La figura del datore di lavoro pubblico nella giurisprudenza in tema di salute e sicurezza sul lavor

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LA FIGURA DEL DATORE DI LAVORO PUBBLICO NELLA GIURISPRUDENZA IN TEMA DI SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO Stradi Loris


INDICE

PARAGRAFO 1 1. INTRODUZIONE

PARAGRAFO 2 2. DISAMINA DELLE CARATTERISTICHE DELLA NORMATIVA VIGENTE

PARAGRAFO 3 3. RASSEGNA DELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

3.1 L’individuazione della figura datoriale nella pubblica amministrazione nelle prime applicazioni del D.Lgs. n. 626/1994 3.2 I casi particolari: 1) la sicurezza negli istituti scolastici 3.3 I casi particolari: 2) la sicurezza negli ospedali e nelle strutture delle aziende sanitarie locali 3.4 Le responsabilità del sindaco quale organo di vertice del comune e degli assessori comunali 3.5 La figura datoriale nelle pubbliche amministrazioni: i dirigenti 3.6 I profili di responsabilità civile del datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni



1. Introduzione

L’individuazione della figura del “datore di lavoro” nella pubblica amministrazione ha da sempre suscitato non pochi problemi di ordine giuridico, perché non basta certo affermare che gli impiegati statali lavorano alle dipendenze dello Stato o che quelli comunali lavorano al servizio del proprio Municipio. Una volta sancita l’applicabilità della normativa in materia di tutela della salute dei lavoratori e della sicurezza negli ambienti di lavoro anche ai rapporti del pubblico impiego, la risoluzione di tale problema è divenuto di primaria importanza: occorreva infatti individuare con precisione il soggetto tenuto a rispettare e far rispettare le disposizioni legislative, cioè la persona fisica alla quale personalmente ricondurre la responsabilità in caso di omissioni o violazioni a tali disposizioni. Con il presente studio abbiamo, preliminarmente e brevemente, fatto il punto sull’attuale assetto normativo: dal D.Lgs. n. 626/1994, che ha dato attuazione alle direttive dell’Unione Europea in materia, alle sue modifiche ed integrazioni apportate con il D.Lgs. n. 242/1996, che ha distinto la figura del datore di lavoro nelle imprese private da quello nelle pubbliche amministrazioni specificando che in queste coincide col dirigente cui spettano i poteri di gestione, fino alla promulgazione del vigente Testo Unico della Sicurezza con il D.Lgs. n. 81/2008, si assiste ad una sempre maggiore precisazione non solo del campo di applicazione della normativa stessa (estesa a tutte le tipologie di lavoratori e lavoratrici ed a tutte le tipologie di rischi e pericoli sul lavoro), ma anche e soprattutto della figura del datore di lavoro, specialmente con riguardo al pubblico impiego. Ad onor del vero la definizione stessa del datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni è frutto della laboriosa ed attenta attività dei giudici di merito, che con il problema della sua esatta identificazione hanno dovuto, per primi, fare i conti. Abbiamo quindi voluto, nel presente studio, esaminare in dettaglio parte della copiosa giurisprudenza della Corte di Cassazione incentrata proprio sull’esatta individuazione della figura datoriale nella pubblica amministrazione.


Sin dalle prime applicazioni della legge sulla prevenzione e sicurezza del lavoro negli anni Novanta, la Corte di Cassazione ha offerto delle importanti linee guida nella concretizzazione delle caratteristiche che devono sussistere per poter definire un certo soggetto quale datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni: occorre innanzitutto considerare la ripartizione interna ed istituzionale delle competenze tra i vari uffici e le funzioni di fatto esercitate da quel soggetto; occorre poi avere riguardo alla presenza di un’eventuale valida delega, con tutti i requisiti anche formali- della stessa secondo il diritto amministrativo; ed occorre infine distinguere tra le carenze strutturali, addebitali ai vertici dell’ente pubblico, e quelle riguardanti invece l’ordinario buon funzionamento dei vari settori. Possiamo allora sintetizzare i vari presupposti che, alla luce del disposto legislativo e dei principi giuridici generali applicabili alla materia, sono stati indicati dalla Suprema Corte per poter affermare in capo ad una certa persona fisica la sua responsabilità personale, in campo penale o civile, sia essa il sindaco di una città o di un piccolo comune oppure il direttore generale di una complessa azienda ospedaliera o un semplice funzionario delegato quale responsabile della sicurezza nel suo settore. Certe fattispecie particolari sono state analizzate dalla Corte di Cassazione con una più attenta disamina dei singoli ruoli dei soggetti coinvolti: così negli istituti scolastici dove, premettendo che anche agli alunni sono applicabili le norme antinfortunistiche sebbene non siano lavoratori ma semplici utenti della struttura, alla responsabilità del preside o del direttore didattico può affiancarsi quella del sindaco, che mantiene una posizione di garanzia in tema di prevenzione e sicurezza se sia a conoscenza delle violazioni commesse e non si sia attivato per eliminarle. Soprattutto all’interno delle complesse strutture ospedaliere, o residenziali gestite dalle Aziende Sanitarie Locali, occorre distinguere bene i ruoli e le funzioni effettive del direttore generale, del primario responsabile del reparto e poi ancora del direttore del dipartimento o del dirigente responsabile per la sicurezza: ogni singolo caso può presentare delle peculiarità, che i giudici devono valutare con attenzione prima di poter ritenere la responsabilità personale dei soggetti imputati nel processo. Cerchiamo di sintetizzare le principali massime della Suprema Corte. Premettendo che l’attuazione delle norme antinfortunistiche riguarda ogni luogo in cui i lavoratori possono anche soltanto transitare nello svolgimento della loro attività lavorativa, e che la normativa sulla prevenzione e sicurezza negli ambienti di


lavoro è finalizzata a tutelare la salute e l’incolumità dei lavoratori non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli causati dalle loro disattenzioni, imprudenze o addirittura disubbidienze alle istruzioni ricevute, per il datore di lavoro responsabile della sicurezza sussiste l’obbligo di verificare lo stato dei luoghi di lavoro per metterli in sicurezza, anche in caso di nuova nomina o di subentro ad altri; sussiste l’obbligo di effettuare dei controlli a campione o a sorpresa per verificare l’esatto adempimento alle istruzioni impartite in tema di antinfortunistica; sussiste in generale l’obbligo di acquisire le conoscenze necessarie per svolgere e far svolgere l’attività lavorativa senza esposizione a pericoli (o quanto meno limitandoli il più possibile) ricordando che vi è sempre un’alternativa giuridicamente possibile: quando la soluzione per ridurre i rischi e garantire la salute e l’incolumità dei lavoratori o di qualunque altra persona sia economicamente non conveniente, il datore di lavoro ha l’obbligo di vietare l’attività pericolosa o l’utilizzo della struttura non adeguata. In tutti i casi la Corte di Cassazione ha sottolineato la necessità della forma scritta nella predisposizione dell’organigramma, degli ordini di servizio e delle deleghe al fine proprio di individuare con chiarezza il soggetto tenuto all’osservanza degli obblighi in materia di prevenzione e sicurezza sul luogo di lavoro, e nello stesso tempo ha più volte ribadito che le funzioni in concreto esercitate prevalgono rispetto alla formale carica attribuita e che ai poteri di gestioni del personale deve affiancarsi un autonomo potere di gestire anche le risorse finanziarie per gli eventuali acquisti di dispositivi di protezione ai lavoratori o per gli interventi manutentivi, sebbene su quest’ultimo punto abbia anche affermato che certi doveri di garanzia e di protezione possono e devono essere rispettati anche soltanto informando l’organo che ha il potere di spesa, affinché deliberi le misure idonee per eliminare i rischi evidenziati. Sempre con l’occhio rivolto alla realtà effettiva, la Suprema Corte ha dovuto più volte pronunciarsi sull’eventuale responsabilità degli organi politici di vertice degli enti pubblici: il caso emblematico è quello della figura del sindaco. Pur nella distinzione tra le funzioni degli organi politici elettivi e le mansioni amministrative dei dirigenti a capo dei vari rami dell’ente pubblico, molte sentenze hanno evidenziato in tema di prevenzione e sicurezza nell’ambiente di lavoro la posizione di garanzia degli organi politici sia in merito alla predisposizione di un idoneo programma di interventi per la sicurezza e di adeguate risorse economiche per attuarlo, sia in merito all’individuazione dei dirigenti da qualificare


datori di lavoro nei vari settori o nominare responsabili per la sicurezza, con la prospettazione di una responsabilità per colpa anche in questa delicata operazione di scelta, essendo legittimo pretendere che essi individuino i dirigenti e i funzionari, che avranno poi la responsabilità in materia di prevenzione e sicurezza, sulla base di oggettivi requisiti attitudinali e specifiche competenze nella materia, fermo restando l’obbligo dell’organo di vertice di controllare sempre sul loro operato. Anche la mancata designazione di tali dirigenti è per l’organo di vertice fonte di responsabilità: la conseguenza giuridica sarà quella di dover ritenere l’organo politico di vertice quale datore di lavoro, trattandosi di una qualifica che gli compete sin dall’origine e non ponendosi più il problema della ripartizione di competenze tra organo di direzione politica e organo di gestione amministrativa. Sul punto viene pure affermato che l’introduzione delle nuove norme su tale designazione non comporta l’esclusione di ogni responsabilità in capo all’organo politico di vertice, mantenendosi saldo il principio generale dell’effettività della gestione del potere e della protezione costituzionale ai fondamentali diritti umani. La Corte di Cassazione non ha mancato di fare esplicito riferimento alle varie modifiche e correzioni ai testi legislativi che si sono succeduti nel tempo: sia successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 242/1996, che dal dato formale del rapporto di lavoro ha introdotto l’esigenza di guardare all’effettività dei poteri decisionali e di spesa attribuiti al soggetto incaricato della responsabilità dell’impresa e ha introdotto nel testo legislativo quell’indirizzo giurisprudenziale che si era già sviluppato in argomento, sia al momento della riforma attuata col D.Lgs. n. 81/2008 che ha, come si legge in una sentenza1, “mutuato l’indirizzo giurisprudenziale”. In effetti possiamo anche noi affermare che l’individuazione della figura datoriale nelle pubbliche amministrazioni è tutta opera e merito della giurisprudenza. Le modifiche apportate dalla legislazione sulla tutela della salute dei lavoratori e sulla sicurezza negli ambienti di lavoro hanno recepito le indicazioni della Corte di Cassazione e gli sforzi interpretativi dei giudici, nella valutazione delle responsabilità penali o civili dei soggetti tenuti all’osservanza della normativa stessa. Il diritto vigente e vivente ha così sottolineato la necessità di formare una vera e propria cultura della sicurezza sul lavoro e di delineare una concreta ed utile gestione della prevenzione dei possibili rischi, anche nella pubblica amministrazione. 1 Cfr. sentenza della Corte di Cassazione n. 28410 del 14.06.2012


2. Disamina delle caratteristiche della normativa vigente

Attualmente il D.Lgs. n. 81 del 9 aprile 2008 è il corpo normativo vigente in materia di prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro e ad essi assimilati2. Certamente l’emanazione del c.d. Testo Unico della Sicurezza è frutto di un enorme sforzo per rendere unitaria e sistematica tutta la normativa della materia, che si trovava disseminata oltre che nel D.Lgs. n. 626 del 1994, che sin dall’inizio ha mostrato i suoi limiti innati, in numerosi e talvolta troppo settoriali decreti (citiamo, per quanto riguarda le pubbliche amministrazioni, il decreto n. 338 del 1997 per le strutture giudiziarie e penitenziarie, il decreto n. 497 del 1997 per le rappresentanze diplomatiche e consolari italiane all’estero, il decreto n. 363 del 1998 per le università e gli istituti di istruzione universitaria, il decreto n. 325 del 1998 per il Corpo della Guardia di Finanza, il decreto n. 450 del 1999 per le strutture della Polizia di Stato, del Corpo dei Vigili del Fuoco e dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza, il decreto ministeriale n. 284 del 2000 per il Ministero della difesa ed infine il decreto n. 110 del 2001 per il Corpo Forestale dello Stato). Il D.Lgs. n. 81 del 2008 ha dato attuazione alla legge delega n. 123 del 3 agosto 2007 per il riassetto e la riforma delle disposizioni vigenti in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro ed ai criteri direttivi generali in essa previsti quali, oltre al riordino ed al coordinamento delle disposizioni vigenti, nel rispetto delle normative comunitarie e delle convenzioni internazionali in materia: l’ampliamento a tutti i settori di attività e a tutte le tipologie di rischio e l’applicazione a tutte le tipologie di lavoratori e lavoratrici, autonomi e subordinati; la razionalizzazione dell’apparato sanzionatorio, amministrativo e penale, per la violazione delle norme vigenti, tenendo conto della responsabilità e delle funzioni svolte da ciascun soggetto obbligato; il riconoscimento ad organizzazioni sindacali ed associazioni dei familiari

2 Cfr. in argomento P. PASCUCCI, La tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori pubblici: cosa cambia dopo le riforme del 2008/2009?, in Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, fasc. 3-4, 2009, pag. 553 e ss.


delle vittime della possibilità di esercitare i diritti e le facoltà attribuiti alla persona offesa; il rafforzamento del ruolo del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Come prima novità, rispetto al sistema precedente, vi è la definizione nuova del suo campo di applicazione, che è stato ampliato non solo da un punto di vista soggettivo (ricomprendendo anche, per certe misure specifiche, i lavoratori autonomi e altre tipologie di lavoratori) ma anche da un punto di vista oggettivo3, ribadendo l’applicabilità di tale normativa a “tutti i settori di attività, privati e pubblici” ed ampliandola con il riferimento esplicito a “tutte le tipologie di rischio”: si cerca di superare il sistema semplicemente prevenzionistico e di approdare così ad un sistema di tipo precauzionale. Prevenire è meglio e meno costoso che curare. Per quanto riguarda quei diversi settori caratterizzati da una peculiare pericolosità e specificità, anche il nuovo decreto legislativo ha ritenuto di non potervi applicare la normativa antinfortunistica generale, talvolta addirittura incompatibile con le attività da svolgere, e ha quindi previsto espressamente la necessità di tener conto delle “effettive particolari esigenze connesse al servizio espletato o alle peculiarità organizzative” (quest’ultimo riferimento non contemplato nel precedente D.Lgs. n. 626/1994) che saranno individuate con decreti da emanare nel termine di dodici mesi dalla sua entrata in vigore; nel frattempo, viene confermata l’applicabilità in via provvisoria dei decreti già emanati e sopra menzionati e fatta salva l’operatività della normativa speciale riguardante le attività a bordo delle navi, anche da pesca, in ambito portuale e quelle del trasporto ferroviario4. Dal punto di vista oggettivo, occorre sottolineare la novità anche del preciso riferimento, per quanto riguarda le particolari esigenze connesse al servizio o le peculiarità organizzative, al dipartimento dei Vigili del Fuoco5, del soccorso pubblico e della difesa civile, alle istituzioni dell’alta formazione artistica, alle varie organizzazioni di volontariato ed infine agli archivi, alle biblioteche ed ai musei.

