Go Green - Il nuovo trend della comunicazione

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Diego Masi

Il nuovo trend della comunicazione



Collana Green Communication



Diego Masi

GO GREEN Il nuovo trend della comunicazione

con la collaborazione di Giulia Rubino


Diego Masi GO GREEN Il nuovo trend della comunicazione Progetto grafico: LS graphic design – Milano © 2010 Logo Fausto Lupetti Editore via del Pratello, 31 40122 Bologna-Italy Tel. 0039 51 5870786 www.faustolupettieditore.it In coedizione con: Galatea srl Piazza Grandi, 24 20135 Milano-Italy Distribuzione Messaggerie Libri EAN 978-88-95962-38-2 Stampato su carta Forest Stewardship Council


Indice

Introduzione 1. Il pianeta balla felice sul Titanic

9 13

L’energia cambia il clima · Il piano di sopravvivenza: un futuro green · Le dieci “emergenze verdi”: un enorme problema, ma una grande possibilità · Cambiamento climatico · Cosa accadrà alla Terra? · Energia · Acqua · Biodiversità · Tossicità · Inquinamento · Rifiuti · Ozono · Oceani · Deforestazione · Il pianeta si può salvare

2. Sul ponte del Titanic qualcuno ha avvistato l’iceberg

33

La rivoluzione verde avanza. E miete vittime · La rivoluzione porta con sé nuovi valori · Un po’ di storia del movimento verde · È arrivato il momento di Charme · I consumatori cambiano i loro stili di vita. E non ce ne siamo accorti!

3. Gli italiani stanno scendendo dal Titanic

51

Le grandi preoccupazioni degli italiani · Le grandi attese degli italiani · Ma l’Italia è ambientalista? · Gli italiani stanno cambiando stile di vita. Più sostenibile · Temi verdi in primo piano · I comportamenti virtuosi degli italiani · Quali aziende per quali attese green? · Le fonti energetiche del futuro · Gli attori del green e la comunicazione · Una sintesi generale… sostenibile


4. Cambia l’energia, cambia l’economia. Nasce la Green Economy

67

La Green Economy è un business! · Fare bene porta bene · Green washing ovvero la pittatina verde · La Corporate Social Responsibility: un primo passo verso la sostenibilità · Credibilità, trasparenza e verità: i tre pilastri delle aziende del futuro · Gli 11 settori dei nuovi lavori green

5. Cambia l’economia, cambia la politica. Il primo grande effetto della Green Revolution

85

Il cibo cambierà la politica mondiale · Amici e nemici della Green Economy · Il programma di Van Jones ovvero l’agenda politica green di Obama · L’onda parte dal basso, dalle municipalità · La Green Economy: una nuova opportunità per l’Italia

6. Meno CO2 anche nella comunicazione

99

Un mondo omologato e controllato nei valori e nell’utilizzo dei media · Valori e disvalori creati con leggerezza · Una storia di successi, scomposizioni e ricomposizioni · I tre fenomeni che cambieranno il mercato · Verso un nuovo modello di agenzia. E in Italia?

7. Comunicare green

119

Un nuovo consumAttore con cui conversare · Nuovi modi di comunicare: dalla tv al passaparola · Lo dicono i trend hunters: future profits will be green · Più informazione, più trasparenza, più controlli · La casalinga di Voghera non c’è più. C’è Giulia da Milano · Nasce la Brand Reputation: integra e onesta · Ma attenti al green washing… · La CSR è morta. Viva la Corporate Social Opportunity

8. La nuova agenzia “ibrida”

133

Costruire la reputazione · Un profitto più sociale per le aziende · Nuove aziende per la nuova comunicazione · Il modello del Whole Brand Repu-


tation · Le tre C: Corporate, Civic, Cultural · Posizionamento e progetto: termini vecchi per descrivere realtà nuove · Il progetto: CRED e multidisciplinarietà · Necessità di partnership · La comunicazione e il media planning · Un nuovo colloquio con la distribuzione e con il digitale · Agenzie nuove

9. Copenhagen, un accordo a metà. E un successo a metà

149

La storia delle conferenze fino a Copenhagen · Ancora un po’ di storia… · A Kyoto l’Europa recita una bella parte, l’Italia un po’ meno · Come funziona il Protocollo di Kyoto? · Il sistema delle quote con l’Emission Trading Scheme · Cosa ci aspetta dopo Copenhagen? Bonn e poi Città del Messico…

10. Le best practices della Green Economy

163

Il retail: la prima linea a contatto con la rivoluzione · Il digitale: i siti non profit sviluppano il mercato green · La produzione: best cases con una storia verde · Le nuove towns verdi

Glossario

181

Bibliografia

185

Digital green: sitografia

189

Copenhagen accord

205



Introduzione

“Non è la fine del percorso, questo è solo l’inizio del cammino” Barack Obama - Copenhagen 18 dicembre 2009

Copenhagen – COP15 per i più “esperti” – si è conclusa ieri. Con un successo a metà, che definirei più di consapevolezza delle tematiche al centro della Conferenza che di veri risultati vincolanti per i Paesi che vi hanno preso parte. Ma la strada per il futuro green del mondo è ufficialmente aperta. E non si torna più indietro. Questo libro ha l’ambizione da un lato di sintetizzare la problematica ambientale e le opportunità che la rivoluzione verde porta con sé, dall’altro di tracciare con precisione il cammino della comunicazione del domani e di quella green in particolare. Nello scriverlo ho cercato di immedesimarmi nella persona acculturata o nell’uomo di marketing che è consapevole che il fenomeno della rivoluzione verde esiste e avanza ma non ne conosce a fondo le main issues e le possibili evoluzioni. Ho redatto dunque una specie di “bigino” del green, ispirandomi a decine e decine di libri sull’argomento. Con un unico vero scopo: indicare al mio mondo, quello della comunicazione, la via del cambiamento, che passerà soprattutto dal green. Oggi in Italia il “verde” è visto dagli operatori della industry come una piccola nicchia, un settore singolo, quello del bio, dell’ecopass, dell’auto ibrida. Ma non è così. Domani – e domani sarà tra pochi anni – quella che oggi chiamiamo la


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green economy sarà l’economia. Quello che chiamiamo mercato green, sarà il mercato. E quella che chiameremo la green communication sarà la comunicazione. Una parte diventerà il tutto. Perché la Green Revolution, figlia dell’ormai prossimo cambiamento dell’energia che muove il mondo, un cambiamento che ha portato in passato, con il carbone prima e il petrolio poi, rivoluzioni epocali, è un processo enorme e a tenaglia. Parte dal basso, dalla gente, dai piccoli gesti quotidiani, dai microatti, dalla consapevolezza che il pianeta è in pericolo. E diviene atteggiamento e fenomeno politico: la prima vera strategia di difesa collettiva della popolazione mondiale nei confronti di un rischio mortale, quello dell’estinzione. Ma questo tema è affrontato anche dai governi, che sanno che la Terra è davvero in pericolo, che l’incremento demografico di altri tre miliardi di persone in pochi anni potrebbe far collassare il pianeta, che la crescita economica si traduce in un fortissimo inquinamento. Sanno che se continuiamo a seguire la strada dello sviluppo non sostenibile finiremo per uccidere il pianeta e chi lo abita. Compresi noi stessi. Ecco la tenaglia. Dal basso e dall’alto. E insieme. A piccoli passi, ma ormai decisi e decisivi. Con un fattore in più: tutta questa rivoluzione significa soldi. Per cambiare. Per innovare le tecnologie. Per modificare gli stili di vita. E quando ci sono i soldi, c’è la ricchezza, c’è il lavoro. C’è il futuro, insomma. Così il cerchio si chiude. E la tenaglia ha successo. La comunicazione non è ovviamente immune a un cambiamento di tale portata, specie adesso che attraversa un periodo di crisi dovuto soprattutto all’arrivo del digitale e alla recessione in atto. Un cambiamento che darà il colpo finale al sistema attuale delle agenzie e dei media. L’intenzione di Go green, il nuovo trend della comunicazione è solo spiegare questi fenomeni, fornire alcune chiavi di lettura e dare qualche consiglio ai naviganti. Il primo capitolo presenta i dati catastrofici che riguardano la situazione del nostro pianeta, sul quale navighiamo come passeggeri su un Titanic che sta affondando. Il secondo racconta le reazioni e i comportamenti che gli abitanti del pianeta-Titanic hanno già adottato per cercare di salvare la nave, evidenziando una consapevolezza molto più diffusa di quanto si potrebbe pensare. Il terzo si focalizza sulle reazioni degli italiani, analizzate da una recen-


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tissima ricerca condotta da GfK- Eurisko per Upa e AssoComunicazione. Sarete stupiti dal grado di consapevolezza diffuso anche tra i nostri connazionali. Il quarto capitolo affronta l’argomento green economy, spiegando in che direzione va e soprattutto come va. La risposta? Benissimo. Il quinto si concentra sull’altra parte della tenaglia, ossia sugli atteggiamenti e i provvedimenti di stati e governi per scoprire che anche la politica è più avanti di quello che si pensi. Il sesto, il settimo e l’ottavo capitolo sono la parte – per così dire – originale del libro: il mio pensiero sul futuro della comunicazione. Raccontano come il green marketing inciderà sulla sua evoluzione e su quella delle strutture della industry. Il nono capitolo fa un breve bilancio di quanto è accaduto a Copenhagen e riassume la storia delle conferenze sul climate change. Un percorso che è doveroso conoscere. Il decimo illustra alcune case history che dimostrano che il mondo economico ha già imboccato la via del verde ed è più avanti di quanto immaginiamo. Infine la sitografia, una selezione di indirizzi internet per essere sempre aggiornati, e una bibliografia con le opere più recenti che andrebbero lette per conoscere meglio il fenomeno della green revolution. Questo è il libro. Nulla di più. A mezza via tra le considerazioni ragionate su un mondo nuovo e il manuale per affrontarlo. Per concludere questa introduzione passo ai ringraziamenti. A Giulia, che con pazienza ha riscritto le mie parole con un editing perfetto. A Marta, che ha svolto tutte le ricerche e in particolare quelle legate alla sfera scientifica. E a mia moglie Daria, che ha letto e riletto il libro indicandomi sempre la giusta direzione. A Upa e AssoComunicazione che hanno permesso l’uso della ricerca. Grazie a tutti. E grazie a voi che lo leggerete, con la speranza che vi possa essere utile.

Diego Masi Milano, 19 dicembre 2009



1. Il pianeta balla felice sul Titanic

“Sustainable development is development that meets the needs of the present without compromising the ability of future generations to meet their own needs.” Our Common Future - Brundtland Report, United Nations World Commission on Environment and Development, 1987.

6.788.665.300 persone, uomini e donne di questo pianeta, stanno ballando felici sul Titanic. E l’orchestra continua a suonare… Ma siamo folli? Se guardiamo ai dati, la riposta è sì. Lo siamo. Siamo infatti più di sei miliardi e mezzo, quasi sette. Ma nel 2050 saliremo a quota nove miliardi e mezzo, affrontando in quarant’anni un incremento del 40% dovuto all’esplosione demografica del cosiddetto Secondo e Terzo Mondo, dalla Cina all’India e al Brasile, passando per l’Africa. Se da una parte è bene valutare come il boom di nascite nei Paesi in forte crescita porti nuova linfa a una popolazione invecchiata dai tassi di crescita zero dei Paesi autodefinitisi sviluppati, non possiamo evitare di preoccuparci pensando a quanto accadrà nei prossimi decenni: sulla Terra ci saranno due miliardi e mezzo di persone in più. Sì, avete capito bene, almeno due miliardi e mezzo di nuove bocche da sfamare. Tante quante gli abitanti del pianeta nel 1950.


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Crescita demografica globale ed emissioni di carbonio dati previsti dati censiti

9 miliardi 8 miliardi 7 miliardi 6 miliardi 5 miliardi 4 miliardi 3 miliardi 2 miliardi

popolazione

2050

1950

1850

1750

1650

1550

1450

1350

1250

1150

1050

950

850

750

650

550

450

350

250

150

1 dC

1 miliardo

emissioni annuali di carbonio

Fonte: La Scelta, Al Gore, 2009

Di fronte a questi dati ognuno di noi non può fare a meno di chiedersi come e dove vivremo: ci saranno risorse e spazio per tutti? Il problema della quantità e soprattutto della distribuzione delle risorse tra la popolazione mondiale, come si può intuire anche solo prendendo atto degli esigui risultati del vertice fao del novembre 2009, non è di semplice soluzione. Se non sono ancora in grado di dirci “come” vivremo, gli esperti sanno però esattamente dove: nelle grandi megalopoli. Oggi poco più della metà degli abitanti del pianeta vive in città ma il processo di urbanizzazione procede inarrestabile e la percentuale è destinata a raggiungere in pochi decenni quota 70%. Pensiamo solo per un attimo alla geografia urbana: nell’Ottocento Londra fu la prima città a raggiungere il milione di abitanti; nel 1960 erano già 111 i centri che lo superavano e ora sono 300. Nel 2015 saranno 26 le città con più di 10 milioni. Insomma, una concentrazione praticamente invivibile.


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Altra domanda, immediatamente successiva alla prima: quale sarà il nostro tenore di vita? I felici ballerini del Titanic danzano ancora perché oggi la ricchezza è distribuita per il 25% negli usa, per il 20% nell’Europa a 15 e per il 27% in Asia, compreso il Giappone. In tutto il mondo solo due miliardi di persone hanno un buon tenore di vita, garantito da un reddito medio pro capite di 40 mila dollari negli Stati Uniti e di 25 mila in Italia; 4,5 miliardi di persone non vivono proprio bene e moltissime molto male, potendo disporre di meno di 300 dollari all’anno. Se si guardassero i dati così come sono, si potrebbe pensare a un mondo che si sviluppa e che offre grandi opportunità: quasi dieci miliardi di persone dovranno mangiare, bere, vestire, viaggiare… in altre parole, consumare, consumare e consumare. Questo è il lato positivo della vicenda, quello che piace alle multinazionali e all’economia in genere. L’altro lato mostra ormai chiaramente che questa stessa crescita sta uccidendo il pianeta e che, se non cambiamo direzione, il peggiore dei film catastrofici che abbiamo visto ci sembrerà un cartone animato. Cibo, energia, territorio, risorse naturali, economia, acqua, popolazione, ambiente sono tutti fattori interconnessi, che dobbiamo imparare a gestire in maniera nuova e consapevole, se vogliamo rimanere a bordo, sani e salvi. Se infatti le tendenze in atto ci dicono che il futuro sarà migliore, grazie alle nuove tecnologie, allo sviluppo della medicina, alla facilità di comunicazione, proprio questo futuro migliore rischierà di uccidere l’ecosistema Terra. Il nostro modello di sviluppo porta con sé i germi della distruzione perché l’energia che fa girare il mondo al contempo lo avvelena. È l’iceberg del Titanic.

L’energia cambia il clima L’energia sta cambiando il clima: quell’effetto serra di cui sentiamo parlare da anni ma che ci sembra lontano, come se bastasse aumentare un po’ la potenza del condizionatore in estate per non pensarci più, è direttamente collegato all’energia che utilizziamo. Ma il cambio del clima porta con sé terribili conseguenze, e dovremmo prenderle seriamente in considerazione prima di alzare ancora di un grado l’aria condizionata. Insomma, in poche parole: ci stiamo sviluppando male, anzi ci siamo svi-


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luppati male. Se andiamo avanti senza prendere di petto la situazione, sarà ancora peggio. E il peggio è un incubo. Prendiamola di petto. Cito il rapporto Climate 101 del Pew Center on Global Climate Change (www.pewclimate.org): “Le temperature hanno subito variazioni nel corso della storia. Ad esempio, nell’emisfero Nord il clima è stato più mite nei secoli dall’xi al xiv rispetto a quelli successivi, fino alla metà del xx. Tuttavia la maggior parte degli scienziati sostiene che quanto è accaduto in questi ultimi cinquant’anni non è dovuto solamente a fattori naturali. Un nuovo fattore, quello umano, sta influenzando il clima con vaste emissioni di gas serra dovute non solo allo sfruttamento di combustibili fossili – carbone, petrolio e gas naturale – ma anche alla deforestazione, agli allevamenti intensivi, all’agricoltura su vasta scala e naturalmente all’industrializzazione”. Per dare un’idea della crescente influenza del fattore umano prendiamo in considerazione i dati relativi al biossido di carbonio, forse il più “famoso” dei gas serra: il livello di co2 in parti per milione è cresciuto dell’1,1% all’anno tra il 1990 e il 2000, un ritmo che si è quasi triplicato nell’ultimo decennio, in cui la percentuale è salita al 3%. Oggi siamo a 383 ppm (parti per milione) e si prevede che saranno 560 entro il 2050 e un terzo in più per il 2075. Questo significa che se da un lato un bambino che nasce oggi avrà un’aspettativa di vita di almeno cento anni, dall’altro forse non potrà più respirare per l’inquinamento atmosferico. Ecco il nostro futuro. Ma la razza umana non è suicida. Anzi, credo che quanto sta avvenendo, quanto cercherò di raccontare in questo libro, sia la storia di uno dei primi tentativi collettivi della nostra specie di salvarsi dall’autodistruzione. Il primo tentativo collettivo di far sopravvivere la specie.

Il piano di sopravvivenza: un futuro green Le tendenze che il futuro prossimo ci riserva sono facilmente classificabili. E mi aiuto con l’utilizzo del libro Extreme Future del noto futurista James Canton, che individua dieci top trend: 1. Una nuova energia per il futuro – la crisi energetica, l’era post-petrolio e lo sviluppo di energie alternative: nel xxi secolo l’energia giocherà un ruolo chiave in ogni aspetto della nostra esistenza. 2. L’economia dell’innovazione – lo sviluppo dell’economia globale


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nata dalla convergenza di libero mercato, tecnologia e democrazia darà vita a nuovi lavori e nuovi mercati favorendo la nascita di un periodo di pace e sicurezza. I pilastri dell’economia dell’innovazione saranno la nanotecnologia, la biotecnologia, l’Information Technology, la neurotecnologia e la Green Economy. 3. La nuova forza lavoro – sempre più multiculturale e femminile, pronta ad abbracciare l’innovazione per divenire competitiva a livello globale. 4. La medicina della longevità – la medicina cambierà volto grazie ai passi avanti in campi quali la nanotecnologia, la neurotecnologia e la genetica: vivremo più a lungo e più sani. 5. Una scienza miracolosa – la scienza trasformerà radicalmente le nostre vite, la cultura e l’economia: pensiamo al teletrasporto e alla nanobiologia. 6. Rendere il futuro più sicuro – criminalità, terrorismo, manipolazione mentale: è necessario conoscere le minacce del xxi secolo. 7. La competizione delle culture nella globalizzazione – la crescita di nuove realtà e la potenza di Cina e India: lo scontro tra culture e valori, la battaglia ideologica per conquistare il futuro. 8. Il futuro del cambiamento climatico – l’ambiente non sarà più lo stesso: prepariamoci al riscaldamento globale, all’inquinamento e ai rischi che comportano per la nostra salute. 9. Il futuro dei valori individuali – la tecnologia, i governi e le ideologie possono mettere in pericolo il rispetto dei diritti umani e della libertà di ogni individuo. 10. Il futuro di usa e Cina – il destino delle due superpotenze modellerà il futuro del pianeta. Tre di queste tendenze sono profondamente legate alla Green Revolution: lo sviluppo di energie alternative; l’economia innovativa, che si baserà prevalentemente sullo sfruttamento delle nuove energie e dei prodotti legati alla Green Economy; il cambiamento climatico. Ma credo che ci sia ancora più “verde” nel nostro futuro. Se vogliamo evitare l’iceberg del Titanic, se vogliamo trovare nuove energie per salvare il pianeta, penso che dovremo prima di tutto cambiare mentalità, stili di vita, modalità di consumo, di comunicazione, riferimenti culturali. La Green Economy è qualcosa di più della somma di tutti i possibili lavori collegati a una nuova economia. È una vera rivoluzione del modo di


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vivere degli abitanti del pianeta. Mi spiego meglio: gli abitanti della Terra cominciano a capire che devono attuare un piano di sopravvivenza e partendo da diversi punti di ingresso e con diverse modalità si stanno attrezzando per cercare di cambiare un sistema che inevitabilmente li porterebbe alla distruzione. È questa la vera rivoluzione. È appena iniziata. Ma come tutte le rivoluzioni che partono dal basso cambierà il mondo fino a diventare normalità.

Le dieci “emergenze verdi”: un enorme problema, ma una grande possibilità Ci sono ben dieci aree di problematica ambientale per dipingere il mare in cui il Titanic sta navigando. E ognuna di queste aree apre un ventaglio di pericoli ma anche uno di opportunità, economiche, valoriali, culturali e di stile di vita.

Top Ten Enviromental Issues 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.

cambiamento climatico energia acqua biodiversità tossicità inquinamento rifiuti ozono oceani deforestazione

Si potrebbero scrivere molti libri dedicati a ognuna di queste tematiche. Ma per il nostro scopo basterà una breve analisi di ciascuna di esse e delle loro molteplici interconnessioni.


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Cambiamento climatico Il cambio del clima è senz’altro la prima grande sfida che il mondo ha di fronte. E forse la più impegnativa. Si tratta infatti di una sfida globale, perciò è necessario elaborare una strategia globale per fronteggiare il problema. L’occasione si è avuta a Kyoto, ma non si può dire che sia stata colta. Si ripete il film a Copenhagen a dicembre 2009. E ne discuteremo a lungo nel finale del libro. Il famoso global warming è reale. Basta guardare il grafico sottostante per capire come le emissioni di co2 stanno rendendo il nostro mondo irrespirabile. Anche senza leggere i dati, è sufficiente fare due passi a Milano o Roma e i polmoni te lo gridano in faccia.

Le fonti del riscaldamento globale

protossido di azoto 3,8%

metano

26,7%

nerofumo

11,9%

biossido di carbonio

43,1% monossido di carbonio 6,7%

idrocarburi alogenati 7,8%

Fonte: “Science”, Drew T. Shindell et al., 2009

Ormai sappiamo che il biossido di carbonio è responsabile al 70% di questa situazione e che al giorno d’oggi la principale causa dell’aumento di co2 in atmosfera è proprio l’utilizzo antropico dei combustibili fossili, ossia le emissioni dovute ai nostri mezzi di trasporto, alle case, agli uffici, alle fabbriche. Gli altri gas serra (metano, ossido di nitrogeno ecc.) o greenhouse gases, come li chiamano gli americani, fanno il resto. Tra questi una quota


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importante – è ridicolo, ma è così – la producono le flatulenze dei bovini degli allevamenti intensivi. Ma non è tutto: i gas rimangono nell’atmosfera per decenni, alcuni per secoli. Inoltre, dal momento che le emissioni sono proporzionali allo sviluppo economico, la crescita tumultuosa di Cina e India sta contribuendo in modo sempre più determinante all’aumento della concentrazione dei gas serra nell’aria che respiriamo.

Emissioni Paese per Paese 100%

7

80% 5 60%

Arabia Saudita

Congo

0

Tailandia

Nigeria

Sudafrica

Iran

Rep. di Corea

Australia

Canada

Myanmar

India

Russia

Brasile

Indonesia

Europa

1

Usa

2

Messico

3

Malaysia

Giappone

4

Cina

Emissioni annuali di Gt CO2c

6

40%

20%

0%

Fonte: Un piano per salvare il Pianeta, Nicholas Stern, 2009

Cosa accadrà alla Terra? Da quello che ho letto – e che riporto qui pari pari – gli effetti sono molteplici e tutti catastrofici: temperature più alte con conseguenze terribili sulla vita del pianeta; innalzamento del livello del mare e scioglimento dei ghiacci; tornado (ricordate Katrina a New Orleans?) più frequenti e più devastanti; distruzione degli ecosistemi; migrazioni di massa per sfuggire a queste e altre catastrofi naturali. E le più colpite saranno le nazioni più povere, quelle della fascia equatoriale. Secondo la Stern Review, un’indagine complessiva delle conseguenze economiche degli effetti del riscaldamento del pianeta commissionata dal governo britannico all’economista Nicholas Stern, il disastro potrebbe costare il 20% del pil mondiale. La riduzione delle emissioni invece


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costerebbe soltanto l’1% del pil annuo mondiale. Ma ridurre le emissioni comporta un cambiamento del nostro stile di vita. Il giornalista del New York Times, tre volte Premio Pulitzer, Thomas L. Friedman nel recentissimo successo editoriale Hot, Flat & Crowded racconta un episodio avvenuto nel corso di una sua conferenza per un pubblico di uomini d’affari cinesi. Ai businessmen che facevano notare che gli usa hanno inquinato il mondo per giungere all’attuale livello di sviluppo e che è giunto il momento per la Cina di fare lo stesso, Friedman ha risposto di fare pure: nel frattempo gli Stati Uniti svilupperanno prodotti e tecnologie verdi innovative da vendere sul mercato cinese. C’è del vero in questa provocazione. Il cambio del clima riguarda tutti ma il mondo lo affronterà a diverse velocità. E chi si porterà avanti sarà avvantaggiato.

Energia L’energia è il secondo ambito di problematiche. L’aumento del prezzo della benzina a 147 dollari al barile è stato il punto di svolta. Politico, ma anche economico. Tutti si sono spaventati. Insomma, ha dato il via allo sviluppo delle energie rinnovabili. Il petrolio è sulla breccia dall’Ottocento, a partire dal kerosene utilizzato per le lampade a olio. Non sarà facile scalzarlo, ma il passaggio alle energie rinnovabili è assolutamente ineludibile. In pratica si dovrà gradualmente abbandonare l’energia che proviene dall’“inferno”, ricavata da carbone, petrolio, gas naturali, per quella che viene dal “paradiso”, dal vento, dall’acqua, dalle maree, dalle biomasse, dal sole. Qualcuno dice: facciamo tutto nucleare. Ebbene ci vorrebbero 13 mila centrali. Una al giorno da costruire per i prossimi trentasei anni. L’area del rinnovabile sembra essere la più presidiata anche perché è la più economicamente perseguibile. La Cina ha stanziato nel suo piano strategico pluriennale del 2008 ben 58 miliardi di euro su un totale di 600 per le energie rinnovabili, pianificando di chiudere entro il 2011 molte centrali termoelettriche a carbone per 31 gigawatt per sostituirle con centrali di nuova generazione, peraltro progettate in collaborazione con la nostra Enel, per un totale di 50 gigawatt. Gli Stati Uniti sono decisamente avanti nello sviluppo di un sistema basa-


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to sulle energie rinnovabili, come dimostra la crescita degli investimenti in CleanTech testimoniata dal grafico qui sotto.

Venture Capital invested in CleanTech (United States and Canada $US million) $5000 $4500 $4000 $3500 $3000 $2500 $2000 $1500 $1000 $500 $0

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

Fonte: Cleantech Group, LLC, 2008

La Germania prevede la creazione di 250 mila nuovi posti di lavoro in questo settore, che a breve rappresenterà il 16% del pil tedesco. Persino le grandi compagnie petrolifere stanno iniziando a muovere i primi, spesso timidi passi verso la produzione di energia “pulita”. Forse non è ancora partita la corsa all’oro verde, perché mancano gli incentivi statali e perché la “guerra” con il petrolio e con la cricca autocompagnie petrolifere-Stati produttori è in pieno svolgimento. Ma credo che la specie umana, rendendosi conto che sta viaggiando sul Titanic, se ne fregherà degli interessi della Exxon… che peraltro ha già aperto la sua divisione clean energies.

Acqua L’acqua è l’essenza della vita. Ma è limitata. Spesso sporca e inquinata. Quindi il problema è quantitativo e qualitativo. Qualitativo perché fiu-


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mi, laghi e mari sono contaminati dalle fognature e dai rifiuti industriali, scaricati rispettivamente per il 90% e per il 70% direttamente nei corsi d’acqua. Quantitativo perché due miliardi di persone vivono in luoghi dove la disponibilità di acqua è scarsa. Il problema sta diventando acuto anche nei Paesi cosiddetti industrializzati. Le aziende dovranno essere sempre più attente alle problematiche collegate all’uso dell’acqua, come insegna il caso della fabbrica di imbottigliamento della Coca-Cola nello stato dell’India meridionale del Kerala. La corporation ha sottovalutato il problema e la pressione della comunità locale, che da anni stava subendo una grave crisi idrica e l’inquinamento sia dell’acqua di falda sia del terreno a causa delle attività dello stabilimento. L’effetto non si è limitato alla chiusura della fabbrica, ma la cattiva reputazione della multinazionale ha determinato un calo delle vendite e un collasso della quota di mercato per anni in tutta l’India.

Biodiversità Stanno scomparendo specie di animali e di piante. La biodiversità – termine che indica l’insieme delle forme di vita animale e vegetale presenti sul pianeta – rappresenta la nostra catena alimentare e gli ecosistemi da cui dipende l’esistenza della vita sulla Terra. E assicura la possibilità di creare nuovi medicinali, nuovi alimenti, nuovi prodotti derivati da specie non ancora scoperte. Ma è in pericolo: a detta degli scienziati dell’un’s Millennium Ecosystem Assessment il tasso di estinzione è oggi 1000 volte più alto che in tutta la storia dell’umanità. E parliamo di cinque miliardi di anni. Abbiamo già avuto cinque periodi di estinzione di specie ma il sesto è il primo causato da noi, dal nostro sviluppo che distrugge gli habitat naturali. Gli esperti affermano che circa un quarto delle specie è a rischio di estinzione nel corso di una generazione.

Tossicità Ho comprato in un negozio cinese un giocattolo da regalare a mia nipote. A casa ho visto che alcune parti erano in piombo. Era carino. Non gliel’ho dato. Mi sono infatti ricordato che la Mattel aveva ritirato dal commercio milioni di macchinine che contenevano piombo cinese. Elementi chimici, tossici e metalli pesanti sono un’altra importante “is-


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sue” che ci opprime. Questa area di pericolo riguarda non solo l’inquinamento dell’aria che respiriamo, ma tutti i prodotti con cui conviviamo. La loro pericolosità è ormai acclarata. Per conoscere gli elementi chimici che ogni giorno mettiamo senza saperlo nel nostro corpo basta visitare chemicalbodyburden.org. Sono 700. Un dato tra tutti: uno studio dell’ospedale Mt. Sinai di New York ha dimostrato che il mercurio contenuto nel cibo e in particolare nel pesce può influire sui bambini in gestazione, causando problemi di sviluppo e di riduzione delle funzioni cerebrali a circa 600 mila nuovi nati ogni anno. Chemical Body Burden non si limita a lanciare l’allarme ma fornisce indicazioni su come affrontare il problema, rivolgendosi sia ai singoli individui, con consigli pratici per ridurre l’inquinamento del nostro organismo, sia alle comunità locali, raccontando iniziative di associazioni di cittadini per ottenere un ambiente migliore in cui vivere. Esistono anche siti come GoodGuide e Skin Deep, di cui parleremo più avanti, che presto costituiranno un benchmark per gli acquisti. Le aziende dovranno adeguarsi. Soprattutto ora che l’Unione Europea con la direttiva reach (Registration, Evaluation and Authorization of Chemicals), sistema integrato unico di registrazione, valutazione e autorizzazione delle sostanze chimiche entrata in vigore il primo giugno del 2007, ha reso l’industria responsabile di garantire la non dannosità dei prodotti che produce o commercializza.

Inquinamento Chi ricorda le domeniche a piedi? Questo è l’inquinamento. I responsabili sono auto, case, fabbriche. Cioè noi, con la complicità di un sistema di controllo molto poco avviato e di un sistema di sanzioni altamente impopolare. Il risultato è sotto gli occhi – e il naso – di tutti. L’aria nei centri urbani, e ricordo che anche in Italia più del 60% della popolazione vive in città, è irrespirabile. La Commissione Europea ha calcolato che l’inquinamento atmosferico causa 300 mila decessi all’anno e costa 100 milioni di dollari in giornate di lavoro perse per malattie da esso causate. Gli effetti non sono nefasti solo sulla salute, ma anche sulle casse dello Stato che paga il sistema sanitario. E alla fine sulle nostre tasche attraverso le tasse che versiamo allo Stato.


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Rifiuti ’A monnezza! Noi italiani siamo ormai dei veri esperti in materia. Sappiamo che intorno ai rifiuti, al trasporto, allo stoccaggio, al trattamento, c’è un giro d’affari “sporco”. Sappiamo che la mafia e la camorra sono interessate. Sappiamo che i cittadini degli sfortunati comuni che vengono designati per la costruzione di un sito per lo smaltimento fanno marce di protesta. Ma non sappiamo come smaltirli. Ridurre, riutilizzare, riciclare sono le tre parole d’ordine per iniziare ad affrontare il problema. Se tutti mettessero in pratica queste tre semplici regole il mondo sarebbe più pulito. La raccolta differenziata è uno dei temi a cui i cittadini, italiani compresi, prestano più attenzione e sarà quindi una delle basi di partenza della rivoluzione dal basso.

Municipal solid waste 1% other wood glass 5% 3% 5% rubber, leather, paper textiles 34% 7%

Industrial solid waste

57%

metals 8%

RCRA special waste

plastics 12% food scraps 12%

39%

yard trimmings 13%

Industrial hazardous waste 2%

Fonte: Strategies for the Green Economy, Joel Makower, 2008

Queste due torte estrapolate dal libro di Joel Makower Strategies for the Green Economy mostrano una realtà che pochi conoscono. I rifiuti urbani, quelli delle case per intenderci, sono costituiti per il 34% da carta, per il 12% da plastica ecc… ma tutti insieme rappresentano solo l’1% dei rifiuti di una nazione. Da dove arriva quindi il restante 99%? I rifiuti industriali sono circa il 60% e il 39% sono rcra (Resource, Conservation &


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Recovery Act) Special Waste ossia rifiuti medici, fosse biologiche, contenitori di pesticidi, ceneri di inceneritori, scarti di macellazione e così via.

Ozono Dell’ozono si parla poco, forse perché è una tematica che sembra legata agli anni Ottanta. O forse perché lo si considera qualcosa di lontano. C’è un buco proprio sull’Antartide. Vabbè, tanto non ci vado…. Ma il problema non riguarda solo i pochi ricercatori che vivono al Polo Sud. L’epa (Enviromnental Protection Agency statunitense) stima che il buco dell’ozono è direttamente responsabile di 150 milioni di casi di cancro alla pelle, causerà tre milioni di morti entro il 2025 e costerà sei trilioni di dollari in cure mediche. Il buco nell’ozono è dovuto alla produzione e all’utilizzo di clorofluorocarburi. Nel 1985, 22 Paesi tra i principali produttori di cfc hanno siglato un trattato, la Convenzione di Vienna, poi sviluppato due anni dopo con il Protocollo di Montreal, al quale hanno aderito altre 20 nazioni, per stabilire gli obiettivi e le misure per la riduzione delle produzioni e degli usi delle sostanze pericolose per la fascia di ozono stratosferico. Le forti limitazioni imposte hanno portato a risultati incoraggianti: se si continua a evitare di produrre cfc, il buco si chiuderà intorno al 2065. Altrimenti...

Oceani L’oceano è stato troppo spesso considerato al contempo un’enorme discarica e un’inesauribile riserva di pesca. Ora stiamo scoprendo che le cose non stanno esattamente così. Il 20% delle barriere coralline è morto e una percentuale ancora più alta è seriamente minacciata. Più dei tre quarti delle risorse ittiche mondiali sono sfruttate troppo intensamente e la sostenibilità del sistema oceani-pesca è fuori controllo.

Deforestazione Sapete che la deforestazione (brutta parola per dire che intere foreste sono state rase al suolo per produrre legna e creare nuovi terreni coltivabili)


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in Indonesia e in Brasile è responsabile del 20% delle emissioni di co2 a livello mondiale? Nonostante gli interventi di forestazione e riforestazione, in parte legati al sistema dei carbon credits nel quadro dei programmi previsti dal Protocollo di Kyoto, ogni anno la superficie delle foreste diminuisce. Questo significa che ogni anno sulla Terra ci sono meno piante in grado di mantenere stabile la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera. Supponiamo che con il legno sia prodotta la carta destinata a diventare la confezione di un prodotto, confezione che viene gettata via subito dopo l’acquisto, entrando a far parte del 34% di tutti i rifiuti urbani. Solo un piccolo esempio tra milioni. Che senso ha tutto questo?

Il pianeta si può salvare Si può fare di meglio. Si può salvare la Terra. Parole grosse, forse poco adatte a un libro che vuole parlare di comunicazione. Ma questo è l’obiettivo della rivoluzione verde e della ricerca di uno sviluppo sostenibile. L’aggettivo sostenibile indica un processo o uno stato che possono essere mantenuti a un certo livello per un periodo indefinito di tempo. Più nello specifico, con sviluppo sostenibile si intende una modalità che soddisfi le esigenze della popolazione attuale senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie, preservando quindi uno stock di risorse naturali sane e di qualità. Come sarà il pianeta tra qualche anno? Lo abbiamo chiesto a Canton e a due ricercatori americani, Socolow e Pacala. Secondo James Canton le tendenze per quanto riguarda energia e clima, due problematiche fortemente interconnesse, avranno un ruolo di primo piano nel definire il mondo che verrà. Per il futurologo il momento che stiamo attraversando è decisivo: sta a noi ora trasformare l’emergenza energetica e climatica in opportunità di sviluppo. I due box qui sotto riportano nel dettaglio le sue previsioni a medio termine (2030). Ne sottolineo una fra tutte: la sostenibilità sarà un valore condiviso dal 95% degli abitanti dei Paesi sviluppati. Forse alle aziende non conviene perdere il treno del cambiamento.


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ENERGIA • Siamo a corto di energia, anzi stiamo grattando il fondo del barile (di petrolio). La domanda supererà l’offerta entro i prossimi 25 anni, a meno che non si trovino nuovi, ricchi giacimenti. • Il terrorismo energetico costituirà una seria minaccia per la democrazia, i diritti umani, la pace e la sicurezza a livello globale. • L’energia, indispensabile per tutti gli aspetti della nostra esistenza, dalla salute ai trasporti all’alimentazione, acquisterà sempre maggior importanza nell’economia mondiale. • La dipendenza totale dal petrolio deve finire. Energie pulite e rinnovabili sono indispensabili per assicurare la prosperità futura. • Importare petrolio è pericoloso dal punto di vista politico, è costoso e non garantisce una fornitura energetica sufficiente nel lungo periodo. • Le innovazioni in campo energetico attireranno sempre più investimenti. Sviluppo e produttività caleranno se non verranno trovate alternative valide al petrolio. • L’inquinamento derivato dall’utilizzo di combustibili fossili creerà sempre maggiori problemi per la salute degli uomini e del pianeta, riscaldamento globale in primo luogo. • La sicurezza energetica sarà una delle sfide principali del xxi secolo e potrebbe portare a un’era di cooperazione o di conflitti. • La potenza delle nazioni sarà determinata in base alla possibilità di accedere alle risorse energetiche. Cina e India competeranno con Stati Uniti ed Europa per accrescere il loro potere geopolitico. • Le innovazioni in campo energetico daranno nuovo impulso al commercio, all’industria e creeranno nuovi lavori.


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CLIMA • Il cambiamento climatico è una realtà. Abbiamo pochissimo tempo per cercare di porvi rimedio: anche se da oggi tagliassimo drasticamente tutte le emissioni, alcuni processi sarebbero ormai irreversibili. • Le aziende contribuiranno a rendere più pulito il pianeta. Il CleanTech diventerà una delle industry più ricche del xxi secolo. • La sostenibilità sarà un valore condiviso dal 95% degli abitanti dei Paesi sviluppati. • Il riscaldamento globale causerà fenomeni climatici estremi: tempeste, scioglimento dei ghiacci, innalzamento del livello del mare, siccità ecc. • Il cambiamento climatico renderà più difficile soddisfare il crescente bisogno di acqua e cibo di Asia, Africa e America Latina. • Per combattere il cambiamento climatico si renderà necessaria una nuova collaborazione tra nazioni, cittadini, organizzazioni pubbliche e private, aziende, per garantire uno sviluppo sostenibile. • Le implicazioni del cambiamento climatico sulla sicurezza e sulla politica interna saranno in cima all’agenda politica di ogni nazione. • Cambiamento climatico, inquinamento e riscaldamento globale saranno fattori di rischio primari per la salute e la sicurezza pubblica. • Le aziende cercheranno uno sviluppo sostenibile perché i consumatori premieranno l’attenzione verso l’ambiente.


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Ma Canton è il maggior futurologo del mondo, non è uno scienziato! È un visionario! Perciò entriamo nel campo della scienza. Nel 2004 Robert Socolow e Stephen Pacala, professori rispettivamente di Ingegneria e di Ecologia della Princeton University dove sono a capo della Carbon Mitigation Initiative, hanno pubblicato su Science un articolo che descrive gli sviluppi del cambiamento climatico nei prossimi cinquant’anni. Anche per i due studiosi la scelta sta a noi ora: continuare a seguire l’attuale modello di sviluppo, il che porterebbe a una devastazione del pianeta – inondazioni, siccità, tempeste, carestie, guerre, migrazioni di massa ecc. – o dar vita a un nuovo corso in grado di evitare la catastrofe. Socolow e Pacala hanno calcolato che, per impedire che la concentrazione di co2, nel 2004 pari a circa 375 ppm, possa superare le 500 ppm entro il 2054, le emissioni dovrebbero essere contenute a sette miliardi di tonnellate all’anno. Per chiarire la grandezza dello sforzo richiesto, hanno individuato 15 soluzioni che permetterebbero di eliminare ciascuna una tonnellata di emissioni. Per raggiungere l’obiettivo minimo dovremmo dunque mettere in atto almeno sette di quelle che i due professori hanno definito“conservation wedges”, ad esempio: • Migliorare l’efficienza energetica di due miliardi di auto (saranno tre miliardi nel 2050 contro i 700 milioni attuali) da 30 miglia per gallone a 60 miglia, cioè fare con un litro di benzina il doppio dei chilometri. • Far percorrere ai due miliardi di auto 5 mila miglia al giorno al posto delle attuali 10 mila, cioè dimezzare i nostri spostamenti in macchina. • Tagliare del 25% l’utilizzo di energia elettrica e le emissioni di abitazioni, uffici, negozi. • Sostituire 1400 centrali elettriche a carbone con altrettante alimentate a gas naturale. • Migliorare le tecnologie per produrre energia solare e sostituire le centrali a carbone. • Sviluppare tecnologie eoliche in grado di produrre idrogeno per auto pulite. • Porre fine alla deforestazione. Se riuscissimo a raggiungere anche solo uno di questi obiettivi in breve tempo sarebbe già un buon risultato, raggiungerne sette sarebbe un miracolo. Ma significherebbe la salvezza. Pacala ha detto: “Non c’è mai stato un programma industriale grande come questo al mondo”. Non penso che il governo del mondo lo adotti (anche perché non c’è un governo del mondo), ma credo che molte di


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queste “wedges” coinvolgano ognuno di noi e il nostro vivere quotidiano, dal risparmio di elettricità all’utilizzo delle automobili. Sono in molti ad aver già preso consapevolezza della necessità di assumere comportamenti e abitudini responsabili nei confronti dell’ambiente. La rivoluzione verde è cominciata. L’abbiamo definita una rivoluzione che parte dal basso proprio per l’importanza che ognuno di noi può e deve avere in questa corsa verso la salvezza. Le piccole azioni dei consumatori, dei cittadini sono determinanti per innescare un processo virtuoso. Chi sceglie un’auto ibrida non solo dimezza le emissioni di co2, ma lancia un messaggio ai grandi costruttori di auto. Se il mercato richiede prodotti green, le aziende punteranno su prodotti green. Se si adeguano le case automobilistiche, anche i petrolieri cominceranno a investire seriamente sulla ricerca per produrre idrogeno ed elettricità pulita. Come dicevo, il processo è già iniziato, partito dagli States e dall’Europa per coinvolgere l’Asia e il resto del mondo. Tocca a noi. Per questo è importante quello che ci viene detto e come ci viene detto. La comunicazione riveste quindi un’importanza infinita. Perciò questo libro ha un senso.



