è perché le nostre aspettative (i modi in cui disegniamo le nostre speranze di salvezza, l’avvenire di fronte a noi) sono esse stesse plasmate da considerazioni relative al mantenimento della salute e al prolungamento della vita. La gestione della salute e della vitalità, un tempo derisa come egocentrismo ossessivo o narcisistico, ha ormai raggiunto nella condotta di vita di tante persone un rilievo etico senza precedenti. Nikolas Rose

I rituali dell’igiene Lo sporco è innanzitutto disordine. Non esiste qualcosa come lo sporco in assoluto: esso prende vita nell’ottica dell’osservatore. Se noi evitiamo lo sporco ciò non vuol dire che lo facciamo per una vile paura. Né le idee che abbiamo sulla malattia rientrano nell’ambito del nostro comportamento verso la pulizia o verso l’astensione dallo sporco. Lo sporco è incompatibile con l’ordine. La sua eliminazione non è un atto negativo ma è uno sforzo messo in opera per organizzare l’ambiente. Nel dare la caccia allo sporco, tappezzare di carta, decorare, rassettare, non siamo spinti dalla paura delle malattie ma cerchiamo di riordinare in maniera positiva il nostro ambiente, adattandolo a un’idea. In questo nostro evitare lo sporco non c’è irrazionalità: c’è un’azione creativa, uno sforzo messo in opera per unificare l’esperienza. Mary Douglas

Etica e biopolitica Se l’antico potere sovrano sanciva la sua forza nel diritto di far morire e lasciar vivere, il biopotere moltiplica la vita, la ordina, la amministra e allontana la morte. A partire dall’età classica il potere non si esprime più attraverso il diritto di prendere, prelevare le cose, il tempo, i corpi, la vita stessa, ma sempre di più agisce in vista di un rafforzamento, di un'espansione delle forze, di un’ottimizzazione della vita che, come diritto del corpo sociale, si contrappone al diritto di morte con cui il sovrano si difendeva. La stessa questione della pena di morte, il fatto che sempre più difficilmente ma silenziosamente essa venga applicata, non è altro che un’ulteriore espressione della logica di un potere che gestisce la vita e che nella morte vede il suo limite e la sua contraddizione. Si tratta allora non di pensare una nuova politica della vita ma di praticare una vita politica, una vita in cui governo di sé e governo degli altri coincidano nell’esercizio di una cura che, in quanto relazione etica e politica, riattiva i principi kantiani della critica e dell’appartenenza. Chiara Di Marco

Nascita dell’etica somatica Se la nostra etica è diventata, sotto profili cruciali, somatica, questo è in parte perché è il nostro soma, o esistenza corporea, ad aver assunto rilievo e a essere problematizzato (in qualche misura almeno, il nostro genoma, i neurotrasmettitori), insomma la nostra biologia. In secondo luogo, è anche perché le autorità che formulano le regole del vivere, le cui ingiunzioni foggiano le nostre relazioni con noi stessi, oggigiorno includono non soltanto medici e promotori della salute, ma numerosi altri esperti del corpo, consulenti genetici, gruppi di consulenza, progetti per una migliore conoscenza pubblica della genetica e, naturalmente, bioeticisti.

Il corpo medicalizzato Per meglio capirla, il medico spersonalizza la malattia. Questa non è considerata come il risultato dell’avventura individuale dell’uomo in un luogo e in un tempo, ma come la debolezza anonima di una funzione o di un organo. L’uomo è vittima, di conseguenza, di un’alterazione che non riguarda che il suo organismo. La malattia è considerata come un’intrusa, nata da una serie di causalità meccaniche. Nella graduale elaborazione del suo sapere, la medicina ha trascurato il soggetto e la sua storia, il suo ambiente naturale, il suo rapporto col desiderio. David Le Breton

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L'alcool voilà l'ennemi, tavola murale scolastica del dottor Galtier-Boissière, 1895 circa, Ecomusée du Creusot-Montceau, Château de la Verrerie, Le Creusot, Francia,

Il vino? Un litro al giorno, ma no agli alcolici Verso la fine dell’Ottocento i danni prodotti dall’alcolismo erano studiati nelle scuole francesi come una materia specifica, accanto alla lingua e alla matematica. Come materiale didattico si usava ad esempio questo tabellone, elaborato dal dottor Galtier-Boissière. Fondato sulla pedagogia della paura, esso mostra lo stesso uomo prima e dopo il cedimento all’alcolismo. La trasformazione del vizioso è appariscente: la barba è incolta, la cravatta sparita, l’occhio inespressivo, la fronte segnata dalle rughe e la calvizie incipiente. Il degrado morale è evidente quanto quello fisico. Ancor più esplicita la trasformazione avvenuta all’interno del suo corpo, analiticamente descritta, organo per organo, al di sotto del duplice ritratto: lo stomaco è intaccato dalla gastrite ulcerosa, il fegato corroso dalla cirrosi epatica, il cuore è ridotto a un ammasso informe, i reni ingrossati e il cervello rammollito dalla meningite. Interessante è la distinzione fra le bevande naturali considerate benefiche, come il vino, il 8

sidro e la birra, elencate nella colonna a sinistra e contrapposte, sulla destra, alle bevande alcoliche industriali, le uniche a essere considerate nocive. Sono quelle prodotte dalla lavorazione delle radici di barbabietola, delle patate e del grano. Secondo la scienza dell’epoca, infatti, le bevande alcoliche prodotte con la fermentazione dell’uva, delle mele, delle pere, dell’orzo e del luppolo dovevano essere considerate alla stregua di medicinali: i maestri consigliavano gli studenti di bere almeno un litro di vino al giorno, di 12 gradi, dato per equivalente di 850 grammi di latte, 370 grammi di pane, 585 grammi di carne e cinque uova. Gli effetti ricostituenti attribuiti all’alcol fermentato sono illustrati dal quieto appisolarsi del topolino usato come cavia sulla sinistra, trattato con vino d’uva, mentre la crisi epilettica e il decesso finale del suo sfortunato collega sulla destra mostrano i tristi effetti dell’alcol ottenuto con il metodo della distillazione.

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© Ecomsée de la Communauté Urbaine Le Creusot.

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Politiche dell’igiene Dietro le pratiche igieniche e la gestione del rischio c’è molto di più di una semplice profilassi scientifica.

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uliamo e ripuliamo la cucina, facciamo la polvere, raccomandiamo ai figli di lavarsi sempre le mani prima di mangiare, andiamo in giro con l’amuchina in tasca, studiamo scrupolosamente la composizione calorica e i principi nutritivi di ciò che mangiamo: non c’è bisogno di arrivare agli ospedali o dal medico per parlare di prevenzione, perché in tutti questi riti quotidiani già insceniamo e mettiamo in pratica i precetti di quella che la filosofa Tamar Pitch ha chiamato “la società della prevenzione”, fatta di un misto di ansie salutiste, autoresponsabilizzazione, manie igieniste e fobie pandemiche. E non solo: la potenza del discorso sulla prevenzione ha ben presto travalicato i confini della sfera individuale e delle scienze della vita contagiando la politica e la gestione della sicurezza, basti pensare alla definizione stessa di “guerra preventiva” o alle strategie antiterroristiche di contenimento del rischio.

K Cesare Del Frate Caporedattore di Diogene.

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Purezza e pericolo La gestione delle pandemie, dalla suina all’aviaria, mostra bene la natura ibrida della prevenzione, che dispiega i suoi effetti nella gestione del flusso delle persone, delle merci, delle informazioni. Sia come individui che come società siamo continuamente chiamati a vigilare, esaminare dati, osservare e agire sulla base di allarmi proliferanti su rischi spesso invisibili o quantomeno di difficile identificazione. Ad esempio, per le pandemie le misure profilattiche maggiormente raccomandate da governi e istituzioni sanitarie sono sempre, e nientemeno, che lavarsi spesso le mani ed evitare luoghi affollati. La prima è chiaramente un’ovvietà lapalis-

siana, la seconda un’assurdità: non possiamo barricarci in casa, né evitare posti pieni di gente quali treni dei pendolari, piazze, ristoranti e cinema. I discorsi sulla prevenzione sono raramente basati su evidenze scientifiche corroborate, più spesso mischiano richiami emotivi, appelli generici e operazioni grossolane. Insomma, più che a motivi razionali e a tecniche efficaci, queste narrazioni si riferiscono a esigenze psicologiche, politiche e sociali. L’antropologa Mary Douglas, nel suo classico studio Purezza e pericolo, ci spiega che se non lasciamo le scarpe in salotto, e se ogni oggetto ha un luogo deputato nella casa, non è per evitare fantomatici pericoli di infezione, ma per mantenere e consolidare un’architettura morale: abbiamo bisogno di un mondo ordinato da abitare, e la trasgressione di tale ordine suscita ansie di contaminazione. Persino nelle norme d’igiene esiste una sottile linea fra il tenersi lontani da focolai infettivi e la tessitura di confini etici e simbolici. Ciò vale ancor di più per il governo sociale del rischio. Dalle rubriche salutiste dei rotocalchi fino ai programmi ministeriali di informazione, siamo perennemente sollecitati a una gestione oculata e quasi ossessiva del nostro corpo. Mai come oggi la salute, o meglio il salutismo, è stato tanto importante nella nostra personale esperienza quotidiana. Ciò ha vantaggi e pericoli: ci rende soggetti “riflessivi” e consapevoli, come direbbero i sociologi Ulrich Beck e Antony Giddes, ma ci espone anche a forme di controllo invasive, come denunciano i filosofi che a tal proposito parlano di biopolitica, cioè di politica che si prende in carico il governo della vita. K

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La società della prevenzione La crisi dello Stato assistenziale produce la privatizzazione dei rischi e politiche di governo della salute.

Frédéric Christol, L'alcool, voilà l'ennemi, poster della campagna contro l’alcolismo, 1910, Francia.

I K Deborha Lupton Insegna Culural Studies alla Charles Stuart University di Melbourne. 10

n passato, le strategie contro i rischi epidemiologici tendevano a mirare non alla modificazione dei comportamenti individuali ma alla trasformazione delle condizioni ambientali al fine di migliorare lo stato di salute generale. Così, per esempio, nel diciannovesimo secolo, nel tentativo di ridurre l’incidenza delle malattie infettive, l’azione sociale in campo sanitario ha concentrato i propri sforzi sulle condizioni igienicosanitarie della città, adottando misure che favorissero la qualità dell’aria e dell’acqua e ponendo mano al sistema fognario. Per quanto anche le società di oggi prestino attenzione alla salute ambientale, l’accento tende a cadere in primo luogo sulle scelte degli individui e sul loro stile di vita. Oggi, i fattori di rischio individuati dall’epidemiologia vengono

utilizzati in molti casi per esortare i cittadini a impegnarsi in direzione dell’autocontrollo. Così, per esempio, se le analisi statistiche identificano una certa categoria della popolazione come “ad alto rischio” di malattie cardiache, sulla base di alcune caratteristiche quali il sesso, l’età e la dieta alimentare, allora è probabile che i membri di quella categoria vengano incoraggiati a cercare di evitare i fattori di rischio da soli. Il governo a distanza Questa opera di sensibilizzazione non richiede necessariamente che gli individui incontrino medici o si sottopongano ad analisi diagnostiche ma è affidata piuttosto a campagne d’informazione dei mass media, le quali suppongono che le persone siano in grado di ricono-

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Il soggetto e le statistiche Ma a ben vedere, nell’approccio clinico, giocano oggi un ruolo importante anche le logiche del rischio incentrate sui grandi aggregati. I medici, per esempio, non vedono nei sintomi dei propri pazienti caratteristiche peculiari della loro specifica persona ma il segno della loro appartenenza a un contesto sociodemografico più ampio. Essi utilizzano, cioè, tipologie di rischio desunte da serie di dati di grandi dimensioni; applicano ai corpi dei propri pazienti le stime epidemiologiche sulla probabilità del manifestarsi di una certa

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condizione patologica all’interno di una popolazione particolare. Pur insistendo sulla natura individuale tanto della patologia quanto dell’intervento terapeutico, la logica della gestione del singolo caso, che è centrale nelle strategie cliniche, si intreccia perciò con la logica del-

l’epidemiologia e la sua attenzione per gli interventi indiretti sulle popolazioni. Quale che sia la logica del rischio impiegata, agli individui si chiede sempre più spesso di adottare modi di comportamento giudicati in grado di prevenire i rischi o di attenuarne gli effetti.

Alcolismo e classe operaia

Adolphe Willette, Lo schiavo volontario, manifesto della Ligue nationale contre l’alcoolisme, 1905 circa, Francia, © A.N.P.A.

scersi “a rischio” da sole e che prendano volontariamente provvedimenti volti a ridurre la propria esposizione al pericolo. Lo possiamo considerare un esempio di governo a distanza: anziché sull’intervento diretto, esso conta sul senso di responsabilità per la propria salute e sulla disponibilità ad adottare prassi d’autocontrollo. Un simile tipo di logica del rischio, quella della gestione del singolo caso, è caratteristico del trattamento terapeutico, o pratica clinica, degli individui considerati in qualche modo pericolosi o distruttivi per l’ordine sociale (fra cui i malati mentali, i senza lavoro, i malviventi, i disadattati, i poveri, i disoccupati di lunga durata). In questo caso, il calcolo del rischio consiste nella valutazione qualitativa dei tipi di pericoli che minacciano gli individui o i gruppi considerati a rischio. L’approccio terapeutico ricava le informazioni di cui ha bisogno dall’osservazione diretta dei singoli assistiti e dall’interazione con loro. Le sue fonti privilegiate sono perciò le interviste, le cartelle cliniche, i dossier. Una volta che il rischio sia stato valutato, i professionisti incaricati del caso (assistenti sociali, operatori sanitari, agenti di polizia) devono passare alla pratica. Le tecniche disponibili sono più d’una: organizzazione di gruppi di self-help con l’assistenza di un terapeuta, pratiche pedagogiche studiate per rieducare gli individui pericolosi e misure maggiormente coercitive, tra cui la detenzione, cioè l’allontanamento degli individui considerati fonte di rischio dal resto della società.

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Per tutto l’Ottocento l’alcolismo non fu considerato in Francia come una malattia curabile e diffusa fra tutti gli strati della società, ma una patologia acquisita per degenerazione ereditaria pressoché esclusiva della classe operaia, favorita soprattutto dal consumo di alcolici industriali a basso prezzo (gli unici a essere veramente dannosi). Solo dopo il 1870, a seguito dell’enorme diffusione di massa dell’assenzio, consumato apertamente nei bar e nei luoghi pubblici da appartenenti a tutte le classi sociali, artisti e borghesi, bohemiens in primo luogo, la scienza medica fu costretta a un’interpretazione non politica dell’alcolismo. 11


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Il prudenzialismo di Stato I critici l’hanno definita nuovo prudenzialismo: è una strategia neoconservatrice che consiste nell’idea di spostare progressivamente la responsabilità della protezione dai rischi dalle agenzie pubbliche, per esempio gli istituti delle assicurazioni sociali contro disgrazie come la disoccupazione e la malattia, agli individui o alle comunità di base. Il concetto di rischio ha finito con l’indicare, di conseguenza, un tipo di esperienza sempre più privata e connessa in modo via via più stretto all’idea di un soggetto imprenditore di se stesso, mettendo così in questione la nozione stessa di diritti sociali. Per esempio, come osserva il sociologo Dean, oggi, in molti paesi neoliberali, si tende a incoraggiare gli individui ad affrontare i propri rischi sottoscrivendo un’assicurazione privata, anziché aderendo alle assicurazioni sociali offerte

dallo Stato. Poiché sono basate sul principio della socializzazione dei rischi, ossia sulla distribuzione dei costi degli eventi sfavorevoli sull’intera popolazione, le assicurazioni sociali possono garantire una rete di protezione anche agli individui ad alto rischio senza dover chiedere loro di modificare il proprio modo di agire. Al contrario, i piani assicurativi privati attribuiscono a ciascun individuo l’onere di assumersi la responsabilità di assicurarsi contro le sventure. Questo spostamento di responsabilità dallo Stato ai singoli viene realizzato attraverso diverse strategie. Il nuovo prudenzialismo tende a presentare il riconoscimento di questo tipo di responsabilità personali come una forma di libertà, un affrancamento dall’interventismo dello Stato, un’opportunità per il soggetto imprenditore di se stesso di scegliere il proprio modo di vivere.

Gli ambiti della vita considerati aperti alla scelta vengono moltiplicati, e di conseguenza si moltiplicano le decisioni da prendere. Poiché l’autodeterminazione è apprezzata più dell’intervento diretto dello Stato, nelle democrazie neoliberali, a tali strategie individuali viene attribuita la capacità sia di ridurre i rischi, sia di proteggere i diritti degli individui. Allo Stato spetta, in questo contesto, non tanto il compito di garantire aiuti finanziari consistenti, quanto quello di fornire consigli e assistenza alle iniziative di autogestione dei rischi, e incoraggiare i cittadini liberi e attivi che si dimostrano disposti ad adottare volontariamente comportamenti previdenti. La società dei piccoli gruppi Nelle tecnologie contemporanee di previsione e controllo del rischio possiamo vedere, perciò, un aspetto di un muta-

La Fata Verde e i colori dell’Impressionismo L’assenzio arrivò in Francia con i reduci della guerra di conquista dell’Algeria iniziata nel 1830, convinti che la potente bevanda li avesse aiutati a sconfiggere le malattie del deserto. Ottenuto per distillazione dall’Artemisia absinthium, una pianta appartenente alla famiglia delle asteracee, ben diffusa nell’Europa centromeridionale, l’assenzio raggiunge gli 80 gradi di gradazione alcolica ed è oggi, almeno nella sua forma classica, vietato dalle leggi sanitarie dei Paesi di tutt’Europa per i dannosi effetti del tujone, un terpene che si sviluppa durante la sua preparazione. Dal 1870 il consumo di assenzio assunse in Francia una dimensione di massa. Con il soprannome di Fata Verde, per il suo colore cristallino prima che l’aggiunta di acqua renda opaca la bevanda, l’assenzio era consumato ovunque e pubblicamente, senza restrizioni. Fu vietato solo con lo scoppio della Prima guerra mondiale, per preservare dai suoi effetti la giovane generazione combattente. Per mezzo secolo l’assenzio rimase la bevanda preferita dei creativi, degli artisti e in particolare dei pittori, a causa dei suggestivi effetti visivi prodotti dal suo consumo prolungato, noti come xantopsia o visione gialla: un’allucinazione di tipo cromatico che vira tutti i colori dello spettro verso la tonalità gialla. Vi furono quindi (anche) motivi di ordine tossicologico se Van Gogh divenne il pittore dei grandi e allucinati girasoli gialli. Ma assuefatti alla Fata Verde, e attratti dalla xantopsia, furono praticamente tutti i pittori postimpressionisti, a cominciare da Paul Gauguin ed Edgar Degas. Henri Privat Livemont, Pubblicità dell’Absinthe Robette, 1896, Francia. 12

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mento del modo di concepire la funzione della società. Il sociale non rappresenta più, per noi, una collettività di grandi dimensioni, ma un aggregato di raggruppamenti più piccoli e dinamici. Stiamo sempre più agendo e interpretando noi stessi non quali membri di una società particolare o alla luce della concezione del welfare state ma come individui capaci di autorealizzarsi che partecipano ad aggregazioni sociali deboli e fluide, assumendo in ciascuna di esse ruoli diversi. Per rispondere ai problemi sociali (al problema del rischio, per esempio) si costituiscono piccole comunità o raggruppamenti elettivi interessati a perseguire obiettivi circoscritti e sostenuti da un numero di aderenti limitato. Nel nuovo contesto storico, sociale e culturale in cui tali cambiamenti sono in corso, le idee d’individuo dominanti privilegiano il soggetto in grado di esercitare sulla propria mente e il proprio corpo il controllo più stretto, d’impegnarsi costantemente nell’esame di sé, di compiere le rinunce necessarie in nome del bene più grande, e di accogliere prontamente i consigli degli esperti sulle scelte di “stile di vita” da mettere in atto. Uomini senza biografia A dominare sarebbe, cioè, l’idea dell’individuo come homo oeconomicus, un soggetto cui sono attribuite caratteristiche morali e politiche aggiuntive, e che si conforma al modello di attore autointeressato e responsabile presente nei discorsi neoconservatori. Per esempio, il discorso odierno sulla criminalità rappresenta il malvivente potenziale come un individuo universale, “privo di biografia”, un attore della scelta razionale che decide se commettere o meno un reato avendo soppesato i pro e i contro. Le vittime stesse sono concepite sul modello dell’attore razionale: poiché la responsabilità di proteggersi dai rischi ricade su ciascun singolo individuo, la loro vulnerabilità alle attività criminali viene considerata il risultato di un semplice errore di scelta. Con l’approfondirsi della crisi del welfare state, diminuiscono gli incentivi dello Stato a offrire assicurazioni sociali,

Oggi, il successo dei programmi ispirati dal razionalismo economico e dal neoconservatorismo ha eliminato la gestione socializzata del rischio sostituendola con una combinazione programmatica di prudenzialismo privatizzato e sovranità punitiva.

per esempio l’assicurazione contro la disoccupazione o di malattia: oggi, il successo dei programmi ispirati dal razionalismo economico e dal neoconservatorismo ha elimínato la gestione socializzata del rischio sostituendo ad essa una combinazione programmatica di prudenzialismo privatizzato e sovranità punitiva. La mancanza d’interesse per la storia e le motivazioni dell’individuo considerato a rischio lascia in ombra le cause socioeconomiche del rischio, e apre un solco tra le disgrazie personali e i problemi di giustizia sociale. Si torna a contare sulle strategie del rischio repressive e punitive della prima modernità, a procedere alla costruzione di nuove “classi pericolose” da sorvegliare e disci-

plinare. Sembra dunque che le società dominate da politiche neoliberali stiano tornando ad affrontare gli individui e i gruppi sociali considerati o a rischio o fonte di pericolo per gli altri con forme di disciplina proprie del passato. Si consideri il modo di concepire la prevenzione delle attività criminali: non si cerca più d’intervenire sulle cause sociali e strutturali alla base di tali attività, per esempio sullo svantaggio socioeconomico; ci si limita piuttosto ad porre sotto sorveglianza gli individui considerati incapaci di autocontrollo ricorrendo a strategie punitive. K Tratto da: D. Lupton, Il rischio, Il Mulino, Bologna, 2003.

Frédéric Christol, L'alcool, voilà l'ennemi, poster della campagna contro l’alcolismo, 1910, Francia. DIOGENE N. 21 Dicembre 2010

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La politica della vita stessa Quali rapporti di potere si creano nella gestione della salute? Le tesi del maggior teorico vivente della biopolitica, allievo di Michel Foucault.

Ritratti di degenerati, tavola del Traité des dégénérescences di Bénédict-Augustin Morel, 1870.

L K Nikolas Rose Insegna Sociologia alla London School of Economics. 14

a tesi del filosofo Michael Foucault è che, nelle società occidentali, viviamo in un’epoca biopolitica. Dal diciottesimo secolo, il potere politico non è più stato esercitato tramite l’alternativa fra concedere la vita o dare la morte. Le autorità politiche, in alleanza con altre come quelle mediche, si sono assegnate l’obiettivo del governo della vita ai fini del benessere della popolazione, da qui appunto la definizione di biopolitica.

Da lì in poi la politica si occupa dei processi vitali dell’esistenza umana: demografia, malattia e salute, riproduzione e sessualità, relazioni familiari, parentali e coniugali, nascita e morte. La biopolitica è inestricabilmente legata al costituirsi delle scienze della vita, delle scienze umane e della medicina clinica. Ha creato tecniche, tecnologie, esperti e apparati per la cura e l’amministrazione della vita di ciascuno e di tutti, dall’urbanistica ai servizi sanitari. E ha

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I L conferito un carattere vitalistico all’essere soggetti politici. Oggi, a mio avviso, tale paradigma è in parte mutato: la biopolitica contemporanea è diventata politica del rischio. Molti sociologi, alla luce della storia dell’eugenetica novecentesca, hanno espresso timore per il ritorno di spiegazioni biologiche delle capacità e abilità umane: il pericolo, secondo loro, è d’influenzare politiche che discriminino o limitino la libertà di chi ha difetti o anomalie biologiche. Inoltre, questi sociologi hanno denunciato la minaccia di un nuovo determinismo genetico basato sulla falsa ma seduttiva mistica del potere del DNA. I genetisti si difendono sostenendo che la loro scienza non è assimilabile all’eugenetica nazista: la loro disciplina rifiuta l’eugenetica in favore d’interventi individualizzati, informati, volontari e finalizzati alla prevenzione. Tuttavia, come nota il filosofo Giorgio Agamben, durante il ventesimo secolo non c’è mai stata una distinzione molto netta fra l’eugenetica e la prevenzione, fra la ricerca della salute e l’eliminazione di ciò che viene considerato anormale, fra il consenso e la coercizione più o meno violenta. L’eugenetica I piani statali per influenzare le decisioni riproduttive nel nome della salute della popolazione hanno giocato un ruolo importante in tutto lo scorso secolo. Le politiche di eugenetica positiva comprendono assegni o facilitazioni familiari e campagne di educazione sessuale e sanitaria. Quelle negative spaziano dall’eutanasia alla sterilizzazione. In molto Paesi democratici, fra i quali Stati Uniti d’America, Svizzera, Ungheria e Norvegia, furono implementate, durante gli anni Venti e Trenta, politiche di sterilizzazione forzata per chi era ritenuto una minaccia alla sanità della popolazione, in particolare i degenti d’istituti psichiatrici o persone considerate irrimediabilmente asociali o devianti. In Svezia, tali pratiche sono continuate fino agli anni Settanta (vedi articolo a pagina 17). Anche se la sterilizzazione forzata non rientra più nelle procedure mediche delle democrazie occidentali, continuano i programmi per l’igiene, per l’e-

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Cittadinanza biologica Se la cittadinanza ha da sempre una dimensione biologica, con i nuovi sviluppi della medicina si stanno formando nuovi tipi di cittadini biologici. Via via che aspetti della vita una volta considerati in mano al destino diventano oggetto di deliberazione e decisione, si va costituendo un nuovo spazio di speranza e timore intorno all’individualità somatica e genetica. Nelle nazioni liberali avanzate dell’Occidente ciò non sta prendendo la forma del fatalismo e della passività, e neanche stiamo assistendo a una ripresa del determinismo biologico o genetico. Si stanno piuttosto sviluppando nuove pratiche di scelta biologica nel quadro di un diverso “regime del sé”. Qui, ciascuno è impegnato come individuo prudente ma intraprendente in grado di modellare il corso della propria vita tramite atti di scelta, che si estendono alla ricerca della salute contro la paura della malattia, e alla gestione del rischio patologico – oggi le suscettibilità genetiche. Una vecchia serie televisiva della Bbc si chiamava La vostra vita nelle loro mani: era dedicata al lavoro dei medici per salvare la vita dei pazienti. Allora, è forse emblematico di questa nuova etica il titolo, Le vostre vite nelle vostre mani, di una serie radiofonica della Bbc che documentava la vicenda di persone con diagnosi di particolari malattie, ad esempio donne con una storia familiare di cancro al seno che si trovavano a dover scegliere se fare o meno il test genetico, o a dover decidere come convivere con un risultato positivo. Questo spostamento dalle anormalità ineluttabili alle suscettibilità gestibili è in totale coerenza con il più ampio rimodellamento delle pratiche contemporanee di governo delle persone. Oggi ci viene richiesto di essere flessibili, di fare continuo addestramento, di apprendere in permanenza, di esprimere sempre giudizi, di essere incessantemente stimolati a comprare, di gestire il rischio. E questi obblighi si estendono alle nostre suscettibilità genetiche: quindi il cittadino biologico attivamente responsabile deve impegnarsi in un costante lavoro di autovalutazione, di regolazione del comportamento, della dieta, dello stile di vita, del regime farmaceutico, in risposta alle mutevoli esigenze del corpo suscettibile. Nel disegnare, nello sperimentare e nel fronteggiare i nuovi rapporti fra verità, potere e commercio che investono la nostra vita, i nostri corpi mortali, e nello sfidare i propri limiti vitali, i cittadini biologici attivi stanno ridefinendo cosa significa essere umani oggi. Tratto da: N. Rose, La politica della vita, Einaudi, Torino, 2008.

Prima e dopo la cura, tavola da Des maladies mentales di Étienne Dominique Esquirol, Parigi, 1983.

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spansione demografica e la salute pubblica. Tuttavia, oggi queste politiche non si rivolgono più alla società intesa come organismo unitario nello scenario di una competizione fra nazioni. Piuttosto, il problema viene inquadrato in termini economici: il costo della malattia per i giorni persi al lavoro, il costo delle assicurazioni; oppure in termini morali, secondo l’imperativo del ridurre le disuguaglianze in campo sanitario. Ogni cittadino deve ora diventare un agente attivo nella lotta per la salute, accettando le responsabilità relative al proprio benessere. In modo simile, le organizzazioni e le comunità sono spinte a lavorare per il benessere dei propri membri. Tutta una pletora di gruppi di pressione, autoaiuto, campagne di sensibilizzazione, è giunta a occupare lo spazio di desideri, ansie e insoddisfazioni fra la ricerca della salute e la sua assenza. Amministrare gli individui Vediamo allora che non si tratta più di promuovere la riproduzione degli individui sani mentre si classificano, identificano e infine si controllano quelli con costituzione difettosa, per il bene della nazione, della razza o della popolazione. Il problema è ora identificare, trattare o amministrare quegli individui o gruppi soggetti a rischio. La distinzione stessa fra normale e patologico è quindi riassorbita nelle strategie di governo del rischio: contenimento dell’inquinamento atmosferico, riduzione degli infortuni, fitness, norme per l’allevamento dei bambini. Queste tattiche, infine, vanno a incidere su una varietà di livelli e piani: le regole per l’edilizia, le leggi sulla costruzione di automobili, gli standard igienici per i cibi, l’educazione, l’urbanistica. Nella nuova biopolitica, si riforgia l’alleanza fra le aspirazioni politiche a una popolazione sana e quelle individuali al benessere: la salute deve essere assicurata strumentalizzando l’ansia e dando forma alle speranze e alle paure, dei singoli e delle famiglie, per il loro destino biologico. La volontà di essere sani, inoltre, non riguarda più il solo evitare le malattie, ma ricomprende anche l’ottimizzazione delle condizioni fisiche per abbracciare 16

una sorta di non ben definito benessere che comprende bellezza, successo, felicità, soddisfazione sessuale. Sono queste ansie e desideri il bersaglio del marketing di un mercato farmaceutico in continua crescita: medicinali da banco, assicurazioni, cibi salutari, vitamine e integratori dietetici, rimedi alternativi e omeopatici. All’inizio del ventunesimo secolo l’esistenza quotidiana viene rimodellata secondo i principi di una vita prudente, responsabile e basata sulla scelta. La definizione stessa della soggettività si fa via via sempre più legata alla dimensione somatica: l’etica assume il corpo come luogo principale d’intervento sul sé. Dai discorsi ufficiali sulla promozione di pratiche salutiste ai racconti sull’esperienza della malattia trasmessi dai mass media, fino alle narrative popolari sulle diete e l’eserci-

zio fisico, osserviamo l’insistenza sul guidare le proprie vite tramite un fitness che è al contempo corporeo e psicologico. Esercizi, diete, vitamine, tattoo, piercing, medicinali, chirurgia estetica, trapianti d’organi: il corpo e la vitalità sono diventati il sito privilegiato di sperimentazione sul sé, fenomeno che possiamo chiamare “individualismo somatico”. In tutto questo c’è ovviamente un aspetto fortemente etico, inteso come una serie di norme e aspettative sui sentimenti, le credenze individuali, i principi guida dei gruppi e delle istituzioni: tale etica fornisce il collegamente fra il governo di sé e il buon governo politico. K Tratto da: N. Rose, The politics of life itself, in “Theory Culture & Society”, vol. 18, n. 1, 2001.

Fotografia e creatività psichiatrica

Gruppo di catatonici, fotografia dal Trattato di psichiatria di Emil Kraepelin, Vallardi, Milano, 1907.

L’invenzione della fotografia da parte di Jacques Daguerre (1787-1851) ebbe importanti conseguenze sulla ricerca medica e in particolare sulla psichiatria. Nel 1878 il neurologo parigino Jean-Martin Charcot, alle cui lezioni assistette anche il giovane Sigmund Freud, creò presso l’ospedale della Salpêtrière un centro fotografico per documentare le posture corporali connesse alle malattie mentali femminili in primo luogo (vedi l’immagine nella pagina a fianco). Di fronte a queste immagini, però, perfettamente organizzate dal punto di vista compositivo secondo i canoni dell’estetica pittorica, ci si può chiedere quanto siano un’oggettiva documentazione e quanto invece il frutto di una costruzione interpretativa da parte del medico.