3 Cfr. in argomento A. ANTONUCCI, Il campo di applicazione “oggettivo” e “soggettivo” della nuova normativa in materia di sicurezza e tutela della salute dei lavoratori, in Diritto delle Relazioni Industriali, fasc. 2, 2008, pag. 441 e ss. 4 Normativa speciale contenuta rispettivamente nei decreti legislativi nn. 271, 272 e 298 del 1999, ai D.P.R. n. 547 del 1955 e n. 164 del 1956 ed alla legge n. 191 del 1974. 5 Interessante al riguardo l’interpello n. 6/2014 dell’Unione Sindacale di base dei Vigili del Fuoco sull’applicazione di una norma del D.Lgs. n. 81/2008 e la recentissima indicazione della Commissione per gli Interpelli del 27.03.2014 data in risposta al quesito posto.


D’altra parte occorre anche notare il mancato riferimento invece alle aree archeologiche dello Stato ed alle rappresentanze diplomatiche e consolari; si ritiene però che tale lacuna si riduca ad una differenza puramente formale e non sostanziale. Dal punto di vista soggettivo, il D.Lgs. n. 81 del 2008 ha ridefinito la nozione di lavoratore estendendola innanzitutto ai volontari che svolgono un’attività lavorativa senza retribuzione e ad altre tipologie di lavoratori, come i lavoratori a domicilio ed i portieri privati, i lavoratori in distacco ed i collaboratori coordinati e continuativi, i lavoratori in somministrazione e quelli a progetto od occasionali, nonché i lavoratori autonomi, come accennato prima, pur escludendo dal suo campo di applicazione i piccoli lavoratori domestici a carattere straordinario e gli assistenti ai bambini, agli ammalati, agli anziani ed ai disabili. La normativa italiana si pone così in linea con quella definizione di lavoratore contenuta nella direttiva comunitaria n. 89/391/CE. Inoltre il D.Lgs. n. 81 del 2008 ha pure assimilato quanto elaborato dalla notevole giurisprudenza di merito che aveva esteso l’applicabilità della normativa antinfortunistica a tutte le persone che si trovano in un ambiente di lavoro: il più recente trend giurisprudenziale, infatti, ha tutelato la sicurezza di per sé all’interno di un ambiente di lavoro e quindi la sicurezza di chiunque si trovi in un ambiente di lavoro, comprese le persone “terze”, estranee al contratto di lavoro vero e proprio. La nuova definizione di lavoratore, in conclusione, è talmente ampia da ricomprendere chiunque si trovi nell’ambito di organizzazione di un datore di lavoro. Infine, per quanto riguarda la figura del datore di lavoro, che più specificatamente interessa il presente studio focalizzato sulla figura datoriale nelle pubbliche amministrazioni, il D.Lgs. n. 81 del 2008 ne ha specificato la portata. L’art. 2 del D.Lgs. n. 626 del 1994, così come modificato dal successivo D.Lgs. n. 242 del 1996, conteneva indicava il datore di lavoro nel “soggetto titolare del rapporto di lavoro” o comunque nel soggetto che ha la responsabilità dell’impresa ovvero dell’unità produttiva “in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa”. E per quanto riguarda il pubblico impiego, la norma di legge faceva esplicito riferimento al “dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale”.


Il nuovo D.Lgs. n. 81 del 2008 ha aggiunto a quella definizione la seguente frase: “individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l’organo di vertice medesimo”6. Così facendo la norma di legge ha chiarito i rapporti che intercorrono tra l’organo di vertice, e soprattutto l’organo politico elettivo negli enti pubblici locali, ed il soggetto -dirigente o funzionario- con funzioni e poteri di gestione. Sembra che tale definizione abbia già esplicitato il concetto di datore di lavoro nella pubblica amministrazione, con pedante ripetizione anche di quei termini di poteri di gestione, autonomia gestionale, poteri decisionali e di spesa, ambito funzionale dei singoli uffici7; in effetti la definizione appare dettagliata. Ma così non è sempre stato e, pur nella vigenza del precedente testo legislativo, la giurisprudenza si era già tanto adoperata per poter individuare con la certezza del diritto applicato la persona fisica, o le persone fisiche, cui addossare le responsabilità penali dell’eventuale inosservanza delle norme antinfortunistiche. Come si suddividono le varie funzioni dirigenziali all’interno di un ente pubblico, magari articolato e complesso o di grandi dimensioni? Alla funzione indicata nell’organigramma corrisponde davvero la mansione concretamente ed effettivamente esercitata dal soggetto che ricopre quella carica? In caso di delega, quale responsabilità resta eventualmente in capo al delegante? L’organo politico, quale vertice e rappresentante dell’ente pubblico territoriale, assume responsabilità in materia di sicurezza ed igiene dell’ambiente di lavoro? Quali sono i soggetti tenuti all’osservanza delle norme a tutela della salute all’interno delle scuole o degli ospedali? Quanto può essere responsabile il funzionario con ampi poteri di gestione delle risorsa umane ma senza poteri finanziari di spesa? Questi e molti altri sono i quesiti che i giudici, ed in ultima istanza la Corte di Cassazione, hanno dovuto risolvere nel giudicare i casi pratici sottoposti alla loro 6 Cfr. in argomento P.PASCUCCI, La tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori pubblici dopo le riforme del 2008/2009, in G. ZILIO GRANDI (a cura di), Il lavoro negli enti locali: verso la riforma Brunetta, Atti del convegno di Verona del giugno 2009, pag. 125 e ss. 7 Cfr. in argomento A. MONEA, Pubblica Amministrazione, la sicurezza sul lavoro riparte dall’organizzazione - Il modello gestionale deve recepire le indicazioni della norma, in Pubblico Impiego, Il Sole 24 Ore, luglio-agosto 2008, pag. 28 e ss.


giurisdizione e nell’individuare con ragionevole certezza e giuridica autorevolezza la figura del datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni e le sue responsabilità. Tale figura datoriale infatti, più che dalla normativa di diritto positivo pur con tutte le sue modifiche, correzioni ed integrazioni, è stata delineata e precisata nel tempo proprio dalla giurisprudenza di legittimità8, che ha dovuto occuparsi spesso dei profili della responsabilità -soprattutto in campo penale- dei soggetti tenuti all’adempimento di quanto prescritto dalla legge ed al controllo della sua esecuzione. Vedremo quindi nel prossimo capitolo come la Corte di Cassazione, nella sua funzione nomofilattica, ha saputo colmare le lacune interpretative dei primi testi legislativi, precisare i criteri ed i requisiti per una corretta individuazione del datore di lavoro nella pubblica amministrazione, individuare le caratteristiche funzionali di tale figura e dare perciò piena applicazione alla normativa in materia di prevenzione degli infortuni, di tutela della salute dei lavoratori e di sicurezza nell’ambiente di lavoro.

8 Cfr. in argomento P. FIRMIANI, I criteri di individuazione dei soggetti responsabili nelle organizzazioni complesse e negli organi collegiali, anche all’interno della pubblica amministrazione, in Giurisprudenza di Merito, fasc. 11, 2003, pag. 2320 e ss.



3. Rassegna della giurisprudenza della Corte di Cassazione

3.1 L’individuazione della figura datoriale nella pubblica amministrazione nelle prime applicazioni del D.Lgs. n. 626/1994

Nell’attività di individuazione dei soggetti e di concretizzazione dei profili di responsabilità in materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro nelle pubbliche amministrazioni, già con la sentenza n. 5407 del 30.04.1996 la Corte di Cassazione (sez. III penale) ha affermato e chiarito che “perché possa affermarsi la personale responsabilità per violazioni di norme relative alla prevenzione degli infortuni sul lavoro di un dipendente amministrativo addetto ad un determinato servizio gestito da una pubblica amministrazione occorre considerare la ripartizione interna ed istituzionale delle specifiche competenze, i limiti della delega ottenuta e le funzioni in concreto esercitate e distinguere tra le carenze strutturali, addebitali ai vertici dell’ente, e le deficienze derivanti dall’ordinario buon funzionamento.” Il caso di specie riguardava il reato per l’omessa fornitura agli operatori ecologici del comune di Capri di idonei mezzi per la protezione contro i rischi da tagli, abrasioni, ustioni e causticazioni alle mani e per la mancata vigilanza sull’utilizzazione degli stessi, dando occasione alla Corte di Cassazione di affermare che si trattava della “contestazione di due comportamenti diversi (omessa dotazione e mancata vigilanza) entrambi doverosi per il datore di lavoro o il suo delegato”, ma soprattutto di identificare il soggetto personalmente tenuto all’osservanza di tali obblighi di legge, precisando che in ordine all’omessa dotazione “occorre indagare sui poteri effettivamente conferiti al funzionario e su sue eventuali carenze di informazioni agli organi competenti”, mentre “per quel che concerne l’omessa vigilanza occorre conoscere le eventuali direttive impartite, la possibile individuazione all’interno di ogni singolo gruppo di soggetti deputati al controllo circa l’adozione delle misure prevenzionali, l’ambito di effettuazione della sorveglianza”, ricordando pure che la


cessazione del reato che ha natura permanente “si verifica solo quando venga fornita la prova dell’adempimento di quanto prescritto”. Dunque un’individuazione che non si basa solamente sull’indicazione teorica delle funzioni all’interno dell’organigramma dell’ufficio pubblico, ma che dev’essere sorretta da precise prove sia in ordine alle competenze attribuite, all’eventuale delega di funzioni e soprattutto agli effettivi poteri esercitati, sia in ordine all’eventuale attività di denuncia ed informativa svolta nei confronti dei vertici dell’amministrazione interessata nonchè alla concreta esplicazione di direttive comportamentali ai singoli lavoratori ed alla sorveglianza sul loro concreto rispetto. Già allora la Suprema Corte aveva la consapevolezza di come all’interno delle pubbliche amministrazioni fosse di non facile applicazione una normativa sulla prevenzione degli infortuni e la sicurezza degli ambienti di lavoro, se non fosse stata accompagnata da un’esatta elencazione dei criteri per poter individuare i singoli soggetti (vertici politici, dirigenti o funzionari) su cui ricadessero l’assunzione degli obblighi di legge e l’onere di attivarsi per l’applicazione della normativa stessa.