2. Sul ponte del Titanic qualcuno ha avvistato l’iceberg

Al mondo ci sono persone più attente alla realtà che le circonda, più emotive, più radicali, più consapevoli. In una parola più “cittadini”. Sono loro a dar vita ai movimenti di avanguardia, fondare le ONG, preparare le rivoluzioni. Poi pian piano, quando il momento è giusto, il fenomeno arriva a maturazione e la fila di militanti si ingrossa, nuovi leader si fanno strada, tutto si fa più semplice. La palla di neve rotola, aumenta di dimensione, diventa valanga… poi torna neve. E la rivoluzione diventa normalità. Nel frattempo ha fatto piazza pulita dei radicalismi e dei vecchi leader. A che punto è oggi la Green Revolution? Nei Paesi industrializzati – più negli Stati Uniti, meno in Europa, meno ancora da noi – è appena finito il primo tempo. Siamo agli albori della seconda fase. I protagonisti non sono più il roboante Pecoraro Scanio, la mite Francescato o il movimento verde tout court, ma lo Slow Food di Petrini, Radio Lifegate, la ong AzzeroCO2, i mille agriturismi, i cento chioschi di farm market. Sono i 270 ipermercati della catena Whole Foods o i supermercati Hannaford negli Stati Uniti, le auto ibride della Honda o della Toyota, personaggi come Cohn-Bendit in Francia. E infine il campione di tutti: Barak Obama.


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La rivoluzione verde avanza. E miete vittime La rivoluzione è in corso quindi. E comincia a mietere vittime. La prima è stata la General Motors. Fallita. Vive con i soldi dello Stato, quasi costretta a vendere la gm Europa, cioè la Opel, a un consorzio canadese-russo. Ma come? La gm non è crollata per colpa della crisi? Cosa c’entra il green? Risponderò con un’altra domanda: è possibile che un colosso che dava lavoro a circa mezzo milione di persone – quanti gli abitanti di Bologna, per intenderci –, con un indotto di milioni di occupati, presente in oltre 150 Paesi, non avesse uno straccio di istituto di ricerca o un think tank che la informasse che la situazione si stava mettendo male? Non è possibile. I dirigenti sapevano tutto, ma erano convinti che il momento della rivoluzione non fosse ancora arrivato. Del resto anche lo zar nel 1917 rimase compiaciuto nella sua residenza e Maria Antonietta nel 1789 non capì che non era il caso di ironizzare sulle brioches e il popolo affamato di Parigi. Senza contare che i bonus di milioni di dollari percepiti in base ai risultati trimestrali hanno di certo influito sulla loro lungimiranza. Non hanno capito, o non hanno voluto capire, che i consumatori non chiedevano auto nuove, ma un nuovo concetto di auto, alimentato da nuove energie. Il colosso è crollato perché le fondamenta erano minate dall’avanzata della rivoluzione verde. La recessione e l’impennata del prezzo del petrolio a 147 dollari al barile non hanno fatto altro che dare la scossa finale. La crisi del 2008/09 ha accelerato un processo già in atto. Ma questa crisi non nasce soltanto dal crollo della finanza, del credito, dei subprime, è anche frutto dell’evoluzione del consumatore, che ne è stato vittima e causa al tempo stesso. Perché ha cominciato a riflettere, a pensare con la sua testa. E quando ha capito che il consumismo sfrenato non portava da nessuna parte, se non al cimitero con il colesterolo e i trigliceridi alle stelle, si è messo alla ricerca di nuovi valori. La cosa certa è che questa crisi mondiale è un combinato disposto della pazzia finanziaria e dell’avidità delle banche ma anche di una maggiore consapevolezza di consumo e di un’autonomia di giudizio dei consumatori. Una premessa è fondamentale ai fini di questo libro, che vuole parlare del futuro della comunicazione. Stiamo vivendo una recessione strutturale che affonda le radici nella necessità e nella volontà di cambiare l’energia che muove il mondo, il petrolio per intenderci, una recessione che a sua volta ha reso possibile il


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dispiegarsi di forze rivoluzionarie come antidoto al disastro paventato. Si tratta di un processo che si autoalimenta e che ha già determinato avvenimenti impensabili fino a pochissimo tempo fa. Mi riferisco in primo luogo all’ascesa di Barack Obama.

World Energy Supply – Report IEA Other 0,5%

Tide 0,0004%

Hydro 2,2%

Solare 0,039%

Combustible renewables and renewable waste 10,6%

Geothermal 0,414%

Wind 0,064% Gas 20,9%

Nuclear 6.5% Reneweables 13.1%

Oil 34,3%

Coal 25.1%

Non-renewable waste 0,2%

Fonte: Renewables in Global Energy Supply, an IEA Fact Sheet, 2007

Nel 2007 nessuno avrebbe scommesso una lira sulla vittoria del candidato democratico. Un nero alla Casa Bianca? Si chiama Bianca, no? Abbiamo Hillary, se vogliamo disfarci della cricca petrolio-auto rappresentata dal duo ormai comico Bush–Cheney, che è stato in grado di scatenare una guerra pur di mantenere il potere della lobby. Abbiamo Edwards. Nomi buoni della bella America bianca. Chi la pensava così aveva fatto male i conti con tre fattori che giocavano a favore di Obama: internet, la rivoluzione verde e la crisi galoppante. L’incrocio di questi tre fenomeni ha fatto piovere nelle casse del “fenomeno nero” milioni e milioni di dollari a botte di ten bucks (10$). Obama ha potuto affrontare il fuoco amico dei democratici prima e lo scontro con gli avversari McCain-Palin poi grazie a una moltitudine di americani che lo ha sostenuto versando pochi dollari a testa. Ma da chi è composta questa moltitudine?


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Secondo una ricerca condotta da GfK Roper, sulla quale tornerò più avanti, proprio nel periodo della campagna elettorale le persone che dichiaravano di avere valori “green” sono raddoppiate, passando dal 20%, una percentuale ferma da anni, al 40% degli intervistati. Un gruppo di individui “ad alto tasso tecnologico”. Nessuno ai tempi fece due più due, ma oggi si può. Quel 40% rappresentava la nuova onda della rivoluzione verde che usciva allo scoperto. Portando soldi e voti a Obama. A questo “zoccolo verde” si sono aggiunti in un crescendo shakespeariano di coincidenze fortunose le minoranze nere e ispaniche ridotte alla canna del gas dai mutui subprime e infine la solida middle-class, la maggioranza silenziosa che nessuno sa cosa pensi. Credo che stavolta abbia detto: “Siamo nella merda, questo qui sarà anche nero, ma almeno è giovane e ha qualche idea”. Joe l’idraulico alla fine ha scelto il volto moderato della Green Revolution, che ora sta imponendo un’agenda di chiaro stampo verde.

La rivoluzione porta con sé nuovi valori A questo punto penso sia necessaria una breve digressione “terminologica” per spiegare bene il fenomeno che è alla base di questo libro: oggi il concetto di “green” non si riferisce più solo all’ambiente. L’ambiente è il punto di partenza, certo. Ma la parola green indica ormai un sistema di valori e abitudini che vanno dall’attenzione alla salute, passando per fitness, mangiar sano, green buildings, fair trade, natura, qualità della vita, ideali altruistici, giving, rifiuto della guerra, fino alla tecnologia. Il tutto accompagnato da un po’ di sano socialismo. Ad esempio, una tematica che ha poco a che fare con l’ambiente ma che va letta attraverso la lente della rivoluzione verde è la battaglia di Obama per la riforma della sanità. Gli Stati Uniti infatti sono uno dei tre paesi dell’ocse – gli altri sono Messico e Turchia – a non garantire una copertura sanitaria universale. E ovviamente è tra le fasce più povere della cittadinanza che si concentra il maggior numero di persone senza assicurazione, che hanno accesso solo agli ospedali non profit e complessivamente ricevono molte meno cure – meno della metà – rispetto al resto della popolazione. E sempre in chiave green va interpretato il successo clamoroso ottenuto in Francia alle ultime elezioni europee da Daniel Cohn-Bendit. Proprio lui, quello del ’68. “Dany il rosso” ha cambiato colore e la sua lista,


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Europe Ecologie, si è attestata a livello nazionale a una percentuale del 16,28%, tallonando Segoléne e il Partito Socialista. Il tutto con un lancio di pochi mesi. Significa che la Francia, conservatrice e autarchica ma pronta a cogliere i segnali di cambiamento, ha abbracciato, in parte ma in modo “etonnante”, la causa verde. Il programma della Green Revolution poteva essere quello di Franceschini o Bersani alle primarie o quello di Fini se nel Partito delle Libertà ci fosse libertà. Perché la rivoluzione è in atto e sta prendendo vita un processo di pensiero democratico, autonomo e spontaneo. In parte ancora inconsapevole, ma questa è la direzione. Ho citato esempi tanto diversi per evidenziare, in modo del tutto empirico, che il periodo che stiamo vivendo è un periodo magico, di quelli che capitano poche volte nel corso della vita di una persona: il momento del cambiamento. Un cambiamento tanto più profondo perché nasce dal basso in una società in cui la comunicazione è ormai oligarchica, se non dittatoriale. Nasce dai comportamenti personali, dalle piccole azioni di tutti i giorni, dai mutamenti che ciascuno apporta al proprio stile di vita per la volontà di abbracciare una rivoluzione che è nell’aria. Perché è una questione di sopravvivenza. E quindi la gente comincia a pensare in modo autonomo, non crede più a qualunque cosa dice la pubblicità, non si fida del governo e delle istituzioni e cerca le risposte in rete, dove trova informazione autonoma, blog e social network per discutere e condividere le proprie opinioni. È un processo lento che si muove a spirale e si autoalimenta. Come un sasso lanciato in uno stagno che crea cerchi man mano più ampi, l’“onda verde” si sta diffondendo sempre più. Nascono nuove mode, ma anche nuovi valori, una nuova etica che ciascuno testimonia attraverso il proprio stile di vita. Cambiano i parametri di definizione di concetti come quello di successo, che non si basa più tanto sul raggiungimento di una posizione di prestigio o di un adeguato numero di zero sul conto in banca ma soprattutto sulla qualità della vita. E dell’ambiente che ci circonda. Anche la World Bank, un’istituzione a tasso di umanità zero, ha iniziato a calcolare il pil mondiale o dei Paesi del Terzo Mondo tenendo conto dello Human Development Index, che non si basa solo su dati economici ma tiene conto di fattori quali l’alfabetizzazione e la speranza di vita alla nascita nel tentativo di misurare la qualità della vita di una popolazione andando aldilà dei soli numeri seguiti dal simbolo $. E quando persino un indice come il pil non è più solamente monetario allora significa che


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le cose sono davvero cambiate. E oggi tutti stanno andando nella direzione di uno stile più rotondo, più giusto e altruista. Anche la social responsibility delle imprese è messa sotto pressione. Dai comportamenti virtuosi dei dipendenti e dalla mutata visione del management. Per Hunter Lovins, fondatore e presidente di Natural Capitalism Solutions, associazione non profit che si pone l’obiettivo di sensibilizzare aziende e comunità in materia di sostenibilità, suggerendo metodi e strategie innovative, la csr deve rispettare parametri rigorosi. La definisce la mission di un’azienda per migliorare la sostenibilità di ogni aspetto della catena di valore dei prodotti, che devono essere ridisegnati a misura di natura, creando le condizioni per un modo di lavorare più umano e trasparente all’interno e all’esterno della struttura. Gli wave riders, che sapranno cavalcare l’onda creando un nuovo modello di business, saranno i miliardari del futuro.

Una po’ di storia del movimento verde Il movimento verde è cresciuto, è diventato adulto. Ma come ogni adulto ha le proprie radici nel passato, dal quale è condizionato. Due sono le fasi che ne hanno segnato, in particolare negli Stati Uniti, l’evoluzione: quella della Conservazione all’inizio del secolo scorso e quella della Regolazione, che ha avuto inizio sul finire degli anni Sessanta per raggiungere l’apice nel decennio successivo. Il conservazionismo trova la sua ragione d’essere nella lotta per proteggere e conservare la bellezza e la ricchezza originaria della Terra. I suoi esponenti di spicco sono scrittori come Ralph Waldo Emerson, Henry David Thoreau, George Perkins Marsh e soprattutto John Muir, che a cavallo tra Ottocento e Novecento con le loro parole fecero breccia nel cuore della middle-class, influenzando l’opinione pubblica e in ultima analisi anche la politica governativa. È l’epoca di Theodore Roosevelt, che non a caso è generalmente riconosciuto come il primo presidente ad aver inserito nella sua agenda la conservazione delle risorse naturali. Muir, fondatore del Sierra Club e leader dell’ala più idealista del movimento, scrive nelle pagine di The Fight for Conservation: “Il conservazionismo è a favore dello sviluppo. Non vuole affatto mantenere intatte tutte le risorse per le generazioni che verranno, ma ritiene che noi oggi


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abbiamo il diritto di usufruirne pienamente. Guarda in primo luogo al benessere della nostra generazione, tenendo comunque in considerazione quello di chi verrà dopo di noi”. Le idee di Muir sono riprese all’incirca mezzo secolo più avanti da David Browner e da una seconda ondata di conservazionisti che ottengono l’approvazione nel 1964 del Wilderness Act, con cui vengono create delle aree naturali all’interno delle quali l’uomo non può risiedere in modo stabile. Ma proprio questa definizione di “wilderness” come luogo dove gli esseri umani sono visitatori e non parte integrante del sistema rivela il grosso limite della Conservazione: lottare per la natura ma non per le persone più vulnerabili. Nemmeno per quegli Indiani d’America che per secoli hanno vissuto in armonia con l’ambiente, riuscendo a esserne parte integrante senza distruggerlo e che possono essere considerati i veri padri di questo movimento. La stessa mancanza di attenzione per il “lato umano” dell’ambientalismo, per le fasce più deboli della popolazione, le più esposte ai rischi derivanti dall’inquinamento, la ritroviamo nella seconda fase, quella della Regolazione. Non si guarda più al passato ma al presente, a un mondo industrializzato, alla società dei consumi. E si cerca di porre un limite ai danni derivati dallo sviluppo economico. Che deve essere regolamentato, appunto. Sono gli anni Sessanta, gli anni in cui i fiumi americani prendono fuoco a causa dell’inquinamento e in cui comincia a farsi pressante il problema dello smaltimento dei rifiuti. Il grido d’allarme è già stato lanciato all’inizio del decennio da Silent Spring, scritto dalla biologa marina Rachel Carson, un atto d’accusa nei confronti dell’industria chimica, in particolare dei pesticidi, i cui prodotti, usati indiscriminatamente, avvelenano il pianeta. Ma l’anno cruciale è il 1970. In aprile si tiene il primo Earth Day, che unisce in un’unica manifestazione tutte le correnti green che hanno iniziato a combattere contro l’inquinamento, la deforestazione selvaggia, i rifiuti tossici, la costruzione di un numero infinito di autostrade, la perdita della “wilderness” e l’estinzione delle molte specie a rischio. In risposta alla pressione dell’opinione pubblica e dei media, Richard Nixon crea l’Environmental Protection Agency (epa), il primo vero ministero dell’ambiente al mondo. I governi varano leggi e al contempo nascono nuovi movimenti radicali e le nuove ong ambientaliste. Oggi esistono innumerevoli Organizzazioni Non Governative che si occu-


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pano di ambiente. Secondo una recente ricerca solo quelle internazionali sono più di 40 mila, a cui si devono aggiungere le centinaia di migliaia che operano nelle singole nazioni. Le principali ong raggiungono un’audience vastissima e hanno un’influenza enorme sull’opinione pubblica e di conseguenza sulla condotta di aziende e governi. Alcune le avrete sentite nominare milioni di volte, altre sono meno famose ma non per questo meno “potenti”: World Wildlife Fund – il celebre wwf – Greenpeace, Sierra Club, Environmental Defense, Natural Resources Defence Council, Conservation International, Nature Conservancy e Friends of the Earth sono solo alcuni esempi. Anche in Italia ci sono ong che mettono l’ambiente, nei suoi molteplici aspetti, al centro della propria mission. L’associazione ambientalista più diffusa sul territorio è Legambiente, che conta oltre 1000 gruppi locali, 20 comitati regionali, più di 115 mila tra soci e sostenitori ed è conosciuta per campagne di analisi e informazione sull’inquinamento come Goletta verde, Treno verde, Fiuminforma e Salvalarte, che ogni anno “fotografano” lo stato di salute dei mari, delle città, dei fiumi, dei monumenti. “Promuovere in concreto una cultura di rispetto della natura, dell’arte, della storia e delle tradizioni d’Italia e tutelare un patrimonio che è parte fondamentale delle nostre radici e della nostra identità” è la mission del fai, il Fondo per l’Ambiente Italiano che dagli anni Settanta ha salvato, restaurato e aperto al pubblico siti di grande valore naturalistico e artistico. Più o meno sulla stessa linea del fai opera Italia Nostra, che lavora per salvaguardare e far conoscere la bellezza e la ricchezza della natura e dell’arte nel Belpaese.

È arrivato il momento di Charme I movimenti per la conservazione e la regolazione continuano tutt’ora a lottare e il loro ruolo è oggi necessario più che mai. Ma la nuova green wave è un fenomeno completamente diverso. Non si pone come obiettivo primario quello di preservare le bellezze del passato o di imporre regole per migliorare il presente. Cerca soluzioni innovative per il futuro. Comunica in modo forte e chiaro. E ha il potere di cambiare il mondo. Chiameremo questo “terzo atto” Charme: l’ambiente è bello, ma può anche essere un pozzo d’affari. E di buoni affari. L’onda è gia partita. Consumatori e investitori rivolgono le loro preferenze verso tecnologie che contribuiscono alla riduzione delle emissioni, come pannelli solari, au-


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to ibride, efficienza energetica, biocarburanti; i media spostano le storie che hanno al centro l’ambiente dalle ultime pagine alla copertina; e le aziende competono nel mostrare al mondo il loro amore per i cieli blu e le foreste lussureggianti. Qui in Italia la situazione è un po’ più deludente. L’attenzione c’è, ma il livello di finzione è ancora alto, è il momento del green washing più che del green. Ma ne parleremo meglio e più approfonditamente nei prossimi capitoli. L’ambientalista Van Jones descrive il passato, il presente e il futuro della rivoluzione verde con il gioco del quarto quadrante, diventato un benchmark nel mondo dell’ambientalismo.

RICH

hybrid PROBLEMS

SOLUTIONS

POOR

Fonte: The Green Collar Economy, Van Jones, 2009

L’autore di The Green Collar Economy parte facendosi una domanda: trarremo benefici dalla Green Economy assicurando un mondo più verde (e un posto di lavoro!) ai nostri figli? La risposta è chiara: la Green Economy non è più soltanto il “luogo” dove chi ha soldi li può spendere o investire, ma quello in cui tutti possono guadagnare. È il nuovo volano economico, e probabilmente l’unico settore che crescerà nel medio-lungo termine. Ciò significa che l’onda verde porterà nuovi prodotti, nuovi servizi e nuove tecnologie, creando nuovi posti di lavoro e migliorando la salute e


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il tenore di vita delle comunità. Detto in termini più brutali: nel green ci sono i nuovi soldi. Nel grafico, supportato da una recente ricerca, l’asse orizzontale rappresenta il progresso dai problemi legati alla vecchia “gray” economy alle soluzioni green; quello verticale illustra il “lato umano” della questione, dai meno abbienti ai più benestanti. Nel quadrante in alto a sinistra troviamo i membri delle classi sociali più agiate, che sono preoccupati per lo scioglimento dei ghiacci, l’innalzamento del livello del mare e la scomparsa dell’orso polare dovuti al cambiamento climatico. Sono persone che non lottano ogni giorno per soddisfare i loro bisogni primari e hanno il tempo e le conoscenze per approfondire le grandi tematiche ecologiche globali. Rappresentano il mainstream del movimento e sono influenzati dalle fasi della Conservazione e della Regolazione. Il quadrante sottostante è composto da cittadini meno abbienti le cui preoccupazioni si concentrano sui problemi legati all’inquinamento del luogo in cui vivono: aria irrespirabile, acqua contaminata, la crescente percentuale di bambini asmatici, l’impossibilità di procurarsi cibo fresco, le devastazioni causate da disastri naturali. Nel quadrante in alto a destra ci sono le opportunità di business e le scelte di consumo per coloro che rientrano nel primo quadrante. Gente che abbandona i suv per le auto ibride, che installa pannelli solari sul tetto della propria abitazione, pronta a pagare un piccolo premium price per avere prodotti verdi, innovativi, che salvaguardano l’ambiente e loro stessi. Queste scelte hanno un doppio effetto positivo: non solo spostano ingenti risorse da prodotti che danneggiano il pianeta verso altri ecofriendly, ma aprono nuovi mercati e sostengono le start-up. Il quarto quadrante è composto da tutti coloro che vogliono lavorare nel green market. Intellettuali, gente “innovativa”, ma anche persone con mezzi modesti che possono intraprendere un cammino lavorativo in un campo che ha maggiori potenzialità e prospettive di crescita di qualsiasi altro settore. Il mondo dei “colletti verdi”. Ognuno dei quattro quadranti è importante ai fini dello sviluppo della Green Revolution. Ognuno si rivolge alla problematica ambientalista con un vissuto particolare, ma tutti concorrono a creare nuovi stili di vita.


2. Sul ponte del Titanic qualcuno ha avvistato l’iceberg | 43

I consumatori cambiano i loro stili di vita. E non ce ne siamo accorti! I nuovi stili di vita hanno creato un mercato in costante espansione in tutto il mondo che gli americani hanno chiamato lohas, acronimo di Lifestyle of Health and Sustainability. Ne fanno parte tutte quelle aziende che praticano un capitalismo responsabile e sostenibile e abbraccia un’area che comprende business diversi fra loro ma che si possono ricondurre alla ricerca di benessere, inteso nel senso di stare bene a livello psicofisico, e sostenibilità. Rientrano nei lohas la medicina alternativa, il mondo del wellness e del fitness, la meditazione, le energie rinnovabili, le auto alimentate con carburanti diversi da quelli derivati dal petrolio, i prodotti verdi per la pulizia della casa, i vestiti in fibre naturali, l’eco-turismo, l’edilizia green, i fondi di investimento socialmente responsabili, l’agricoltura organica, gli integratori alimentari e molto altro ancora. È un mercato che, secondo il sito lohas.com, solo negli Stati Uniti può contare su 35 milioni di consumatori, il 16% della popolazione. Ognuna delle aree di business che ho citato indica un settore produttivo ma descrive anche un nuovo stile di vita. Per i consumatori lohas, che il sociologo Paul Ray definisce Cultural Creatives, non conta la quantità di beni che si possono accumulare nel corso della propria esistenza, ma vivere una vita ricca di significato. Del resto un mondo che si avvia a un periodo di ulteriore sviluppo economico dovuto alla richiesta di benessere, stavolta inteso nel senso più materiale del termine, da parte di miliardi di persone, un mondo che sviluppa tecnologie e medicine in grado di allungare la durata della vita e renderla più “facile” da vivere, un mondo che dovrà rivedere la sua agenda di sviluppo nei termini di non-autodistruzione, un mondo dove i confini della conoscenza, dell’informazione e della comunicazione saranno sempre più vicini e contigui non può non spingere le persone, specie nei Paesi più avanzati, a non tenere conto del valore della vita e dello stare in armonia con essa. Ma i consumatori la pensano così? Nel 2008 … • Il 79% dei consumatori usa dichiara che il comportamento di un’azienda nei confronti dell’ambiente influenza il loro giudizio verso i prodotti o i servizi che offre (GfK Roper). • Il 64% dei consumatori dei Paesi del G8 è pronto a pagare un premium price dell’11% per prodotti e servizi clean (Accenture).


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• Il 69% degli europei dichiara di impegnarsi per ridurre il proprio consumo di energia e il 75% vede un link diretto tra i comportamenti individuali volti al risparmio energetico e il cambiamento climatico (Logica cmg). • I messaggi di “comunicazione” verde rimangono molto impressi nel 37% dei consumatori. Un altro 33% dichiara di ricordarli (Burst Media). • Il 53% dei consumatori a livello globale preferisce acquistare prodotti di aziende con una forte reputazione verde (Tandberg). • I consumatori si aspettano di raddoppiare la spesa in prodotti verdi nel giro di un anno (ImagePower Green Brand Survey). • Il 50% dei consumatori americani considera almeno uno tra i fattori della sostenibilità come motivo di scelta nell’acquisto di un prodotto (Information Resources, Inc.). • La maggior parte degli americani dichiara di sforzarsi di ridurre il proprio impatto ambientale: risparmia energia (93%), acqua (86%), ricicla (89%) e parla con amici e familiari di tematiche collegate all’ambiente (70%) (Cone’s Consumer Environmental Survey). • Il 40% dei consumatori americani dichiara di essere disposto a fare “ciò che sarà necessario” per proteggere e migliorare l’ambiente (Environmental Sentiment Survey dell’immobiliare Jones Lang LaSalle). • Circa 9 americani su 10 si definiscono consumatori responsabili e dichiarano di acquistare più volentieri marchi che offrono prodotti ad alta efficienza energetica, supportano il fair trade e il benessere dei lavoratori e dichiarano di impegnarsi per diventare sempre più ecofriendly (bbmg Consciuous Consumer Report). Mentre raccoglievo questi dati mi sono detto: perfetto, il mondo intero è verde che più verde non si può. Ma non c’è bisogno di essere dei sociologi per capire che c’è un abisso tra essere preoccupati per l’ambiente ed essere consumatori green. E in mezzo ci sono sicuramente i soldi, ma anche una mancanza di fiducia nei confronti delle aziende e di conoscenza delle tematiche ambientali. Prima di gettarsi a capofitto nella Green Economy sarebbe meglio dare un’occhiata anche all’altro lato della medaglia: • Sette americani su dieci e il 64% dei canadesi ritengono che quando un’azienda definisce un prodotto “green” o “migliore per l’ambiente” in genere si tratta solo di un’operazione di marketing (Ipsos Reid). • Solo il 10% degli americani e degli inglesi crede a quello che il governo e le aziende dicono riguardo al cambiamento climatico (AccountAbility/Consumers International).


2. Sul ponte del Titanic qualcuno ha avvistato l’iceberg | 45

• Il 64% degli americani, incluso il 51% che si dichiara informato e responsabile nei confronti dell’ambiente, non è in grado di nominare nemmeno un marchio green (Landor Associated). • Il 64% degli americani si dichiara “molto preoccupato” degli effetti del cambiamento climatico e del riscaldamento globale, ma i 2/3 non sanno come viene prodotta l’energia elettrica (Shelton Group Energy Pulse). Quindi? I consumatori sono pronti ad abbracciare la rivoluzione verde scegliendo di supportarla con acquisti, investimenti e scelte lavorative? O sono confusi dalla mancanza di conoscenze effettive e dalla quantità di messaggi green lanciati dalle aziende? In pratica, cosa emerge da tutti

I risultati di Green Gauge 40% 35% 30% 25%

30%

28% 26%

26%

24%

20% 18% 15% 10%

15% 11%

10%

5% 0% 1990

1995

2000

Sprouts

Grousers

Apathetics

True Blue Greens

Fonte: Roper’s Green Gauge since 1990.

2005

Greenback Greens


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questi sondaggi che ho citato? Il quadro è chiaro: sono in molti a cercare di vivere in modo più responsabile. Certo non sono disposti a fare troppi sacrifici, a stravolgere le loro abitudini e a sopportare costi aggiuntivi. E si aspettano che siano le aziende ad andare loro incontro, aiutandoli a capire perché un determinato prodotto è migliore per l’ambiente rispetto a un altro e che differenza possono fare scegliendo di comprarlo. Fino ad ora ho citato sondaggi recenti, ma credo che per capire meglio cosa sta accadendo nella testa dei consumatori sia utile fare riferimento a Green Gauge, una ricerca condotta ogni anno a partire dall’ormai lontano 1990 da GfK Roper in grado di mostrare l’evoluzione della società americana verso il verde. Green Gauge divide la popolazione usa in 5 segmenti: • True-Blue Greens – gli ambientalisti convinti, gli attivisti e i leader del movimento verde • Greenback Greens – persone disposte a pagare un premium price per avere prodotti green • Sprouts – persone che stanno ai margini del movimento ma che pian piano lo stanno abbracciando • Grousers – persone che non si sentono coinvolte o non sono interessate alle tematiche ambientali, che le ritengono questioni troppo grandi per poter pensare di far qualcosa per affrontarle • Basic Browns (dal 2005 Apathetics) – il gruppo meno coinvolto che ritiene che la maggior parte delle persone sia, come loro, indifferente nei confronti dell’ambientalismo. I risultati di Green Gauge non sono cambiati molto nel corso degli anni e la percentuale di americani appartenenti a ciascun segmento è rimasta più o meno stabile dal 1990 al 2005. Nel 2007 la svolta: l’insieme di TrueBlue Greens e di Greenback Greens passa dal “solito” 20% al 40%. Sono con ogni probabilità le persone che hanno sostenuto e finanziato via internet il candidato Obama, come ho scritto all’inizio del capitolo. Concludo questa carrellata con il lavoro più ricco e approfondito, realizzato da Cara Pike di EarthJustice, il più importante studio legale specializzato in questioni ambientali, per identificare le attitudini degli statunitensi verso l’ambiente. Lo studio, realizzato sulla base dei dati raccolti dall’American Values Survey condotto da American Environics, si intitola The Ecological Roadmap e il suo output è rappresentato da dieci gruppi che riassumono altrettante visioni del mondo.


2. Sul ponte del Titanic qualcuno ha avvistato l’iceberg | 47

Tutti questi dati troveranno riscontro nel capitolo seguente, dedicato alla ricerca realizzata da GfK-Eurisko per scoprire cosa ne pensano gli italiani di tutto ciò che è green, dall’economia alla comunicazione. Ma cosa ci dicono davvero le ricerche che abbiamo citato?

GRUPPI

% POPOLAZIONE

DESCRIZIONE

AMERICANA

Greenest American

9%

“Tutto è connesso e le nostre azioni quotidiane hanno un impatto diretto sull’ambiente”.

3%

Ungreens

“Il degrado ambientale e l’inquinamento sono inevitabili se vogliamo mantenere la nostra prosperità”.

24%

Compassionate Caretakers

“Le famiglie americane hanno bisogno di un ambiente sano e salutare”.

Proud Traditionalist

19%

“Religione e moralità guidano le nostre azioni in un mondo dove l’uomo è superiore alla natura”.

17%

Murky Middles

Driven Independents

7%

“Indifferenti a tutto, anche all’ambiente”.

“Possiamo fare così poco per l’ambiente che tanto vale vivere come preferiamo”

Antiauthoritarian

7%

Materialist

“Proteggere il pianeta va bene finché non interferisce con la nostra ascesa verso il successo”.

6%

Cruel Worders

“Risentimento e isolamento non lasciano spazio alle preoccupazioni per l’ambiente”

Borderline Fatalists

5%

“Vivono alla giornata cercando di soddisfare i loro bisogni materiali e di possedere tutti i prodotti che considerano status symbol”.

Postmodern Idealist

3%

“Lo stile di vita green fa parte di un nuovo modo di vivere”.

Fonte: Strategies for the Green Economy, Joel Makower, 2008


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Anche se i risultati non sono sempre omogenei, la tendenza dei consumatori è chiara: stiamo diventando verdi. I tempi non sono ancora del tutto maturi, ma il processo è in atto. E avanza. Insieme a nuovi valori. Assume importanza il valore della frugalità contrapposta all’edonismo e collegata alla qualità della vita, individuale e collettiva. I trend parlano di farm market, agriturismi, transition town, fitness, spa, alimentazione sana. Vediamo anche una tendenza a consumare in modo consapevole, con un occhio rivolto a chi subisce maggiormente le conseguenze delle nostre scelte, come testimonia bene Daniel Goleman nel suo recentissimo libro Intelligenza Ecologica: “Una grande ingiustizia del riscaldamento globale sta nel fatto che i poveri del mondo saranno quelli che ne soffriranno di più, pur contribuendo di meno al fenomeno. Sono le abitudini dei ricchi ad alimentare maggiormente il riscaldamento del pianeta e sono quindi i più ricchi ad avere il maggiore dovere etico di cambiare abitudini. Il miliardo di abitanti del Primo Mondo contribuisce a un ritmo 32 volte superiore non solo al consumo di risorse limitate come petrolio, legname, pesce ma anche alla produzione di gas serra e di rifiuti”. Se tutti noi consumassimo in modo più consapevole, e per noi intendo gli abitanti dei Paesi sviluppati, il pianeta non rischierebbe il collasso. Per raggiungere questo obiettivo è necessario che anche il mercato cambi, diventi più trasparente, per far sì che ognuno sappia con certezza quali tra i suoi acquisti fanno bene al mondo e quali no. Informati, saremmo in grado di prendere decisioni d’acquisto i cui effetti si potrebbero estendere a catena così da generare una pressione per ottenere migliori condizioni ambientali, sanitarie e lavorative per gli abitanti della parte povera del pianeta, la più grande”. In altre parole, la trasparenza radicale fa sì che ciò che viene venduto sia in linea con il bene comune.




3. Gli italiani stanno scendendo dal Titanic

Ma l’Italia è rimasta sul Titanic. È quello che risulta da Gli italiani, la Green Economy & Communication, la prima ricerca quali-quantitativa sull’universo verde condotta da GfKEurisko nei mesi di settembre e ottobre 2009. I nostri connazionali denunciano una situazione tipica del Belpaese: siamo arretrati sul piano ambientale come sistema-Paese, ma ci troviamo di fronte a un pubblico di consumatori-utenti più attenti e più consapevoli, che chiedono di saperne di più, di venire informati, di essere green. La solita situazione all’italiana dove lo Stato non ha fatto la sua parte e la gente, più al Nord che al Sud, è più avanti della politica. La ricerca mostra che la Green Revolution parte veramente dal basso. È un movimento fatto dagli italiani con piccoli atti, piccole consapevolezze, risparmi, minori sprechi, cambi di stili di vita. È un popolo nuovo, fatto di persone che cominciano seriamente a pensare che questo pianeta è anche loro e che devono fare qualcosa per salvarlo. E vorrebbero che i comuni e lo Stato facessero di più. Citano il miglioramento urbanistico, i trasporti pubblici, il sistema automobilistico tra le questioni più urgenti da affrontare. Fenomeni più complessi e più “importanti” rispetto alla solita raccolta differenziata. In altre parole è un popolo più consapevole di quello che appare dalla lettura superficiale della ricerca. E la consapevolezza genera maturità e volontà di cambiamento. Ma andiamo per gradi. La ricerca aveva l’obiettivo di sondare verso quali settori produttivi gli italiani si sentono più critici a causa del loro impatto ambientale; chi sono i soggetti che devono o dovranno occuparsi di affrontare con responsabilità i temi della sostenibilità; che ruolo deve svolgere la comunicazione


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e infine quali sono le prospettive e le attese per il nostro Paese. Si tratta dell’inizio di un percorso finalizzato a monitorare negli anni l’andamento della quota di attenzione alla Green Economy: il nostro sensore dello sviluppo sostenibile e della green wave.

Le grandi preoccupazioni degli italiani La vera sorpresa arriva già alla prima risposta: tra le grandi preoccupazioni degli italiani oggi la tutela dell’ambiente occupa il terzo posto, dopo la disoccupazione e la crisi economica. Questa è solo una delle tante scoperte green che la ricerca riserva: gli italiani sono verdi e stanno scendendo dal Titanic mentre lo Stato-orchestra continua a suonare…

Le preoccupazioni per l’ambiente La disoccupazione

61

29

La crisi economica

53

34

La tutela dell’ambiente

48

42

L’aumento delle malattie

48

33

La sicurezza nelle città

47

40

L’immigrazione

36

34

Grado di accordo

MOLTO

ABBASTANZA

Gli italiani, la Green Economy & Communication. GfK–Eurisko, 2009*

Tuttavia ci sono differenze tra italiani e italiani e anche queste a loro volta riservano sorprese. Il Nord è più attento, più “europeo”, più sensibile al tema ambientale. Le maggiori aspettative si rilevano nella fascia 30/50 anni, in particolare nelle donne. Più sensibilità e maggiore focus sono presenti nei ceti culturalmente avanzati e più istruiti. * Tutti i grafici di questo capitolo provengono da questa fonte.


3. Gli italiani stanno scendendo dal Titanic | 53

Fin qui tutto normale. Ma i giovani sono meno coinvolti. Sono più distanti. Più cinici. Più scettici. La generazione mille euro è, come dire, più disincantata e ha preoccupazioni diverse. E soprattutto non identifica il green con la qualità della vita, che è uno dei suoi mantra. Tuttavia tutti indicano che il climate change, l’inquinamento e i rifiuti sono tra le loro maggiori preoccupazioni. Il clima fa paura. I più “verdi” collegano il cambiamento climatico alle sue cause, quali la deforestazione e i gas serra e ai suoi effetti, dall’innalzamento del livello del mare alla scarsa disponibilità di acqua. Ma tutti sentono l’inquinamento sulla pelle e nei polmoni. I rifiuti riportano alla mente di ciascuno l’emergenza campana. Su diversi livelli, quindi, gli italiani centrano bene il problema nella sua essenzialità.

Le più consistenti preoccupazioni I cambiamenti climatici

18

33

L’inquinamento dell’aria

10

25

Lo smaltimento dei rifiuti

10

20

39 33

La scarsità d’acqua

5 14

23

L’effetto serra

6 13

21

L’esaurimento delle fonti energetiche

5 12

19

Il degrado dell’ambiente urbano

6 12

18

La deforestazione del pianeta Il buco nell’ozono

4 9

17

4 10

15

L’elevata concentrazione di CO2 nell’atmosfera

4 8

L’estinzione di alcune specie animali

148

Grado di accordo

41

15

1°+2°

1°+2°+3°

Le grandi attese degli italiani Ridurre gli sprechi e i consumi, eliminando quelli inutili, soddisfare i bisogni del presente senza compromettere il futuro del pianeta, trovare


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nuove tecnologie che lascino invariate le prestazioni ma consumino meno energia sono le tre grandi aspettative degli italiani.

Le più consistenti preoccupazioni Ridurre/eliminare i consumi inutili Soddisfare i bisogni del presente senza compromettere le generazioni future Introdurre tecnologie he consumino meno energia

46

Vivere meglio consumando meno

29

Vivere senza rischi ambientali

20

Consumare meno energia

20

Usare meno le automobili

19

Rinunciare ad alcune comodità cui siamo abituati

14

Limitare lo sviluppo industriale dei paese Un po’ tutte queste cose insieme

40 36

6 49

La gente sembra dire: abbiamo capito, si può vivere bene anche con meno, senza dover tornare ai tempi delle nonne, ma in modo più frugale. La frugalità è una delle tendenze odierne. La rileva bene la ricerca Eco Bounty di Trend Watching di cui parleremo più avanti. Sempre più persone nel mondo hanno cominciato a capire che uno stile di vita più “sano” fa bene a loro e al pianeta. E credo che non lo facciano solo per risparmiare soldi, ma per un atteggiamento culturale. La recessione avrà anche aiutato il processo, ma la tendenza alla frugalità, vale a dire, per intenderci, meno consumi e maggiore attenzione all’ambiente, è penetrata nella coscienza dei cittadini più di quanto pensiamo. E forse più di quanto essi stessi ne siano consapevoli. La società consumista è al tramonto. In poche parole: diventiamo smart ma oculati, “antichi” ma postmoderni. È iniziata l’era green.


3. Gli italiani stanno scendendo dal Titanic | 55

Ma l’Italia è ambientalista? no! Solo il 2% ritiene che il nostro Paese sia ambientalista, il 24% opta per un “abbastanza”, per il resto degli intervistati la risposta è no. Una pesante accusa allo Stato.

L’Italia è un paese ambientalista?

più critica

MOLTO

Totale campione

Area elite

Baricentri femminili

Baricentri maschili

Area giovanile

Culturalmente depressi

2%

2%

2%

1%

1%

3%

24%

17%

30%

23%

31%

23%

45%

45%

46%

48% 36%

52%

22%

28%

17%

24%

23%

7%

8%

5%

4%

9%

ABBASTANZA

COSÌ COSÌ

POCO

PER NIENTE

15%

7%

E ancora: in Italia si aiutano i cittadini a scegliere comportamenti sostenibili? La risposta anche a questa domanda è no! Non viene dato loro alcun sostegno, specie in confronto a quanto avviene in altri Paesi.


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Gli italiani stanno cambiando stile di vita. Più sostenibile Di fronte a domande specifiche che chiedono se condividono o meno affermazioni riguardanti i loro orientamenti nei confronti della sostenibilità, di nuovo gli italiani si scoprono green. Perché reputano che uno stile di vita nuovo e più sostenibile sia fondamentale per la salute e ritengono che i loro comportamenti siano più attenti all’ambiente rispetto al passato. Sono anche disposti a pagare – come in tutto il mondo – qualcosa di più per acquistare prodotti a basso impatto ambientale.

Quali orientamenti sostenibili

Lo stile di vita sostenibile è fondamentale per prevenire i danni alla salute

39

29

42

Rispetto al passato, faccio più attenzione alle notizie che fanno riferimento all’ambiente

22

Grado di accordo

ABBASTANZA

MOLTO

Posso spendere qualcosa di più per acquistare prodotti a basso impatto ambientale

Rispetto al passato, i miei comportamenti sono più attenti all’ambiente

19

26

33

34

Con differenze significative tra i diversi segmenti della popolazione, sia dal punto di vista demografico sia da quello culturale. Insomma gli italiani sembrano dire: indietro non si torna. Ora occorre saperne di più e ricevere istruzioni più precise per andare avanti. E infatti chiedono più educazione nelle scuole e più informazione, maggiormente corretta e approfondita. Una necessità sentita dal 90% della popolazione, una percentuale “bulgara”.

Temi verdi in primo piano Le aree di maggior coinvolgimento sono quelle dell’energia, dei rifiuti e dei prodotti alimentari.


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Se le prime due potevano essere date per scontate, la terza un po’ meno. Il nostro è un Paese dove il cibo ha una cultura particolare, unica. Si mangia bene, forse troppo. Oggi gli italiani vogliono continuare a mangiare cose buone ma essere sicuri che i prodotti facciano bene a tutti e a tutto. Ecco ad esempio alcuni dei comportamenti più diffusi emersi dalle dichiarazioni degli intervistati: consumare prodotti di stagione (le primizie dal Cile consumano troppa co2); acquistare prodotti non confezionati, al banco del fresco e ai mercati rionali; prestare attenzione all’origine dei prodotti per la salvaguardia della freschezza e la riduzione dei trasporti (con una netta preferenza per ciò che è italiano); cercare di eliminare le bottiglie di plastica; bere acqua dal rubinetto; partecipare a gruppi di acquisto; comprare bio (solo a Milano).

Le aree di massimo coinvolgimento Energia

Rifiuti/reciclaggio

93

Alimentari

78

81 Abbigliamento

Detersivi

33

40

Trasporti

41

I comportamenti virtuosi degli italiani Ecco documentati i piccoli microatti, la rivoluzione che viene dal basso. Niente di eclatante, niente filosofie verdi, niente ideologie. Ma tante azioni quotidiane la cui somma dà un nuovo stile di vita. Spegnere le luci. Accendere il riscaldamento solo quando necessario. Rispettare la raccolta differenziata. Usare la lampadine a risparmio energetico. Consumare prodotti di stagione. Riciclare i vestiti. Non lasciare gli elettrodomestici in stand by. Acquistare prodotti italiani perché sono


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“vicini”. Ridurre la plastica. Bere acqua del rubinetto. Risparmiare, riciclare, riusare. Parole già sentite e che in questo libro sentirete ancora spesso. Sono infatti il nuovo manifesto green, che si traduce in comportamenti micro che diventano macro per trasformarsi poi in un fattore economico. Questi atti cambiano gli stili di vita, che a loro volta generano richiesta di nuovi prodotti, di modifiche a quelli esistenti, di nuove modalità di produzione.