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La guerra contro i deboli Siamo abituati ad attribuire unicamente al nazismo il dramma della selezione genetica forzata. Invece simili programmi sono stati adottati anche da alcune democrazie liberali.

Gruppo di maniache, fotografia dal Trattato di psichiatria di Emil Kraepelin, Vallardi, Milano, 1907.

L K Alcibiade Pederini Collaboratore di Diogene.

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a ben nota ferocia del nazismo non dovrebbe servire a occultare le colpe storiche delle pratiche eugenetiche diffuse nei primi decenni del Novecento in molti Paesi democratici e liberali: Inghilterra, Stati Uniti e Paesi scandinavi (ma anche in Paesi non liberali, come Cina e Sud Africa). Certo rimane una forte differenza fra l’eliminazione fisica dei disabili praticata dai nazisti e l’impedire loro d’avere figli obbligandoli alla sterilizzazione, come propugnavano i movimenti eugenetici. Le finalità, tuttavia, erano comuni, come dimostra la definizione stessa del termine eugenetica proposta dal suo inventore, Francis Galton, sulle pagine

dell’”American Journal of Sociology” nel 1904: “L’analisi dei fattori posti sotto il controllo sociale che possono migliorare la qualità della razza umana nelle future generazioni, dal punto di vista sia fisico sia mentale”. Si tratta di un programma per nulla estraneo alla tradizione culturale dell’Occidente. Dagli esordi platonici, infatti, il tema è stato fatto proprio dalla lettura sociale utopistica, rinata dopo lungo sonno nel Rinascimento e sviluppatasi poi nel SeiSettecento. Nel XVI secolo, nella sua Città del sole il filosofo Tommaso Campanella immaginava precettori deputati alla combinazione dei matrimoni e un Gran Dottore della Medicina preposto a sorvegliare la vita sessuale dei citta17


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dini. Tommaso Moro nella sua Utopia voleva imporre per legge a tutti gli sposi di mostrarsi nudi l’uno all’altro prima del matrimonio, in modo da impedire che si nascondessero difetti fisici. Ma l'eugenetica moderna ha avuto poco a che vedere con questi ingenui antecedenti, se non per trarne una certa legittimità culturale. Si trattò di fatto di un complesso variegato di programmi, sia di tipo negativo, tesi cioè all’eliminazione delle malformazioni più gravi attraverso la segregazione e la sterilizzazione coatta dei disabili, sia di tipo positivo, operanti cioè a favore di un’accelerazione dei miglioramenti biologici evolutivi.

zione di questi certificati prematrimoniali era obbligatoria per legge in numerosi Stati: Indiana, Michigan, Oregon, Texas, Rhode Island, Utah, Washington, Wisconsin, Dakota e Carolina del Nord. Anche in Europa, Austria, Norvegia, Svezia e Danimarca avevano accolto il provvedimento, e persino la Turchia sulla via della modernizzazione kemalista prescriveva un certificato (per le donne, però, limitato a un esame otorinolaringoiatrico). Il rapporto fra l’eugenetica e il movimento del controllo della nascite fu istituito da Margaret Higgins Sanger (1883-1966), femminista, teosofa, darwinista sociale ed eugenista oltre che fonLa generazione perduta datrice nel 1916 della La frenesia eugenetica ragLega americana per il giunse l’apice fra le due Controllo delle Nascite e guerre mondiali, forse non a poi direttrice della rivista caso. Nel suo successo, in“The Birth Control Refatti, contò il mito della “geview”. Anche la Sanger arnerazione perduta”, quella rivò a deprecare l’aiuto dei dei “migliori” che erano degoverni o delle istituzioni ceduti in massa durante la filantropiche ai poveri e prima guerra mondiale. Il agli inadatti, che dovevano fatto che i giovani più forti piuttosto “sparire” e “moe biologicamente adeguati rire di fame” per non tofossero morti in battaglia, si gliere risorse agli adatti. In ragionava, comportava il ricirca settanta anni, sino al schio di un’evoluzione al1973 quando la sterilizzaTavola commemorativa della legge eugenetica dello Stato l’inverso della società, una zione forzata venne viedell’Indiana, fronte, 2007, Indiana State Library, Indianapolis. vera e propria involuzione tata in tutti gli Stati biologica che bisognava combattere atdell’Unione, ben circa 100.000 ameritraverso una decisa azione contraria, Sebbene la sterilizzazione degli inadatti cani avevano subito questo tremendo pena la decadenza della nazione. fosse assunta come strumento princitrattamento. Negli Stati Uniti la prima legge in fapale d’intervento, la fantasia dei milivore della sterilizzazione obbligatoria tanti eugenetici inventò numerose altre Eugenetica o welfare? venne varata nel 1907 nello Stato delpratiche attuative. Ad esempio lo stuL’eugenetica, però, fu particolarmente l’Indiana e riguardava individui feebledio accurato degli alberi genealogici feroce nei Paesi scandinavi. Nel 1934 i minded (deboli di mente) a carico delle famiglie, così da identificare quelle primi provvedimenti sulla sterilizzadell’assistenza statale, ricoverati in in cui era probabile nascessero indivizione obbligatoria furono emanati dalla ospedali psichiatrici, in case di cura per dui “difettosi” da sottoporre a controlli Norvegia iniziando un programma che malati mentali o carcerati. preliminari. Oppure ancora una politica doveva concludersi con 40.000 sterilizNegli anni successivi più di trenta Stati dell’immigrazione molto selettiva sul zazioni. Nel 1935 si iniziò in Daniamericani avevano varato leggi analopiano della prestanza fisica, senza esclumarca (6.000 sterilizzazioni) e poi in ghe inserendo nella categoria dei non dere neppure un potenziamento nella Finlandia. In nessun Paese europeo desiderati o unfit (inadatti) anche alcopratica della pena di morte negli Stati però, a parte la Germania nazista, la frelisti, tossicodipendenti, criminali, ciechi in cui era ammessa. nesia sterilizzatoria raggiunse livelli sie sordi. Vennero istituite commissioni Molto praticato fu l’obbligo di produrre mili a quelli della Svezia, il primo Paese di esperti per valutare, caso per caso, certificati di buona salute per poter a dotarsi di un Istituto statale di bioloquali individui dovessero essere forzacontrarre il matrimonio, così da esclugia razziale. Fondato a Uppsala nel tamente sottoposti alla sterilizzazione. dere i disabili. Negli Stati Uniti già 1921 e diretto da Herman Lundborg, il La campagna eugenetica fu finanziata prima della grande guerra la producui nome verrà successivamente can18

dai più noti protagonisti dell’imprenditoria (Rockefeller, Ford, Kellog, Carnegie, Gamble) e sostenuta da importanti personalità del mondo culturale, quali il filosofo Bertrand Russel e l’economista John Maynard Keynes. Anche se gli eugenisti erano ben presenti nelle università più prestigiose, come Harvard, Yale e Princeton, il centro propulsore della campagna divenne ben presto la Carnegie Institution’s Station for Experimental Evolution fondata a Cold Spring Harbor nel 1904.

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I L cellato da tutte le enciclopedie svedesi, strazione, fino ad allora riservata ai carl’Istituto pubblicò studi sui tipi razziali cerati, ai violenti e agli antisociali, fosse e sulle caratteristiche dei criminali, estesa anche agli stupratori, e comunpazzi, deboli, indigenti e prostitute, dique si fece ben poco in questo campo. ventando un punto di riferimento per il suo omologo tedesco, il Kaiser Gli umani tipo B Wilhelm Institut fur Rassenhygiene. Queste leggi sono state definitivamente Fu quasi per caso, alla fine degli anni sospese solo nel 1975, anche se da qualNovanta, che Maija Runcis, una ricerche decennio non venivano più applicatrice svedese responsabile di un recate con la crudele malizia dei decenni parto dell’archivio di Stato, fece una fra le due guerre. Nel settembre 1997 è scoperta sconvolgente: nella Svezia sostata nominata una Commissione gocialdemocratica, dal 1935 al 1975 vi vernativa d’inchiesta e il 19 maggio erano state oltre 60 mila sterilizzazioni, prescritte da medici, per il 90-95 per cento riguardanti donne e spesso realizzate su base coattiva. La legge del 1935 prevedeva che gli interventi potessero essere praticati sui ritardati mentali, sugli epilettici e sui soggetti portatori di malattie ereditarie, ma anche su genitori giudicati inadatti ad allevare adeguatamente i figli. Nel 1941 la casistica fu ulteriormente ampliata sino a comprendere praticamente ogni forma di disabilità. Per la verità, la legge diceva chiaramente che chi risultava capace d’inTavola commemorativa della legge eugenetica dello Stato dell’Indiana, retro, 2007, Indiana State Library, Indianapolis. tendere e di volere avrebbe dovuto sottoscrivere la richiesta di sterilizzazione (le mogli di mariti 1999 il Parlamento svedese ha approalcolizzati, ad esempio), tuttavia i fatti vato una legge che prevede il risarcidimostrarono che la clausola del conmento di 175.000 corone (21.000 senso poteva essere facilmente aggirata, dollari) per ognuna delle vittime ancora ad esempio minacciando una sospenin vita, il cui numero è stimato fra sione degli aiuti assistenziali oppure 6.000 e 15.000. Coloro che vogliono ammettendo il disabile nelle case di usufruire di questa possibilità, tuttavia, cura solo a patto che accettasse l’interdevono dimostrare di essere stati sterivento. Bastava poco per subire la sterilizzati contro la propria volontà, supelizzazione: una vita promiscua, restare rando così un pudore che li aveva incinta senza essere sposata, abortire imprigionati nel silenzio per tanti anni. per la terza volta. Sulla base di questi dati Luca Dotti, in La prima cartella sigillata che attirò l’atL’utopia eugenetica del welfare state svetenzione di Maija Runcis era quella di dese (1934-1975). Il programma socialun prete che denunciava una sua scodemocratico di sterilizzazione, aborto e lara di 15 anni perché non riusciva a castrazione, ha dimostrato come la policoncentrarsi durante i compiti. A ritica di sterilizzazione degli esseri umani metterci furono in gran parte le donne: “di tipo B” non rappresentò affatto un solo nel 1960, e dopo un aspro dibatincidente di percorso nella vicenda dei tito, esse riuscirono a ottenere che la cagoverni socialdemocratici, ininterrotta-

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mente al potere in Svezia dal 1932 al 1976. Si trattò invece di una conseguenza resa possibile (non necessaria) dall’incontro delle teorie utilitariste ottocentesche con una variante del socialismo che per quanto non totalitaria non per questo si rivelò meno pervasiva e invadente. In effetti, fu “la sollecitudine nei confronti dei membri più deboli e indifesi della società, sviluppata in forme sempre più complesse ed estese” a far propendere per l’eugenetica Halbin Hansson, Primo ministro socialdemocratico svedese, che così continuava il suo discorso di presentazione in Parlamento della legge sulla sterilizzazione: “A partire da questa sollecitudine, breve è il passo che ci conduce verso provvedimenti tendenti a prevenire la nascita d’individui da cui ci si può attendere con certezza che sarebbero un peso per se stessi e per gli altri”. Furono i coniugi Gunnar e Alva Myrdal i massimi teorici di questo socialismo che attribuiva allo Stato funzioni demiurgiche. Nel 1934 un saggio dedicato alla crisi demografica svedese scritto congiuntamente dalla coppia, The population problem in crisis, ebbe uno straordinario successo e svolse una funzione decisiva nell’orientare la socialdemocrazia verso misure di eugenetica attiva. I coniugi Myrdal Contò in questa svolta lo straordinario prestigio dei coniugi Myrdal: Gunnar fu un politico eminente, economista e a lungo capo del gruppo parlamentare socialdemocratico, mentre Alva, esperta di problemi della famiglia, fu ministro del Commercio dello Stato svedese nel secondo dopoguerra e in seguito ambasciatrice, dirigente dell’Unesco e della Conferenza per il disarmo. Entrambi furono insigniti di un premio Nobel, per due materie diverse (per l’economia lui, per la pace lei) e in due periodi differenti, caso unico nella storia. I coniugi Myrdal furono fra i principali 19


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inventori di quel liberalsocialismo democratico e assistenziale cui si deve l’invenzione della “casa comune del popolo”, l’equivalente svedese del welfare state. Non a caso Alva Myrdal partecipò alla progettazione di un modello abitativo d’indirizzo collettivista e particolarmente invasivo dell’area privata, mirando a regolamentare e collettivizzare quasi ogni aspetto della vita famigliare trasformandolo in un servizio sociale: la mensa comune, spazi e strut-

ture per il tempo libero, esperti addetti all’alimentazione e all’educazione dei bambini e così via. Il progetto arrivava addirittura a prescrivere quanto tempo ciascuno avrebbe dovuto impiegare nelle attività collegate alla vita domestica. All’interno di questa ideologia socialdemocratica, così attenta a risolvere sul piano sociale ogni esigenza di benessere individuale, l’eugenetica fu giustificata come strumento per prevenire i problemi sociali, prima di tutto quelli

delle classi povere, come dimostra lo stretto legame fra l’emanazione di questi provvedimenti e altri tesi al sostentamento economico degli indigenti e delle famiglie numerose. Come affermava già nel 1896 Vacher de Lapouge, attivista del Partito socialista operaio francese, in Le selections sociales: “Il socialismo, sarà selezionista o non sarà. Non è possibile realizzarlo che con uomini fatti diversamente da noi e uomini così può farli solo la selezione”.

Anonimo, Sus à l'alcool!, serie di 12 fotografie, 1901, Francia, © Collection Thierry Lefebvre. 20

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I L Nel pensiero dei coniugi Myrdal questo socialismo selezionista convergeva di fatto con il principio utilitarista della massimizzazione del benessere sociale complessivo, su cui si fondano le moderne teorie del welfare. Si trattava di un’interpretazione estrema e completamente demoralizzata dello Stato sociale, tesa a ottimizzare le risorse pubbliche evitando d’impiegarle nella cura di persone giudicate irrecuperabili e superflue. Ecco come la filosofa contemporanea Martha Nussbaum riassume la mentalità scaturente da queste dottrine: “Noi tutti siamo nati e viviamo la nostra vita come persone, ogni corpo separato dagli altri corpi, ognuno con la propria nascita, morte, alimentazione, il proprio dolore e il proprio piacere. L’utilitarismo ignora questa separazione a suo rischio, immaginando che le vite siano solo dei raccoglitori di soddisfazione e che il dato decisivo dell’etica sia la quantità della soddisfazione del sistema nella sua interezza. Quindi il grande dolore e la miseria di una singola persona potrebbero essere compensati da un certo numero di persone con una sovrabbondante buona sorte. In questo caso un fatto morale di primaria importanza, che ogni persona ha solo una vita da vivere, viene cancellato”. K

A P P R O F O N D I R E K

L. Dotti, L’utopia eugenetica del welfare state svedese (1934-1975). Il programma socialdemocratico di sterilizzazione, aborto e castrazione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004.

K

C. Fuschetto, Fabbricare l’uomo. L’eugenetica tra biologia e ideologia, Armando Editore, Roma, 2004.

K

J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino, 2002.

K

J. Rifkin, Il secolo biotech. Il commercio genetico e l’inizio di una nuova era, Baldini Castoldi, Milano, 2003.

K

G. Stock, Riprogettare gli esseri umani. L’impatto dell’ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie, Orme Editori, Milano, 2005.

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Eugenetica greca L’eliminazione fisica di disabili era una pratica comune nelle città greche. Si deve a Platone, però, la prima teoria eugenetica.

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n trattato di ginecologia del secondo secolo a.C., opera del medico greco Soranos, inizia discutendo la seguente questione: “Come riconoscere un bambino che merita di essere allevato?”. La risposta è netta: “Il neonato deve essere perfetto in tutte le sue parti, arti e sensi, oltre a non avere vie ostruite, includendo le orecchie, il naso, la gola, l’uretra e l’ano. Deve rispondere agli stimoli e i suoi movimenti naturali non devono essere né lenti né flebili, gli arti flessibili e tesi, la taglia e la forma appropriate”. Ove questa “perfezione in tutte le parti” non fosse evidente, la soluzione prevista era l’infanticidio, quasi sempre nella forma dell’esposizione agli elementi atmosferici; una pratica diffusa in tutte le città greche e in alcune addirittura obbligatoria. Se poi il neonato, oltre a mostrarsi debole e malato, era anche di sesso femminile, l’esito cruento dell’esame ostetrico diventava ancor più probabile. In effetti, i sostenitori moderni dell’eugenetica, sia quella nazista sia quella liberale, hanno potuto addurre l’autorità dei greci e di Platone a sostegno delle loro tesi. Fu il grande filosofo ateniese, infatti, il primo a teorizzare la necessità che “il razionale allevamento umano” debba essere gestito direttamente dallo Stato, per altro con mezzi tanto sbrigativi da richiedere procedure segrete. Leggiamo nel libro V della Repubblica: “Conviene che gli uomini migliori si accoppiino con le donne migliori il più spesso possibile e che, al contrario, i peggiori si uniscano con le peggiori meno che si può; e se si vuole che il gregge sia veramente di razza occorre che i nati dai primi vengano allevati;

non invece quelli degli altri. E questa trama, nel suo complesso, deve essere tenuta all’oscuro di tutti, tranne che dei reggitori, se si desidera che il gruppo dei guardiani sia per lo più al sicuro da sedizioni”. In seguito Platone attenuò il rigore di questa eugenetica estrema, in cui l’eufemismo del “non allevare” i figli dei partner peggiori allude alla pratica dell’infanticidio di Stato dei disabili, anche contro il parere dei genitori. Ma sempre considerò dovere essenziale di uno Stato filosoficamente retto il perfezionamento progressivo della qualità biologica della comunità. Nelle Leggi suggerì norme rigorose contro l’immoralità, istituendo una correlazione precisa fra il comportamento vizioso e la degenerazione: “L’ubriaco si butta da ogni parte e butta ciò che gli capita, smaniando nel corpo e nell’anima, sicché anche quando getta il seme è incerto e squilibrato, col risultato di ottenere con ogni probabilità figli anormali, irresponsabili, devianti nel comportamento e fisicamente deformi. Allora bisogna proprio che per tutto l’anno, anzi per tutta la vita, e in modo particolare nel tempo della fecondità, si usi ogni prudenza per non compiere coscientemente azioni che espongono al pericolo di malattie, oppure atti di violenza e d’ingiustizia. Questo perché, fatalmente, tali caratteri vengono trasferiti e impressi nelle anime e nei corpi dei concepiti, i quali nasceranno infelici sotto tutti gli aspetti”. K

K Alcibiade Pederini 21


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Mondi volatili, corpi vulnerabili Quale etica può scaturire dalla consapevolezza della nostra fragilità nel mondo, nei confronti delle forze naturali e delle epidemie?

K Nigel Clark Docente di Geografia alla Open University di Londra. 22

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ell’arena della negoziazione politica sui cambiamenti climatici, la ricerca di sostenibilità e di un futuro equo si trasforma velocemente nella quantificazione di cause ed effetti, un calcolo che rischia di ridurre l’etica e la politica a questioni meramente e semplicemente economiche. La giustizia sarà anche una virtù fredda, richiede imparzialità ed equidistanza, ma una visione del giusto ispirata alla consapevolezza del nostro passato potrebbe dimostrarsi più importante di una contenuta nel circuito chiuso della causalità. Una simile prospettiva, alimentata da un senso di meraviglia per l’immensità e complessità del clima terrestre, e da soggezione per le conquiste di lontani antenati, potrebbe persino surriscaldare positivamente i tavoli dei futuri summit. Non possiamo identificarci fino in fondo con quei nostri lontanissimi antenati che si trovarono a dover lottare contro l’improvviso cambiamento climatico che portò a un Pleistocene glaciale. Ma possiamo speculare. Le evidenze paleoclimatologiche suggeriscono che, mentre lo sbalzo nelle temperature fu maggiormente accentuato in prossimità dei poli, il passaggio a un regime atmosferico più temperato ebbe radicali ricadute su tutto il globo, con un diminuire delle piogge, forti venti e tempeste di sabbia, incendi nelle foreste e decimazione delle specie animali. Più e più volte, nel corso di millenni, umani o addirittura ominidi hanno dovuto affrontare rapidi mutamenti climatici, al punto da disgregare ogni continuità dell’esperienza o memoria culturale. Le mappature genetiche segnalano effetti “collo di bottiglia” nelle popolazioni, come risultato di

questi cambiamenti, ma segnalano pure altri tipi di catastrofe, come epidemie o eruzioni vulcaniche. Ci sono evidenze che l’eruzione del vulcano del lago Toba, in Indonesia, che avvenne circa 70.000 anni fa, alterò il clima per quasi un secolo e ridusse la popolazione umana sul globo a 15.000 individui, tanto che gli antropologi parlano a tal proposito di “sopravvivenza dei più fortunati”. Nonostante tutta la loro brutalità, queste quantificazioni difficilmente trasmettono il significato di così tante vite e linee di discendenza estinte, o l’inquietante possibilità di futuri possibili che non si sono mai realizzati. Ma il fatto che ci siano così gravi perdite, così tanti individui o comunità destinate a rimanere senza memoria, non implica semplicemente spaesamento o la rinuncia a un pensiero critico. Il cataclisma già avvenuto Perché, come scrisse il filosofo Derrida, “l’incomprensibilità non è l’inizio dell’irrazionalità, ma la ferita o ispirazione che apre la parola e quindi rende possibile ogni logos o ogni razionalità”. In tal modo, il pensare all’umano come radicalmente vulnerabile a forze al di là del suo controllo non deve arrestarsi nell’osservazione melancolica della fragilità e della finitudine, ma può essere preso come un incitamento all’agire informati. Il cataclisma che è sempre già avvenuto potrebbe non essere considerato unicamente come il baratro che lacera il presente, ma, in vero, anche come l’apertura che ci spinge verso nuove e prima inimmaginabili possibilità di conoscenza e azione. Finora pochi filosofi hanno preso in considerazione la porosità dei corpi umani ad altre forme di vita, o ai pro-

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I L cessi fisici della Terra. “L’essere corporeo è toccare una terra”, diceva il filosofo Levinas. Un altro filosofo, Bataille, teorizzava una generosità intercorporea che riprende ed estende quella fonte di vita che è l’energia solare. Secondo Bataille, “vivere significa per te non solo il flusso e il fugace gioco della luce che ti irradia, ma anche il passaggio del calore e della luce da un essere a un altro”. Per il filosofo Alphonso Lingis, “il mondo che trovo sotto i miei piedi non si estende come un miasma in cui brancolo da solo; sono nato in un luogo che altri hanno lasciato vacante, e sono stato mandato lungo sentieri che altri hanno esplorato. Per me, il mondo è, fin dall’inizio, un campo di possibilità che altri compresero e appresero”. Un mondo comune In questo senso, per dirla con la filosofa Rosalyn Diprose, siamo tutti depositari “del dono della possibilità di un mondo comune”. Un dono che ci pone in una situazione di debito verso una processione di altri che ci hanno preceduto: un debito troppo immenso da misurare, troppo abissale e asimmetrico per poter essere ripagato. Tale abbondanza e potenzialità ci arriva spesso segnata dall’ingiustizia e dalla violenza. Non c’è obbligo a convertire il debito infinito in riconoscenza o gratitudine. Non c’è passaggio facile od ovvio dalla gratitudine alla giustizia. E non c’è neppure un legame diretto fra l’essere vulnerabili e la coltivazione della generosità verso gli altri. Come Bataille stesso riconobbe, il sentimento di essere immersi nelle mostruose energie del cosmo, se accompagnato dall’elevazione dell’estasi e dall’angoscia dell’autocontrollo, può alimentare i peggiori eccessi della violenza o quelli, lodevoli, della generosità radicale. Questa è la ragione per cui il perseguimento della giustizia ambientale necessita di niente di meno di un rigoroso e continuativo lavoro politico, etico e affettivo. K Tratto da: N. Clark, Volatile worlds, vulnerable bodies: confronting abrupt climate change, in “Theory Culture & Society”, vol. 27, n. 31, 2010.

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La frenologia biometrica

Craniometro, 1880-1900, Firenze, Museo d’antropologia.

Nell’Ottocento, la cultura positivistica perseguì il progetto di una completa biometria dell’essere umano attraverso la riduzione di tutte le sue caratteristiche, sia fisiche sia psichiche, a parametri morfologici oggettivi e misurabili. Questa utopia scientista, fondata sulla convinzione che si possa arrivare a un’esaustiva determinazione matematica della nozione di normalità, iniziò con la frenologia la pseudoscienza fondata dal medico tedesco Franz Joseph Gall (1758-1828). La frenologia sosteneva la possibilità di individuare le peculiarità psicologiche di una persona esaminandone la conformazione cranica. Immaginando il cervello suddiviso in tante regioni quante sono le caratteristiche della personalità, Gall supponeva che lo sviluppo di una certa facoltà determini un incremento della materia grigia corrispondente, proprio come l’attività fisica ingrandisce i muscoli. Come nascono bambini muscolosi o gracili, così vi sono cervelli diversi già alla nascita, per l’atrofia o l’ipertrofia di una particolare zona. Dato poi che nei primi mesi di vita le ossa del cranio sono particolarmente malleabili, e quindi tendono a conformarsi alla pressione della materia grigia sottostante, sarebbe possibile individuare già dalla nascita le future caratteristiche psicologiche di un individuo dalla misurazione della sua conformazione cranica. Una sedimentazione di questa idea nel linguaggio comune sta nel celebre detto che attribuisce agli eccelenti matematici un bernoccolo sulla fronte.

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Latuff, Global meat industry, 2009, licenza creative commons.

Il governo dei corpi

e degli affetti

L’amministrazione della vita stessa, della biologia e dei soggetti, fa parte di un medesimo modello politico ed economico.

L K Laura Bazzicalupo Insegna Filosofia Politica alla Università degli Studi di Salerno. 24

a logica del governo delle vite è economica. Ogni volta che il potere prende per oggetto la vita assume un’economia di salvezza. Questo significa che la prospettiva di un potere che ha uno scopo esterno che lo struttura – il quale scopo, da un punto di vista della legittimazione, non può che essere la salvezza, la salute, il benessere, la vita e il suo accrescimento – implica l’adozione di una logica o economia che lo renda efficace, adatto alla modalità immanente alla vita stessa che prende in carico. Ma la biopolitica ha contestualmente per proprio oggetto privilegiato l’economia propriamente detta. La sfera dell’economico si presenta innestata sulla vita direttamente: se la vita si percepisce incarnata singolarmente, è perché sente la fame, la sete, la stanchezza, la paura.

Una teoria dei bisogni e del desiderio, come perno della incondizionatezza della vita, sta dietro a ogni economia, che, da questa radice naturalistica, ricava un’aura di necessità, un vincolo, un elemento di determinazione. Se è vero che i bisogni sono sempre mediati da rappresentazioni psicoculturali (si pensi alla fame) è nello iato tra sensazione organica e mediazione culturale che si innestano i regimi di sapere e di potere. A partire da quel sentire, da quello stimolo si mette in moto un agire orientato alla soddisfazione delle esigenze naturali o più complesse. Questo campo prasseologico mirato alla produzione, con il fine primario del consumo, della soddisfazione del desiderio, è l’economia. Teoria e prassi delle condizioni di produzione e distribuzione degli elementi (materiali e non)

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funzionali al vivente. Prassi funzionale alla vita: dunque costitutivamente implicata nel suo governo. L’economia, nella modernità occidentale, presenta una configurazione non orientata alla sopravvivenza ma alla incrementazione della vita. In realtà quello che chiamiamo vita è un discorso sulla vita. La vita come un fatto La biopolitica economica apre il fatto vita, già spontaneamente inconcluso a causa della sua radice desiderante e lo sottopone alla gestione che lo potenzia. Il corporeo, i bisogni, la popolazione non sono che una serie di processi, costellazione di fatti in sé opachi, penetrabili solo a condizione che le linee di gestione siano ponderate, appropriate, flessibili come l’oggetto cui si riferiscono. Il governo economico delle vite non può calarsi dall’alto del giuridico, ma deve essere tale da cogliere la norma interna del loro esplicarsi, pena un circolo degenerativo e inefficace. Ma questa norma che si presenta come interna è un sapere oggettivante: costruisce la genericità nei corpi singoli, individua e stabilizza l’omologazione dei bisogni che esistono nella misura in cui sono indovinate e costruite le equivalenze, le regolarità comportamentali da parte di un governo, statale ma oggi più spesso sociale, che opera sollecitando, selezionando, coinvolgendo. La sua autorevolezza conserva le tracce della pastoralità nella sapienza dei fini (il regime di verità senza il quale nessuna biopolitica ha senso) e nell’atteggiamento di cura, d’induzione di dipendenza, di adempimento del desiderio che sembra inserire la sfera economica in un codice biopolitico che una prospettiva psicanalitica definirebbe materno: nonostante la sua autorappresentazione si svincoli dal solidarismo oblativo del codice materno (cura, dipendenza, soddisfazione e godimento gestito dall’altro) per accedere al codice paterno (non paternalistico) dell’autonomia, del differimento del godimento, della relazione sociale impostata sulla competizione. Autorevolezza come competenza, ma anche come augmentum, incremento: la gestione del potere economico avviene in nome e dalla parte dei governati

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C’è tutta una miriade di agenzie che sorvegliano la nostra condotta di consumatori affidabili: attraverso le reti d’informazione alimentate dall’uso di denaro digitale, si formano le banche dati delle nostre propensioni al consumo.

(utenti, consumatori, lavoratori) per premiarne gli sforzi, per assentire ai desideri. Sia quando assumiamo il ruolo di produttori che quando siamo sollecitati al ruolo di consumatori (ruoli che oggi nella figura del prosumer si confondono) benessere e vantaggio sono i moventi di una consensualità, di una connivenza che ha il marchio della adeguatezza e dell’efficienza. Cittadini o consumatori? C’è tutta una miriade di agenzie che sorvegliano la nostra condotta di consumatori affidabili: attraverso le reti d’informazione alimentate dall’uso di denaro digitale, si formano le banche dati delle nostre propensioni al consumo, il controllo incrociato delle nostre preferenze destinate a orientare il marketing. La governamentalità biopolitica-economica delle nostre vite è testimoniata proprio dallo slittamento dei controlli, un tempo di tipo giuridico e politico, ora sociali ed economici, delle utenze e dei consumi. E d’altra parte il sé digitale di un individuo è segno della sua rispettabilità redditizia: quest’individuo esiste davvero perché frequenta il mercato, ha una sua “capacitazione” commerciale. Siamo da sempre attirati nel cerchio produzione-consumo, guidati, sollecitati da influenze che parlano in nome dei nostri interessi, che mirano ad aumentare la nostra produttività e a realizzare, come consumatori, i nostri bisogni-desideri. Nessuno ci costringe, qualcuno ci aiuta a scoprire le potenzialità e i desideri sopiti nella nostra carne. Almeno qui, almeno nel nostro pezzo di mondo. La governamentalità descritta da Foucault (interrotta a suo

parere dalla nuova economia liberale antagonista al governo, e poi ripresa dall’interventismo statale del New Deal, e infine ambiguamente respinta come “eccesso di governo”) sperimenta oggi una nuova attualità. Non nell’interventismo economico o poliziesco dello Stato ma nel principio, annunciato dalla rivoluzione marginalista, dell’assoluta centralità del consumatore, colui ai cui desideri si dice sì, ovviamente governandone in modo soft e personalizzato le esigenze: un governo plurale, disseminato, in cui talvolta siamo noi a muovere, talvolta siamo mossi, sempre nel dubbio che qualche potere autorevole, benevolente, abbia a sua volta informato i nostri bisogni e desideri. Il predominio celebrato dalla teoria economica, del consumo (le cui pratiche ineriscono al privato, alla vita, alla jouissance) sul lavoro, che ha avuto a lungo caratteri di socialità opposti ed è stato luogo di controllo e mediazione sociale, implica il riconoscimento dell’energia affettiva che struttura il codice economico, dell’anarchia dei desideri stimolati alla loro delirante, infantile infinitezza. Cui risponde il miracolo e la maledizione della civiltà industriale che adempie il sogno della liberazione dal bisogno, della soddisfazione dei desideri, che guida, che cura, che gestisce la relazione capacità-bisogni e dunque la forma sociale dell’autorità-potere. Civiltà industriale che oscilla tra codice materno, quando dice sì all’inondazione dei desideri da essa stessa mobilitati, e codice paterno (codice di capacitazione, di efficienza e di selettività) quando esige prestazioni, quando esercita con durezza le esclusioni, quando sterilizza la solidarietà pretendendo che 25


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lo scambio, nel mercato, saldi ogni debito. La radice irrazionale, affettiva e desiderante della prassi economica evidenziata dal primato del consumo, dà ragione della persistenza del modus gestionale pastorale all’interno del mercato e di una famiglia di strumenti concettuali tipica del lessico aziendale, difficilmente traducibili nella logica razionale e atomistica delle scelte meramente economiche. Le virtù della volpe e del leone Innanzitutto il management, parola chiave della governamentalità economica, che traduce una forma di gestione semipolitica dell’impresa: assistiamo, a riprova della confusione delle logiche di governo politico ed economico, a una sovrapposizione di élites propriamente politiche (ma che condividono la gestione con la controparte burocratica, i mandarins britannici e i grands commis francesi) con i vertici che controllano il mondo degli affari. Si affermano nuovi modelli di potere al controllo delle grandi corporations, con risorse intellettuali e morali diverse da quelle degli imprenditori storici. L’insieme complesso di una corporation richiede infatti una capacità di governo organizzativo che sappia sintetizzare gli input esterni, la pluralità degli ambienti (tecnologico, finanziario, dei consumatori, della concorrenza) e infine la pluralità dei contesti politici con cui la corporation viene in contatto. Del manager conta la capacità di persuadere e coinvolgere le controparti, di negoziare con loro, se necessario di corromperle, di minacciarle e insieme di valutare il potenziale economico delle conoscenze scientifiche, delle innovazioni tecnologiche, dei sistemi organizzativi. Conta la capacità di creare e comunicare l’immagine del gruppo, che, per quanto affidata a specialisti, resta comunque responsabilità del vertice: come non pensare alle machiavelliche virtù di governo “della volpe e del lione”? Come non pensare alle personalità d’imprenditori prestati alla politica, in luogo dei weberiani politici di professione, dove nel capitano d’industria o nel manager si riconosce la guida di successo che ha moltiplicato la ricchezza della propria azienda e di cui ci

si può “fidare”? Lo scambio economico viene ancora pensato in modo troppo povero, manicheo e il potere stesso non è pensato nella modalità relazionale e produttiva del governo. Gli stessi studi di marketing affannosamente all’inseguimento di dinamiche imprevedibili, testimoniano della necessità di ripensare l’intreccio di diversi regimi di verità: aspetti contabili e commerciali, dipendenze psicologiche, fattori simbolici e identitari, persistenti dinamiche mimetiche. Se sono legittimi i sospetti di Virno sulla apologetica degli hacker, è importante non cedere al riduzionismo che non lascia spazio all’evenienza e al disordine dei soggetti. Forse è vero che i singoli sono privi di potere e d’influenza che non sia mercantile, ma il governo del mercato viene determinato dal modo in cui ciascun soggetto combina, in maniera diversa, istanze psicologiche, culturali, desideri e speranze nella forma del mercato, spesso disubbidendo alla pretesa linearità della sua logica. Scopriamo così che la fase at-

tuale di bioeconomia condivisa, non drammatica, agìta attivamente, “contiene”, nel senso duplice dell’aver dentro e del trattenere, la violenza, la dipendenza, la miseria e le sue vittime, vittime pulite in quanto chi le provoca non si sporca le mani e vittime di dispositivi anonimi e astratti, più che di caricaturali sfruttatori. Resta invece ancora da scoprire se il processo di autogoverno che il mercato esibisce, non provochi disfunzioni e controfinalità crescenti, proprio per la impossibilità della sintesi, per l’anarchia, l’immanenza delle forze che si scontrano e si sommano senza trascendersi. La sfida è indagare sui luoghi deputati all’esercizio dell’autonomia per capire come sono organizzati e governati, generando inedite linee di rottura e antagonismo. K Tratto da: L. Bazzicalupo, Economia e dispositivi governamentali, in “Filosofia politica”, anno XX, n.1, 2006.