A questa pronuncia fa subito riferimento anche la sentenza n. 2297 del 13.01.1999 (sezione III penale), con la quale la Corte di Cassazione deve valutare se il Sindaco di un comune possa essere equiparato al “datore di lavoro, destinatario delle norme in questione, con riferimento agli insegnanti ed agli alunni di una scuola pubblica, che non sono certo dipendenti comunali”. Nel caso di specie le contravvenzioni erano state commesse “sotto la vigenza del D.Lgs. n. 626/1994, ma prima della modifica di esso effettuata dal D.Lgs. n. 242/1996. La circostanza è rilevante in quanto, mentre il primo decreto non distingueva espressamente la figura del datore di lavoro nell’impresa privata da quello nelle pubbliche amministrazioni (comprendenti anche gli enti locali e gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado), il decreto correttivo n. 242/1996 identifica specificamente il datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni col dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario, non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale”. Ciò nonostante “ad avviso del Collegio, la situazione era la medesima anche precedentemente, alla luce della normativa vigente”; probabilmente si può


affermare ciò, proprio grazie all’operazione di concretizzazione e precisazione della normativa vigente9, effettuata anche dai giudici di merito ed anche alla luce del precedente giurisprudenziale di cui alla sentenza sopra esaminata n. 5407 del 1996. Occorre innanzitutto operare “una precisa distinzione di compiti tra amministratori (cui spettano i poteri di indirizzo politico degli enti, la fissazione degli obiettivi, delle priorità e dei piani di massima, nonché un’azione di controllo) e dirigenti (cui compete l’organizzazione delle risorse umane, finanziarie e materiali degli enti per conseguire le finalità e gli obiettivi indicati dagli organi di direzione politica)” e solo così facendo si può concludere, come conclude la Suprema Corte, che “nell’ambito di un Comune, anche se di modeste dimensioni, non si può ascrivere al sindaco, organo politico, ogni violazione di specifiche norme antinfortunistiche, quando appunto esse si riferiscano non a carenze strutturali addebitabili ai vertici dell’ente, e quando esista un apposito ufficio tecnico, con relativo dirigente ad esso preposto, deputato ex lege alla vigilanza e controllo del patrimonio immobiliare comunale. A meno che non risulti che il sindaco fosse a conoscenza della situazione antigiuridica e ciò nondimeno abbia omesso di intervenire”. Dunque il vertice politico di un ente pubblico locale, il sindaco, non può ritenersi responsabile se non è a conoscenza delle precarie condizioni degli impianti elettrici ed igienici di una scuola, se non gli erano mai stati segnalati dal direttore didattico, ma mantiene la posizione di garanzia in materia di sicurezza sul lavoro, ai sensi di legge, dovendosi comunque attivare con i propri poteri non appena venga a sapere di violazioni a tale normativa commesse all’interno della sua amministrazione.

3.2 I casi particolari: 1) la sicurezza negli istituti scolastici

Anche la sentenza n. 37397 del 10.07.2007 della Corte di cassazione (sez.

9 Cfr. in argomento A. POLIMENI, La nozione di datore di lavoro nella pubblica amministrazione ai fini della sicurezza e della prevenzione degli infortuni nel D.Lgs. n. 626/1994, in Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, 2003, pag. 76 e ss.


III penale)10 ha trattato della sicurezza in un istituto scolastico, e per l’esattezza delle gravi lesioni riportate da un alunno di una scuola elementare mentre spostava con altri compagni una porta di pallamano al fondo della palestra. Innanzitutto, viene subito chiarito che anche agli alunni di una scuola sono applicabili le norme antinfortunistiche dettate dalla legge a tutela del lavoro dipendente, essendo infatti “applicabile anche in assenza della qualità di dipendente nel soggetto colpito dall’evento dannoso, purché sussista un legame causale tra la violazione delle norme antinfortunistiche e tale evento”, rendendo aggravata così l’ipotesi di reato. Sebbene tale aspetto fosse già allora accettato nella sensibilità comune, che percepisce come ovvio e naturale che le misure antinfortunistiche siano applicabili anche alle persone che occasionalmente frequentino un dato ambiente di lavoro (si pensi ai visitatori esterni di un cantiere edile), non era allora giuridicamente consolidato il principio per cui, essendo le norme sulla sicurezza del lavoro fondate sulla protezione del superiore diritto alla salute dei lavoratori, queste si potessero e dovessero applicare anche a chi lavoratore non lo fosse, dato che il suo diritto alla salute doveva comunque essere salvaguardato e protetto nella stessa identica misura. A parte tale aspetto, è interessante che in questa pronuncia agli imputati, il direttore didattico ed il preside della scuola, venga mosso un “rimprovero concernente un comportamento che prescinde dalla titolarità dell’effettivo potere di gestione della palestra e di disposizione delle relative attrezzature, con i correlati oneri finanziari”, precisando più avanti che “il comportamento dovuto per legge era pertanto rappresentato, congiuntamente o alternativamente per i due imputati, quantomeno dalla emissione del divieto di uso della palestra nelle condizioni esistenti o nell’adozione di misure di propria pertinenza e disponibilità per eliminare il pericolo rappresentato dalla sopravvenuta mobilità delle porte di pallamano”, trattandosi di un comportamento “la cui omissione è stata correttamente valutata, nell’ambito di un giudizio contro fattuale, uno degli antecedenti dell’evento dannoso prodottosi ai danni del bambino”. Al Sindaco, imputato in quanto il Comune è tenuto per legge alla fornitura e alla manutenzione ordinaria e straordinaria sia degli edifici da destinare a scuole sia alle relative spese di arredamento, viene invece mosso il rimprovero di aver omesso il parere preventivo sull’adeguatezza dei locali e dell’impianto delle attrezzature: se 10 Cfr. su questa sentenza S. PESCI, in Giurisprudenza di merito, 2009, pag. 2652 e ss.


fosse intervenuto con un doveroso controllo, “avrebbe dovuto assumere stabili misure di sicurezza per evitare i prevedibili pericoli (come il ricovero delle porte in spazi adeguati ed il loro spostamento solo a cura di personale addetto)”; oltretutto, trattandosi di un reimpianto a seguito di una modifica strutturale dei locali della palestra, il Comune era “a perfetta conoscenza delle concrete necessità strutturali connesse all’allestimento di quelle specifiche attrezzature, potendo così nel parere e poi successivamente, quale titolare comunque dei locali e degli attrezzi e tenuto alla manutenzione sia degli uni sia degli altri, porre in essere le cautele necessarie ad evitare i rischi alla sicurezza nel senso indicato nella sentenza”. La Suprema Corte effettua dunque un’operazione di concretizzazione ancora più approfondita, indicando non solo la generica omissione nella valutazione del rischio o nella previsione di comportamenti imprudenti, ma anche con precisione la condotta che, se posta in essere dai soggetti dotati dei poteri per intervenire nel caso di specie (il preside, il direttore didattico ed il sindaco) sebbene non presenti quotidianamente nell’ambiente in cui si è verificato il sinistro, avrebbe con certezza eliminato qualunque pericolo; e tali soggetti, tutti, erano ben a conoscenza della situazione di fatto di quella palestra in quella scuola e avrebbero potuto intervenire. Con una conclusione differente, tale sentenza si pone in linea con quella che esamineremo più avanti, relativamente alla posizione di un assessore (n. 8585/2000).

3.3 I casi particolari: 2) la sicurezza negli ospedali e nelle strutture delle aziende sanitarie locali

Nella sentenza n. 9580 del 14.06.2000 della Corte di Cassazione (sempre III sez. penale), pronunciata solo qualche giorno dopo la n. 8585 del 2000 della medesima sezione, si tratta del ricorso promosso dal procuratore della Repubblica di Udine avverso la sentenza di assoluzione del direttore generale di un’azienda ospedaliera “sostenendo che nella pubblica amministrazione datore di lavoro è l’amministratore al vertice della struttura”, non essendo stata provata, a detta del procuratore, la sussistenza di una delega di poteri ad altri soggetti.


Tale ricorso non viene accolto, affermandosi anche in questo caso che “le funzioni in concreto esercitate prevalgono sulla carica attribuita”. Difatti nel caso in questione “l’organizzazione dell’azienda ospedaliera S.Maria della Misericordia era strutturata in modo da prevedere una suddivisione dei poteri in materia antinfortunistica, tale da consentire ai dirigenti posti a capo delle singole unità operative di assolvere gli obblighi che derivavano loro in materia, non in forza di delega ma della legge stessa. (… omissis …) I dirigenti sottordinati al direttore generale risultano essere titolari di proprie competenze in virtù di provvedimenti normativi, di cui è stata data attuazione pratica con atti amministrativi”, con espresso riferimento alla Legge n. 128/1969 sull’ordinamento interno dei servizi ospedalieri e la correlata Legge regionale del 199411. A maggior ragione la responsabilità del direttore generale “deve essere esclusa allorchè trattasi di ente pubblico, la cui articolazione in varie branche renda, perciò solo, impossibile ad una sola persona il controllo dell’attività funzionale”. In questa vicenda, come in altre che esamineremo, appare avere una sua rilevanza giuridica anche l’aspetto della dimensione dell’ente pubblico: più è grande ed articolato, e più è opportuno distinguere le singole e concrete funzioni dei vari dirigenti o funzionari preposti alle distinte unità o settori dell’amministrazione.

La sentenza n. 39268 del 13.07.2004 della Corte di Cassazione (sez. III penale) ha affermato a chiare lettere la necessità, nel settore pubblico, di una forma scritta “giacchè nel diritto amministrativo vige l’esigenza di una formalizzazione dei rapporti organizzativi al fine di predicare all’esterno la posizione assunta all’interno della struttura” e dunque la necessità della “predisposizione di ordini di servizio per iscritto, di norme interne, di organigrammi e di deleghe scritte” anche al fine di facilitare l’individuazione sia del soggetto tenuto all’osservanza degli obblighi di legge sia delle “condizioni che esprimono l’adempimento diligente dell’obbligo di protezione mediante l’apprestamento di una struttura e di un’organizzazione”. Non occorre commentare ulteriormente questo passaggio della sentenza, così chiaro pur nella sua sintesi e così comprensibile nella sua finalità: più che in ogni altro settore, in

11 Cfr. in argomento G. NATULLO, La disciplina della sicurezza sui luoghi di lavoro nel labirinto delle competenze legislative di Stato e Regioni, in P. PASCUCCI (a cura di), Il testo unico sulla sicurezza del lavoro. Atti del convegno di studi giuridici, Urbino 4 maggio 2007


materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro la responsabilità (che può essere anche di natura penale), dev’essere individuata con estrema precisione e concretezza; come abbiamo già visto, non basta un’individuazione teorica nell’organigramma, ma occorre verificare la sussistenza di precisi ordini di servizio e di deleghe formali. Il caso riguardava la condanna del presidente del Policlinico Universitario di Udine perché “non manteneva sgombre da materiale ed attrezzature le vie di fuga del laboratorio di analisi dell’ospedale” e la condanna del direttore del laboratorio di analisi chimiche dello stesso “per non aver mantenuto in buono stato di efficienza l’impianto di aspirazione del vuotatoio del laboratorio di analisi” di un padiglione. “Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, la individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e sull’igiene del lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono quindi rispetto alla carica attribuita al soggetto (ossia alla sua funzione formale). Peraltro, sotto il profilo normativo assume rilevanza la nozione, fornita dal D.Lgs. n. 626 del 1994 – modificata dal D.Lgs. n. 242 del 1996, di datore di lavoro pubblico, individuato nel dirigente del settore. Tuttavia, secondo la prevalente se non costante giurisprudenza di questa Corte, è affermato che l’introduzione delle norme richiamate non comportasse l’esclusione di ogni responsabilità dell’organo apicale, giacchè questi precetti dovevano essere coordinati con il principio generale, non derogato in tema di responsabilità penale per l’applicazione e l’osservanza della normativa di prevenzione degli infortuni e sull’igiene del lavoro, dell’effettività della gestione del potere in considerazione della protezione accordata dalla Costituzione ai fondamentali diritti inerenti alla legislazione antinfortunistica.” Dunque, si rileva la necessità sì di una concretizzazione, ma non per questo se ne deduce un automatico annullamento della responsabilità degli organi di vertice della pubblica amministrazione, se non altro per la loro posizione comunque di garanzia per il rispetto della legislazione statale e per la salvaguardia in ogni caso di quei diritti costituzionalmente garantiti. Infatti, se il datore di lavoro pubblico viene individuato ai sensi di legge nel dirigente cui spettano i poteri di gestione ovvero nel funzionario non avente qualifica dirigenziale purchè preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione restano a carico


dell’amministrazione tenuta alla loro fornitura con la precisazione che gli obblighi previsti relativamente a tali interventi si intendono assolti da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati con la richiesta formale del loro adempimento all’amministrazione competente; in tal modo, come ha chiarito la sentenza esaminata, “viene ribadito il principio fondamentale in materia di delega di funzioni, secondo cui, attesa la posizione di garanzia assunta dai vertici dell’ente pubblico, la delega in favore di un soggetto che non può neppure rifiutarla, qual è il dirigente o il funzionario preposto, assume valore solo ove detti organi siano incolpevolmente estranei alle inadempienze del delegato e non siano stati informati”; viene pertanto delineata “la responsabilità del datore di lavoro pubblico nell’individuare dirigenti in possesso di attitudini e capacità adeguate, prospettando quindi una responsabilità per culpa in eligendo oltre che in vigilando”. Pertanto, la posizione del dirigente quale datore di lavoro comporta una capacità gestionale di natura patrimoniale, poteri effettivi di gestione e l’esercizio di poteri non esauriti in attività riconducibili alla categoria degli obblighi e, quindi, anche a quello della sospensione del servizio, mentre l’organo apicale è sempre responsabile, alternativamente o cumulativamente, ove venga informato delle deficienze e non vi adempia ovvero nel caso in cui siano necessarie impegnative di spesa, non consentite all’organo tecnico o al dirigente del settore.”