In dettaglio, i comportamenti virtuosi Spegnere le luci quando non servono Accendere riscaldamento e condizionatori solo quando necessario Rispettare la raccolta differenziata dei rifiuti

77

13

74

16

71

14

Usare lampadine a risparmio energetico

67

23

Consumare prodotti di stagione

65

27

Risparmiare su consumi energetici

59

28

Riciclare il più possibile

43

30

Non lasciare gli elettrodomestici in stand-by

40

30

Acquistare prodotti fatti in Italia

39

40

Ridurre l'uso della plastica Evitare di usare sostanze dannose/tossiche per l'ambiente Bere l'acqua del rubinetto

35

37

35

40

33

17

Grado di accordo

SEMPRE

QUALCHE VOLTA

Scegliere fibre naturali per l’abbigliamento e la casa, spostarsi a piedi, limitare l’uso dell’auto, preferire prodotti con packaging ecologico, usare i mezzi pubblici, comprare detersivi sfusi, andare in bicicletta: quando li si analizza nel dettaglio i microatti possono sembrare ancora più micro. Si tratta invece di scelte precise che dovrebbero dettare nuove agende ai produttori e ai distributori di beni. Senza dimenticare la politica, in particolare a livello locale.


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In dettaglio, i comportamenti virtuosi Usare materiali naturali per l’abbigliamento e per la casa Acquistare prodotti che provengono da zone vicine

33

41

28

42

Spostarsi il più possibile a piedi

27

38

Limitare l’uso dell’auto/del motorino

26

29

Acquistare prodotti alimentari nei mercati rionali

21

37

Preferire prodotti con package ecologici

20

47

Usare il più possibile i mezzi pubblici

15

14

Usare detersivi sfusi/a ricarica

13

24

Spostarsi più possibile in bicicletta

12

15

8

37

Partecipare a gruppi di acquisto (cooperative tra più persone) 4

10

Consumare prodotti biologici

Grado di accordo

SEMPRE

QUALCHE VOLTA

Quali aziende per quali attese green? Quali sono secondo gli italiani i settori produttivi più “importanti” per l’ambiente? Alcuni tra quelli citati rispecchiano quella è che la linea di pensiero green emersa finora. Altri sono vere sorprese. Troviamo ai primi posti delle classifica le aziende di elettrodomestici e di prodotti per la pulizia della casa e quelle che si occupano di smaltimento dei rifiuti, ma sul podio sale anche la grande distribuzione. E questa è una novità che tornerà come leitmotif nel corso di tutto libro. La gdo ha una forza eccezionale nel diffondere i nuovi comportamenti. Pensiamo a Whole Foods negli Stati Uniti, una catena dedicata ai soli prodotti green, o ad Hannaford nel Maine, che ha sposato la filosofia verde divenendone un alfiere. Le persone riconoscono alle sigle della grande distribuzione un’importanza quasi maggiore di quella che danno alle marche. Mentre non ne attribuiscono a settori che già stanno muovendo i primi passi nel campo della Green Economy, come il turismo e la finanza, relegati in fondo alla classifica.


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I settori produttivi più importanti per l’ambiente

Aziende che producono elettrodomestici (a basso consumo, tripla A) Nettezza urbana/smaltimento dei rifiuti Grande distribuzione (supermercato, centri commerciali) Detersivi per il bucato della casa Alimentazione/Aziende alimentari Prodotti per la salute e la cura della persona Elettronica di consumo (es. cellulari, PC, TV) Produzione di imballaggio/pack Urbanistica (es. implementazione traffico limitato, illuminazione stradale con pannelli solari) Edilizia (es. casa a impatto zero, autonome per riscaldamento, acqua)

I microatti generano attese di ampia portata. È come se gli italiani pensassero: “Questo è quello che posso fare io. Lo faccio e obbligo te, azienda o catena di distribuzione, ad adeguarti alle mie scelte, a venire incontro ai miei desideri”. Le aspettative sono inferiori nei confronti dello Stato e della politica. La maggioranza degli intervistati sa quale ruolo spetterebbe alla pubblica amministrazione ma non crede di poter fare nulla per cambiare le cose. Si è arresa. In cima alle attese troviamo quelle che riguardano l’urbanistica, cioè il sistema dell’organizzazione della città, i rifiuti e il loro smaltimento, l’edilizia, i trasporti pubblici, la viabilità. Tutte aree di interesse pubblico. È impressionante come da una parte i cittadini siano consapevoli degli interventi necessari per migliorare l’ambiente in cui vivono e dall’altra l’amministrazione sia sorda alle loro esigenze e richieste. L’organizzazione della città in chiave più green è infatti oggi uno dei temi di maggiore attualità e interesse. Se Amburgo ha vinto per il 2010 la palma della città più verde, come vedremo nel capitolo dedicato alle best practices, i no-


3. Gli italiani stanno scendendo dal Titanic | 61

I settori verso i quali convergono le maggiori attese di sostenibilità Urbanistica (es. implementazione zone traffico limitato, illuminazione stradale con pannelli solari, aumento di contenitori per raccolta differianzata)

Nettezza urbana/smaltimento dei rifiuti Edilizia (es. case ad impatto zero, autonome per riscaldamento, acqua, riduzioni dispersioni termiche)

Trasporti pubblici (ecobus, mezzi trasporto a basso impatto ambientale)

Aziende automobilistiche

Detersivi per il bucato e per la casa Aziende produttrici e distributrici di energia Grande distribuzione (supermacati, centri commerciali) Elettronica di consumo (es. cellulari, pc, tv) Produzione di imballaggi/pack

stri centri urbani occupano le ultime posizioni della classifica. Gli italiani vedono la differenza tra le realtà più avanzate e quella che li circonda. E chiedono a gran voce un cambiamento di rotta.

Le fonti energetiche del futuro Solare. Eolica. Idroelettrica. Basta petrolio, dicono gli italiani. Senza se e senza ma. Altro che nucleare! In linea con le più avanzate culture europee, vogliono le energie che arrivano dal cielo, non dall’inferno. E questa risposta deve essere letta come una base importante per costruire il futuro del nostro Paese.


62 | GO GREEN

Quali fonti energetiche per il futuro Energia solare

77

17

Energia eolica

61

23

Energia idroelettrica

49

34

GPL in sostituzione della benzina

31

39

Biocarburanti

31

33

Gas

18

40

Energia nucleare

11

18

5

15

Carbone

Petrolio 3 Favorevole

11 ++

+

Gli attori del green e la comunicazione Gli italiani hanno fiducia nelle aziende e nelle marche che mostrano sensibilità ambientale, anche se temono che molte di esse facciano operazioni di green washing. Tra i brand verdi citano Fiat per la sua progettazione di motori a Gpl e Coop per la sensibilità e l’attenzione all’ambiente, mentre trovano le campagne di Eni ed Enel lodevoli ma “sporcate” dalla mission petrolifera delle due aziende. Nominano la Prius come esempio virtuoso di auto innovativa ed ecofriendly, Ikea e radio Life Gate come buoni esempi di condotta aziendale. E infine si dichiarano disposti a pagare qualcosa di più per acquistare prodotti eco-sostenibili. La comunicazione è ritenuta un tema importante: ben il 70% si dichiara realmente interessato all’argomento. E l’interesse è focalizzato su alcune aree di efficacia mediatica: notizie e documentari in tv, pubblicità, internet e social media, informazioni sul punto di vendita e soprattutto le etichette dei prodotti.


3. Gli italiani stanno scendendo dal Titanic | 63

Valutazioni delle aziende che esprimono sensibilità ambientale Ho più fiducia in queste aziende rispetto alle altre

7

Penso esprimano una sensibilità ambientale reale

6

Sono disposto a pagare di più i loro prodotti

6

Grado di accordo

40

41

35

44

28

Molto

43

Abbastanza

Così così

16

Poco

Le comunicazioni “eco-sostenibili” delle aziende/marche ritenute più efficaci Sono molto/abbastanza/così così interessati alle comunicazioni eco-sostenibili delle aziende/marche Sui mezzi tradizionali (NET)

92 100

In TV (Net)

89

Notizie alle TV

70

Documentari in TV

61

Pubblicità sui mezzi tradizionali (Net)

73

Pubblicità alla TV

56

Pubblicità sui giornali

27

Pubblicità alla radio

19

Informazione scolastica

62

Informazioni sul punto vendita (attravreso il confronto delle etichette e l’indicazione di provenienza)

33

Volantini direttamente a casa

29

Su Internet (Net)

29

Blog

14

Siti internet aziendali

11

Social network (gruppi di discussione)

10

Valutazioni di esperti

27

Associazioni in difesa dei consumatori

26

Visita diretta alla produzione

16

Per niente

8

4

12

3 7


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Una sintesi generale… sostenibile Per concludere, vorrei sottolineare quelle che ritengo siano le principali evidenze emerse dalla ricerca. Gli italiani: • chiedono la possibilità di fare cose concrete, di applicare comportamenti che possano essere condivisi come la lotta agli sprechi, la raccolta differenziata, un minor utilizzo dell’acqua; • condividono alcune scelte green, soprattutto se accompagnate da una convenienza e da un’opportunità economica; • riconoscono che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, specie quando si parla di rinunciare ad alcuni beni e comodità, come l’uso dell’auto; • guardano alla possibilità di fermare i processi di degrado ambientale, cambiamento climatico ecc. in termini sottrattivi (faccio a meno di qualcosa, riduco qualcosa, consumo meno ecc.) piuttosto che in termini di valorizzazione (se riduco faccio bene all’ambiente, agli altri ecc.); • lamentano la mancanza di una maggiore fermezza e decisione a perseguire a livello istituzionale e legislativo scelte forti a favore dell’ambiente. Più in generale i nostri connazionali: • giudicano il Paese in cui vivono arretrato dal punto di vista delle politiche ambientali e chiedono maggiore informazione, chiara e trasparente; • rispetto al passato hanno comportamenti, se non più verdi, sicuramente più oculati e cominciano a sentirsi in dovere di partecipare con le proprie azioni, per quanto piccole, a un movimento per la salvaguardia del pianeta; • sono consapevoli di vivere in un mondo improntato al ciclo del fast moving consumer (produzione - distribuzione - consumi - rifiuti) e si stanno pian piano rendendo conto di quello che possono fare per incidere il meno possibile sul già precario equilibrio ambientale; • vorrebbero un maggior impegno in campo ambientale da parte della politica e della pubblica amministrazione: la richiesta, non tanto implicita, è che siano loro, con il potere che possono esercitare, a guidare il cambiamento. Questo desiderio è accompagnato da una scarsa fiducia nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni; • esprimono un giudizio positivo nei confronti delle aziende attive in campo ambientale, a patto che non facciano pagare un eccessivo premium price. Temono le operazioni di green washing e per questo vor-


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rebbero da parte delle imprese maggiori informazioni sulla loro effettiva sostenibilità; • anche i giovani, che sono i meno coinvolti, i più disillusi, chiedono un’informazione più credibile e trasparente su ciò che il mondo della produzione sta facendo per essere più sostenibile.



4. Cambia l’energia, cambia l’economia. Nasce la Green Economy

In principio fu il fuoco. La prima fonte di energia utilizzata dall’uomo, quella che ha dato vita a tutte le forme di produzione per secoli. Poi è arrivato il carbone. Infine il petrolio. Ognuno di essi ha rivoluzionato l’economia, gli equilibri politici, l’intera società. E portato con sé nuovi padroni del mondo. Oggi stiamo vivendo una svolta energetica che ci porterà dai combustibili fossili a fonti rinnovabili. Il processo, le cui cause abbiamo brevemente individuato nei capitoli precedenti, è agli inizi. Il fenomeno di un cambio di energia epocale, che fu descritto molto bene anni fa da Jeremy Rifkin nel libro Economia all’idrogeno – cui rimando per una più completa e documentata analisi – ci pone davanti a nuove possibilità, nuove sfide. Si tratta infatti di un momento destinato a sconvolgere molti aspetti della realtà che conosciamo, un momento bello da vivere, in cui si costruisce il futuro. Se è vero che ognuno di noi è artefice della propria fortuna, sono i periodi come questo che rendono l’avventura più interessante e come si dice ora “challenging”. Anche in campo economico.


68 | GO GREEN

La Green Economy è un business! La rivoluzione verde di cui parliamo non sarebbe pensabile se 100, 1000, 10 mila, 1 milione di persone non sposassero la causa, diventando imprenditori della Green Economy. Il cambiamento si trasforma in realtà per la concomitanza di due spinte: una dal basso, di cui ho parlato nei capitoli precedenti, fatta da tutti i cittadini-consumatori che scelgono di apportare piccoli ma significativi cambiamenti alle proprie abitudini, ad esempio con la raccolta differenziata, e un’altra spinta dettata dalla volontà imprenditoriale di migliaia di operatori che intravedono un business nel mondo verde. Chi avrà grandi capitali a disposizione si occuperà della realizzazione delle nuove centrali che produrranno energia sfruttando fonti rinnovabili, quelli dotati di mezzi più modesti faranno i farm marketer o installeranno pannelli solari. C’è posto per tutti, per chiunque voglia prendersi una parte di rischio ma anche una buona fetta di risultati. Le grandi imprese dovranno ricollocarsi e riposizionarsi, mentre a quelle nuove spetterà il compito di dar vita ad aree di mercato inesplorate. Il tutto in un mondo delocalizzato e globalizzato, dove la concorrenza definirà anche il livello di egemonia. In altre parole – ne parleremo più diffusamente nel prossimo capitolo – si è aperta la battaglia per il primato sul mondo che verrà e che si gioca ora tra usa e Cina. Riassumo: se ci sono i soldi, c’è il mercato. E se c’è il mercato, c’è il futuro. E il verde ha le carte in regola per diventare il mercato, tutto maiuscolo. Tra le due forze convergenti, i comportamenti dei singoli e lo slancio economico, agisce un terzo attore, la politica. Il suo ruolo non è da poco, perché è costantemente spinta dall’una e dall’altra a creare regole, incentivi. A dare una direzione al processo, insomma. E molti dei leader che stanno arrivando al potere sono fautori della nuova onda, della rivoluzione verde. Rimaniamo ora nel campo dell’economia per andare ad analizzarne più da vicino lo stato dell’arte con tutte le variabili che ci possono essere, e di fatto ci sono, tra un Paese e l’altro e tra diverse aree geografiche. Negli States è nato un mercato – in crescita in tutto il mondo – denominato lohas (Lifestyles of Health and Sustainability) che, come ho già scritto nel secondo capitolo, abbraccia un ventaglio di imprese e di settori merceologici molto ampio, che va dal fitness alla meditazione, dalle energie rinnovabili ai prodotti verdi per la cura della casa, dagli indumenti in fibre naturali agli alimenti biologici, dalle finanziarie di investimento


4. Cambia l’energia, cambia l’economia. Nasce la Green Enonomy | 69

sociale al green building. I consumatori attratti da questo mercato, i Cultural Creatives con cui abbiamo già fatto conoscenza, sono in parte persone di idee radicali, certo, ma solo in parte, come ha dimostrato il lohas Consumer Trends Database. 50 milioni di Cultural Creatives, che in italiano potremmo definire “innovativi e culturalmente avanti”, sono stati chiamati a fare una classifica di 50 imprese in base all’impegno in termini di sostenibilità e all’impatto ambientale. I risultati sono stati molto diversi da quello che vi aspettereste. Cito solo le prime dieci classificate: Microsoft, Whole Foods, Kellog’s, McDonald’s, Home Depot, Disney, ups, Coca-Cola, Starbucks, PepsiCo. Una sola, Whole Foods, una catena di supermercati di cui ci occuperemo approfonditamente nel capitolo dedicato alle best practices, nasce con un’impronta “green”. Le altre sono state premiate per aver compreso l’importanza di queste tematiche e aver lavorato per adeguarsi ai nuovi standard dettati dal cambiamento in atto. Come in tutte le rivoluzioni, quelli che capiscono per primi che il mondo non sarà più lo stesso e si fanno interpreti della trasformazione diventano wave riders, gli altri, quelli che per natura del loro business o per cinismo o per un errore di calcolo pensano che si tratti di mode e non di rivoluzioni, sono destinati a seguire. O a sparire. Tuttavia alcune aziende dovrebbero impegnarsi più di altre per cavalcare l’onda del cambiamento. Quali sono? • Quelle con grande esposizione mediatica – le aziende con grande valore di immagine come Coca-Cola, Procter & Gamble, McDonald’s: per chi sta sotto i riflettori affrontare subito la sfida è fondamentale. • Quelle con grande impatto ambientale – le società petrolifere e tutta la cosiddetta industria pesante, come British Petroleum, Exxon, Shell, Alcoa: più avanza la rivoluzione più saranno messe sotto osservazione dai consumatori e dai governi. • Quelle che dipendono dalle risorse naturali – le imprese del settore ittico e alimentare e le cartiere, come Nestlé, Cargill, International Paper, si troveranno in prima linea nel momento in cui la società dovrà far fronte alla limitatezza delle risorse su cui basano la loro attività produttiva. • Quelle che utilizzano sostanze pericolose – le aziende chimiche come DuPont o quelle che sfruttano grandi quantità di energia come le compagnie aeree giocheranno un ruolo fondamentale nello sviluppo della rivoluzione verde.


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• Quelle che saranno soggette a crescenti regolamentazioni– come i produttori di automobili e di elettronica: l’extended producer responsibility, già in atto in Europa, verrà imposta in un numero crescente di nazioni. • Quelle che utilizzano grandi quantità di combustibili fossili – queste aziende dovranno affrontare spese sempre più ingenti per pagare petrolio, carbone e gas naturale e le tasse sulle emissioni di gas serra. • Quelle che competono per assicurarsi i migliori talenti – come Microsoft. I loro migliori talenti possono decidere di andarsene se non apprezzano i valori dell’azienda: queste società devono essere sempre attente alle tematiche ambientali. • Quelle con una brutta reputazione ambientale – per loro gli esami non finiscono mai…

Fare bene porta bene Kermit la Rana dei Muppet aveva ragione: non è facile essere verdi. Soprattutto se si opera in settori dove occorre trasformare profondamente un’immagine che con il verde ci azzecca poco. Ma se c’è riuscita un’azienda chimica come la DuPont significa che nulla è impossibile. Tuttavia, se guardiamo al mercato statunitense, vediamo che sono in tante ad averci provato, con risultati differenti. Le strategie di business possono fallire per molti fattori – un planning insufficiente, la mancanza di impegno, la presenza di persone non competenti nei ruoli chiave ecc. – ma quando si parla di green strategy gli errori commessi dalle aziende sono quasi sempre gli stessi: si concentrano su una tematica non adatta, non comprendono il mercato e le possibili reazioni dei consumatori di fronte a un determinato prodotto eco-friendly, non riescono a integrare il modo di pensare ambientalista con il modo di lavorare. O pensano che basti dare una pittatina di verde per nascondere il loro grigio. Chi sono dunque le imprese che ce l’hanno fatta? Non è così facile stabilirlo. Per sapere quali sono le aziende leader a livello finanziario basta scegliere un parametro, che siano i profitti o il fatturato, e vedere chi ha messo a segno i risultati migliori. Nel campo del green il giudizio rischia di diventare empirico perché non ci sono dati affidabili e mancano standard definiti comunemente accettati. Daniel C. Esty e Andrew S. Winston, come raccontano nel bestseller Green to Gold, conducono da anni una ricerca basata su parametri lineari co-


4. Cambia l’energia, cambia l’economia. Nasce la Green Enonomy | 71

me il Ranking della Corporate Social Responsibility, sulla percentuale di accettazione delle regole governative rispetto agli epa Programs, sui dati ricavati da interviste alle aziende, il cui operato è sottoposto a un controllo continuativo. Questa ricerca ha permesso loro di stilare una classifica dei Green Wave Riders, che vi ripropongo:

GREEN WAVE RIDERS Stati Uniti 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25.

Johnson & Johnson Baxter DuPont 3m Hewlett-Packard Interface Nike Dow Procter & Gamble SC Johnson Kodak Ford ibm Starbucks Intel Xerox McDonald’s gm Ben & Jerry’s Patagonia International Paper Alcoa Bristol-Myers Squibb Dell United Technologies

WorldWide 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25.

bp Shell Toyota Lafarge Sony Unilever basf abb Novo Nordisk Stora Enso Philips Bayer Holcim stmicroelectronics Alcan Electrolux Suncor Norsk Hydro Henkel Siemens Swiss Re AstraZeneca Novozymes ikea Ricoh


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Questa classifica non è da prendere come oro colato, sono gli autori stessi a sottolinearlo. Forse oggi le posizioni non sarebbero più esattamente le stesse, ma il suo scopo non è fornire un ranking definitivo dei “buoni”, quanto selezionare un gruppo di aziende su cui focalizzare l’attenzione. E far capire che molte fra le maggiori realtà economiche a livello mondiale si stanno dando da fare per diventare più green e presentarsi ai loro consumatori con tutte le carte in regola per dichiarare il proprio impegno nella ricerca di un modello di business sostenibile. Non per forza si tratta di imprese attive nel campo dei prodotti verdi, anzi. La General Electric, ad esempio, è una multinazionale conglomerata attiva in settori che spaziano dalla produzione di elettrodomestici a quella di contenuti media. Sotto la guida del nuovo ceo, Jeff Immelt, ha lanciato Ecomagination, un progetto interno che spinge la ge a raddoppiare gli investimenti per ridurre il proprio impatto ambientale e per sviluppare tecnologie e prodotti migliori per il pianeta, dalle lampadine a risparmio energetico ai motori per aeroplani maggiormente efficienti ai sistemi per purificare l’acqua. Perché oggi, come ha dichiarato lo stesso Immelt, “To be a great company, you have to be a good company”. Lee Scott, ceo di Wal-Mart, sostiene che la leadership del xxi secolo sarà quella ambientale e ha sfidato il gigante di Bentonville, la sua impresa, a raggiungere tre importanti traguardi: tagliare l’uso di energia del 30%, usare il 100% di energia rinnovabile e raddoppiare l’efficienza energetica della sua flotta aziendale. L’investimento annuo per centrare gli obiettivi è di 500 milioni. Non si scherza affatto. Ma c’è dell’altro: nel suo programma intende chiedere a tutti i fornitori di intraprendere lo stesso cammino. ge e Wal-Mart sono tra le più grandi multinazionali al mondo, con due milioni di dipendenti (senza contare tutti quelli dell’indotto generato dai due colossi). Sono società illuminate? Sono guidate da manager che mettono al primo posto l’impegno sociale? La risposta è no. Hanno capito prima delle altre che è in atto un cambiamento epocale e che le opzioni sono due: contrastarlo continuando a ignorarne l’esistenza, con il rischio di rimanerne travolte, o cavalcarlo con determinazione. I risultati danno loro ragione. Se torniamo infatti alle 50 imprese e guardiamo il loro andamento in borsa negli ultimi anni prima della crisi, vediamo che fare bene porta bene. Essere virtuosi qualche volta paga!


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Stock Performance of WaveRiders 250

Index (January 1998=100)

200

150

100

50

0 1998

WaveRider average S&P 500 FTSE 100

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

Year

Fonte: Green to Gold, Daniel C. Esty – Andrew Winston, 2009

Green washing ovvero la pittatina verde Non è sempre così. Spesso è difficile distinguere le aziende seriamente impegnate nella ricerca di un minor impatto ambientale da quelle che fanno solamente green washing. La parola, coniata nei primi anni Novanta da Greenpeace per descrivere il “cynical, superficial, public relations marketing”, secondo la definizione del sito non profit SourceWatch designa “un’appropriazione ingiustificata di virtù ambientaliste da parte di una società, di un’industria, di un governo, di una ong per darsi un’immagine verde”. Oggi green wash è un termine molto controverso. Quasi tutte le iniziative delle aziende in campo ambientale possono essere accusate di essere solo green washing, soprattutto quando hanno per protagoniste grandi multinazionali. E di fatto lo sono, perlomeno da parte dei gruppi più radicali. Come ho già detto, non ci sono parametri certi e condivisi e i governi non legiferano ancora.


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TerraChoice Environmental Marketing ha condotto una ricerca molto approfondita, studiando 1018 prodotti, le relative 1753 affermazioni ecofriendly per promuoverli e le informazioni fornite a supporto di tali affermazioni. La domanda che si poneva il team di ricerca era: che prova ho che questa affermazione sia vera? La conclusione a cui sono giunti è che per quanto riguarda la maggior parte dei prodotti non erano in grado di dare una risposta certa. In seguito hanno compilato una lista dei sei segni che possono aiutare a capire quando ci troviamo di fronte a un tentativo di green washing. Ecco dunque The Six Sins of Greenwashing, i peccati commessi nel tentativo di vendere un prodotto come amico dell’ambiente: 1. Peccato di nascosto tradeoff – affermazioni che suggeriscono che un prodotto è verde in base a un solo elemento che lo caratterizza, ad esempio l’essere fatto di carta riciclata, senza prestare alcuna attenzione ad altre tematiche, magari più importanti, come l’energia, il clima o l’acqua. Non sono affermazioni false, ma danno comunque un’immagine depistante del prodotto. Si tratta del peccato più commesso, riscontrabile nel 57% dei casi. 2. Peccato di mancanza di prove – affermazioni che non possono essere provate in base alle informazioni fornite o a una certificazione riconosciuta di un ente terzo, ad esempio di una ong. Il 26% dei claim non è sostenuto da prove né sul punto vendita né sul sito dell’azienda. 3. Peccato di vaghezza – affermazioni non chiare, vaghe. Cosa vuol dire, ad esempio “Prodotto naturale”? L’11% dei claim rientra in questa categoria. 4. Peccato di irrilevanza – affermazioni che, indipendentemente dall’essere veritiere, non sono importanti e non aiutano il consumatore a capire qualcosa di più del prodotto. Non serve ad esempio sapere che un deodorante non contiene cfc, dal momento che i clorofluorocarburi sono stati messi al bando da anni, ma il 4% dei claim fornisce proprio informazioni di questo tipo! 5. Peccato del “minore dei mali” – affermazioni che, anche se vere, possono distogliere il consumatore dal considerare l’impatto ambientale di determinate categorie di prodotti. I claim come “insetticida verde” rappresentano l’1% dei casi esaminati. 6. Peccato di falsità – meno dell’1% delle affermazioni esaminate sono risultate semplicemente false.


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Il green washing è un problema reale ed è avvertito come tale da molti consumatori, che spesso si chiedono se dare fiducia a prodotti e imprese che si dichiarano verdi. Tuttavia ritengo che, se da una parte è sbagliato ignorarne l’esistenza, dall’altra non sia giusto nemmeno condannare ogni tentativo da parte delle aziende di essere meno dannose per l’ambiente. Siamo all’inizio di un processo e discorsi radicali basati sulla logica del tutto o niente non considerano che muovere i primi passi in un nuovo territorio non è mai semplice. Gli errori sono inevitabili e non sempre sono commessi in malafede. Non bisogna poi dimenticare che i consumatori sono attenti e che il web permette a tutti di far sentire la propria voce. Fare green washing diventa sempre più pericoloso per le aziende, che rischiano di compromettere la loro reputazione in modo irreparabile. I blog, i social network, sono armi potentissime e mentire al consumatore è ormai controproducente. Quindi a buon intenditore… poche parole. In attesa degli standard avanzati e regolatori dei governi e della ue.

La Corporate Social Responsibility: un primo passo verso la sostenibilità Non è possibile parlare di Green Revolution e di green washing senza parlare di Corporate Social Responsibility. La definizione più appropriata e meno accademica l’ho trovata in Ethical Markets di Hazel Henderson: “Il management è sempre più focalizzato sulla propria responsabilità sociale. La maggior parte delle multinazionali ha abbandonato l’ideale economico del laissez-faire portato avanti dalla scuola di Chicago secondo il quale “the only business of business is to make profits for shareholders”. Una visione basata sulla convinzione che le regolamentazioni dei mercati sono inutili se non dannose. La storia ha dimostrato che non è così. Le aziende sanno che la globalizzazione e le nuove tecnologie ci portano verso una nuova era di verità. Nessuna attività dannosa per la società e per l’ambiente passerà inosservata: migliaia di associazioni quali Corpwatch.org, Global Exchange, World Social Forum, oltre a tutte quelle focalizzate su singole tematiche, dagli ogm al cambiamento climatico, monitorano costantemente il loro operato. I blog possono rovinare la reputazione di un brand e farne crollare il valore in tempo reale. Per


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questo, i ceo hanno dato il via a tantissimi progetti interni di corporate responsibility. Secondo una ricerca condotta da World Economic Forum e kpmg il 70% di loro ritiene che una “good corporate citizenship” sia ormai indispensabile per la redditività. La csr – come la chiamiamo noi – può essere vista come un primo passo da parte delle aziende verso una maggiore attenzione per le tematiche sociali e ambientali o come una sorta di ammissione di colpa, un’affermazione della loro paura. Molte società hanno la coscienza sporca per quanto riguarda i loro prodotti e i metodi di produzione. Non a caso qui in Italia le imprese statali o municipalizzate sono le più pronte a presentare bilanci sociali per coprire investimenti necessari non fatti. Ma in entrambi casi – coda di paglia o inizio di una nuova sensibilità – le iniziative di Corporate Social Responsibility sono l’ulteriore dimostrazione che il processo di cambiamento è iniziato e che nessuno vuole rimanere indietro. Gli stakeholders dovrebbero, in occasione della presentazione dei bilanci, avanzare le loro riserve, le loro lamentele, le loro accuse per spingere le aziende a fare sempre di più e sempre meglio. Per chiarire che la famosa pittatina di verde non basta. Qualche fenomeno critico è già avvenuto. Ad esempio quello di Beppe Grillo nei confronti di Telecom Italia. Ma era un bellissimo e divertente spot politico, nel quale la verve comica finiva per seppellire i contenuti. O quello di Antonio Di Pietro all’Eni. Ma anche in questo caso i contenuti sono rimasti schiacciati dalla forza della sua arringa. Possiamo migliorare. Tuttavia il bilancio sociale non è una raccolta di buoni propositi ma il resoconto di una serie di azioni che un’impresa ha messo in atto per inserirsi in modo più armonico nella società. Penso quindi che sia più utile giudicare quello che ha fatto, piuttosto che il motivo per cui l’ha fatto.

Credibilità, trasparenza e verità: i tre pilastri delle aziende del futuro Le aziende che ruoteranno intorno o che saranno attratte dalla Green Economy sono infinite. Per semplificare le dividerei in quattro grandi segmenti: • Quelle che nascono per il green market in questi anni. E sono già pronte al passaggio perché hanno messo a punto tutti i requisiti necessari


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per essere all’avanguardia. Per loro nel tempo si porrà solo il problema dell’adeguamento ai nuovi standard. Una per tutte: Whole Foods, il retailer texano con i supermercati green. • Quelle che stanno adeguando i loro prodotti per il mercato verde perché intravedono forti potenzialità di marketing nello sviluppo delle vendite e dei consumi. Queste società, come le case automobilistiche ad esempio, sono nella fase più difficile. Non possono fare green washing, devono sviluppare nuovi prodotti e i tempi che richiede l’operazione sono lunghi. • Quelle imprese i cui prodotti sono dannosi per l’ambiente, come ad esempio le società petrolifere. Alcune di loro si sono già attivate per rendere i metodi di estrazione più sostenibili, specie nei Paesi dove i governi non impongono alcuna normativa in questo senso, e stanno dando vita a nuove divisioni per lo sviluppo di energie rinnovabili. • Quelle che non potranno mai puntare su prodotti verdi. Penso alla siderurgia, ad esempio. Sono imprese che dovranno elaborare standard di processo molto accurati e rendere più verde tutta la supply chain. Le aziende che rientrano nelle prime due categorie dovranno concentrarsi sul marketing e sulla comunicazione, le altre sulla csr e sullo sviluppo di solide pubbliche relazioni per dimostrare i loro progressi. Ma tutte dovrebbero partire dalla trasparenza, perché il consumatore oggi preferisce una verità scomoda a una bugia: qualsiasi strategia di marketing dovrà avere alla base un impegno reale e provato da parte dell’impresa. Ma ancora non basta, perché in un mondo che diventa ogni giorno più verde i messaggi green saranno sempre più frequenti e bisognerà essere in grado di far sentire la propria voce. Per Andrew Shapiro, ceo della società di consulenza strategica nel campo della sostenibilità GreenOrder, la soluzione è avere cred, un acronimo delle parole chiave che definiscono i nuovi standard di marketing nell’ottica della Green Revolution: • Credibilità; • Rilevanza; • Efficacia del messaggio; • Differenziazione. Analizziamoli uno ad uno. Perché i consumatori dovrebbero credere a quello che viene detto loro?


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RELEVANCE How can we leverage green to create value?

CREDIBILITY

EFFECTIVE MESSAGING

Why should anyone believe us?

How to translate complex data into compelling messages?

DIFFERENTIATION Do we have unique goals and achievements?

Fonte: Strategies for the Green Economy, Joel Makower, 2008

Prima di tutto, quindi, la strategia di marketing e i messaggi di un’azienda devono essere credibili. E per esserlo è necessario che abbiano alle spalle dati certi ed elementi provabili. Questo non significa che tutte le informazioni che il consumatore potrebbe richiedere debbano apparire nelle pubblicità o sulle etichette, ma è fondamentale che possano essere a sua disposizione, ad esempio sul foglio informativo che accompagna il prodotto, sul sito web o ancora grazie a un call center dedicato. Shapiro riassume così il concetto: “Per essere credibile, devi poter dimostrare di avere fatto i compiti a casa”. E cita come esempio la ge e la sua ecomagination: “La ge fornisce dati molto precisi e dettagliati sui prodotti nati dal progetto su un apposito sito web, ma negli spot televisivi non sommerge gli spettatori di dati”. Infine non bisogna dimenticare che non sono solo i consumatori a pretendere informazioni dall’azienda, ma anche chi ci lavora. Per la maggior parte degli impiegati sapere che l’impresa per cui lavora non mente fa la differenza. Non basta che un progetto sia green, deve essere rilevante. E questo significa mettere a punto una strategia in grado non solo di raggiungere obiettivi a medio-breve termine, quali possono essere l’aumento delle entrate o la creazione di una buona reputazione, ma anche di rendere


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l’azienda più forte generando business value. In parole povere, bisogna essere certi che la strategia sia sostenibile anche da un punto di vista economico. Il segreto è far sì che le iniziative ambientali di un’azienda siano in linea con il suo core business e con le sue prospettive di crescita. Impresa non facile, come dimostra la storia di Bill Ford, che come ceo e presidente della casa automobilistica fondata dal nonno aveva varato una serie di progetti green, trasformando gli storici stabilimenti in veri e propri gioielli di architettura verde, senza però raggiungere altri e ben più importanti obiettivi prefissati, tra cui quelli di aumentare del 25% l’efficienza energetica di alcune serie di veicoli e di costruire 250 mila auto ibride entro il 2010. La domanda sorge spontanea: era più rilevante per il consumatore finale che la Ford avesse il tetto in erba o che producesse macchine che consumano meno benzina? Trovare la giusta strategia ambientale e raggiungere gli obiettivi dichiarati è fondamentale per un’azienda. Ma come farlo sapere al mondo? La maggior parte delle imprese comunicano che il taglio delle emissioni compiuto equivale ad aver tolto dalla strada un numero impressionante di auto, o che l’acqua risparmiata nei processi produttivi può riempire una quantità enorme di piscine olimpioniche. Ma siamo sicuri che questi messaggi, per giunta molto simili l’uno all’altro, siano significativi per il consumatore? Ho i miei dubbi. Bisogna trovare il modo di raccontare i dati che riguardano i progetti verdi in modo che arrivino al destinatario. Ci vuole qualcosa di nuovo. La riflessione non deve fermarsi al contenuto del messaggio ma anche al mezzo che lo veicola. L’advertising e le pr sono la scelta giusta? Non sempre è così. Non solo gli attivisti ma anche i consumatori si rendono conto che molte società spendono più soldi per comunicare i propri progressi di quanti ne abbiano investiti per raggiungere quegli obiettivi. Raccontare un mondo verde richiede un nuovo modo di comunicare. Infine occorre differenziarsi. La strategia deve essere distintiva, essere in grado di far capire che l’azienda si sta realmente impegnando e non sta semplicemente imitando progetti portati avanti da altre società. Oggi trovare iniziative che risultino uniche è molto più difficile che in passato, quando le imprese attive nel campo del green si potevano contare sulle dita di una mano. Ma differenziarsi non significa fare più degli altri, bensì fare qualcosa che abbia un’impronta inconfondibile e che i consumatori riconoscano immediatamente come la “via verde” scelta da una determinata azienda.


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Gli undici settori dei nuovi lavori green Il marketing avrà dunque il suo bel da fare… Ma i nuovi lavori green sono assolutamente interessanti. Glenn Croston, con un pragmatismo tutto americano, nel libro 75 Green Businesses, you can start make money and make a difference, ne ha fatto un elenco, analizzandoli uno ad uno. Le opportunità ci sono per tutti, dalle multinazionali agli artigiani. Croston ha individuato 11 aree principali: 1. Green Energy – comprende le attività legate alle energie rinnovabili, dal solare all’etanolo e all’idrogeno. 2. Green Homes – rientrano in quest’area tutte le attività legate all’ecoedilizia, dagli impianti fotovoltaici e geotermici per generare energia e calore ai materiali isolanti per non disperderlo. 3. Green Money – è l’area delle attività finanziarie legate al mondo green e comprende nuove figure professionali quali il carbon trader, il green investment advisor, il green startup finance broker, ecc. 4. Detox Solutions – comprende coloro che lavorano per diminuire l’impatto ambientale generato da ogni attività economica. 5. Wasting Less – tutte le attività legate alla trasformazione dei rifiuti in nuove risorse, aumentando l’efficienza e diminuendo l’inquinamento. 6. Green Food – tutte le attività che riguardano l’alimentazione, nell’ottica di mangiare meglio per se stessi e per il pianeta: healty fast food, probiotici, low carbon groceries, ecc. 7. Water – lavorare per fornire acqua pulita a tutti, dal riciclo alla raccolta di acqua piovana. 8. Green Services – un’area davvero ampia, il terziario verde: green hotels, green advertising, ecoturismo, architettura green e chi più ne ha più ne metta! 9. Green Transportation and Cities – tutta le attività legate alla trasformazione delle aree urbane e suburbane e dei trasporti in senso green, dalle stazioni di servizio che vendono carburanti alternativi al carsharing ai green bar. 10. Green Farms – attività agricole per produrre cibo più sano e carburanti alternativi. 11. Entrepreneurial Green Careers – qualsiasi attività può essere affrontata in modo “green”. Leggendo l’elenco dei lavori, si ha l’impressione che si parli di realtà molto lontane dai noi. Non è così. Il futuro è più vicino di quel che si pensi e


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Green farms

Green money

Green food

Green homes

Green energy

GREEN BUSINESS Green transports and Cities

Entrepreneurial green carriers

Detox solutions

Wasting less

Waters

Green services

si avvicina a passi sempre più veloci, perché, come ho già detto, la Green Revolution è un processo che si autoalimenta. Vi faccio un esempio concreto: l’edilizia. Già oggi molti nuovi edifici vengono costruiti secondo i criteri di eco-building che puntano sulle energie rinnovabili, sui materiali isolanti. Sistemi per rendersi autosufficienti e forse, in futuro, riuscire a vendere parte dell’energia prodotta e non consumata. Negli Stati Uniti è possibile sapere se la casa in cui viviamo è efficiente dal punto di vista energetico, costruita con materiali non tossici e non spreca risorse. E nel caso l’analisi dia esito positivo, ottenere una certificazione. Il tutto grazie a leed (Leadership in Energy and Environmental Design, www.usbg. org/leed). Ma c’è di più. Il futuro è anche l’Energy Internet, un passo avanti oltre la domotica. Significherebbe poter collegare la casa a una griglia di consumo e attraverso questa direttamente al fornitore di energia. Oggi è tutto molto rigido. E furbo. È un sistema dove chi non presta attenzione rischia che gli vengano lasciate in vigore le tariffe del decennio precedente. Domani le cose potrebbero funzionare in modo molto diverso: il tuo fornitore via internet, grazie a una griglia one to one, ti darà l’energia quando costa meno e tu potrai vendere a lui l’energia se e quando la produrrai in eccesso. La griglia farà lavorare i tuoi elettrodomestici nei momenti il cui


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il prezzo dell’elettricità sarà più basso e il processo di produzione di energia emetterà meno co2. In poche parole, aderirai a una piano energetico che nascerà dall’incontro tra te e il tuo fornitore, basato sulla convenienza e sullo scambio tra l’energia che tu hai fatto in casa e quella che lui ha prodotto. Il contratto o il piano da te scelto terrà conto di tutte le variabili per garantire a entrambi la massima convenienza. E tutto sarà regolato automaticamente via internet. È futuro? Certo, ma potrebbe essere veramente dietro l’angolo. Nell’economia del futuro una delle parole d’ordine sarà ecotrasparenza. E ciò significherà che domani la regola “il profitto prima di tutto” non sarà più valida e il modello d’impresa cambierà radicalmente. Non perché di colpo le aziende scopriranno una nuova morale, ma perché il consumatore pretenderà chiarezza e coerenza che verranno premiate, riorientando il capitalismo in modo positivo.



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5. Cambia l’economia, cambia la politica. Il primo grande effetto della Green Revolution The Rise of the Rest, la crescita degli altri, di quei Paesi che fin’ora non sono stati fra i protagonisti della scena internazionale. Ecco il leitmotif dei prossimi anni. L’egemonia incontrastata degli Stati Uniti, che ha avuto inizio con la crisi e il crollo dell’Unione Sovietica e del comunismo negli Stati satellite, è finita con l’era Bush. È finita con la perdita di potere da parte dell’asse petrolio-auto-banche. È finita con la guerra in Iraq, condotta non solo al fine di assicurare il rifornimento di oro nero ma anche per ribadire la forza dello Zio Sam a tutte le potenze mediorientali, ma si è trasformata in un piccolo Vietnam. È finita con il tramonto di una fonte di energia, il petrolio. Questo non significa che gli Stati Uniti non avranno più alcun ruolo nel mondo che verrà, ma sicuramente non manterranno l’egemonia riconosciuta da tutti della quale hanno goduto per un ventennio. Secondo i migliori analisti politici – tra cui Fareed Zakaria, autore del best seller Post America World – la loro posizione sarà quella di primus inter pares. Dove i pares saranno i paesi in crescita, il bric (Brasile, Russia, India, Cina) soprattutto, ma anche la nostra Europa. I membri del g20, per intenderci. Per altri analisti lo scenario geopolitico sarà ancora più radicale e avrà per protagonisti soltanto usa e Cina: il loro accordo – o disaccordo – influenzerà il xxi secolo proprio come la rivalità fra americani e sovietici ha caratterizzato il Novecento. Una premessa: in questo capitolo il mio obiettivo non è delineare quali saranno i possibili scenari futuri ma inquadrare il fenomeno della


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Green Revolution nel contesto politico, ponendo come base il cambiamento energetico. Perché, come ho detto più volte, quando cambia l’energia che muove il mondo, il mondo cambia con lei. Anche in questo caso non saprei dire se è nato prima l’uovo o la gallina, se cambi prima l’economia o la politica. Quello che so è che si spingono a vicenda nella stessa direzione.