I swear it wasn’t me, poster di una campagna per l’igiene pubblica, USA, licenza creative commons. 26

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Filosofia dell’emergenza La gestione della crisi produce spesso effetti permanenti, che portano a cambiamenti radicali nella nostra vita quotidiana.

The more you know…the more you live, poster della campagna contro l’AIDS, www.operation_awarness.com.

N K Brian Massumi Insegna Filosofia alla Université de Montréal.

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el suo discorso alla nazione, Bush rafforzò l’analogia fra guerra e clima mentre, allo stesso tempo, ne spezzava la simmetria: “In un tempo di minacce terroristiche e armi di distruzione di massa, il pericolo per i nostri cittadini è molto più esteso di quello di un’alluvione”. Il modello della minaccia generica è di stampo militare. Una minaccia indistinta, diffusa, sempre potenziale. Persino grandi devastazioni ambientali potrebbero essere effetto di un intervento nemico. Gli incendi in Grecia nell’estate 2007 attirarono l’attenzione dell’antiterrorismo: non era chiaro se i fuochi non fossero stati ap-

piccati intenzionalmente. L’incertezza sicuramente rappresenta una minaccia: in una crisi ambientale, il pericolo è endemico e i rischi dappertutto. Di conseguenza, si invoca una capacità di risposta immediata da parte dell’esercito. Lo stato di continuo preallarme con la potenzialità d’intervento istantaneo dell’esercito diviene così il modello che arriva a inglobare le agenzie civili nella logica militare. La vita civile ricade all’interno di un continuum con la guerra, e ogni settore che ospiti rischi potenzialmente disgreganti il normale ritmo della vita civile viene in ugual modo inglobato. La sfera civile, da opposta a quella militare, muta in paramilitare. 27


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Minacce ubique Che l’amministrazione Obama si sarebbe dimostrata riluttante o incapace di ribaltare questo confondersi di sfere, lo si è capito prima ancora che il Presidente si insediasse, quando fu annunciato il nuovo team per la sicurezza nazionale: “In questo mondo incerto, la guerra al terrorismo richiede un’intelligente integrazione fra vari poteri e agenzie, consentendo l’intervento immediato in ogni potenziale catastrofe, abbia questa cause naturali o umane”. In tale concezione, l’intero sistema della vita appare come un ambiente a rischio, composto di sottosistemi che non solo sono complessi al loro interno, ma anche intricatamente connessi gli uni agli altri, tutti suscettibili all’irrompere di elementi distruttivi in grado di autoespandersi. L’emergenza in un sottosistema può così propagarsi negli altri, con effetti cascata, fino, al limite, a raggiungere una scala planetaria. Diventa allora oggetto di preoccupazione crescente l’interrelazione fra i vari sistemi: il clima, l’approvvigionamento alimentare, l’energia, la società, i governi nazionali, gli ordinamenti legali e gli apparati militari. La gestione delle minacce segue i medesimi principi operativi militarizzati sia per i fenomeni naturali che per quelli umani: non è solo un’affermazione filosofica, ma addirittura giornalistica. Prendiamo “Newsweek”, che il 30 Aprile 2009, nell’articolo Disease and Terror, scrive: “Le somiglianze fra l’influenza aviaria e il terrorismo biologico non sono frutto di mera coincidenza. In anni recenti il mondo è cambiato in modi che hanno reso le minacce naturali e quelle umane sempre più simili. Il punto centrale è il vivere in un mondo sempre più interconnesso: le malattie, se non prevenute, possono espandersi a velocità prima inimmaginabili. Parimenti, è difficile sovrastimare il pericolo del bioterrorismo: è virtualmente impossibile fermare organismi monocellulari che si diffondono nell’aria, invisibili e inodori”. K Tratto da: B. Massumi, National enterprise emergency, in “Theory Culture & Society”, anno XXVI, n. 6, 2009.

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Non è una fortuna La ricostruzione del senso attraverso la sofferenza. La lettera di un insegnante liceale che riflette sulla disabilità.

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anti disabili utilizzano le parole fortuna, opportunità, dono, riferendosi alla propria disabilità. Ogni volta che odo espressioni di questo tipo, ho l’impressione di ricevere un pugno, ho l’impressione che invece di fare passi avanti se ne facciano indietro. Mi chiedo perché si associ sempre più la disabilità alla fortuna, all’opportunità. Di nuovo: perché? Perché spesso lo fanno gli stessi disabili? Non lo so. Rifletto. Ripercorro la mia esperienza per cercare una chiave di lettura. Qualche volta l’ho fatto anch’io, da bambina. Non potendo correre, e camminando con difficoltà, dolorante per i morsi dell’infelicità, mi dicevo che “io” potevo camminare tanto lentamente da poter vedere cose che agli altri sfuggivano: una foglia, una formica, un fiore, una farfalla. Sapevo, ma non volevo sapere, che stavo compiendo un gioco di prestidigitazione intellettuale ed emotiva. Quando ero bambina Mi illudevo di vedere quello che non c’era; mi illudevo di non vedere quello che c’era. Toglievo dal puzzle un solo “piccolo” tassello: l’impossibilità della scelta. Chi camminava e correva poteva scegliere di procedere velocemente o lentamente, di scavalcare una formica o di trascorrere del tempo con lei. Io su questo non potevo scegliere. Così come, più tardi, da adolescente, non potevo scegliere se attraversare la strada da sola o farmi aiutare. Non potevo scegliere di scendere alla fermata giusta dell’autobus se questa era dalla parte “sbagliata”,

con un marciapiede troppo alto, o con una strada da attraversare. Ecco, una piccola lobotomia analgesica e riuscivo a sopravvivere, a dare un significato all’errore, un valore al dolore, uno spessore all’autostima. Mi sentivo più leggera. Non lo ero, no; avevo solo il simulacro della leggerezza, per apparire “più facile” a me stessa e agli altri, alla “alterità”. Allora, ero bambina. Oggi, però, persone adulte propongono la medesima associazione: disabilità, fortuna, opportunità, regalo. Persone adulte. Perché? Dovrei forse sentirmi in colpa perché proprio non l’avverto questa mia fortuna? E no, basta con i giochi di prestigio. Forse comincio a capire. L’handicappato “felice” di esserlo pone meno problemi, si accontenta, fa il massimo, chiede poco; non pone un disagio emotivo, una tristezza, una lacrima, un dolore. Ecco un nuovo “modello”: l’handicappato, non solo “felice”, ma felice proprio in virtù del suo handicap. Fatto! Ogni cosa al suo posto. Il prototipo è servito. L’handicappato (felice in virtù del suo handicap) non percepisce i propri pesi, o li accetta con gioia, perciò non dà pesi da condividere. Ha la dignità dell’autosussistenza, quanto meno emotiva. Mi par di sentire: “…eppure ce la fa con tanto decoro, con tanta dignità, con

K Pasqualina Bonifacio Insegna filosofia nei licei.

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I L tanta fierezza”. Chiaro: non chiede, o si accontenta di poco e ringrazia. Ha tanta forza, che ha acquisito dovendosi confrontare con la sofferenza. Ne ha così tanta da poterla donare anche a chi (non avendo compiuto schermaglie con il dolore) si è temprato meno. Dunque… non chiede, e in questo caso dà. Non chiede, ma dà. Incredibile! È stata (o era stata?) una grande conquista sociale quella del principio “dare di più a chi più ha bisogno”, e ora ci ritroviamo con il principio “dare di meno a chi più ha bisogno”. Ecco il passo indietro. Voglio provare a guardare specularmente. La persona con disabilità qualche volta, o spesso, può aver bisogno di vedere la propria disabilità come una fortuna o, teleologicamente, come un “mezzo per un fine”. Perché? Forse perché si crede che se il proprio handicap ha un senso, ha

un senso anche il proprio io, se il proprio handicap non ha un senso, non ne ha nemmeno il proprio io. Dal punto di vista più ampio, del consesso sociale, sempre più si favorisce la strutturazione dell’idealtipo che dal suo handicap trae forza e ne elargisce, quasi un supereroe. Perché? Forse perché conviene? Forse perché è economicamente meno dispendioso? Forse perché in periodo di crisi gli handicappati “costano” troppo? Forse perché tanti handicappati sono un ostacolo allo sviluppo? E allora… tagliamo terapie, sussidi, e quant’altro. Tanto l’handicappato ha dignità, e chiede poco o nulla. Da un lato della medaglia c’è l’idealtipo dell’handicappato “eroe”. Dall’altro lato della medaglia, però, si stanno costruendo schemi mentali che conducano l’handicappato a “vergognarsi di chiedere”, vergognarsi di “non farcela”. In sintesi: o eroe, o palla al

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piede per la società. Wow! Forse non si tratta di un solo passo indietro. Allora? Allora niente, non ho grandi soluzioni magiche da proporre. So quello che io per ora voglio fare. Voglio cominciare a capire, a strappare il velo di Maya, ad avere sempre più coscienza. Una vera coscienza, non falsa. E se la parola coscienza richiama idee ritenute morte, per me non è un problema, è una scelta. Strappare il velo di Maya Questa coscienza mi dice che il mio handicap non è una fortuna, non è un mezzo per un fine, non è un dono. La fortuna la si augura alle persone care, e io non augurerei questa mia disabilità a nessuno. Non è una fortuna; semmai è una fortuna che io sopravviva e viva nonostante il mio handicap. E qualche volta mi capita anche di vivere “bene”! Il mio handicap non ha un senso, è proprio quello che è, uno schifo, qualcosa che avrei evitato volentieri. Il mio handicap non ha un senso, ma io sì, io ho un senso, uno o più, quelli che vorrò darmi, quelli che ho costruito e che vorrò costruire. Anch’io, a dir la verità, per quanto sia sbagliato, faccio parte della schiera di quanti hanno pudore di chiedere ad alta voce e di rivendicare quelli che sono (o dovrebbero essere) diritti. Forse imparerò a farlo, forse no. Ma so che la mia coscienza sta diventando sempre più chiara. E sto imparando a raccontare, a lanciare un sasso nello stagno. Forse riceverò indietro altri sassi, non nello stagno, ma contro di me; o forse no o non solo. Mi piace ormai dirlo: “Un sasso nello stagno… in fondo smuove l’acqua”. K ,

Latuff, Swine flu! swine flu!, 2009, licenza creative commons.

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Placca pubblicitaria del Biberon Robert, 1890-1900, MuCEM, Marsiglia.

Prevenire o curare? La storia che ha trasformato il parto da momento familiare e privato in evento medicalizzato. Metodi naturali e non a confronto.

R K Chiara Quagliarello Dottoranda in Antropologia e Studi Culturali all’Università di Siena. 30

iflettere criticamente sul tema della sanitarizzazione della vita, così come proposto dal filosofo Ivan Illich nella sua opera Nemesi medica, significa innanzitutto chiedersi se prevenire è meglio che curare ovvero se la diffusione di un modus vivendi incentrato sulla prevenzione abbia condotto a una riduzione della necessità di cura.

Il primo passo da compiere per rispondere a questo interrogativo è comprendere come la prevenzione sia diventata uno dei valori cardine del nostro sistema terapeutico. Questo esercizio di “sociogenesi”, strumento di analisi della cosiddetta antropologia medica critica, rimanda alla trasformazione, avvenuta intorno al XIX secolo, della medicina in biomedicina. Il suo passaggio da scienza

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I L preposta alla cura a sapere atto a regolamentare gli utilizzi del corpo si è infatti tradotto in quello che Illich definisce imperialismo diagnostico: il ricorso al sapere medico anche in assenza di immediati bisogni terapeutici elimina di fatto l’esistenza di ambiti della vita estranei alla competenza medica. Tale affermazione della medicina come sapere olistico è avvenuta tramite la promozione di nuove categorie cui fare riferimento per la rappresentazione del sé, tra queste le principali sono quelle della prevenzione del rischio ovvero della sicurezza. La difficile idea di salute La loro presa sull’immaginario comune ha avuto per effetto la produzione di nuovi bisogni terapeutici. In breve tempo all’idea di salute come assenza di malattia si sostituisce quella di salute come corretto funzionamento del corpo: di qui la crescente richiesta di verificare la qualità delle proprie risorse. È in questo contesto che la consultazione dell’esperto e l’affidamento al suo sapere assumono la funzione di pratiche normalizzate. Dal momento che l’assenza di patologie non basta a certificare il proprio benessere, l’assidua frequentazione di ambulatori e studi medici, esami, screening e test diagnostici sono entrati a far parte della nostra quotidianità. Se in passato il sapere medico era l’ultima risorsa di cui servirsi solo in caso di gravi malattie e in mancanza di altri rimedi terapeutici “fatti in casa”, oggi sarebbe impensabile un’amministrazione del sé corporeo senza il parere dell’esperto. Come evidenzia Michel Foucault in La volontà di sapere, la detenzione di un sapere determina implicitamente l’esercizio di un rapporto di potere. In tal senso la relazione medico paziente appare oggi una forma naturalizzata di assoggettamento presente nel nostro contesto culturale. Il meccanismo sotteso al suo funzionamento è descritto dalla sociologa Dominique Memmi come una forma di biopolitica delegata: è a partire da una specifica rappresentazione del corpo e delle sue funzioni che si impone il ricorso all’esperto, è a partire dalla costruzione di nuovi bisogni che prende

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forma il processo di sanitarizzazione della vita. L’evento procreativo costituisce un esempio emblematico di colonizzazione da parte della medicina di un’esperienza tradizionalmente estranea al suo campo di interessi. Il processo di ridefinizione del parto come evento sanitario da affidare agli esperti è durato circa due secoli (XIX e XX) e ha condotto alla completa reinvenzione di questa esperienza. Un

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progressivamente sostituito da un nuovo sistema assistenziale basato all’opposto sui valori dell’igiene e della prevenzione. L’estromissione della levatrice dalla cosiddetta scena del parto coincide dunque con il trasferimento di tale esperienza dallo spazio domestico a quello ospedaliero. Qui la donna non deve fare altro che affidarsi all’équipe di esperti preposta alla sua assistenza.

La patologizzazione del parto, di cui si considerano solo i rischi, funziona da premessa necessaria per avere libero accesso al corpo della donna.

tempo evento normale e naturale ricorrente nella vita di una donna, il parto era solitamente amministrato all’interno dello spazio domestico. Qui la sola esperta consultata e ammessa nella scena del parto era la levatrice. Il suo era un sapere pratico, basato cioé sull’esperienza accumulata assistendo le donne. Il ripensamento del parto in evento da realizzare in ambito ospedaliero alla presenza di “veri esperti” è correlato alla sua riformulazione come esperienza rischiosa per il benessere materno e quindi fetale. Il ripensamento del parto come evento pericoloso per il benessere materno fetale ha condotto a una vera e propria “caccia alla levatrice” avallata dai governi dell’epoca. L’accusa mossa nei suoi confronti era quella di contribuire alla mortalità maternoinfantile già molto elevata, fino al XX secolo, in ambito europeo. In particolare, si riteneva che questa fosse dovuta alla mancata asetticità dell’ambiente domestico e al ricorso a un saper fare distante da una conoscenza di tipo scientifico. Il suo modus operandi, ritenuto poco sicuro, viene così

La gestione biomedica del parto La sua buona riuscita comincia pertanto a essere affidata alle tecniche e tecnologie mediche in grado di monitorare e rettificare l’andamento del processo. Sarà il “tribunale degli esperti” a valutare la qualità dell’esperienza intervenendo qualora ce ne fosse bisogno. La patologizzazione del parto, di cui si considerano solo i rischi, funziona quindi da premessa necessaria per avere libero accesso al corpo della donna. Quest’ultimo, esplorato in ogni sua parte, viene trasformato in un luogo pubblico sul quale operano diversi esperti. Una delle zone più intime del corpo diventa così oggetto di attenzione da parte di sconosciuti legittimati a migliorarne il funzionamento. La perfettibilità dell’esperienza si riflette nella ricorrente distinzione tassonomica tra parto ad alto rischio e a basso rischio: la scelta di fare in ogni caso riferimento ai rischi evidenzia la necessità di ricorrere all’assistenza medico-ospedaliera anche in assenza di complicazioni evidenti. Il bisogno di verificare il grado di normalità del proprio parto subordina di fatto la condotta individuale alla vo31


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lontà degli esperti. L’impossibilità di negoziare i termini dell’esperienza dipende dal suo inquadramento all’interno di uno standard predefinito che ne stabilisce tempi e modi di svolgimento. Lo scarto individuale rispetto ai parametri di normalità viene risolto

Il bisogno di prevenzione non conduce quindi a una riduzione della domanda di cura ma a un suo aumento. Pertanto all’interrogativo posto in partenza, ovvero se prevenire è meglio che curare, si risponderà dunque che sì, prevenire è meglio per curare.

La messa in discussione della validità universale delle operazioni mediche è affiancata dalla proposta di un nuovo sistema di accompagnamento al parto affidato che comprende la sola ostetrica.

ricorrendo alle tecniche mediche ovvero intervenendo sul corpo. Le principali forme di intervento volte ad adeguare la condotta personale alla tempistica ospedaliera sono l’induzione farmacologica del travaglio tramite l’applicazione della flebo di ossitocina, la rottura artificiale della membrana, l’episiotomia (incisione all’altezza del perineo al fine di aumentare la dilatazione vaginale) e altre operazioni chirurgiche tra cui la più estrema è indubbiamente il taglio cesareo. In breve tempo la crescente medicalizzazione del parto ha determinato un suo progressivo snaturamento fino a trasformarlo in un evento rapido e indolore. L’attesa e la sofferenza vengono oggi considerate uno scandalo rispetto alle possibilità terapeutiche. Questa tendenza è particolarmente evidente in Italia dove la percentuale di cesarei è la più alta d’Europa e la richiesta di partoanalgesia in continuo aumento. In entrambi i casi si tratta di bisogni prima suggeriti, e poi assolti, dal sapere medico. La volontà di prevenire gli eventuali rischi, la lunga durata del travaglio o il dolore del parto, si traduce dunque in un accrescimento del livello di medicalizzazione dell’esperienza.

L’alternativa del parto naturale Nella seconda metà degli anni Settanta comincia a diffondersi in Europa un nuovo modello di amministrazione del parto: il cosiddetto parto naturale. Il principio sotteso alla sua sperimentazione in ambito francese è che il parto non debba essere considerato un evento a rischio ma un fatto di natura, un’esperienza fisiologica connaturata al funzionamento del corpo femminile. Alla necessità di affidarne la buona riuscita agli esperti si contrappone quella di sottrarre la sua amministrazione dalle loro mani. Questo tentativo di restituire alla donna il ruolo di protagonista si traduce nella promozione di un’assistenza demedicalizzata. Ciò che bisogna prevenire in questo caso è l’eccessivo ricorso alle tecniche e alle tecnologie mediche, efficaci solo in presenza di rischi. La critica mossa alla medicina preventiva è quella di essere una medicina difensiva: secondo i promotori del parto naturale, infatti, la scelta di intervenire oltre il dovuto non rappresenta una forma di aiuto ma un’alterazione del processo procreativo. A loro avviso, molte delle operazioni mediche non presentano alcuna efficacia terapeutica

ma servono piuttosto a incrementare l’efficienza ospedaliera grazie alla riduzione dei tempi di lavoro. Una delle definizioni del parto naturale proposta da Michel Odent è infatti quella di modello assistenziale postelettronico in cui il prefisso post sta a indicare proprio il superamento dell’idea che il ricorso alla tecnologia costituisca una garanzia dell’assenza di rischi. Alla pars destruens segue la pars construens: la messa in discussione della validità universale delle operazioni mediche è affiancata dalla proposta di un nuovo sistema di accompagnamento al parto affidato che comprende, nella maggior parte dei casi, la sola ostetrica. Tale esclusività della presenza ostetrica si traduce nella possibilità di instaurare un rapporto di collaborazione volto a evitare il ricorso a interventi non necessari. Il corpo non appare più terreno privilegiato dell’azione medica ma una riserva di risorse da sfruttare al massimo. La relazione di intesa con l’ostetrica risulta pertanto fondamentale: è insieme a lei che la donna cercherà di individuare la condotta più adeguata alle proprie esigenze. Qui, a differenza del modello biomedico, non esiste un percorso ospedaliero omologato e omologante. La considera-

Bambola di bambino fasciato, metà Ottocento. 32

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zione dei bisogni individuali si traduce al contrario in una molteplicità di possibili forme di realizzazione. Il rispetto dei ritmi personali è garantito dall’attesa che la natura faccia il suo corso: il fare sul corpo è qui rimpiazzato dal lasciar fare al corpo. Il lavoro del corpo Dall’idea che il parto sia un fatto di natura deriva infatti la scelta di agevolare la sua riuscita senza ricorrere a farmaci e operazioni mediche. Le tecniche di cui si serve l’ostetrica puntano piuttosto a potenziare delle competenze già inscritte nel corpo. Le donne, ricorrendo a quelle che Marcel Mauss ha definito tecniche del corpo, (ri)scoprono le possibilità connaturate al sé corporeo abbandonando la richiesta di intervento. Tra queste, le più diffuse riguardano la conduzione del travaglio e il superamento del suo dolore. Prendendo come esempio il caso della stanza del parto naturale di Poggibonsi vicino a Siena, una delle prime nel panorama ospedaliero italiano a promuovere questo tipo di assistenza, è possibile constatare come queste siano rappresentate innanzitutto dalle posizioni assunte dalle donne durante il travaglio. Infatti, se l’unica posizione ammessa in sala parto è di solito quella supina, il modello del parto naturale non la prescrive lasciando la donna libera di scegliere come partorire. È assecondando i bisogni suggeriti dal corpo che si favorisce l’avanzamento del processo e, allo stesso modo, si evita il ricorso agli anestetici. L’opportunità di stare nella posizione che si preferisce (seduta, in piedi, accovacciata, carponi, a terra, nell’acqua) è correlata al tentativo di interferire il meno possibile nella progressione del travaglio: se infatti la posizione supina consente al personale ospedaliero di operare facilmente sulla donna, in questo caso viene considerata un ostacolo al lavoro svolto dal corpo poiché ne limita le potenzialità. Il dolore, in quanto elemento costitutivo dell’esperienza, non viene eliminato ma alleviato in modo naturale tramite particolari tecniche di respirazione, massaggi o ancora l’idroterapia e anche l’omeopatia.

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Leah Tiscione, Manifesto per la campagna di Ron Paul, 2008, cortesia dell’autrice.

L’imperialismo diagnostico Questi rimedi palliativi servono ad agevolare la dilatazione vaginale evitando così di intervenire manualmente e/o farmacologicamente. L’enfasi posta sulla naturalità dell’evento coincide dunque con la ricerca di soluzioni alternative alla medicalizzazione. Di fatto, la mancata costruzione di bisogni funzionali alla domanda di cura limita le occasioni di intervento. Solo un bisogno viene riconosciuto come effettivo: quello del supporto emotivo alla persona. L’accompagnamento al parto si caratterizza pertanto come una

presa in carico della persona nella sua interezza piuttosto che come un itinerario terapeutico standardizzato. Prendersi cura e curare, resi rispettivamente dai termini inglesi care e cure, appaiono in sintesi i principi cardine sottesi ai due differenti modelli ospedalieri. Eccezione rispetto alla regola, il parto naturale fa dunque da contrappeso alla tendenza dominante in ambito europeo e soprattutto italiano. Rimettere alla donna l’amministrazione del parto consente infatti la sottrazione del sé dal ruolo ormai scontato di paziente. Se la retorica del rischio e il conse33


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guente bisogno di sicurezza hanno prodotto una normalizzazione della delega all’esperto, il modello del parto naturale vuole restituire al soggetto la possibilità di disporre del proprio corpo, che diviene così fonte di azione creativa piuttosto che oggetto di lavoro altrui. Il parto naturale: una scelta critica Quindi, se da un lato il parto naturale ha rappresentato e tuttora rappresenta una pratica di resistenza, ovvero una presa di posizione critica rispetto all’attuale imperialismo diagnostico, dall’altro lato, il mancato assoggettamento all’azione altrui non basta a eliminare del tutto la condizione di dipendenza dal “tribunale degli esperti”: l’intervento sul corpo viene infatti sostituito da un orientamento al suo utilizzo. In quanto alternativa volta a ridimensionare la crescente medicalizzazione del processo, il parto naturale appare comunque un modello predeterminato al soggetto. Alla possibilità di negoziare i termini della propria esperienza si affianca la necessità di adeguarla al parere dell’esperto. La potenziale sottrazione dal ruolo di paziente non sembra dunque sufficiente a garantire la completa estraneità dai giochi di potere correlati al bisogno di ricorrere a un sapere specialistico anche in presenza di un evento definito naturale. K

Un potere invisibile e insidioso Attraverso una serie di strumenti, che possono essere l’educazione, il martellamento attraverso i media, il discorso pubblico, il discorso del governo, si riesce a far interiorizzare molte paure, e cioè a far portare all’individuo, dentro di sé, la responsabilità di quello che potrebbe accadere. Questo si vede molto bene nel tema della sanità, dell’igiene, delle malattie, ed è credo uno strumento di controllo. Siamo pieni di divieti: siamo in permanenza sottoposti a divieti alimentari, sessuali, igienici, questi sono biopoteri con la maiuscola. Per cui non puoi fumare che c’è il cartello con scritto che ti ammazza e c’è la figura del polmone annerito, oppure non puoi mangiare perché c’è scritto che diventerai obeso.

James Gillroy, The Cow-Pock or the wonderful effects of the new inoculation, 1802.

A P P R O F O N D I R E K

M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano, 1978.

K

I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Boroli Editore, Milano, 2005.

K

D. Memmi, Faire vivre et laisser mourir: le governement contemporain de la naissance et de la mort, Edition La Découverte, Paris, 2003.

K

M. Odent, Ecologia della nascita: una via antica e nuova al parto naturale, Red Edizioni, Como, 1989.

K

F. Pizzini (a cura di), Sulla scena del parto: luoghi, figure, pratiche, Franco Angeli Editore, Milano, 1981.

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Negli Stati Uniti alcuni anni fa un’assicurazione rifiutò di pagare le spese mediche di un malato di aids perché era stato avvertito del pericolo e non aveva avuto “comportamenti sessuali adeguati”. Per cui ormai c’è la buona e la cattiva alimentazione, la buona e cattiva sessualità, la buona e cattiva igiene, così come c’è il buono o cattivo comportamento sociale. La devianza sociale ormai è patologicizzata, e quando cerchi di prendere un mutuo per comprare la macchina, la casa o muoverti in qualunque modo, comunque ti viene ribadita la tua appartenenza a una categoria che è una categoria di gestione assicurativa, attuariale del rischio, che tu presenti, e quel rischio è responsabilità tua. Ora io credo che il nesso tra paura e sicurezza sia assolutamente ovvio, così come c’è un legame con questo genere di nuove tecniche di controllo. Il fronte rischioresponsabilità è una di quelle tipologie di potere fra le più pericolose, e anche più insidiose, delle più diffuse e invisibili che ci portiamo dentro di noi. Tratto da: Maria Fiano, Intervista a Judith Revel, Radio Sherwood, 2007.

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La Vergine venerata dagli angeli e dai fedeli, illustrazione del Ta’ Maryam (I miracoli della Madonna), Etiopia, XVII secolo, British Museum, Londra.

Il simbolo mariano nella storia

Anche se fortemente contestato dai protestanti, quello mariano è il complesso simbolico più vasto e articolato elaborato dall’Occidente. E solo da un secolo la devozione alla Madonna è diventata patrimonio quasi esclusivo di una pietà femminile stucchevole, sdolcinata e sentimentale. Nel passato il culto mariano si espresse anche in forme virili e combattive, spesso in connessione a valori politici e sociali.

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In questo dossier esaminiamo alcuni momenti di questa vicenda simbolica millenaria, dalle sue origini nell’ideologia imperiale della corte bizantina sino alla connessione con la nascita di alcune moderne identità nazionali. Senza dimenticare, infine, lo straordinario successo nella contemporaneità del fenomeno apparizionistico, che mai nel passato ebbe dimensioni e rilevanza paragonabili all’attualità.

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La Madonna imperatrice Nei Vangeli si parla molto poco della Madonna e Cristo si rivolge a lei chiamandola sempre “donna”, mai “madre”. Il suo culto è nato tardi, nel VI secolo, presso la corte di Bisanzio, in connessione con la teologia imperiale. Esaminiamo l’icona del monte Sinai, qui a fianco, la sua prima immagine mai dipinta.

La Madonna in trono fra i santi Teodoro e Giorgio, icona a encausto, VI secolo, monastero di Santa Caterina, Sinai, Egitto.

C K Ubaldo Nicola Direttore di Diogene.