La vicenda presa in esame dalla Corte di Cassazione (sez. III penale) nella sentenza n. 29229 del 19.04.2005 12 ha riguardato un incendio scoppiato all’interno di una camera iperbarica che aveva provocato nell’ottobre 1997 la morte di dieci pazienti e di un infermiere in un ospedale di Milano; l’incidente era stato provocato dall’autocombustione di uno scaldamani tenuto da un paziente: erano dunque mancate idonee misure di prevenzione sul controllo dei pazienti, erano state insufficienti le misure di formazione del personale medico e paramedico, non erano state date indicazioni precise sugli oggetti che non potevano entrare nella camera iperbarica ed infine non era stato mantenuto in efficienza l’impianto antincendio. Sul 12 Cfr. nota a sentenza di G. DE SANTIS, Effetti penalistici del “correttivo” (D.Lgs. n. 106/2009) al T.U.S. (D.Lgs. n. 81/2008, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2010, fasc. 3, pag. 703 ss.;

in argomento cfr. anche F. BASENGHI, La ripartizione degli obblighi di sicurezza nel nuovo impianto legale, in Rivista delle Relazioni Industriali, 2008, pag. 428 e ss.


caso la Corte di Cassazione era già intervenuta, confermando in parte la sentenza della Corte d’Appello ed annullandola con rinvio nei confronti di uno dei due amministratori delegati, dando precise osservazioni per il seguito del processo. Nella presente sentenza, si è ritenuta la seconda pronuncia della Corte d’Appello di Milano immune da vizi di legittimità e corretta nella motivazione anche “alla luce della descritta evoluzione legislativa”: entrambi gli amministratori delegati rivestivano infatti la qualità di datore di lavoro ai fini della prevenzione degli infortuni, essendo stati conferiti ad entrambi i poteri di ordinaria amministrazione; e d’altra parte il principio di inderogabilità delle funzioni di garanzia “non si pone affatto in contrasto con il principio di effettività ma, anzi, ne costituisce la concreta applicazione per il riferimento a chi ha i poteri di decidere e di spendere”. E’ interessante rilevare che le modifiche apportate nel frattempo alla legislazione in materia non hanno vanificato tutti gli sforzi interpretativi dei giudici di merito o di legittimità nella concretizzazione dei soggetti responsabili in materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro; anzi, al contrario, in un certo senso hanno seguito il trend già consolidato facendo leva sui requisiti pratici dell’esercizio dei poteri; poteri che ben possono essere ripartiti tra più soggetti, con riferimento alle diverse attività di prevenzione, di informazione e di formazione da svolgersi in concreto. Dunque, nel caso di specie dell’incendio nella camera iperbarica, vengono accertate in concreto sia “la persistenza di un obbligo di sorveglianza e controllo sull’esatto adempimento degli obblighi di sicurezza da parte del co-obbligato” sia la “macroscopicità della violazione dei comuni obblighi relativi alla sicurezza”, precisando pure che “non bisogna confondere la valutazione del rischio dallo specifico documento che lo formalizza”: infatti “il documento di valutazione del rischio fu formalmente redatto da (… omissis …) persona del tutto inadeguata professionalmente e (… omissis …) era macroscopicamente inconsistente proprio per la mancata previsione dello specifico e più grave rischio delle camere iperbariche (cioè l’incendio).” Nel sottolineare la differenza tra lo studio reale dei rischi di una certa attività ed il documento di valutazione dei rischi, che di per sé potrebbe non essere completo o aggiornato o adeguato alla realtà dell’ambiente di lavoro, la Suprema Corte fa un rapido cenno all’esigenza che la persona scelta per la redazione di tale documento, e pertanto prima ancora di essa per lo studio dei rischi da prendere in considerazione nel medesimo documento, abbia preparazione e competenza idonee


sul tema della prevenzione e della sicurezza sul lavoro; potendosi ben ravvedere una certa qual responsabilità anche in capo al soggetto che quella persona ha incaricato. Per tali motivi, entrambi gli amministratori delegati sono stati ritenuti responsabili “per la mancata previsione del rischio (concetto ben distinto dal documento) e l’omessa adozione delle misure tecniche preventive”, osservando che “per la cooperazione colposa non è necessario un preventivo accordo tra i soggetti”.

Molto interessanti risultano le argomentazioni in diritto della sentenza n. 29543 del 17.07.2009 della Corte di Cassazione (sez. III penale), con la quale è stato esaminato il caso di una violazione alle norme di sicurezza ed igiene dell’ambiente di lavoro commessa “in concorso tra loro, nelle rispettive qualità di datori di lavoro” dal commissario straordinario di un’Azienda Sanitaria Locale, dai due direttori generali succedutisi nel tempo e dal responsabile della sicurezza della medesima ASL. Innanzitutto, alla luce di tutte le pronunce fin qui esaminate, non sorprende che la qualifica di datore di lavoro in una pubblica amministrazione venga data a più soggetti simultaneamente, ciascuno tenuto all’osservanza degli obblighi di legge: tutti loro, si legge in questa sentenza, “omettevano di mantenere i locali dell’ufficio protocollo dell’ASL di Palmi ben asciutti e difesi dall’umidità”. Uno dei ricorrenti deduce la non rilevata abolitio criminis ad opera del nuovo D.Lgs. n. 81/2008, ossia ritiene che la nuova normativa in materia di sicurezza sul lavoro abbia abolito il reato a sua volta previsto dal D.P.R. n. 303/1956 e riportato nel capo d’imputazione del processo; ma la Suprema Corte sancisce la continuità normativa tra i due testi di legge con un ineccepibile ragionamento. Ed infatti il D.P.R. del 1956, mentre era in vigore, vietava che fossero adibiti a lavori continuativi i locali chiusi che non rispondessero a determinate condizioni, prima fra tutte quella di essere ben asciutti e difesi dall’umidità; a sua volta il nuovo D.Lgs. n. 81 del 2008 “prescrive all’art. 63, quanto ai requisiti di salute e di sicurezza dei luoghi di lavoro, che questi devono essere conformi ai requisiti dell’allegato IV, prescrizione poi sanzionata dal successivo art. 68. A sua volta l’allegato IV, che regolamenta i requisiti dei luoghi di lavoro, prevede al punto 1.3.1 che (… omissis …) è vietato adibire a lavori continuativi locali chiusi che non rispondono a determinate condizioni, tra cui quella (punto 1.3.1.3) di essere ben asciutti e ben difesi dall’umidità. Quindi c’è piena continuità normativa tra le due prescrizioni suddette.”


In questa pronuncia si legge un altro notevole principio giuridico, ai fini dell’individuazione del soggetto -o dei soggetti- datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni nell’ipotesi di nuove nomine o passaggio di funzioni: “chi subentra come datore di lavoro o come responsabile per la sicurezza è tenuto a verificare al momento dell’assunzione lo status quo e quindi anche eventuali prescrizioni già impartite dall’organo di vigilanza”, come nella fattispecie dell’ASL di Palmi. Ed infine “atteso che il direttore generale della AUSL, essendo collocato al vertice amministrativo e gestionale dell’ente pubblico, è tenuto all’osservanza delle norme di prevenzione e di sicurezza che rientrano nella più ampia nozione di gestione dell’ente (… omissis …) a tal fine per datore di lavoro negli enti pubblici deve intendersi chi in concreto abbia il potere gestionale sui luoghi di lavoro; nel caso di un’Azienda Sanitaria del Servizio Sanitario Nazionale questo potere gestionale, in mancanza di alcuna delega, spetta al direttore generale (sull’accentramento di tutti i poteri di gestione, nonché della rappresentanza, al direttore generale, v. D.Lgs. n. 502/1992 come modificato dal D.Lgs. n. 527/1993).” Dunque, anche in questo caso, la Suprema Corte ha applicato il principio dell’effettività delle funzioni in concreto esercitate, nonché quello della necessità della forma scritta per un’eventuale delega di poteri nelle pubbliche amministrazioni e della fonte legislativa per la previsione dei poteri in capo al direttore generale.

Nella sentenza n. 21519 del 6.05.2010 della Corte di Cassazione (sez. IV penale), è stato giudicato un caso di lesioni riportate da una dipendente di un Dipartimento della ASL inciampata su una mattonella sconnessa nel pavimento del cortile interno di passaggio adiacente all’ambulatorio ove prestava la sua attività lavorativa; la sentenza della Corte d’Appello di Caltanisetta aveva condannato la responsabile di quel Dipartimento per aver “omesso di comunicare al competente servizio tecnico lo stato di sconnessione delle piastrelle” e contro tale pronuncia veniva presentato il ricorso in cassazione perché la suddetta “non poteva essere considerata quale datrice di lavoro della parte offesa né responsabile del rispetto delle norme antinfortunistiche perché priva di delega specifica rilasciata dal direttore generale e rappresentante dell’ASL”. La Suprema Corte ha così l’occasione di chiarire innanzitutto che le norme di legge a suo tempo applicate al caso di specie “sono state abrogate dal D.Lgs. n. 81


del 9.04.2008; ma le violazioni ascritte all’imputata trovano tutte testuale rispondenza nelle previsioni del citato decreto legislativo” il quale ha pure “soppiantato” l’art. 4 del D.P.R. n. 547 del 1955 “laddove definisce il datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. n. 165 del 30.03.2001, art. 1 co. 2”. E ha confermato la pronuncia della Corte d’Appello affermando che “era del tutto inutile una delega espressa circa le funzioni di controllo del rispetto delle norme antinfortunistiche”. Vediamo più in dettaglio il perché di questa affermazione: citando un precedente della medesima sezione (sent. n. 37642 del 27.09.2007), la Suprema Corte ha affermato che “l’amministratore o il legale rappresentante di un ente pubblico o privato non può essere automaticamente, ed in via esclusiva, ritenuto responsabile a causa della carica ricoperta di tutti gli eventi penalmente rilevanti verificatisi nella gestione dell’ente qualora l’attività del medesimo sia stata preventivamente suddivisa in settori ai cui preposti sia stata - come deve ritenersi nel caso di specie - attribuita autonomia organizzativa e di esecuzione almeno sufficienti a prevenire il verificarsi di eventi ricadenti topograficamente nello specifico settore di pertinenza di ciascuno.” Pertanto, l’imputata è stata giustamente ritenuta colpevole: infatti “pur nella rappresentata assenza di mezzi economici, la mancata tempestiva richiesta d’intervento degli uffici competenti (cioè l’ufficio tecnico dell’USL e ciò a prescindere dall’eventuale pregressa segnalazione effettuata da terzi) e l’irrilevanza della nomina a dirigente del dipartimento solo tre mesi prima dell’incidente”, incombeva sulla suddetta responsabile del dipartimento “l’obbligo di prendere cognizione dei luoghi di lavoro del predetto dipartimento per metterlo in sicurezza onde salvaguardare l’incolumità dei suoi dipendenti”. In questa pronuncia, anche alla luce della nuova evoluzione legislativa, viene ribadito quel principio già consolidato della preminenza delle concrete funzioni esercitate e del concreto e di fatto possibile controllo dell’ambiente stesso di lavoro rispetto alla teorica indicazione di un vertice dirigenziale nell’organigramma. E’ opportuno sottolineare anche come, per la Suprema Corte, certi obblighi di garanzia e di prevenzione possano e debbano essere rispettati anche in mancanza di un correlativo potere di spesa: non occorre infatti possedere uno specifico potere di gestione e di spesa per poter osservare pienamente almeno l’obbligo di informare l’organo, cui tale potere compete, affinché possa deliberare ed attuare le misure idonee per eliminare il rischio che non poteva non essere riconosciuto.


Anche la sentenza n. 34804 del 2.07.2010 della Corte di Cassazione tratta delle lesioni gravi subite da una dipendente di un’azienda ospedaliera, in questo caso un’addetta al magazzino scorte, con conseguente indebolimento permanente degli organi di deambulazione, a causa del mancato funzionamento di una delle due barre di arresto del pianale di carico di un autocarro che aveva fatto scivolare giù un carrello in dotazione all’azienda ospedaliera, privo del dispositivo di frenatura, che a sua volta cadendo aveva investito violentemente la dipendente. Per tali lesioni è stata ritenuta colpevole e condannata la dirigente della Struttura Operativa Complessa - Acquisti e Gestione beni e servizi di quell’azienda ospedaliera, per aver messo a disposizione dei dipendenti quel tipo di carrello adibito al trasporto e privo di dispositivi di frenatura, oltre che per altre violazioni alla normativa sulla sicurezza dei lavoratori e sulle misure antinfortunistiche. Il ricorso in cassazione promosso dalla medesima dirigente viene respinto. Nella ricostruzione della dinamica dell’incidente, appare indubbio che esso sia stato provocato dalla “omissione in cui era incorsa l’imputata, nel consentire il pericoloso utilizzo di carrello senza freni, che costituiva un fattore causale autonomo ed ulteriore rispetto al guasto verificatosi alle barre del pianale di carico”. Secondo la Suprema Corte appare corretta anche l’individuazione, nella suddetta dirigente, del soggetto responsabile ed obbligato a garantire il rispetto e l’attuazione della normativa antinfortunistica e qualificato datore di lavoro; si legge: “La giurisprudenza di questa Corte di legittimità ha ripetutamente affermato che nelle strutture pubbliche (come quella ospedaliera in questione) di una certa rilevanza e complessità ricorre una suddivisione dell’attività funzionale in distinti settori, rami, servizi, in ordine a ciascuno dei quali vengono preposti soggetti qualificati ed idonei, dotati della necessaria autonomia e dei poteri indispensabili per la gestione completa degli affari inerenti a quel servizio. Dal che discendono i connessi obblighi in materia antinfortunistica ai sensi del D.Lgs. n. 626/1994”. E citando vari precedenti, ribadisce che “il potere gestionale si deve accompagnare a poteri di decisione e di spesa.” Nel caso di specie, oltre ad aver evidenziato “la posizione apicale attribuita e svolta” da quella dirigente, si fa riferimento all’espressa previsione della “gestione diretta dei servizi erogati con risorse interne”, tra cui il servizio di trasporto interno ed esterno, espressamente contemplato nell’organigramma dell’azienda ospedaliera.