Il cibo cambierà la politica mondiale Gli equilibri della seconda metà del secolo scorso sono stati plasmati in buona parte dalla forza dei grandi produttori e dei maggiori consumatori di petrolio. Il passaggio a nuove fonti di energia, o quantomeno al ridimensionamento del ruolo del petrolio, sta già influenzando i rapporti fra Stati. Ma c’è un altro elemento che dobbiamo considerare tra i fattori che peseranno maggiormente sugli orientamenti delle nazioni nel giro di pochissimi anni, vale a dire la crescita demografica. Ma forse è più adatto il termine “esplosione”. Prendiamo il caso della Cina, una delle potenze che dominerà il mondo ma anche un Paese la cui economia subirà maggiormente le conseguenze del boom delle nascite. Ricordate quei 2,8 miliardi di persone che si aggiungeranno al numero attuale di abitanti del pianeta entro il 2050? Poco meno della metà di loro sono cinesi. La Cina infatti si sta già preparando ad affrontare l’incremento di bocche da sfamare. Come? Comprandosi l’Africa, ad esempio. Per le materie prime, per il petrolio del Sudan, della Nigeria e dell’Angola, per il rame dello Zambia, per il legno del Congo, ma anche per i vasti terreni agricoli dell’Etiopia, dello Zimbawe, del Mozambico, del Kenya. Perché presto la parola magica sarà cibo. L’Africa è destinata a diventare la Cina della Cina, un mercato che offre manodopera, materie prime e prodotti a basso costo. Al banchetto stanno prendendo parte anche India e Stati Uniti, mentre l’Europa, dopo averla colonizzata e depredata, ma comunque conosciuta, esce di scena. Ho scelto di parlare del cibo per dimostrare che le grandi potenze si stanno preparando ad affrontare un futuro che porterà con sé problematiche nuove e che le sfide che ci aspettano non sono solo quelle tecnologiche o scientifiche – le telecomunicazioni, la nanotecnologia, la medicina – ma riguardano prima di tutto la sopravvivenza. E tra le sfide per la sopravvivenza rientra a pieno titolo quella energetica. Perché, come ho scritto nel


5. Cambia l’economia, cambia la politica: il primo grande effetto della Green Revolution | 87

primo capitolo – ma va ripetuto all’infinito – se continuiamo così, siamo destinati all’estinzione. Cambiare l’energia è dunque una questione di sopravvivenza, e il cambiamento sarà alla base di un nuovo sviluppo economico che determinerà nuove egemonie politiche. Se gli Stati Uniti resteranno leader nel campo delle tecnologie necessarie alla crescita della Green Economy, si troveranno alla guida dello sviluppo mondiale. Se la nazione che detiene già il primato nei campi della medicina, dell’it, della difesa, prenderà il largo anche nella corsa all’oro verde, il gap che già esiste con tutti gli altri Paesi diventerà incolmabile. Soprattutto nei confronti di quegli Stati, come India e Cina, che dovranno fronteggiare un boom demografico che non coinvolgerà le nazioni occidentali.

Amici e nemici della Green Economy La competizione è affascinante e molti sono già ai blocchi di partenza. Yukio Hatoyama, il nuovo premier del Giappone che, è bene ricordarlo, vanta il secondo pil più alto del mondo, appena nominato ha annunciato che la Green Revolution ricoprirà un ruolo di primo piano all’interno del suo programma. Di Obama, della sua elezione dovuta alla convergenza tra Green Wave e crisi economica, ho già scritto, così come della sua agenda politica verde. Ma anche da noi, nella Vecchia Europa, la Merkel, nel suo programma elettorale, evidenzia le grandi potenzialità di sviluppo della Green Economy. Sarkozy lo scorso maggio ha riunito le due camere a Versailles – non accadeva dai tempi del Re Sole – per annunciare solennemente il proprio impegno verso una nuova politica ambientale. Di un altro francese, Daniel Cohn-Bendit e del successo ottenuto alle ultime elezione europee con il partito verde abbiamo già parlato. Passando alla Gran Bretagna, il leader dei Tories David Cameron, che con ogni probabilità succederà a Brown, ha già lanciato il suo programma green. Stiamo parlando di leader che vivono nel presente e hanno il polso dei Paesi di cui sono alla guida, ma che devono anche preparare il loro futuro. E il futuro del mondo è la Green Revolution. Ma non dimentichiamo che il cammino è ancora lungo e che i “nemici” sono alle porte. La cricca auto-petrolieri-banche non vuole perdere il suo potere. Sono in agguato, ma anche pronti al tradimento. I segnali, a voler ben guardare, ci sono già. Alcune compagnie petrolifere stanno co-


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minciando a varare progetti per lo sviluppo delle energie rinnovabili, per cavalcare l’onda del cambiamento senza esserne travolte. La Exxon ad esempio, in occasione della nascita della propria divisione creata ad hoc, ha tappezzato New York di poster, come se dovesse comunicare il lancio di una start up. Stanno investendo, ma il rapporto tra investimenti in ricerca petrolio e fonti rinnovabili è ancora bassissimo. Uno a 80 per capirci. Passi avanti ne sono stati fatti, ma la svolta vera deve ancora venire. Gli Stati arabi hanno approfittato della recessione per comprare le nostre aziende, anche se la recente crisi economica del Dubai può far nascere qualche dubbio sulla loro effettiva capacità di imprenditori al di fuori dei confini petroliferi. Tuttavia banche, fabbriche, cinema, attività che con il petrolio non hanno niente a che fare, sono ormai diventate proprietà degli Stati petroliferi o dei loro governanti. La General Motors, dopo il fallimento e la rinascita, ha annunciato il lancio della nuova Colt ibrida entro il 2010 e la Renault metterà sul mercato entro il 2011 ben quattro auto elettriche. Warren Buffet, il mago di Omaha, ha da poco investito 230 milioni di dollari per acquisire il 10% della byd (Built Your Dreams), azienda cinese che produce auto elettriche e batterie al litio – il nuovo oro – fondamentali per lo stoccaggio dell’energia prodotta dalle centrali eoliche e solari e la maggioranza della più grande compagnia ferroviaria statunitense, anch’essa fondamentale per i trasporti del futuro: su ferro e non più su gomma. Le banche sono ancora troppo occupate a leccarsi le ferite dopo la botta della recessione, ma stanno già tornando all’attacco. Tutto questo per dire che i nemici ci sono e sono agguerriti. Ma che al contempo cominciano a scorgere anche per loro nuove prospettive all’interno della Green Economy. Come abbiamo visto, la maggior parte dei leader politici ha inserito tocchi di verde, con le sue diverse sfumature, nella propria agenda. Tranne che nel nostro Belpaese che del verde potrebbe invece fare una piattaforma di rilancio economico e politico.

Il programma di Van Jones ovvero l’agenda politica green di Obama In usa un tentativo di elaborare una piattaforma verde è stato fatto da Van Jones, fondatore e presidente di Green For All, scelto da Obama come Consigliere speciale per l’ambiente, carica che ha abbandonato in se-


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guito agli attacchi riguardanti dichiarazioni radicali rilasciate in passato su temi scottanti quali il coinvolgimento dell’amministrazione Bush nei fatti dell’11 settembre. In Green Collar Jobs, libro scritto prima delle elezioni e che ha profondamente influenzato il programma del 44esimo presidente degli Stati Uniti, Van Jones suggerisce alcuni punti fondamentali per dare vita a un’agenda legislativa verde: • Riaprire i negoziati internazionali e stabilire una connessione tra la politica commerciale e il global warming – gli usa devono ricominciare a prendere parte attiva ai negoziati sul clima, a partire dalla Climate Change Conference di Copenhagen. Inoltre dovrebbero dare un grande peso al cambiamento climatico nello stabilire la linea di politica commerciale a livello internazionale. • Ridurre le emissioni di gas serra attraverso la strategia cap-trade-invest – la nuova amministrazione dovrà considerare una priorità assoluta la riduzione delle emissioni e lavorare con il Congresso per approvare un’ampia legislazione per combattere il cambiamento climatico. Il sistema Cap and Trade mette un “tappo” alla quantità di gas serra che un’azienda può emettere; quando lo supera, deve acquistare crediti da parte di imprese che restano al di sotto del tetto, così da premiare l’efficienza energetica e l’utilizzo di energie pulite. L’amministrazione corretta di questo sistema frutterebbe alle casse dello Stato, secondo il Congressional Budget Office, tra i 50 e i 300 miliardi di dollari all’anno, che potrebbero essere investiti per finanziare il passaggio del Paese a un’economia verde. • Costruire una nuova “clean energy smart grid” – la rete elettrica statunitense è vecchia e inefficiente. Il presidente dovrà dare al Paese una “smart grid”, in grado di trasportare anche l’elettricità prodotta da fonti rinnovabili, digitalizzando la fornitura di energia. Il suo funzionamento dovrebbe ispirarsi a quello di internet: una rete di device che comunicano tra loro per bilanciare la richiesta e la produzione di energia. Questo consentirebbe in primo luogo di ridurre gli sprechi e ne deriverebbe una riduzione delle emissioni e dei costi. Inoltre il progetto creerebbe migliaia di posti di lavoro. • Investire nei green jobs – per rendere verde l’economia c’è bisogno di lavoratori specializzati. Finanziare i green jobs e la formazione dei Green Collars è essenziale per raggiungere gli obiettivi. • Aumentare la produzione di elettricità derivata da fonti rinnovabili – dobbiamo sfruttare tutte le fonti di energia rinnovabile. La prossima amministrazione dovrebbe imporre che entro il 2025 almeno il 25%


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dell’elettricità derivi del solare, dall’eolico, dalle biomasse, dalle maree. La creazione di energia elettrica e i riscaldamenti sono responsabili infatti di oltre il 30% delle emissioni degli Stati Uniti. Diversificare il sistema di trasporti, favorendo quello su rotaie – il prezzo dei carburanti, l’inquinamento, il traffico e il contributo delle emissioni al cambiamento climatico dovrebbero spingere il presidente a investire in nuovi mezzi di trasporto per le persone e per le merci, a livello locale, regionale e statale, in particolare ferrovie ad alta velocità. La costruzione delle infrastrutture creerebbe migliaia di posti di lavoro. Incentivare la produzione di auto che consumano meno – il governo dovrebbe imporre alle case automobilistiche la produzione di auto più efficienti dal punto di vista energetico e incentivare i consumatori ad acquistare veicoli energy-saving o alimentati da carburanti alternativi. Questi provvedimenti darebbero una nuova spinta al mercato dell’auto e ridurrebbero la dipendenza degli usa dai combustibili fossili. Non a caso Obama ha chiamato Marchionne, regalando di fatto alla Fiat la Chrysler. Cambiare le abitudini alimentari – oggi i sussidi favoriscono pratiche agricole industriali, basate sull’uso di pesticidi, dannose per la salute del territorio e dei consumatori. Politiche e progetti federali possono invece spingere l’agricoltura verso una maggiore sostenibilità con iniziative di sostegno finanziario per le aziende che rispettano le norme ambientali e per quelle che vogliono passare al biologico, di educazione alimentare delle comunità, di microcredito per imprenditori che vogliono entrare nel mercato agricolo. Vietare la costruzione di nuove centrali a carbone che non catturino e immagazzinino le emissioni di co2 – è necessario che governo e privati collaborino per sviluppare al massimo le tecnologie in grado di catturare le emissioni delle centrali elettriche alimentate a carbone. E ci vorranno anni. Per questo nel frattempo l’amministrazione dovrà impedire che ne vengano costruite di nuove. Sviluppare carburanti sostenibili a emissioni limitate – per ridurre l’uso di combustibili fossili, la nuova amministrazione dovrà imporre che entro il 2025 il 25% dei combustibili utilizzati per i mezzi di trasporto derivi da fonti rinnovabili. In particolare bisognerebbe favorire lo sviluppo dei biofuel derivanti da biomasse non alimentari come il panico verga (in inglese switchgrass), gli scarti agricoli e quelli della lavorazione del legno. E renderli disponibili in ogni stazione di servizio.


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• Tagliare i sussidi e le facilitazioni fiscali per i produttori di petrolio e di gas – il governo federale ogni anno investe miliardi di dollari in sussidi e facilitazioni fiscali per questo settore. Soldi che possono invece essere destinati a sostenere lo sviluppo e la commercializzazione di nuove energie pulite e sostenibili. Un programma vasto e complesso, che in alcune parti ricorda da lontano i famosi “punti” di Socolow e Pacala citati nel primo capitolo.

L’onda parte dal basso, dalle municipalità Ma se è vero che il governo deve assumere il ruolo di guida della green wave, è anche vero che è a livello locale che si gioca la vera partita del cambiamento perché, come non mi stanco di dire, la rivoluzione verde è un movimento che parte dal basso. Sono quindi le agende delle amministrazioni locali a rivestire un ruolo di primo piano. Le città, ad esempio, occupano solo il 2% della superficie terrestre, ma consumano il 75% delle risorse e producono il 75% dei rifiuti, inquinamento compreso. Quello che accadrà nei centri urbani nei prossimi anni potrà salvare il pianeta. O condannarlo definitivamente. Sempre Van Jones racconta come Chicago sia diventata una città verde grazie soprattutto alla volontà del sindaco Richard M. Dealey che, ancor prima che il cambiamento climatico arrivasse a occupare le prime pagine dei giornali, ha intuito la forza sociale ed economica del green. L’obiettivo era inizialmente migliorare la qualità della vita e rendere la Windy City un luogo migliore dove abitare, lavorare, creare nuove imprese. Ma dopo che lo studio di un team di climatologi finanziato dalla città ha previsto che entro il 2095 il clima di Chicago sarebbe diventato uguale a quello della calda e afosa Houston, in Texas, l’obiettivo si è ampliato: fare in modo che la fredda Windy City resti tale. Così l’ambientalismo è entrato a far parte del progetto di Dealey, che ha risposto alla previsione lanciando una nuova sfida, ridurre le emissioni dell’80% entro il 2050. E ha varato una serie di agevolazioni finanziarie per attrarre le aziende green. Risultato? L’economia della città è esplosa. Le nuove aziende hanno creato posti di lavoro e hanno posto le condizioni per la nascita di imprese che lavorano nell’indotto. Inoltre il mercato di prodotti verdi è stato sostenuto attraverso finanziamenti per stimolare gli abitanti a compiere scelte d’acquisto green. Un esempio? La città ha


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offerto a un produttore di pannelli solari di comprare materiale per cinque milioni di dollari a patto che trasferisse a Chicago il suo stabilimento. Oggi il 99% dei lavoratori dell’azienda sono Chicagoans e i semilavorati per produrre i pannelli sono forniti da aziende locali. E chi desidera installare pannelli solari gode di prestiti e agevolazioni. Tra le principali iniziative ci sono la Green Business Strategy e i Greencorps. La prima è un programma che aiuta le aziende a compiere la loro “rivoluzione verde”, dando vita a un network di società che crea un flusso benefico di interconnessioni e scambi economici. I Greencorps sono nati per dare nuove prospettive ai 20 mila ex carcerati della Windy City che ogni anno tornano in libertà inserendoli in contesti lavorativi legati alla Green Economy. Grazie a una partnership tra amministrazione, aziende e realtà non profit, agli ex detenuti viene offerta la possibilità di frequentare un corso di formazione di nove mesi che garantisce stage retribuiti e un servizio di placement. Il caso di Chicago illustra perfettamente la forza della combinazione di nuovi standard, investimenti, incentivi e innovazione e il suo esempio sta facendo scuola in tutti gli Stati Uniti. Sono sempre più i sindaci e le amministrazioni locali che varano politiche con l’obiettivo di migliorare nello stesso tempo le condizioni ambientali, sociali ed economiche delle comunità. Perché la forza della rivoluzione verde risiede proprio in questo, nell’essere “buona”, basata su ideali giusti, necessaria, ed essere anche un volano per l’economia. La Green Economy è destinata a crescere, creando non solo nuovi posti di lavoro ma anche nuovi tipi di lavoro. Quali dunque le iniziative a livello locale che possono favorirne lo sviluppo? È ancora una volta Van Jones a fornire una risposta: • Riqualificazione energetica degli edifici – ogni città dovrebbe imporre che le nuove costruzioni applichino i più severi standard in materia di efficienza energetica, ma un’operazione non meno importante è quella di riqualificare gli edifici già esistenti. L’amministrazione dovrebbe cominciare dalle proprie strutture, mettendosi alla guida del movimento. Soltanto dopo dovrebbe richiedere lo stesso sforzo a tutti i cittadini, venendo loro incontro con agevolazioni e finanziamenti. • Creazione di Green Assessment Districts – gli Assessment Districts sono una realtà ben conosciuta negli Stati Uniti. Come funzionano? Faccio un esempio pratico. Gli abitanti di un quartiere vogliono rifare i marciapiedi della zona. Dando vita a un Assessment District, decidono di pagare un extra rispetto alla propria tassa di proprietà. L’impresa che esegue i lavori viene pagata dalla città attraverso i soldi raccolti


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con l’autotassazione degli abitanti coinvolti nel progetto. Le amministrazioni locali potrebbero creare dunque dei Green Assessment Districts per finanziare, ad esempio, l’installazione di pannelli solari su tutti i tetti della città. • Stabilire un cb (Carbon Budget) – le amministrazioni dovrebbero stabilire l’impatto ambientale in termini di emissioni di co2 di tutte le attività. Utilizzando questo metodo, sarebbe più semplice capire, ad esempio, se “conviene” abbattere un edificio per costruirne uno nuovo oppure avviarne la ristrutturazione. Per cominciare, una città potrebbe stabilire il Carbon Budget della riqualificazione energetica degli edifici pubblici. • Stabilire nuovi obiettivi: alimentazione “a km 0”, zero rifiuti, energie rinnovabili – i governi locali possono mettersi alla guida di progetti a supporto del consumo di cibo prodotto nella zona, della massima riduzione dei rifiuti e dell’utilizzo di energie rinnovabili. Anche un pranzo leggero può aver causato enormi emissioni di co2 se gli alimenti per arrivare in tavola hanno viaggiato per molti chilometri. Aumentare la percentuale di alimenti di produzione locali consumati dagli abitanti della città significa dunque dare un contributo non indifferente alla lotta contro il cambiamento climatico e al tempo stesso incentivare l’agricoltura della regione. I programmi di riduzione drastica dei rifiuti urbani diminuiscono sprechi e inquinamento e creano nuovi lavori necessari per riciclare e riutilizzare prodotti e parti di prodotti che altrimenti finirebbero nelle discariche. Le amministrazioni inoltre possono incentivare l’utilizzo di energie rinnovabili con finanziamenti e prestiti ai cittadini. E questi non sono che tre esempi di quello che i governi locali sono in grado di fare stabilendo nuovi standard. • Dare vita a una nuova urbanistica – nel passato i piani urbanistici hanno incentivato la fuga dai centri verso i sobborghi, creando effetti negativi quali la disgregazione del tessuto urbano, l’eliminazione di spazi verdi e un maggiore utilizzo delle automobili. Una possibile soluzione è creare città con più centri dove gli abitanti possano vivere, lavorare e trovare tutti i servizi necessari, dalla spesa al tempo libero. E dotarla di un sistema di trasporto pubblico capillare. La struttura delle nostre città e i trasporti pubblici sono al centro del progetto per ridurre le emissioni suggerito da Nicholas Stern nel volume Un piano per salvare il pianeta. Stern, docente di Economics and Government alla London School of Economics, parte da un dato diffuso dallo


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uk Department for Transport: in Inghilterra l’intasamento delle strade a causa del traffico ha effetti enormi sull’efficienza con cui usiamo il tempo e l’energia e provoca ogni anno perdite di sette-otto miliardi di sterline. Bisogna dunque dare un’impostazione sostenibile alla politica urbanistica e dei trasporti, politica che per il professore dovrebbe prevedere le seguenti azioni: • Tassare le emissioni. • Tassare la congestione del traffico e incentivare il trasporto condiviso, ad esempio con corsie preferenziali riservate alle auto con più passeggeri. • Migliorare l’efficienza energetica. • Investire di più nel trasporto pubblico, prestando maggiore attenzione ai costi e all’efficienza. • Incentivare l’uso della bicicletta rendendolo più facile e più sicuro. • Regolare l’espansione della città e trasformarne la struttura per far sì che gli abitanti non abbiano la necessità quotidiana di usare la macchina. • Semplificare le procedure per autoprodurre energia e venderla alla rete elettrica. • Prendere in considerazione la possibilità di una distribuzione combinata di energia e calore. • Incoraggiare le iniziative imprenditoriali locali nell’ottica di consentire ai cittadini di fare meno chilometri per recarsi sul posto di lavoro, risparmiando tempo ed energia. • Incentivare e facilitare il riciclo dei rifiuti. Come sottolinea Stern, per mettere in atto questi dieci punti è necessaria un’azione collettiva ma soprattutto è indispensabile un deciso intervento pubblico. Si tratta infatti di dare un nuovo indirizzo, una nuova impostazione organizzativa alle comunità e in questa partita le amministrazioni locali giocheranno in un ruolo decisivo.

La Green Economy: una nuova opportunità per l’Italia Permettetemi una citazione autobiografica. Nel ’96, durante la mia carriera politica, scrissi un libro dal titolo L’Italia liberata, una specie di pamphlet sulle possibilità di sviluppo del nostro Paese a sostegno delle liberalizzazioni. Ma da allora nulla è avvenuto. Io non sono riuscito a cambiare la situazione e non ce l’hanno fatta nemmeno persone con molto più potere.


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Siamo una nazione ferma, senza prospettive. Un tempo avevamo il turismo, ma oggi siamo scesi al 6/7 posto nella classifica dei Paesi con maggiore presenza di visitatori. Avevamo la piccola impresa, vietcong dell’economia, lanciata in missioni impossibili e sempre vincente. Ricordate il distretto del Nord-Est? Che fine ha fatto? Dove sono i capitani (d’industria) coraggiosi? La grande impresa, tolta la Fiat e poche altre, non l’abbiamo mai avuta. La nostra imprenditoria nel corso degli anni Novanta si è “venduta” allo straniero. Prendiamo ad esempio la grande distribuzione: resiste Caprotti con la sua Esselunga, resiste la Coop. E… litigano tra loro come i capponi di Renzo. Tutto il resto è finito nelle mani delle multinazionali. E questo vale per ogni settore. Come se nello scorso decennio l’Italia intera avesse pensato: qui non c’è futuro, solo preoccupazioni, vendiamo baracca e burattini e godiamocela. Un Paese senza obiettivi. Perdonate la radicalità dei giudizi. Non è mia intenzione fare un’analisi della situazione economica e politica italiana. Tratto questi argomenti solo per inquadrare il contesto in cui si inserisce la vera protagonista: la rivoluzione verde. Quando ho incominciato a interessarmi di Green Economy non vedevo prospettive per il nostro Paese. Oggi l’onda verde che avanza mi fa scorgere nuove possibilità. In altre parole, ritengo che la Green Revolution possa essere il futuro dell’Italia, forse il focus che le manca. Il nostro è già un Paese verde per le sue bellezze naturali, per le città d’arte, per i migliaia di borghi a misura d’uomo, per la cucina e i prodotti agricoli – tra le altre cose, siamo primi in Europa per coltivazioni biologiche – per la prossima Expo di Milano dal titolo Feeding the Planet, per il movimento Slow Food, per il mare che ci circonda. Per tutte queste ragioni l’Italia si presta a essere la flagship nation del green. Occorrerebbe soltanto farle comprendere l’importanza dell’obiettivo e indirizzare tutte le energie della nazione per il suo raggiungimento. Detto in altri termini, il Paese è pronto per un’agenda legislativa verde. Non ha controindicazioni. Anzi, ne ha bisogno. Ne hanno bisogno le sue aziende, piccole e medie in primo luogo, che devono trovare un nuovo focus e possono trovarlo nella Green Economy. Basta incentivarle. Non è questo il luogo per approfondire l’argomento in quanto occorre inserire i progetti in una visione più complessiva che dia loro sostanza e concretezza e che comprenda anche la politica estera dove la Green Economy potrebbe essere una strategia di sviluppo.


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L’Italia fino alla caduta del Muro di Berlino è stata una nazione di confine con il mondo aldilà della cortina di ferro, una nazione coinvolta in una guerra (fredda, ma pur sempre guerra), con tutte le conseguenze che questo implica e che ancora oggi ci trasciniamo dietro. Pertanto non abbiamo mai avuto una politica estera realmente autonoma rispetto alla linea dettata dagli Stati Uniti. E dopo? Abbiamo cercato di salvarci salendo sul carro del vincitore. E quindi ci siamo trovati ancora a seguire in maniera acritica gli usa. Oggi siamo senza un obiettivo. E il Mediterraneo? Non era il Mare Nostrum? E l’Africa, destinata a vedere la propria popolazione crescere del 100% nei prossimi dieci anni? Quel continente, a partire dal bacino del Mediterraneo, potrebbe essere la nostra salvezza. Potremmo farlo diventare il nostro focus in politica estera e in termini di sviluppo economico. Diventando noi il Paese della Green Economy ed esportando i nostri nuovi prodotti verdi nel più grande continente in crescita nei prossimi cinquant’anni. Coniugando sviluppo e sostenibilità. Percorrendo per primi una strada che tutti, presto o tardi, dovranno imboccare.



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6. Meno CO2 anche nella comunicazione

Lo ripeto fin dalle prime pagine di questo libro: la Green Revolution coinvolgerà tutti gli aspetti della nostra vita. E ovviamente non lascerà indenne il mondo della comunicazione, modificando sia i contenuti dei messaggi sia la scelta dei media destinati a diffonderli. Ma prima di parlare del futuro occorre soffermarsi su quelle che sono le caratteristiche di questo mondo oggi e delinearne brevemente la storia. La comunicazione negli ultimi decenni ha assunto un enorme potere, concentrato in pochissime mani: l’intermediazione e i contenuti sono forniti al 70% circa da sei grandi gruppi. E solo poche multinazionali firmano più del 50% della comunicazione a livello mondiale. Concentrazione sul lato dell’offerta ma anche su quello della domanda: nel nostro Paese, ad esempio, gli investimenti pubblicitari di 1000 imprese rappresentano oltre l’80% dello spending totale sui media italiani. Se dunque la comunicazione è uno strumento potentissimo nelle mani di poche aziende, è facile dedurre come queste ultime possano influire sulle sorti della cultura, degli stili di vita, sull’evoluzione del linguaggio, sulla globalizzazione dei comportamenti, sull’omologazione di valori e disvalori e su un uso standardizzato dei media. In poche parole, la comunicazione commerciale è divenuta un’arma di “conquista di massa”, paragonabile agli eserciti d’invasione di un tempo. Della serie: fa più una Coca-Cola di mille fucili. Le multinazionali – e attraverso di loro molti governi – ne sono consapevoli e si affidano a essa per rafforzare la propria egemonia. Anche in questo caso mi trovo a chiedermi se sia nato prima


100 | GO GREEN Fasce di utenza

Numero

Investimento (euro)

da 0 a 300

1.814

318.399

da 301 a 500

1.429

562.545

da 501 a 1.000

2.45

1.783.866

da 1.001 a 5.000

7.342

18.982.017

da 5.001 a 10.000

3.399

da 10.001 a 20.000

2.954

42.204.796

da 20.001 a 50.000

2.934

94.525.475

da 50.001 a 100.000

1.664

118.746.353

da 100.001 a 500.000

2.43

546.013.446

da 500.001 a 1.000.000

582

da 1.000.001 a 5.000.000

764

1.651.987.322

da 5.000.001 a 10.000.000

155

1.126.805.895

da 10.000.001 a 50.000.000

143

2.982.652.080

da 50.000.001 a 10.000.000

16

1.104.590.161

da 10.000.000 a --

8

58%

38%

4%

24.337.870

404.897.443

1.235.602.777

1%

13%

86%

Fonte: AssoComunicazione, 2008

l’uovo o la gallina, se questa situazione sia la naturale conseguenza dello sviluppo della comunicazione commerciale e del potere che ha assunto negli ultimi decenni o se sia frutto di una volontà studiata a tavolino. Personalmente propendo più per la prima ipotesi, quella di un’arma destinata col tempo a divenire sempre più letale senza che chi la utilizzava ne fosse pienamente cosciente, piuttosto che per la visione complottista. Quello che ormai è certo è che tutti sono coscienti della potenza di fuoco della comunicazione, tanto che sempre più spesso viene utilizzata per fini diversi da quelli originari. In questo senso non è un caso il proliferare di leader politici provenienti dal mondo della comunicazione e che dalla comunicazione traggono la loro forza. E non parlo solo di Paesi del Terzo Mondo. Ma ovviamente l’influenza più forte è quella che la comunicazione esercita sul suo target di riferimento: i consumatori. Un’influenza che agisce in modo pressoché identico in tutto il mondo, omologando comportamenti, scelte di consumo, atteggiamenti, valori. E non sempre si tratta


6. Meno CO2 anche nella comunicazione | 101

di valori migliori di quelli che vanno a sostituire. È un fenomeno sotto gli occhi di tutti e per averne una prova basta osservare i giovani, dalle baraccopoli africane alle città nordeuropee, e le loro scelte in fatto di abiti, bibite, musica, in una parola mode.

Worldwide communications services expediture 2008 m$ Public relations

Direct & specialist comm.

Sponsor ship

TOTAL

Advertising

Market research

North America

172.033

9.686

3.8

84.6

16.61

286.729

Latin America

18.766

1.43

265

19.5

3.4

43.361

Europe

124.244

13.3

2.4

99

11.7

248.644

Asia Pacific

116.603

4.3

980

32.7

9.5

164.083

MEA & rest of the world World total

12.968

1.9

14.868

444.614

28.716

7.445

235.8

43.11

759.685

Worldwide communications services expediture 2004-2008 m$ 800,000

750,000

700,000

650,000

600,000 2004

2005

2006

2007

2008

Fonte: Group M – WPP Annual Report & Accounts 2008

2009


102 | GO GREEN

Un mondo omologato e controllato nei valori e nell’utilizzo dei media Tre dunque sono le caratteristiche, collegate l’una alle altre, che contraddistinguono il mondo della comunicazione: l’omologazione dei consumi e dei consumatori, indotta sostanzialmente dall’advertising; la concentrazione dello spending in poche mani, sia sul fronte degli investitori sia su quello dell’intermediazione e della creazione di contenuti; la relativa omogeneità nella scelta e nell’uso dei media. Diamo uno sguardo ai grafici, che insieme danno un chiaro quadro d’insieme del mondo della comunicazione oggi e delle tendenze che lo caratterizzano.

Il sistema dei media nel mondo

EUROPA NORD AMERICA RESTO DEL MONDO

AFRICA E MEDIO ORIENTE AMERICA LATINA

TV

OOH

RADIO

STAMPA

WEB

CINEMA

Fonte: Comunicare Domani, 2009

Dai dati emerge un solo cambiamento in atto, ossia lo spostamento del peso del mercato mondiale dell’advertising da Ovest verso Est, in particolare verso i mercati emergenti dell’Europa Orientale e dell’Asia Pacifico. La tv rimane al centro degli investimenti in tutte le aree del mondo ed è


6. Meno CO2 anche nella comunicazione | 103

il fattore trainante nelle economie in via di sviluppo (e in Italia per altre ragioni), ma il vero driver di crescita è internet, diffuso ormai a livello globale. Un altro fenomeno mondiale, stavolta accompagnato dal segno “meno”, è la crisi della stampa, tema su cui si sono spesi negli ultimi mesi fiumi di parole e di inchiostro ma non è questo il luogo per approfondire. Ma come sta evolvendo il sistema dei mezzi al suo interno?

2009: la recessione colpisce anche ad Est, sia in Europa che in Asia

NORD AMERICA 38% OVEST EUROPA 24% EUROPA EMERGENTE 4% ASIA PACIFIC 27%

-12% -9% - 7%

AFRICA E MEDIO ORIENTE 3%

AMERICA LATINA 4%

-3%

+ 1%

+ 7%

Fonte: Comunicare Domani, 2009

Possiamo così riassumere le tendenze in atto: sale internet, scende tutto il resto. Con la tenuta sostanziale di radio e tv, che a sua volta sta attraversando un periodo di profondo cambiamento con il passaggio dall’analogico al digitale e il frantumarsi della vecchia televisione generalista in centinaia di canali sempre più di nicchia. Il prossimo grafico mostra un aspetto che ancora troppo spesso viene dimenticato: la comunicazione non è solo pubblicità classica – spot tv e radio, poster, annunci stampa, cinema – ma comprende tutte quelle attività che vengono definite “below the line”: promozione delle vendite attraverso concorsi e operazioni a premio; direct marketing con messaggi mi-


104 | GO GREEN

rati inviati per posta, via sms o via mail ai consumatori; eventi in grado di far toccare con mano i prodotti e stabilire un contatto emozionale con un brand; sponsorizzazioni per creare partnership tra marchi; pubbliche relazioni che mirano a costruire rapporti privilegiati con target selezionati. Un mondo che oggi ha più o meno lo stesso valore, in termini di investimenti, del cosiddetto “above the line”. Perfino qui da noi. Dico “perfino” perché in Italia il quadro dei media è un po’ più statico, più in linea con quello dei Paesi del Terzo Mondo che con quanto accade nelle economie più sviluppate. La tv regna ancora incontrastata, assorbendo oltre il 50% degli investimenti. Questa “anomalia italiana”, dovuta molto al ruolo dell’impero mediatico di Berlusconi, ha di fatto contrastato lo sviluppo dei media nella Penisola.

I “grandi mezzi” italiani del 2009 Previsione 2009

Var. % vs 2008

Stampa Quotidiana

1.426

- 19,6

Stampa Periodica

1.041

- 24,0

Totale Stampa

2.467

- 21,5

4.756

- 10,2

Televisione Radio

614

- 9,4

Cinema

46

- 20,0

Esterna

656

- 13,9

Digitale

889

9,3

9.427

- 12,3

838

1,0

Totale Mezzi “Classici” Costi di produzione Totale Area “Classica”

10.265

- 11,44

Direct Marketing

4.900

0,0

Promozioni

4.400

1,1

Relazioni Pubbliche

2.150

2,4

Eventi Totale Marketing e Comunicazione di Relazione

Fonte: Comunicare Domani, 2009

1.350

3,8

12.800

1,2


6. Meno CO2 anche nella comunicazione | 105

L’evoluzione del sistema dei media in Italia

CINEMA

OUTDOOR

RADIO

0,6%

0,5%

0,5%

0,5%

0,5%

0,5%

7,5%

7,1%

7%

7%

7,2%

7,5%

6,2%

6,3%

6,5%

6,5%

6,5%

6,5%

30,5%

29,3%

26,2%

23,5%

22%

21,5%

6,4%

7,6%

9,4%

10,0%

11,8%

12,5%

48,9%

49,3%

50,4%

52,5%

2007

2008

2009

2010

STAMPA

WEB

TV

52,0% 51,5% 2011

2012

Fonte: Comunicare Domani, 2009

La situazione non è destinata a cambiare nel giro di pochi anni. Le previsioni sull’evoluzione dei mezzi vedono ancora tanta tv, la stampa in calo, cinema, radio e outdoor statici. Unico elemento di novità, la crescita del digitale. Con un raddoppio di internet nei prossimi cinque anni, per un valore che resterà comunque la metà di quello della radio e un quinto di quello della televisione. Anche a livello mondiale il panorama, come ho già detto, sarà soggetto a piccole scosse di assestamento ma non a un grande terremoto in grado di sconvolgerne gli equilibri. E soprattutto la scelta dei media resterà pressoché identica e omologata, con la crescita del digitale (in particolare negli Stati Uniti) e una tv ancora più protagonista (in America Latina in modo più accentuato). Ancora una volta, l’unico cambiamento sarà costituito dal progressivo spostamento del valore del mercato verso i paesi che stanno vivendo una fase di crescita, in particolare quelli del bric (Brasile, Russia, India, Cina).


106 | GO GREEN

Growth of media in major markets 2004-2009 % TELEVISION

2004 2005 2006 2007 2008 2009

RADIO

North America

11,8

1,2

5,9

-0,6

2,0

-2,5

North America

0,2

0,3

1,2

-3,2

-6,0

-8,1

Latin America

16,5

14,3

14,2

11,1

10,8

8,9

Latin America

9,4

14,7

6,1

11,4

13,1

7,2

2004 2005 2006 2007 2008 2009

Western Europe

7,9

4,0

2,4

4,3

-2,3

-2,3

Western Europe

8,8

4,4

1,7

3,7

-1,4

-2,4

Emerging Europe

24,5

27,2

24,2

22,8

16,9

-3,5

Emerging Europe

25,5

19,8

34,6

29,4

7,8

1,0

Asia Pacific

11,4

7,4

9,4

6,9

3,0

3,5

Asia Pacific

4,2

2,2

19,5

5,3

5,2

0,4

North Asia

18,6

16,7

22,1

13,3

13,4

9,4

North Asia

0,9

0,4 177,5

20,4

22,8

5,7

Asean

27,5

14,1

13,8

8,2

7,7

5,9

Asean

11,3

7,3

3,2

1,8

8,1

1,3

MiddleEast & Africa

19,5

2,9

18,5

25,0

19,5

11,5

MiddleEast & Africa

36,5

18,8

6,2

30,4

17,5

-1,0

World

11,6

4,9

7,5

4,7

3,2

0,3

4,2

3,1

5,3

2,5

-0,6

-3,5

NEWSPAPERS

2004 2005 2006 2007 2008 2009

World

INTERNET

2004 2005 2006 2007 2008 2009

North America

7,2

1,6

-1,8

-3,4

-5,6

-7,6

North America

32,1

31,0

27,6

26,4

17,2

5,6

Latin America

12,4

16,4

8,6

14,7

4,4

3,6

Latin America

29,4

23,6

52,2

60,5

33,1

26,8

-5,1

Western Europe

56,0

80,4

68,1

41,0

23,6

9,9

104,6 113,3

68,5

76,5

37,3

16,7

Western Europe

4,2

1,2

2,2

2,9

-5,4

Emerging Europe

26,3

-9,6

14,7

9,7

6,1 -10,2

Emerging Europe

Asia Pacific

8,1

1,4

-4,3

2,4

-1,2

-0,4

Asia Pacific

54,2

92,4

33,5

32,5

28,2

20,5

North Asia

8,6

1,7 -13,9

5,6

8,7

3,0

North Asia

53,2

66,4

40,3

52,3

49,5

36,5

45,3

50,0

36,7

49,4

45,8

22,5

134,7 641,3

24,4

-5,8

57,9

27,1

38,2

32,5

21,9

10,8

Asean

20,4

4,0

1,3

10,7

10,0

3,1

Asean

MiddleEast & Africa

21,7

15,2

9,8

18,9

12,2

8,8

MiddleEast & Africa

7,2

1,9

-0,1

1,8

-3,1

-3,9

World

40,0

World

51,7

CINEMA

2004 2005 2006 2007 2008 2009

OUTDOOR

2004 2005 2006 2007 2008 2009

North America

22,5

19,7

14,7

8,9

-5,6

3,9

North America

19,0

10,1

8,5

3,3

3,4

2,0

Latin America

88,2

16,7

21,5

0,3

7,0

6,5

Latin America

18,4

20,9

5,6

1,8

7,8

6,8

-2,3

-0,7

Western Europe

-0,1

-0,8

-3,4

0,4

-5,1

-3,3

Western Europe

6,8

4,6

5,1

3,7

Emerging Europe

24,2

22,7

25,7

15,1

22,1

-0,4

Emerging Europe

26,4

29,0

29,3

17,0

Asia Pacific

20,1

24,8

6,9

58,8

-3,1

-4,2

Asia Pacific

3,5

19,9

9,6

5,8

5,6

3,2

North Asia

-62,5 -41,0

39,2

58,4

-7,8 -21,7

North Asia

4,7

13,3

21,4

8,8

9,6

7,3

Asean

39,4

26,2

10,4 110,2

MiddleEast & Africa

45,3

61,3 -23,0

World

10,4

9,3

4,3

7,0 -11,6

-6,3

-5,3

Asean

33,2

14,9

13,0

11,7

14,9

-5,8

8,4

0,1

15,3

MiddleEast & Africa

30,6

19,6

31,6

49,5

3,9

12,8

8,5

0,4

0,3

8,9

13,9

9,6

6,4

3,2

1,0

World

Fonte: Group M – WPP Annual Report & Accounts 2008


6. Meno CO2 anche nella comunicazione | 107

Valori e disvalori creati con leggerezza Prima di passare a un breve excursus sulla storia della comunicazione e delle sue strutture, vorrei soffermarmi ancora su uno dei tre fenomeni che a mio parere caratterizzano oggi questo mondo, vale a dire l’omologazione dei consumi e dei consumatori. E dei loro valori. “Valori” spesso indotti, che le campagne pubblicitarie lanciano con indifferenza, leggerezza, senza pensare alle conseguenze che i messaggi possono avere, in particolare sui giovani, diffondendo modelli creati dal pensiero debole dei pubblicitari ma che acquistano forza grazie al potere dei media e alla loro capacità di penetrazione. E mi riferisco alle campagne ideate per prodotti che non dovrebbero in sé essere dannosi o pericolosi, senza nemmeno prendere in considerazione quelle pensate per sigarette e alcolici, che lascio al vostro giudizio. La comunicazione non dà vita a nuove tendenze ma dà voce a quelle dominanti e nel seguirle le esaspera, le comprime, le distorce e le trasforma in valori. Quella che i media ci trasmettono non è più la tendenza originale ma una sua brutta copia che tuttavia, grazie al loro potere, diventa il modello da seguire. Perché ognuno di noi si senta “unico” in mezzo a miliardi di persone che indossano i nostri stessi abiti, bevono le stesse nostre bibite, usano il nostro stesso linguaggio. Il quadro non è certo edificante. C’è bisogno di aria nuova, più ancora nei contenuti che nell’uso dei media. La Green Communication, con i valori di chiarezza e trasparenza che ha in sé, è destinata a mutare il volto della comunicazione commerciale. E non perché è più “buona”. Ma perché venderà di più.