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ertamente ogni cattolico conosce i passi salienti dei Vangeli, ma si tratta di una conoscenza orale e rapsodica, perché quasi altrettanto certamente non l’ha mai letto per intero. Molti immaginano così che la Madonna abbia un ruolo rilevante nei Vangeli, pari a quello che ha nell’arte e

nella letteratura. Ma non è così. Le rare citazioni che gli evangelisti le dedicano hanno sempre un evidente significato simbolico; sottolineano che anche Gesù aveva una madre; chiariscono che per quanto avesse una natura divina si era pur sempre incarnato in un essere umano. Ma non dimostrano alcun interesse per Maria come figura umana, per 37


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Giustiniano e la sua corte, mosaico del VI secolo, chiesa di San Vitale, Ravenna.

i suoi pensieri, per come abbia potuto vivere la sua straordinaria esperienza. E anche quando Gesù si rivolge a lei, chiamandola sempre “donna” e mai “madre”, il suo ruolo simbolico rimane prevalente. Sembra questa l’unica giustificazione per la straordinaria mancanza di pietà filiale dimostrata da Gesù: nelle cinque occorrenze in cui entra in rapporto con lei il suo scopo è sempre negare i valori della famiglia, e quindi delle appartenenze sociali e razziali. “Perché mi cercavate? Non sapevate che debbo occuparmi delle cose del Padre mio?”, rispose ai genitori preoccupati per la sua assenza, quando aveva solo dodici anni. A chi lo informava che i suoi parenti, sua madre e i suoi fratelli, chiedevano di parlargli, rispose “Chi è mia madre? Chi sono i miei fratelli?” e stendendo la mano verso i discepoli disse: ”Ecco mia madre, ecco i miei fratelli”. Alla donna che alzò la voce nella folla per dirgli: “Beato il grembo che ti ha portato”, rispose: “Beati piuttosto co38

loro che ascoltano la parola di Dio”. Per non parlare poi di quel “Che ho a che fare con te, o donna?”, ai limiti della sgarberia, con cui Gesù risponde alla domanda della madre di operare il miracolo di Cana. È un fatto che Gesù, tenerissimo con tutti, riserva a sua madre, solo a lei, toni di estrema durezza, sino a quel drammatico “Donna, ecco tuo figlio”, quasi spietato nella sua laconicità, con cui sulla croce la affida a Giovanni. Il silenzio della Scrittura Potrà sembrare strano, ma che i Vangeli non dimostrino alcun interesse per Maria come persona umana è un dato riconosciuto da tutte le teologie, anche le cattoliche più filomariane, tanto che si è universalmente convenuto di chiamarlo “silenzio della Scrittura”. Vedremo nell’articolo a pagina 50 in quanti modi questo silenzio possa essere spiegato, qui basti a giustificare il grande ritardo con cui nacque il primo culto mariano, ben dopo quello dei martiri e dei santi, dopo la nascita del

monachesimo e lo sviluppo della Patristica cristiana. Per tutti i primi cinque secoli del cristianesimo Maria entra nei discorsi dei teologi solo in funzione cristologica, ossia come dimostrazione della doppia natura di Gesù, ruolo sancito dai dogmi della sua divina maternità e della sua perenne verginità. Ma i padri della Chiesa diffidano di ogni ulteriore curiosità sulla sua persona e condannano le proposte di dedicare a Maria un culto specifico e particolare. La Madonna basilissa Il culto mariano scoppia con fragore dalla metà del VI secolo ed arriva in Europa dal vicino Medio Oriente dominato allora dall’impero bizantino. La sua prima immagine in assoluto è l’icona conservata al monastero del monte Sinai in Egitto, consacrato alla Santa Vergine e fatto edificare da Giustiniano dopo la morte della moglie Teodora, cui il tempio è dedicato, come ancora si legge in un’iscrizione su una

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Teodora e la sua corte, mosaico del VI secolo, chiesa di San Vitale, Ravenna.

trave del soffitto, nell’esatto luogo in cui Mosè scorse il roveto ardente. È un luogo straordinario, non solo per essere il più antico della cristianità ma anche per non aver mai subito alcun atto ostile durante i quindici secoli della sua esistenza. Qui si conservano, intatti, i prototipi delle più importanti icone della cristianità: il Pantocratore e la Madonna in trono, miracolosamente sopravvissuti anche alla bufera iconoclasta che dal VII all’VIII secolo comportò la distruzione dell’intero patrimonio iconografico del mondo bizantino. Per capire il significato della Madonna in trono del Sinai bisognerebbe essere capaci di eliminare dalla nostra mente tutte le innumerevoli attribuzioni che nel corso di quindici secoli si sono via via stratificate sull’archetipo mariano. Non esisteva, allora, la Madonna della grotta di Betlemme ed anzi ogni accenno alla povertà della famiglia di Gesù, o alle vicende della sua infanzia, appariva molto sconveniente. Per arrivare al rosario, l’Ave Maria o il presepe

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bisogna attendere la fine del Medioevo e per le Madonne piangenti o i temi della mariologia più sdolcinata addirittura l’epoca attuale. La Chiesa trionfante Nella sua prima rappresentazione la Madonna è l’imperatrice: affiancata dai due santi-guerrieri, Teodoro e Giorgio, con le lussuose vesti dei dignitari di corte, siede su un trono rialzato e gemmato tenendo Gesù sulle ginocchia. Che sia la basilissa (l’imperatrice) lo dimostra un particolare evidente nel VI secolo: le sue scarpe sono rosse, colore che una lunga tradizione, conservatasi sino all’epoca moderna, riservava ai sovrani (perché schiacciando i nemici tingevano le loro scarpe nel loro sangue). Non c’è da stupirsi del fatto che questo modello iconografico attecchisse subito a Roma, se si pensa che la Madonna in trono venne qui assunta come simbolo della Chiesa, che muoveva allora i primi ma impetuosi passi nel mondo temporale. Dal VI all’XI secolo la sim-

bologia mariana in Occidente divenne un aspetto funzionale alla Chiesa trionfante. Come madre di Cristo, poteva esserlo di tutti i cristiani e la simbologia imperiale che connota il modello ben si prestava a esemplificare la sovranità sociale e politica rivendicata dalla Chiesa. D’altra parte, nel mondo bizantino in cui nacque l’immagine della Madonna in trono non esisteva una Chiesa come potere autonomo e distinto da quello politico. Secondo il principio del cesaro-papismo, al vertice del potere politico, il basileus, spettava anche la guida di quello religioso. Lo si vede nel mosaico di Giustiniano a San Vitale, in cui i vescovi attorniano il sovrano, al pari dei militari e funzionari dello Stato. Qual è allora il senso originario della Madonna del Sinai e delle innumerevoli repliche che per secoli proliferarono nel mondo bizantino? Per capirlo dobbiamo approfondire i principi della teologia imperiale di Giustiniano, il principe cristiano cui si deve l’edificazione del monastero sinaitico e con 39


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tutta probabilità il programma delle icone ivi depositate. Lo possiamo fare esaminando i due mosaici che a san Vitale a Ravenna illustrano le figure del basileus e di sua moglie Teodora. Giustiniano e Teodora Nel pannello di Giustiniano gli oggetti rappresentati (l’offerta, la corona) non sembrano avere una prevalente funzione simbolica, non sembrano cioè alludere a significati ulteriori. Indicano

piuttosto con precisione denotativa il ruolo sociale delle figure rappresentate: lo scudo e le lance dicono che i personaggi alla destra dell’imperatore sono soldati di origine barbara, mentre il libro e l’incensorio nelle mani dei personaggi sulla sinistra li qualificano come appartenenti al clero. Le altre figure, poi, sono addirittura personalmente identificabili: vi è Massimiliano, l’arcivescovo di Ravenna, come spiega la scritta che lo sovrasta, e tra questi e

l’imperatore compare Giuliano l’Argentario, il banchiere ravennate che aveva sponsorizzato l’impresa, conclusasi nel 547. Il senso della rappresentazione è chiaro: la figura di Giustiniano si pone come perno centrale dei vari gruppi che compongono la società bizantina. L’imperatore, con l’orecchino, appare di venti anni più giovane di quanto fosse in quel momento e spicca sugli altri sia per essere al centro dell’immagine sia per il colore rosso della

La Madonna della Clemenza e Teodora Vi è un’evidente somiglianza fra la Teodora di San Vitale e la Madonna della Clemenza della basilica di Santa Maria in Trastevere, una delle prime icone mariane romane, anch’essa del VI secolo. E si capisce: dovendo immaginare Maria come imperatrice, come non ispirarsi al mosaico ravennate, il miglior prototipo di rappresentazione della sovranità allora disponibile in Italia? Tale somiglianza prova solo una superficiale continuità iconografica, ma è comunque suggestivo che il volto con cui si immaginò la Madonna derivi da quello della donna più vituperata della storia. Di certo, prima che Giustiniano la sposasse (e per farlo dovette abolire la legge che vietava agli imperatori nozze con donne di tanto bassa estrazione sociale), Teodora, figlia di un addestratore di orsi, lavorava nel circo esibendosi in spettacoli impudichi. Lo storico di corte dell’epoca, Procopio di Cesarea, racconta nella sua Storia segreta che “si abbandonava nuda sul pavimento, e vi giaceva supina: gli inservienti le buttavano sopra le vergogne dei chicchi di orzo, e alcune oche addestrate li mangiavano, beccandoli di là ad uno ad uno”. Procopio però finge di non sapere che quella era una scenetta classica nel teatro d’avanspettacolo dell’epoca, una parodia del mito di Giove che si traTeodora, particolare dei mosaici di San Vitale. sforma in cigno per violentare Leda. E comunque il livello di perversione sessuale che egli attribuisce al periodo prematrimoniale di Teodora è tanto iperbolico da risultare incredibile: “Riunitasi a cena con una decina di giovanotti, o anche più, nel pieno delle forze, e validi nelle opere di lussuria, si giaceva per l’intera notte, e poi andava a cercare i loro servi, fossero anche trenta. E mentre faceva il suo mestiere da tre parti, accusava la natura di non averle dato seni tanto grandi da non poter attuare anche con essi un’altra forma di congiungimento”. Forse Procopio raccoglieva le dicerie più basse sul Palazzo, e certo dovette nascondere con grande attenzione il manoscritto della sua Storia (scoperto solo nel XVIII secolo). Nella quale, però, traspare qualcosa che va oltre l’odio personale. Procopio era sinceramente convinto che quella per cui prestava servizio fosse “una coppia di demoni funesti, rivestiti in forma umana per sconvolgere l’universo intero”. Giustiniano “tranquillo nel volto, con fermo ciglio e voce bassa, ordinava lo sterminio di miriadi di innocenti” e comunque di notte era stato visto “trasformarsi in volto in una cosa di carne informe, senza più sopracciglia né occhi al loro posto”. Il divino si inverte in diabolico, ma continua a esprimersi nel dualismo complementare della coppia imperiale. Perché secondo Procopio, Giustiniano e Teodora, per quanto fossero persone diversissime sotto ogni aspetto, e simulassero spesso d’essere in disaccordo per meglio confondere i sudditi, “non fecero mai nulla l’uno separatamente dall’altra”. Madonna della Clemenza, basilica di S. Maria in Trastevere, VI-VII secolo, Roma.

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I L porpora imperiale, ma non ha un’altezza superiore agli altri, cui anzi è strettamente unito tramite l’artificiosità della sua posizione spaziale, per cui appare a sinistra dietro Massimiliano e a destra davanti alla figura del funzionario. Il senso ideologico di questo “errore prospettico” sta nel mostrare come l’imperatore sia strutturalmente e inestricabilmente connesso con la società che è chiamato a governare, rappresentata dai soldati, dai funzionari e dal clero che lo affiancano. Si nota la mancanza di qualunque simbologia religiosa. Anche l’offerta che Giustiniano tiene in mano non sembra possedere ulteriori significati oltre al richiamare le celebrazioni liturgiche nella solenne cornice della chiesa di Santa Sofia, culminanti nell’offerta di un dono sull’altare da parte della coppia imperiale, seguita in processione dai rappresentanti dei ceti sociali, spettacolo certo ben noto ai contemporanei. Il pannello dedicato a Teodora mostra invece una sovrabbondanza simbolica. Nonostante fosse di bassa statura, appare più alta delle sue dame di corte, e anche l’edicola che la circonda era un simbolo usato per indicare la sovranità. La fontana, agli osservatori dell’epoca, poteva ricordare quella simile posta nella chiesa della Vergine Sorgente di Vita, ben nota agli abitanti di Bisanzio da almeno un secolo, connessa a una fonte di acqua miracolosa ancora oggi visibile nella cripta del santuario di Balilkli, la Lourdes dei Bizantini. La porta era un simbolo già in auge nella cultura pagana e platonica, molto usato nelle illustrazioni tombali o comunque relative al destino dell’anima dopo la morte (la porta dell’Ade, del Paradiso, dell’Aldilà). Già i romani dedicavano una venerazione speciale alle soglie delle porte, che durante le cerimonie nuziali erano oggetto di culto particolare. E il cristianesimo riprese questa simbologia pagana sino a svilupparla in modo formidabile nell’architettura gotica. I due simboli sulla sinistra, quindi, integrandosi fra loro, uno dietro l’altro, indicano la vita (l’inesauribile Fons perennis) e la morte nel loro significato trascendente. Notevole, infine, il corteo dei tre Re Magi che decora, in basso, la

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È molto probabile che i mosaici di san Vitale ripetano temi della propaganda imperiale illustrati sugli striscioni che a Bisanzio accompagnavano le processioni in onore del basileus e della basilissa.

clamide di Teodora, l’unico esplicito richiamo alle Scritture nei due pannelli. È nel contempo un riferimento sia alla sovranità (i Re Magi erano sovrani dell’Oriente), sia alla Natività e quindi alla Madonna. Il dualismo della teologia imperiale Il senso ideologico dei due pannelli si chiarisce nel contesto in cui sono inseriti. Entrambi, infatti, sono affiancati da mosaici dedicati a Mosè, ritratto sul lato di Teodora, mentre, dopo aver accarezzato una pecora (è il tema della mansuetudine), scorge il roveto ardente, e sul lato di Giustiniano mentre scende dal Monte Sinai con le celebri tavole, la Legge che tramite lui Dio impone al suo popolo eletto. L’identificazione fra Mosè e il concetto di sovranità imperiale è evidente e suffragata dalla lettura d’ordine fortemente politico con cui la cultura teologica dell’epoca interpretava questa figura. Capo politico e profeta a un tempo, il liberatore dalla schiavitù egiziana, il legislatore, l’edificatore della prima struttura amministrativa del popolo ebraico, Mosè era per antonomasia l’intermediario fra Dio e l’umanità. Svolgendo di fatto, dicono i mosaici, lo stesso ruolo che sarebbe poi spettato a Giustiniano. E a sua moglie Teodora, perché al riguardo il loro discorso è molto chiaro Il potere non si giustifica né per consenso popolare (la tradizionale acclamazione nell’ippodromo) né per effetto di un divino atto di volontà, come era implicito nella tradizione iconografica risalente a Costantino che mostrava l’imperatore incoronato dalla mano di Dio, ribadendo però così, d’altra parte,

la natura prettamente umana dell’imperatore, per quanto fosse “il prescelto”. Il potere si giustifica per quello che è: una zona sacra intermedia fra Dio e gli uomini, la cui funzione è sovrapponibile alla figura di Mosè, il mediatore per eccellenza fra l’umano e il divino. Proprio perché caratterizzato come mediazione, il potere presenta due aspetti diversi ma complementari: l’uno rivolto verso il mondo terreno, l’altro verso la sfera del trascendente. E questa polarità funzionale può essere espressa attraverso una simbologia parentale: in quanto padre-marito-maschio, il potere opera nel mondo, legifera e governa; in quanto madre-moglie-femmina inserisce queste scelte mondane in una prospettiva ultraterrena connotata fortemente dal punto di vista religioso. In Arte e cerimoniale nell’antichità, Sabine MacCormack sintetizza questa lettura simbolica dei mosaici di San Vitale con una formula precisa: il ruolo di Giustiniano è “formulare le leggi”, quello di Teodora “vedere Dio”. In quando governo dello Stato, il potere è Giustiniano, che come Mosè possiede la legge, ma in quanto rimanda a una sfera trascendente è anche Teodora, che come Mosè parla con Dio. La nascita del culto mariano Teodora morì nel 548, un anno dopo il completamento dei mosaici ravennati, e per Giustiniano questa disgrazia si aggiungeva ad altre innumerevoli. Gli ultimi venti anni del suo regno, infatti, furono tanto negativi quanto positivi erano stati i primi venti. Oltre al dissesto militare e finanziario (Giustiniano pagava i persiani perché non invadessero il suo regno!), vi fu un 41


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Negli anni in cui si svolsero le prime processioni in onore della Madonna l’impero bizantino era sconvolto da catastrofi senza pari nella storia: terremoti, tzunami, carestie, persino il crollo della cupola di Santa Sofia. impressionante concentrarsi in pochi anni, nel periodo dal 540 al 557, di disastri naturali ed ecologici. Si comincia con l’ondata di peste più terribile dell’antichità, dal 541 al 544, che sterminando più di metà della popolazione determinò a sua volta lunghe carestie, rese più acute dallo scoppio della peste bovina, invasioni di cavallette e ondate di siccità alternate a uragani. Nel 543 a Beirut si contarono 30.000 vittime per uno tsunami (“Il mare si ritirò, per ordine di Dio, per uno spazio di due miglia”, ricorda Procopio, lo storico dell’epoca), cui seguì un’ondata di terremoti sempre più devastanti sino a culminare nel 557 nel più disastroso allora ricordato: la terra tremò per dieci giorni intaccando persino le celebri mura di Bisanzio. E nel maggio dell’anno dopo, durante lavori di consolidamento, crollò persino la cupola di Santa Sofia, la più importante fra le novantadue imprese edilizie di Giustiniano, forse il più grande edificatore di tutta la storia. Il fallimento del mediatore Possiamo farci un’idea delle reazioni a questi disastri naturali pensando a quanto ancora oggi sia forte la pulsione a interpretarli come punizioni, di Dio per i credenti, di Gaia per certi ecologisti. Per il suo ruolo di mediazione fra umano e divino, l’imperatore ne era direttamente ritenuto responsabile, come attesta Procopio. E dovette quindi farvi fronte anche sul piano simbolico, operando prima di tutto sul piano della liturgia, ossia di quei riti pubblici che, come in un teatro vivente, rappresentavano il potere e ne spiegavano la natura. 42

Eccolo, quindi, astenersi dal portare la corona per quaranta giorni (il tempo della purificazione) durante le crisi più acute, oppure mettere in atto strategie comunicative volte a ribaltare l’opinione corrente spiegando i ricorrenti disastri come punizioni comminate da Dio a popoli poco obbedienti al suo equivalente terreno, cioè lui stesso, l’imperatore, incolpevole come lo era Mosè per il ritorno degli ebrei all’idolatria. È su questo sfondo che si inquadrano sia la personale svolta in senso misticoascetico del secondo Giustiniano sia l’abbandono di ogni residuo della cultura politica romana in vista di una definitiva divinizzazione del potere tipica dell’Oriente. Fra gli infiniti esempi, citiamo solo il ricordo di Procopio, un testimone diretto: “Una volta Triboniano gli disse di temere che per la sua pietà egli non avesse mai a scomparire assunto in cielo; e simili lodi Giustiniano se le poneva in capo”. Sul piano della ritualità religiosa la risposta di Giustiniano fu l’invenzione dei primi culti ufficiali in nome di Maria, nobilitando forme di devozione mariana che erano andate crescendo nell’ultimo secolo e certo erano già presenti a livello popolare. Lo spunto nacque dalla necessità di adeguare la data della festa dell’Ipapante, ossia della presentazione di Gesù al tempio, che dovendo collocarsi quaranta giorni dopo la sua nascita, era logico fosse collocata il 2 marzo (come ancora è con il nome di Candelora), al posto del 14 febbraio, dato che già da tempo il Natale era stato spostato dal 6 gennaio al 25 dicembre per farlo coincidere con le feste pagane del dio Sole.

Giustiniano colse l’occasione per trasformare in senso mariano questa festa, connotata sino ad allora da un mero significato cristologico, cioè dal fatto che altri due visitatori del tempio, Simeone e la profetessa Anna, riconobbero nell’infante il Messia. Secondo il costume ebraico, infatti, i quaranta giorni d’attesa prima del simbolico ingresso dell’infante nella comunità religiosa, siglato dall’offerta di una coppia di tortore e di colombi, erano dovuti alla necessità che la madre, per accostarsi al tempio, superasse la condizione di impurità determinata dal parto. Gesù al tempio divenne quindi la celebrazione della purificazione di Maria e la sua commemorazione occasione per chiedere alla madre di Dio un’analoga purificazione dai mali che Dio puniva in modo tanto tremendo. È del tutto probabile che le prime icone mariane siano nate in quel decennio per accompagnare le prime processioni in suo onore, così come la credenza che la peste rallentasse il suo morso per intercessione della Madre di Dio. Donne in porpora e follie mariane Possiamo spiegare la straordinaria longevità dell’impero bizantino che con Giustiniano muoveva i primi passi (mille anni!), anche, ovviamente non solo, come risultato di questa raffinata teologia imperiale dualisticamente caratterizzata? Di certo la propaganda insistette sempre su questo tema, dall’araldica (l’aquila bicefala come simbolo imperiale) alla monetazione, in cui le figure femminili sono ritratti delle imperatrici, all’innografia religiosa, che descriveva la Madonna con gli stessi epiteti dovuti all’imperatrice, alla retorica di corte, i cui panegirici descrivevano l’imperatrice con gli stessi epiteti dovuti alla Madonna. E su questo sfondo va inquadrato il ruolo delle sante imperatrici, ossia delle numerose figure femminili che giocarono un ruolo da protagonista nella gestione dell’impero e per questo sono considerate sante dalla Chiesa ortodossa. Il lungo elenco comincia, ancor prima di Teodora, con Galla Placidia, con Pulcheria, imperatrice dal 450, fautrice del Concilio di Calcedonia l’anno seguente e precorritrice di un uso poli-

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I L tico del nascente culto mariano, tanto da far collocare in chiesa un altare dedicatorio del suo voto di castità. Continua con Sofia, moglie di Giustino II, Irene, che nel 787 convocò il secondo Concilio di Nicea, la seconda Teodora dall’842 all’856, che contribuì alla fine delle guerre iconoclaste, e poi ancora Zoe nel 1042, Teodora imperatrice dal 1055 al 1056, Eudocia Macrembolitissa, nel 1067, e così via, senza contare le ancor più numerose sante sovrane e patrone fondatrici dei Paesi balcanici e dell’Est europeo nati per partenogenesi dal mondo bizantino. E quando la storia non metteva a di-

sposizione figure femminili adeguate, erano le “follie mariane” degli imperatori a ricordare ai sudditi la componente trascendente e femminile della sovranità. Si va dalle icone mariane brandite come armi e scudi da Eraclio nella battaglia contro gli àvari nel 627, sino ad Alessio Comneno che nel 1107 sospende la guerra contro Boemondo perché spaventato dall’interruzione del “miracolo permanente”, quello di un’icona mariana il cui velo, ogni sabato, si alzava e si abbassava da solo. Ecco quindi il fanatismo imperiale per le reliquie mariane: la sua cintura, la zona conservata nella chiesa della

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Chalkopratéia, trasposizione simbolica delle invincibili mura della città, e il maphorion conservato alla Blancherna, il mantello che la Vergine indossava in vita e ora usava come manto protettore della sua città prediletta. Come patrona di Costantinopoli, infatti, la Madonna aveva una dimensione più nazionalistica che ecumenica, come testimonia quest’introduzione dell’VIII secolo all’Akathistos, il più celebre fra gli inni mariani del V-VI secolo: “All’invitta stratega, l’inno di vittoria! Sottratta all’immensa sventura, io, tua Città, dedico a Te il mio canto di ringraziamento, o Madre di Dio”. K

La teologia imperiale e il Pantocratore Secondo i principi che rigidamente governano la pittura religiosa nel mondo bizantino, la perfetta simmetria nei tratti del volto e della figura è un elemento simbolico appropriato, e teologicamente obbligatorio, per esprimere l’intrinseca divinità dell’uomo Gesù. Di fatto, le icone che conosciamo, anche le più antiche, sono così strutturate. Con un’unica eccezione: il Cristo Pantocratore che arrivò al Monastero sul monte Sinai assieme all’icona della Madonna in trono esaminata in questo articolo. Anche in questo caso non sappiamo con certezza da dove venne, ma le ipotesi che puntano alla corte imperiale sono ragionevoli. Ebbene, basta osservare con attenzione questo viso per notare l’asimmetria fra la sua parte destra e quella sinistra, ancor più evidente se si prova a coprire alternativamente queste zone con una mano. Gli occhi in particolare, la sede della spiritualità, sono dipinti in modo differente: quello a destra ha il sopracciglio corrucciato, la pupilla più grande e lo sguardo perso nell’infinità, mentre quello di sinistra fissa direttamente l’osservatore. Ma la diversità è percepibile anche negli zigomi, negli angoli della bocca, nei lunghi baffi “alla unna” che andavano allora di moda a Bisanzio, nei capelli che cadono diversamente e persino nelle spalle che suggeriscono due curvature incompatibili. Nel complesso la destra, associata al pesante Vangelo, è più scura, dura e maschile, la sinistra, associata alla mano benedicente, più dolce, luminosa e femminile. Scartata l’ipotesi dell’imperizia, data l’ottima fattura del quadro, rimane quella teologico-politica: che la diversità alluda cioè sia alla duplice natura di Cristo sia a quella del potere sovrano del suo rappresentante terreno.

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L’icona del Pantocrator, VI secolo, monastero di Santa Caterina, Sinai, Egitto.

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Anonimo novoispano, Il Padreterno ritrae la Vergine della Guadalupe, XVIII secolo, Museo de la Basilica de Santa Maria de Guadalupe, CittĂ del Messico. 44

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La fondatrice di nazioni La devozione a un’immagine mariana è stata spesso l’occasione per la nascita di un comune senso di appartenenza nazionale. Anche in Europa, come dimostra il caso polacco.

a vicenda della Madonna della Guadalupe inizia con la conquista del Messico da parte degli spagnoli. È possibile infatti che sia stato uno dei seicento conquistadores agli ordini di Hernàn Cortés ad aver portato con sé una copia illustrata dell’Apocalisse o comunque un’immagine della “Donna vestita di sole” di cui Giovanni parla nel dodicesimo capitolo. Era il 1519, solo dodici anni prima dell’evento miracoloso, la mattina del 9 dicembre 1531 sulla collina del Tepeyac vicino a Città del Messico. Ma per capirne il significato va ricordato che in quel breve lasso di tempo era avvenuto il genocidio più terribile dell’intera storia umana. Malattie e schiavitù avevano decimato la popolazione, e prima che il domenicano Bartolomeo de Las Casas si impegnasse nella difesa dei nativi, lo zelante vescovo Juan de Zumarrága si era incaricato di distruggerne tutte le espressioni culturali e religiose, fondendo ventimila opere d’arte d’oro, bruciando tutti gli scritti, proibendo ogni rito che non fosse la messa e demolendo cinquecento templi, anche quello che sorgeva sulla collina del Tepeyac, dedicato a Tonantzin, la dea che gli aztechi chiamavano Nostra Cara Terra, Nonna Onorata e Madre dei Fiori.

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K Ubaldo Nicola

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La Madonna sul Tepeyac Logico che gli indios convertiti al cristianesimo fossero pochissimi, ma Juan Diego, il veggente, era uno di questi. La sua storia è raccontata nel Nican Mopohua, il testo in lingua nàhuatl redatto come i Vangeli due generazioni dopo gli avvenimenti. Dice il racconto che la Madonna gli apparve proprio mentre

passeggiava sulla desolata collina del Tepeyac, e gli chiese, in nàhuatl, di far erigere un tempio in suo onore proprio ai piedi del colle. Juan Diego fece l’unica cosa che poteva fare, cioè corse a riferire il fatto al vescovo Zumarrága, che ovviamente non lo ricevette neppure. La sera però, ripassando sul colle, Juan Diego vide per la seconda volta Maria, che gli ordinò di tornare dal vescovo l’indomani. Questa volta lo zelante vescovo lo ascoltò, ma gli chiese un segno che provasse la verità del suo racconto. Juan Diego tornò quindi sul Tepeyac e vide per la terza volta Maria, che gli promise un segno per l’indomani. Il giorno dopo, però, Juan Diego non poté recarsi sul luogo delle apparizioni in quanto dovette assistere un suo zio, gravemente malato. La mattina dopo, 12 dicembre, lo zio appariva moribondo e Juan Diego uscì in cerca di un sacerdote che lo confessasse. Ma Maria gli apparve ugualmente, per la quarta e ultima volta, lungo la strada: gli disse che suo zio era già guarito e lo invitò a salire di nuovo sul colle a cogliere dei fiori. Qui Juan Diego trovò il segno promesso: dei bellissimi fiori di Castiglia, fioriti fuori stagione in una desolata pietraia. Ne raccolse un mazzo nella propria tilma, il ruvido mantello in fibre d’agave usato dagli indios poveri, e andò a portarli al vescovo. Di fronte a Zumarrága e altre sette persone, l’indio aprì il mantello per mostrare i fiori: ed ecco, all’istante su di esso apparve l’immagine ancora oggi venerata dai venti milioni di pellegrini che ogni anno si recano alla collina del Tepeyac, ossia alla chiesa della Madonna della Guadalupe, dove ancora secondo la tradizione si conserva e venera la tilma di Juan Diego. Un’immagine 45


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La Patria, non a caso, è rappresentata come una giovane vergine, in Italia, in Francia e in tante altre nazioni. Si provi a recitare del litanie del rosario applicandole alla Patria: si vedrà che in gran parte funzionano. Vittorio Messori “non dipinta da mano d’uomo”, come ha riconfermato Giovanni Paolo II durante la sua visita del 1979, e quindi direttamente da Dio, come mostra il quadro del XVIII secolo a pagina 44. Il Nican Mopohua è una storia a lieto fine. Di fronte al miracolo, il vescovo cadde in ginocchio, e con lui tutti i presenti. La mattina dopo Juan Diego accompagnò il presule al Tepeyac per indicargli il luogo in cui iniziare i lavori della cattedrale. Ma è un ottimismo giustificato: la comunità dei conquistatori e quella dei nativi trovarono realmente nell’evento guadalupano un vocabolario simbolico comune con il quale cominciare a comunicare. Le conversioni si intensificarono sino a diventare in breve un fenomeno di massa: otto milioni in dieci anni; indios e spagnoli iniziarono quel processo di fusione che, pur tra enormi contrasti, in parte ancora non risolti, ha comunque portato alla nascita del popolo messicano. Ed è significativo che in tutte le guerre civili che hanno scandito questo processo la venerazione della Guadalupe e il rispetto per la cattedrale a lei dedicata non siano quasi mai venuti a mancare. La Vergine meticcia Possiamo analizzare i lemmi di questo vocabolario simbolico interculturale decostruendo l’immagine sulla tilma di Juan Diego. La Madonna appare sorretta da un piccolo angelo le cui ali sono ornate di lunghe penne bianche, 46

rosse e verdi (da qui i colori della bandiera messicana), e il tapirage, l’arte dei fiori e delle piume, era e rimane, assieme alla musica, un’importante espressione culturale dei nativi americani. Il suo mantello è verde e blu, i colori dei lapislazzuli che ornavano le statue azteche. Sotto indossa una tunica rosa coperta di fiori e la cintura viola che la drappeggia indicava presso gli indios lo stato di gravidanza. Soprattuto, i tratti del volto tendono al meticcio e la carnagione è un po’ scura, tanto da essere la Virgen Morena, la Morenita. La Guadalupe, infine, appare immersa in una simbologia astrale certo significativa per gli aztechi, la cui passione per i calcoli astronomico-religiosi è ben nota: circondata da raggi di sole, appoggia i suoi piedi su una falce di Luna e il suo manto è cosparso di stelle dorate. Ed è qui, nella simbologia cosmica, in una specie di ritorno ab imis dello spirito, che il dialogo fra le due culture potè cominciare. Non fu difficile infatti per gli spagnoli riconoscere da parte loro nella Guadalupe l’immagine della “Donna vestita di sole” dell’Apocalisse. La donna dell’Apocalisse La Guadalupe riprende con tutta evidenza la donna descritta dall’apostolo Giovanni nel 90 d.C. nel testo apocalittico che per i cattolici chiude la rivelazione. Ecco il passo: “Poi un gran segno apparve dal cielo: una donna rivestita di sole, con la Luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle. Era in-

cinta e gridava per le doglie del parto e le angosce nel dare alla luce. Intanto apparve un altro segno nel cielo: un grande dragone, dal colore del fuoco, con sette teste e dieci corna e sette diademi. La sua coda trascinava la terza parte delle stelle del cielo e le precipitò sulla Terra. Poi il dragone si pose davanti alla donna che stava per dare alla luce, per divorare il figlio appena fosse nato. Ella diede alla luce un figlio maschio, destinato a pascere le nazioni con una verga di ferro e suo figlio fu rapito verso Dio e al suo trono". Ora, è importante notare che nonostante gli indizi contrari (una donna celeste, la gravidanza, un figlio destinato alla gloria) il segno apparso in cielo a Giovanni non indicava affatto la Madonna, ma la Chiesa in quegli anni a rischio di estinzione sia per l’ostilità dei giudei sia per le terribili persecuzioni romane, simboleggiate dal dragone. Così la Luna schiacciata dalla Donna indica il porsi della profezia al di là del tempo storico. Le dodici stelle sono sia gli apostoli sia le tribù di Israele e il loro strutturarsi ordinato suggerisce l’idea di comunità. E il figlio che sta per nascere non è Gesù ma un simbolo profetico della salvezza di quella comunità e della gloria futura cui è destinata, nonostante le prove imposte dalla storia. Non a caso nel corso dei secoli il testo visionario di Giovanni è spesso tornato d’attualità presso le comunità cristiane a rischio di estinzione: in Spagna durante la conquista musulmana, nel confronto con l’islam turco nel XVI secolo, a partire da Lepanto come vedremo, e certo desta qualche preoccupazione il fatto che un rinnovato spirito apocalittico sia connaturato all’apparizionismo mariano contemporaneo. Il fatto è che pur appartenendo al Nuovo Testamento il libro di Giovanni usa la cultura che sta alla base del Vecchio, metafore e simboli comprensibili ai cristiani di origine ebraica cui si rivolgeva molto più che a noi. Va quindi notato lo strano caso di una comunità religiosa rigidamente maschile, quella ebraica, in cui si era ammessi con un rito biologicamente fondato, l’offerta del prepuzio nella circoncisione, che sviluppò un rapporto d’amore con un Dio altrettanto maschio sino a rappre-

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I L sentare se stesso come una femmina, sviluppando questa inversione metaforica di genere sino alle più minute ed estreme conseguenze. Sono innumerevoli i passi del Vecchio Testamento dedicati al tema dello sposalizio fra Dio il popolo eletto, che commette adulterio quando ritorna agli dei pagani, o diventa una prostituta quando cede alle pressioni economiche dei popoli vicini. Si parla della sua verginità, ma sempre in senso negativo, come pretesa di poter fare a meno di Dio, perché pur essendo richiesta alle spose, e motivo di giusto ripudio da parte del marito in caso di mancanza, la verginità, maschile o femminile che fosse, non aveva per gli ebrei alcun valore positivo quando diventava scelta di vita. Il linguaggio che sostanzia queste metafore è spesso quanto mai esplicito, non solo nel celebre Cantico dei cantici, un inno in cui l’amore per Dio si esprime nei termini dell’erotismo, ma anche nei numerosi passi in cui Dio si rivolge al suo popolo come un amante tradito: “Hai allargato le tue gambe ad ogni passante. Ti sei data agli egiziani, i tuoi vicini dal grosso membro, intensificando la tua prostituzione fino a stomacarmi”, per citare solo un passo di Ezechiele. E anche la vestizione di Sole descritta da Giovanni faceva parte delle attenzioni riservate da Dio al suo popolo-sposa. In breve, ciò che l’immagine dell’Apocalisse dà per scontato è che gli uomini, davanti a Dio e come comunità, sono come le donne. Madonne e Patrie Il vero miracolo della Guadalupe sta nell’aver fuso in un assieme convincente immagini provenienti da culture quanto mai differenti: la Nonna Onorata degli aztechi, la Madonna degli spagnoli e per quanto indirettamente anche la Donna cosmica della cultura ebraica. Fu per questa straordinaria capacità di sintesi unitaria di questo simbolo che la devozione a esso poté tramutarsi in un potente fattore di coesione non solo religiosa ma anche sociale e politica contribuendo così fortemente alla nascita di una compiuta identità nazionale. Del resto, Non fecit taliter omni nationi si legge sotto l’immagine di Dio che dipinge la tilma della

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Il caso di Czestochowa

La Madonna Nera di Czestochowa, santuario di Jasna Gora, Polonia.