Quindi si dichiara e si conferma che l’imputata “all’epoca dell’incidente, esercitava le funzioni dirigenziali nella struttura Acquisti e Gestione beni e servizi”, e ciò attribuiva sicuramente in capo alla medesima “autonomi poteri gestionali, di decisione e spesa, nell’ambito delle risorse economiche assegnate a tale struttura dalla direzione generale dell’Azienda, nonché poneva a carico della stessa i connessi obblighi iure proprio di attuazione dei precetti antinfortunistici”. Pur partendo dal dato formale dell’organigramma e della carica rivestita dall’imputata, in questa pronuncia si analizzano e si accertano in concreto sia l’effettiva funzione svolta sia i reali poteri di gestione e di spesa per poter prima individuare la figura di datore di lavoro ai fini della normativa in tema di sicurezza sul lavoro e poi affermare la penale responsabilità per le varie omissioni che hanno causato quel grave incidente ai danni della dipendente addetta al magazzino.

La sentenza n. 10327 dell’11.07.2012 della Corte di Cassazione (sez. IV penale) ha riguardato il decesso di un paziente che ricoverato presso un reparto di rianimazione è stato investito dalle fiamme sprigionatesi da un’apparecchiatura gasmedicale posta in prossimità del letto; “l’evento è stato addebitato alle condotte colpose degli imputati nelle rispettive qualità di direttore generale dell’azienda AUSL, di direttore del presidio ospedaliero, di direttore del reparto di rianimazione e di responsabile del servizio prevenzione e protezione; qualità che ponevano gli imputati in posizione di garanzia rispetto alla normativa di sicurezza.” Per maggior precisione, i profili di responsabilità sono stati individuati: “quanto al responsabile del servizio di prevenzione e protezione, nell’avere trascurato e sottovalutato, sia in occasione dell’elaborazione del documento di valutazione dei rischi, sia sotto il profilo dell’informazione personale, la problematica della sicurezza inerente l’utilizzo della strumentazione gas-medicale”; “quanto al primario del reparto di rianimazione e terapia intensiva, nominato preposto e in tale qualità gravato degli obblighi in materia di sicurezza, per aver omesso di impartire al personale medico e paramedico adeguate disposizioni ed istruzioni e di predisporre adeguate misure perché le stesse venissero osservate”; e quanto al direttore generale del presidio ospedaliero, “per aver violato i doveri di informazione e di controllo previsti dalla legge”. Anche in questo caso, tutti i soggetti tenuti per legge ad un determinato comportamento, sono ritenuti responsabili ciascuno per le violazioni commesse.


Ed anche in questo caso la Corte di Cassazione esplicita non solo i criteri per l’individuazione concreta dei vari soggetti, tutti parimenti responsabili seppur per diverse competenze loro attribuite, ma esplicita altresì le singole concrete attività che i vari soggetti avrebbero dovuto porre in essere nell’esatta osservanza della normativa in tema di prevenzione e sicurezza sul lavoro; si pone l’accento sull’esigenza di formare una vera e propria cultura della sicurezza nell’ambiente di lavoro, sulla necessità che i soggetti -che rivestono una posizione così detta di garanzia- abbiano ben in mente e mettano in pratica tutte le attività davvero finalizzate alla prevenzione di tutti i possibili e prevedibili rischi: nessuna omissione, nessuna trascuratezza potrà mai essere scusata o giustificata né in occasione della valutazione dei concreti pericoli di una certa attività o della relativa elaborazione del documento che tali rischi deve regolamentare con tutte le opportune misure antinfortunistiche, né in occasione della formazione ed informazione di tutto il personale che con quei rischi abbia comunque a che fare, né infine in occasione dell’attuazione delle misure prevenzionali e del controllo sulla loro osservanza.

Nella sentenza n. 23944 del 17.04.2013 (sez. IV penale) la Corte di Cassazione si è occupata di un altro incendio, divampato in una struttura residenziale, che ha provocato la morte di 19 pazienti psichiatrici che vi dimoravano, e della conseguente responsabilità penale di vari soggetti: i due direttori sanitari del distretto che si sono avvicendati nel periodo di utilizzo di quella struttura come centro residenziale, il sindaco di quel comune, il tecnico incaricato della verifica delle strutture e degli impianti tecnologici di quel fabbricato, l’assessore del comune giusta delega del sindaco, il funzionario dell’ufficio tecnico del comune e due infermieri. Sulla vicenda la Corte d’Appello di Salerno aveva accertato che i materiali di costruzione e gli arredi non erano ignifughi, che ai pazienti all’interno della struttura era consentito fumare e che era verosimile che l’incendio fosse divampato per colpa di una sigaretta e che comunque, per vari motivi, quella struttura “fosse assolutamente inadeguata, sul piano della sicurezza, ad ospitare pazienti disabili”; anche i Vigili del Fuoco avevano negato alla ASL il certificato di prevenzione incendi “poiché il progetto allegato alla relativa richiesta risultava insoddisfacente”. E’ interessante seguire con attenzione l’intero ragionamento della sentenza nella disamina e nell’esatta individuazione del soggetto da qualificarsi “datore di


lavoro all’interno delle pubbliche amministrazioni e, segnatamente, nell’ambito delle Aziende Unità Sanitarie Locali”: si legge infatti che “per datore di lavoro negli enti pubblici deve intendersi colui che in concreto abbia il potere gestionale sui luoghi di lavoro; che, nel caso di un’Azienda sanitaria del Servizio Sanitario Nazionale, questo potere gestionale, in mancanza di alcuna delega, spetta al direttore generale ai sensi del D.Lgs. n. 502 del 30.12.1992, art. 3, come modificato dal D.Lgs. n. 517 del 7.12.1993, art. 4 lett. D); e che, nel caso in cui anche un funzionario non avente qualifica dirigenziale sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività – e sia dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa, sul predetto funzionario ricadono gli obblighi di prevenzione. Come si vede, secondo il diritto vivente, al fine di selezionare i soggetti gravati dagli obblighi di prevenzione degli infortuni e di sicurezza nei luoghi di lavoro, che fanno capo al datore di lavoro, nel settore degli enti pubblici occorre fare ricorso ad un criterio di effettività, rispetto all’esercizio del potere di gestione. (… omissis …) In chiusura di argomento, deve poi osservarsi che questa Suprema Corte ha da tempo chiarito che in caso di pluralità delle posizioni di garanzia, allorché i titolari delle stesse siano di pari grado -come nel caso di specieciascuno è, per intero, destinatario dell’obbligo giuridico di impedire l’evento e non può fare affidamento sull’eliminazione da parte di altri coobbligati”. Anche qui, l’individuazione dei soggetti responsabili, e prima ancora di quelli da qualificarsi datori di lavoro, si basa su un criterio di effettività già presente nella descrizione normativa: dunque, tutta l’operazione di concretizzazione svolta dai giudici viene ancora una volta confermata corretta dall’evoluzione legislativa. Per quanto riguarda la posizione del Sindaco di quel comune, i giudici di merito hanno “chiarito che non risultava accertata l’esistenza di una valida delega inerente l’esercizio dei poteri di vigilanza e controllo, rilasciata da parte del sindaco (… omissis …) in quanto il decreto sindacale del 10.09.1996 non era mai stato notificato al delegato”; e conseguentemente hanno ritenuto la sua penale responsabilità per “l’omesso esercizio dei poteri di vigilanza sul territorio” e “la mancata adozione di provvedimenti contingibili ed urgenti, a tutela della pubblica e privata incolumità”.


In questo caso, continuano ad avere rilevanza anche le formalità del diritto amministrativo nell’accertamento di una valida delega, che comunque non esonera del tutto il soggetto delegante da un suo dovere di vigilanza sull’attività del delegato. Relativamente alla posizione dell’ingegnere incaricato di effettuare le valutazioni di ordine strutturale sul prefabbricato, i giudici hanno considerato che egli “pur avendo dato atto nella parte descrittiva del proprio elaborato della inadeguatezza dell’impianto antincendio, aveva concluso la propria relazione affermando che, nel complesso, sia la struttura che gli impianti tecnologici erano tali da rendere idonea la struttura medesima all’utilizzo immediato”; e d’altra parte “la verificazione di un evento dannoso, come il devastante incendio occorso, doveva ritenersi certamente prevedibile da parte dell’ingegnere, secondo una valutazione da effettuarsi ex ante, proprio in ragione dei rischi, conosciuti dal professionista, connessi al funzionamento di una struttura della quale lo stesso tecnico aveva verificato le carenze”. Mentre il geometra dell’Ufficio Tecnico Comunale “aveva omesso, con superficialità, di accertare la reale tipologia dei materiali componenti il prefabbricato”, non avendo oltretutto nemmeno “rilevato né lo spessore dei pannelli, né l’assenza di cemento nelle intercapedini, evenienze che emergevano senza necessità di particolari approfondimenti”. E l’assessore da parte sua “aveva rilasciato un certificato ove in sostanza attestava l’agibilità della struttura rispetto all’utilizzo cui era adibita, pur in presenza delle inadeguatezze riportate nel corpo della relazione tecnica redatta dall’ingegnere” rendendo possibile l’esercizio della struttura stessa. Nessuna omissione può essere scusata nemmeno in questa vicenda: tutti i pericoli che potevano essere scientificamente prevedibili ed evitabili, dovevano in ogni caso essere debitamente valutati, ponderati e comunque in pratica rimossi; anche quando la soluzione sia economicamente non conveniente, perché esiste sempre un’alternativa giuridica: il divieto di utilizzo di una tale struttura, se la destinazione d’uso non garantisce la sicurezza dei lavoratori che vi prestano la loro attività o addirittura l’incolumità delle persone che in quella struttura transitino o dimorino. Ed infine, si afferma che “nel caso di specie, la ASL aveva l’effettiva possibilità di controllare il danno come in concreto verificatosi e le cause dello stesso, di talchè non si registravano le condizioni per un esonero di responsabilità dell’azienda ospedaliera, rispetto al corretto adempimento della prestazione ed all’obbligo di protezione del paziente”; infatti viene pure affermato che “nel caso di


una struttura psichiatrica, gli obblighi protettivi comprendono doveri di vigilanza e controllo, anche rispetto ai comportamenti incauti e pericolosi che gli stessi pazienti possono porre in essere, come il fatto di fumare all’interno delle camere o di usare in maniera inappropriata oggetti ed arredi”. Dunque non solo un obbligo di garanzia della sicurezza a fronte delle imprudenze dei lavoratori, ma addirittura un obbligo di protezione della salute delle persone che con i loro stessi comportamenti possono mettere in atto proprio quei pericoli che il datore di lavoro ha il compito di prevenire e di rimuovere, sempre sulla base del principio del preminente diritto alla salute sancito dalla nostra Costituzione. Anche in questo caso, come già nella sentenza n. 37397 del 2007 analizzata sopra, la Corte di Cassazione ha effettuato un’approfondita disamina delle singole responsabilità, pur in presenza della causa estintiva della prescrizione del reato, per far luce sulla fattispecie ai fini dell’accertamento della responsabilità civile.