Una storia di successi, scomposizioni e ricomposizioni Prima di dimostrarlo – e ci metteremo tre capitoli – è necessario capire come si è evoluto il mondo della comunicazione, con lo sguardo rivolto ai contenuti e a chi li crea. La pubblicità come creatrice di contenuti e di valori nasce alla fine dell’Ottocento, quando i giornali – già allora il giornalista non voleva fare il pubblicitario, considerato un mestiere di serie b, meno nobile – decisero di appaltare i contenuti dei messaggi promozionali alle società che li aiutavano a cercare gli inserzionisti. Così sono nate strutture come la J. Walter Thompson e le principali agenzie di contenuti e di media negli Stati Uniti. “Trovate l’inserzionista, fategli l’annuncio e noi vi ristor-


108 | GO GREEN

BrandZ™ Top 100 most powerful brands 2009 Top 20 global brands by value m$

Brand

Brand value 2009

Brand value 2008

Brand value 2007

%chg 2009 vs. 2008

%chg 2008 vs. 2007

Google

100.039

86.057

66.434

16%

30%

76.249

70.887

54.951

8%

29%

67.625

58.208

44.134

16%

32%

66.622

55.335

33.572

20%

65%

66.575

49.499

33.138

34%

49%

Ranking change

1

=

2

1

Microsoft

3

1

Coca-Cola

4

2

IBM

5

3

McDonald’s

6

1

Apple

63.113

55.206

24.728

14%

123%

7

-2

China Mobile

61.283

57.225

41.214

7%

39%

8

-6

General Electric

59.793

71.379

61.88

-16%

15%

9

2

Vodafone

53.727

36.962

21.107

45%

75%

10

=

Marlboro

49.460

37.324

39.166

33%

-5%

11

2

Wal-Mart Stores

41.083

34.547

36.88

19%

-6%

12

6

ICBC

38.056

28.004

16.46

36%

70%

13

38

BlackBerry

36.513

13.734

2.802

166%

390%

14

-5

Nokia

35.163

43.975

31.67

-20%

39%

15

-3

Toyota

29.907

35.134

33.427

-15%

5%

16

8

UPS

27.842

30.492

24.58

-9%

24%

17

-1

HP

26.745

29.278

24.987

-9%

17%

18

-1

BMW

23.948

28.015

25.751

-15%

9%

19

10

SAP

23.615

21.669

18.103

9%

20%

20

3

Disney

23.110

23.705

22.572

-3%

5%

Fonte: Millward Brown Optimor – WPP Annual Report & Accounts 2008

niamo il 15%!” immagino gridasse il proprietario del New York Times al Commodoro Thompson. jwt, y&r, bbdo, ddb, Ogilvy, Leo Burnett sono infatti i nomi o le iniziali degli uomini che hanno inventato l’advertising come lo conosciamo oggi. y&r, ad esempio, erano James Young, copywriter e Raymond Rubicam, art director. Persone che costruivano la comunicazione di marca come artigiani e che hanno dato vita a campagne memorabili sia negli anni precedenti alla Seconda Guerra Mondiale sia negli anni Cinquanta e Sessanta. E che dagli anni Cinquanta hanno se-


6. Meno CO2 anche nella comunicazione | 109

guito le multinazionali loro clienti in giro per il mondo: la Ford vendeva le sue auto in 150 Paesi, la jwt vi apriva un ufficio. La strada delle agenzie era spianata dall’invasione pacifica delle multinazionali statunitensi, un esercito fatto di prodotti che rappresentavano l’american way of life. E loro erano i cannoni a cui era affidato il compito di sparare sulle culture locali in nome di nuovi stili di vita, nuove abitudini, nuovi consumi. A quei tempi l’agenzia era unica e si occupava di tutto, dalla pubblicità alle pr, dalle ricerche alle promozioni fino al media planning and buying. All’inizio degli anni Settanta le cose cominciano a cambiare. Il valore degli investimenti aumenta e la comunicazione diventa comunicazione di massa. Al contempo nasce il bisogno di strutture diverse, nuove, focalizzate su una singola disciplina e che ne rappresentino l’eccellenza. Ha inizio la fase della scomposizione, che nel giro di quindici anni trasformerà la classica agenzia da unica a “sola”. La parola d’ordine è specializzazione: in suo nome, nuovi imprenditori hanno deciso che ogni segmento della industry ha la forza per essere a sua volta una industry. Il primo settore ad abbandonare l’agenzia unica per dar vita a strutture indipendenti sono le promozioni, seguite dalle relazioni pubbliche. È poi la volta del direct marketing, che nasce in questi anni e costituisce fin da subito le sue unit, e delle sponsorizzazioni. Ma la perdita più grave per le agenzie avviene con la nascita dei centri media, che da un lato tolgono loro linfa vitale, indebolendole e dall’altro si specializzano nell’acquisto di spazi pubblicitari e nella pianificazione delle campagne – attività che in parole povere significano soldi e relazioni – divenendo sempre più potenti. Siamo arrivati alla fine degli anni Ottanta. Ed ecco entrare in scena la finanza – intesa come borsa, niente a che vedere con le Fiamme Gialle – e con essa i grandi gruppi. Prima i fratelli Saatchi, con il loro Chief Financial Officer Martin Sorrell. Poi la wpp di Martin Sorrell che si è messo in proprio, Omnicom, Interpublic, Publicis, Havas: colossi nati dalle acquisizioni di strutture già esistenti, agenzie di pubblicità, promotion, direct marketing, rp, centri media, istituti di ricerca. E ora tanto digitale. In vent’anni sono diventati i padroni della comunicazione. Qualche cifra, giusto per darvi un’idea della loro potenza di fuoco (e della loro immensa influenza sui consumatori): in cinque – sei se contiamo la multinazionale giapponese Dentsu, sette se aggiungiamo Aegis Group – rappresentano il 65-75% del fatturato totale della comunicazione intermediata. Tre quarti della massa degli investimenti media, cioè dei soldi destinati alla pianificazione e all’acquisto di spazi, passa per le mani delle “Sette


110 | GO GREEN

The agency Family Trees 2008 OMNICOM GROUP

$12.69B

no.1 worldwide revenue

13%

Worldwide revenue by discipline

N.America revenue: $4.54B Digital share of 2007 Worldwide employees: 70.000 worldwide r. (estimate)

12%

Worldwide revenue by discipline

Specialty communications $1.31 billion; 10.4%

Customer relationship management $4.65 billion; 36.6%

$12.38B

no.2 worldwide revenue

US revenue: $6.70B Digital share of 2007 Worldwide employees: 70.000 worldwide r. (estimate)

Public relations $1.27 billion; 10.0%

WWP GROUP

Traditional media advertising $5.46 billion; 43.0%

Public relations & public affairs $1.28 billion; 10.4%

Information, insight & consultancy $1.81 billion; 14.6%

Branding/identity, healthcare & specialist communications $3.54 billion; 28.6% Advertising & media $5.75 billion; 46.4%

GLOBAL NETWORKS

OTHER AGENCIES

GLOBAL NETWORKS

WPP INVESTMENTS

DDB WORLDWIDE COMMUNICATIONS $2.62 BILLION

BERNARD HODES GROUP

YOUNG & RUBICAM BRANDS $2.15 BILLION

ASATSU-DK

---------------------------------------------------------------------

Recruitment agency

---------------------------------------------------------------------

---------------------------------------------------------------------

BBDO WORLDWIDE $2.39 BILLION

---------------------------------------------------------------------

OGILVY GROUP

$1.84 BILLION

COMMUNICATIONS STW GROUP $235 MILLION

---------------------------------------------------------------------

TBWA WORLDWIDE $1.78 BILLION

MEDIA AGENCIES MEDIA AGENCIES OMNICOM MEDIA GROUP $1.76 BILLION ---------------------------------------------------------------------

CLINE DAVIS & MANNHILL

$136 MILLION

---------------------------------------------------------------------

$127 MILLION

JWT

$1.49 BILLION

$454 MILLION

Ad agency. WPP owns 22.9%

Holding company. WPP owns 19.8%

Healthcare agency

---------------------------------------------------------------------

---------------------------------------------------------------------

---------------------------------------------------------------------

GREY GROUP

$1.18 BILLION

CHIME COMMUNICATIONS $193 MILLION

ALCONE MARKETING GROUP $126 MILLION

---------------------------------------------------------------------

UNITED

Promotion agency ---------------------------------------------------------------------

$115 MILLION

MEDIA AGENCIES GROUP M

$2.07 BILLION

---------------------------------------------------------------------

Holding company. WPP owns 21.7%

MARKET RESEARCH KANTAR GROUP $1.81 BILLION Research and consultancy network ---------------------------------------------------------------------

Sorelle”, le quali quindi amministrano per i loro clienti la bellezza di 500 miliardi di dollari. E gestiscono brand che sono veri e propri “lovemarks” in tutto il pianeta. E per le multinazionali che li producono. Ecco dunque il quadro attuale: dopo una fase di ricomposizione a opera dei grandi gruppi, che si sono adoperati per avere al loro interno strutture specializzate in ogni settore con l’obiettivo di fornire ai clienti una consulenza a 360°, ci ritroviamo in pratica di fronte la vecchia agenzia unica degli anni Settanta. Una super-agenzia, fatta di sinergie verticali (nei network di marchio come ad esempio Ogilvy, ddb, jwt ecc.) o orizzontali (tra network diversi ma dello stesso gruppo), per la quale lavorano oltre 100 mila persone sparse in 160 paesi. Ma non si tratta di una realtà solida. Il sistema è in crisi da tempo e la recessione non ha fatto altro che metterla in evidenza e accelerarne il


6. Meno CO2 anche nella comunicazione | 111

INTERPUBLIC GROUP OF COS. $6.55B

PUBLICIS GROUP

no.3 worldwide revenue

no.4 worldwide revenue

US revenue: $3.65B Digital share of 2007 Worldwide employees: 43.000 worldwide r. (estimate)

10%

Worldwide revenue by discipline Advertising & media $4.03 billion; 61.6%

Healthcare $0.46 billion; 7.0%

MCCANN WORLDGROUP

$2.53 BILLION

---------------------------------------------------------------------

DRAFTCFTB

$1.24 BILLION

---------------------------------------------------------------------

LOWE

$518 MILLION

---------------------------------------------------------------------

HILL HOLLIDAY

$154 MILLION

Marketing services (including CMG) $1.01 billion; 15.5%

Advertising $2.49 billion; 39.0%

SAMS (Specialized Agencies & Marketing Services) $2.30 billion; 36.0%

MEDIA AGENCIES

CAMPBELL-EWALD $239 MILLION

PUBLICIS WORLDWIDE

$1.20 BILLION

STARCOM MEDIAVEST GROUP $814 MILLION

Ad agency ---------------------------------------------------------------------

---------------------------------------------------------------------

---------------------------------------------------------------------

LEO BURNET WORLDWIDE

ZENITHOPTIMEDIA $681 MILLION

Ad agency ---------------------------------------------------------------------

---------------------------------------------------------------------

JACK MORTON WORLDWIDE

SAATCHI&SAATCHI $740 MILLION

DEUTSCH

$146 MILLION

$153 MILLION

---------------------------------------------------------------------

MULLEN

$121 MILLION

$1.07 BILLION

---------------------------------------------------------------------

DIGITAS

---------------------------------------------------------------------

MEDIAS & REGIES EUROPE

$95 MILLION Media sales unit in Europe and US

$414 MILLION

OTHER AGENCIES

HEALTHCARE AGENCIES

---------------------------------------------------------------------

$410 MILLION

---------------------------------------------------------------------

INITIATIVE

Media $1.60 billion; 25.0%

GLOBAL NETWORKS

Ad agency

UNIVERSAL MCCANN

15%

OTHER AGENCIES

Event marketing agency

MEDIA AGENCIES

N.America revenue: $2.76B Digital share of 2007 Worldwide employees: 43.808 worldwide r. (estimate)

Worldwide revenue by discipline

Constituency Management Group $1.05 billion; 16.0%

GLOBAL NETWORKS

$6.38B

$276 MILLION

---------------------------------------------------------------------

Ad agency

BARTLE BOGLE HEGARTY

---------------------------------------------------------------------

---------------------------------------------------------------------

CARMICHAEL LYNCH $52 MILLION

$161 MILLION

FALLON WORLDWIDE $92 MILLION ---------------------------------------------------------------------

Fonte: Ad Age DataCenter analysis.

processo. Un fenomeno strutturale che è bene analizzare a partire dai tre fattori che, a mio parere, ne sono alla base: la crisi dei media, dovuta alla rivoluzione digitale, la crisi dei contenuti e del messaggio, la crisi delle agenzie tradizionali.

I tre fenomeni che cambieranno il mercato 1. Il digitale Il digitale ha cambiato – e cambierà ulteriormente – il volto della comunicazione. Quando dico digitale mi riferisco a tutto l’universo composto


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Top 20 US advertisers 2008 ranked by total measured ad spending m$ RANKS 08 | 07

Advertiser

2008

Brands Top 20 risers Year on year brand value growth

2007

% change

BRAND

% brand value growth

% brand contribution growth

1

1

Protecter & Gamble

3.131

3.384

-7,5%

China Merchant’s Bank

168%

-13%

2

2

Verizon Communications

2.234

2.124

5,2%

BlackBerry

100%

3%

3

4

General Motors

2.037

1.840

10,7%

Amazon

85%

17%

4

3

AT&T

1.902

2.118 -10,2%

Wendy’s

72%

7%

5

5

Time Warner

1.382

1.647 -16,1%

AT&T

67%

14%

6

7

Johnson&Johnson

1.315

1.328

-1,0%

ALDI

49%

13%

8

14

General Electric

1.144

972

17,6%

Auchan

48%

4%

9

9

Walt Disney

1.133

1.236

-8,4%

Vodafone

45%

10%

10

13

Macy’s

970

1.001

-3,1%

Johnnie Walker

42%

44%

11

12

Toyota

966

1.013

-4,6%

Kronerburg 1664

41%

-2%

12

6

Ford

956

1.371 -30,2%

Google

40%

1%

13

8

Sprint Nextel

876

1.241 -29,4%

O2

36%

17%

14

15

Glaxosmithkline

840

966 -13,0%

ICBC

36%

-16%

15

25

Wal-Mart Stores

832

502

65,8%

Rolex

35%

0%

16

16

Sony

802

947

-15,3

Movistar

34%

5%

17

22

Berkshire Hathaway

799

736

8,6%

McDonald’s

34%

0%

18

20

McDonald’s

792

779

1,7%

BBVA

33%

10%

19

17

Nissan Motor

789

920

-14,2

Marlboro

33%

9%

20

23

Yum!Brands

784

728

7,6%

Chivas

30%

27%

Nespresso

27%

-5%

Fonte: Millward Brown Optimor – WPP Annual Report & Accounts 2008

da internet, mobile, dalla tecnologia che portano con sé, dal concetto di web 2.0, con i social media, il networking dei blog, dei forum. Una rete che avvolge e coinvolge. Con il digitale sono entrati nel mondo della comunicazione nuovi soggetti, Google e Yahoo! per citarne due, che si sono inseriti nel quadro dei media e in quello della raccolta pubblicitaria, la linfa da cui questi giganti derivano la loro forza. Si è fatto strada un modo diverso di pensare la comunicazione, più diretto, targettizzato, improntato al dialogo, efficace e soprattutto più controllabile ed efficiente. Ma anche più discreto, più


6. Meno CO2 anche nella comunicazione | 113

selettivo e meno invasivo. Tutto questo ha portato scompiglio nel mondo delle agenzie tradizionali, nel sistema dei gruppi multinazionali, creando i presupposti per il cambiamento. Che è già in atto, come dimostra un dato su tutti: le società di comunicazione statunitensi che negli ultimi tre anni hanno realizzato le migliori performance in termini di crescita sono attive nell’area digital. E nessuna appartiene a un grande gruppo. Questo dato sottolinea non solo che l’innovazione è ormai sinonimo di digitale ma anche che nessun gruppo crea innovazione. Al limite la compra, la sfrutta per tre anni – il tempo dell’earn out dei vecchi proprietari – e poi la uccide. Senza volerlo. Perché è difficile che un vero imprenditore riesca a stare alla logica manageriale di un gruppo, e oggi nel digitale il livello di imprenditorialità è massimo. Il digitale dunque ha messo in crisi media, contenuti e agenzie. E non è finita. Perché le prospettive di sviluppo di internet sono talmente ampie e portano tanto lontano che è difficile coglierle. Il web 2.0 si evolverà in 3.0. Ognuno costruirà la sua rete personale. La sua biblioteca digitale. La sua cartella medica. Il suo tavolo di lavoro. Il suo lavoro. La sua energy grid. Mi fermo perché non vorrei spaventare il lettore, ma credo davvero che questo sarà il futuro. Anzi. I giovanissimi, quelli nati nell’era di internet per intenderci, sono già lì. Se questo è ciò che ci aspetta è chiaro che il mondo della comunicazione subirà quel famoso terremoto che non è ancora arrivato. I primissimi effetti li stiamo già vedendo, soprattutto sui media. La stampa in primis. La reperibilità di notizie gratuite e costantemente aggiornate in rete e un lettore sempre più digitalizzato fanno calare le vendite di quotidiani e periodici, tanto che Rupert Murdoch, il re dei media, intende cominciare a far pagare la lettura dei contenuti delle versioni online delle sue testate. Ma anche in questo caso, come per le agenzie, la crisi ha radici più profonde. In particolare i quotidiani dovrebbero cambiare pelle, diminuendo le tirature, rivolgendosi a un target in cerca più di approfondimenti che di news, più di inchieste che di gossip. Per le ultime notizie e il gossip c’è il web, meno profondo, più attuale, meno impegnativo, più semplice da leggere. Una sorte anche più dura temo toccherà alla tv generalista, che sta ormai perdendo ascolti e share in tutto il mondo, Italia compresa, perché non ha più nulla da offrire. Vuoi vedere un film? Lo affitti, oppure lo guardi su un canale tematico o in streaming su internet. Stesso discorso per le serie tv. Restano i reality, che tuttavia per la maggior parte sono in onda su canali tematici, e un po’ di intrattenimento.


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La radio è stabile, il cinema vivacchia, l’outdoor tiene. Il web cresce perché è innovazione. Internet è una delle grandi invenzioni del Novecento, la sua eredità per gli anni a venire: una grande rete che connette tutti e in cui tutti possono conoscere, parlare, comunicare. È la via della comunicazione. Il media del futuro. 2. I contenuti La rivoluzione digitale necessita anche di un nuovo tipo di messaggio. In questo campo le parole d’ordine sono chiarezza e trasparenza. Niente bugie, meno immagine, più sostanza. Le stesse parole d’ordine della Green Communication, perché green e digital, come ha dimostrato il “fenomeno” Obama, vanno di pari passo e si rivolgono allo stesso target, che diventa ogni giorno più ampio. Il messaggio deve cambiare perché sono cambiati i destinatari. I consumatori, come è emerso anche dalla ricerca che ho presentato nel terzo capitolo, pretendono più serietà. Sentono che il mondo sta attraversando un periodo critico non solo dal punto di vista economico ma anche da quello valoriale, un momento di transizione che darà vita a una nuova società e a una nuova cultura e non hanno voglia né di scherzare né di sentirsi presi in giro. Anche qui in Italia, dove la recessione ha colpito meno duramente che altrove, il sentiment è lo stesso: ognuno di noi percepisce, in parte in modo inconsapevole, che ci aspettano anni fondamentali, impegnativi ed entusiasmanti, che cambieranno il mondo. E tutti sono alla ricerca di una comunicazione più valoriale, più di contenuto, più informativa, più seria. Internet ne sarà il mezzo elettivo, perché perfettamente in linea con queste caratteristiche. Non sto dicendo che il consumatore rifiuta la creatività. Non è questo il punto. La creatività non impedisce di trasmettere messaggi seri e un contenuto serio può essere comunicato in modo piacevole, anche ironico, acquistando rilevanza. 3. La crisi delle agenzie classiche L’arrivo del digitale, il conseguente sconvolgimento in atto nel mondo dei media e la necessità di un nuovo modo di comunicare non potevano non mettere in crisi quello che, alla luce di questi cambiamenti, è divenuto l’anello debole della catena: le tradizionali agenzie di advertising, le grandi strutture che hanno fatto la storia. Tutte le altre, dalle agenzie di marketing services a quelle di eventi, ai centri media, sono state più o meno “contaminate” dal digitale. Le agenzie di advertising poco. Il ma-


6. Meno CO2 anche nella comunicazione | 115

nagement ragiona ancora in termini di spot tv in un momento in cui per parlare ai consumatori occorre pensare in digitale. Ritiene che sia uno strumento, un mezzo, uno dei tanti. Non capisce che è il futuro. Ma questo è solo l’ultimo tassello che, aggiungendosi a quelli già accumulati ha innescato una vera e propria crisi strutturale. Le agenzie erano già indebolite dal processo di scomposizione in nome della specializzazione di cui abbiamo parlato. Sfibrate dalla fuoriuscita dei centri media, che sono più in contatto con la realtà e hanno visto il digitale crescere e svilupparsi. Appesantite da strutture che sono un’eredità immutata degli anni Settanta, con la loro teoria di account supervisor, senior, executive, assistant e così via. Snervate da negoziazioni sempre più complicate con gli uffici acquisti dei clienti, ormai divenuti sadici. Impoverite dall’avanzare di una tipologia di messaggio diverso, più digitale, più informativo, meno creativo alla “vecchia maniera”. Ridotte a divenire dei terminali di consegna della creatività studiata dalla casa madre, ossia l’agenzia vicina fisicamente agli headquarter dei clienti. Come fossero una specie di dhl. Sballate nei conti, nei loro profit & loss, ridotte oggi a perdere soldi quando in passato era la norma guadagnare fino al 25% prima delle tasse. Dopo aver letto queste righe immagino che la domanda sorga spontanea: nessuno si è accorto di quello che stava succedendo? Che si era imboccata una strada senza uscita? Alcuni sì, ma anche qui vale il discorso fatto per la crisi del settore automobilistico, l’“Effetto gm” di cui ho parlato nel secondo capitolo. Si è preferito non guardare oltre il proprio giardino sperando che il peggio accadesse in altri quarter. Martin Sorrell, che di questo tipo di strutture ne possiede una collezione – sue jwt, y&r, Red Cell, Gray, Bates, United – nell’ultimo Annual Report di wpp scrive che le super-agenzie rappresentano le agenzie full service del xxi secolo. Se i clienti vogliono il servizio completo che offriva l’agenzia unica anni Settanta possono rivolgersi a strutture che fanno parte del gruppo e lasciare che la holding ne coordini il lavoro, dal media alla creatività, dal below the line al web. E cita come esempio il “caso Enfatico”, la super agenzia nata per gestire la comunicazione globale di Dell, lavoro in precedenza svolto da 800 strutture sparse in tutto il mondo. Ma che dopo appena un anno con un colpo di bacchetta magica è stata assorbita da y&r Brands. Credo che Sorrell la pensi più o meno così: “Ho comprato tutto. Ho tutto. Il mio supermercato è pronto. Venite e comprate ciò che volete!” La visione del ceo di wpp è una delle tante possibili interpretazioni della complessa fase che sta vivendo il mondo della comunicazione. Ma a mio


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avviso i problemi delle agenzie non si possono risolvere creando super strutture che alla base hanno il solito, vecchio modello. È questo che deve cambiare, perché è in esso che affondano le radici più profonde della crisi.

Verso un nuovo modello di agenzia. E in Italia? L’agenzia creativa va ripensata a partire dalla base e in questo lavoro la comprensione del digitale e del suo ruolo è fondamentale. Basta guardarsi intorno per capirlo. Prendiamo l’esempio di quanto è accaduto a Minneapolis, raccontato da un dossier della rivista Advertising Age. Negli ultimi sei anni la classifica delle agenzie della simpatica cittadina del Michigan – per darvi un’idea, la più grande fattura più della prima struttura italiana – si è completamente ribaltata: le sigle storiche, che prima si trovavano in testa, sono passate agli ultimi posti, sostituite da nuove realtà guidate da giovani partiti dal digitale e dal mondo del below the line. Il significato di questa rivoluzione è chiaro: la forza di un’agenzia creativa nasce dalla capacità dell’imprenditore di interpretare e vivere il suo tempo, più che dalla capacità del management di gestire un marchio che ha fatto la storia dell’advertising. Perché la pubblicità sarà anche un’arte di serie B, ma resta pur sempre un’arte. Tutto quello che ho raccontato, seppur in modo superficiale, in questi ultimi paragrafi, avviene dove vengono prese le decisioni, dove hanno sede gli headquarter, dove c’è il potere. Nei luoghi dove si trovano i ceo delle grandi multinazionali. Torniamo coi piedi per terra. Torniamo in Italia. Nel nostro Paese la situazione è più critica a causa della struttura che negli anni ha assunto il mercato della comunicazione. Il 60% degli investimenti infatti è effettuato da multinazionali le cui strategie sono spesso stabilite a livello globale, in quei luoghi di potere a cui mi riferivo poco fa. Il restante 40% proviene per il 10% dalla pubblica amministrazione e dalle società statali e per il 30% da imprese private italiane. Inoltre molto spesso le nostre aziende scelgono di affidarsi ad agenzie straniere, un po’ per esterofilia, un po’ perché garantiscono un delivery più sicuro all’estero. Il mercato su cui può contare la nostra industry è davvero ristretto. Per queste ragioni non è nato in Italia nessun gruppo in grado di competere sulla scena internazionale con le “Sette Sorelle”. Armando Testa, la realtà più grande e importante del panorama nazionale, ha abbandonato questa velleità... anche se è appena uscita la buona notizia che firmerà la pubblicità della


6. Meno CO2 anche nella comunicazione | 117

Chrysler negli Stati Uniti. A differenza della Francia, che grazie in parte al suo sciovinismo, in parte alla legge Sapin, ha dato vita a due corazzate come Havas e Publicis, noi non siamo stati in grado di trovare e imporre una “via italiana” alla comunicazione. Non ci è mancata la creatività, ma la capacità di creare un sistema di sviluppo internazionale. Se la crisi che stiamo vivendo colpirà duramente le agenzie che fanno parte di grandi gruppi, sarà ancora più pesante per le strutture del nostro Paese, prive di difese dai venti del cambiamento.


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7. Comunicare green

Globalizzazione, recessione, crisi dei consumi, periodo di transizione, digitale. Questi fenomeni, che qui elenco soltanto ma ciascuno dei quali avrebbe bisogno di un libro di approfondimento, ci costringono ad aprire gli occhi di fronte a una verità ormai palese: il marketing tradizionale è morto. Una morte ribadita da tonnellate di volumi che ne stanno documentando il decesso. Tra questi vorrei citare un libro pubblicato di recente in Italia: Societing di Giampaolo Fabris, professore ordinario di Sociologia dei Consumi all’Università San Raffaele e Presidente del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione alla Facoltà di Psicologia. Un lavoro che ne decreta la morte fisica con un certificato impietoso di oltre 500 pagine. Ma morto un re se ne fa un altro, quindi Viva il Marketing! A patto che sia nuovo, adatto a “un contesto dove il cotè sociale sta diventando più importante, dove è indispensabile comprendere fino in fondo i contenuti e i contorni così come le conseguenze sociali, che sono molte e di gran rilievo, del suo operato”.

Un nuovo consumAttore con cui conversare Il consumatore tradizionale è cambiato e maturato e si è trasformato, per dirla sempre con Fabris, in ConsumAttore, passando dal ruolo di spettatore a quello di protagonista e grazie alle nuove tecnologie ha acquisito un potere contrattuale sconosciuto in passato. Ma quanto sono cambiate le strategie delle aziende per intercettare il nuovo consumatore? Il marketing, nato nell’epoca dei mercati e dei mez-


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zi di comunicazione di massa, continua a combattere le sue battaglie con le armi del conflitto precedente. Ma la sua funzione resta indispensabile, in quanto capacità di ascolto e di relazione con il mondo del consumo: occorre però che prenda consapevolezza dei crescenti risvolti sociali del suo operato, rivolgendosi, in mercati che divengono conversazioni, non più ai consumatori ma agli individui. È giunto il momento che le imprese sviluppino la capacità di ascoltare e realizzino, per la prima volta nei fatti e non solo a parole, “inedite forme di collaborazione, di co-creazione e partnership con il consumatore”. Perché “le aziende vendono prodotti ma i consumatori acquistano marche: ciò significa sempre più creare – attorno a beni e servizi – significati, dimensioni simboliche, valori intangibili che potenzino e qualifichino le perfomance strutturali, i valori d’uso”. Per Fabris dunque ci troviamo in un’epoca di transizione, in bilico tra modernità e post-modernità: siamo come esploratori che si avventurano in un nuovo continente senza nemmeno una bussola o una mappa. Il marketing, che fino a ieri faceva leva sulla pubblicità, da oggi dovrà concentrarsi sull’evangelizzazione, spostando il focus dal prodotto al consumatore-utente appassionato, credendo in ciò che promuove e stabilendo un dialogo costruttivo con i clienti. La vecchia regola “chi più spende vince” non funziona più.

Nuovi modi di comunicare: dalla tv al passaparola Si passerà dal dominio del 30 secondi a quello del passaparola, dal nascondere o sottacere alla trasparenza. Perché il consumatore è diventato selettivo, meno fedele alla marca e più attento al prezzo, anche per il diffondersi dei nuovi valori di frugalità di cui abbiamo parlato e su cui ritorneremo; è un cittadino del mondo che viaggia low cost e soprattutto naviga su internet e grazie agli strumenti digitali è diventato più critico, più informato, più potente. Pretende dalle aziende etica e trasparenza. Quindi un consumatore diverso, alla ricerca di prodotti che gli parlino e lo convincano fino in fondo, senza gridare messaggi standardizzati a botte di soli spot. Questo identikit combacia perfettamente, secondo quanto è emerso dalla nostra ricerca, con quella del consumatore green. Che ha in media fra i 30 e i 50 anni, spesso ha figli piccoli e abita in prevalenza nel Nord Italia. Si tratta soprattutto di donne e giovani adulti, le prime con una sensibilità maggiore per la sfera dei consumi alimentari e dei prodotti per la casa,


7. Comunicare green | 121

gli altri concentrati piuttosto sugli effetti nefasti del sistema di trasporti. È un target nuovo, digitale, destinato a divenire la prossima classe dirigente, fatto di persone che vogliono trasparenza e un vero cambiamento nella patria della furbizia e del Gattopardo, il Paese dove si cambia tutto affinché tutto resti come prima. Ma la nascita e la crescita di questo nuovo “popolo” non sono un fenomeno solo italiano, stiamo parlando di un target globale con aspettative, idee, valori, stili di vita che si differenziano poco da nazione a nazione.

Lo dicono i trend hunters: future profits will be green Trendwatching.com, una società indipendente olandese che da anni monitora e analizza i più significativi e promettenti consumer trend e insight, ormai considerata un’autorità in materia, ha raccolto e descritto le tendenze che caratterizzano questo target in un recente dossier intitolato Eco-Bounty – From Eco-Frugal to Eco-Metering, future profits will be green. Eccole: • Eco-Frugal: la recessione sta spingendo molti prodotti green a cambiare il proprio posizionamento: da “costosi ma validi” a “validi e convenienti”. La crisi infatti da una parte costringe i più a fare i conti con la necessità, ad esempio, di tagliare gli sprechi di energia per avere una bolletta meno salata, dall’altra riduce il numero di persone disposte a pagare un premium price per fare acquisti verdi. Marchi come Whirpool e General Electrics fanno a gara per sottolineare quanta acqua e quanta energia le loro lavatrici fanno risparmiare, o quanti dollari in meno in bolletta troveremo a fine anno acquistando uno scaldabagno ibrido. Persino la bmw propone la Mini non più solo come l’auto di chi ama divertirsi ma anche come una vettura che non consuma troppo carburante. • Eco-Status: essere un consumatore eco-responsabile sta diventando uno status symbol che va a sostituirsi a tradizionali icone, ora associate all’idea di inquinamento, di spreco, di eccesso. Tra le nuove ecoicone spicca sicuramente la Toyota Prius, l’auto ibrida per eccellenza. • Eco-Intel: sul mercato sono disponibili sempre più dispositivi intelligenti che mostrano il grado di eco-compatibilità dei prodotti che utilizziamo, delle aziende che li producono e del nostro stesso comportamento. In particolare la tendenza più significativa è l’Eco-Metering, vale a dire misurare performance, prestazioni, sprechi. Tra gli esempi


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citati c’è EcoDrive, un dispositivo sviluppato da Fiat, che permette di migliorare l’efficienza della propria vettura del 15%. Eco-Naked: un trend che nasce dall’incontro tra due tendenze, misurazione e trasparenza, ben rappresentato da Green Washing Index, un sito che permette ai consumatori di segnalare quelle aziende che spendono più soldi per darsi una “pittatina” di verde che per compiere un cammino serio verso la sostenibilità. Eco-Sturdy: i consumatori eco-consapevoli in un periodo di recessione cercano sostenibilità e risparmio nel lungo periodo. E comprano merce più solida, robusta, durevole. Eco-Generosity: un trend che nasce dall’incrocio tra la Generation G, ossia la tendenza a ricercare valori in contrasto con l’esasperazione dell’ego propria del recente passato, e il mondo green. Eco-Superior: l’innovazione sceglie sempre più spesso la via della sostenibilità. Nascono prodotti eco-friendly che non solo sono migliori per l’ambiente ma anche più belli, più efficienti e meno costosi di quelli tradizionali. Eco-Edu: la sostenibilità si impara fin dai banchi di scuola. Eco-Vertising: la comunicazione tradizionale non funziona per promuovere prodotti e servizi verdi, ci vuole una Green Communication. Appunto. Eco-Expectation: le aspettative dei consumatori sono puntate sui prodotti green. E presto saranno sul mercato versioni verdi di qualsiasi cosa. Le aziende che non sapranno adeguarsi avranno vita dura.

Più informazione, più trasparenza, più controlli Tra le tendenze che emergono con forza c’è sicuramente la richiesta di maggiori e più chiare informazioni sul mondo della Green Economy e in generale sui prodotti disponibili sul mercato. Il nostro consumatore vuole sapere, vuole conoscere, vuole approfondire. Non si fida delle apparenze, dei claim. Gli esempi di questo fenomeno possono essere infiniti ma credo che la nascita e il successo di GoodGuide (www.goodguide. com) e Skin Deep (www.cosmeticsdatabase.com) siano i più eloquenti. GoodGuide è un’istituzione non profit, nata negli Stati Uniti per iniziativa di Dara O’Rourke, ricercatore e docente di Ecologia Industriale all’università di Berkeley, California. Il sito mette a disposizione di tutti un software innovativo e un database di circa 70 mila prodotti: lavorando su


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80 milioni di dati dà una valutazione complessiva di ciascun prodotto, assegnandogli un voto da 1 a 10. Spiega O’Rourke: “Viviamo in un secolo buio. Conosciamo le marche e i prezzi della merce e pensiamo di saperne distinguere la qualità. Ma nessuno sa cosa si cela dietro l’etichetta, quali sono i reali effetti dei prodotti su di noi o sul nostro pianeta. Noi vogliamo sollevare il velo del brand e andare oltre quello che le aziende dichiarano. Quali componenti nocivi contiene un prodotto? E quanto ha viaggiato prima di arrivare sullo scaffale? Quale trattamento è stato riservato ai lavoratori?”. GoodGuide è il primo esempio di trasparenza radicale permessa e stimolata dal digitale e applicata al marketing. “Il nostro è solo un primo passo del cammino che dovrebbe rendere pubblicamente disponibili tutti questi dati” commenta il fondatore, riferendosi ai passi che i governi saranno prima o poi costretti a fare in ambito legislativo. Ai fini di questo libro, l’importanza di GoodGuide è legata alla combinazione tra interattività degli strumenti digitali e criticità dell’acquisto, che sono alla base della sua stessa esistenza. Due realtà che stanno cambiando radicalmente il mondo della comunicazione. Del digitale abbiamo parlato nel capitolo scorso. Ora è il momento di conoscere più da vicino il consumatore, che non è più il beota che compra, ma un cittadino che acquista. Consapevolmente e criticamente.

La casalinga di Voghera non c’è più. C’è Giulia da Milano Il consumatore non è più la signora Maria, casalinga di Voghera, nota a tutti quelli che hanno lavorato nell’ambito della comunicazione e del marketing negli ultimi trent’anni, simbolo dei valori e delle scelte legate alla tradizione, alla famiglia. Oggi abbiamo Giulia da Milano, precaria della “generazione mille euro”, che ha studiato, viaggia low cost, compra mobili Ikea, single, un po’ incazzata, e molto ma molto critica. E soprattutto digitalizzata: computer, web, telefonino, iPod, blogger. Di fronte a un cambiamento del genere, le aziende devono riflettere – e soprattutto investire – per adeguarsi. Prendiamo ad esempio un altro sito non profit di sicura fortuna, Skin Deep, una GoodGuide dedicata solo ai cosmetici. La questione è molto semplice: i prodotti chimici sono ingredienti basilari nei prodotti per la cura della persona e spesso non ci sono test che ne garantiscano la sicurezza. Quindi l’esposizione del consumatore al rischio è elevata. Skin Deep è


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uno strumento per aiutarlo a scegliere con cognizione di causa. Trasparenza radicale, interattività, non profit: ecco le caratteristiche dei siti del futuro. E di fronte a tali parole d’ordine molti potranno essere scettici, increduli e chiedersi quanto ci vorrà prima che questi siti vengano “comprati”. Ma c’è un dato certo che deve entrare in testa anche ai più cinici: la rivoluzione verde avanza. Siamo solo nella prima fase, ma la tripletta Giulia da Milano, digitale e recessione farà progredire il processo molto, ma molto velocemente. Alla faccia dell’immagine. L’idea di Brand Image di un prodotto o di un’azienda, così come quella più ampia di Brand Equity e quella ancora più estesa di Brand Franchise, che implica anche concetti di fedeltà, relazione, collegamento, è da rivisitare. Perché con il nuovo che avanza non può più funzionare, la famosa tripletta la rende superata. Oggi un brand deve farsi ascoltare e per riuscirci deve vivere nella società. Il cotè sociale diviene prioritario rispetto all’immagine. Il futuro si avvicina a grandi passi ma non è ancora qui e in questa fase di transizione non è facile definire sistemi categoriali, ma penso sia necessario tentare di spiegare come sta cambiando l’approccio al posizionamento del prodotto. Che non sarà più olistico, parola tanto di moda negli ultimi tempi e che nel linguaggio dei comunicatori indica il tutto inteso come la totalità dei mezzi. Della serie: “Abbiamo fatto la campagna tv, facciamo anche un bell’evento. O almeno proponiamolo, così facciamo bella figura”. O ancora: “Le strutture del gruppo devono fatturare tutte, se non ci becchiamo anche l’evento è un casino”. Scherzo. Ma fino a un certo punto. Perché ormai dietro agli schemi di comunicazione c’è un pensiero debole, strumentale, inadeguato ai tempi. C’è bisogno di una mentalità nuova, che ponga al centro del discorso la reputazione di marca.

Nasce la Brand Reputation: integra e onesta Non più Brand Image, Brand Equity, Brand Franchise, è giunto il momento della Brand Reputation. Per costruirla non bastano una bella ricerca, un nuovo posizionamento, le solite mission e vision, il tutto presentato con un Power Point ben confezionato, ci vogliono invece un piano solido e tanto tempo. Come per tutte le reputazioni. E oggi in particolare occorre che un prodotto sia attento all’ambiente, sostenibile, calato nella cultura del suo tempo, aperto al dialogo con i consumatori. Deve essere in


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grado di ritagliarsi uno spazio e un ruolo all’interno della società, essere un cittadino tra i cittadini. La creatività, il taglio, le parole, l’approccio, le attività, gli investimenti, la scelta dei mezzi, faranno la differenza in un secondo momento. La reputazione deve venire prima di tutto e deve essere costruita in modo onesto, trasparente, etico. Integro. Integrità è un’altra parola un po’ desueta che sta tornando in auge e riacquistando significato, perché la rivoluzione verde e tutti quei fenomeni paralleli che la alimentano, dal digitale ai nuovi stili di vita, al diverso modo di acquistare, la pongono alla base della loro filosofia. Il termine integro richiama alla mente l’idea di organico, buono, sano, naturale, rispettoso dell’ambiente, altruista, “per bene”. E oggi essere integri sta diventando un badge, uno status. Integro e verde non sono più aggettivi da radicali o da fricchettoni. Sono adatti a Giulia da Milano, anche se lei forse ancora non lo sa. Ma presto si accorgerà che la sua vita, magari un po’ grama, è di moda. È trendy essere come lei, il suo stile sta diventando quello “giusto”. Faccio un esempio. L’auto. L’auto è uno status symbol. La mia auto dice chi sono e se vale 15 mila euro sono un po’ sfigato. A meno che non si tratti di una Honda Insight, perché in quel caso sono avanti, sono uno che la sa lunga, uno che ha capito tutto, uno che salvaguarda il pianeta e il portafoglio. Uno stile. Un archetipo. Sono protagonista. Ne parlo sul mio blog e mi rispondono. Twitto sull’Honda e mi seguono. Sono green. E creo reputazioni di marca perché sono il nuovo consumatore. A proposito di auto: negli Stati Uniti per la prima volta hanno varato gli incentivi per chi vuole comprare una nuova vettura. Li hanno chiamati Cash for Clunkers, hanno creato un marchio ad hoc e hanno ottenuto un grande successo. Sapete quali sono stati i modelli più venduti? Quelli di dimensioni e consumi contenuti. Terza in classifica la (solita) Toyota Prius. Ma torniamo alla reputazione.

Ma attenti al green washing… Abbiamo detto che costruire una reputazione di marca richiede tempo e che il percorso non è affatto semplice. Al contrario, per distruggerla basta pochissimo. Basta, ad esempio, essere accusati di fare green washing. In rete, dove domina la tirannia della trasparenza, esiste un sito dedicato proprio a chi vuole svelare quali sono le aziende che si danno solo la soli-


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ta pittatina di verde. Si chiama Greenwashing Index (www.greenwahingindex.com) e ne abbiamo parlato in questo stesso capitolo a proposito delle tendenze dominanti. Ma è veramente un male fare green washing? Non me la sento di dare un giudizio radicale. Penso che la risposta sia “non proprio”. Dipende. Se si tratta di operazioni puramente di facciata, strumentali, allora sarebbe meglio non farle e spendere i soldi in altro modo. Ma esistono delle vie di mezzo, atteggiamenti che indicano che un’azienda ha capito che deve intraprendere un nuovo cammino verso la sostenibilità. Ovviamente un’impresa non può diventare green dall’oggi al domani, alla base della trasformazione ci deve essere un cambiamento di mentalità profondo, ma se sta davvero tentando di fare qualcosa di “buono”, allora si potrebbe aiutarla, incoraggiarla. E spingerla a fare sempre di più.

La CSR è morta. Viva la Corporate Social Opportunity Quanto ho appena detto si adatta perfettamente alle iniziative di csr, ossia Corporate Social Responsibility. Tim Sanders, autore di Saving the World at Work, la definisce “un programma ibrido di prodotto e di PR che cerca di convertire le proteste in benevolenza. Spesso la csr vive fuori dai confini del marketing, nelle mani dei reparti legali o dei settori operativi. Una volta all’anno i risultati delle iniziative a carattere sociale dell’impresa vengono raccolte dal responsabile dei rapporti con gli investitori per essere inserite, come è ormai d’obbligo, nel bilancio annuale. La csr tenta di allineare le esigenze dell’azienda (profitto, ricavi, crescita) con quelle sociali (persone, comunità, pianeta). Espressioni come “stiamo cercando di migliorare” o “proviamo a restituire” dominano i testi e ne diluiscono il valore. In sintesi, la csr è una pratica obbligatoria ideata per limitare le responsabilità, tirare su il morale e migliorare l’immagine di un brand”. Occorre dunque, sottolinea Sanders, andare oltre la csr. Tanto più che non gode di ottima salute: con la recessione, le aziende hanno chiuso i lacci della borsa e mantenuto in vita solo quei programmi con centro di costo in positivo. Tutto ciò che non faceva soldi è stato messo da parte. Ma cosa pensano i consumatori della csr? Per rispondere a questa domanda GfK-Eurisko conduce annualmente, a partire dal 2001, una ricerca qualitatitva e quantitativa nell’abito del


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csr Monitor, un progetto internazionale promosso dall’istituto canadese GlobalScan e realizzato in 25 Paesi. Risultato: gli italiani non ci credono molto, anche se il 68% degli intervistati ritiene che “le imprese dovrebbero andare oltre il rispetto delle leggi e impegnarsi per il miglioramento della società e dell’ambiente”. I nostri connazionali hanno un’idea ben precisa di quali siano le responsabilità delle aziende:

66

85 Assicurarsi che i loro prodotti e i loro processi produttivi non danneggino l’ambiente

Fornire prodotti e servizi di buona qualitá al prezzo più basso possibile

64

54

Applicare gli stessi standard qualitativi in qualunque parte del mondo operino

Contribuire alla stabilità dell’economia

53

66 Ridurre il loro impatto sui cambiamenti climatici

Migliorare l’istruzione delle comunità in cui operano

79 Trattare equamente tutti i dipendenti e collaboratori indipendentemente da sesso, razza, religione od orientamento sessuale

53

49

Contribuire a ridurre le differenza tra i ricchi e i poveri

Aiutare a risolvere i problemi sociali

81 Assicurarsi che tutti i materiali utilizzati per i propri prodotti siano stati a loro volta prodotti nel rispetto della società e dell’ambiente

44 Sostenere le associazioni non profit

Fonte: Oltre la CSR, l’impresa del Duemila verso la Stakeholder Vision, Luigi Ferrari – Sebastiano Renna – Rossella Sobrero, 2009

In sintesi, gli italiani vogliono: • Correttezza e trasparenza nella gestione delle imprese. • Assenza di discriminazioni all’interno delle aziende. • Impegno per la sicurezza dei prodotti e degli impianti.