È ben nota la devozione di papa Wojtyla per la Madonna nera di Czestochowa, accanto al cui ritratto è stata posta per sua volontà la fascia papale che indossava il giorno dell’attentato (la pallottola che lo colpì è invece incastonata nella corona della Madonna di Fatima). Meno noto è invece il ruolo attivo giocato nella nascita di Solidarnosc e nella lotta contro il regime comunista dalla particolare devozione dei polacchi per quest’icona, un’immagine piccola e di scarso valore artistico (come spesso sono Madonne “nazionali”) anche se di evidente fattura bizantina, portata secondo la tradizione a Czestochowa nel 1382 dal principe Ladislao di Opole. Basti ricordare la pratica di lotta cominciata in suo nome nel 1956 e continuata per tutti gli anni del dominio sovietico: ogni giorno, alle nove di sera, i monaci paolini da sempre incaricati della custodia del monastero si riunivano nella cappella della sacra immagine per cantare l’antichissimo “Bogurodzica”, un inno in onore della Madre di Dio. Contemporaneamente tutti i cattolici polacchi erano invitati a raccogliersi in preghiera con le loro famiglie, mentre il primate polacco e tutti i vescovi, ovunque si trovassero, benedicevano la nazione. In realtà gli eventi più importanti della storia polacca sono spesso stati connessi con Czestochowa, tanto che la devozione alla Madonna Nera costituisce oggi un fattore importante dell’identità nazionale. Citiamo solo il “voto sociale” pronunciato dal re Giovanni II Casimiro Wasa nel 1656 durante il periodo più difficile della lotta contro l’invasione svedese, tanto terribile da meritarsi il soprannome di “diluvio”. Il sovrano depose corona e scettro davanti alla Madonna promettendole di liberare i servi della gleba in caso di vittoria. Con queste parole: “Così come, con estremo dolore, mi rendo conto che tuo Figlio, giusto giudice, fustigò questo regno, in questi sette anni, col flagello della peste, delle guerre e di altre calamità. Prometto e mi impegno solennemente, a causa delle lacrime e delle oppressioni dei contadini, che, restaurata la pace, porrò ogni cura e impiegherò tutti i mezzi per liberare il popolo del mio regno dalle tasse ingiuste e dalle oppressioni”. Certamente, finita l’emergenza, il realismo politico consigliò di rimandare l’adempimento della promessa, ma altrettanto certamente non la dimenticarono i contadini. 47


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Guadalupe (vedi pagina 44), ossia “Dio non fece alcunché di simile per nessun altro popolo”. È quasi una riedizione in tono minore della rivendicazione degli ebrei, il popolo eletto, di una speciale alleanza con Dio. Gli straordinari risultati raggiunti in Messico dopo l’evento guadalupano suggerirono alla Chiesa cattolica di tentare lo stesso metodo in tutte le terre di missioni, non solo in Sud America ma anche in Asia, in Africa. Non sono pochi i paesi cattolici in cui la nascita dell’identità comunitaria ha coinciso con la scoperta di icone mariane dai tratti antropologici ibridi e unificanti, Madonne nere o mulatte, o con il verificarsi di apparizioni fortemente segnate in senso interculturale. Così la Vergine appare in India nel 1550, nelle Filippine nel 1616, a Goa nel 1624, in Giappone nel 1623, in Venezuela nel 1651, solo per citare i primi casi, e a partire dal 1830 anche in Europa, a partire dalla Francia, tornata a essere terra di missione dopo la rivoluzione francese. Non sempre il risultato rispose alle aspettative, ma il caso della Polonia dimostra che a volte lo fu. Del resto basta osservare i mutamenti avvenuti nel sistema dei monasteri cattolici durante il periodo di formazione degli Stati nazionali in Europa per capire quanto la nascita di devozioni mariane locali abbia giocato un ruolo importante nei processi di formazione sociale identitaria. Sino al tramonto del Medioevo non esistevano luoghi di culto specificamente dedicati alla Madonna e le mete dei pellegrinaggi erano unicamente tre: Gerusalemme e Roma, per evidenti ragioni, e Santiago de Compostela in Spagna. Solo a partire dal XVI secolo, e improvvisamente, questa forma di devozione globalizzata decade mentre fiorisce una miriade di santuari, di importanza comunale, regionale o nazionale, dedicati alla Madonna, tutti ovviamente legati a un miracolo, un’apparizione o una vicenda in qualche modo spendibili come fattore identitario. Alla fine, nel mondo cattolico ogni patria ha trovato la sua Madonna e nella devozione a essa ha sviluppato un motivo di unità nazionale, uno strumento certo spirituale ma anche pratico e potente perché non va dimenticato che il 48

pellegrinaggio sino all’epoca moderna era prima di tutto un viaggio, una visita, un’occasione di conoscenza reciproca. Vi sono due casi opposti che dimostrano questo ruolo politico della devozione mariana. Il primo, positivo, è la Spagna, in cui le fortissime differenze fra castigliani, catalani, baschi e andalusi cessano di fronte alla comune e indiscussa devozione nazionale per la Madonna del Pilar di Saragozza, patrona dell’ispanità. Il secondo, negativo, è l’Italia, in cui la nota carenza di senso patrio potrebbe essere messa in relazione alla mancanza di una nostra Madonna nazionale, nonostante tutti gli sforzi della Chiesa per affermare in questo ruolo la candidata naturale, la Madonna di Loreto e la sua santa casa, secondo la tradizione trasportata miracolosamente dagli angeli dalla Palestina la notte del 10 dicembre 1294. Sono argomenti di cui discutono anche i teologi. Secondo Stefano De Fiores, uno dei maggiori mariologi contemporanei, occorrerebbe “aprire la pietà mariana a una dimensione ecclesiale e al contempo sanamente nazionale, cominciando a considerarla quale elemento di unità del popolo italiano. Questo elemento, infatti, manca da noi, mentre è fortemente presente altrove”. E che la cosa si possa fare lo afferma il noto giornalista e marianista Vittorio Messori: “Si provi a recitare le litanie lauretane del rosario, applicandole alla Patria: si vedrà che in gran parte “funzionano”, che davvero la sostituzione [fra patria e Madonna] c’è stata”. La Madonna agonale L’utilizzo del simbolo mariano in funzione politica ha comportato una sua accentuazione in senso agonale, combattivo e persino militare. E ancora una volta è alla Madonna della Guadalupe che bisogna tornare per dimostrarlo. Issata come stendardo dal generale veneziano nella battaglia di Lepanto nel 1571, l’immagine della tilma di Juan Diego venne accreditata della straordinaria vittoria contro i turchi. Il Senato veneziano volle che fosse espressamente scritto sul quadro dedicato alla vittoria nella sala delle adunanze: Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii, victores nos fecit. E papa Pio V

dispose che nelle litanie lauretane fosse aggiunta la poco ecumenica invocazione, in quel contesto, a Maria auxilium christianorum, lasciando per altro correre l’interpretazione della falce di Luna schiacciata dai piedi della Guadalupe, non più come l’antico simbolo dello scorrere del tempo ma come l’emblema dell’islam. Lutero criticò con vigore questa trasformazione della pacifica nazarena in una dea della guerra. Non senza ragione considerando alcuni suoi epiteti in voga fra il XVI e il XVIII secolo, che suonano oggi politicamente non molto corretti: Conculcatrix hostium (distruttrice dei nemici), Erepetrix (rapinatrice, spogliatrice), Funda Davide (fionda di Davide), Interemptrix (colei che uccide), Profligatrix perversorum (colei che abbatte i cattivi). E di stampo prettamente virile furono alcune forme devozionali mariane di grande successo in quei secoli: il “voto di schiavitù” alla Madonna, che si riverberava poi in una particolare disciplina delle congregazioni mariane, e il “patto di sangue” per il quale singoli fedeli, ma anche consigli comunali, università o associazioni professionali, si impegnavano nel difendere l’idea dell’Immacolata concezione sino alla morte. Il marianesimo maschile Il vocabolario militare, del resto, è presente anche nel marianesimo contemporaneo. Massimiliano Kolbe, il francescano polacco che nel 1941 ad Auschwitz offrì la propria vita per salvare quella di un padre di famiglia, aveva fondato nel 1917 la Milizia dell’Immacolata. Nel 1921, in Irlanda, Frank Duff chiamò Legione di Maria la sua congregazione “in guerra spirituale contro il mondo e i suoi poteri”. E nel 1947, nello spirito di Fatima, ossia per la conversione della Russia, Padre Harold Colgan ha lanciato negli Stati Uniti l’Armata azzurra. Né va dimenticato che nella storia la Madonna è stata capitana a Bisanzio, la Virgo militaris dei re carolingi, la conquistatrice nella Spagna della Reconquista e nell’America dei conquistatori, la Grande Signora dei cavalieri teutonici, la comandante di guerra degli imperatori austriaci, la Santa della vittoria

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I L dei principi di Baviera, la generalessa degli indipendentisti latinoamericani. Solo a partire dall’Ottocento la devozione mariana ha subìto quel processo di “femminilizzazione” che tutti conoscono, sia nella composizione di genere dei fedeli sia nelle forme della spiritualità che oggi persino un marianista convinto come Vittorio Messori non esita a giudicare quasi sempre stucchevoli. Ma questa prevalenza femminile non rispecchia affatto una realtà costante nei secoli. Lo dimostra se non altro la storia dei grandi marianisti, tutti maschi caratterizzati da forme di apostolato prettamente “virili”.

Bernardo di Chiaravalle, il primo a rileggere la figura della Vergine attraverso il prisma erotico del Cantico dei cantici, fu anche l’estensore della regola dei monaci templari. Luigi Maria Grignon de Montfort, vissuto dal 1673 al 1716, fondatore della Compagnia di Maria, mistico e profeta, fu osteggiato per i metodi spicci della sua catechesi: per riempire le chiese vuote irrompeva nelle taverne e nei bordelli come Gesù nel tempio di Gerusalemme. Nei pressi

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di Nantes convinse i contadini a edificare un nuovo Calvario, una collina di trecento metri di base su cui avrebbe posto le tre croci se il giorno dell’inaugurazione non fosse arrivato l’ordine del re di demolire tutto. Oppure ancora, in epoca moderna, Guglielmo Giuseppe Chaminade, che per il suo rifiuto di giurare sulla Costituzione fu inserito nell’elenco dei preti “refrattari” durante la rivoluzione francese, che combattè fondando l’Ordine dei Marianisti e preparando il terreno all’apparizionismo contemporaneo. K

Il patto di misericordia, illustrazione del Ta’ Maryam (I miracoli della Madonna), Etiopia, XVII secolo, British Museum, Londra.

La Madonna degli etiopi L’immagine illustra il kidane mehret, o patto di misericordia, il principio sostenuto dalla Chiesa etiope secondo cui il Redentore avrebbe promesso alla Madonna di concedere sempre la salvezza a tutti coloro che a lei si fossero raccomandati invocando il suo nome. Secondo la tradizione, Menelik I, il capostipite della dinastia regnante sugli etiopi sino al 1974,

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sarebbe nato dalla regina di Saba e da Salomone, figlio di David, dalla cui stirpe sarebbe poi discesa Maria. Esisterebbe quindi uno speciale legame di sangue fra la Vergine e la popolazione etiope, confermata anche dal fatto che la Sacra Famiglia, in fuga da Erode, proprio in Etiopia avrebbe trovato rifugio. 49


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Archetipi e Grandi Madri Nel 1950 lo psicoanalista Carl Gustav Jung salutò il dogma dell’Assunzione in cielo della Vergine emanato da Pio XII come un evento epocale della modernità, l’avvenimento religioso più importante dopo la Riforma di Lutero.

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Vangeli, si è visto nell’articolo a pagina 37, non enfatizzano in alcun modo il ruolo della madre di Gesù. E tanto basta ai protestanti di tutte le varianti, che in ciò trovano uno dei rari momenti di coesione, per condannare il culto mariano come una degenerazione dei popoli mediterranei, in cui miracolismo e superstizione si mischiano al mammismo. Con le parole del loro più eminente teologo moderno, Karl Barth: “Il discorso cattolico su Maria è un’escrescenza maligna: una pianta parassita della teologia, e le piante parassite vanno sradicate”. La questione mariana, in questo senso, costituisce un ostacolo sulla via della riunificazione ecumenica cristiana ben più pesante di altri disaccordi spesso citati, come il celibato dei preti o il sacerdozio femminile, anche se, d’altra parte, va riconosciuto che uno spostamento del cattolicesimo su posizioni più prudenti finirebbe per creare una frattura con il mondo ortodosso, che del culto mariano è stato la culla, come abbiamo visto, e vi ha insistito sino a instaurare una specie di dualità con Cristo. All’estremo opposto del minimalismo protestante sta la Chiesa etiopica, che per insegnare l’eternità di Maria e il “patto di misericordia” stipulato sul Calvario, in base al quale il Figlio non potrà mai rifiutare una grazia chiesta dalla Madre, ha trasformato il cristianesimo in una mariolatria. Il silenzio della Scrittura, d’altra parte, non costituisce un ostacolo insormontabile per i teologici cattolici, dato che qualsivoglia evidenza può sempre essere interpretata e “spiegata” sino a essere trasformata nel contrario usando lo

strumento della concezione provvidenzialistica della storia. Per dirla con le parole dell’eminente teologo mariano René Laurentin: “Era bene che la Vergine rimanesse velata per un certo tempo, affinché il mondo cristiano rompesse con la contaminazione dei culti alle dee madri”. Un pericolo reale, dato che proprio temendo la rinascita della Grande Madre, già nel 377 il vescovo di Salamina Epifanio dovette intervenire contro le “colliridiane”, donne arabe cristiane che offrivano in sacrificio a Maria dei pani, focacce di farina d’orzo chiamate “colliryda”, realizzando così una specie di eucaristia al femminile. La Dea matriarcale Esiste un’ampia letteratura sulla continuità fra la Madonna cristiana e la Grande Madre, la divinità femminile che avrebbe dominato la nascente spiritualità dei popoli mediterranei durante una finora non ben dimostrata fase matriarcale pre-storica della società, ancora fondata sull’economia della caccia e della raccolta. Con le parole di Marija Gimbutas, l’archeologa lituana autrice del monumentale saggio su Il linguaggio della Dea: “In epoca cristiana la Dispensatrice della nascita e la Madre Terra si fusero con la Madonna. Così non stupisce che nei Paesi cattolici il suo culto superi quello di Gesù. La Vergine è ancora collegata con l’acqua della vita e le miracolose fonti curative, con gli alberi, i germogli, i fiori e i frutti. È pura, forte e giusta. Nelle sculture popolari è enorme, potente e tiene in grembo un piccolo Cristo”. L’anello di continuità fra la Dea preistorica e quella cristiana sarebbe

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L’interculturazione Secondo un diffuso approccio new age questa riemersione di una pseudodivinità femminile, per quanto desessualizzata come quella della Vergine, all’interno di una religione profondamente patriarcale quale il cristianesimo dimostrerebbe da una parte il suo carattere di usurpazione maschilista della spiritualità, dall’altro la priorità metafisica e l’invincibilità dell’archetipo femminile, eternamente ritornante in ogni epoca storica, pur sotto mutate spoglie. Queste polemiche sono però destinate a infrangersi contro un muro di gomma. Dal punto di vista teologico, infatti, una certa quota di sovrapposizione fra il simbolo mariano e le dee madri precristiane non pone alcun serio problema. La Chiesa infatti ha sempre accettato e spesso consapevolmente provveduto a regolare i propri rapporti con altre culture secondo il meccanismo dell’interculturazione, definibile in sintesi nel mantenere i significanti, ossia le forme iconografiche, cambiandone i significati, come del resto abbiamo visto nell’evento guadalupano. Si tratterà allora di esaminare il rapporto fra Grandi Madri arcaiche e Vergini cristiane secondo un modello di continuità e differenze, ponendo al centro gli slittamenti di significato che lo scorrere della storia determina sulle parole. È pur vero infatti che fra i duecentomila titoli attribuiti alla Madonna (tanti ne indica infatti il noto marianista Vittorio Messori nel suo Ipotesi su Maria) ci può essere anche quello di Dispensatrice della nascita, come vuole la Gimbutas, ma il significato di questo epiteto è certo oggi ben diverso dall’epoca della dea originaria, il neolitico, in cui l’umanità doveva ancora scoprire il

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L’ambivalenza della Madre Anonimo novoispano, Il patrocinio di Nostra Signora di Guadalupe,1746, Museo della Basilica della Guadalupe, Città del Messico.

Iside, la divinità egizia della maternità e della fertilità che seppe conquistarsi un posto eminente nel pantheon greco e poi romano fondendosi con una serie di divinità locali, Cibele, Demetra, Cerere. E in effetti è del tutto probabile che la prima icona mariana, la Madonna in trono del Sinai (vedi pagina 37) si sia ispirata a più antichi modelli egiziani di Iside, spesso rappresentata con i tratti della sovranità, seduta su un trono con in braccio il piccolo dio Horus.

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Carl Gustav Jung ha sottolineato l’aspetto ambivalente dell’archetipo della Madre. È amorosa e protettiva, ma anche punitrice e terrificante, e questi aspetti perturbanti sono essenziali perché “se non fossimo anche figli della madre negativa, non lasceremmo mai il suo grembo”. Ogni uomo infatti deve amare la mamma, certo, ma deve anche coltivare l’impulso a emanciparsene. Per questo il suo allievo Erich Neumann, lo psicanalista del femminile, ha visto nell’archetipo della Madre un elemento tendenzialmente conservativo della psiche, il principale ostacolo allo sviluppo del Sé individuale, che per conquistare la propria parte femminile deve sviluppare le proprie capacità di separazione e autoaffermazione. Questa ambivalenza del simbolo materno può essere individuata anche nell’immagine della Madonna della Guadalupe. In essa, infatti, sono ben in evidenza alcuni tratti tipici della simbologia solare, quasi sempre associati alle immagini maschili della divinità: è circondata, anzi “rivestita” dai raggi di un Sole splendente e sotto i piedi calpesta la Luna, un astro spesso associato alle dee Grandi Madri. L’aspetto combattivo e terrificante del simbolo guadalupano diventerà evidente quando sarà assunto come icona della lotta contro i turchi in Europa. E la Luna, da tradizionale simbolo dello scorrere del tempo, sarà interpretata come la Mezzaluna dell’islam. 51


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A differenza della Grande Madre arcaica, il mito di Maria sembra esprimere una simbologia solare, non lunare o ctonia. Lucio Pinkus (psicanalista junghiano cattolico) nesso necessario che lega la nascita di un bambino ad un accoppiamento sessuale avvenuto nove mesi prima, vedendo quindi nella maternità una speciale partecipazione femminile alla fecondità universale della natura. Così il rapporto storico fra il culto mariano e quelli precedenti della Grande Madre può essere pensato in termini sia di continuità sia di superamento, sapendo però che è in questi ultimi a risiedere il suo vero significato. Anche gli orfici greci usavano rappresentare Orfeo crocifisso, ma questo nulla dice sul significato cristiano della crocifissione, anche se una continuità miticoiconografica fosse provata. La Madonna come Quarto Escluso Queste discontinuità appaiono ancor più evidenti se si assume la prospettiva della psicologia junghiana, sostenitrice dell’esistenza di archetipi universali ed eterni in un inconscio collettivo in cui si riassume l’eredità biologica dell’umanità nel suo complesso. Certamente Carl Gustav Jung, e soprattutto il suo discepolo Erich Neumann, hanno entrambi studiato a fondo l’archetipo della Madre, ma solo di rado hanno sviluppato il tema dei suoi rapporti con il simbolo cristiano. Nel 1950 Jung salutò con parole di grande approvazione l’emanazione da parte di Pio XII del dogma dell’Assunzione al cielo di Maria, vedendovi un “evento epocale” della modernità. Al filtro della sua psicologia analitica la Madonna risultava essere il simbolo della Terra e della materia, aspetti inalienabili dell’archetipo materno. E dunque: “Se una figura condizionata da questo archetipo viene 52

rappresentata come accolta in cielo, nel regno cioè dello spirito, ciò sta a indicare un’unificazione di Terra e cielo, materia e spirito”. In altri termini, il moderno incremento della spiritualità mariana, sino al suo riconoscimento dogmatico, offrirebbe alla cultura occidentale un’indicazione simbolica essenziale per superare l’eccessivo razionalismo maschile (lo Spirito Santo) che, a suo avviso, ne avrebbe caratterizzata la storia, impedendone una compiuta “individuazione”, ossia un pacificante riconoscimento della propria vera realtà, il Sé. L’assunzione in cielo del simbolo della madre-materia verrebbe quindi finalmente a chiudere il ciclo negativo iniziato anticamente con la supremazia del padre-spirito inaugurata dal cristianesimo e ribadita poi dalla distinzione cartesiana fra res cogitans e res extensa, riconoscendo che “spirito e materia sono in sé neutrali o meglio utriusque capax, ossia entrambi capaci di ciò che l’uomo chiama bene o male”. Dal punto di vista storico, poi, il successo della Vergine, ossia della secolare opera d’invenzione ex novo di una spiritualità femminile all’interno del cattolicesimo, verrebbe secondo Jung a completare in senso quaternario la Trinità cristiana, rendendola in qualche modo assimilabile al Mandala, il simbolo del cerchio inserito in quadrato tipico delle filosofie religiose orientali che egli tanto apprezzava. La Madonna, insomma, sarebbe il simbolo del Quarto Escluso, l’elemento storicamente mancante al cristianesimo in vista di una completa realizzazione. In una nota a piè di pagina del saggio su

Psicologia e alchimia, Jung osserva che “non è raro imbattersi in una concorrenza fra il Tre e il Quattro. Ciò è stato osservato particolarmente in individui di sesso maschile. Non sono in grado di dire se si tratti di un caso o meno”. Dato che questa concorrenza fra simbologia ternaria e quaternaria sarebbe poi all’origine del mito mariano, è questo un ottimo spunto per avanzare un’ipotesi interpretativa alternativa, pur nei termini della psicologia analitica. La femminilità maschile È noto che Jung considera l’identità sessuale come una questione di rapporti fra due polarità interne a ogni persona. Nel maschio, accanto a una virilità dominante, l’Animus, esiste anche una femminilità secondaria, l’Anima, più o meno accettata a seconda che l’individuo sia progredito nel cammino dell’individuazione. E nella donna, specularmente, al di sotto dell’immaginario femminile, ancora l’Anima, si agita un Animus maschile. Un aspetto che verrebbe da chiamare viriloide più che virile, perché è chiaro che i temi simbolici tipici dell’Animus (l’Eroe, il Saggio, lo Spirito e così via) si esprimeranno con accenti ben diversi a seconda che provengano dalla componente maschile delle donne o da quella femminile degli uomini. E a maggior ragione bisognerebbe coniare il termine femminoide per indicare l’immaginario femminile degli uomini, dato che nessun maschio potrà mai farsi un’idea di prima mano di un’esperienza centrale della femminilità, la maternità, dovendo per ciò accontentarsi dei racconti della madre e della moglie. Ebbene, un’attenta ricostruzione delle vicende storiche del simbolo mariano suggerisce la possibilità di considerarlo essenzialmente espressione dell’Anima, ossia di una costellazione immaginaria femminile, certo, ma di origine maschile. Ciò è stato vero all’origine, nel mondo bizantino, in cui, come abbiamo visto, la simbologia mariana fu usata in funzione della teologia politica imperiale. Lo è stato soprattutto dal Cinquecento in poi, a seguito della contaminazione con la Donna dell’Apocalisse. K

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Anonimo, Ex voto, tavoletta dipinta, 1883, santuario della Madonna del Palazzo, Piemonte.

L’apparizionismo moderno Perché l’epoca della secolarizzazione e del successo del pensiero scientifico è caratterizzata anche dal proliferare delle apparizioni mariane?

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olo a un’analisi superficiale può apparire strano che l’epoca contemporanea, caratterizzata dai progressi della scienze dal generale declino della sacralità, sia caratterizzata anche dall’apparizionismo mariano, ovvero dal più imponente fenomeno di contatto con il soprannaturale mai conosciuto dall’intera civiltà occidentale (cattolica). Impressionanti sono prima di tutto i dati quantitativi. Del tutto sconosciute

nei primi secoli, le apparizioni mariane cominciano a partire dal VI secolo e si mantengono su una media di 15 per secolo sino al boom del tardo Medioevo: 275 nel XII secolo, 772 nel XIII, 612 nel XIV. Ma conclusasi la fase calante di questo ciclo, 315 nel XV secolo e 71 in quello seguente, ritornano ad essere episodi eccezionali, dato che se ne contano solo 26 nel secolo dei lumi. La curva però conosce un’impennata esponenziale a partire dal 1830: non esi53


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stono statistiche sicure, ma se ne valuta il numero in migliaia, pur restringendo il campo solo all’Occidente. Naturalmente queste valutazioni generali non tengono conto del diverso peso teologico delle varie apparizioni, che andrebbero distinte in varie categorie: quelle su cui la Chiesa ha scelto di non pronunciarsi, quelle condannate, quelle approvate a livello locale, vescovile o addirittura pontificio. Le mariofanie riconosciute Le quali ultime sono molto poche, solo una decina se si esclude il precedente messicano del XVI secolo. Ecco l’elenco delle più importanti: Guadalupe, 1531; Parigi (Rue de Bac) nel 1830; La Salette, Francia, 1846; Lourdes, 1858; Pontmain, Francia, 1871; Fatima, Portogallo, 1917; Beauraing e Banneux, entrambe in Belgio, nel 1932 e 1933. E non sfugga l’importanza delle date, che riprendono con esattezza tutti i più tragici avvenimenti politici della storia contemporanea. E bisogna poi chiarire cosa si intende con approvazione della Chiesa, che in nessun caso ha mai deciso di pronunciarsi sulla presenza effettiva della Vergine nelle apparizioni, articolando il suo giudizio esclusivamente sulla base della bontà dei frutti pastorali che ne sono derivati. Si tratta cioè di verificare se il rinvigorimento della devozione popolare si mantiene entro i limiti dell’ortodossia teologica, in particolare non perdendo di vista il fondamentale orientamento cristologico della fede cristiana. Bisogna insomma verificare che l’entusiamo mariano delle folle non trasformi la Madonna nella protagonista della fede, chiedendole quella salvezza che solo suo Figlio può concedere: una deviazione pericolosa e oggi certo non infrequente. Le teofanie mariane si collocano così al grado minimo di dogmatizzazione: non vi è alcun obbligo per il fedele di credervi e si può essere ottimi cattolici pur pensando che tutto il fenomeno Lourdes sia frutto di superstizioni popolari pericolose per la vera fede. E non sono pochi, forse la maggioranza, i teologi cattolici che la pensano così, anche se quest’approccio pragmatico, riduttivista o addirittura di disapprovazione 54

contrasta non poco con l’impegno richiesto ai fedeli nel credere ad altri fenomeni non meno lontani dalla razionalità scientifica, quali i miracoli, la cui certificazione impegna la Chiesa in ogni processo di santificazione. In ogni caso, la Chiesa esclude categoricamente che le parole della Vergine, anche nelle apparizioni riconosciute, possano essere aggiunte al deposito della fede: la scrittura e la tradizione. Per quanto rivolte, attraverso i veggenti, all’intera umanità, dal punto di vista teologico esse rimangono semplici “rivelazioni private”. La pastorella neotestamentaria Ma ciò che più conta sono le novità qualitative delle mariofanie contemporanee, che possiamo analizzare restringendo il campo alle sette riconosciute al più alto livello. Mentre nella tradizione oracolare-mistico-visionaria i referenti dei messaggi divini erano sovrani, sapienti o santi, comunque personalità influenti, ora il veggente tipico è la pastorella, una giovanetta povera, ignorante e spesso diseredata. Il tratto è così forte che la stupidità dei veggenti viene assunta come prova delle loro rivelazioni, quando riferiscono concetti sopra la loro portata o parole di cui non hanno capito il significato. In sé non è un fatto strano: anche per i musulmani la verità del Corano è provata da una raffinatezza letteraria incompatibile con l’ignoranza di un povero cammelliere come Maometto. D’altra parte la stupidità del veggente sembra riprendere la tradizione veterotestamentaria. I profeti dell’Antico Testamento, la cui carica carismatica è stata studiata dal sociologo Max Weber, erano spesso donne o uomini estranei al potere, pastori ignoranti, come le protagoniste di Lourdes e Fatima. Cambia poi profondamente la qualità della comunicazione soprannaturale, che da oracolare diventa vernacolare. La tradizione delle visioni mistiche ha sempre insistito sulla enigmaticità delle rivelazioni, redatte in quella che già chiamava “la lingua degli dei”, incomprensibile ai più e spesso allo stesso veggente tanto da rendere necessario l’intervento chiarificatore del filosofo o

del teologo. Le moderne apparizioni si caratterizzano invece tutte per lo sforzo di chiarezza comunicativa della Madonna. Ella parla sempre usando la lingua dell’interlocutore, spesso il dialetto locale, come a La Salette o a Fatima, non senza problemi quando si tratta di esprimere concetti astratti come la concezione immacolata di Maria. La quale non esita, a volte, a indossare vestiti tipici della zona e dello stato sociale del veggente, nell’evidente sforzo di adeguarsi ai costumi e alle tradizioni locali. Bastano questi pochi tratti per dimostrare la continuità fra le apparizioni contemporanee e quella della Guadalupe, non a caso posta dalla Chiesa come unico precedente storico e quindi prototipo iniziale dell’intero ciclo. Una persistenza in qualche modo presente anche a livello iconografico: molti simboli che corredano la figura della Vergine moderna, soprattutto nella sua prima apparizione a Parigi nel 1830 ma in vario modo anche nelle altre, denunciano una lontana origine nel testo apocalittico di Giovanni: ad esempio la corona di dodici stelle e i raggi del Sole. E anche quelli che si aggiungono, il serpente schiacciato sotto i piedi, il globo terrestre che la sostiene o quello dorato che tiene fra le mani, come era d’uso per gli imperatori tedeschi, altro non fanno che sottolineare la potenza della visione connotandola in senso cosmico. E del resto come non definire apocalittico il segno celeste promosso dalla Madonna a Fatima davanti a migliaia di persone: il divenire osservabile del Sole e la sua vorticosa “danza” nel cielo? Di stampo apocalittico, soprattutto, sono i messaggi pronunciati dalla Vergine, il modo con cui descrive i disastri in cui incorrerà l’umanità se non ritornerà in breve alla fede. Spesso la Madonna descrive se stessa come ultimo baluardo in grado di frenare l’incipiente collera di Dio, letteralmente frenandone il braccio punitivo: “Se il mio popolo non vuole sottomettersi, sono costretta a lasciare libero il braccio di mio Figlio. Esso è così forte e così pesante che non posso più sostenerlo”, afferma a La Salette. L’entità di queste punizioni si fa via via sempre più terribile. Si parte, a La salette, con piaghe agricole che ricordano

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quelle neotestamentarie usate da Mosè per piegare il faraone egiziano: “Se avete del grano, non seminatelo. Sarà mangiato dagli insetti o cadrà in polvere quando lo batterete. Sopraggiungerà una grande carestia. I bambini sotto i sette anni saranno colpiti da tremito e morranno. Le noci si guasteranno e l’uva marcirà”. Si finisce con la ben più disastrosa calamità preannunciata nel secondo segreto di Fatima: la “notte illuminata da una luce sconosciuta”, segno che Dio sta per “castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa”. Segreti, politica e pallottole La richiesta formulata il 13 maggio 1917 dalla Madonna a Fatima per scongiurare tale disastro era la consacrazione della Russia al suo Cuore Immacolato. E al pericolo che tale richiesta non fosse accolta dalla Chiesa si collega la celebre visione del terzo segreto, reso pubblico solo nell’anno 2000. Ecco il passo saliente: “Vedemmo un vescovo vestito di bianco, vari altri vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose salire una montagna ripida, in cima alla quale c’era una grande croce di tronchi grezzi come se fosse di sughero con la corteccia; il Santo Padre, prima di arrivarvi, attraversò una grande città mezza in rovina e mezzo tremulo con passo vacillante, afflitto di dolore e di pena, pregava per le anime dei cadaveri che incontrava nel suo cammino. Giunto alla cima del monte, prostrato in ginocchio ai piedi della grande croce venne ucciso da un gruppo di soldati che gli spararono vari colpi di arma da fuoco e frecce, e allo stesso modo morirono gli uni dopo gli altri vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose e varie persone secolari, uomini e donne di varie classi e posizioni”. Come è noto l’interpretazione ufficiale del terzo segreto, elaborata dall’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger, vede nell’assassinio del vescovo vestito di bianco una predizione dell’attentato a Giovanni Paolo II avvenuto il 13 maggio 1981 (lo stesso giorno di Fatima!), anche se il contesto in cui avvenne, piazza san Pietro, non ha nulla a che vedere con quello profeAnonimo, Nostra Signora dei rimedi, XVII secolo, Museo de Arte Colonial, Antigua, Guatemala. DIOGENE N. 21 Dicembre 2010

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Andrés Lopez, Maria Santissima dell’Aurora, Pinacoteca de la Profesa, Città del Messico.