3.4 Le responsabilità del sindaco quale organo di vertice del comune e degli assessori comunali

La sentenza n. 8585 del 2.06.2000 della Corte di Cassazione ha esaminato il ricorso presentato dall’assessore alla cultura ed allo spettacolo del comune di Milano avverso una sentenza per la quale veniva condannato per la responsabilità attribuitagli per varie violazioni alle norme relative alla prevenzione degli infortuni ed all’igiene sul lavoro “per il solo fatto di ricoprire la carica di assessore”. “Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, la individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e sull’igiene del lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono quindi rispetto alla carica attribuita al soggetto (ossia alla sua funzione formale).” Dunque, anche qui, risulta preminente la funzione concretamente esercitata rispetto alla qualifica ricoperta. Ciò premesso, i precetti della normativa di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994 e sue modifiche ed integrazioni devono “essere coordinati con il principio generale,


non derogato in tema di responsabilità penale per l’applicazione e l’osservanza della normativa di prevenzione degli infortuni e sull’igiene del lavoro, dell’effettività della gestione del potere in considerazione della protezione accordata dalla Costituzione ai fondamentali diritti inerenti alla legislazione antinfortunistica.” Pertanto si ribadisce la necessità che anche i poteri attribuiti, specificatamente indirizzati alla prevenzione degli infortuni ed alla sicurezza del lavoro sulla base della funzione esercitata, vengano in concreto provati in capo al soggetto destinatario degli obblighi di legge. Nel caso di specie la Corte di Cassazione, dopo aver ribadito “il principio fondamentale in materia di delega di funzioni”13, dopo aver distinto “fra difetti strutturali e deficienze inerenti all’ordinario funzionamento delle strutture stesse, ulteriormente suddividendosi in questo caso fra quelle di carattere occasionale e permanenti, giacchè in detta ultima ipotesi si richiede la comunicazione espressa o comunque la conoscenza delle stesse da parte degli organi di vertice”, e dopo aver criticato la precedente sentenza della medesima sezione III (del 14 febbraio 2000) per aver ampliato il campo della responsabilità del dirigente, restringendo quella dell’organo politico senza correlare tale assunto “con il rapporto di subordinazione esistente tra il dirigente e l’organo politico”, ha concluso affermando che “al fine di accertare la responsabilità occorre conoscere la ripartizione interna ed istituzionale delle specifiche competenze, tanto più necessaria ove si tratti di una metropoli, certamente dotata di vari regolamenti di servizio, facilmente reperibili (… omissis …). Tale impostazione, per quel che concerne gli enti locali dotati nel loro organico di figure dirigenziali, è in sostanza conforme alla circolare 17 dicembre 1996 n. 3 del Ministero degli Interni in G.U. n. 21 del 1997, in cui si evidenzia come bisogna legare indissolubilmente l’esercizio dei poteri gestionali, affidati ai dirigenti, all’attribuzione di autonomi poteri di spesa senza i quali non può esserci alcun esercizio di facoltà gestionali e si insiste sulla responsabilità del datore di lavoro pubblico nell’individuare dirigenti in possesso di attitudini e capacità adeguate”. E qui si può notare subito un collegamento con la sentenza n. 39268 del 2004, successiva a questa di qualche anno, che ne riprende i vari enunciati. 13 Cfr. in argomento F. FOCARETA, Delega di funzioni e responsabilità penali in materia di sicurezza sul lavoro, in Quaderni di Diritto del Lavoro, 1993, pag. 117 ss., nonchè P. PASCUCCI, Delega di funzioni su doppio binario. Cambia la responsabilità dei vertici, in Guida al Diritto, Speciale Sicurezza lavoro, settembre 2009, pag. 24 e ss. e Sicurezza sul lavoro e delega di funzioni prevenzionistiche alla luce del D.Lgs. n. 626/1994, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, fasc. 3, 2003, pag. 359 ss.


Dunque, all’interno di una pubblica amministrazione, appare legittimo pretendere che i vertici individuino i dirigenti e/o i funzionari, che avranno poi la responsabilità in materia di prevenzione e sicurezza, sulla base di oggettivi requisiti attitudinali, che presuppongo anche una preparazione non superficiale nella materia stessa, e di effettiva capacità; senza con ciò esimere l’organo di vertice da una successiva attività di controllo sull’operato del dirigente, come vedremo in seguito. In questo caso, l’assessore è stato ritenuto esente da responsabilità: “invero l’occlusione delle bocchette di

ripresa dell’aria esterna dell’impianto

di

condizionamento per la presenza di materiale di arredamento depositato doveva essere eliminata con un’attenta vigilanza e con opportune disposizioni da parte del responsabile del centro e non certo dall’assessore, che non poteva giornalmente o periodicamente visitare tutte le scuole di Milano (… omissis …) e non rientra certamente tra i compiti di un assessore di una metropoli occuparsi della verifica semestrale degli estintori”. La conclusione, in questo caso, discende proprio da quella iniziale distinzione tra le attività di verifica sulle strutture e sulle eventuali deficienze strutturali e quelle invece che ineriscono all’ordinaria amministrazione degli ambienti di lavoro, degli uffici o -come in questo caso- delle scuole; ordinaria amministrazione che non può ricadere in capo all’organo di vertice politico e, fors’anche, neppure in capo al dirigente che non abbia in concreto esercitato le sue facoltà ed i suoi poteri all’interno di quel singolo ambiente ove le carenze siano state riscontrate.

Molto interessante risulta anche la sentenza n. 6804 dell’11.01.2002 della Corte di Cassazione14 sulla “responsabilità del datore di lavoro pubblico ed in particolare del pubblico amministratore”, ossia sulla figura del sindaco di un comune, sempre in linea con i precedenti giurisprudenziali: premettendo anche qui che “la individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e sull’igiene del lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono quindi rispetto alla carica attribuita al soggetto (ossia alla sua funzione formale)”, si dichiara che “sotto il profilo normativo assume particolare rilevanza la nozione fornita dal D.Lgs.

14 Cfr. la nota a sentenza di A. POLIMENI, La nozione di datore di lavoro nella pubblica amministrazione ai fini della sicurezza e della prevenzione degli infortuni nel D.Lgs. n. 626/1994, in Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, fasc. 1, 2003, pag. 76 ss.


n. 626/1994, modificato dal D.Lgs. n. 242/1996, di datore di lavoro pubblico in relazione agli artt. 1 e 3 del D.Lgs. n. 29/1993, il quale ultimo ha ribadito la distinzione fra attività politica di indirizzo e di controllo, spettante agli organi elettivi, e quella amministrativa di gestione, di pertinenza dei dirigenti. Tuttavia, secondo la prevalente se non costante giurisprudenza di questa Corte, si è affermato che l’introduzione delle norme richiamate non comportasse l’esclusione di ogni responsabilità dell’organo elettivo, giacchè questi precetti dovevano essere coordinati con il principio generale, non derogato in tema di responsabilità penale per l’applicazione e l’osservanza della normativa di prevenzione degli infortuni e sull’igiene del lavoro, dell’effettività della gestione del potere in considerazione della protezione accordata dalla Costituzione ai fondamentali diritti inerenti alla legislazione antinfortunistica”. E’ interessante la posizione della Corte di Cassazione a fronte del nuovo D.Lgs. n. 242/1996 che ha innovato la normativa proprio con la nuova definizione del datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, recependo un’esigenza pratica già segnalata molte volte dai giudici ed ormai improcrastinabile; ma si evidenzia come giuridicamente sussistano ancora più soggetti contemporaneamente responsabili, o meglio si sottolinea come la nuova normativa -che specifica la figura del datore di lavoro nella pubblica amministrazione- non esoneri comunque né i vertici né gli organi politici elettivi dal loro dovere di predisporre idonei programmi generali di prevenzione e protezione dei diritti costituzionalmente garantiti e di mantenere un effettivo controllo sulla realizzazione pratica di tali programmi. Ma non solo: “Infatti, se il datore di lavoro pubblico viene individuato nel dirigente al quale spettano i poteri di gestione ovvero nel funzionario non avente qualifica dirigenziale nel solo caso in cui costui sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, l’art. 4 dodicesimo comma del decreto legislativo da ultimo citato (D.Lgs. n. 626/1994) precisa che gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare (… omissis …) la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni (… omissis …) ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative (… omissis …) restano a carico dell’amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura o manutenzione, e precisando che gli obblighi previsti (… omissis …) relativamente ai predetti interventi si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli


uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all’amministrazione competente o al soggetto che ne ha l’obbligo giuridico.” Dopo aver a sua volta distinto “fra difetti strutturali e deficienze inerenti all’ordinario buon funzionamento delle strutture stesse”, la Suprema Corte conclude che “tale impostazione, per quel che concerne gli enti locali dotati nel loro organico di figure dirigenziali, è in sostanza conforme alla circolare 17 dicembre 1996 n. 3 del Ministero degli Interni”, come aveva già affermato nella sentenza n. 8585 del 2000. Ed anche in questo caso insiste “sulla responsabilità del datore di lavoro pubblico nell’individuare dirigenti in possesso di attitudini e capacità adeguate, prospettando quindi una responsabilità per culpa in eligendo oltre che in vigilando”: si vuole evidenziare la necessità che nell’attribuzione delle cariche dirigenziali, in materia di sicurezza dell’ambiente di lavoro e di prevenzione antinfortunistica, non si possa seguire una sterile logica politica di assegnazione delle poltrone, ma si debbano scegliere le persone che dovranno ottemperare agli obblighi di legge sulla base delle loro reali competenze in tale specifica materia. E la Suprema Corte ribadisce ciò rimarcando la responsabilità giuridica dell’organo politico “in eligendo”, ossia nella delicata operazione di designazione.

Con la sentenza n. 38840 del 22.06.2005 della Corte di Cassazione (sezione IV penale) si torna ad esaminare la figura di un sindaco15, unico imputato che ha presentato ricorso in cassazione avverso la sentenza di condanna per le lesioni colpose gravi riportate da un dipendente caduto da una scala aerea, utilizzata con un’inclinazione superiore a quella consentita e non adeguatamente bloccata. Anche in questa pronuncia la Suprema Corte si sofferma ad esaminare la normativa vigente che individua nel datore di lavoro il destinatario principale degli obblighi stabiliti per la protezione della salute e della sicurezza nell’ambiente di lavoro: la concezione formale, risalente alle leggi italiane degli anni Cinquanta, “è stata sostanzialmente conservata anche nella prima versione dell’art. 2 del D.Lgs. n. 626/1994 (in attuazione di varie direttive CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro)” ricollegando la qualifica di

15 Cfr. nota a sentenza di M. Formica, La condanna di un sindaco tra inadempienza

formativa del datore di lavoro “pubblico” e colpa “strutturale” del vertice politico, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 2009, pag. 974 e ss


datore di lavoro alla titolarità formale del rapporto di lavoro. Successivamente all’entrata in vigore dell’art. 2 del D.Lgs. n. 242/1996 “con questa significativa modifica legislativa, come è stato affermato in dottrina, all’iniziale criterio dell’imputazione, di natura prevalentemente giuridico formale, basato sul binomio titolarità del rapporto di lavoro-responsabilità dell’impresa, se ne è sostituito un altro, di carattere più sostanziale, che fa leva soprattutto sull’effettività dei poteri decisionali e di spesa attribuiti al soggetto investito della responsabilità della gestione dell’impresa o di una sua autonoma unità produttiva. (… omissis …) La dottrina ne ha tratto la conseguenza, peraltro obbligata in base all’assetto normativo sinteticamente accennato- della possibilità di coesistenza, all’interno della medesima impresa, di più figure aventi la qualità di datore di lavoro ai sensi del D.Lgs. n. 626/1994.” 16 Fatta questa importante premessa, la Suprema Corte ha poi affermato che “i principi che fondano la prevenzione antinfortunistica per le imprese private sono stati per la prima volta estesi, con alcuni adattamenti, anche alle pubbliche amministrazioni” e -passando all’esame del testo dell’art. 2 lettera b) di tale decreto legislativo, così come modificato dal D.Lgs. n. 242/1996- “poiché la legge non individua il dirigente (o il funzionario) cui attribuire la qualifica di datore di lavoro, sembra evidente che questo compito debba essere adempiuto dalla pubblica amministrazione con l’attribuzione della detta qualità e il conferimento dei relativi poteri di autonomia gestionale”. Da ciò ne consegue anche il seguente principio giuridico: “non può ritenersi che la qualità di datore di lavoro possa essere attribuita implicitamente ad un dirigente o funzionario, solo perché preposti ad articolazioni della pubblica amministrazione che hanno competenze nel settore specifico. L’attribuzione della qualità di datore di lavoro non può che essere espressa anche perché comporta i poteri di gestione in tema di sicurezza”. Nel caso di specie si è posto il problema “di chi debba considerarsi datore di lavoro prima che venga individuata questa figura dagli organi comunali competenti” secondo quanto disposto dall’art. 30 co. 1 del D.Lgs. 242/1996 che stabiliva il termine perentorio di 60 giorni dalla sua entrata in vigore affinché gli

16 Cfr. in argomento anche A. TAMPIERI, Tra regolamento interno e modello organizzativo, in Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, 2011, fasc. 6, pag. 885 e ss.


organi di direzione politica o di vertice procedessero all’indicazione dei soggetti responsabili ai fini della prevenzione e sicurezza sul luogo di lavoro. La Corte di Cassazione precisa che “la conseguenza di questa mancata indicazione non può che essere -a meno di ritenere che per un indefinito periodo di tempo si crei una sorta di immunità derivante da una scelta omissiva consapevole dell’obbligato- che è l’organo di direzione politica a conservare la qualità di datore di lavoro (… omissis …) Non si tratta dell’attribuzione di una responsabilità impropria ad un soggetto con competenze di natura diversa perché agli organi di direzione politica (sindaco e giunta comunale) sono attribuiti originariamente anche i poteri di sovrintendere alle scelte di gestione e direzione amministrativa con il conferimento di tutti i poteri conseguenti. D’altra canto la circostanza che l’individuazione del datore di lavoro competa all’organo di direzione politica conferma che si tratta di un potere che spetta originariamente a questo organo non diversamente, del resto, da quanto avviene per i soggetti privati”. “Il principio che si trae da questa normativa è chiaro: agli organi elettivi o di direzione politica spettano i poteri di indirizzo, definizione dei programmi e degli obiettivi che l’ente pubblico deve attuare (… omissis …) Non v’è dubbio che, una volta che gli organi di direzione politica abbiano adempiuto ai compiti programmatici loro affidati, il dirigente sia responsabile dell’azione od omissione nell’espletamento delle sue funzioni di attuazione del programma. (… omissis …) Nel nostro caso ci troviamo però in presenza dell’inadempimento di un obbligo direttamente gravante, per espressa disposizione di legge, sull’organo di direzione politica; quindi non si pone neppure il problema della ripartizione di competenze tra organo di direzione politica e organo di gestione amministrativa in assenza della designazione che incombeva sul primo. E ben può ritenersi inquadrabile nelle carenze strutturali la mancata designazione della persona su cui incombono i doveri primari di prevenzione.” Dunque anche in questa sentenza è stata dichiarata la permanenza di una posizione di garanzia e di responsabilità personale in capo ai vertici o agli organi politici di un ente, facendola discendere direttamente dalla disposizione legislativa che individua in essi i soggetti cui spetta designare espressamente le figure dirigenziali cui competerà la qualifica di datori di lavoro in quella amministrazione.