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• Massima attenzione nei confronti dell’ambiente. • Ricerca per migliorare la qualità. • Trasparenza e responsabilità nella comunicazione (evitare di proporre modelli negativi, soprattutto nei messaggi rivolti ai giovani). Se da una parte i consumatori riconoscono l’importanza del comportamento responsabile delle imprese, dall’altra, come ho già accennato, non ripongono molta fiducia nelle loro iniziative a favore della società: nei confronti di queste ultime infatti il 50% degli italiani si dichiara cauto, il 27% diffidente. Un atteggiamento critico più diffuso nel Belpaese che altrove, come dimostra il grafico sottostante.

D’accordo

Disaccordo

Canada

41

55

Usa

38

58

Francia

38

58

Russia

35

45

Gran Bretagna

33

60

Svizzera

31

65

Germania

30

66

Italia

27

67

Filippine

59

32

India

59

36

Cina

59

37

Corea del Sud

51

48

Giappone

38

62

Australia

34

60

Fonte: Oltre la CSR, l’impresa del Duemila verso la Stakeholder Vision, Luigi Ferrari – Sebastiano Renna – Rossella Sobrero, 2009


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Il giudizio sostanzialmente negativo non è uniforme nei confronti di tutti i settori: Hi-tech e computer e Telecomunicazioni sono ritenuti i più responsabili, mentre Tabacco e Petrolio sono i fanalini di coda. Ma il consumatore non si sente più totalmente impotente di fronte all’operato delle aziende. Al contrario, ritiene di poter influenzare il loro comportamento (67%) e si dichiara pronto a “punire” i comportamenti irresponsabili, evitando di acquistarne i prodotti o diffondendo un passaparola negativo.

La responsabilità sociale dei diversi settori. Confronto 2001-2007 (differenze tra giudizi positivi e giudizi negativi)

High-tech/computer

2001

Telecomunicazioni

2007

27

17

Alimentari

18

18

Abbigliamento/accessori

11

Industria farmaceutica

15

18 17

Auto

1

10

Banca/prodotti finanziari

2

1

Industria mineraria

- 14

Petrolio Tabacco

- 19 - 49

45

31

-9 - 12

- 35

Fonte: Oltre la CSR, l’impresa del Duemila verso la Stakeholder Vision, Luigi Ferrari – Sebastiano Renna – Rossella Sobrero, 2009


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Molto d’accordo

Abbastanza d’accordo

Francia

49

33

Russia

34

47

Gran Bretagna

26

52

Svizzera

40

36

Germania

34

42

Italia

30

46

Filippine

29

46

India

28

39

Cina

22

42

Corea del Sud

22

30

Giappone

10

35

Fonte: Oltre la CSR, l’impresa del Duemila verso la Stakeholder Vision, Luigi Ferrari – Sebastiano Renna – Rossella Sobrero, 2009

La csr dunque è vista con sospetto, perché è qualcosa di “esterno” al lavoro vero dell’azienda, non è parte integrante di una vision, di una strategia. Alla base di questo giudizio vi è la convinzione che nessuna impresa fa del bene senza averne un tornaconto e le buone azioni fini a se stesse sono quindi percepite come operazioni di sola immagine. La pittatina di verde. Cosa fare? Dire alle società di lasciare perdere e di smetterla di prenderci in giro? Non sarebbe meglio vedere queste iniziative come l’inizio di un percorso e spingerle a impegnarsi di più nel campo della csr, integrandola maggiormente nella loro produzione e nella loro mentalità? Oggi ne hanno l’occasione. La csr “classica” è morta con la recessione, che ha portato le aziende a tagliare i progetti-pittatina. Ora possono ricominciare su nuove basi, trasformando, per dirla con Tim Sanders, la Corporate Social Responsibility in Corporate Social Opportunities. Buone azioni coerenti con la loro strategia e con i loro comportamenti. Il motto dell’impresa del futuro non potrà infatti più essere il “business is business” di Friedman. Unico obiettivo: profitto. Ogni tre mesi. E bonus. Bonus. Bonus. Non potrà perché i consumatori, Giulia da Milano per intenderci, non lo accettano più. E si incazzano. Gli strumenti per informarsi e monitorare l’operato delle aziende – internet su tutti – li hanno. Qualche azienda sceglierà di puntare sulla furbizia, ma a suo rischio e


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pericolo. La farà franca un paio di volte e quando verrà beccata non sarà perdonata. Le imprese dovranno quindi calarsi con i loro prodotti nella comunità, nella cultura, nella società. Dovranno cominciare a fare business anche sociale. Ovviamente anche la comunicazione dovrà fare un salto di qualità, perché “nella percezione dei consumatori comunicazione responsabile significa comunicazione chiara, completa, esaustiva e trasparente” (GfKEurisko). La Green Revolution avanza.


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8. La nuova agenzia “ibrida”

Comunicare green non significa solo studiare una campagna di comunicazione. Si tratta di un’operazione diversa e più complessa. Le agenzie di oggi non sono pronte per entrare nella Green Communication. Credo siano in grado, se ben brieffate dal cliente, di creare una pagina pubblicitaria, uno spot, ma non un progetto vero, completo, perché è un lavoro per strutture specializzate. Strutture nuove, che potrebbero aiutare a definire il modello dell’agenzia che verrà. Penso infatti che la comunicazione green dei prossimi anni sarà la palestra per la comunicazione del futuro: come il verde diventerà pian piano il colore dominante, il nostro modo di vivere, la realtà quotidiana, così la Green Communication diventerà uno dei nuovi standard della industry. E potrà essere uno dei fattori grazie al quale le agenzie riusciranno a venire fuori dalla crisi strutturale di cui abbiamo parlato, ridando importanza e centralità alla loro funzione. La nuova agenzia avrà un ruolo più progettuale e di consulenza, anche in merito alla strategia generale di marketing di un prodotto, in particolare per quanto riguarda la sfera sociale e culturale. Saprà usare al meglio i media digitali, web e mobile sopra a tutti, sarà esperta di world of mouth e di organizzazione di eventi. Sarà “ibrida”, come le auto, una via di mezzo tra una vecchia agenzia creativa, una di rp, una di eventi, un centro media e una società di consulenza innovativa specializzata in marketing sociale, ricerche e consumer insights. Avrà competenze nuove: di marketing, strategiche, digitali, legislative. Una “cosa” completamente


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diversa da tutto ciò che conosciamo, anche se alcune strutture stanno già seguendo questa via. Se infatti guardiamo alle agenzie che nascono negli Stati Uniti e in America Latina – la più innovativa – sotto la polvere si intuisce il cambiamento, espresso per ora soprattutto nel campo digitale. La svolta definitiva la potrà dare la Green Communication: per farne parte sarà necessario aggiungere alla conoscenza del digital e alla creatività la competenza nel campo del marketing sociale e culturale, la capacità di dar vita a veri e propri progetti di comunicazione e non a una serie di spot e pagine pubblicitarie. Mettere insieme cultura, società, digitale, politica, legislazione. In altre parole, bisognerà passare dal creare un’immagine al costruire una reputazione di marca.

Costruire la reputazione Le campagne del futuro avranno l’obiettivo primario di posizionare il prodotto nel contesto sociale, dandogli un senso e un ruolo. Cosa significa? La risposta non è semplice e immediata. Meglio partire illustrando due dei pochissimi esempi di brand che hanno affrontato questa sfida con successo. Stonyfield Farm è nata all’inizio degli anni Ottanta come fattoria-scuola non profit per iniziativa di Samuel Kaymen, pioniere dell’agricoltura organica e biodinamica. Nel corso del decennio si è trasformata in azienda produttrice di yogurt e grazie a questo business è riuscita negli anni ad aiutare organizzazioni che lavorano per salvare il pianeta e migliorare l’ambiente in cui viviamo. Stonyfield Farm, che è oggi il primo produttore mondiale di yogurt organico, ha infatti sempre destinato parte del suo profitto – 10 milioni di dollari in ventisei anni per essere precisi – a sostegno di iniziative in linea con il suo dichiarato impegno: “Healty Food, Healty People, and a Healty Planet”. L’acquisizione da parte del gruppo francese Danone non ha cambiato la prassi e l’azienda continua a donare il 10% dei profitti, tramite il programma Profits For the Planet, per la salvaguardia dell’ambiente. Ora, se Stonyfield rappresenta un caso unico per la sua storia, non si può non dire altrettanto della multinazionale francese Danone, che è impegnata anche nel sociale con iniziative come la joint venture fondata in Bangladesh al 50% con Muhammad Yunus, il banchiere dei poveri, inventore del microcredito: anche questa azienda produce yogurt e il profitto viene ridistribuito tra i consumatori.


8. La nuova agenzia “ibrida” | 135

Due casi estremi? Forse, ma è indicativo che abbiano tra i protagonisti una corporation che di profitti se ne intende.

Un profitto più sociale per le aziende La gamma delle tonalità dei social business è infinita: se ne possono fare di tutti i colori, dalla semplice partnership con una ong a progetti concreti per aiutare una comunità, dalla sponsorizzazione di eventi culturali alla produzione etica. Cito un esempio riportato da Tim Sanders, la storia della joint venture tra Aveda e la tribù brasiliana Yawanawa. Al World Summit del ’92 a Rio de Janeiro, il fondatore della società cosmetica, Horst Rechelbacher, ascoltò l’intervento di un rappresentante della tribù che raccontava della lotta per evitare la distruzione delle sue foreste. Tra le piante che crescono nella zona abitata dagli Yawanawa c’è l’uruku, dalla quale si estrae un pigmento marrone-rosso utilizzato nella linea di trucchi prodotta da Aveda. Rechelbacher decise quindi di allearsi con la tribù e investì nella fondazione di una città, Nova Esperanca, per iniziare una produzione eco-sostenibile di uruku. Non spot pubblicitari, ma mattoni per chi lavora nella supply chain. L’alleanza produsse utili per entrambe le parti, spingendo molti consumatori ad acquistare prodotti Aveda. Esempi come questo suggeriscono che nel futuro le aziende saranno in qualche modo “costrette” a impegnare una quota di profitto – e non insignificante – per dar vita a iniziative valide e coerenti con la loro vision e l’ambito in cui operano, in grado di creare una reputazione solida. Chi pensa che sarà sufficiente destinare a simili progetti l’attuale budget di comunicazione, si scontrerà presto con una realtà assai diversa. Certo, si potrebbe impiegare parte dei soldi “sprecati” in investimenti media inutili alla costruzione di un progetto culturale, sociale, politico della marca. Ma non basterà. A questo punto penso che la domanda nasca spontanea: quando la Green Revolution avrà cambiato le regole del gioco, le aziende continueranno a fare gli stessi profitti? La risposta è ni. Continueranno a fare profitti, ma dovranno investire di più e soprattutto investire nella Società con la S maiuscola, prendere parte attiva nel creare un mercato e un mondo diversi, più giusti. Come? Studiando e realizzando prodotti migliori, anche se avranno costi di produzione maggiori; aiutando le comunità residenti nei territori in cui hanno sede gli stabilimenti, in particolare nel Secondo


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e nel Terzo Mondo; dando vita, come ho già detto, a iniziative culturali e sociali coerenti con la loro attività; imboccando con decisione la via della sostenibilità. In altri termini, entrando a far parte della società e svolgendovi un ruolo positivo, distribuendo una parte degli utili alla comunità prima del bilancio di fine anno. Un modo innovativo di distribuzione del profitto. Questa è la vera tendenza, la scoperta che parte del profitto può essere ridistribuita senza inficiare lo sviluppo dell’impresa. E gli esempi, come abbiamo visto, non mancano. Possiamo chiamarla Corporate Social Opportunities o Brand Reputation, il risultato non cambia e porta alla costruzione di una reputazione di azienda seria, trasparente, affidabile, altruista. In linea con i valori di cui il consumatore è alla ricerca.

Nuove aziende per la nuova comunicazione Le prime ad avventurarsi nella nuova comunicazione, che sarà più costosa ma sarà l’unica a garantire un ritorno, saranno le imprese che sono già verdi, le cosiddette lohas (Lifestyle of Health and Sustainabily) di cui abbiamo parlato nei precedenti capitoli. Molte aziende attive nei settori delle energie rinnovabili, del wellness, dei servizi green, dell’ecobuilding, del biologico – solo per nominarne alcune – hanno già iniziato a parlare di reputazione e non più di immagine. A ruota seguiranno le sigle della grande distribuzione, le realtà che sono più a contatto con il consumatore. Hannaford, che abbiamo già citato e di cui parleremo più ampiamente nel decimo capitolo, è il paradigma. Le catene potranno differenziarsi creando valore per la propria marca attraverso la costruzione della reputazione. Le insegne infatti oggi godono di più credibilità di moltissimi brand e possono quindi assumere il ruolo di consiglieri del consumatore, anche per quanto riguarda gli stili di vita. In Italia ci sono già dei best cases, come il lancio della linea antiobesità per l’infanzia della Coop, che non si è limitata a fare pubblicità ma ha creato un sito/blog di consigli per le mamme, ha coinvolto le associazioni di consumatori e dei medici e ha delistato molti prodotti pensati per i bambini ma ipercalorici, perdendo ricavi. E questo è un vero atto di business sociale. Il progetto di comunicazione pensato per la linea Club 4 -10 è una delle prime operazioni italiane di creazione di reputazione attraverso il coinvolgimento sociale nei confronti di un problema molto attuale, che è all’origine di malattie che colpiscono il 35% della popolazione. Ovvia-


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mente la Coop si aspetta un ritorno economico: non si tratta di filantropia ma di Corporate Social Opportunity, di Brand Reputation. Dopo la gdo arriveranno le Organizzazioni Non Governative, strutture che già operano nel sociale e nel campo dello sviluppo culturale del Paese. Per loro sarà naturale approcciare la nuova comunicazione con lo spirito giusto. La difficoltà starà semmai nel fatto che in Italia le ong sono tante, troppe, frammentate e dispongono quindi di budget limitati che vengono destinati più che altro a operazioni di fund raising, lasciando in secondo piano la notorietà, la marca, la reputazione. Proseguendo, avremo le imprese dei settori media e it, che si apriranno con facilità al nuovo modo di comunicare perché Giulia da Milano è già ora il loro prototipo di consumatore. E sanno di avere ben poche speranze di stabilire una conversazione con lei se non parlano lo stesso linguaggio. Poi arriveranno tutte le altre, dalle alimentari alle farmaceutiche. Saranno in prevalenza società di medie dimensioni, più agili, più astute e anche più “imprenditoriali”, perché per fare business sociale spesso ci vuole una persona che ne intuisca la validità strategica, sappia comprendere l’opportunità che rappresenta e abbia il potere decisionale per coglierla al volo. Il passaggio sarà più difficile per le aziende di grandi dimensioni e per le multinazionali. Gli obiettivi trimestrali rischiano di spingerle a lavorare solo in un’ottica di costi e ricavi immediati, impedendo loro di intraprendere un cambio strutturale del proprio conto economico. Le blu chip italiane, le grandi banche, continueranno imperterrite a portare avanti progetti di csr anche quando questa sarà definitivamente morta e sepolta. Le dimensioni, qualche volta l’arroganza, la necessità di fare profitto a tutti i costi (penso alle società pubbliche, il cui management deve rendere conto alla politica), la sudditanza alla borsa, rallenteranno il loro cammino.

Il modello del Whole Brand Reputation L’approccio sistemico al nuovo concetto di reputazione dovrebbe passare attraverso una metodologia ancora imperfetta, empirica: la whole brand reputation, ossia un progetto di posizionamento della marca in un mondo che chiede sostenibilità. Dove Whole sta per integro, pulito, “a posto”, serio, giusto, onesto, trasparente. Quattro le aree in cui il metodo si articola, tutte ugualmente importanti:


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WHOLE BRAND REPUTATION posizionare la marca in un mondo che chiede sostenibilità

il contesto

la marca

il target

l’ambiente

ruolo sociale

produzione

desk analysis & research

competition matrix

ruolo culturale

distribuzione

enviromental panel

packaging

positioning platform the project comunicazione

media

partnership

il contesto, la marca, il target, l’ambiente. Il contesto di un’impresa, di un’azienda, di un prodotto, equivale al suo ruolo sociale, civico, culturale, nel senso più ampio e valoriale e aiuterà, in sinergia con gli altri processi creativi, a definirne il posizionamento. Trovare il giusto contesto significa individuare, attraverso gli strumenti di ricerca necessari, lo spazio naturale che un determinato prodotto andrà a occupare nella società. La parola “naturale” è molto importante, perché il punto sta proprio nel verificare che l’inserimento avvenga in modo non forzato, facendo sì che il progetto accresca la reputazione. Per riuscirci deve essere non solo integro nel senso che abbiamo più volte spiegato ma anche integrato all’interno della piattaforma comunicazionale: non un elemento esterno, la classica sponsorizzazione tout court o la donazione alla onlus del momento. Non l’iniziativa estemporanea che in caso l’anno non si chiuda bene viene immediatamente cancellata. Il progetto sociale non può più essere la ciliegina sulla torta del report annuale, al contrario deve essere parte integrante della mentalità e dell’identità dell’azienda e come tale deve entrare nella sua vita, nell’immagine del prodotto, nella comunicazione. Questa è forse la parte più difficile, più innovativa e più “pericolosa” di tutta l’operazione: una volta fatta la scelta non sarà semplice tornare indietro. Mi rendo conto che la mia spiegazione è basata più sull’illustrare cosa non bisognerà fare che sull’esemplificazione di strategie vincenti, ma


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ogni esemplificazione rischia di essere limitativa. Se dovessi descrivere in poche parole il contesto, lo definirei l’entrare, in modo legittimo e coerente con l’immagine del prodotto che si vuole trasmettere, nell’area del sociale. Il ventaglio delle possibilità è infinito, parte dalle piccole iniziative per arrivare alle grandi azioni. Con una sola avvertenza: se alla base di tutto non c’è da parte dell’azienda una volontà sincera, un serio commitment, meglio non fare nulla, lasciare perdere e continuare con la comunicazione tradizionale, perché entrare nel nuovo modo di comunicare significa entrare nel nuovo modo di fare business. E se non si è davvero pronti, o ci si ferma a metà strada, si rischia molto. I pavidi manager dovrebbero tuttavia tenere a mente una cosa: negli Stati Uniti i primi a intraprendere questo cammino sono stati alcuni visionari, ma tanti hanno incominciato a seguirne le orme e presto arriveranno molti altri. La via diverrà davvero affollata.

Le tre C: Corporate, Civic, Cultural John Rooks è il ceo di un’agenzia specializzata in posizionamento sociale e culturale, Soap (Sustainable Organization Advocacy Partners). L’ho conosciuto l’estate scorsa in occasione del viaggio negli Stati Uniti che ho intrapreso per prepararmi a scrivere questo libro e gli ho chiesto quale sarà a sua opinione il futuro della comunicazione. Ecco la sua teoria. Secondo Rooks le due qualità che verranno più apprezzate dai consumatori sono l’autenticità e la trasparenza, che prenderanno il posto dell’entertainment. Sono caratteristiche che richiedono un ripensamento radicale delle strategie delle imprese, perché faranno sì che il miglior posizionamento diventi quello di “corporation as citizen” e per realizzarlo sarà necessario calarsi davvero nella società, esserne parte e fare qualcosa per lei. Dare un significato sociale e culturale alla marca: questa è secondo Rooks la mossa vincente. Ma come comunicarla? La Brand Reputation è un progetto, non una campagna pubblicitaria. Per Rooks quindi non bisogna chiedersi quali siano i mezzi migliori per trasmetterla, ma guardare ai consumatori, conoscerli e raggiungerli ovunque essi siano per stabilire una conversazione. Raggiungere questo obiettivo significa riuscire a sviluppare strategie di promozione che creino valori Corporate, Civic e Cultural. Le tre C della nuova comunicazione. I primi devono garantire all’azienda il ritorno economico, i secondi migliorare la qualità di vita delle persone coinvolte e l’ambiente, gli ultimi creare un dialogo


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tra consumatore e brand affinché si spingano a vicenda verso la sostenibilità. Stabilito il contesto, si passa ad affrontare l’area della marca. Il lavoro dell’agenzia in questo ambito si avvicina molto all’auditing sul prodotto. Occorre analizzare il processo di produzione, la supply chain, la metodologia di lavoro dei fornitori, le sostanze contenute. L’indagine serve per calcolare l’impronta ambientale del prodotto, vale a dire quanta co2 emette per arrivare sullo scaffale, quanto è conforme alla definizione di sostenibile. Bisogna tener conto di ogni aspetto, dalle lunghe percorrenze delle materie prime al packaging, che va studiato accuratamente, tenendo conto dell’ingombro come della quantità di carta o plastica utilizzata per realizzarlo. Senza dimenticare l’importanza dell’etichetta, che riveste un ruolo fondamentale nel “nuovo mondo”, perché è la prima forma di comunicazione tra consumatore e prodotto e deve quindi essere chiara, breve e incisiva. Questo lavoro non è proprio delle agenzie di oggi, ma diverrà comune alle strutture nel futuro, rendendole simili a consulenti legali e aziendali. Non più solo creative. Il nuovo ruolo darà loro maggiore dignità nel mercato, più credibilità e le farà tornare quello che erano nel dopoguerra: dei consulenti seri. Il target è la terza area della Whole Brand Reputation. Dopo aver sviluppato un concept di marca è necessario infatti verificarne l’aderenza e l’adesione al target, svolgendo ricerche che potranno essere condotte in modo classico o innovativo, come fa Green Team Usa. L’agenzia newyorkese ha creato un panel di “Awakening Consumers” ai quali affida il compito di giudicare, ovviamente via web, un determinato prodotto in un’ottica green. Un metodo semplice ed efficace che consente di avere risposte affidabili e immediate. Certo, costruirsi un simile panel non è facile e le nuove agenzie dovrebbero cominciare a lavoraci al più presto. Si tratta infatti di strumenti proprietari che divengono asset delle strutture, modalità consulenziali uniche sul mercato. Dopo il target bisogna analizzare la matrice complessiva. Questa quarta fase consiste nel verificare se la mappa ambientale della concorrenza è corretta. E nell’individuare dove il nostro prodotto si colloca tra futuro e


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passato, tra innovazione e tradizione, tra sostenibilità e non. Terminato il lavoro di ricerca, di studio e di analisi si è pronti ad affrontare la parte più creativa del processo: ideare la piattaforma di posizionamento. Poche parole che aprono il sentiero su cui la marca intraprenderà il suo nuovo cammino di comunicazione.

Posizionamento e progetto: termini vecchi per descrivere realtà nuove Il posizionamento è una formulazione sintetica della natura del prodotto e di come il consumatore dovrà percepirlo, vale a dire in quale parte della sua mente sarà vissuto. Poiché nel nostro cervello lo spazio è molto, ma ai prodotti ne riserviamo davvero poco, il posizionamento dovrà essere il più sintetico possibile: un nome, una frase, un’immagine. Le spiegazioni, i perché, la razionalità, verranno in un secondo momento. Perché scrivo queste ovvietà? Perché nella mia esperienza di uomo di comunicazione ho letto migliaia di posizionamenti e spesso erano veri e propri romanzi. Erano poesie. Erano cose che non c’entravano nulla con quello che avrebbero dovuto essere, figlie del pensiero debole dell’industry e dell’inadeguatezza del marketing aziendale. A mia opinione infatti, quando hai troppo da dire significa che non sai bene cosa dire. I veri concetti sono sempre semplici. A questo punto arriva il momento di affrontare il progetto. Una fase completamente nuova rispetto al lavoro svolto oggi dalle agenzie, normalmente affidato tout court ai creativi. E invece elaborare un progetto serio, completo, coerente ed efficace è fondamentale, perché tra la scelta del posizionamento e la creazione della reputazione, le azioni da intraprendere sono tante. E devono essere sinergiche, integrate, coerenti per formare un insieme unico, articolato su tre direttrici: • La comunicazione: il tono, la modalità, le parole d’ordine, la creatività. • Il media: la scelta e l’uso dei mezzi, la sinergia. • Le partnership: valutare l’opportunità di alleanze strategiche.


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Il progetto: CRED e multidisciplinarietà Il progetto e tutte le parti che lo compongono vanno sviluppati restando sempre nell’abito del cred.

RELEVANCE

CREDIBILITY

EFFECTIVE MESSAGING

DIFFERENTIATION

Fonte: Strategies for the Green Economy, Joel Makower, 2008

Lo ribadisco: Credibilità, Rilevanza, Efficacia del messaggio, Differenziazione devono essere la base di ogni progetto di comunicazione della nuova era. E devono entrare a farne parte in modo creativo e innovativo. Infine il progetto non potrà che essere multidisciplinare: accanto all’above the line, all’advertising sui mezzi classici punterà sulle relazioni pubbliche nel senso più ampio del termine, ossia sul dialogo con gli stakeholder, consumatori, associazioni, ong, panel di ascolto. Saranno conversazioni digitali, ovviamente, perché il word of mouth la fa da padrone in questa area. E ormai il word of mouth è diventato buzz digital marketing. Online, tra blogger. Nei forum. Su Facebook, su Twitter. Faranno parte del progetto gli eventi, perché nella società, tra la gente, ci si muove soprattutto facendo vivere il prodotto, dando la possibilità di provarlo, toccarlo e creando emozioni in grado di far passare il messaggio sociale a esso collegato. Saranno infine previste promozioni e operazioni di direct marketing. La parola d’ordine, ormai è chiaro, sarà presidiare l’intero scenario dei mezzi. Ma bisognerà farlo in modo coerente. Integro. E con un unico maestro a dirigere l’orchestra.


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Questo principio postula il ritorno delle agenzie, ristrutturate secondo i modelli dettati dalle caratteristiche della nuova comunicazione, al centro della consulenza nel marketing dei prodotti.

Necessità di partnership Un aspetto particolare e delicato della fase progettuale è rappresentato dalla scelta delle partnership. Ogni marca ha bisogno di alleati per stabilire un raccordo con la società e con gruppi di persone. Le alleanze possono contribuire infatti a dare alla marca quella reputazione che manca alla natura del prodotto. Nel mondo del volontariato, delle onlus, delle ong è possibile trovare validi ambasciatori e più il legame che verrà a crearsi sarà saldo, più la reputazione ne trarrà forza. In genere le organizzazioni non profit non sono disponibili a stringere alleanze di facciata e spesso impongono alle aziende che desiderano creare una partnership, in particolare se di medio-lungo termine, di intraprendere un serio percorso verso la sostenibilità. Più le marche puntano su progetti comunicazionali e non su semplici campagne, più il legame è facile da costruire. Anche l’universo non profit ha bisogno di alleanze solide e durature, perché la frammentazione delle realtà che lo compongono e la difficoltà del fund raising mettono le strutture in una condizione di debolezza e insicurezza. La volontà da parte di un’azienda di costruire progetti seri, affidabili e prolungati trova in esse un interlocutore pronto al dialogo. A volte, è vero, troppo radicale o poco incline al compromesso, ma comunque aperto e disponibile al confronto per raggiungere un accordo. Un altro aspetto che caratterizza sempre più le realtà non profit è la nuova forma con cui si organizzano, soprattutto nell’area ambientale. GoodGuide, il sito-guida ai prodotti “buoni” di cui abbiamo già parlato e sul quale torneremo, è l’esempio da tenere presente. La loro ricerca di fondi esclude le società di largo consumo. Probabilmente sono più disponibili a stringere legami con strutture fornitrici di servizi o appartenenti al mondo digitale, come i motori di ricerca. La ricerca di alleanze nel campo dell’online sarà quindi difficile per molte marche e prodotti, ma bisogna ricordare che la tendenza green va nella direzione digitale. Scelta – nel caso lo si reputi opportuno – la forma di partnership, occorre affrontare gli altri due elementi su cui si articola il progetto.


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La comunicazione e il media planning Nel parlare di comunicazione è mia intenzione non insistere su argomenti sui quali si sono spese già troppe parole. Una sola annotazione: la qualità della creatività farà sempre la differenza. Si tratta infatti dell’unico fattore che non dipende dalla validità del metodo della Whole Brand Reputation e dalla capacità di applicarlo al meglio. Lo schema che ho elaborato è innovativo e seguendolo si dovrebbe raggiungere comunque l’obiettivo prefissato. La differenza nel risultato finale la fa il creativo che dà alla comunicazione originalità e unicità e determina il tono e la qualità del messaggio. La creatività è sintesi: un’immagine, una parola sola possono narrare tutto il progetto e il posizionamento nel modo giusto. È una forma di arte, forse ancora minore, ma pur sempre arte. Ma comunicare è anche tecnica, necessaria nel momento in cui il nostro messaggio va portato nell’ambito di due aree che sono ormai imprescindibili per i prodotti green (e non solo): il digitale e il punto di vendita.

Un nuovo colloquio con la distribuzione e con il digitale Il nuovo approccio nei confronti della distribuzione sarà improntato reciprocamente alla condivisione dei valori della marca e dell’insegna, che tenderanno sempre più a coincidere. Se il retailer, per dare più garanzie alla clientela e fidelizzarla, dà un giudizio sui prodotti presenti sui suoi scaffali, come fa Hannaford assegnando a tutta le merce in vendita da un punteggio da zero a tre stelline e come avviene in qualche misura anche nelle nostre Coop, le marche dovranno tenerne conto. E cercare di uscire con un buon rating, che significa una stellina sul segnaprezzo. Una stellina destinata a fare la differenza perché indirizzerà i consumatori nell’ultimo centimetro di acquisto. Il rapporto con la distribuzione continuerà dunque a basarsi sulla normale trattativa con il buyer del retailer: settimane di promozione, sconti quantità sempre maggiori e il migliore shopper marketing. Ma a questo si aggiungerà la trattativa sul valore della marca, che vedrà coinvolti dei veri esperti e dove l’immagine conterà poco, al contrario della reputazione. Il digitale sarà un fattore determinante con cui si confronteranno tutti i prodotti di domani. Non si tratta più della scelta di un mezzo, il web è destinato a diventare il medium per eccellenza. Ma la creatività online richiede tecniche e competenze specifiche dal punto di vista progettuale


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e contenutistico. La creazione di blog della marca, la preparazione di un sito di servizio, la decisione di azionare il passaparola attraverso i buzz ambassador, il lancio di pagine e attività all’interno dei principali social network, la volontà di far nascere community che devono essere animate con eventi e con il dialogo continuo con i membri, rappresentano infatti ben più della scelta di un mezzo. Sono elementi del piano di comunicazione che prenderà vita in rete, un piano composto da tante parti che richiedono competenze e specializzazioni diverse l’una dall’altra. Elaborare questo piano dunque è un compito che può svolgere solo un consulente che nel digitale vanta un’esperienza consolidata e articolata. Non si tratta infatti di costruire un bel sito o di ideare una campagna di email marketing. C’è molto, molto di più. Solo l’agenzia del futuro, quella che sta nascendo oggi, sulle ceneri dei dinosauri del Novecento, saprà affrontare pienamente la sfida, grazie alle sue competenze in ambito creativo, di ricerca, di analisi, di direct e shopper marketing, di data base e così via.

Agenzie nuove Queste agenzie esistono già. Ne ho conosciute due nel corso del mio ultimo viaggio negli Stati Uniti. Green Team Usa (www.greenteamusa.com) è l’agenzia di New York, con sede vicino al Chrysler Building, che ha sviluppato la filosofia dell’Awakening Consumer – il consumatore sveglio – della quale ho già fatto cenno. La struttura ha sedici anni di vita e il suo fondatore Hugh Hough, prima di entrare nel mondo della comunicazione, è stato un vero attivista dell’ambiente. La sua principale attività, quella che la rende unica – mi raccontava Hugh confessandomi un incremento del lavoro e una buona dose di new business inaspettato – consiste nell’auditing della marca e nelle ricerche sul consumatore. E solo in un secondo tempo nello sviluppo di un progetto di comunicazione coerente con il brand e concentrato nell’ambito del digitale e delle pubbliche relazioni. Anche John Rooks, fondatore di Soap, agenzia di Portland nel Maine, ha un passato da attivista ambientale e softwarista, divenuto poi comunicatore. E anche lui mi ha confidato che mai avrebbe pensato che le grandi aziende lo avrebbero chiamato. Al tempo della nostra conversazione era appena stato contattato dalla gm per il lancio della Volt, l’auto ibrida della casa di Detroit.


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Hough e Rooks provengono entrambi da esperienze diverse dall’agenzia classica. Sanno che nel loro lavoro la creatività è importante ma al tempo stesso si rendono conto di svolgere un ruolo che potrei definire di avvocati della marca in un settore molto delicato. Accanto a Green Team Usa e a Soap stanno nascendo altre strutture, figlie delle grandi agenzie. Ogilvy ha lanciato in più paesi OgilvyEarth, Saatchi & Saatchi ha creato s&s s, sigla in cui l’ultima S sta per sostenibilità, Euro rsgc ha creato una divisione ad hoc negli Stati Uniti e presto altre sigle daranno vita a unit dedicate. Tutte però hanno in comune un vizio di approccio: guardano alla Green Communication come a una nicchia di mercato. Interessante, in evoluzione, ma comunque nicchia. E si portano dietro il fardello della struttura delle vecchie agenzie e le doppiezze che caratterizzano le grandi firme, continuando a sviluppare nella stessa stanza la comunicazione per una multinazionale del tabacco e un progetto di Green Communication. Penso che la Green Revolution sarà un forte acceleratore del processo di ristrutturazione delle agenzie. E le strutture imprenditoriali nuove, specie quelle che vengono da mondi diversi dall’advertising classico, sono le più pronte a intercettare il cambiamento. Comunicare nel mondo e nei giorni della Green Economy è un esercizio difficile, ma per la prima volta è anche un esercizio meraviglioso.



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9. Copenhagen, un accordo a metà. E un successo a metà

“Science leaves us no space for inaction.” Rajendra Pachauri, chairman of the IPCC, NYT 23 settembre 2009

Oggi è il 19 dicembre 2009. Si è da poche ore conclusa la Conferenza di Copenhagen (tecnicamente la 15° Conferenza delle Parti – cop15) su clima, energia e sviluppo. Con un risultato a metà. Da una parte l’indicazione che l’aumento della temperatura sulla Terra non potrà superare i due gradi nel 2050, anzi forse mezzo punto meno (come recita la parte finale dell’accordo); il conferimento di 100 miliardi dollari da distribuire ai Paesi emergenti entro il 2020 (30 entro il 2012) per aiutarli nell’adeguamento delle tecnologie e nell’affrontare meglio il loro cammino di sviluppo; il riconoscimento del ruolo cruciale della deforestazione nell’emissione dei gas serra. Dall’altra nessun impegno vincolante sui numeri delle restrizioni sulle emissioni dei gas serra per singolo Paese o per area. Nessun impegno di specifiche date da rispettare. Ma la conferenza è stata indubbiamente un successo mediatico. Tutti ne hanno parlato e per la prima volta il clima è entrato nelle case della gente come problematica universale e prioritaria. Ed è stata un medio successo politico per i Grandi della Terra che hanno manifestato come il problema del cambiamento climatico sia oggi il problema. Ancora a parole, ma dette ormai in modo consapevole, anche se ognuno aveva lo sguardo rivolto più a casa sua che al pianeta. Ma è stata anche un insuccesso diplomatico, perché non ha aggiunto molto rispetto a quanto detto e stabilito a Kyoto. Un disastro secondo le ong, i radicali, gli scienziati e il gruppo dei 77, i paesi in via di sviluppo.


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Questo il quadro qualche ora dopo l’evento. Sul piano politico si può dire che usa e Cina, i due più grandi inquinatori del mondo, hanno dimostrato di aver compreso il problema. Per capirci… A Kyoto Bush non aveva neanche partecipato e non aveva aderito ai termini indicativi della conferenza e la Cina non si era neppure presentata. Ma Obama ha i suoi problemi interni, la sua legge sull’energia è ferma al senato dopo una timida approvazione del congresso. E la Cina non vuole limiti né controlli esterni perché teme il blocco dello sviluppo industriale, anche se ha già previsto una somma enorme per adeguare le tecnologie green. Resta il fatto che le due potenze – il mitico g2 come si chiama ora – hanno parlato e a Copenhagen hanno chiuso l’accordo come fossero i veri padroni. A mio avviso è un bel passo avanti. L’Europa, che era la prima della classe, è invece rimasta al palo. Ferma sia dal punto di vista politico sia da quello diplomatico. Meglio India, Brasile e Sud Africa, che hanno stretto un’alleanza a loro vantaggio con gli Stati Uniti. E bene il gruppo dei 77 che ha protestato in modo veemente, ma che ha ottenuto, se non altro, soldi e aiuti. Come? Si vedrà, dal momento che l’accordo non indica le modalità. Ma la storia insegna che quando ci sono i soldi la strada si trova sempre. La sintesi di questo grande incontro lascia irrisolta la grande domanda: lo sviluppo del mondo può essere uno sviluppo sostenibile? A Copenhagen non c’è stata risposta. La contrapposizione tra i Paesi che hanno “bisogno” di inquinare per crescere economicamente e quelli che possono smettere di farlo è ancora troppo forte e impossibile da mediare. Gli interessi in gioco, soprattutto di politica interna ed economici, sono così enormi che l’essenzialità del problema è stata nascosta da un dibattito spesso strumentale e dispersivo. Il principale dato di sintesi a mio avviso è che comunque il tema della sostenibilità è all’ordine del giorno, nessuno si tira più indietro, tutti sanno che se l’innalzamento della temperatura supererà i due gradi sarà un disastro biblico. Tutti sanno che occorre ridurre del 50% le emissioni. Che significa l’80% per i Paesi occidentali. Nessuno dice come si farà, ma tutti ormai sanno che è necessario farlo. Lo sa anche l’opinione pubblica, che in fatto di clima fino a ieri ragionava in termini di microatti mentre oggi comprende le grandi tematiche, il quadro generale. Insomma, Copenhagen non sarà stato il successo che ci si aspettava ma


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è stato il primo vero grande passo verso la completa consapevolezza del problema.

La storia delle conferenze fino a Copenhagen Ma da cosa nasce tutto questo movimento di scienziati, politici e cittadini? Dobbiamo risalire al 1988 e alla creazione da parte della World Meteorological Organization e del United Nations Environment Programme (unep) dell’International Panel on Climate Change (ipcc), ente che da allora studia il fenomeno del riscaldamento globale e del cambiamento climatico, diffondendo i risultati delle proprie ricerche e proponendo possibili azioni di intervento.

Non coinvolti Asia meridionale 13,1%

Africa7,8%

Non coinvolti Asia Orientale 17,3%

America Latina 10,3%

Altri non coinvolti 2,0% Medio Oriente 3,8%

Europa 11,4%

NON ANNEX I Media Stati non coinvolti nel Protocollo di Kyoto 4,2 t CO2 eq. pro capite

Usa e Canada 19,4% Giappone, Australia, Nuova Zelanda 5,2% Russia e Europa Orientale 9,7%

ANNEX I Media Stati coinvolti nel Protocollo di Kyoto 16,1 t CO2 eq. pro capite

t CO2 eq. pro capite

30 25 20 15 10 5 0 0

1

2

3

4

5

6

Popolazione cumulata in miliardi

Fonte: Che tempo che farà, breve storia del clima con uno sguardo al futuro, Luca Mercalli, 2009

7


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In un’atmosfera sempre più consapevole della necessità di approfondire le implicazioni del cambiamento climatico, la Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo ha dato vita nel 1992 al United Nations Framework Convention on Climate Change (unfccc): in questa occasione 154 nazioni firmano per la prima volta un impegno non vincolante finalizzato a stabilizzare le emissioni di gas serra entro il 2000. L’impegno diventa ufficiale nel 1994 e da allora, ogni anno, tutti i partecipanti si riuniscono nella Conferenza delle Parti (cop) per fare il punto della situazione. La cop più famosa è sicuramente quella tenutasi a Kyoto nel 1997, incontro in cui fu redatto il celebre Protocollo, disciplinante gli impegni di riduzione delle emissioni che ogni Paese partecipante avrebbe dovuto rispettare. Dalla data di stipulazione (11 dicembre 1997) abbiamo aspettato sette anni per vedere il Protocollo di Kyoto entrare in vigore, il 16 febbraio 2005. Ma nonostante l’ufficialità del progetto, pochi sono stati i Paesi realmente efficienti nel rispettare i vincoli di emissioni sottoscritti in sede europea.

Ancora un po’ di storia… Uno dei primi meeting degni di nota si è svolto a Montreal nel dicembre 2005, anno in cui è entrato in vigore il Protocollo: la cop11 canadese ha quindi giocato un ruolo decisivo nel focalizzare l’attenzione sull’operatività dei vari membri. Un altro importante passo avanti avviene nel dicembre 2007, durante la cop13 a Bali: la Conferenza si è conclusa positivamente con l’adozione della Bali Road Map in vista di un futuro accordo internazionale sui cambiamenti climatici. È qui infatti che i politici di tutto il mondo segnano sulle loro agende l’appuntamento a Copenhagen per dicembre 2009. La Bali Road Map include anche il Bali Action Plan, che contiene gli intenti e le tappe da rispettare per arrivare a Copenhagen pronti a sottoscrivere un impegno concreto, a scambiare e trasferire tecnologie per il potenziamento della lotta contro i cambiamenti climatici, a sancire una decisa riduzione delle emissioni dovute alla deforestazione. Quindi, di fatto, nel 2007 a Bali gli Stati partecipanti stabilirono un timing per arrivare a dicembre ’09 con un accordo reale tra le mani.


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In questo contesto internazionale, sempre più attento alle problematiche climatiche, si arriva al 2008, anno che si conclude con la 14° Conferenza delle Parti (cop14) a Poznan, Polonia. In questa occasione l’Europa, preparando il terreno per la Conferenza di Copenhagen 2009, si attribuisce un nuovo importante obiettivo, espresso dal Pacchetto clima-energia 2020-20: ridurre le emissioni del 20% entro il 2020 (rispetto ai valori del 1990), incrementare del 20% l’utilizzo di energie rinnovabili, portare al 20% il risparmio energetico. Sempre durante la Conferenza di Poznan, i rappresentanti dei vari Stati hanno iniziato le negoziazioni e i lavori di “ripulitura e scrematura”, in vista della più decisiva cop15 del 2009. E proprio in Polonia il commissario europeo all’Ambiente, Stavros Dimas, ha menzionato la situazione italiana, allibito per le obiezioni al pacchetto clima avanzate dal nostro Paese: “l’Italia probabilmente farà l’affare migliore … Per l’Italia in questo pacchetto ci sono enormi opportunità e non svantaggi. L’occupazione salirà dello 0,3%, ci sarà più sicurezza energetica, più energia rinnovabile e un futuro con minori emissioni e soprattutto molti incentivi all’innovazione”. Secondo l’ue infatti, i costi da sostenere nel nostro Paese per implementare una corretta politica ambientale ed energetica si aggirerebbero tra i 9,5 e i 12,3 miliardi di euro. Nel valutare la fattibilità di una strada verde italiana non ci possiamo dimenticare, come ha più volte ricordato il Presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza, di contabilizzare il ritardo del Belpaese nell’adeguamento ai vincoli europei: se da un lato valutiamo i costi che il nostro Paese dovrà sostenere per migliorare la propria efficienza energetica e il proprio impatto ambientale, dobbiamo anche valutare dall’altro quanto costerebbe, e di fatto sta già costando, non adeguarsi alle nuove esigenze. Il divario è di circa sette miliardi di euro l’anno solo per acquistare crediti di emissioni extra, più eventuali multe e tassazioni per non aver rispettato accordi presi in sede europea. Dice ancora Cogliati Dezza: “Le altre economie forti del vecchio continente invece non solo non dovranno più ricorrere al massiccio acquisto di crediti di co2, ma cominciano già oggi a raccogliere i benefici di investimenti ragionati nel campo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica”.