La Madonna del Magnificat

La devozione alla Madonna è oggi particolarmente viva in Sud America, soprattutto presso i militanti cattolici impegnati nella teologia della liberazione. Fra tutti i simboli mariani essi privilegiano il Magnificat, il canto contenuto nel primo capitolo del Vangelo di Luca con cui Maria risponde al saluto della cugina Elisabetta. Non certo per caso: nel Magnificat, infatti, si può leggere la richiesta di un mutamento radicale della vita, non solo sul piano spirituale. “Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente / e santo è il suo nome: / di generazione in generazione la sua misericordia / si stende su quelli che lo temono. / Ha spiegato la potenza del suo braccio, / ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; / ha rovesciato i potenti dai troni, / ha innalzato gli umili, / ha ricolmato di beni gli affamati, / ha rimandato i ricchi a mani vuote”. 56

tizzato. E il fatto che la mistica previsione si sia avverata solo in parte dipende dal fatto che, come affermò lo stesso Giovanni Paolo II nella Meditazione per i vescovi italiani scritta al Policlinico Gemelli, “una mano materna”, ossia la stessa Madonna di Fatima, “guidò la traiettoria della pallottola e il Papa agonizzante si fermò proprio sulla soglia della morte”. Il che ovviamente non ha chiuso la questione perché c’è chi ricorda che motivazioni di realismo politico hanno consigliato la Chiesa romana di non celebrare una consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di Maria nella forma solenne, cioè in presenza di tutti i vescovi, richiesta dalla veggente di Fatima, preferendo invece nel 1981 un meno impegnativo “affidamento”. La questione, comunque, dovrebbe essere stata chiusa dalla caduta dell’Unione Sovietica, anche se rimane la stranezza di una predizione fatta nel 1917 ma messa per iscritto nel 1943 e rivelata solo nel 2000 relativa a un avvenimento del 1989. C’è quindi chi sostiene l’esistenza di un “quarto segreto” ancora da svelare, come il noto scrittore Antonio Socci, e in recenti interventi lo stesso papa Benedetto XVI sembra incline a iscrivere le attuali sofferenze della Chiesa per lo scandalo della pedofilia fra quelle previste nel terzo segreto, lasciando così aperta la strada a nuove intrepretazioni. Il dogma dell’Immacolata Pur prudente nel selezionare le “buone” apparizioni, la Chiesa ha comunque scelto di sostenere lo sviluppo del moderno movimento mariano, soprattutto con la proclamazione nell’Ineffabilis Deus del 1854 del dogma dell’Immacolata concezione da parte di Pio IX. Ecco il passo centrale: “Affermiamo e definiamo rivelata da Dio la dottrina che sostiene che la beatissima Vergine Maria fu preservata, per particolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, ed in vista dei meriti di Gesù Cristo salvatore del genere umano, immune da ogni macchia di peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento”. Pronunciata ex cathedra, la formula che prevede l’infallibilità del Papa su particolari questioni di fede, questa verità va

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I L ad aggiungersi al deposito della Scrittura e deve quindi essere professata da ogni cattolico. Ora, le questioni teologiche implicate in questo dogma sono semplici, anche se di grande importanza. Se si ammette l’impeccabilità della Madonna non nella forma moderata, per cui Maria rimarrebbe una donna normale anche se tanto perfetta da non essere mai caduta nelle tentazioni del peccato, ma nella forma estrema teorizzata alla fine del XIII secolo da Duns Scoto e ripresa da Pio IX, per cui Maria non avrebbe mai neppure conosciuto alcuna tentazione peccaminosa essendo stata per un eccezionale privilegio di Dio esentata dal peccato orginale, caso unico nella storia universale, si devono allora ammettere anche alcune conseguenze. Il privilegio di Maria La prima è che Maria non abbia neppure conosciuto la degradazione biologica, intrinsecamente connessa per la teologia cattolica al peccato originale e quindi all’esercizio del male. Ne consegue che alla fine della sua vicenda terrena ella non sia morta ma assunta in cielo sia nello spirito che nel corpo, come del resto riconosce il dogma papale del 1950. La seconda è che dopo aver scollegato Maria dal peccato originale diventa problematico considerarla ancora un normale essere umano, dato che per l’antropologia cristiana proprio nelle conseguenze di questa colpa originaria si radica la natura dell’uomo e il suo bisogno di Dio. Non per nulla la prima ipotesi di questa speciale esenzione di Maria fu sostenuta nel IV secolo dal monaco Pelagio, l’eretico fortemente combattuto da sant’Agostino per la sua negazione della centralità del peccato originale nel definire la natura umana. E infine, facendo della madre di Gesù un superessere, non ancora divino ma non più completamente umano, si giunge a complicare inopportunamente il punto veramente centrale del cristianesimo, ossia il mistero dell’incarnazione, perché risulta più difficile a questo punto sostenere la vera natura umana di Cristo in quanto nato da una donna terrena. È quanto basta per consigliare la prudenza teologica, su questo

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professata da molti eminenti teologi del passato, come sant’Agostino e Tommaso o lo stesso Bernardo da Chiaravalle, il Dottor Mariano. O per capire la veemenza con cui i “maculatisti” domenicani e gli “immaculatisti” francescani e gesuiti si affrontarono duramente dal XVI al XVIII secolo. La potenza del sensus fidelium Sullo sfondo di queste sottigliezze teologiche potrebbe sembrare sconcertante che Pio IX si sia deciso al grande passo del 1854 sulla base di un sondaggio, ossia chiedendo attraverso una lettera circolare a tutti i 603 vescovi cattolici se giudicassero opportuno farlo (546 risposero affermativamente). Non, si badi, se fossero personalmente sostenitori della teoria immaculatista ma se le loro diocesi avrebbero tratto vantaggio dall’accoglimento di un principio tanto caro alla devozione popolare. È la stessa Ineffabilis Deus a riconoscerlo, quando giustifica l’assunzione del dogma in base al sensus fidelium, ossia alla capacità della religiosità popolare, certo assistita dallo Spirito Santo, di vedere la verità là dove non arrivano i teologi. È un punto importante che ci permette di arrivare alla considerazione finale e complessiva dell’intera storia del culto mariano, in cui le forme “basse” della devozione popolare hanno alla fine saputo imporsi alla sapienza dei dotti, imponendo loro di elaborare una teologia perennemente in progress, tale da trasformare il silenzio della Scrittura su Maria nel più poderoso complesso simbolico dell’Occidente, con una proliferazione di significati tanto ricca da rendere difficile orientarsi, e che qui abbiamo esaminato solo in parte, ma che ha comunque permesso alla Chiesa di esprimere la sua “politicità”, la capacità di adeguare il testo al secolo. Per usare le parole di Benedetto XVI a proposito di Fatima, “la religiosità popolare è la prima e fondamentale forma di inculturazione della fede”, che si deve lasciare orientare dalle indicazioni della liturgia, ma che a sua volta deve essere fecondata dal cuore. Se, insomma, per la Chiesa cristiana, ma solo nella sua versione cattolico-romana, la teologia è il conscio raziona-

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lizzante, allora la devozione popolare e quella mariana in particolare ne costituiscono l’inconscio, la parte pulsionale e mitopoietica. E, come in un essere umano, le due polarità, il canonista e la veggente, il vescovo e la pastorella, debbono entrambi compenetrarsi e trovare un equilibrio. K

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Gli animali protetti, particolare di un’edicola votiva dedicata a san Martino e alla Madonna del santuario di Senales, cortesia Domenico Nisi.

Maria e le Alpi Percorsi di pellegrinaggio e devozione lungo gli itinerari pastorali delle nostre montagne.

S K Marta Villa Antropologa all’Università degli Studi Milano-Bicocca. 58

ulle Alpi si può camminare per arrivare su di una cima oppure per raggiungere e superare un valico: in entrambi i casi si tratta di uno spostamento ma con fini e atteggiamenti diversi. Le vette portano in alto, mentre un passo è un luogo di transito per andare da un’altra parte, cambiare valle, cambiare mondo, molto spesso anche genti. Le montagne sono certamente una barriera se si considerano solo le cime innevate, ma sono anche un crogiolo d’itinerari se si colgono come luogo di attraversamento.

Le vie che ancora oggi utilizziamo ripercorrono itinerari molto simili a quelli che ha percorso l’uomo fin dal periodo paleomesolitico, subito dopo la glaciazione di Wurm e presentano i segni di questi passaggi: pietre fitte, capitelli devozionali, santuari, edicole lignee, ponti del diavolo. Se all’inizio la colonizzazione alpina è avvenuta per la necessità di cercare cibo da parte dei cacciatori-raccoglitori che inseguivano le prede (stambecchi e camosci) in quota, successivamente abbiamo l’attraversamento delle catene

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I L alpine per far transitare le greggi alla ricerca di pascoli estivi. Dal Medioevo in poi si viaggia anche per scopi religiosi: pellegrinaggi verso i luoghi più importanti della cristianità o brevi spostamenti per raggiungere santuari locali. Chiunque abbia percorso sentieri di montagna si è imbattuto in evidenti segni marcatori ed esorcizzatori: la paura di sbagliare strada o d’incontrare pericoli sia fisici che spirituali ha suggerito all’uomo di edificare strutture più o meno semplici. Riprendere le tracce Cosa accomuna tutti questi segni? Molti sono dedicati, nonostante siano stati edificati da culture diverse in epoche molto distanti fra loro, a una figura benigna femminile chiamata a proteggere i pellegrini, i viandanti, i pastori e i loro animali: che si chiami Grande Madre o Madonna sembra non faccia emergere delle differenze così sostanziali. Spesso i luoghi dove sorgono ora edicole, cappelle o addirittura complessi santuari mariani, videro in epoca preistorica la presenza di pietre incise dai poteri taumaturgici, spesso legate alla sfera della fertilità e dedicate a questa divinità molto potente e ambivalente di cui ancora oggi troviamo testimonianze relitte in leggende, toponimi o manufatti. Se non c’è necessità di cambiamento, soprattutto in un territorio inospitale come quello alpino, tradizionalmente i piedi di chi viene dopo continuano a calcare le tracce di chi ha percorso per primo quei territori: cambia la destinazione e la motivazione del viaggio, ma l’itinerario rimane lo stesso. Si attraversano boschi, praterie in quota, pietraie per giungere ai passi e ogni volta che si affronta un bivio pericoloso o un luogo carico di energie si trovano santi più o meno locali in funzione apotropaica che spesso accompagnano Maria. Non era raro fino al secolo scorso incontrare uomini inginocchiati a pregare di fronte a queste immagini per salvarsi da incontri diabolici o preservarsi dalle future disgrazie. La Vergine è la figura più amata anche dalla devozione popolare, massima mediatrice tra uomo e Dio, viene spesso percepita come madre capace di consi-

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gli in momenti difficili e viene rappresentata con il bimbo in grembo o con l’ampio mantello aperto in segno di soccorso e in relazione ad elementi naturali. È una figura benevola, mai vendicativa, un volto che trasmette conforto a chi, lontano da casa, percorre territori nuovi e magari non conosce nemmeno la lingua parlata dalle persone che incontra. Nell’arco alpino troviamo, su determinati itinerari, rappresentazioni particolari di Maria: quella Nera, densa di significati anche esoterici, e la Madonna della neve o delle fonti, ad entrambe sono dedicati santuari edificati in significativi luoghi di passaggio e ricchi di ex voto. Non è un caso, inoltre, che lungo importanti itinerari di pellegrinaggio, che calcano antiche vie pastorali dove sono stati trovati anche siti archeologici preistorici, troviamo come probabili marcatori capitelli con raffigurazioni della Madonna Nera o di Loreto. I pellegrinaggi per espiare gravi colpe venivano fatti a piedi, la strada in salita costellata di sudore e di fatica era un modo per ottenere il perdono: chi viaggiava a cavallo invece doveva smontare dalla cavalcatura nel punto in cui era possibile scorgere per la prima volta il santuario, spesso in questo punto venivano eretti i cosiddetti “piloni della prima vista”. Le strade dei micropellegrinaggi si incrociavano spesso con quelle dei massimi: Santiago di Compostela, Roma, Gerusalemme, i cui pellegrini avevano nomi diversi (jacquets, romei, palmieri). Il più grande pellegrinaggio mariano d’Occidente invece era quello legato alla cappella-grotta di Notre Dame (Vergine Nera) di Rocamadour in Guascogna, luogo dove transitava anche la via per Santiago e ne era tappa obbligata. Nelle Alpi Orientali è stato trovato e studiato dall’archeologo trentino Domenico Nisi un percorso molto utilizzato, che racconta una storia antica con misteri ancora da svelare. La strada più nota per transitare in questa zona montuosa è stata la via Claudia Augusta, che fin dall’epoca romana metteva in comunicazione Verona e la pianura veneta con Innsbruck e la pianura germanica attraverso il passo di Resia e successivamente il passo del

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Brennero. In varie epoche preistoriche e storiche, poiché la zona era soggetta alle esondazioni del fiume Adige e spesso percorsa e occupata dagli eserciti, vennero utilizzati itinerari alternativi, che, risalendo le pendici della catena prealpina del Monte Baldo, raggiungevano il cuore delle Alpi Orientali. Si raggiungeva la Val Venosta attraversando la Val d’Ultimo, la cui imboccatura era inaccessibile, e, per lo stesso motivo, si percorreva trasversalmente anche la Val Senales, dove era posto il valico più alto, il Giogo di Tisa a 3210 metri che permetteva di scendere nella vallata dell’Oetztal. I pellegrini medioevali Le scoperte archeologiche di questo studioso descrivono un itinerario che in età storica, al posto delle selci paleomesolitiche (sono stati individuati più di 200 siti in quota), è stato marcato da capitelli, santuari e ospizi. La via dunque venne utilizzata anche dai pellegrini medievali per abbreviare il percorso principale ma più pericoloso del passo di Resia o del passo del Brennero. Troviamo infatti sul Monte Baldo sia il santuario della Madonna della corona a Spiazzi, sia quello della Madonna della neve sopra Avio, in Val di Non quello della Madonna del bosco a Senales, in Val d’Ultimo quello della Madonna nera a Santa Valpurga, in Val Venosta l’ospizio di san Medardo, con la presenza dei cavalieri templari, e il santuario (ora sconsacrato) di Nostra Signora in colle a Laces, probabile sito di culto preistorico vista la stele eneolitica lì rinvenuta, fino a giungere nel luogo più interessante di questo percorso: la Val Senales. A Madonna di Senales (Unser Frau) c’è un santuario la cui frequentazione, sia come meta per itinerari di breve durata sia come sosta lungo cammini che portavano lontano, era molto alta. Lo testimoniano i numerosi ex voto presenti all’interno e il racconto leggendario delle sue origini. Sorge su di uno sperone di roccia che costituisce una parte dell’abside romanico, perfettamente orientato Est-Ovest secondo il pensiero teologico dell’epoca, in mezzo alla vallata, unico luogo rialzato in una zona acquitrinosa dovuta al rio Senales. 59


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Camminando sui sentieri delle Alpi è possibile recuperare le tracce di numerose stratificazioni culturali. All’interno si trova la statuina di una madonna miracolosa; la tradizione vuole che nel 1304 due pellegrini tedeschi, di ritorno dalla Terrasanta, la trovassero sopra una roccia: pieni di entusiasmo, la portarono in una delle case vicine, ma il giorno seguente la trovarono di nuovo sopra la roccia. Il fatto inesplicabile si ripeté ancora, finché la popolazione capì il segno e fece costruire sul luogo del ritrovamento il grande santuario. Il volto della Madonna, che gli abitanti del luogo chiamano nera, è stato consumato dall’uso di baciarlo da parte dei pellegrini che dal 1300 in poi si sono fermati qui a pregare; ora la statua è protetta da un vetro e solo a un gruppo particolare di pellegrini è ancora consentito il bacio rituale: quelli provenienti da San Martino di Laces, che giungono alla chiesa dopo aver affrontato un cammino ripido e difficoltoso lungo la Valle di Pinalto. Il santuario guarda direttamente un luogo preciso che è sotto la sua giurisdizione spirituale e protettiva: il Giogo di Tisa, l’unico passo naturale che permette di scavalcare la testata alpina per scendere in Austria. Questo luogo di transito, da sempre frequentato, è stato utilizzato anche dai pastori con migliaia di pecore, e solo da 100 anni la tradizionale transumanza passa dal vicino nuovo Rifugio di Similaun. Il passo è noto in tutto il mondo dal 1991, anno della scoperta della “mummia dei ghiacci”, che proprio in quel punto è rimasta dal 3300 a.C.; la statuina della Madonna protegge dal 1300 quel passo e tutti i pellegrini e pastori che sono obbligati a transitare. Lo dimostrano alcuni ex voto, uno in particolare rappresenta una disgrazia risoltasi felicemente sul luogo del passo: un pastore che con altri stava compiendo la transumanza si è miracolosamente salvato grazie all’intercessione della 60

Madonna nonostante la caduta in un crepaccio. Lungo il sentiero che porta al Giogo di Tisa e il sentiero che, di fronte a questo, sale al Giogo Tasca affacciandosi sulla Val Venosta, anch’esso itinerario di transumanza e pellegrinaggio, si trova un altro marcatore specifico: san Martino. Questo santo, un soldato romano a cavallo che percorreva le strade dell’impero, è un indicatore viario e protegge chi cammina e chi viaggia per il mondo. In questa zona preserva anche gli animali in transumanza, ovini e bovini, ed è sempre associato nei diversi capitelli lignei alla Madonna del santuario. La coppia viene posizionata nei punti cruciali, dove la morfologia del paesaggio potrebbe indurre ad errori; lungo l’itinerario al Giogo di Tisa abbiamo un capitello di singolare fattura: ligneo, posizionato addosso a un masso erratico enorme che sembra ricalcare le forme delle vicine montagne, al di fuori suggellato dal monogramma mariano, dentro contenente il santo e la Madonna, sul fianco un dipinto che descrive l’itinerario, ai lati un bovide e un ariete. Stratificazioni culturali Le scoperte emozionanti non sono finite: l’archeologo Nisi durante le ricerche associate alla “mummia” ha trovato lungo il percorso, oltre a numerose selci mesolitiche, due pietre fitte molto antiche, utilizzate come stele marcatrici, una con gibbo a forma di bovide (in Italia) e l’altra a somiglianza di ariete (in Austria), circondate da diversi giri di sassi. La stele austriaca non dista molto da un altro sito, testimonianza di devozione, lungo il sentiero che scende verso l’Oetztal: un trono in pietra (simbolo di fertilità?), da cui sgorga una sorgente d’acqua, dove ancora oggi le anziane del luogo depongono dei fiori; a poche decine di metri inoltre sorge una cappella della Madonna. Questo itinerario così

antico porta con sé segni di sovrapposizioni culturali: dalla Dea madre pagana alla Madonna cristiana legate a luoghi e fenomeni naturali significativi per l’uomo, all’acme di questo percorso troviamo il Similaun, montagna sacra a forma di triangolo innevato da cui sgorga la fonte della vita, l’acqua che scende come torrente nella vallata. Nel punto più pericoloso viene deposto e sepolto, questa l’interpretazione data dal professor Nisi al Congresso internazionale di Bolzano nel 2001, un uomo che si mummifica nel ghiaccio (Oetzi), a protezione della vallata viene eretto un santuario con una Madonna miracolosa portata da lontano: l’itinerario si inserisce tra le vie di pellegrinaggio più frequentate d’Europa e attorno a questo luogo si raccontano leggende di Eismandl (omini del ghiaccio) e di vecchie che si scatenano contro chi profana quel passo. Camminando lungo questi sentieri ci troviamo a riconoscere un intricato sistema di stratificazioni culturali, testimonianza della profonda devozione religiosa degli abitanti di questi luoghi che hanno trovato nella Madonna un simbolo di continuità e di potente protezione. K

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Filosofare in coppia

Elaborazione grafica dei ritratti di Harriet Taylor e John Stuart Mill.

John Stuart e Harriet Taylor La storia di un amore difficile e di un fecondo sodalizio intellettuale nell’Inghilterra perbenista del primo Ottocento.

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ice una leggenda che Aristide il giusto fu cacciato da Atene perché gli ateniesi erano stufi di sentirlo chiamare così. È il destino che può capitare ai sempre-giusti, i so-tutto-io che come il celebre grillo parlante non sbagliano mai: si attende solo di coglierli in fallo e privarli così in un solo momento di tutto il loro prestigio. John Stuart Mill corre seriamente questo rischio. Anche oggi è difficile dargli

torto e non condividere le tante battaglie in cui si impegnò. Credeva fermamente nella completa uguaglianza dei sessi, in un’epoca in cui il suffragio femminile era ancora avveniristico. Credeva che la giustizia dovesse veramente essere uguale per tutti e che persino i detenuti accusati di terrorismo avessero diritto a un giusto processo. Credeva nel diritto di non mettere al mondo figli non voluti, tanto che a soli diciassette anni fu arrestato per aver aiutato alcune

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Le debolezze di John Stuart Fa quindi umanamente piacere scovare qualche elemento di debolezza in un uomo tanto preparato, coerente e radicale. E ce ne sono almeno due. la prima è la profonda crisi depressiva in cui cadde sul finire dell’adolescenza, quando improvvisamente si scoprì incapace di provare veri sentimenti. Avrebbe potuto accusare, e non senza ragione, il padre James, che l’aveva fatto oggetto di un ventennale esperimento educativo sottoponendolo a un ciclo di studi tanto intenso da privarlo di ogni occasione di socialità. Ma non lo fece, come spiega l’articolo di Francesca Nicola a pagina 64. Continuò a riverire, almeno formalmente, quel padre tanto invasivo preferendo trovare nella poesia il calore affettivo che gli era sino ad allora mancato. Ma è comunque significativo di un rapporto che non arrivò mai all’effettiva parità il fatto che John Stuart aspettò parecchi anni, sino alla morte del padre, per professare in pubblico le sue idee sul suffragio femminile.

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La seconda fu la rigida osservanza delle convenienze sociali con cui visse il suo rapporto d’amore e di profonda affinità intellettuale con Harriet Taylor, la donna della sua vita, con la quale per ben ventun anni visse una relazione semiclandestina per timore delle malelingue. Certo, Harriet era già sposata e l’etichetta dei comportamenti pubblici nell’Inghilterra del primo Ottocento era molto più vincolante di oggi. Forse, tuttavia, un maggiore coraggio sarebbe stato più coerente con le dottrine radicali da lui sostenute nel saggio Sulla libertà, una variante estrema del liberalismo che punta a difendere l’individuo non solo dalle ingerenze dello Stato ma anche da quelle della pubblica opinione, valorizzando le scelte di vita anomale non perché debbano essere tollerate, ma perché costituiscono la vera ricchezza di ogni società.

Una vita di studio

Filosofia fra moglie e marito In ogni caso, la loro fu un’intesa straordinaria, fondata su una reciproca stima e improntata alla parità intellettuale, un caso forse unico nella storia della filosofia. Per quanto Harriet fosse riluttante ad essere presentata come coautrice, e personalmente firmò solo alcuni articoli per le riviste femministe con cui collaborava, sappiamo che discusse e commentò con il marito tutte le sue opere più importanti, sia quelle che più le stavano a cuore, sulla condizione femminile, sia quelle d’argomento logico ed economico. Non che andassero d’accordo su tutto. Anzi. Per le donne lei chiedeva un regime di totale uguaglianza sociale e professionale con gli uomini, soprattutto liberandole dalla schiavitù dei lavori domestici. Lui più modestamente si accontentava di rendere le donne per lo meno indipendenti dal dominio legale maschile allora sancito dai contratti di matrimonio, sperando che la conquista del diritto di voto avrebbe di per sé innescato un meccanismo virtuoso. Alla fine, è suggestivo notare che furono queste discussioni in casa Mill, quando i due poterono alla fine sposarsi e vivere sette anni assieme, ad inaugurare la moderna riflessione sulla condizione della donna. K

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1806. Nasce a Pentonville in Scozia da James Mill, storico e filosofo. Della madre non parla mai.

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1809. Inizia lo studio del greco..

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1814. Inizia lo studio del latino.

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1822. Rifiuta di iscriversi alle Università di Oxford e Cambridge per non aderire all’obbligo di professare la fede anglicana.

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1823. Trova impiego nella Compagnia delle Indie, in cui rimarrà sino alla sua chiusura nel 1858.

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1826. Entra in un anno e mezzo di profonda crisi depressiva.

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1830. Conosce e subito si innamora di Harriet Taylor.

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1843. Scrive il Sistema della logica.

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1848. Pubblica i Principi di economia politica.

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1851. Dopo una relazione di ventun anni, sposa Harriet Taylor.

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1858. Muore Harriet Taylor.

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1859. Pubblica la sua opera più nota, il saggio Sulla libertà.

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1865. Diventa rettore della Università scozzese di Saint Andrews.

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1865. Viene eletto per un triennio deputato alla Camera dei Comuni.

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1869. Esce Sulla servitù delle donne.

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1873. Muore ad Avignone. Nello stesso anno esce l’Autobiografia.

Anonimo, Ritratto di John Stuart Mill, inizio Ottocento.

donne povere ad accedere a mezzi contraccettivi. Credeva che gli inglesi dovessero imparare la lingua degli arabi così da potersi meglio confrontare con la loro civiltà. Credeva infine, e soprattutto, che bisognasse opporsi attivamente a ogni tipo di schiavitù, anche da quella che nasce dal perbenismo delle maggioranze, la cui tirannia può essere sconfitta solo valorizzando appieno l’eccentricità dei comportamenti, quelli “devianti” in primo luogo, e l’originalità del pensiero, quello minoritario in primo luogo. Un amore assoluto per la libertà individuale che lo portò a condannare l’istituzione della scuola pubblica, fucina a suo dire di un pensiero unico, e a dedicare parecchi capitoli del suo saggio più importante, Sulla libertà, a sviscerare il problema della liceità dei comportamenti autolesionistici, quelli cioè in cui un cittadino, attento a non ledere i diritti altrui, si limita a fare del male a se stesso, ad esempio abusando di alcol o di droghe (che ai suoi tempi non erano ancora diffuse, ma che egli con prodigiosa preveggenza discuteva lo stesso, chiamandole genericamente “veleni”).

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Curarsi con la poesia La storia della sperimentazione educativa radicale di cui John Stuart Mill fu protagonista e oggetto. A tre anni studiava il greco, ma a venti si accorse di non riuscire a provare sentimenti.

e biografie descrivono John Stuart Mill come un bambino prodigio. In effetti, a tre anni iniziò lo studio del greco, a otto del latino, a nove padroneggiava l’algebra, a tredici aveva letto l’Organon di Aristotele e a quindici conosceva una quantità enorme di classici dimostrando un’abilità sorprendente anche nelle materie logiche ed economiche. Va detto, però, che questa straordinaria precocità era stata fortemente stimolata da suo padre, James Mill, che decise di fare del suo figlio maggiore il protagonista (o forse l’oggetto) di un ventennale esperimento pedagogico. Quanto ci sia riuscito appare evidente leggendo l’autobiografia di John Stuart, terminata a sessantaquattro anni, tre prima della morte: più che la storia di una vita è il racconto dell’educazione ricevuta e dell’itinerario intellettuale compiuto per emanciparsi dall’ingombrante figura paterna.