Nella sentenza n. 21010 del 27.09.2006 della Corte di Cassazione17 va invece esente da responsabilità in materia di prevenzione e sicurezza nell’ambiente di lavoro l’assessore ai lavori pubblici del comune di Alessandria, condannato per aver “tollerato che il servizio di refezione scolastica presso alcune scuole materne ed elementari venisse effettuato ancorché i locali a ciò adibiti presentassero marcate carenze igienico-strutturali”. La Corte di Cassazione ribadisce, come “ha avuto modo si affermare ripetutamente, difatti, che per quanto riguarda gli enti territoriali, ed in particolare i comuni, le responsabilità penali -ma l’asserto vale allo stesso modo per quelle di ordine sanzionatorio amministrativo (come nel caso concreto)- connesse alla violazione delle norme che l’ente è tenuto ad osservare nello svolgimento della sua attività, restano ripartite tra gli organi elettivi e quelli burocratici in correlazione alle rispettive attribuzioni, desumibili dalla disciplina di settore” e dunque “la concreta gestione amministrativa -attuata mediante l’organizzazione delle risorse umane, finanziarie e materiali in vista del conseguimento delle finalità e degli obiettivi indicati dagli organi di direzione politica- rimane riservata, con connotati di autonomia e di piena assunzione di responsabilità, all’apparato burocratico, che vede al suo vertice le figure dirigenziali”. “L’assetto organizzativo dianzi accennato ha, come diretta conseguenza, che non si possa automaticamente ed acriticamente imputare agli organi politici (in specie, sindaco e assessori) di un comune, ancorché di modeste dimensioni, qualsiasi violazione di norme, sanzionata penalmente o in via amministrativa, verificatasi nell’ambito dell’ente territoriale, allorché sussista una apposita articolazione burocratica preposta allo svolgimento dell’attività medesima, con relativo dirigente dotato di autonomia decisionale e di spesa. Una responsabilità dell’organo politico di vertice è di contro configurabile, in simile situazione, solo in presenza di specifiche condizioni, correlate alle attribuzioni proprie di tale organo e, cioè, quando si sia al cospetto di violazioni derivanti da carenze di ordine strutturale, riconducibili all’esercizio dei poteri di indirizzo e programmazione; ovvero quando l’organo politico sia stato specificamente sollecitato ad intervenire; ovvero ancora quando sia stato a conoscenza della situazione antigiuridica derivante dalle inadempienze 17 Cfr. nota a sentenza di M.P. GENESIN, La responsabilità amministrativa del

sindaco per comportamento omissivo alla luce del principio di distinzione politicaamministrazione, in Rivista di Responsabilità Civile e Previdenza, 2011, fasc. 3, pag. 687 e ss.


dell’apparato competente e abbia ciò nondimeno omesso di attivarsi, con i suoi autonomi poteri, per porvi rimedio.” E nel caso di specie gli interventi sulle strutture, la cui omissione era stata addebitata all’assessore, consistevano in “modeste opere di manutenzione interna dei locali scolastici, certamente non riconducibili al novero delle carenze strutturali”.

Anche nella sentenza n. 22843 del 19.04.2007 della Corte di Cassazione si ripete il suddetto principio di suddivisione di compiti e di responsabilità nell’ambito dell’ente comunale e si ribadisce per l’ennesima volta che “una responsabilità penale del sindaco può configurarsi o per la mancata predisposizione delle relative risorse, essendo quello della sicurezza un’esigenza prioritaria, ovvero qualora risulti che fosse a conoscenza della situazione antigiuridica ed abbia omesso di provvedere senza giustificazione” e pertanto mai potrà essere condannato un sindaco “solo per la sua qualità di legale rappresentante del comune, come se tra i compiti del sindaco rientrasse anche quello di controllare periodicamente la rubinetteria dei servizi igienici, lo stato di conservazione dell’intonaco o quello dell’impianto elettrico degli edifici scolastici nonostante la presenza di un direttore didattico che, essendo quotidianamente a contatto con l’edificio, ha l’obbligo di segnalare eventuali inconvenienti ove non possa provvedere direttamente”. In questo caso, oltre al principio giuridico -più volte menzionato dalla Suprema Corte e già esaminato nelle precedenti sentenze passate in rassegna- della prevalenza delle concrete ed effettive funzioni esercitate rispetto alla carica formale rivestita, il sindaco non poteva nemmeno essere qualificato datore di lavoro, nonostante vertice e rappresentante legale dell’ente comunale, in quanto ai fini dell’applicazione e dell’esecuzione della normativa in materia di sicurezza del lavoro “la manutenzione degli edifici pubblici rientrava nei compiti attribuiti al dirigente del settore” nominato ed individuato nella persona di un ingegnere di quel comune.

Nella sentenza n. 15206 del 22.03.2012 (sez. III penale) della Corte di Cassazione invece è stata ritenuta la responsabilità del Sindaco “per non avere nominato il responsabile del servizio di prevenzione né il medico competente per la sorveglianza sanitaria e per non aver designato i lavoratori addetti al primo soccorso”.


“La definizione di datore di lavoro contenuta nel D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, ha dato esclusivo rilievo, ai fini dell’individuazione dei soggetti titolari del debito di sicurezza, al requisito della organizzazione della attività, unito ovviamente all’esercizio dei poteri decisionali e di spesa inerenti la stessa” e a differenza del D.Lgs.

n.

626

del

1994

“recepisce,

esplicitandolo,

lo

stabile indirizzo

giurisprudenziale secondo il quale è l’organo di vertice delle singole amministrazioni, ovverosia l’organo di direzione politica, a dovere individuare il dirigente, o il funzionario non dirigente, cui attribuire la qualità di datore di lavoro.”

Anche nella sentenza n. 37519 del 14.05.2013 (sez. III penale) la Corte di Cassazione ha trattato della medesima violazione di un Sindaco, che “ometteva di nominare il responsabile del servizio di prevenzione e protezione”, ed in questo caso si è precisato che “la rilevanza penale del comportamento omissivo non è connessa alla qualità di datore di lavoro, bensì alla posizione di garanzia in materia prevenzionale

comunque

rivestita

dal

sindaco

quale

organo

di

vertice

dell’amministrazione comunale”. Non è necessario alcun ulteriore commento.

3.5 La figura datoriale nelle pubbliche amministrazioni: i dirigenti

Sempre a proposito dell’individuazione della persona fisica che all’interno di una pubblica amministrazione può essere chiamata a rispondere18 per eventuali omissioni o violazioni degli obblighi in materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro, la sentenza n. 19634 del 4.03.2003 della Corte di Cassazione annulla la sentenza di condanna di un dirigente del Servizio Strade e Viabilità di una provincia, ritenuto responsabile per non aver dotato di scarpe adatte i lavoratori esposti per le loro mansioni al rischio di schiacciamento dei piedi, e per non averli informati dei pericoli connessi all’esecuzione di operazioni di scarico, nonostante fosse stata prodotta agli

18 Cfr. in argomento A. RICCARDI, Legislazione prevenzionale e polimorfismo della figura datoriale nelle pubbliche amministrazioni, in Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, 2010, fasc. 2, pag. 345 e ss.


atti del processo una nota scritta con cui il medesimo dirigente “aveva chiesto al dirigente del servizio finanziario della provincia di inserire il materiale antiinfortunistico nell’oggetto della gara d’appalto per l’acquisto del vestiario da destinare agli agenti provinciali stradali”. Nella motivazione della sentenza si richiama innanzitutto “la circolare n. 396 del 17.12.1996 del Ministero dell’Interno, con la quale è stato precisato che spetta al singolo ente locale individuare il dipendente cui ricollegare, in relazione alle specifiche professionalità possedute, le responsabilità connesse al procedimento in materia di sicurezza del lavoro, nonché l’affidamento della dotazione finanziaria autonoma”, per argomentare come nelle pubbliche amministrazioni “la qualifica di datore di lavoro può essere attribuita esclusivamente ai dirigenti, ai quali siano attribuiti poteri di gestione, dovendosi intendere con tale termine, in analogia con quanto previsto dalla disposizione citata per il settore privato, la esistenza di autonomi poteri decisionali anche in materia di spesa”. La figura del datore di lavoro nella pubblica amministrazione appare pertanto “imprescindibilmente legata all’attribuzione di autonomi poteri di spesa, in assenza dei quali viene meno la responsabilità diretta del funzionario”. E così nessun addebito poteva essere formulato nei confronti di quel dirigente della provincia, privo di un potere di spesa, “in quanto non era stato dotato dei mezzi finanziari necessari per provvedere, tra l’altro, direttamente all’acquisto del materiale anti-infortunistico, di talchè lo stesso non può essere ritenuto responsabile dei comportamenti omissivi di cui al capo d’imputazione, che hanno natura di reati propri in relazione alla specifica qualità di datore di lavoro, qualità che nella specie non sussiste”. Si specifica dunque un ulteriore requisito per l’individuazione del datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, che compare sì nella circolare ministeriale menzionata, ma non nella disposizione di legge che ne contiene la definizione; oltre all’esigenza di guardare all’effettiva funzione esercitata e non solo alla formale carica rivestita, è necessario verificare che il soggetto identificato e qualificato datore di lavoro abbia non solo poteri sulla gestione delle risorse umane, ma anche un potere autonomo ed effettivo sulle risorse economiche, per provvedere all’acquisto degli strumenti e dei presidi di protezione per i lavoratori, senza i quali non sarebbe possibile prevenire gli infortuni ed i rischi sul lavoro.


La sentenza n. 23729 del 19.04.2005 della Corte di Cassazione (sez. IV penale) ha riguardato la morte di un operaio in servizio presso la Sovrintendenza per i beni artistici e storici di Napoli, a seguito della sua caduta dal ballatoio, privo di idonea protezione, mentre eseguiva dei lavori di installazione di una porta. In questa pronuncia la Corte ha avuto modo di ribadire innanzitutto il “consolidato principio giuridico secondo il quale l’attuazione delle norme antinfortunistiche riguarda ogni luogo in cui i lavoratori possono transitare in relazione alle varie incombenze inerenti l’attività che si svolge nel cantiere”, precisando che il “responsabile della sicurezza del lavoro deve avere sensibilità tale da rendersi interprete, in via di prevedibilità, del comportamento altrui” ed osservando altresì che “la normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l’incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalle sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle istruzioni ricevute, purchè connesse allo svolgimento dell’attività lavorativa”. E’ interessante questo passaggio, perché ribadisce l’importanza della normativa di prevenzione e sicurezza sul lavoro non solo nel suo aspetto più tecnico di studio ed analisi dei rischi dell’attività svolta dai lavoratori, ma anche nel suo aspetto di formazione verso una cultura della sicurezza, in un momento in cui vi è la piena consapevolezza che al soggetto datore di lavoro, e dunque obbligato a rispettare e far rispettare le norme antinfortunistiche, compete pure un obbligo secondario di vigilanza non solo sul rispetto delle misure adottate per la prevenzione degli infortuni, ma anche sulle imprudenze e sulle eventuali disubbidienze dei lavoratori stessi. Trattando poi del potere di delega in materia di sicurezza del lavoro19 in capo al sovrintendente, la Corte ha affermato che “nel caso di specie, mancavano le condizioni richieste dalla giurisprudenza consolidata del Supremo Collegio per la validità ed efficacia del subentro, per mezzo di delega espressa, del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al datore di lavoro, e precisamente: l’effettiva attribuzione dei poteri di decisione e di intervento, anche di spesa, necessari per esercitare mansioni delegate; l’idoneità tecnico-professionale del delegato; la prova

19 Cfr. in argomento C. BRUSCO, La delega di funzioni alla luce del D.Lgs. n. 81 del 2008 sulla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, in Giurisprudenza di Merito, fasc. 11, 2008, pag. 2767 e ss.


dell’accettazione della delega; l’assenza di concreta ingerenza del delegante nelle mansioni delegate, fermo restando l’obbligo del delegante di vigilare e controllare che il delegato usi concretamente la delega in ossequio alla normativa vigente”. Anche qui un duplice compito per i giudici: l’analisi e la valutazione sull’esistenza di una valida delega formale, ma allo stesso l’analisi e la valutazione del residuo obbligo in capo al delegante di vigilare sull’attività del delegato. Dunque, ciò premesso, la Corte ha dichiarato come sia “del tutto indifferente che l’imputato non abbia avuto conoscenza di quali lavori fossero eseguiti in detto Museo, posto che egli era comunque pienamente consapevole di avere omesso la predisposizione di una pianificazione degli interventi in materia di sicurezza e prevenzione degli infortuni sul lavoro e, quindi, era ben in grado di valutare i rischi che tale violazione dei doveri di diligenza, normativamente impostogli, poteva comportare a danno dell’incolumità personale dei lavoratori”. Viene chiaramente affermato perciò che “gli ordini di servizio, anche sotto la nuova etichetta di atti organizzativi, mantengono intatto il loro intrinseco contenuto e da esso è agevole rilevare che si limitano ad un generico richiamo di responsabilità, senza alcuna diretta attribuzione di compiti finalizzati a garantire la sicurezza dei lavoratori, approdando alla fine alla medesima conclusione, quella cioè che essi non realizzano un valido sistema di garanzia al fine di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in quanto volti a trasferire a terzi in modo illegittimo gli obblighi che in materia di sicurezza incombono per legge sul datore di lavoro.” E’ interessante sottolineare anche come la Suprema Corte abbia confermato l’argomentazione del giudice d’appello riguardo la valutazione e l’attribuzione del ruolo di preposto in capo all’imputato, avendolo ancorato “all’accertamento in fatto sia delle mansioni effettivamente espletate all’interno dell’amministrazione facente capo alla Sovrintendenza, sia delle circostanze emblematiche dell’attività di ingerenza nel modulare le fasi di esecuzione dell’opera” sulla base del principio secondo cui “la qualifica e la responsabilità del preposto non competono soltanto ai soggetti forniti di titoli professionali o di formali investiture, ma a chiunque si trovi in una posizione tale da porlo in condizione di dirigere l’attività di altri operai, soggetti ai suoi ordini.” Dunque, sempre con l’occhio rivolto verso la realtà effettiva, ancora una volta si ripete che la responsabilità non scaturisce da formali investiture, ma dai poteri e dalle funzioni in concreto esercitate.