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Capacità eolicatotale installata 2008 L’energia eolica è il rapida crescita e fornisce ormai 120.000 megawatt in tutto il mondo.

Tutti gli altri paesi 16.693 USA 25.170

India 9.645 UK 3.404 Francia 3.736 Cina 12.210 Portogallo 2.862

Spagna 16.754 Germania 23.903

Italia 3.241 Danimarca 3.180

Fonte: La scelta, Al Gore, 2009

Dobbiamo guardare al “risultato” di Copenhagen anche alla luce di questo dubbio, che emerge già da tempo nei conti di molti: investire tra i nove e i 12 miliardi di euro in innovazione, capacity building, efficienza energetica, energia pulita, nuovi posti di lavoro (senza contare gli innumerevoli benefici di lungo termine per la salute, la conservazione delle risorse naturali ecc.) o continuare sulla vecchia strada del consumo cieco, spendendo comunque circa sette miliardi di euro in multe, senza ricavarne alcun beneficio? Il vantaggio a favore dell’investimento viene dimostrato ampiamente da uno studio della McKinsey che ormai ha fatto il giro del mondo.


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DENARO INVESTITO 90

tecnologia CCS nelle centrali a gas tecnologia CCS nelle centrali elettriche a carbone co-combustione di biomassa nelle centrali elettriche

60

eolico ad alta penetrazione solare PV solare CSP eolico a bassa penetrazione auto ibride plug-in biocarburanti di seconda generazione rigenerazione organica del suolo energia geotermica

costi di abbattimento (dollari per tonnellate di CO2)

30

0

- 30

- 60

piccolo idroelettrico biocarburanti di prima generazione gestione risicoltura elettricità da gas di discarica auto ibride

isolamento (edifici residenziali) gestione aratura e residui

motori efficienti

- 90 apparecchiature efficienti

- 120

isolamento (edifici commerciali) illuminazione efficiente (residenziale)

5 10 DENARO RISPARMIATO

15

20

25

30

35

abbattimento potenziale di CO2 (proiezione al 2030 in miliardi di tonnellate di CO2 all’anno)

Adattato con modifiche da McKinsey & Company, Pathways to a Low-Carbon Economy. Version 2 of the Global Greenhouse Gas Abatement Cost Curve, 2009

Nell’incontro tenutosi a Pittsbourgh in Pennsylvania lo scorso 24-25 settembre 2009, i due grandi usa e Cina (in questo caso due grandi inquinatori, non solo colossi economici e politici) si sono esposti in un fermo discorso sull’impegno delle rispettive nazioni nella lotta ai cambiamenti climatici. Molto sembrava poi si potesse concludere a Barcellona (2-6 novembre 2009), l’ultima serie di incontri rilevanti per la definizione di un accordo


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mondiale sui cambiamenti climatici post-2012 prima dell’atteso meeting di Copenhagen, e invece, con un colpo inaspettato, Cina e Stati Uniti hanno rimescolato ulteriormente le carte. Il 15 novembre scorso a Singapore, durante il vertice apac (Asia-Pacific Economic Cooperation) è stato convocato d’urgenza il premier danese Lars Rasmussen affinché prendesse atto di una decisione già presa dai due grandi del mondo: non si arriverà a Copenhagen con l’intento di sottoscrivere un nuovo Protocollo di Kyoto.

A Kyoto l’Europa recita una bella parte, l’Italia un po’ meno A Kyoto l’Europa si è assunta l’impegno di ridurre le emissioni di gas serra dell’8% entro il 2012 rispetto ai livelli dell’anno di riferimento, il 1990. All’interno di questo obiettivo generale è stato assegnato a ciascuno Stato membro un target differenziato: ad alcuni è stata richiesta la riduzione delle emissioni, ad altri è stata concessa una soglia di aumento. Anche tutti i nuovi Stati membri (entrati in Europa dopo il 1997) hanno concordato obiettivi individuali, con l’eccezione di Cipro e Malta, che non ne hanno alcuno. Dopo una prima fase di prova e di stabilizzazione, il Protocollo è entrato nella sua fase operativa (2008-2012) e l’Italia, come tutti gli altri Paesi, si trova a dover rendere conto del proprio risultato. Per l’Italia nel 1997 è stata firmata la riduzione delle emissioni di co2 del 6,5% rispetto ai valori del 1990 (come sappiamo il 1990 è l’anno di riferimento utilizzato per calcolare i livelli di anidride carbonica, metano e protossido d’azoto per tutti gli Stati membri dell’ue). Purtroppo ha emesso l’11% in più rispetto ai livelli del 1990 e nel 2008 è al +6%.


9. Copenhagen, un accordo a metĂ . E un successo a metĂ | 157

Summary of planned measures and progress towards target Planned measures with quantified 2010 reductions projections

Country

EU-15

EU burdensharing or Kyoto target

2006 emissions lower than Kyoto target

Existing policies and measures

-8,0%

No

v

v

No

v

Net removal from carbon sinks

Kyoto target projected to be reached?

v

v

Yes

v

v

v

Yes

v

v

Yes

Additional policies and Use of Kyoto measures mechanisms

EU-15 Member States Austria

-13,0%

Belgium

- 7,5%

No

v

Denmark

-21,0%

No

v

v

v

No

Finland

0,0%

No

v

v

v

France

0,0%

Yes

v

v

v

Yes

Germany

v

Yes

-21,0%

No

v

v

v

Yes

Greece

+25,0%

Yes

v

v

v

Yes

Ireland

+13,0%

No

v

v

v

v

Yes

-6,5%

No

v

v

v

v

No

Luxembourg

-28,0%

No

v

v

v

Yes

Netherlands

-6,0%

No

v

v

v

Yes

Italy

Portugal

+27,0%

No

v

v

v

v

Yes

Spain

+ 15,0%

No

v

v

v

v

No

Sweden

+4.0%

Yes

v

United Kingdom

-12,5%

Yes

v

v

Yes

Yes

v

v

Yes

v

Yes

EU-12 Member States Bulgaria

-8.0%

Czech Republic

-8,0%

Cyprus

Yes

v

v

v

n.a.

n.a.

v

v

Yes n.a

n.a.

Estonia

-8,0%

Yes

v

v

Yes

Hungaria

-6,0%

Yes

v

v

Yes

Latvia

-8,0%

Yes

v

Yes

Lithuania

-8,0%

Yes

v

Yes

Malta

n.a.

n.a.

v

n.a

n.a.

Romania

-8,0%

Yes

v

v

Yes

Slovak Republic

-8,0%

Yes

v

v

Slovenia

-8,0%

No

v

v

v

v

v

Yes v

Yes

EU candidate countries Croatia

-5,0%

Yes

v

Turkey

n.a.

n.a.

v

Yes n.a.


158 | GO GREEN

Planned measures with quantified 2010 reductions projections

Country

EU burdensharing or Kyoto target

2006 emissions lower than Kyoto target

Existing policies and measures

No

v

Additional policies and Use of Kyoto measures mechanisms

Net removal from carbon sinks

Kyoto target projected to be reached?

Other EEA member countries Iceland Liechtenstein Norway Switzerland

10,0%

Yes

-8,0%

No

v

v

+1,0%

No

v

v

-8,0%

No

v

v

v

Yes v

Yes No

Fonte: Greenhouse gas emission trends and projections in Europe 2008, tracking progress towards Kyoto Targets. EEA Report No 5/2008

Sembra tuttavia possibile arrivare al 2012 con un adempimento pieno del Protocollo, ossia con la riduzione delle emissioni totali europee dell’8%, grazie al comportamento virtuoso di Paesi come Germania, Austria, Svezia, Lussemburgo.

Come funziona il Protocollo di Kyoto? Nel Protocollo di Kyoto vengono definiti tre strumenti principali per supportare i Paesi firmatari nel perseguimento dei propri obiettivi, i cosiddetti “meccanismi flessibili”: • Emissions trading (et): prevede lo scambio internazionale e nazionale di quote di emissione tra Paesi che hanno sottoscritto il Protocollo. • Clean Development Mechanism: definisce la possibilità di finanziare progetti nei Paesi in via di sviluppo finalizzati alla riduzione delle emissioni di co2. • Joint Implementation: esiste anche la possibilità di realizzare progetti per la riduzione delle emissioni in Paesi industrializzati o con economie in transizione. Il meccanismo Emission Trading è disciplinato dalla Direttiva Europea 2003/87/CE, attraverso la quale viene istituito uno strumento dedicato allo scambio di quote di emissioni, l’Emission Trading Scheme. I Paesi


9. Copenhagen, un accordo a metà. E un successo a metà | 159

che hanno sottoscritto il Protocollo e le imprese in essi operanti dovranno limitare le loro emissioni secondo quanto definito nei Piani Nazionali di Allocazione definiti per i due periodi d’attività: 2005-2007 e 2008-2012. Il Protocollo va ad interessare 5 macro settori: • Attività energetiche • Produzione e trasformazione dei metalli ferrosi • Industria dei prodotti minerali • Impianti per la fabbricazione di prodotti ceramici • Impianti industriali per la fabbricazione della carta Tutti coloro che lavorano nei settori interessati dalla direttiva hanno precisi obblighi: • richiedere l’Autorizzazione ad emettere, con descrizione dettagliata della metodologia di monitoraggio; • assicurarsi di ricevere un totale di quote di emissione da poter utilizzare durante l’anno, secondo quanto attribuito loro da ciascun Piano di Allocazione Nazionale; • monitorare accuratamente le proprie emissioni e quindi attrezzarsi per poterlo fare; • comunicare il proprio trend di emissioni ogni anno al Ministero dell’Ambiente secondo le dovute modalità; • ogni anno ciascuna azienda soggetta alla Direttiva deve restituire le quote di emissione: le quote in eccesso, quindi quelle che l’azienda non ha sfruttato, potranno essere vendute sul mercato, o conservate. Lo stesso vale per le situazioni in deficit: se un’azienda si è trovata ad emettere più del concesso, dovrà acquistare quote in più nel mercato.

Il sistema delle quote con l’Emission Trading Scheme L’Emission Trading Scheme (eu-ets) è articolato in due fasi: una sperimentale, attuata dal 2005 al 2007, e una di funzionamento effettivo, dal 2008-2012. Nella prima fase ogni Stato membro ha definito un tetto di emissioni, ovvero il cap, per tutte le aziende che operano nel rispettivo territorio, attraverso l’elaborazione di specifici piani di allocazione. Per ogni anno di funzionamento del sistema, ciascuna azienda deve certificare di non aver superato il cap che le è stato assegnato. Se sfora, è costretta a coprire la differenza con crediti di emissione, acquistati nel


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mercato del carbonio. Le aziende che invece hanno emesso co2 in misura inferiore al proprio cap sono autorizzate a vendere la differenza. Gli scambi di crediti sono registrati in appositi registri.

Come funziona il Cap and Trade CAP

CO2 in eccesso

Bonus residuo in vendita

CO2

CO2

TRADE

Bonus

Denaro

Fonte: “The Washington Post”, Patterson Clark, 26 febbraio 2009

Tra i soggetti che operano nel sistema, oltre alle stesse imprese, ci sono i certificatori, che rendicontano le emissioni prodotte da un’impresa e i “carbon trader”, che possono suggerire alle aziende i momenti migliori in cui comprare crediti sul mercato. Di fatto sono quindi le singole aziende che pagano, a seconda di quanto hanno emesso (se sono molto inquinanti, dovranno acquistare molti crediti e così via). Ogni Stato membro definisce quindi un’autorità competente che si dedica alla redazione di questi Piani, rilascia alle imprese le autorizzazioni a emettere gas serra ed eroga le sanzioni per le quelle aziende che hanno sforato i tetti a esse assegnati. Per l’Italia tale ente è il Comitato di attuazione della direttiva 2003/87/ce. (http://ec.europa.eu/environment/climat/emission/2nd_phase_ ep.htm)


9. Copenhagen, un accordo a metà. E un successo a metà | 161

Cosa ci aspetta dopo Copenhagen? Bonn e poi Città del Messico… Non è il programma di un viaggio last minute. Sono i luoghi dove si parlerà del clima e del green nel 2010. Se infatti dal meeting di Copenhagen ci si aspettava venissero definiti un impegno quantitativo da raggiungere entro il 2020 per i Paesi industrializzati e entro il 2050 per tutti gli altri; una data entro la quale i Paesi in via di sviluppo dovessero iniziare a ridurre le proprie emissioni; e obiettivi misurabili per quanto riguarda l’efficienza energetica e le energie rinnovabili... Tutto questo non è avvenuto Tuttavia, anche per timore della pubblica opinione, i capi di Stato hanno già stabilito una data per definire questi obiettivi, a Bonn a metà 2010, e indetto una nuova cop a Città del Messico a fine 2010. E infine hanno concesso fino al 2016 per i tempi dell’implementazione. Tempi lunghi se guardiamo alla situazione disastrosa in cui versa il pianeta, brevi se pensiamo a che punto eravamo solo qualche anno fa e ai passi avanti compiuti, quantomeno in termini di comprensione, in tema di sostenibilità e lotta al cambiamento climatico. Il bicchiere è certo mezzo vuoto sul piano dei termini vincolanti, ma mezzo pieno su quello della consapevolezza delle problematiche e della volontà di cercare una soluzione.


162 | GO GREEN


10. Le best practices della Green Economy

A questo punto del percorso possiamo provare a dare una risposta concreta alla fatidica domanda di Van Jones, riportata nel primo capitolo: “Trarremo benefici dall’economia verde per i nostri figli?” Ci sono infatti, principalmente in usa, ma non solo, persone e aziende che hanno creduto nel cambiamento e hanno investito nell’economia green, innovativa, più sicura e salutare per tutti. E che ora raccolgono i frutti della loro scelta. Abbiamo selezionato una serie di case histories, suddividendole in quattro aree che mi sembrano sintomatiche per chiarire la natura dello sviluppo della Green Economy: il retail, ossia la grande distribuzione, i mall, le agorà del nostro tempo; il mondo digitale, dove il non profit avanza con forza e determinazione; la produzione, con la nascita di prodotti verdi; e infine le città, le nuove green town. La breve rassegna di questi casi è la migliore risposta alla domanda di Van Jones: l’economia verde è davvero in grado di generare business, è un affare per tutti, generazioni future incluse.


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Il retail : la prima linea a contatto con la rivoluzione La catena Hannaford: dove le stelle contano! Era il 1883 quando Arthur Hannaford aprì il primo punto vendita di quella che sarebbe diventata una delle catene americane di supermarket più accreditate, guidata da una multinazionale belga. Il suo slogan è “Hannaford è qui per rendere più semplice il viver sano”. Molti prodotti contengono elementi chimici, eccessivi grassi, hanno valori nutrizionali pessimi e, per di più, sono nocivi per il pianeta. E i consumatori che desiderano mantenere uno stile di vita sano non sempre hanno tempo a sufficienza, pazienza necessaria o conoscenze appropriate per compiere scelte accurate. Perché allora non far sì che, almeno nella spesa quotidiana, scegliere uno stile di vita sano diventi più facile? I ricercatori della Hannaford hanno creato quindi un sistema pilota per aiutare il consumatore: le stelline guida. Nei negozi di questa catena non è più strettamente necessario leggere le etichette e fare paragoni azzardati. Uno staff di esperti ha già analizzato e catalogato tutti i prodotti presenti all’interno dei punti vendita, assegnando a ciascuno un punteggio che va da zero a tre stelle: i cibi con una stella hanno valori nutrizionali buoni; quelli con due stelle valori nutrizionali superiori; i prodotti che invece sfoggiano tre stelle hanno i migliori valori nutrizionali sul mercato. La spesa è così semplificata e orientata a premiare un prodotto naturale e salutare. Questo meccanismo rientra in una politica di gestione attenta alle tematiche ambientali e che cerca di guidare il consumatore verso un acquisto consapevole: prodotti biologici, provenienti possibilmente da una filiera corta, in grado di supportare l’espansione del mercato locale e ridurre l’impronta ecologica di tutto il sistema di distribuzione. Whole Foods: il primo iper davvero verde Cosa dovrei mangiare e perché? Ciò di cui mi nutro è davvero sano? Ecco le domande a cui la catena americana Whole Foods Market intende dare una risposta. Per farlo, negli ultimi trent’anni ha svolto ricerche e studi per garantire che i prodotti presenti nei propri punti vendita siano al top della qualità alimentare. Ormai leader mondiale nella distribuzione di cibo naturale e biologico, Whole Foods Market ha aperto il suo primo negozio nel 1980 ad Austin, Texas, e oggi conta 270 punti vendita tra Nord America e Regno Unito.


10. Le best practices della Green Economy | 165

La sua modalità d’azione, immutata nel tempo, consiste nell’applicare i più severi controlli e standard, nel favorire la diffusione di prodotti derivati da agricoltura biologica e sostenibile e nel promuovere una stretta collaborazione con i produttori locali. L’interdipendenza fra tutti gli elementi della filiera, dalle materie prime, ai produttori primari e distributori, è espressa nella mission “Whole Foods, Whole People, Whole Planet”, alla quale la catena tiene fede investendo in ricerca, innovazione e qualità. Negli scaffali di Whole Foods il consumatore è sicuro di trovare prodotti naturali, il meno possibile “manipolati” e trasformati dalla mano dell’uomo, che hanno alle spalle un numero accettabile di chilometri e che sostengono pratiche produttive locali e sostenibili. Un impegno mantenuto anche con l’istituzione del Whole Foods Market’s Local Producer Loan Program, un programma di prestito in favore proprio dei piccoli produttori locali, che senza un supporto esterno sarebbero stati probabilmente schiacciati dell’economia di massa e della bassa qualità. Entrando in uno store Whole Foods avremo perciò a nostra disposizione una vasta gamma di prodotti, distribuiti in 12 reparti principali: • panetteria: prodotti da forno di prima scelta derivanti dall’utilizzo di ottimi ingredienti quali ad esempio burro naturale e uova di gallina allevate a terra; • caffè e the: chicchi di caffè e aromi di the acquistati solo da produttori che si sono distinti per sostenibilità ed eco-compatibilità di coltivazioni e produzioni; • fiori: i fiori sono stati coltivati secondo i requisiti di sostenibilità sociale e ambientale. Ciò che la catena di distribuzione sta tentando di fare, infatti, è creare un diversificato sistema di certificazione in grado di individuare e premiare i prodotti floreali per i quali siano garantiti l’assenza d’utilizzo di fertilizzanti chimici e pesticidi, il rispetto dei lavoratori impiegati nella coltivazione, il divieto del lavoro minorile, il mantenimento del suolo in condizioni di fertilità; • birra: alla ricerca di nuovi gusti e tipologie di prodotti, in un’ottica di collaborazione sostenibile con i diversi produttori sul territorio; • drogheria, alimentari generici: non dovrete controllare le etichette, gli esperti Whole Foods hanno già valutato i prodotti in vendita. Tutto ciò che trovate sugli scaffali rappresenta un articolo “promosso” a pieni voti; • carne: il sistema Whole Foods prevede che gli allevatori si preoccupino del benessere degli animali, cresciuti in modo sano, all’aria aperta,


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• •

senza l’utilizzo di antibiotici e ormoni della crescita e che i produttori lavorino in modalità sostenibile; cibo pronto: il cibo, preparato da personale scelto supervisionato da chef, è il frutto di ingredienti selezionati, freschi e, il più delle volte, biologici; frutta e verdura: i punti vendita offrono una grande varietà di prodotti biologici di alta qualità. Questo è reso possibile grazie alla stretta collaborazione con i coltivatori locali, che perseguono i principi dell’agricoltura biologica e della produzione di stagione; formaggi: una selezione di formaggi privi di insaporitori artificiali, coloranti e conservanti; pesce, frutti di mare: l’offerta prevede un vasta gamma di pesce fresco, surgelato e già cucinato. L’approccio è anche educativo, poiché il tentativo è quello di collaborare con imprese di pesca che rispettino i trattati internazionali e nazionali, che si curino quindi del benessere del cliente, ma anche degli oceani in cui agiscono e della stabilità degli stock di specie in cui vanno ad intervenire; vino: lo scopo, anche in questo settore, è quello di offrire una vasta gamma di vini e alcolici derivati da processi di produzione sostenibili e da materie prime di indubbia qualità; prodotti per il corpo: ciò che mettiamo sul nostro corpo è importante e influisce sul nostro benessere tanto quanto ciò che ingeriamo. Anche in questo caso, quindi, è indispensabile affidarsi ad articoli testati e promossi da un team di esperti.

Tutti questi prodotti, dal latte del mattino ai fiori per l’anniversario di matrimonio, giungono sugli scaffali del distributore americano dopo una serie dettagliata di analisi che ne hanno comprovato l’adeguatezza rispetto a specifici standard, aggiornati di anno in anno: • assenza di conservanti artificiali, coloranti, dolcificanti, grassi idrogenati; • ottimo gusto; • prodotti freschi, sani e integri; • provenienti il più delle volte da agricoltura biologica. Convinti del fatto che la conoscenza sia potere, alla Whole Foods hanno investito in qualità, sicurezza ed eco-compatibilità per poi affiancare agli alti standard raggiunti un’altra azione fondamentale: la comunicazione di questa qualità aggiunta ai consumatori.


10. Le best practices della Green Economy | 167

Il digitale: i siti non profit sviluppano il mercato green GoodGuide, il primo sito che ti orienta negli acquisti sani GoodGuide è un’organizzazione autonoma che analizza e valuta le componenti di prodotti di diversi settori merceologici allo scopo di individuare e segnalare gli articoli realmente sicuri, salutari e rispettosi dell’ambiente. Questo software innovativo ha avuto origine da un progetto di trasparenza dell’ecologista industriale Dara O’Rourke, il quale ha centrato le esigenze dei nuovi consumatori: “GoodGuide integra centinaia di complessi database che valutano ogni dettaglio, dalle politiche sui test sugli animali alle emissioni di anidride carbonica nella catena di produzione, alle specifiche sostanze chimiche potenzialmente pericolose contenute nei prodotti, attingendo a circa 80 milioni di dati” (Daniel Goleman, Intelligenza ecologica). O’ Rourke specifica infatti: “Si tratta di una forma di conoscenza distribuita, nessun individuo potrebbe avere a disposizione tutti questi dati, ma insieme siamo in grado di dare informazioni il più dettagliate possibile sugli impatti dei prodotti e delle aziende in una forma che permetta a ciascuno di scegliere meglio”. I consumatori infatti si chiedono sempre più spesso quali impatti derivino dai prodotti che acquistano, soprattutto rispetto alla propria salute, all’ambiente e alla società. Ma, come sottolineano con ironia gli stessi creatori di GoodGuide, finché non conseguiranno tutti un dottorato in questo ambito, sarà quasi impossibile avere le risposte. Ed è proprio qui che emerge l’utilità della guida. I ricercatori di GoodGuide hanno infatti raccolto dati in tutto il mondo su componenti chimiche, prodotti, marche, industrie, compagnie, per poter garantire ai propri fruitori la più alta qualità di dati disponibile, ovviamente convertita in voti comprensibili e utilizzabili da ogni tipo di consumatore ben intenzionato. Che tipo di valutazioni può trovarsi di fronte il fruitore del web? Gli oltre 70 mila articoli presi in esame (alimenti, giochi, prodotti per la cura personale, per la casa ecc.) sono stati valutati in base a precise considerazioni: il loro sistema produttivo è socialmente responsabile nei confronti dei propri impiegati (ore di lavoro, condizioni contrattuali, sicurezza e qualità dell’ambiente di lavoro)? L’attività aziendale ha una certa compatibilità ambientale (emissioni inquinanti, fattori di mitigazione e compensazione, misure di controllo e riduzione di esternalità ambientali negative, riciclo dei materiali)? Come è valutata la qualità del prodotto finito (ingredienti che lo compongono ecc.)?


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Raccolti tutti i dati (più di 80 milioni di informazioni, continuamente in crescita), i ricercatori le convertono in un punteggio da 0 a 10, che diventa il voto finale visibile a chiunque lo desideri. Per approfondire i motivi di un determinato voto il fruitore potrà inoltre cliccare sul prodotto nel sito web e visionare i dettagli. Il software permette addirittura ai consumatori di fotografare con il cellulare il codice a barre di un prodotto e inviarlo tramite mms al server di GoodGuide: in brevissimo tempo si ottiene una valutazione dell’articolo che mostra in rosso, giallo o verde l’impatto del suo ciclo di vita sotto l’aspetto ambientale, sanitario e sociale. Il mondo digitale ovviamente è in continuo aggiornamento, tanto che i curatori stanno elaborano un metodo diretto di comunicazione con i consumatori, in modo da saltare il passaggio codice a barre-cellulare. E non ho dubbi che ciò avverrà a breve, soprattutto in caso i governi decidano di obbligare le aziende operanti sul proprio territorio a rendere pubblici i dati relativi ai metodi di produzione seguiti. I primi fruitori del software sono stati genitori responsabili, preoccupati della salute dei loro figli e di come un utilizzo poco consapevole di prodotti chimici potesse influire negativamente sul benessere della loro famiglia. Il meccanismo è semplice: si parte da un interesse individuale che diventa azione nel momento in cui una cosiddetta “eco-mamma” si accorge della nocività di un prodotto d’uso quotidiano. A questo punto si innescano infatti proteste, boicottaggi e soprattutto il passaparola. O’ Rourke, dopo aver insegnato al mit, ha lavorato come consulente per agenzie internazionali (Programma di sviluppo per l’onu e Banca Mondiale) suggerendo alle aziende come migliorare il modo in cui operavano in una serie di Paesi, dalla Cina al Vietnam. Ciò lo ha portato ad investigare la salute e la sicurezza dei lavoratori, la qualità dell’aria in fabbrica, il numero di incidenti sul lavoro, l’inquinamento dell’ambiente circostante. Proprio alla fine di una di queste ricerche, O’ Rourke pubblicò sul New York Times un report dedicato alle pessime condizioni dei lavoratori riscontrate negli stabilimenti produttivi Nike in Vietnam: la famosa marca sportiva si ritrovò tutti gli occhi puntati addosso e fu giudicata dall’opinione pubblica colpevole di abusi sui lavoratori. Da allora Nike ha investito nel miglioramento, diventando leader mondiale negli sforzi per riformare le industrie. L’episodio ha suggerito all’ecologista industriale come sfruttare il potere della trasparenza radicale per innovare la produzione in un’ottica di maggior sostenibilità sociale e ambientale. Sempre O’ Rourke ricorda infatti: “Se gli acquirenti inizieranno a preferire pro-


10. Le best practices della Green Economy | 169

dotti realizzati con l’energia verde, ciò incoraggerà le fabbriche cinesi a usare fonti ecocompatibili al posto dell’elettricità prodotta dalle centrali a carbone”. Per questo attraverso GoodGuide i consumatori hanno anche la possibilità di mandare un messaggio alle compagnie produttrici, sia scritto, sia d’acquisto: ciò dovrebbe far sì che i manager delle grandi aziende, a lungo andare, trasformino le singole scelte d’acquisto in dati di marketing. Il percorso è ancora lungo, servono altri sistemi di comunicazione diretta con il consumatore, ma l’importante è continuare sulla strada della trasparenza radicale. Skin Deep, un sito per “salvare” il nostro corpo Cosa contiene la crema solare che usiamo ogni estate? A quante componenti chimiche, spesso nocive, esponiamo il nostro corpo quotidianamente attraverso creme, deodoranti, lozioni corpo, profumi? Avete mai calcolato quanti cosmetici o articoli per la cura personale usiamo al giorno? Skin Deep lo ha fatto: sono in media 10 prodotti e raramente abbiamo la piena consapevolezza di cosa contengano. La questione è semplice: i prodotti chimici industriali sono ingredienti basilari di creme, shampoo e dentifrici e spesso non ci sono test pre-vendita che ne garantiscano la sicurezza sotto tutti i punti di vista; quindi, dato l’esteso utilizzo di questi articoli, l’esposizione dei consumatori al rischio contaminazione è molto elevata. Skin Deep nasce per essere una guida in grado di orientare i consumatori all’acquisto di prodotti cosmetici e di cura personale sani per proteggersi da questi “attacchi” silenziosi. Nel sito si trovano infatti consigli dettagliati per un acquisto più sicuro, supportati da un ampio database di prodotti e relativi ingredienti chimici, consultabile gratuitamente da chiunque lo desideri. Oltre a considerare l’impatto negativo che elementi artificiali possono avere sulla nostra salute, Skin Deep evidenzia il legame esistente tra l’utilizzo antropico di elementi nocivi e lo stato di ecosistemi naturali e specie animali in genere. Molti degli ingredienti chimici contenuti nelle nostre creme vengono infatti dispersi in ambiente quando semplicemente ci facciamo una doccia, strucchiamo, laviamo i capelli. Ad esempio, spesso si rilevano campioni di elementi chimici in fiumi, e ciò influisce negativamente sui cicli biologici di flora e fauna localmente stanziate. Ma se alcuni elementi che utilizziamo sul nostro corpo stanno danneggiando flora e fauna, quale sarà il loro impatto su di noi?!


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Una risposta precisa e accurata non è stata ancora formulata ma è certa la nocività di alcuni ingredienti chimici. Skin Deep interviene perciò segnalando da un lato i prodotti maggiormente sicuri per il benessere nostro e del pianeta e dall’altro quelli da evitare perché dannosi. Si ritorna sempre allo stesso punto: la consapevolezza dei consumatori cresce di giorno in giorno, continuamente alimentata da attività di informazione e sensibilizzazione. E questa consapevolezza porta a compiere scelte d’acquisto responsabili, in grado di orientare il mercato in una direzione più etica. Nel circolo virtuoso entrano ovviamente anche le aziende che, consce del potere di queste nuove forme di comunicazione, iniziano a chiedere a organizzazioni e guide online quali parametri sia necessario raggiungere per rientrare nelle loro liste verdi. Avranno capito che il verde è il colore dell’ecocompatibilità, ma anche quello dei dollari? Daniel Goleman ricorda nel suo libro Intelligenza ecologica che troppo spesso i consumatori non prendono in considerazione l’alternativa ecocompatibile ritenendola sicuramente più cara del prodotto “base”. Navigando nel sito Skin Deep ci rendiamo conto che non è così: fra gli articoli nocivi si trovano, ad esempio, shampoo economici, ma è presente anche lo shampoo più costoso. Ecco in questo caso che l’informazione e la comunicazione assumono un ruolo strategico: se ben informato il consumatore non ha davvero ragioni per non seguire un comportamento “safe and green”. ClimateCounts, la pressione del consumatore ClimateCounts è un’organizzazione non profit creata per combattere il cambiamento climatico. Come? Spronando i consumatori a utilizzare il loro potere d’acquisto, ossia a compiere scelte responsabili esercitando così pressioni sulle imprese affinché tengano presente il fattore clima nei propri meccanismi aziendali. Il riscaldamento globale è infatti un problema mondiale derivante in massima parte dal nostro attaccamento ai carbon fossili. Il meccanismo è semplice: attraverso la mia scelta d’acquisto posso supportare le compagnie virtuose e mandare in rovina (a patto che si crei un forte movimento dal basso) quelle aziende rimaste indietro, che ancora inquinano senza controllo e senza sufficiente attenzione per l’ambiente che le circonda.


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Ecco i principi fondamentali su cui l’organizzazione si basa e sui quali cerca di stimolare un confronto con gli utenti: • la crisi ambientale impone la necessità di una maggiore consapevolezza e azione pubblica rispetto a quanto accade oggi; • il mercato è una delle maggiori forze di cambiamento; • la crisi climatica rappresenta una minaccia per tutte le specie viventi, ma al tempo stesso può rivelarsi un’opportunità di business unica, in grado di migliorare gli standard di vita attraverso nuove modalità di distribuzione e offerta di prodotti, tecnologie e servizi (più puliti e sostenibili); • i consumatori sono sempre più convinti nel sostenere produttori responsabili, attenti a ridurre la loro impronta climatica; • molte aziende, pur avendo buone intenzioni, hanno bisogno di una giustificazione economica per muoversi in questa direzione: attendono quindi uno stimolo da parte dei consumatori (ClimateCounts intende appunto coprire e sfruttare al meglio questo gap tra le intenzioni delle aziende e il potere dei consumatori); • sia i consumatori sia le aziende hanno bisogno di strumenti rigorosi e informazioni affidabili per prendere decisioni ponderate in merito al cambiamento climatico; • trasparenza e responsabilità possono rivelarsi potenti mezzi per promuovere il cambiamento. ClimateCounts ricorda che nel 2007 l’ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), un gruppo di centinaia di scienziati tra i più accreditati al mondo in tema di clima, ha definitivamente sancito l’esistenza del fenomeno “riscaldamento globale” e ha riconosciuto le attività antropiche come principale causa scatenante. Cosa aspettiamo dunque? Il tempo di agire è arrivato: nel sito dell’organizzazione si possono trovare elenchi di marche, prodotti e aziende valutati attraverso un punteggio da 0 a 100 secondo diversi criteri tecnici. Ancora una volta la rete offre al consumatore uno strumento per poter fare scelte consapevoli e, attraverso queste, far sentire la propria voce. Chemical Body Burden. Ma cosa abbiamo in corpo? Il sito Chemical Body Burden si presenta così: “Ancora prima di essere nati, sostanze chimiche di sintesi e metalli pesanti di tutti i tipi iniziano a insediarsi nel nostro corpo”.


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Proprio questo “carico del corpo” costituisce il focus delle informazioni presenti nel sito, che ha lo scopo di renderci coscienti che ogni giorno, senza rendercene conto, inaliamo sostanze tossiche, le ingeriamo attraverso il cibo, le assorbiamo attraverso la pelle. L’origine degli elementi nocivi che attaccano il nostro corpo è difficilmente identificabile: la diossina, ad esempio, può derivare da cibo contaminato, oppure da un inceneritore vicino a casa, o ancora da un impianto manifatturiero di carta localizzato a migliaia di chilometri dalla nostra abitazione. Qualsiasi sia la sua fonte, ciò che Chemical Body Burden vuole evidenziare è l’esistenza e la pericolosità di questa “zavorra indesiderata”. Altro esempio. Un pesticida presente nelle nostre analisi potrebbe derivare da uno spray utilizzato in un cortile nel nostro quartiere o potrebbe essere giunto fino a noi trasportato da prodotti alimentari importati dagli usa o dall’Africa. Insomma, “risulta più semplice trovare le componenti chimiche presenti in un trancio di pesce piuttosto che scoprire quali tipi di prodotti chimici siano sedimentati nel nostro corpo e in quale quantità”. Quindi, che fare? Partendo dalla constatazione che ognuno di noi è portatore (più o meno) sano di circa 700 prodotti chimici, Chemical Body Burden propone un graduale cambiamento nello stile di vita per liberarsi della maggior quantità di veleni. Come? Possiamo iniziare scegliendo prodotti biologici certificati e detergenti per la cura della casa e della persona che abbiano il minor contenuto chimico; eliminando l’utilizzo di pesticidi dentro e fuori casa (antipulci e parassiti per cani e gatti, ad esempio); e riducendo l’assunzione di grassi, poiché molti elementi chimici dannosi sono stoccati proprio lì. Certo, accanto a un maggior impegno da parte dei singoli nella scelta dei prodotti, sarebbe auspicabile che i governi si attivassero nel disciplinare la composizione chimica dei prodotti che usiamo quotidianamente. Il punto cruciale è muoversi ora, per salvaguardare la salute dei consumatori, degli ecosistemi naturali e delle generazioni future, per “far sì che non nascano con una “zavorra” destinata ad aumentare”. Stimolare attraverso gli acquisti un’economia più pulita e ridurre il nostro “carico corporeo” significa quindi spronare le società chimiche al miglioramento, cambiare il comportamento dei cittadini, supportare un’industria più pulita e produzioni agricole sostenibili.


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Green Thing, la prima comunità creative green Green Thing è un programma non profit di pubblica utilità che gioca sulla creatività per stimolare le persone a cambiare il proprio stile di vita, contribuendo così a rallentare il cambiamento climatico. L’obiettivo è rendere attraenti le abitudini quotidiane sane ed ecocompatibili. Come? Attraverso nuove forme di comunicazione e condivisione nel web, attraverso social network, video, email, storie accattivanti: lo staff di Green Thing lavora per coinvolgere il maggior numero di persone in tutto il mondo nel progetto. Il potere quindi passa nuovamente ai consumatori, i quali, ormai consapevoli, hanno la responsabilità di persuadere i rispettivi governi a fare la cosa giusta. Per rendere il coinvolgimento dei cittadini ancora più semplice e concreto. Nel sito vengono proposti sette semplici consigli per condurre una vita più verde: 1. provate ad andare dal punto a al punto b senza c... camminate! 2. gli allevamenti emettono più delle macchine: andateci piano con il consumo di carne; 3. resistete allo stimolo di avere sempre le ultime novità e sfruttate meglio ciò che avete; 4. abbassate il riscaldamento autonomo e circondatevi di calore umano; 5. riciclate, riutilizzate e ottimizzate ciò che altrimenti diverrebbe rifiuto; 6. il mondo è bello, ma invece che andare sempre lontano, provate a conoscere e visitare anche le realtà vicine a voi; 7. non lasciate elettrodomestici, cellulari o luci accese inutilmente... staccate tutto se non lo state usando! La comunità online legata a questo progetto si consulta, si confronta e si scambia email e contenuti per far circolare idee e modalità innovative e creative per mettere in pratica questi consigli. Il sito offre anche la possibilità di calcolare il risparmio di co2 derivante dalle proprie azioni, così da valutare l’anidride carbonica risparmiata dall’intera comunità Green Thing.

La produzione: best cases con una storia verde Stonyfield Farm: il primo yogurt tutto “verde” Nata come fattoria biologica intorno al 1983, Stonyfield Farm si è specializzata negli anni nella produzione di yogurt e prodotti derivati dal latte biologici al 100%: senza coloranti, insaporitori artificiali, dolcificanti


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artificiali. Oggi l’azienda agricola copre circa 100 mila acri, area che di conseguenza è stata salvata dalla contaminazione diretta di pesticidi e fertilizzanti. Per migliorare ulteriormente il proprio impatto ambientale la StonyField Farm ha quasi annullato le emissioni di co2 dei suoi impianti, si è munita di un impianto solare per produrre energia rinnovabile e ancora, attraverso il riciclo e il riutilizzo dei materiali, evita che ogni anno tonnellate di rifiuti raggiungano discariche e inceneritori; dona il 10% dei propri profitti per la salvaguardia della Terra e ha dato vita ad un’organizzazione non profit di cui già abbiamo parlato (ClimateCounts). L’intuizione di puntare la propria attività economica su una produzione specifica, genuina ed ecocompatibile trova le sue ragioni d’essere in dati concreti che dimostrano la superiorità dei cibi biologici nel prevenire o rallentare il manifestarsi di disturbi cardiaci, diabete e alcune forme di cancro. A questi benefici per la nostra salute deve essere sommato il diverso impatto ambientale derivante dalla produzione di prodotti biologici e non: i prodotti sani per il nostro corpo sono anche quelli che derivano da un sistema agricolo sostenibile, che evita l’utilizzo di pesticidi tossici e persistenti, così come di erbicidi e fertilizzanti chimici che inquinano il suolo, l’acqua, l’aria e, ovviamente i consumatori finali, cioè noi. Ecco perché informare i potenziali acquirenti sull’intero processo produttivo diventa sempre più fondamentale e rispettoso nei confronti della salute delle persone e del pianeta. Stonyfield Farm aderisce ai più severi parametri esistenti in campo biologico e lo comunica, facendo nascere un senso di responsabilità nel consumatore, il quale, dati in mano, deve prendere delle decisioni: se vuole davvero mantenersi in salute e contribuire ad avere un pianeta più sano e pulito, sa cosa scegliere. General Electric. Anche le conglomerate cominciano a vedere verde ge è una grande compagnia affermata a livello mondiale nei settori delle infrastrutture, finanza e media; focalizzata sulla creazione di nuovi mezzi che soddisfino le esigenze di una popolazione mondiale in continua crescita che quindi chiede sempre più servizi, infrastrutture, informazione, intrattenimento e tecnologia ambientale. Fin dai sui primi passi (1878) la General Electric Company ha utilizzato gli strumenti della ricerca, combinati con un po’ di ispirazione, per creare il mondo di domani, come recita il claim: “Perché predire il futuro quando puoi crearlo?”


10. Le best practices della Green Economy | 175

Frutto di questo approccio sono i programmi healthymagination ed ecomagination. Healthymagination rappresenta l’impegno della compagnia nel garantire una salute sostenibile nel tempo attraverso l’innovazione tecnologica e di servizi. Ecomagination invece punta sul binomio tra economia e ambiente, realizzando nella pratica il credo della compagnia: le prestazioni finanziarie e ambientali possono lavorare insieme per guidare la crescita dell’azienda, cogliendo allo stesso tempo alcune tra le sfide più difficili al mondo. Il programma nasce infatti per creare un maggior beneficio agli azionisti, investendo sull’efficienza energetica e sulla riduzione dell’impatto ambientale. Di fatto il programma ha portato benefici economici alla compagnia, che dopo aver ridotto le proprie emissioni di gas serra di circa il 30% nel 2008 e aver investito molto in ricerca e sviluppo di tecnologie pulite, prevede un concreto aumento delle proprie entrate. Se una compagnia come la ge, che dal 1878 colleziona successi “continuando a innovare ciò che ancora deve essere immaginato”, ha scelto di puntare sul green, è ancora possibile pensare che l’economia verde non sia il futuro? Slow Food, un esempio tutto italiano Slow Food nasce in Italia nel 1986 da un’idea di Carlo Petrini: proporre il diritto a godere di un pasto genuino, sano e rispettoso delle tradizioni locali in opposizione al dilagare della filosofia del fast food. L’associazione si è quindi battuta da sempre contro l’omologazione dei sapori e dei luoghi, l’agricoltura intensiva e le manipolazioni genetiche, diventando ben presto (1989) un movimento internazionale. L’attività concreta consiste nel sostenere una produzione tipica locale, che rispetti severi standard di qualità, offrendo ai consumatori un prodotto legato alle tradizioni locali, frutto del lavoro di uomini e non di reazioni chimiche, che rappresenti le molteplici diversità del territorio e che rispetti le peculiarità culturali e biologiche da cui nasce. Slow Food agisce attraverso ricerche, pubblicazioni, eventi (una su tutti: TerraMadre) e manifestazioni (come il Salone del gusto e Slowfish). L’associazione è suddivisa in sedi al fine di promuovere efficacemente la cultura della buona alimentazione, a supporto di un’economia locale sostenibile attenta alla conservazione della diversità genetica, biologica ed ecosistemica (è stata creata appositamente una onlus: Fondazione Slow Food per la Biodiversità).