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K Francesca Nicola Dottoranda in Antropologia alla Università di Milano-Bicocca. 64

Progetti di educazione radicale James Mill era un seguace e stretto collaboratore del celebre filosofo Jeremy Bentham, leader dei “filosofi radicali”, un gruppo piccolo ma agguerrito. Fondendo utilitarismo politico e fede democratica, questi intellettuali propo nevano l’introduzione di riforme egualitarie come il suffragio universale, l’abolizione dei titoli nobiliari, la libertà di stampa e la rigida separazione fra Stato e Chiesa. Razionalisti, ottimisti e fiduciosi che attraverso l’istruzione fosse possibile raggiungere lo stato di perfezione, si proponevano come i veri eredi dello spirito illuministico del Sette-

cento. La loro pedagogia si fondava sulla teoria associazionistica ereditata dall’empirismo di Hobbes e Hume, secondo cui l’attività mentale è composta dall’unione di elementi semplici e non ulteriormente riducibili, identificati con le sensazioni, che associandosi fra loro danno vita ai contenuti intellettuali più complessi. Obbiettivo primo di un’efficace educazione diventa quindi insegnare già dalla più tenera età a padroneggiare la grammatica delle associazioni mentali, così da indirizzare l’allievo verso quelle che stimolano azioni virtuose e reprimere quelle che danno luogo a comportamenti dannosi. Su questi temi Jeremy Bentham aveva scritto un testo nel 1816, Chrestomathia, in cui, dopo aver sottolineato che nell’individuo non c’è nulla d’innato e che il carattere è plasmato dalle circostanze in cui nasce, conclude con la necessità di sottoporre i bambini a stimoli adeguati sin dalla prima infanzia. Il saggio era nato sulla scia del progetto di creare una scuola secondaria per i figli delle classi medie, cui in quell’epoca era precluso il livello superiore d’istruzione. Il filosofo aveva anche messo a disposizione il giardino di casa sua, ma il progetto non era andato in porto per mancanza di fondi. Ne rimangono tuttavia le linee guida, fra le quali la proposta di sostituire al curriculum umanistico allora dominante una preparazione di tipo scientifico, considerata più efficacie nello stimolare il principio morale dell’utilità generale. Anche James Mill s’era occupato d’istruzione. Già nel 1812 insieme all’a-

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Un’infanzia solitaria Sottratto all’influenza dei propri coetanei, il piccolo John Stuart crebbe in compagnia solo dei fratelli e delle sorelle, senza una presenza significativa della madre, mai menzionata nell’autobiografia. La sua dieta intellettuale era ispirata alle idee di Bentham sul sapere utile: niente poesia contemporanea, niente religione, niente metafisica, da sostituire con letteratura classica e scienze naturali. Mill padre era severo ma anche molto disponibile. Dedicava un’incredibile quantità di tempo e di energie all’istruzione del figlio. Lo faceva studiare accanto a sé, mentre era impegnato a scrivere una monumentale Storia dell’India, e gli permetteva d’interromperlo tutte le volte che fosse necessario, ossia spessissimo, perché mancando in quell’epoca dizionari di greco il piccolo Mill era costretto a chiedere al padre il significato di ogni parola sconosciuta. Una pazienza eccezionale per un uomo che, ci racconta Mill, era solito arrabbiarsi facilmente. Queste ore di studio, poi, non erano che una piccola parte dell’istruzione quotidiana. Nelle ore libere il piccolo Mill leggeva libri di sua scelta, in genere romanzi e saggi storici, che doveva poi riassumere e discutere con il padre, durante lunghe passeggiate prima di colazione. A otto anni gli fu affidato un nuovo incarico: insegnare il latino ai fratelli e alle sorelle, della cui preparazione era ritenuto diretto responsabile. Un compito che gli precluse la possibilità di costruire relazioni normali con loro, con i quali del resto, da adulto, troncò definitivamente i rapporti. Nonostante l’intensità di questa preparazione, il

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Il primo intellettuale moderno Potremmo considerarlo come il primo grande “intellettuale”: sarebbe troppo limitativo definirlo soltanto un pensatore o un filosofo. La sua formazione e la sua collocazione politica sono quelle di un borghese molto progressista, spregiudicato nel significato più ampio di questa parola. I problemi che egli affronta sono connessi in maniera più o meno diretta con le questioni di fondo imposte alla riflessione di un intellettuale impegnato, dall’assetto sociale nel quale si trova a vivere e a operare. Questo discorso vale non soltanto per i suoi numerosissimi interventi, nel corso di cinquant’anni di attività pubblicistica e dei pochi anni di attività parlamentare, immediatamente legati ai temi politici discussi sulla stampa o in Parlamento; e in questi casi la sua posizione sarà sempre “di sinistra”, sia che si tratti di difendere dagli attacchi dei conservatori il governo provvisorio del 1848 in Francia, sia che si tratti di convertire quanta più opinione pubblica possibile alla causa del Nord durante la guerra di secessione americana, o ancora sulla annosa questione delle terre in Irlanda o sul problema del diritto delle donne al voto, per citare alcuni dei casi più significativi nei quali Mill s’impegnò direttamente. Questo discorso vale anche per le sue elaborazioni di economia politica e di filosofia politica: egli non crede nell’eternità della proprietà privata come principio di organizzazione della società e considera “praticabili” i sistemi socialisti e comunisti, alla luce di un’attenta analisi, condotta nel famoso capitolo “Della proprietà” dei suoi Principi di economia politica, delle enormi ingiustizie presenti nelle organizzazioni sociali fondate sul principio della proprietà privata. Egli difenderà nella pratica e nella teoria, col celebre saggio Sulla libertà, la sfera della libertà privata, intesa in un’accezione larghissima, contro i pericoli di interferenza non solo da parte dello Stato, ma anche della opinione pubblica. Vale infine per le sue opere più specificamente filosofiche, dal Sistema di logica all’Esame della filosofia di Sir. W. Hamilton, dirette a modificare il modo di sentire e di pensare legato alle posizioni intuizionistiche, cioè dogmatiche poiché non forniscono le “ragioni” delle loro affermazioni e credenze, e quindi naturali sostenitrici di tutto quanto è “tradizione” e non deve essere messo in discussione. Mill si batte perché si affermi un atteggiamento fondato sull’esperienza e sul ragionamento basato su questa: un atteggiamento cioè che porti a mettere in discussione le cose, a domandare il perché e a ricercare (e quindi accettare o rifiutare) le ragioni delle cose, credenze e istituzioni. Perché, appunto, l’assetto economico e sociale non è tale da poter essere accettato per il fatto di essere uno stato di cose costituito e così tramandato; quell’assetto economico, sociale, istituzionale, non va affatto bene, è giusto e anzi doveroso metterlo in discussione, individuarne in maniera radicale i vizi e i mali organici, organizzarsi per lottare contro quei vizi e quei mali. Tratto da: F. Restaino, Introduzione all’Autobiografia di John Stuart Mill, Laterza, Bari, 1976.

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Medaglia commemorativa di John Stuart Mill.

mico Francis Place aveva scritto una serie di opuscoli intitolati School for all in preference to schools for Churchmen only, in cui suggeriva una riforma del sistema scolastico anglicano attraverso la creazione di scuole non confessionali aperte a tutti, inclusi i figli delle classi operaie. Più che negli scritti teorici, la sua filosofia pedagogica è però direttamente osservabile nell’educazione di suo figlio e in particolare nel tentativo di farne un perfetto riformatore, un uomo completamente razionale.

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Un allievo cui non si domandi mai qualcosa che non può fare, non farà mai tutto ciò che può fare. John Stuart Mill padre fu sempre molto attento che non degenerasse in un mero esercizio mnemonico. Qualsiasi cosa era possibile che il giovane scoprisse da sé non gli veniva rivelata, in modo da scongiurare ogni forma di pigrizia mentale. Allo stesso tempo, e per lo stesso motivo, gli veniva sempre esplicitamente spiegata l’utilità finale di ogni compito impartito. Fu per molti versi un esperimento riuscito. A quindici anni John Stuart aveva già letto Bentham, e ne era rimasto talmente impressionato da sentire in sé la vocazione di riformatore del mondo. Fondò così un’associazione culturale giovanile, il Club Utilitaristico, organizzando numerose conferenze e dibattiti. A diciassette anni si impiegò nella Compagnia delle Indie, la stessa società nella quale il padre occupava un posto di alto funzionario, e presto si impegnò in una vivace attività giornalistica sulle colonne della “Westminster Review”, fondata nel 1823, collaborando con Jeremy Bentham. La crisi dei venti anni Come però spesso accade con i progetti di riforma troppo ambiziosi, questa sperimentazione educativa produsse anche effetti negativi. Alle soglie della maturità, carico di cultura ma emotivamente molto fragile, Mill fu colto da quella che oggi verrebbe diagnosticata come depressione. A diciannove anni rivolse a se stesso una “terribile domanda”, come la definisce nell’autobiografia: supponendo che tutti i suoi obiettivi di vita, così come si erano andati strutturando durante la lunga educazione, si fossero completamente realizzati, sarebbe stato felice? La risposta del suo cuore fu chiara e dolorosa: “Un’irrefrenabile au66

toconsapevolezza rispose chiaramente: no. A ciò il mio cuore sprofondò con me; l’intero fondamento sul quale la mia vita era costruita crollò. Mi sembrò non ci fosse rimasto nulla per cui vivere”. L’angoscia, la paralisi della volontà e la sensazione di non avere uno scopo nella vita presero presto il sopravvento. Per più di un anno e mezzo rimase apatico, anestetizzato e indifferente, perso in un vortice di riflessioni sul significato della vita, non della nozione filosofica questa volta, ma della sua esistenza personale. Poi venne l’illuminazione. Mill racconta di essersi commosso fino alle lacrime e di aver sperimentato un enorme senso di sollievo nel leggere l’autobiografia di uno scrittore francese e in particolare un passaggio in cui l’autore descriveva la morte del padre avvenuta in adolescenza. Conseguenza di questo shock emotivo fu l’avvio di una profonda autoanalisi, culminata nella consapevolezza che il grande rigore analitico e razionalistico della sua educazione aveva a tal punto indebolito i suoi sentimenti da renderlo sostanzialmente incapace di sperimentare piaceri, desideri e passioni. Era diventato una sorta di macchina eterodiretta nelle mani del padre, per il quale comunque non venne mai meno un ambivalente sentimento di ammirazione mista a soggezione. Cominciò allora a maturare l’idea che il Sé non esistesse solo per essere sezionato dalla logica e dalla filosofia, ma anche, alla fine, per essere sperimentato, sentito e vissuto. E dopo l’analisi arrivò anche l’individuazione di un possibile rimedio. Si rivolse a quei settori della cultura contemporanea in grado di stimolare sensazioni ed emozioni. Lesse le poesie

di Wordsworth, gli scritti di Coleridge e di Humboldt, scoprendo un modo diverso, per lui del tutto nuovo, di considerare l’esistenza. L’autocura dei grandi L’itinerario che Mill descrive può essere considerato una vera e propria autoterapia psicologica, termine con cui in psicologia ci si riferisce al tentativo di ritrovare un proprio equilibrio per mezzo di un lavoro personale sostenuto da letture, riflessioni e scrittura. Non sono pochi gli uomini di genio che hanno narrato le proprie crisi d’identità durante l’adolescenza e i rispettivi tentativi di risoluzione attraverso la creatività. Non è un caso che parlando dell’autocura lo psicologo dello sviluppo e psicoanalista Erik Erikson esortasse i ricercatori a studiare i processi di formazione dell’identità proprio nella biografia di quei personaggi storici che si erano autocurati attraverso la creazione di opere d’arte o d’imprese originali, e che, in aggiunta, si erano raccontati in diari, lettere. romanzi e autorappresentazioni. A cominciare dal sant’Agostino delle Confessioni, per arrivare al Goethe del Faust, al Dostojevskij del Giocatore, al Kierkegaard di Aut Aut, al Moravia de Gli indifferenti, l’elenco di coloro che hanno descritto i propri tentativi di cura è potenzialmente lunghissimo. Un esempio di autocura riuscita è quello di Jean Piaget. All’età di ventidue anni pubblicò un romanzo filosofico in parte autobiografico dal titolo Recherche, rimasto a lungo non pubblicato. Il testo narra la crisi spirituale del protagonista Sebastian, un adolescente che lamenta di essere imprigionato in uno stato di disequilibrio mentale fra la parte più analitica e quella più istintuale di se stesso. Una rivelazione dal sapore quasi mistico lo traghetta fuori da questo stato depressivo. Camminando all’ombra di un pino il giovane comprende che, nella biologia come nella morale dell’uomo, il disequilibrio tende inevitabilmente a uno stato di equilibrio, a un rapporto armonico fra il tutto e le parti. Una rivelazione che permetterà a Sebastian di risolvere i propri conflitti interiori e a Piaget di esporre una concezione del

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I L mondo che non abbandonerà mai più. Non sempre tuttavia l’autoanalisi si risolve positivamente, e la storia di Proust ne è un esempio. Se Alla ricerca del tempo perduto può essere considerata una rivisitazione accurata della propria infanzia portata avanti forse anche con uno scopo catartico, va detto che negli ultimi tredici anni della sua vita Proust si barricò nel suo appartamento, foderando la camera di sughero per attutire i rumori esterni e chiudendo persiane e tende per vietare l’ingresso alla luce. Diversamente dallo scrittore francese, l’autoanalisi di Mill non si sclerotizzò in un cerebralismo nevrotizzante. Temprato da una profonda crisi spirituale, riuscì attraverso un attento esame di sé e dei limiti dell’educazione impartitagli a integrare ragione e sentimento, logica e poesia. La tesi dei due Mill Il pensiero di John Stuart Mill è sempre stato spesso tacciato di una certa dose d’incoerenza interna. Famosa è la tesi dei “due Mill” di Gertrude Himmelfarb, che ha rinvenuto nella vita del filosofo inglese uno scarto non risolto fra il Mill di Sulla libertà e un secondo Mill, autore di tutti gli altri lavori. L’autobiografia e in particolare il racconto dell’educazione ricevuta può in parte spiegare il perché di questa apparente incongruenza. Solo alla morte del padre egli riuscì a sfuggire all’imprigionamento nell’utilitarismo rigido del padre stesso e di Bentham, la presenza dei quali rappresentò sempre per il filosofo un forte freno alla manifestazione aperte delle proprie idee. Ne è una prova il fatto che alcune note sul pensiero di Bentham che scrisse subito dopo la sua morte nel 1833 furono per sua stessa volontà pubblicate anonime, a causa della preoccupazione per la possibile reazione negativa del padre. L’incontro con i poeti romantici determinò lo sviluppo di una sensibilità più ricca nei confronti dei diversi aspetti della vita umana, incluso il concetto stesso di utilità. Pur rimanendo un utilitarista convinto, sottolineò la differenza fra felicità e soddisfazione, sostenendo che la felicità non coincide con l’appagamento dei piaceri immediati ma con il consegui-

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mento nel lungo periodo di obbiettivi diversi che hanno a che fare con le capacità specifiche e distintive dei singoli individui. Al principio di utilità di Bentham sostituì dunque una visione che pone l’accento sul valore dell’individualità, dell’autonomia e del libero sviluppo esistenziale nella più ricca diversità di direzioni. Nel saggio Sulla libertà scrisse: “Nessuno nega che da giovani gli uomini debbano essere educati e addestrati a

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conoscere i risultati accertati dall’esperienza umana e a trarne vantaggio. Ma è privilegio, e giusta condizione, dell’uomo, una volta giunto alla pienezza delle sue facoltà, usare e interpretare l’esperienza a modo suo. Tocca a lui determinare in quale misura l’esperienza già acquisita sia opportunamente applicabile alle proprie circostanze e al proprio carattere”. In queste poche righe c’è molto della sua filosofia liberale, ma quasi certamente anche della sua espe-

L’autoicona di Jeremy Bentham

L’autoicona di Jeremy Bentham, University College, Londra.

Jeremy Bentham, il filosofo radicale inglese inventore dell’indirizzo utilitarista, era amico stretto di James Mill e contribuì all’educazione di John Stuart. Per suo impulso, nel 1826, venne fondata la University College di Londra, la prima università inglese ad ammettere gli studenti senza preclusioni di razza, credo politico o religioso. Come sberleffo al fanatismo religioso, alla sua morte, nel 1832, lasciò precise istruzioni affinché il suo corpo fosse imbalsamato e posto in una cassa di legno che egli volle chiamare autoicona, ancora oggi visibile nell’atrio dell’University College London. 67


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Anonimo, Ritratto di Harriet Taylor Mill, 1834, National Portrait Gallery, Londra 68

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Harriet and John Un rapporto intellettuale intenso e paritario. La storia di un amore grande ma contrastato dalle convenienze sociali.

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ohn Stuart Mill è stato un nemico del fanatismo e un amico della tolleranza e del libero pensiero. Di tutte le cause che ha sposato, però, la lotta per i diritti delle donne rimane la più eroica. È un eroismo radicato nelle idee libertarie che aveva respirato in famiglia sin da giovane ma anche e soprattutto nell’amore appassionato per Harriet Taylor, sua amica, amante, collaboratrice e alla fine, per qualche anno, moglie. La loro relazione fu uno schiaffo per la morale vittoriana. Quando si incontrarono, durante un ricevimento organizzato dalla stessa Harriet in onore di uno studioso di teologia, ebbero subito di che parlare. Lui aveva venticinque anni ed era scapolo. Lavorava per l’East India House ma già da una decina d’anni era attivo in campagne a favore dell’emancipazione femminile, e in particolare nella propaganda dei primi mezzi di contraccezione. A sedici anni del resto aveva avuto i primi guai con la polizia per aver distribuito fra le lavoratrici le prime spugne vaginali. Harriet invece era più giovane di due anni, ma già sposata. Probabilmente per sfuggire al peso di un padre autoritario, chirurgo e proprietario terriero, a diciotto si era unita con John Taylor, un farmacista benestante ma non particolarmente brillante, di dodici anni più anziano, con cui negli anni avrebbe avuto tre figli. Era in apparenza un matrimonio sereno, favorito dalla comune appartenenza all’unitarianesimo, una Chiesa cristiana che spingeva il razionalismo sino a negare il dogma della Trinità e

l’esistenza dello Spirito Santo, e quindi a predicare un Dio unico. Vi avevano appartenuto Milton e Newton e, agli inizi dell’Ottocento, altri intellettuali esponenti del radicalismo liberale, ossia di quella che oggi definiremmo “la sinistra” del panorama politico inglese. Fu proprio il loro pastore, William Johnson Fox, redattore del “Monthly Repository”, una rivista impegnata e femminista su cui Harriet aveva pubblicato qualche articolo, a favorire l’incontro galeotto. Harriet era solita organizzare a casa sua incontri sulla questione femminile. Dedicava ogni domenica a leggere e studiare in gruppo La rivendicazione dei diritti della donna, un testo della scrittrice femminista britannica del diciottesimo secolo Mary Wollstonecraft, che affermava la necessità dell’istruzione femminile. Cominciò con uno scambio di bozze Altre volte Harriet teneva ricevimenti in onore di intellettuali o uomini di rango di passaggio per Londra. A una di queste, organizzata per uno studioso presentatole dal pastore Fox, fra trenta o quaranta invitati vi era anche John Stuart Mill. Per caso finirono seduti vicini e Harriet ne fu subito attratta per un motivo: era il primo uomo che la trattava come una persona intellettualmente alla pari. L’illustre invitato discettava sul tema “La sfera adatta della donna nella cosmogonia sociale”. L’argomento che usava era simile a quello di san Paolo: "Che le donne imparino in soggezione", ma amplificato, dato che, a suo avviso, il marito dovrebbe essere il capo della 69


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Election special, Poster del The Bristol Radical History Group, Londra, 2010.

moglie, come Cristo è il capo della Chiesa. Harriet mostrò il suo disappunto e Mill venne conquistato da quella donna impulsiva, vivace e ambiziosa. E, possiamo aggiungere, piuttosto graziosa. Nonostante alcuni difetti evidenti come un occhio più aperto dell’altro, se si guardano le sue immagini e si tiene conto delle convenzioni estetiche della ritrattistica del tempo, si notano una testa piccola, un collo da cigno e una carnagione di perla. Mill ne fu impressionato al punto di chiederle di leggere e commentare alcuni saggi sulla questione femminile su cui stava lavorando. Lei a sua volta gli diede da leggere un articolo sulla sotto70

missione delle donne che stava finendo. Fu così, con un semplice scambio di bozze, che iniziò un rapporto di intesa intellettuale destinato a stravolgere le vite di entrambi. Lei radicale, lui moderato Col passare dei mesi lo scambio di lettere e libri, soprattutto sulla questione femminile, si intensificò. Su questo tema Harriet aveva idee più radicali di Mill. Entrambi partivano dal presupposto comune alla tradizione liberale e radicale illuministica che ogni essere umano sia per natura autonomo, razionale e morale, e che quindi debba essere libero di esercitare nella società i diritti

che derivavano da queste sue caratteristiche naturali. Harriet però non argomentava le sue tesi solo sulla base di principi teorici, ma anche della propria esperienza. Avendo conosciuto la condizione di moglie e di madre, riteneva che l’emancipazione potesse avvenire pienamente soltanto liberando le donne dagli impegni e dagli obblighi familiari che gravano solo su di loro. Proponeva che le cure familiari fossero a carico di domestiche (l’idea di servizi sociali era allora prematura), in modo che le mogli avessero più tempo per l’educazione, sia di base che universitaria, per l’accesso alle professioni e alle istituzioni mediche, legali e religiose, per la partecipazione alle scelte politiche e amministrative locali e nazionali, per il diritto al voto, per l’eleggibilità nelle istituzioni e infine per la possibilità di intraprendere iniziative economiche e imprenditoriali. Mill era più cauto. Propendeva per leggi che favorissero l’uguaglianza piuttosto che l’indipendenza. Riteneva infatti che la donna avesse una sfera privilegiata in cui esercitare il suo ruolo specifico: quello di garante della famiglia, dell’amministrazione della casa, della cura e della custodia dei figli. Sosteneva che a questo ruolo fosse spinta dalla sua natura “biologica”, che ne faceva, solo in questa sfera, un essere più debole, diverso dall’uomo, rispetto al quale era invece uguale per quanto riguarda le capacità morali e intellettuali, così come per i diritti politici. A tavola: lui, lei e il marito Questa divergenza di opinioni alimentava fra i due uno scambio continuo di idee. Li si vedeva sempre insieme, tanto che dopo un anno dalla serata a casa del pastore Fox qualcuno scrisse a Harriet per chiederle, a proposito di una recensione di Lord Byron, se fosse opera sua o di Stuart Mill. La loro frequentazione non dispiaceva al marito di Harriet, che un po’ per debolezza di carattere e un po’ per la grande ammirazione che nutriva verso Mill non oppose alcuna resistenza. Lo conferma il fatto che il giovane filosofo fosse un ospite abituale di casa Taylor, e che quasi ogni domenica tutti e tre si trovassero a pranzare insieme.

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I L Iniziarono però i primi pettegolezzi su quella che veniva considerata sempre più una relazione equivoca. Harriet e John Stuart si vedevano tutti i giorni; se non potevano vedersi, si scrivevano. Gli amici di lui lamentavano il poco tempo che egli dedicava loro e anche il padre, James Mill, iniziò ad avanzare qualche perplessità sulle convenienze sociali. Anche se sostenevano di non avere rapporti sessuali, il loro comportamento scandalizzò gli amici della coppia, che ben presto fu socialmente isolata. La moglie del filosofo Thomas Carlyle, in una lettera, scrisse allibita che erano stati visti "mangiare dallo stesso grappolo d’uva come due piccioncini". Nel decennio che seguì il loro fu un complicato triangolo amoroso. Anche per via del pettegolezzo martellante, nel 1833 Harriet negoziò una separazione di prova dal marito. Dopo aver passato sei settimane con John Stuart a Parigi, permise al marito di raggiungerli per una visita, e in quella occasione gli propose di alternarsi a Mill nel condividere, a periodi alternati, l’intrattenimento degli ospiti nella casa di lui. Lei al British, lui alla Compagnia Intanto la collaborazione fra Harriet e Mill proseguiva. Nel 1836, alla morte del padre, la sua fama era aumentata. Era diventato editore della “London Review” e tutto quello che scriveva lo passava subito a Harriet, che da parte sua correggeva, revisionava, modificava e spendeva molte ore al British Museum per lavori di ricerca, mentre lui lavorava alla Compagna delle Indie. Lo stesso Sistema della logica, uscito nel 1843, che gli portò molta fama, beneficiò del contributo di Harriet. Nel 1848 furono pubblicati i Principi di economia politica. Mill aveva progettato di includervi i particolari del ruolo che Harriet aveva avuto nella stesura del libro, ma quando John Taylor sentì parlare di questo progetto ebbe qualcosa da obiettare e i riferimenti alla moglie furono rimossi. John Taylor morì di cancro nel marzo del 1849. Preoccupati per lo scatenarsi delle malelingue, i due aspettarono ben tre anni prima di sposarsi. Nell’Autobiografia Mill scrisse: "Fra il periodo di cui parlavo e il presente è accaduto l’e-

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La libertà secondo John Stuart Mill La tirannia della maggioranza Questa espressione indica la tendenza della società a imporre, con mezzi diversi dalle sanzioni civili, le proprie idee e le proprie pratiche a coloro che dissentono da essa, a ostacolare lo sviluppo, e, se possibile, a prevenire la formazione di qualsiasi individualità non in armonia con i suoi schemi e a costringere tutti i caratteri a uniformarsi ai propri modelli. La tirannia della maggioranza è più pericolosa di molte altre forme di oppressione politica, perché, sebbene generalmente essa non si appoggi su sanzioni molto severe, lascia meno vie di fuga, in quanto penetra molto più in profondità nelle pieghe della vita quotidiana al punto da asservire l’anima stessa. L’eccentricità come ricchezza sociale Proprio perché la tirannia dell’opinione fa dell’eccentricità qualcosa di biasimevole, è preferibile, al fine di spezzare questo tipo di tirannia, che gli uomini siano eccentrici. L’eccentricità è sempre stata copiosa là dove la forza di carattere ha abbondato; e il grado di eccentricità in una società è stato generalmente proporzionale alla quantità del genio, del vigore intellettuale e del coraggio morale in essa contenuti. Il valore delle minoranze Se fra due opinioni ve n’è una che ha maggior diritto non solo a essere tollerata ma a venire incoraggiata e favorita, è quella che in un dato momento e luogo è in minoranza. Rappresenta gli interessi trascurati, quegli aspetti del benessere umano che rischiano di ottenere meno attenzione di quanta è loro dovuta. L’utilità delle opinioni sbagliate Il delitto specifico che si commette nell’impedire l’espressione di un’opinione è derubare la razza umana: le generazioni future non meno della presente, chi dissente da quell’opinione non meno di chi la sostiene. Se l’opinione è giusta, li si priva dell’opportunità di passare dall’errore alla verità; se è sbagliata, perdono il beneficio altrettanto grande di avere quella percezione più chiara e quell’impressione più viva della verità che nascono dal confronto con l’errore. Contro la scuola pubblica Un’educazione di Stato generalizzata non è altro che un sistema per modellare gli uomini tutti uguali; e poiché il modello è quello gradito al potere dominante, sia esso il monarca, il clero, l’aristocrazia o la maggioranza dei contemporanei, quanto più è efficace e ha successo, tanto maggiore è il dispotismo che instaura sulla mente, e che per tendenza naturale porta a quella del corpo. Un’educazione istituita e fondata dallo Stato dovrebbe essere, tutt’al più, un esperimento in competizione con molti altri, condotto come esempio e stimolo che contribuisca a mantenere un certo livello qualitativo generale. La liceità dei comportamenti autolesionistici Riconosco che il danno che un individuo fa a se stesso può seriamente toccare, negli affetti e interessi, coloro che gli stanno vicino e, in misura minore, la società in generale. Se però il danno arrecato alla società è puramente fortuito (o, come potremmo anche definirlo, “implicito”), ossia è un danno che l’individuo provoca con una condotta che non viola alcun preciso dovere verso la società, né provoca un danno evidente a nessun altro che a se stesso, allora la società può permettersi di sopportare l’inconveniente nell’interesse del bene più grande qual è la libertà umana. Tratto da: John Stuart Mill, Sulla libertà, Bompiani, Milano, 2000. 71


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vento più importante della mia vita. È il matrimonio con la donna il cui valore ha reso l’amicizia con lei la più grande fonte di felicità e di crescita personale. Per sette anni e mezzo ho avuto questa benedizione". Alcuni mesi dopo la cerimonia, la “Westminster Review” pubblicò l’articolo L’emancipazione delle donne. Anche se era stato scritto principalmente dalla Taylor, comparve sotto il nome di Mill. Ad Avignone, vicino alla tomba Una lettera scritta dal filosofo nel 1854 suggerisce che Harriet fosse riluttante a essere citata come coautrice dei libri e degli articoli di Mill: "Non sarò soddisfatto finchè non permetterete che il nostro migliore libro, il libro che è da venire, abbia entrambi i nostri nomi in copertina. Dovrebbe essere così per tutto quello che pubblico, perché la parte migliore è per metà tua". Si rife-

riva a Sulla servitù delle donne, uscito nel 1869 e che ancora una volta vedeva Mill come unico autore. Mentre erano ad Avignone e cercavano una cura per la tubercolosi di cui entrambi soffrivano, nel novembre 1858, Harriet morì. Mill le costruì una tomba di marmo e le dedicò il manoscritto, ormai quasi finito, di Sulla libertà che inviò il mese stesso all’editore con questa nota: “Alla memoria dell’amica e della moglie, il cui senso elevato della verità e della rettitudine è stato il mio incentivo più forte”. Fu Helen Taylor, figlia di Harriet, ad aiutare Mill a finire Sulla servitù delle donne. Nella propria biografia Mill scrisse: "Chiunque, ora o in futuro, pensi a me o al mio lavoro non deve dimenticare mai che è il prodotto non di un intelletto e di una coscienza, ma di tre". La giovane, inoltre, che chiamava Mill papà, si prese cura con grande af-

fetto del filosofo per i quindici anni successivi. Dopo la morte di Harriet avevano affittato un cottage nei pressi di Avignone per essere vicini alla sua tomba. Avevano intenzione di rimanervi solo poche settimane, ma dopo un anno conclusero che non avrebbero potuto allontanarsi da quel luogo. Lei organizzò il trasloco dall’Inghilterra (gravoso soprattutto per l’incredibile mole di libri da trasferire) e costruì un portico chiuso attorno al cottage, così da permettere a Mill di camminare anche durante l’inverno. Insieme si dedicavano allo studio e alla botanica, organizzando anche gruppi di studenti che li seguivano nelle loro escursioni. Quando, l’otto maggio del 1873, Mill morì ad Avignone, fu accudito e curato con grande tenerezza dalla figlia del suo unico e grande amore. Per suo volere fu seppellito nella tomba assieme ad Harriet. K

Propaganda per il voto alle donne, New Jersey, Library of Congress, Stati Uniti, 1915. 72

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Sul conoscere le donne Anche parlando delle donne, Mill non dimentica di essere un logico. E si domanda quindi come si possa realmente averne l’esperienza.

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facile conoscere una donna stupida: la stupidità è dappertutto la stessa. Si possono dedurre le idee e i sentimenti di una persona stupida da quelli prevalenti nella cerchia nella quale vive. Non è così delle persone i cui sentimenti e idee sono il prodotto delle proprie facoltà. Solo qualche uomo, qua e là, conosce passabilmente il carattere delle donne della sua famiglia, senza nulla sapere delle altre. Delle loro attitudini non parlo; nessuno le conosce, neppure loro stesse, perché per la massima parte non sono mai state messe in gioco. Io parlo solo delle loro idee e sentimenti attuali.

Studiare la propria moglie Molti uomini credono di conoscere perfettamente le donne perché hanno avuto relazioni galanti con alcune di loro, forse con molte. Se sono fini osservatori, e se la loro esperienza unisce la qualità alla quantità, essi hanno potuto imparare qualche cosa su un lato del carattere delle donne che non è senza importanza. Ma per il resto sono i più ignoranti degli uomini, perché per ben pochi questo rimanente non è accuratamente dissimulato. Il soggetto sul quale l’uomo può studiare più favorevolmente il carattere delle donne è la propria moglie: le occasioni sono più propizie, e i casi di una perfetta simpatia fra due sposi non sono introvabili. Infatti tutto ciò che sull’argomento vale la pena di essere conosciuto deriva da questa sorgente. Ma la maggior parte degli uomini non ha potuto studiare così più di una donna, per cui si può con risibile esattezza indovi-

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nare il carattere di una donna quando si conoscono le opinioni del marito sulla totalità delle donne. Per trarre da questo caso unico qualche risultato bisogna che quella donna meriti di essere conosciuta, e che l’uomo sia non solo giudice competente ma che abbia anche un carattere simpatico e così adatto a quello della moglie da poter leggere nello spirito di lei con una sorta d’intuizione, e che ella non senta nessun imbarazzo a fargli conoscere il fondo dei suoi sentimenti. Nulla è più raro, forse, che una tale combinazione. Spesso fra la donna e il marito esiste una consonanza perfetta di sentimenti e comunanza di vedute quanto alle cose esteriori, e tuttavia l’uno non penetra più addentro nelle viste dell’altro che se fossero semplici conoscenti. Quand’anche un affetto vero li unisca, l’autorità da un lato e la subordinazione dall’altra impediscono che si stabilisca una confidenza completa. Anche se la donna non dissimula intenzionalmente, ci sono molte cose che non lascia trapelare. Fra i genitori e i figli si può constatare un fatto analogo. Malgrado l’affetto reciproco che unisce realmente il padre e il figlio, accade spesso, è noto a tutti, che il padre ignora, e neppure immagina, certi lati del carattere di suo figlio, mentre i compagni e gli eguali del figlio li conoscono perfettamente. Fatto sta che quando si è in diritto di aspettare da un altro della deferenza, si è molto mal collocati per trovare in lui una perfetta sincerità e una franchezza completa; il timore di veder ridotta la considerazione o l’affetto della persona che si riguarda con rispetto è tale, che a

onta di un carattere lealissimo, si tende, senza volerlo, a mostrare solo il lato, se non più bello, almeno più gradito ai suoi occhi: si può dire con sicurezza che due persone possono avere l’una dell’altra una perfetta conoscenza solo a patto di essere non solo intime ma anche eguali. Fin quando le donne non parleranno A maggior ragione è impossibile giungere a conoscere una donna soggetta all’autorità coniugale, alla quale si è insegnato che il suo dovere consiste nel subordinare tutto al benessere e al piacere del marito, e a non lasciargli vedere in lei nulla che non sia piacevole. Tutto questo fa sì che un uomo possa conoscere solo imperfettamente l’unica donna che avrebbe sufficienti opportunità di studiare seriamente. Se inoltre si considera che conoscere una donna non significa necessariamente conoscerne un’altra; che, se anche potessimo studiare le donne di un altro rango e di un altro paese, che quand’anche giungessimo a questo non conosceremmo ancora che le donne di un solo periodo storico; possiamo tranquillamente affermare che la conoscenza che l’uomo ha potuto acquisire della donna, così come è stata e come è, senza preoccuparsi di ciò che potrebbe essere, è incompleta e superficiale, e che sarà sempre così finché le donne stesse non ci avranno detto tutto quello che hanno da dirci. K

Tratto da: John Stuart Mill, Sulla servitù delle donne, BUR, Milano, 2010.