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L’associazione parte dalla constatazione che sfruttare eccessivamente il suolo per avere frutta e verdura di tutte le varietà in tutti i mesi dell’anno non cambia la vita a noi, mentre impoverisce l’ecosistema su cui andiamo a insistere. Se invece, un po’ più saggiamente, attingessimo alle conoscenze locali e rispettassimo i ritmi naturali, ci troveremmo a mangiare cibi sani, aventi alle spalle un numero decente di chilometri, prodotti senza un depauperamento delle risorse naturali, nel rispetto delle comunità agricole, del loro ambiente di vita e del loro sapere tradizionale. I concetti chiave di Slow Food sono quindi: sicurezza alimentare, rafforzamento delle economie locali, tutela della biodiversità, promozione di un’agricoltura sostenibile, sostegno dei piccoli produttori e della loro comunità, valorizzazione delle tradizioni gastronomiche di tutto il mondo. Grazie a questa dinamica viene evidenziata una risorsa tenuta ancora troppo poco in considerazione: la biodiversità. Con questo termine si intende l’insieme di tutti gli organismi viventi, il loro patrimonio genetico, la complessità ecologica di cui essi fanno parte e gli ecosistemi acquatici, terrestri e marini (Convention on Biological Diversity, Summit di Rio de Janeiro, 1992). Impegnarsi nella difesa di questa risorsa riveste quindi un’importanza fondamentale: dalla diversità genetica, biologica ed ecosistemica dipendiamo tutti noi. Slow Food sprona la comunità italiana ed internazionale a compiere scelte responsabili. I consumatori tornano dunque in prima fila con il loro potere d’acquisto: cosa vogliono fare? Pagare tra qualche anno un mondo (e un corpo) nuovo, o iniziare a mangiar sano?

Le nuove towns verdi Samsø, l’isola tutta “rinnovabile” Samsø, isola della Danimarca nota come “isola delle energie rinnovabili”, ha una popolazione di circa 4.300 abitanti e dal 1997 si è liberata dall’utilizzo dei combustibili fossili grazie all’impianto di 11 turbine eoliche su terraferma e altre 10 in mezzo al mare e a un sistema solare termico di 2.500 mq di superficie. In questo modo provvede autonomamente ad acqua calda ed energia per tutto il corso dell’anno, coprendo il 100% dei consumi elettrici e il 70% del fabbisogno di calore: nei giorni in cui c’è calma di vento l’energia viene trasferita dalla rete elettrica danese sulla rete dell’isola; viceversa, nei periodi ventosi l’isola esporta energia eolica ver-


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so la rete nazionale, arrivando ad un saldo energetico annuale positivo. Nel 2006 è stata anche inaugurata una Energy Academy, con l’obiettivo di raccogliere e divulgare tutte le conoscenze tecnologiche sulle energie rinnovabili. L’ente è diventato un punto d’incontro strategico tra politici, amministratori, ricercatori, investitori, visitatori, istituzioni accademiche, semplici curiosi, turisti responsabili e presto ospiterà anche l’Ufficio Energetico di Samsø, andando a costituire così un unico centro di interesse scientifico e turistico. Queste iniziative hanno attratto nuovi investimenti, flussi di persone e conoscenze, riuscendo a sollevare un’economia locale depressa, a incrementare l’occupazione e a evitare così l’emigrazione dei giovani del posto. Last but not least, il grande interesse scientifico intorno all’esperimento riuscito ha portato sull’isola anche professionisti esteri e know how da reinvestire sul territorio, senza contare i riconoscimenti internazionali ottenuti. Amburgo, un esempio di città sostenibile Nel 2009 l’Europa ha lanciato il “Green Capital Award”, dedicato a quelle città che negli ultimi anni sono state in grado di implementare efficacemente sul proprio territorio politiche sostenibili. La Commissione Europea ha infatti deciso di istituire un premio per le capitali virtuose al fine di incoraggiare le città a migliorare la qualità della vita urbana, esercitando un’attenzione sistematica all’ambiente già in fase di pianificazione. La commissione giudicante ha tenuto conto di alcuni standard fondamentali: contributo alla riduzione dei cambiamenti climatici, accessibilità alle aree verdi da parte della popolazione locale e non, qualità dell’aria, livello di inquinamento acustico, produzione e gestione dei rifiuti, trattamento delle acque reflue, gestione dell’ambiente da parte delle autorità e uso sostenibile del paesaggio. In base a questi requisiti sono stati effettuati 35 test, dai quali sono emerse le 8 finaliste: Amsterdam, Bristol, Copenhagen, Friburgo, Amburgo, Münster, Oslo e Stoccolma. Tra queste, Stoccolma si è aggiudicata il premio come prima capitale verde per il 2010, mentre il prestigioso titolo per il 2011 è stato vinto da Amburgo. E l’Italia? Nessuna città del Belpaese aveva le carte in regola per partecipare alla competizione. Spagna, Francia, Finlandia, Irlanda, Austria, Repubblica Ceca, Repubbliche Baltiche, Olanda, Germania e Svezia erano invece rappresentate da una o più realtà, ognuna con una peculiarità


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ambientale tutelata e con una caratteristica politica ambientale degna di menzione. Andiamo a conoscere meglio la vincitrice. Amburgo conta circa 1.8 milioni di abitanti, l’amministrazione di questa città si trova quindi ad affrontare quotidianamente sfide da metropoli, riuscendo comunque a concentrare i propri sforzi sulle priorità più attuali: negli ultimi anni ha lavorato efficientemente per mantenere una buona qualità dell’aria e ha intrapreso progetti a lungo termine per garantire impegni reali e concreti nella lotta ai cambiamenti climatici. Proprio in questo ambito infatti Amburgo si è distinta per aver esplicitato un impegno di riduzione di co2 pari al 40% entro il 2020 e all’80% entro il 2050. Nonostante questa realtà urbana sia dinamica e in continua crescita, l’espansione di nuove attività e quartieri viene gestita in maniera razionale, ottimizzando la disponibilità di spazi già esistenti e attuando piani urbanistici attenti al contesto in cui andranno a inserirsi. Gli alti livelli ambientali e di qualità della vita sono raggiunti e mantenuti anche grazie ad un efficiente sistema di trasporti pubblici “puliti”: praticamente tutti i cittadini hanno accesso ad un mezzo pubblico affidabile in un raggio di 300 metri dalla propria abitazione e hanno la possibilità di raggiungere senza problemi diversi spazi verdi ben integrati nell’area urbana. Tra le altre iniziative concrete a favore dell’ambiente contiamo la riduzione del carico di tasse portuali per le imbarcazioni più efficienti sotto il profilo inquinamento, la creazione di una nuova rete ferroviaria e di linee suburbane di collegamento città-aeroporto, un sistema ciclabile esteso, una buona gestione di aree verdi fruibili, l’introduzione di sistemi costruttivi innovativi e maggiormente efficienti sotto il profilo energetico. L’amministrazione tedesca è riuscita a introdurre questi cambiamenti grazie a una progettazione consapevole del territorio e ad una interpretazione efficace delle priorità da affrontare. Non dimentichiamo infatti che Amburgo è una città complessa, in cui coesistono differenti interessi in gioco, dalle necessità produttive a quelle residenziali, portuali e turistiche. La sfida è riuscire a organizzare un tessuto funzionale in cui sperimentare idee innovative e migliorative. Bisogna solo studiare la strategia più idonea a ciascuna realtà territoriale e trovare i mezzi per implementarla.


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Lombardia, una regione che ha scelto il green come colore Vorrei concludere la rassegna di best cases proponendo una riflessione locale, dopo aver parlato a lungo di esempi internazionali ed europei. Cito la Lombardia un po’ perché ci vivo e la conosco, un po’ perché, me lo concederete, è una delle regioni italiane più attive, dinamiche e come dire... sul pezzo. Come accennavo nelle pagine precedenti, l’Italia può davvero essere la flagship nation del green. Dobbiamo semplicemente muoverci, innescare competizioni virtuose tra produttori, fornitori, imprenditori, aziende. E perché no, tra le stesse regioni italiane: chi più di tutte avrà le capacità e l’intuizione di alzare la bandiera per prima? La Lombardia, ad esempio, è un terreno fertile, in cui i principi della Green Economy stanno mettendo le prime radici. L’amministrazione lombarda sembra aver intuito cosa si cela, in termini di possibilità di rendere migliore la qualità della vita e al tempo stesso generare business, dietro il movimento green. Partendo da un’iniziativa europea ha ad esempio adottato l’approccio gpp – Green Public Procurement, ossia “l’approccio in base al quale le Amministrazioni Pubbliche integrano i criteri ambientali in tutte le fasi del processo di acquisto, incoraggiando la diffusione di tecnologie ambientali e lo sviluppo di prodotti validi sotto il profilo ambientale, attraverso la ricerca e la scelta dei risultati e delle soluzioni che hanno il minore impatto possibile sull’ambiente lungo l’intero ciclo di vita”. Cosa significa? In parole povere, i miliardi di euro che ogni anno le amministrazioni pubbliche spendono per l’acquisto di beni e servizi saranno dedicati al mercato verde, vale a dire a quelle aziende virtuose che avranno investito nel cambiamento e nel miglioramento del proprio impatto ambientale, proponendo ai clienti articoli e servizi più sostenibili in tutto il loro ciclo vitale. In questo modo la Lombardia, come del resto altre pa coinvolte, assume il ruolo di cliente-consumatore, o meglio, di consumAttore, dando uno dei primi segni di cambiamento: l’onda verde sta arrivando, e dobbiamo essere in grado di gestirla nel migliore dei modi, sempre che non preferiate affondare, s’intende. In quest’ottica si è svolto il World Regions Forum, il g15 delle Regioni, inaugurato nel novembre 2009 proprio a Milano. I temi? Capitale umano, sanità e ambiente. Tre elementi imprescindibili per uno sviluppo durevole in grado di soddisfare le esigenze della popolazione mondiale e, nello specifico, di quella regionale.


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Glossario

Adattamento Sono le misure adottate per mettere al riparo le società dagli effetti climatici che la mitigazione non riesce ad evitare. Tra gli interventi di adattamento rientrano gli sbarramenti contro l’innalzamento del livello del mare, la sistemazione degli argini dei fiumi in previsione di eventi alluvionali più intensi, nuovi invasi per raccogliere la minore disponibilità idrica, passaggio a colture agricole più adatte alle mutate condizioni climatiche e molti altri ancora. Cambiamenti climatici Sono le variazioni a livello globale del clima della Terra rispetto ai valori medi di temperature massima e minima (della superficie e degli oceani), precipitazioni, nuvolosità. Essi sono dovuti a cause naturali e, secondo la grande maggioranza degli scienziati, dall’inizio dell’industrializzazione anche a causa dell’azione dell’uomo. La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici utilizza il termine “mutamenti climatici” solo per riferirsi ai cambiamenti climatici prodotti dall’uomo e quello di variabilità climatica per quello generato da cause naturali. Carbon sink Sono le riserve di carbonio, quegli elementi della biosfera in grado di assorbire anidride carbonica. I principali carbon sink presenti sulla Terra sono gli oceani e le foreste. Carbon tax Con questo termine si intende la possibilità di tassare un prodotto (compresa la corrente elettrica) in base alla quantità di anidride carbonica ne-


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cessaria alla sua produzione o alla quantità che si produce attraverso il suo consumo (nel caso della benzina ad esempio). La sua funzione può essere rivolta all’interno (scoraggiare il consumo di merce dal forte impatto climatico-ambientale) oppure esterno (colpire le importazioni dai paesi che producono senza vincoli alle proprie emissioni). CDM (Clean Development Mechanism) Consente ai paesi industrializzati di realizzare progetti nei paesi in via di sviluppo, che producano benefici ambientali in termini di riduzione delle emissioni di gas serra per il paese ospite e il riconoscimento di crediti di emissione per la nazione che promuove gli interventi. Effetto serra Fenomeno naturale che consente all’atmosfera terrestre di trattenere una parte del calore ricevuto dal sole. La sua esistenza è dovuta alla presenza nell’atmosfera terrestre dei gas serra. In loro assenza la temperatura superficiale media della Terra sarebbe di circa -18 °c mentre il valore effettivo è di circa +14 °c. ET (Emissions Trading) È il meccanismo che consente a chi non è in regola con i propri obiettivi di riduzione dei gas serra di acquistare sul mercato quote di co2 tagliata da chi è stato invece particolarmente virtuoso oppure da chi ha ottenuto un pacchetto di crediti per ragioni politiche (molti Stati dell’Est Europa). ETS (Emissions Trading Scheme) È il sistema di scambio dei permessi ad emettere realizzato dall’Unione Europea e al momento l’unico di una certa grandezza ad essere in funzione. Gas serra Il vapore acqueo (h2o), l’anidride carbonica (co2), l’ossido di diazoto (n2o), il metano (ch4) e l’ozono (o3) sono i gas serra principali nell’atmosfera terrestre. L’anidride carbonica (si ritiene incida per circa il 20%) è il gas serra la cui presenza in atmosfera sta aumentando più rapidamente in seguito a diverse attività umane (industria, consumi energetici domestici, trasporti, agricoltura e allevamento, deforestazione). IPCC (Interngovernmental Panel on Climate Change) È stato istituito dall’onu nel 1988 allo scopo di fornire ai governi una va-


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lutazione precisa della letteratura tecnico-scientifica e socio-economica disponibile in materia di cambiamenti climatici, impatti, adattamento, mitigazione. È un organo intergovernativo (e non di ricerca diretta). Ogni governo ha un suo Focal Point ipcc. JI (Joint Implementation) Consente ai paesi industrializzati di realizzare progetti per la riduzione delle emissioni di gas serra in un altro paese dello stesso gruppo e di utilizzare i crediti ottenuti congiuntamente con il paese ospite. Mitigazione Per mitigazione si intendono le misure in grado di ridurre i cambiamenti climatici già innescati dall’uomo ad un livello il più gestibile possibile dalle società. In sostanza tutto ruota attorno al taglio delle emissioni di co2 e alla creazione e difesa di carbon sink nuovi o esistenti. PPM Parti per milione. È l’unità di misura con cui si descrive la quantità di co2 presente in atmosfera. Durante l’era preindustriale era inferiore a 300. Attualmente è di 384 ppm. Secondo l’ultimo rapporto dell’ipcc per evitare le peggiori conseguenze dei mutamenti climatici bisogna rimanere sotto quota 450, ma un numero sempre maggiore di scienziati ritiene necessario tornare indietro a quota 350. Protocollo di Kyoto È il trattato internazionale per la lotta ai cambiamenti climatici sottoscritto nella città giapponese l’11 dicembre 1997. Le nazioni industrializzate si impegnano a tagliare le emissioni di gas serra, i paesi in via di sviluppo come Cina e India sono esentati. La quota di riduzione nelle emissioni fissate per l’Unione Europea è del 8% nel 2012 rispetto ai valori del 1990, per il Giappone è del 6%. Per gli Stati Uniti era stato stabilito un taglio del 7%, ma Washington dopo l’adesione dell’amministrazione Clinton non ha sottoscritto il trattato. Temperature Secondo i dati contenuti nel iv Rapporto dell’ipcc la temperatura media della superficie terrestre è aumentata di circa 0,7 °c durante i cento anni dal 1905 al 2005. Le proiezioni degli scienziati prevedono per fine secolo un ulteriore incremento compreso tra 1,1 e 6 °c a secondo della variabili-


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tà climatica e delle misure di mitigazione intraprese dalla comunità internazionale. Tipping points Sono i punti critici. Riferiti al clima per tipping points si intendono tutte quelle soglie (di temperatura, presenza di co2 in atmosfera, scioglimento dei ghiacci, acidità degli oceani) che potrebbero innescare cambiamenti repentini e irrimediabili, senza più procedere in maniera lineare (per quanto molti elementi che determinano l’andamento climatico non sono mai del tutto lineari).


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Digital green: sitografia

Per continuare a essere aggiornati e consapevoli della realtà in cui ci muoviamo non è più sufficiente leggere quotidiani, magazine e quant’altro: ora è essenziale navigare. Non nel Mar dei Caraibi, mi spiace, ma nel web. Il mondo green, nato in un contesto sicuramente lontano dalle note tecnologiche, ha affrontato un’accelerazione senza pari ed è stato accolto con grande disponibilità di spazio e inventiva nel mondo digitale. Ve ne potete accorgere anche da soli, semplicemente digitando le parole ambiente o green in un qualsiasi motore di ricerca. Altra possibilità, anche più comoda, è quella di fidarvi della rassegna qui esposta e lasciarvi incuriosire… È vero infatti che ci si potrebbe perdere in un mare così vasto: la nostra rassegna è la sintesi di centinaia di siti visitati e analizzati. Per semplificare il potenziale percorso online presento i siti-esempio in cinque sezioni distinte: 1. studi, dati, ricerche che suggeriscono l’importanza della green economy; 2. informazione, divulgazione, sensibilizzazione ambientale; 3. organizzazioni che lavorano per la tutela dell’ambiente; 4. green business; 5. green strategies.


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1. Studi, dati, ricerche in supporto alla green economy www.unu.edu United Nations University – per contribuire con ricerca e capacity building ad affrontare e risolvere i problemi globali sempre più pressanti per le Nazioni Unite, gli stati membri e le loro comunità. www.eere.energy.gov Dipartimento americano dell’energia a favore dell’efficienza e dell’energia rinnovabile. www.epa.gov Agenzia americana per la protezione dell’ambiente. www.internal-displacement.org Internal Displacement Monitoring Centre – centro di monitoraggio rifugiati Onu – nel 2008 ha coniato il termine: profugo ambientale. Vi si trovano report e dati su costi sociali ed ambientali dei cambiamenti climatici. www.biodiesel.org Missione della compagnia nazionale del biodiesel è ampliare il mercato e permettere la crescita sostenibile di questa produzione, fino ad integrare la politica energetica nazionale. www.eia.doe.gov Amministrazione delle informazioni energetiche - statistiche ufficiali sui consumi americani. www.ce.utexas.edu/faculty/research.html Università del Texas -studi trasporti, emissioni. www.oecd.org oecde – Organisation for Economic Co-operation and Development. www.nytimes.com Informazioni e articoli.


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www.worldbank.org Studi e valutazioni tecniche sui costi di adattamento ai cambiamenti climatici. www.nature.com Articoli in merito a salute, ambiente, uomo. www.ipcc.ch International Panel on Climate Change. www.theicct.org International Council on Clean Transportation. www.iied.org International Institute for Environment and Development, lavora per lo sviluppo sostenibile. en.cop15.dk Sito ufficiale della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, Copenhagen 7-18 dicembre 2009. www.guardian.co.uk/environment Servizio d’informazione online costituito da esperti nel settore ambientale. www.washingtonpost.com Notizie, articoli. www.ers.usda.gov United States Department of Agriculture – Ers, Economic Research Service risorsa primaria nell’informazione economica e nella ricerca. Ers conduce analisi e valutazioni per informare i decisori pubblici sulle questioni economiche e politiche implicanti cibo, agricoltura, risorse naturali e sviluppo rurale.


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2. Informazione, divulgazione, sensibilizzazione ambientale www.greenforall.org Promossa da Van Jones, Green For All è un’organizzazione non-profit americana che lavora per costruire un’economia verde in grado di togliere il maggior numero di persone dalla povertà (con lo scopo di migliorare la qualità della vita e creare maggiori opportunità di lavoro nell’economia pulita, tenendo in prioritaria considerazione lo strato più vulnerabile della popolazione). www.reusablebags.com Come e perché ridurre, riutilizzare, riciclare. www.worldwatch.org Riflessioni per un mondo sostenibile. Avete mai pensato agli innumerevoli alimenti che viaggiano in media tra i 1.500 e i 2.500 miglia prima di arrivare sulle nostre tavole? earth911.com Riciclo e molto altro. www.ecocycle.org Consigli pratici per creare comunità a rifiuti zero. www.recycling-revolution.com Tutto su riciclo e rifiuti. www.forestethics.org Contro il cambiamento climatico, a favore della biodiversità e del benessere dell’uomo. www.greenbiz.com Dal mondo degli affari, la voce della green economy. www.1world2wheels.org Cambiare il mondo dalle piccole cose: bici e altre pratiche quotidiane.


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www.usatoday.com Cambiamenti nella società, voti verdi, crescente attenzione alle tematiche ambientali da parte dei cittadini. buildingsdatabook.eren.doe.gov Database accurato e continuamente aggiornato su costruzioni e consumi energetici. www.energyhawk.com Consigli su come risparmiare soldi riducendo il consumo di energia, utilizzando tecnologie pulite e puntando sull’innovazione. www.eartheasy.com Come condurre una vita più sostenibile, adatta alle nostre reali esigenze. www.stopglobalwarming.org Per diventare parte del movimento e chiedere ai nostri leader di ridurre le emissioni di anidride carbonica, ora: tutti contribuiamo al riscaldamento globale, quindi dobbiamo tutti essere parte della soluzione. environment.about.com Come salvare il pianeta: notizie, dati, consigli, informazioni. www.green-networld.com Il posto giusto dove imparare a cambiare il tuo modo di agire in favore del pianeta, e non solo. www.ecogeek.org EcoGeek propone un vivere in equilibrio tra uomo, tecnologia e ambiente: la sfida infatti è quella di gestire l’incremento demografico senza distruggere il pianeta. www.treehugger.com TreeHugger è un grande contenitore online che propone eco-informazioni, suggerimenti in merito a viaggi, acquisti e lavori verdi, modalità attraverso cui il singolo utente può prender parte al mondo della sostenibilità.


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www.fueleconomy.gov/feg/why.shtml Il diossido di carbonio derivante dal consumo di combustibili fossili è una delle maggiori cause del riscaldamento globale, meglio correre ai ripari e ridurre la propria impronta ecologica utilizzando forme alternative di energia. www.grist.org Consigli e buone pratiche riguardo il vivere sano ed ecocompatibile da Grist, la voce del giornalismo ambientale. www.informinc.org Inform è un’organizzazione non-profit dedicata ad educare il pubblico in merito agli effetti dell’attività antropica sull’ambiente e la salute stessa della popolazione. earthtrends.wri.org EarthTrends è un contenitore informatico legato alle tematiche ambientali, sociali ed economiche: un’informazione accurata offre ai fruitori analisi, statistiche e dati in formati accessibili in modo da orientare responsabilmente decisioni da parte di istituzioni e individui. www.theecologist.org Informazioni, notizie, consigli. www.greenchoices.org Possiamo cambiare le cose ogni giorno: il sito si propone di delineare alternative verdi alle scelte quotidiane, normalmente poco compatibili. marketinggreen.wordpress.com Consigli di marketing sulla creazione di marchi sostenibili che incoraggino acquisti consapevoli. www.green.ca.gov La California si dimostra esempio di come un’amministrazione più attenta alle esigenze ambientali possa creare benefici diffusi: riducendo il consumo energetico, creando vantaggi concreti per la popolazione, abbassando le emissioni di gas serra, favorendo la costruzione di ambienti più sani in cui lavorare e abitare.


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www.allaboutwater.org Tutto ciò che c’è da sapere sulla risorsa acqua. www.savingwater.org Ridurre il consumo d’acqua sul lavoro e in casa è utile per noi, per l’ambiente e per le nostre tasche, ecco come. www.wateruseitwisely.com Consigli utili per un uso responsabile dell’oro blu. www.rethinkrecycling.com Possiamo riciclare più di quanto pensiamo, ecco come. www.altraeconomia.it Mensile nato nel 1999 con l’obiettivo di dare visibilità e spazio a stili di vita e iniziative produttive ispirate ai principi di equità, sostenibilità, partecipazione e solidarietà. www.footprintnetwork.org Organizzazione internazionale concentrata sull’impatto che l’azione antropica riversa sulla Terra: l’impronta ecologica. climateculture.com È il primo servizio online divertente e personalizzato creato per aiutare i fruitori a compiere scelte intelligenti e ridurre il proprio peso sul cambiamento climatico (iniziative che tra l’altro permettono il risparmio di qualche soldo). www.greengroove.org Green groove è un programma guidato per fruitori del web interessati alla sostenibilità quotidiana: attraverso tre passaggi si offre la possibilità di creare un piano di risparmio personalizzato (inquinamento, energia, consumi, soldi) che avvantaggi il fruitore nel seguire i suoi obiettivi con trasparenza e semplicità.


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3. Organizzazioni che lavorano per la tutela dell’ambiente www.nativeforest.org Organizzazione non-profit fondata nel 1992 con la missione di proteggere e ripristinare foreste e ambienti selvaggi. www.worldwildlife.org Fondo mondiale per la tutela di specie animali e vegetali: wwf. www.environmentaldefence.org Organizzazione non profit per la tutela dell’ambiente, offre servizi di collaborazione e consulenza ad aziende, governi, comunità al fine di trovare soluzioni ambientali pratiche. www.nrdc.org Natural Resources Defence Council. Uno dei gruppi d’azione ambientalisti più importanti in America, combina l’adesione di più di 1,2 milioni di membri con il contributo tecnico di esperti. www.sierraclub.org Organizzazione ambientalista fondata grazie a John Muir nel 1892, da allora lavora per la conservazione dell’ambiente naturale e delle comunità locali. www.unep.org United Nations Environment Programme – progamma delle Nazioni Unite per l’ambiente, uno dei maggiori istituti di tutela e ricerca ambientale al mondo. www.conservation.org Conservation International è un’organizzazione internazionale impegnata dal 1987 nella tutela della biodiversità e nell’aiutare la società ad adottare un approccio allo sviluppo maggiormente salutare e durevole. www.nwf.org National Wildlife Federation lavora affinché la biodiversità Americana sia preservata per le generazioni future.


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www.cleanair.org Impegnata nel tutelare il diritto di tutti a respirare aria pulita. www.rainforest-alliance.org Questo gruppo lavora per assicurare il persistere dei mezzi di sostentamento delle comunità locali, concentrandosi sulle pratiche d’uso del suolo, sulle attività produttive e sul comportamento dei consumatori. www.greenpeace.org Organizzazione internazionale che si batte per un cambiamento nei consumi e nelle abitudini in grado di conservare il patrimonio ambientale mondiale e promuovere la pace. www.legambiente.eu Legambiente, una delle maggiori associazioni ambientaliste in Italia, si occupa di informazione, divulgazione e azioni sul campo in favore del Pianeta. Una delle campagne più attuali è “stop the fever”, orientata a coinvolgere i cittadini e le amministrazioni nella lotta al riscaldamento globale. www.fs.fed.us Agenzia del Dipartimento di Agricoltura americano. Secondo il primo responsabile di questa agenzia, Gifford Pinchot, i compiti di tale organo consistono nell’assicurare la disponibilità della maggior quantità di risorse, al maggior numero di persone, per il più a lungo possibile. www.lowimpactdevelopment.org Organizzazione non-profit dedicata all’utilizzo di tecnologia innovativa capace di minimizzare gli impatti dello sviluppo. www.nps.gov Il National Park Service preserva circa 400 parchi americani dal 1916. www.earthworksaction.org Organizzazione non-profit dedicata a proteggere le comunità e il loro ambiente dall’impatto distruttivo delle attività minerarie.


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4. Green business www.41pounds.org Organizzazione non profit al servizio di individui e compagnie: offrono servizi green per evitare che venga stampata ed inviata verso case e uffici un’elevata quantità di posta indesiderata al giorno. www.itseasybeinggreen.com Se è positivo riciclare la posta inutile, è addirittura meglio evitare di riceverla. Ci vogliono 17 alberi per fare una tonnellata di carta, ciò significa che in America ogni anno vengono buttati in posta indesiderata circa 100 milioni di alberi… Meglio organizzarsi, evitare questa posta inutile e lasciare questi alberi piantati. www.sun.com/aboutsun/environment Sun’s Eco Innovation Microsystems fornisce soluzioni di rete e infrastrutture di calcolo, sistemi informatici, software e servizi al fine di ridurre l’impatto ambientale dei suoi clienti (marchi principali: piattaforma di tecnologia Java). www.electronicpayments.org www.payitgreen.org La missione consiste nel ridurre lo spreco di carta proponendo l’utilizzo di conti e pagamenti elettronici. www.responsibletravel.com Per coloro che non sopportano più il turismo di massa nascono le agenzie di turismo responsabile, orientate a creare beneficio per le popolazioni ospitanti e rispetto per il loro ambiente di vita. www.ecotourism.org Organizzazione internazionale dedicata all’ecoturismo. www.greenad.com Servizio di consulenza per aziende desiderose di rinnovare e migliorare efficacemente la propria immagine.


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www.energystar.gov Energy star è un programma in coordinamento tra Epa (agenzia per la protezione dell’ambiente) e Dipartimento americano dell’Energia orientato ad aiutare i cittadini nel risparmio, proteggendo allo stesso tempo l’ambiente attraverso l’utilizzo di prodotti e pratiche energeticamente efficienti. www.grinningplanet.com/2006/05-02/healthy-school-lunch-article. htm Servizio green per tutti i lavoratori che mangiano fuori casa o studenti di tutte le età: in vendita l’equipaggiamento per un packet-lunch senza sprechi di recipienti e involucri inutili. www.laptoplunches.com Riduci gli sprechi, spendi meno e mangia sano con i nuovi laptop lunches di Obentec, azienda creativa che ha creato prodotti per il classico packet lunch di lavoratori e studenti. www.worldwise.com/whoweare.html Worldwise è una compagnia legata al principio della sostenibilità, la loro missione è offrire ai consumatori prodotti ecocompatibili che funzionino come o meglio e costino uguale o meno dei prodotti classici. http://www.kimberly-clark.com/aboutus/sustainability/ sustainability_home.aspx Kimberly-Clark è una compagnia affermata nel settore igienico-sanitario, impiega circa 53.000 persone nel mondo e nel 2008 ha chiuso con un fatturato di circa 19.4 miliardi di euro. La sostenibilità è un principio cardine di questa azienda, poiché il più delle volte compiere scelte migliori per l’ambiente e la società significa fare scelte migliori anche per i propri affari. www.container-recycling.org Non-profit che studia e offre programmi di riciclo di recipienti, contenitori etc., in grado di ridurre i costi sociali ed ambientali legati alla produzione di questi articoli.


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www.organicconsumers.org The Organic Consumers Association (oca) è un’associazione non-profit attenta a salute, giustizia e sostenibilità ed impegnata nelle questioni cruciali della sicurezza alimentare, agricoltura industriale, responsabilità d’impresa. www.recyclemycellphone.org “Don’t Trash Your Cell Phone - Recycle It!”. I cellulari contengono metalli tossici che possono inquinare l’ambiente e minacciare la salute umana. Se riciclati, il danno è diminuito e i metalli possono rientrare nella catena di produzione, evitando così l’estrazione di ulteriore materiale. L’associazione chiede quindi di inserire nei propri uffici (o paesi) un programma di riciclo cellulari. www.ecomall.com Fai la spesa con coscienza in EcoMall’s Green Marketplace, il tuo spazio online dedicato al benessere e al vivere sano: “la Terra è in pericolo, ma ciò che più di tutti rischia di esser distrutto non è il pianeta in sé, piuttosto sono le condizioni che hanno reso la Terra ospitale per l’uomo” (Al Gore 2009). trendwatching.com Agenzia online che vende informazioni riguardo le nuove tendenze del mercato e i movimenti dei consumatori. www.greenseal.org Green Seal si occupa di certificazioni ambientali per aziende, compagnie, gruppi d’acquisto, al fine di rendere “green” i loro prodotti e servizi. Ovviamente per ottenere la certificazione un prodotto deve dimostrare di aver un ridotto impatto ambientale. www.americanhiking.org Sito in cui si propongono green services quali attività all’aria aperta, escursioni, idee e proposte nel verde.


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www.greenbuilder.com www.greenhomeguide.com homeenergy.org Esempi di green business riferito allo spazio abitativo: costruzioni, impianti di efficienza energetica, materiali per la casa. www.ecowise.com Store online, leader nella vendite di prodotti non tossici, offre informazioni e prodotti salutari per la salute dei consumatori e dell’ambiente. www.sips.org Structural Insulated Panel Association si occupa di costruzioni ad alto livello, ecocompatibili ed efficienti sotto il profilo energetico. www.wholefoodsmarket.com Whole Foods, catena di negozi garantiti per la qualità dei prodotti proposti e per la sostenibilità sociale ed ambientale della filiera alle loro spalle. www.hannaford.com Hannaford, multinazionale leader nella distribuzione di prodotti alimentari sani e green. www.ge.com/it General Electric, compagnia all’avanguardia che investe nella produzione e vendita di prodotti di qualità a migliore efficienza energetica e minor consumo, realizzati con materiali a ridotto impatto ambientale. www.stonyfield.com Stonyfield Farm organic, azienda agricola che ha puntato tutto sulla sostenibilità, realizzando prodotti biologici genuini e salutari. www.greenirene.com Agenzia di consulenza ambientale dedicata al green styling di casa e ufficio. Green Irene aiuta i propri clienti a ridurre i consumi e i costi delle bollette creando un piano ad hoc per ciascun interessato.


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5. Strategie green Quest’ultima selezione di siti merita una brevissima frase introduttiva, poiché riguarda il vero motore della green economy. Le organizzazioni o i gruppi di seguito riportati non vendono direttamente prodotti, né servizi, bensì creano un circuito di informazione e comunicazione finalizzato ad orientare l’acquisto in una direzione di ecocompatibilità. Nel percorso fin qui delineato abbiamo compreso come consumAttori siano sempre più attenti alla qualità dei prodotti che acquistano: si informano, navigano in internet in cerca di recensioni, commenti, punteggi, consigli… Quando trovano fonti di informazioni sicure e trasparenti sfruttano i contenuti di interesse per modificare il proprio comportamento sul mercato globale o locale. In questo modo le aziende produttrici iniziano a chiedersi quali standards debbano rispettare i loro prodotti per poter rientrare nelle “liste buone” dei siti di informazione online. E il gioco inizia.

toxics.usgs.gov Sito informativo sulla pericolosità di molti prodotti d’uso quotidiano. Analisi scientifiche, dati, caratteristiche dei prodotti, il tutto per evitare future contaminazioni della salute umana e degli ecosistemi naturali. newsletters.keepkidshealthy.com/cgi-bin/knowwhat.cgi in merito alla salute dei bambini, informazioni utili per gli acquisti: comprare locale, alimenti di stagione, articoli da evitare. 100milediet.org Da dove viene il cibo di cui ci nutriamo quotidianamente? In media ha viaggiato più della persona che lo sta inghiottendo. www.advancedbuildings.org Sito informativo sull’abitare e sulle costruzioni ecocompatibili, continuamente aggiornato e a disposizione di tutti. www.sustainabletable.org Cibo sano: dove trovarlo, cosa scegliere, cosa evitare.


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www.foodnews.org Guida ai pesticidi e agli ingredienti nocivi nascosti nei nostri alimenti. www.madehow.com Di cosa sono fatti gli articoli che utilizziamo tutti i giorni? Questo sito lo spiega a chiunque sia interessato ad un acquisto consapevole. www.pesticideinfo.org The Pesticide Action Network (pan) è un database basato sulla tossicità dei prodotti, presenza di insetticidi, erbicidi o altri elementi nocivi. www.lesstoxicguide.ca The Environmental Health Association of Nova Scotia ha realizzato una guida proprio per supportare i cittadini intenzionati a ridurre l’esposizione a sostanze nocive nella vita quotidiana. www.goodguide.com GoodGuide, sito in cui ognuno può verificare le caratteristiche e la pericolosità dei prodotti che compra. www.consumerreports.org Servizio simile a GoodGuide, anche se meno conosciuto. www.chemicalbodyburden.org Chemical Body Burden, viaggio alla scoperta dei pericoli chimici che insidiano quotidianamente il nostro corpo. www.cosmeticsdatabase.com/index.php?nothanks=1 Skin Deep, guida ai prodotti per la cura personale. www.climatecounts.org ClimateCounts – come utilizzare il proprio potere d’acquisto per orientare i grandi produttori verso un mercato più sostenibile. www.slowfood.it Slow Food promuove una modalità di produzione, vendita e acquisto orientata all’ecocompatibilità e al recupero delle tradizioni locali.


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www.greenwashingindex.com È un servizio che si prefigge tre principali obiettivi: far sì che i consumatori diventino più consapevoli nel valutare il marketing ambientale, controllare l’affidabilità delle pubblicità green delle varie aziende, stimolare il mercato attraverso il coinvolgimento degli acquirenti, orientando la domanda verso meccanismi aziendali che realmente siano impegnati nella riduzione del proprio impatto ambientale. ec.europa.eu/environment/europeangreencapital/index_en.htm European green capital award, premio europeo ideato per stimolare le amministrazioni e i cittadini del vecchio continente a migliorare la propria sostenibilità ambientale.


Copenhagen Accord

Advance unedited version

Decision -/CP.15 The Conference of the Parties, Takes note of the Copenhagen Accord of 18 December 2009. The Heads of State, Heads of Government, Ministers, and other heads of the delegations present at the United Nations Climate Change Conference 2009 in Copenhagen: In pursuit of the ultimate objective of the Convention as stated in its Article 2, Being guided by the principles and provisions of the Convention, Noting the results of work done by the two Ad hoc Working Groups, Endorsing decision x/CP.15 on the Ad hoc Working Group on Longterm Cooperative Action and decision x/CMP.5 that requests the Ad hoc Working Group on Further Commitments of Annex I Parties under the Kyoto Protocol to continue its work, Have agreed on this Copenhagen Accord which is operational immediately. 1. We underline that climate change is one of the greatest challenges of our time. We emphasise our strong political will to urgently com-


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bat climate change in accordance with the principle of common but differentiated responsibilities and respective capabilities. To achieve the ultimate objective of the Convention to stabilize greenhouse gas concentration in the atmosphere at a level that would prevent dangerous anthropogenic interference with the climate system, we shall, recognizing the scientiďŹ c view that the increase in global temperature should be below 2 degrees Celsius, on the basis ofequity and in the context of sustainable development, enhance our long-term cooperative action to combat climate change. We recognize the critical impacts of climate change and the potential impacts of response measures on countries particularly vulnerable to its adverse effects and stress the need to establish a comprehensive adaptation programme including international support. 1. We agree that deep cuts in global emissions are required according to science, and as documented by the ipcc Fourth Assessment Report with a view to reduce global emissions so as to hold the increase in global temperature below 2 degrees Celsius, and take action to meet this objective consistent with science and on the basis of equity. We should cooperate in achieving the peaking of global and national emissions as soon as possible, recognizing that the time frame for peaking will be longer in developing countries and bearing in mind that social and economic development and poverty eradication are the ďŹ rst and overriding priorities of developing countries and that a low-emission development strategy is indispensable to sustainable development. 2. Adaptation to the adverse effects of climate change and the potential impacts of response measures is a challenge faced by all countries. Enhanced action and international cooperation on adaptation is urgently required to ensure the implementation of the Convention by enabling and supporting the implementation of adaptation actions aimed at reducing vulnerability and building resilience in developing countries, especially in those that are particularly vulnerable, especially least developed countries, small island developing States and Africa. We agree that developed countries shall provide adequate, predictable and sustainable ďŹ nancial resources, technology and capacity-building to support the implementation of adaptation action in developing countries.


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3. Annex I Parties commit to implement individually or jointly the quantified economy-wide emissions targets for 2020, to be submitted in the format given in Appendix I by Annex I Parties to the secretariat by 31 January 2010 for compilation in an inf document. Annex I Parties that are Party to the Kyoto Protocol will thereby further strengthen the emissions reductions initiated by the Kyoto Protocol. Delivery of reductions and financing by developed countries will be measured, reported and verified in accordance with existing and any further guidelines adopted by the Conference of the Parties, and will ensure that accounting of such targets and finance is rigorous, robust and transparent. 4. Non-Annex I Parties to the Convention will implement mitigation actions, including those to be submitted to the secretariat by non-Annex I Parties in the format given in Appendix II by 31 January 2010, for compilation in an inf document, consistent with Article 4.1 and Article 4.7 and in the context of sustainable development. Least developed countries and small island developing States may undertake actions voluntarily and on the basis of support. Mitigation actions subsequently taken and envisaged by Non-Annex I Parties, including national inventory reports, shall be communicated through national communications consistent with Article 12.1(b) every two years on the basis of guidelines to be adopted by the Conference of the Parties. Those mitigation actions in national communications or otherwise communicated to the Secretariat will be added to the list in appendix II. Mitigation actions taken by Non-Annex I Parties will be subject to their domestic measurement, reporting and verification the result of which will be reported through their national communications every two years. Non-Annex I Parties will communicate information on the implementation of their actions through National Communications, with provisions for international consultations and analysis under clearly defined guidelines that will ensure that national sovereignty is respected. Nationally appropriate mitigation actions seeking international support will be recorded in a registry along with relevant technology, finance and capacity building support. Those actions supported will be added to the list in appendix II. These supported nationally appropriate mitigation actions will be subject to international measurement, reporting and verification in accordance with guidelines adopted by the Conference of the Parties.


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5. We recognize the crucial role of reducing emission from deforestation and forest degradation and the need to enhance removals of greenhouse gas emission by forests and agree on the need to provide positive incentives to such actions through the immediate establishment of a mechanism including redd-plus, to enable the mobilization of financial resources from developed countries. 6. We decide to pursue various approaches, including opportunities to use markets, to enhance the cost-effectiveness of, and to promote mitigation actions. Developing countries, especially those with low emitting economies should be provided incentives to continue to develop on a low emission pathway. 7. Scaled up, new and additional, predictable and adequate funding as well as improved access shall be provided to developing countries, in accordance with the relevant provisions of the Convention, to enable and support enhanced action on mitigation, including substantial finance to reduce emissions from deforestation and forest degradation (redd-plus), adaptation, technology development and transfer and capacity-building, for enhanced implementation of the Convention. The collective commitment by developed countries is to provide new and additional resources, including forestry and investments through international institutions, approaching usd 30 billion for the period 2010 – 2012 with balanced allocation between adaptation and mitigation. Funding for adaptation will be prioritized for the most vulnerable developing countries, such as the least developed countries, small island developing States and Africa. In the context of meaningful mitigation actions and transparency on implementation, developed countries commit to a goal of mobilizing jointly usd 100 billion dollars a year by 2020 to address the needs of developing countries. This funding will come from a wide variety of sources, public and private, bilateral and multilateral, including alternative sources of finance. New multilateral funding for adaptation will be delivered through effective and efficient fund arrangements, with a governance structure providing for equal representation of developed and developing countries. A significant portion of such funding should flow through the Copenhagen Green Climate Fund.


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8. To this end, a High Level Panel will be established under the guidance of and accountable to the Conference of the Parties to study the contribution of the potential sources of revenue, including alternative sources of ďŹ nance, towards meeting this goal. 9. We decide that the Copenhagen Green Climate Fund shall be established as an operating entity of the ďŹ nancial mechanism of the Convention to support projects, programme, policies and other activities in developing countries related to mitigation including redd-plus, adaptation, capacity-building, technology development and transfer. 10. In order to enhance action on development and transfer of technology we decide to establish a Technology Mechanism to accelerate technology development and transfer in support of action on adaptation and mitigation that will be guided by a country-driven approach and be based on national circumstances and priorities. 11. We call for an assessment of the implementation of this Accord to be completed by 2015, including in light of the Convention.s ultimate objective. This would include consideration of strengthening the long-term goal referencing various matters presented by the science, including in relation to temperature rises of 1.5 degrees Celsius.




GO GREEN Il nuovo trend della comunicazione Così come il verde diventerà pian piano il colore dominante, il nostro modo di vivere, la realtà quotidiana, la Green Communication diventerà il nuovo standard della comunicazione. E svolgerà un ruolo di primo piano nel definire un modello d’agenzia innovativo, che aiuterà la industry a uscire da una crisi strutturale in cui versa da troppo tempo, restituendole dignità e importanza.

“To be a great company, you have to be a good company” Jeff Immelt “È ormai ben chiaro che abbiamo in mano tutti gli strumenti necessari per risolvere la crisi climatica. L’unico ingrediente che manca è la volontà collettiva” Al Gore “Il futuro non è più una scelta tra crescita economica e un pianeta pulito, perché la sopravvivenza dipende da entrambi” Barack Obama

L’autore devolve i suoi diritti a favore dei progetti di Alice for Children in Kenya – www.aliceforchildren.it

18,00 euro


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