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Utilitaristi e femminismo Fu sul diritto delle donne al voto che si verificò la prima importante divergenza fra il giovane Mill e gli anziani utilitaristi, Bentham e James Mill.

e idee femministe presero corpo e iniziarono il loro cammino all’interno del gruppo degli utilitaristi, ma non senza incertezze e contrasti. Jeremy Bentham era di certo un pensatore radicale e condannò sistematicamente i pregiudizi più diffusi del suo tempo, contro gli omosessuali, contro la prostituzione, contro il consumo dell’oppio.

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I pregiudizi di Bentham Fu il primo pensatore a sostenere i diritti degli animali, estendendo anche a essi il principio utilitaristico da lui inventato, teso alla “massima felicità per il massimo numero di soggetti”. Tuttavia nella sua Introduzione ai princìpi della morale e della legislazione del 1789, la sua opera principale, aveva affiancato le donne ai criminali, agli indigenti e ai bambini per la loro incapacità di esercitare il diritto di voto: “Non possiamo presumere un grado sufficiente di intelletto nelle donne, la cui condizione domestica le esclude dalla condotta degli affari pubblici”. L’esclusione si basava, a suo avviso, su una serie di differenze naturali legate al sesso femminile, non trasformabili né dall’educazione né dall’intervento del legislatore. Le donne avrebbero una salute più delicata e un corpo complessivamente più debole, anche se questa notazione non dovrebbe in alcun modo influire sul godimento dei diritti politici, dato che lo stesso Bentham non applicava lo stesso criterio ai maschi di debole costituzione. Soprattutto contava, secondo il filosofo inglese, la maggior sensibilità delle donne, cui poneva, come contrappeso, un'instabilità umorale, una tendenza alla parzialità e in definitiva capacità intellettuali tanto deboli da renderle in74

capaci di operare il calcolo utilitario e quindi il ragionamento politico. Dovevano quindi essere escluse dal voto, facendo confluire la rappresentanza dei loro interessi sui mariti, unica salvaguardia contro l’anarchia domestica. Bentham non rinunciò mai a questi pregiudizi, che volle ribadire nel suo Constitutional Code del 1830, escludendo che le donne potessero accedere al voto, al pari dei minori di 21 anni, gli analfabeti, i criminali e gli stranieri. L'antisuffragismo di James Mill Il dibattito nel circolo degli utilitaristi scoppiò all’inizio degli anni Venti a seguito della pubblicazione da parte di James Mill del suo Article on Government, un breve saggio destinato, nelle intenzioni dell’autore, a sostenere la battaglia per l’estensione del suffragio, allora regolato da leggi fortemente censitarie. Il padre di John Stuart prevedeva solo tre categorie di esclusi. La prima era quella dei maschi sotto i quarant’anni. La seconda quella dei poveri e dei lavoratori salariati, tali, secondo James Mill, per il loro lassismo e per la mancanza di spirito di intraprendenza, e quindi incapaci di contribuire al benessere generale, dato che non riuscivano a curare nemmeno il loro. A parte queste esclusioni, però, largamente condivise dalla cultura del tempo, James Mill sosteneva la necessità di allargare il più possibile il diritto di voto, considerando la rappresentanza del maggior numero di componenti sociali il miglior antidoto contro ogni forma di dispotismo. Ma proprio questa sua insistenza sull’estensione quantitativa del suffragio metteva in risalto l’illogicità della sua terza esclusione, relativa alle donne, sostenuta ribadendo puntualmente i pregiudizi dell’amico

Bentham: “I diritti politici delle donne sono superflui perché la loro felicità è perseguita parzialmente dagli uomini per loro”. L’incoerenza di lottare per una maggior forza rappresentativa del Parlamento escludendone al contempo metà della popolazione con argomenti indimostrabili fu subito notata da William Thompson e da John Stuart Mill, e diede origine alla prima seria divergenza fra gli anziani e i giovani del circolo radicale, anche se John Stuart aspettò la morte del padre per esprimere appieno le sue opinioni, un particolare molto significativo della natura dei loro rapporti. Donne e schiavitù William Thompson propose un efficace paragone fra la situazione delle donne in Inghilterra e quella degli schiavi, cui negli Stati Uniti si continuava a negare ogni diritto civile con motivazioni pregiudiziali simili a quelle elaborate da Bentham per le donne. Un argomento forte, che finalmente descriveva la rappresentanza femminile come un problema esclusivamente politico, non più antropologico. A conclusioni più avanzate sarebbe entro breve arrivato John Stuart Mill, ponendo la questione femminile all’interno di una visione politica tesa a valorizzare ogni tipo di rappresentanza capace di ostacolare la dittatura delle maggioranze e della pubblica opinione. Anche ammettendo, in pura linea di principio, che le donne siano diverse e più deboli, da ciò deriverebbe una maggior necessità della loro rappresentanza, non il contrario. K

K Alcibiade Pederini Collaboratore di Diogene.

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Rose Sanderson, Dimostrazione di suffragiste, 1913, Library of Congress, Stati Uniti.

La logica dell’asservimento Le fallacie individuate da John Stuart Mill nei ragionamenti antisuffragisti.

J K Paola Cantù Assegnista di ricerca in filosofia all’Università Statale di Milano.

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ohn Stuart Mill, filosofo del pensiero logico, scientifico, politico ed economico, è molto noto per le sue tesi empiriste e per il suo liberalismo utilitarista. Meno noti sono i contributi del Sistema di logica deduttiva e induttiva al filone della teoria dell’argomentazione contemporanea che prende il nome di “logica informale” e che considera la maggior parte degli argomenti umani non come inferenze necessariamente valide, ma come inferenze probabili la cui bontà deve essere accertata in base al conte-

sto. Uno dei principali contributi di Mill consiste nella lettura del sillogismo (Tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, dunque Socrate è mortale) come un ragionamento che inferisce una conclusione particolare da premesse particolari. Interpretando la premessa generale del sillogismo “Tutti gli uomini sono mortali” come una congiunzione di proposizioni particolari: “Caio è mortale”, “Tizio è mortale”, ecc. Mill osserva che la conclusione “Socrate è mortale” deriva dalla premessa “Tutti gli uomini 75


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Chi può dire quanti dei pensieri più originali espressi da scrittori di sesso maschile appartengono a una donna che li ha suggeriti e che essi si sono limitati a mettere in bella forma? John Stuart Mill sono mortali” allo stesso modo in cui uno dei congiunti deriva dalla congiunzione che lo contiene (si tratta della regola di eliminazione dell’operatore logico di congiunzione: dalla verità di A e B posso inferire per esempio la verità di A e la verità di B). Se questo è vero, l’induzione non differirebbe dalla deduzione quanto alla certezza della conclusione e dunque dal punto di vista del suo contributo alla ricerca della verità. Verità e veleni Accanto alla difesa del valore scientifico del ragionamento induttivo, l’interesse della logica di Mill concerne anche un’analisi dettagliata delle diverse forme di ragionamento e dei casi in cui essi si presentano come fallaci. A differenza di autori come Bentham e Whately, che, riprendendo la tradizione baconiana di analisi degli idola (tribus, specus, fori, theatri) avevano presentato un’ampia casistica di fallacie del discorso politico e scientifico, l’interesse della trattazione di Mill non consiste nella sottigliezza o nel numero dei casi individuati (e questo spiega la ragione per la quale la teoria delle fallacie di Mill è stata spesso liquidata sbrigativamente come non originale), quanto nel tentativo di accordare la propria concezione epistemologica con la classificazione dei ragionamenti fallaci. Mill divide le fallacie in due gruppi principali: fallacie naturali, o a priori, cioè tesi erronee che non sono basate su alcuna inferenza ma su una semplice presunzione dovuta a un’erronea ispezione dei fatti naturali, e fallacie d’infe76

renza, cioè basate su un ragionamento erroneo. Le fallacie d’inferenza possono essere dovute a un errore di confusione (le premesse non sono distinte con sufficiente chiarezza, generalmente a causa di errori linguistici: ambiguità, vaghezza, associazioni causali tra i termini utilizzati) o a un errore di ragionamento: in questo ultimo caso l’errore può derivare dall’aver assunto delle premesse che sono false (fallacia di osservazione), o dall’aver tratto un’inferenza errata dalle premesse alla conclusione (fallacie di generalizzazione se il nesso è induttivo, fallacie di raziocinio se il nesso è deduttivo). Più che a una casistica esaustiva e dettagliata, Mill è interessato, come i teorici dell’argomentazione che si ispirano alla tradizione di Toulmin, ad esempi concreti di argomenti da valutare all’interno del contesto in cui sono prodotti, nella convinzione che ci siano argomenti specifici di ciascun campo disciplinare: vedremo per esempio che ci sono fallacie tipiche in sociologia. Mill è poi interessato allo studio delle tendenze psicologiche che possono indurre gli uomini in errore, e dunque non soltanto alle fallacie intenzionali ma anche agli errori involontari (biases). Infine, come i logici informali, Mill è attento al valore critico dell’analisi delle fallacie: non si tratta soltanto di scoprire o di prevenire l’errore logico, ma si tratta, come osserva difendendo Whately da uno dei suoi critici, anche di esprimere opinioni attraverso la critica degli argomenti. Similmente nel recente trattato di teoria dell’argomentazione La verità

avvelenata di Franca D’Agostini si afferma che la ricerca della verità richiede una preliminare operazione di bonifica dai veleni con cui i cattivi argomenti inquinano il dibattito pubblico e indeboliscono la verità stessa, una bonifica che mira a separare gli argomenti buoni da quelli cattivi, senza paura di esporsi esprimendo un’opinione. Il dovere dell’opinione Se, come sostiene Mill, l’obiettivo dell’analisi argomentativa è il riconoscimento di verità che sono motivo di controversia e dunque necessitano di essere provate, allora l’analisi logica dei ragionamenti diffusi nel dibattito pubblico non solo fornisce il diritto ma anche il dovere di esprimere opinioni. Non stupisce allora che molti esempi di ragionamento introdotti nel Sistema di logica siano poi ripresi e sviluppati nei saggi economici, politici e sociali, come avviene ad esempio per la critica della tesi che le donne sono inferiori per natura, una tesi che riveste ancora particolare attualità nel panorama italiano contemporaneo. A riprova del fatto che oggi, come nell’età vittoriana, la logica, intesa come teoria dell’argomentare, non è solo una questione teorica, ma anche un esercizio critico della ragione nel dibattito pubblico e nella vita politica e sociale quotidiana. La tesi che le donne siano per natura inferiori e dunque sottomesse agli uomini è fallace, sostiene Mill nel Sistema di logica, perché una generalizzazione per semplice enumerazione viene considerata come una verità essenziale anziché come una semplice legge empirica. Altri ragionamenti a sostegno della stessa tesi sono smascherati come fallaci in La servitù delle donne, un’opera pubblicata a proprio nome, ma descritta nell’autobiografia come frutto di numerose discussioni con la moglie Harriet Taylor Mill, autrice a sua volta di un pamphlet sull’asservimento delle donne. È curioso che la dichiarazione di Mill abbia suscitato una vera e propria questione di “paternità” dell’opera, una questione in cui non ci addentriamo qui ma che è ben rappresentativa della necessità, così viva anche nell’accademia italiana, di distinguere esattamente il contributo di

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ciascun “autore” a un articolo scritto a più mani. Non solo chi si occupa di teoria dell’argomentazione, ma anche chi fa ricerca scientifica, ha spesso esperienza del fatto che la ricerca della verità non è l’impresa di un singolo pensatore, ma lo sforzo coordinato e collaborativo di una pluralità di punti di vista contrastanti e di una discussione razionale tra di essi. L’onere delle prove Innanzitutto Mill osserva che chiedere un argomento a difesa dell’uguaglianza dei diritti delle donne è già una fallacia d’inversione dell’onere della prova, perché abitualmente in giurisprudenza si assume il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini e si richiede che venga perorata la tesi di una restrizione dei diritti di un gruppo d’individui. “Quanto agli altri che pretendono che l’uomo ha diritto al comando e che la donna è naturalmente soggetta all’obbligo d’obbedire; che l’uomo ha, per esercitare il potere, qualità che la donna non possiede, io sciuperei il mio tempo a dir loro ch’essi sono in obbligo di provare la loro affermazione sotto pena di vedersela rigettare. A nulla mi gioverebbe dimostrar loro che rifiutando alle donne la libertà e i diritti di cui gli uomini debbono fruire, si rendono doppiamente sospetti e di attentare alla libertà e di parteggiare per l’ineguaglianza, e che conseguentemente fornir debbono le prove palpabili della loro opinione o subire la condanna. In ogni altro dibattimento la cosa sarebbe così; ma in questo è tutt’altra”. Seguendo il suggerimento del libro di Michela Marzano Sii bella e stai zitta e del documentario Il corpo delle donne di Lella Zanardo, sarebbe interessante rileggere il passo di Mill alla luce delle critiche mosse ai programmi della televisione pubblica e privata italiana, ove, fatte salve alcune eccezioni, le donne sarebbero “naturalmente soggette all’obbligo di obbedire” nel senso di “tacere e apparire”. E come osservava già Mill, l’impresa delle donne che intervengono nel dibattito per fornire ragioni e risvegliare la coscienza critica non è affatto facile, poiché gli argomenti da confutare non si fondano spesso su ragioni, ma sulla consuetudine

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La suffragetta Mabel Capper davanti alla Corte di Bow Street, 1912, cortesia www. wikimedia.org.

e sull’appello ad emozioni: “S’io voglio fare qualche impressione, io debbo, non solo rispondere a tutto ciò che han potuto dire tutti quelli che han sostenuto la tesi contraria, ma benanco immaginare e ribattere tutto quel che potreb-

bero dire, trovare per essi delle ragioni da distruggere, e poi quando tutti i loro argomenti sono demoliti, io non ho finito; mi si intima di provare la mia tesi con prove positive inconfutabili. Più ancora; quando io avessi consumato il 77


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mio compito, e schierato di fronte ai miei avversari un esercito d’argomenti perentori; quando avessi disteso a terra fino all’ultimo dei loro argomenti, ancora si stimerebbe non aver io fatto nulla, poiché una causa che si appoggia per un lato sull’uso universale e per l’altro sopra sentimenti d’una eccezionale vigoria, avrà in suo favore una presunzione molto superiore alla specie di convinzione, che un appello alla ragione può produrre nelle intelligenze, le più alte eccettuate”. Le donne e gli schiavi Un controargomento proposto nel Sistema di logica per confutare la tesi che le donne sono inferiori per natura è basato sull’analogia con la situazione degli schiavi, a lungo ritenuti inferiori per natura e poi finalmente riconosciuti nella loro uguaglianza di diritti. Come la schiavitù è stata abolita dopo lungo tempo, così anche lo stato d’inferiorità in cui sono tenute le donne sarà destinato a sparire e così, una volta avuta occasione di mostrare le proprie capacità, le donne potranno ribaltare la situazione d’inferiorità politica e intellettuale tipica dell’età vittoriana. “Ho già detto che il modo per enumerazione semplice è ancora il metodo più comune e accettato in tutto ciò che riguarda l’uomo e la società.... Cosa dire, per esempio di tutte le massime di senso comune rappresentate dalla formula universale seguente: “Ciò che non è mai esistito non esisterà mai”. Come per esempio: i neri non sono mai stati civilizzati come lo sono talvolta i bianchi, dunque non possono esserlo. Si suppone che le donne, come classe, non siano state finora d’intelletto pari agli uomini, dunque sono necessariamente inferiori. [...] Una lunga lista di differenze mentali e morali sono osservate o supposte esistere tra uomini e donne: ma in qualche futuro, e si spera, non distante momento, entrambi possederanno uguale libertà e una posizione sociale ugualmente indipendente, e le loro differenze di carattere saranno rimosse o totalmente alterate”. L’analogia è tuttavia problematica per tre ragioni. In primo luogo non è evidente che la sottomissione fisica degli schiavi possa essere paragonata alla di78

L’attrice e suffragetta Trixie Friganza, 1908, Library of Congress, Stati Uniti.

scriminazione delle donne, che è spesso il risultato, come osserva lo stesso Mill, di un dominio basato non soltanto sulla coercizione fisica ma anche e soprattutto sulla forza persuasiva di un’educazione alla sottomissione. In secondo luogo non è detto che la progressiva abolizione della schiavitù debba essere correlata in qualche modo alla progressiva abolizione della sottomissione delle donne. Infine l’analogia è usata da Mill per proporre anche una soluzione poli-

tica liberale alla questione femminile: non occorrono interventi politici espliciti per garantire alle donne pari opportunità di accesso alla vita lavorativa, politica e sociale, ma è sufficiente accordare loro il diritto di seguire liberamente le proprie inclinazioni. È curioso che proprio su questo punto le vedute di Mill e della moglie Harriet divergano: mentre nel suo pamphlet Harriet Taylor Mill aveva discusso la necessità di garantire alle donne alcuni di-

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Il mondo secondo John Stuart La domanda da non farsi Chiediti se sei felice, cesserai d’esserlo. La felicità e il dovere La felicità non è un fine da perseguire avidamente, ma un fiore da cogliere sulla strada del dovere. Il maschio superiore La maggior parte dei componenti il sesso maschile non riesce a tollerare l’idea di vivere con qualcuno alla propria altezza. La mediocrità dominante La tendenza generale del mondo è oggi quella di fare della mediocrità la potenza dominante. Gli inconvenienti del successo Nelle teorie politiche e in quelle filosofiche, come nelle persone, il successo svela difetti e debolezze che il fallimento avrebbe potuto celare all’osservazione.

Peggio della guerra La guerra è una cosa brutta, ma non la cosa più brutta. Molto peggiore è lo stato decadente e degradato della morale e del sentimento patriottico che porta a pensare che non ci sia nulla per cui valga la pena di fare la guerra. Lo Stato che ci meritiamo Il valore di uno Stato, a lungo andare, dipende strettamente dal valore dei singoli che lo compongono. Vivere senza humour C’è sempre un che di ottuso nell’intelletto di coloro che non hanno humour, per quanto essi siano spesso seri, appassionati e colti. Il maiale soddisfatto È meglio essere un uomo malcontento che un maiale soddisfatto, essere un Socrate infelice piuttosto che un imbecille contento. Se l’imbecille e il maiale sono d’altro avviso, è perchè vedono solo un lato della questione.

Abituarsi alla diversità Gli uomini perdono molto rapidamente la capacità di concepire la diversità, se per qualche tempo si sono disabituati a vederla. Dignità e controllo delle nascite Il fatto di mettere al mondo un essere umano è uno degli atti di maggiore responsabilità in tutto l’arco della vita umana. Assumersi questa responsabilità, nel caso in cui l’essere a cui viene donata la vita non abbia almeno le più comuni opportunità di un’esistenza desiderabile, è veramente un crimine contro il nascituro.

Leslie Ward, Caricatura di John Stuart Mill, Vanity Fair,1873.

ritti specifici (come lavorare fuori casa, ecc.), Mill osserva a più riprese che la necessità sociale della riproduzione (cui gli uomini non possono assolvere da soli) può essere garantita non con la coercizione al matrimonio tipica dell’età vittoriana, ma invogliando le donne con incentivi opportuni. Più che discutere il contributo specifico di ciascuno dei due coniugi alla discussione della questione femminile nell’Ottocento, sarebbe interessante valutare se la divergenza tra i due saggi sia dovuta anche al diverso pubblico cui erano rivolti, a due differenti strategie di persuasione, o alla prospettiva interna a una teoria socioeconomica adottata da Mill. In ogni caso la discussione sull’inferiorità delle donne mostra in maniera significativa lo stretto intreccio che sussiste tra le teorie epistemologiche di Mill, la sua teoria politicoeconomica liberale e il suo approccio alla teoria dell’argomentazione come mezzo per criticare i ragionamenti fallaci e proporre altre forme di discussione pubblica basate su un’attenta analisi del contesto e su un approccio teorico interno al campo disciplinare in questione. K

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Contro i progressisti a ogni costo Lo spirito di progresso non è sempre spirito di libertà, perché può cercare di imporre a un popolo dei mutamenti indesiderati; e, nella misura in cui oppone resistenza a questi tentativi, lo spirito della libertà può allearsi localmente e temporaneamente con chi si oppone al progresso.

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Copertina dell’album The remix di Lady Gaga, Universal Music.

Filosofia di Lady Gaga La regina del pop è un’icona dell’emancipazione femminile oppure della mercificazione del corpo delle donne?

S K Nancy Bauer Docente di filosofia alla Tufts University di Medford. 80

e vuoi sapere qualcosa sullo stato del femminismo odierno, basta guardare all’onnipresente pop star Lady Gaga. L’estate scorsa, dopo essersi definita la rappresentante delle “donne forti, sessualmente attive, che dicono quello che pensano”, la ventitreenne Gaga sembrò abbracciare il vecchio ritornello secondo cui le femministe, per definizione, odiano gli uomini: “Non sono femminista. Adoro gli uomini! Amo gli uomini!”. Ma già a dicembre stava elogiando la giornalista Ann Powers, sul “Los Angeles Times”, per essere “un po’ femminista, come me. Quando dico che non c’è nessuno come me, e nep-

pure c’è mai stato, questa è un’affermazione che vorrei ogni donna sentisse e facesse propria”. Apparentemente, anche se ama gli uomini, anzi li adora, è un po’ femminista perché esemplifica cosa significa per una donna dire, e crederci, che non c’è nessuna come lei. Non c’è nessuno come Lady Gaga, anche perché continua a tenerci nel dubbio su chi sia realmente, come donna. Viene elogiata per come usa la musica e i video per sollevare simili dubbi e confondere le usuali, abusate risposte dei media su cosa sia una donna. La giornalista Powers la paragona all’artista Cindy Sherman: entrambe spostano l’attenzione su quanto

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M U S I C A essere donne sia legato all’artificio, alla rappresentazione “artistica” di sé. Le tamarre ali di Lady Gaga, i suoi costumi oltraggiosi, e la sua passione nell’immergersi in una sostanza simile al sangue, si suppone siano elementi in grado di complicare ciò che altrimenti non sarebbero altro che convenzionali performance sessuate. Nel video Telephone, che ha avuto più di 60 milioni di visualizzazioni su YouTube, Gaga interpreta una modella magrissima succintamente vestita detenuta in una prigione femminile altamente eroticizzata. Beyoncé le paga la cauzione e fuggono sulla stessa macchina guidata da Uma Thurman in Kill Bill, una sorta di Thelma e Louise alla Tarantino, e si fermano in un ristorante dove, per prima cosa, avvelenano un uomo che guarda lascivo le donne, per poi avvelenare pure tutti i suoi compari, e anche un cane. In mezzo a tutto questo, Gaga canta al suo amante che è troppo occupata a ballare in discoteca e a bere champagne con le amiche per rispondere ai suoi SMS e telefonate. L’uomo che sbava Questo è espressione della forza di Lady Gaga come donna oppure un esercizio di autoreificazione? Difficile dirlo. L’uomo che sbava per il corpo femminile viene punito, ma la stessa sorte tocca subito dopo a tutti i presenti. E se quest’uomo può essere definito un viscido, allora abbiamo bisogno di un nuovo termine per definire ciò che la telecamera fa ai corpi di Gaga e Beyoncé per oltre 10 minuti. Vent’anni fa, Thelma e Louise si misero per strada per divertirsi e scoprirono, mentre abbandonavano rossetti e orecchini per bandane e cappelli da cowboy, che gli uomini erano irrimediabilmente incapaci di distinguere fra ciò che una donna trova divertente e ciò che le risulta odioso. Il rifiuto di Gaga e Beyoncé di quel mondo che le etichetta come freaks (termine molto amato da Gaga) assume la forma dello sfruttamento di una femminilità iperbolica per far fuori chiunque si metta sulla loro strada, o anche che vi si imbatta soltanto. La tensione nel modo in cui Gaga si presenta, lungi dall’essere idiosincratica o contraddit-

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toria, epitomizza la situazione di una certa categoria di giovani donne benestanti di oggi: c’è un motivo per cui amano Lady Gaga. Da un lato, sono state cresciute per guardare a se stesse tramite le lenti del vecchio sogno americano, in passato fuori portata per le donne: il mondo è la tua ostrica, e se credi in te stesso, rimani speranzoso al tuo posto, e lavori duramente, e con sagacia, avrai la perla. Dall’altro lato, su queste ragazze non c’è mai stata così tanta pressione affinché badino a essere sessualmente attraenti secondo le norme sociali vigenti. Il genio di Gaga

Il potere delle donne Se c’è qualcosa che il femminismo ha lasciato in eredità alle giovani donne benestanti, è l’idea che il potere è un loro diritto di nascita. Se vai in un campus universitario il lunedì mattina, troverai giovani donne di talento orgogliose delle loro capacità, determinate a non lasciare che nulla, inclusa una relazione con un uomo bisognoso e dipendente, si metta sulla loro strada. Tornate quando c’è una festa universitaria notturna, e troverete le stesse ragazze (hanno smesso anni fa di definirsi donne) indossare il loro potere sessuale,

Il fatto che io incarni la posizione che sto analizzando è ciò che rende l’operazione così potente. Lady Gaga

è di far sembrare ovvio, ancor più di quanto fece Madonna, che la sessualità femminile è il perfetto coltellino apri ostriche. Lady Gaga è esplicita nel sostenere che, visto il carattere socialmente artificioso della sessualità femminile, chiunque, anche un uomo, può indossare l’identità “donna”. Gaga vuole che comprendiamo il modo in cui si propone come una sorta di decostruzione della femminilità, per non dire della celebrità. Come ha detto ad Ann Powers, “io che incarno la posizione che sto analizzando è ciò che rende l’operazione così potente”. Ovviamente, più l’impersonificazione ha successo, meno ovvia risulta la parte analitica. E visto che Lady Gaga incarna veramente alla lettera le norme che pretende di contestare (in realtà è bella, magra, ben proporzionata), il messaggio, anche quando passa, non è esattamente chiaro. Sarebbe quindi facile dipingere Lady Gaga come una star che suggerisce l’autoreificazione come forma di potere.

vestite tanto provocatoriamente quanto ne hanno il coraggio, sfidare i ragazzi drink su drink, abbordaggio su abbordaggio, e così via. Lady Gaga idealizza questo stile di vita. Ma le giovani donne che subiscono pressioni per diventare giocattolini per i ragazzi avvertono la contraddizione. Si raccontano da sole storie alla Lady Gaga su ciò che fanno. Quando si ritrovano in ginocchio di fronte a un ragazzo palestrato appena conosciuto ad un party, si sentono davvero potenti, sadiche addirittura. Dopotutto, anche se non si alzano girando i tacchi, teoricamente potrebbero. Ma la mattina dopo, sono vulnerabili a ciò che mi piace chiamare “i postumi dell’abbordaggio”: vedranno i muscoli del ragazzo rabbrividendo. O si ritroveranno sdilinquite a sperare in qualcosa di più, se non proprio un principe che le porti via (o un vampiro, chissà), quantomeno che il ragazzo abbia inserito il loro numero in rubrica la notte prima. E quando l’sms non arriva, è già 81


M U S I C A

Sartre spiega come una ragazza possa considerare la cultura dell’abbordaggio come una forma di potere personale. arrivato il nuovo party. Che cosa sta succedendo? Le donne della mia generazione, ho una figlia fan di Lady Gaga, si grattano il capo. Quando le nostre figlie ci dicono che fra un esame di statistica e un’esibizione della loro rock band può capitare di fare del sesso orale, non ce ne capacitiamo. Alcuni critici della “cultura dell’abbordaggio” sostengono, più o meno moralisticamente, che il sesso occasionale confonde le ragazze. Ma se pensi al sesso occasionale, non è certo una novità. Ciò che più stupisce è come le ragazze riescano ad autoconvincersi che sia una forma di potere, soprattutto quando è unidirezionale. Cartesio è fuorimoda In L’essere e il nulla Jean-Paul Sartre, prendendo spunto dalla dialettica hegeliana del servo/padrone, sostenne che il movente del compiere azioni incongruenti risiede nel nostro essere amalgami metafisici. Come qualsiasi altra cosa nel mondo, abbiamo una natura: siamo fatti di carne, non possiamo controllare ciò che accade intorno a noi, siamo costantemente oggetto del giudizio altrui. Sartre chiamò questa parte di noi “essere-in-sé”. Ma allo stesso tempo siamo anche soggetti, ciò che Sarte chiama, sulla scorta di Hegel, “essere-per-sé”: compiamo scelte, facciamo esperienza di noi stessi come centro del mondo, giudichiamo ciò di cui siamo spettatori e il ruolo che gli altri assumono in questo spettacolo. Per Sartre, la fregatura consiste nell’impossibilità di armonizzare questi due aspetti dell’esistenza. In ogni dato momento, una persona è alternativamente o un oggetto o un soggetto. Il dualismo cartesiano che guida l’interpretazione sartriana dell’essere umano come metafisicamente separato da se stesso è decisamente fuori moda in questi giorni. In maggior parte i filosofi 82

contemporanei, di qualsiasi indirizzo, rifiutano l’idea che l’essere umano sia composto da più di un tipo di sostanza metafisica. Ma non dovremmo dimenticare che la tesi al cuore dell’interpretazione di Jean-Paul Sartre è di natura fenomenologica: non è tanto che le persone siano divise quanto che fanno esperienza di sé come tali. Notoriamente, Sartre era convinto che siamo inclini a gestire questa scissione tramite la “cattiva coscienza”. Di volta in volta ci troviamo a reclamare di essere soggetti puri, senza una natura determinata, senza passato, nessuna costrizione o limite. E in altri momenti ci tormentiamo convinti di essere meri oggetti, le vittime senza speranza dell’altrui volontà, delle nostre inclinazioni, delle circostanze materiali, della biologia. La visione di Sartre ci offre un modo per capire come una ragazza possa costruire il suo servire sessualmente un ragazzo casuale o dimenarsi di fronte a una telecamera come un atto adulterato di espressione di sé e di potere personale. Ma tale interpretazione sconta il costo di un complesso epistemico di superiorità, secondo cui le ragazze nascondono a se stesse la scomoda verità circa ciò che stanno realmente facendo. L’astuzia femminile Lasciamo che sia Simone de Beauvoir ad aiutare il suo partner Sartre in questo compito. Se pensi che Il secondo sesso sia interamente impregnato dal pensiero di Sartre, rileggilo. Nella sua descrizione estremamente dettagliata della vita delle donne, Beauvoir sottolinea ripetutamente che le nostre chances di felicità spesso dipendono dalla capacità di autoreificarci con astuzia. Le donne sono ancora ben ripagate per accondiscendere agli uomini. Quando ci trasformiamo in ciò che gli uomini vogliono, è più facile che noi stesse ot-

teniamo ciò che vogliamo, o quanto meno ciò che crediamo di volere. Diversamente da Sartre, Beauvoir credeva nella possibilità che gli essere umani si incontrino simultaneamente, sia come oggetti che oggetti. Di fatto, pensava che che un incontro erotico riuscito ci richiede di credere di essere “in sé e per sé”, riconoscendoci mutuamente sia come soggetti che come oggetti. Il problema è che siamo inclini a risolvere lo stress della nostra ambiguità metafisica scindendo la differenza: gli uomini, immaginiamo, giocheranno sempre il ruolo del soggetto, le donne quello dell’oggetto. Questo è il tradizionale investimento nelle norme della femminilità e maschilità. Le poche volte che Beauvoir usa il termine “cattiva coscienza” lo fa per lamentarsi del nostro appigliarci alle norme di genere per gestire le nostre inquietudini metafisiche, piuttosto che, come Sartre, incitare le donne a fare del loro meglio in un mondo ingiusto. Lo scopo di Il secondo sesso è portare donne e uomini ad anelare la libertà (sociale, politica e psicologica) più che la precaria felicità che un mondo ingiusto, ogni tanto, concede alle persone che giocano secondo le sue regole. Beauvoir ci mette in guardia: non basta voler esser liberi per esserlo davvero, cioè non basta rifiutare la tentazione di desiderare ciò che il mondo vuole che tu desideri. Il lavoro del filosofo, o dello scrittore, è ridescrivere come stanno le cose in un modo capace di competere con la storia dello status quo, portandoci così ad anelare la giustizia sociale e il genuino, aperto radicarsi dell’espressione di sé che solo un simile, reinventato mondo può concedere. Lady Gaga non dovrebbe essere vista semplicemente come un ricettacolo di cattiva fede. Ma neanche come un’artista che vive in un mondo in cui i suoi atti espressivi siano distinguibili, nemmeno in teoria, da atti di autoreificazione. Rimane da vedere se i filosofi saranno in grado di raccogliere quel guanto di sfida che giace al suolo da più di mezzo secolo, dopo che Beauvoir lo lanciò per prima: possiamo produrre la visione di un mondo abbastanza seduttivo da competere con le sirene di quello attuale? K

DIOGENE N. 21 Dicembre 2010


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