La sentenza n. 47249 del 30.11.2005 della Corte di Cassazione tratta invece della responsabilità del dirigente comunale, cui spettava la gestione di un cantiere scuola, per aver omesso di richiedere l’osservanza da parte del medico competente del suo obbligo di sorveglianza sanitaria preassuntiva: tale dirigente, imputato, ha presentato ricorso in cassazione contro la sentenza di sua condanna adducendo che il contratto di convenzione, con il quale era stata affidata la sorveglianza sanitaria a due medici, era stato stipulato in realtà dal sindaco di quel comune e non era stato portato a sua conoscenza. Premettendo che correttamente quel dirigente è stato considerato nella fattispecie come datore di lavoro, avendo egli sia poteri di gestione sia autonomi poteri decisionali in materia di spesa, la Corte di Cassazione sancisce che giustamente è stato ritenuto, in tale sua qualità, obbligato ad adottare tutte le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori ed a richiedere l’osservanza da parte del medico competente degli obblighi previsti dalla legge, affermando che “quale soggetto titolare dell’obbligo in questione, infatti, l’imputato aveva il dovere di attivarsi personalmente per richiedere ai medici convenzionati - da chiunque fosse stata stipulata la convenzione con essi - di effettuare la sorveglianza sanitaria preassuntiva dei lavoratori a rischio di cui all’art. 55 del medesimo D.Lgs. n. 626/1994, e nel caso in cui tale convenzione non fosse stata stipulata o non ne avesse davvero avuto conoscenza, avrebbe avuto comunque il dovere di provvedere direttamente ad assumere i medici a cui affidare la sorveglianza sanitaria imposta dal decreto in esame.” In presenza dunque di un pieno ed autonomo corredo di poteri per svolgere la sua funzione, il dirigente che si qualifica datore di lavoro nella pubblica amministrazione non può esonerarsi da alcun obbligo di legge adducendo o l’ignoranza degli atti compiuti dall’organo di vertice o ancor meno l’inerzia, nella convinzione colpevole ed inescusabile che non spettassero a lui determinate attività.

La sentenza n. 20047 del 1°.04.2010 della Corte di Cassazione (sez. IV penale)20 tratta dell’esposizione alle polveri di amianto durante l’attività lavorativa e

20 Nota a sentenza di V. DELL’OSSO, in Rivista Italiana di Medicina Legale, 2011, pag. 829


del conseguente decesso di un dipendente pubblico di un’azienda municipalizzata, in un discutibile caso giudicato dalla Corte d’Appello di Firenze21. Accertate le numerose e gravi violazioni alle norme di protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori, sia riguardo l’obbligo di informativa dei pericoli e rischi dell’attività da svolgere sia riguardo l’obbligo di fornire adeguati presidi o strumenti di protezione e di controllare sull’effettivo loro utilizzo da parte dei lavoratori nonché di adottare tutti i provvedimenti tecnici organizzativi e procedurali necessari per contenere o limitare l’esposizione ad amianto, ed individuati correttamente i vari soggetti responsabili nei direttori e nei quadri dirigenti dell’azienda municipalizzata nell’arco dei vari periodi di tempo, quali “in prima battuta destinatari di tutte le norme di protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori in azienda”, in realtà è stato qui esaminato e valutato con grande attenzione e precisione l’elemento soggettivo del reato ascritto: la sentenza della Corte d’Appello, infatti, pur non dubitando “della riconducibilità del decesso ad esposizione professionale ad amianto”, ha assolto tutti gli imputati per asserita mancanza di colpa, con la formula perché il fatto non costituisce reato. La Suprema Corte ritiene non condivisibile questa decisione, alla luce di varie e pregnanti argomentazioni giuridiche, premesso che “chiunque avesse a cuore la sorte dei propri dipendenti non doveva solo sapere della pericolosità dell’amianto, ma doveva assumere le necessarie decisioni, a partire dalla valutazione del rischio”. Accertata senza ombra di dubbio la violazione delle “regole cautelari che avrebbero imposto l’adozione di misure di prevenzione atte ad escludere l’esposizione all’amianto (o a ridurla in modo consistente)”, la Corte di Cassazione riflette che “occorre domandarsi quale criterio è necessario adottare per valutare se l’agente, nel caso di colpa generica, si sia attenuto alle richieste regole di diligenza, prudenza e perizia

(… omissis …) E’ necessario individuare criteri di misura

oggettivi”. Ragionando sulla portata degli obblighi di legge in tema di protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori, e soprattutto sull’esigibilità di determinati comportamenti al fine di ritenere la sussistenza della colpa in caso di omissioni,

21 Cfr. in argomento R. BARTOLI, Causalità e colpa nella responsabilità penale per esposizione dei lavoratori ad amianto, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 2011, fasc. 2, pag. 597 ss.


arriva alla conclusione che “se un soggetto intraprende un’attività, tanto più se è pericolosa, ha l’obbligo di acquisire le conoscenze necessarie per svolgerla senza porre in pericolo (o in modo da limitare il pericolo nei limiti del possibile nel caso di attività pericolose consentite) i beni dei terzi. (… omissis …) Il parametro di riferimento non è quindi ciò che forma oggetto di una ristretta cerchia di specialisti o di ricerche eseguite in laboratori d’avanguardia, ma per converso neppure ciò che usualmente viene fatto, bensì ciò che dovrebbe essere fatto”. Quindi, se da un lato non si può pretendere che il datore di lavoro abbia un bagaglio di conoscenze da scienziato di laboratorio d’avanguardia, dall’altro neppure si può ammettere la banale ignoranza delle conoscenze scientifiche come sua scusante: il datore di lavoro ha l’obbligo di valutare attentamente tutti i rischi dell’attività lavorativa, anche avvalendosi di esperti ed attivandosi per intraprendere tutte le iniziative idonee per ridurli e tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, informandoli dei pericoli e dettando istruzioni e fornendo loro strumenti di protezione e controllando sul loro effettivo utilizzo. Si puntualizza pertanto la necessità che i soggetti responsabili quali datori di lavoro abbiano conoscenze o competenze adeguate per espletare la loro funzione: “agente modello è colui che adegua la propria condotta alle conoscenze disponibili nella comunità scientifica e che, se non dispone di queste conoscenze, adempie l’obbligo di acquisirle o di utilizzare le conoscenze di chi ne dispone o, al limite, di segnalare la propria incapacità di svolgere adeguatamente la propria funzione”. Continua la Suprema Corte affermando che di certo “non può addurre la propria ignoranza per escludere la responsabilità dell’evento dannoso”; infine, in materia, ricorda che il D.Lgs. n. 81/2008 all’art. 304 ha recentemente abrogato la precedente normativa in tema di amianto, sostituendosi ad essa con la disciplina dettata dall’art. 246 all’art. 261 del proprio testo legislativo.

La sentenza n. 35204 del 12.05.2011 (sez. IV penale) si è invece occupata di un funzionario di un Comune al quale “era stata affidata, con provvedimento sindacale del 9.03.1993, la responsabilità anche del servizio di nettezza urbana; incarico preceduto dalla delibera del 29.10.1993 della Giunta Municipale che lo aveva indicato come datore di lavoro e responsabile del procedimento, previa apposita attestazione della relativa copertura finanziaria, autonomia gestionale in


relazione all’applicazione della normativa in tema di sicurezza del lavoro”; il capo di imputazione gli ascriveva varie omissioni “per non aver vigilato sull’uso delle cinture e dei caschi di sicurezza e per aver destinato alle mansioni di netturbino un soggetto fisicamente non idoneo”, il quale sbalzato dal veicolo era caduto sul selciato della strada ed a seguito delle lesioni era deceduto. In questo caso erano state osservate e accertate tutte le formalità, comunque necessarie in un ufficio pubblico, per la delega di un servizio e dei correlati poteri di gestione e di autonomia, e dopo aver individuato nell’imputato il datore di lavoro pubblico in conformità alla normativa vigente, la Corte di Cassazione si è soffermata anche sulla grave sua imprudenza commessa per aver adibito tale persona disabile e con evidenti limitazioni di deambulazione “alle mansioni di netturbino, che comportavano lo stazionamento del lavoratore, in equilibrio ed in piedi sulla pedana posteriore dell’autocompattatore in movimento” nonché sulla generica negligenza per aver “omesso di istruire i lavoratori e di vigilare sull’impiego dei mezzi di sicurezza individuali ed in particolare delle cinture di sicurezza (… omissis …) senza far luogo a controlli specifici od a sorpresa sul luogo di lavoro”. Dunque non appare sufficiente comunicare ai lavoratori delle mere raccomandazioni o ordini di servizio, se non si accompagnano a controlli e verifiche della loro effettiva attuazione; infatti “poiché la normativa antinfortunistica risulta finalizzata a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da una sua negligenza, imprudenza ed imperizia, la responsabilità del datore di lavoro può essere esclusa solo in presenza di un comportamento del lavoratore stesso che presenti i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute”. Tale principio, qui esplicitato con maggior incisività, appare in linea con quanto già esaminato commentando altra sentenza (n. 23729/2005); non basta aver emanato delle direttive contenenti ordini e misure antinfortunistiche: occorre vigilare sempre e comunque sul rispetto di esse da parte dei lavoratori ed in ogni caso non ci si esime dalla responsabilità adducendo come pretesto l’imprudenza o la disubbidienza del lavoratore, dato che esse sono ben prevedibili e prevenibili.

La sentenza n. 28410 del 14.06.2012 della Corte di Cassazione (sez. IV penale) ha valutato la penale responsabilità del datore di lavoro all’interno di un


Consorzio Intercomunale di rifiuti, energia e servizi e, richiamando la precedente pronuncia n. 29543 del 2009, ribadisce che “gli obblighi di prevenzione infortuni e sicurezza in luoghi di lavoro, che per legge fanno capo al datore di lavoro, nel settore degli enti pubblici gravano sul titolare effettivo del potere di gestione”. Accertato che “il luogo di lavoro in cui operavano i dipendenti, risultava privo dei requisiti elementari per la sicurezza e la salute dei lavoratori”, era stato condannato per le numerose violazioni contestate il direttore generale del consorzio, il quale ricorre in cassazione contro tale decisione ritenendo che invece la qualifica di datore di lavoro avrebbe dovuto essere identificata in capo al presidente del consorzio, avendo quest’ultimo i poteri gestionali e decisionali a norma dello statuto e non risultando alcuna delega, ai sensi del nuovo “T.U. n. 81 del 2008, che ha mutuato l’indirizzo giurisprudenziale” (appare interessante questa locuzione, che sancisce come davvero tutta la grande operazione di individuazione e concretizzazione della figura del datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni si sia sviluppata per via giurisprudenziale e solo in un secondo momento sia stata recepita dal legislatore). Citando anche la precedente sentenza n. 34804 del 2010, già esaminata sopra, la Suprema Corte conferma che “nelle pubbliche amministrazioni per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri gestionali, decisionali e di spesa, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale”. Essendo comunque “pacifico che il datore di lavoro, individuato secondo i criteri sopra indicati, possa delegare gli obblighi su di lui gravanti ad altri, con conseguente sostituzione e subentro del delegato nella posizione di garanzia”, la Corte si sofferma ancora una volta a precisare quali siano i requisiti per una valida delega nelle pubbliche amministrazioni: “per essere rilevante ai fini dell’esonero da responsabilità del delegante, deve (… omissis …) avere i seguenti requisiti: essere puntuale ed espressa, senza che siano trattenuti in capo al delegante poteri residuali di tipo discrezionale; il soggetto delegato deve essere tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato per lo svolgimento del compito affidatogli; il trasferimento delle funzioni deve essere giustificato in base alle esigenze organizzative dell’impresa; unitamente alle funzioni debbono essere trasferiti i correlativi poteri decisionali e di spesa; l’esistenza della delega deve essere giudizialmente provata in modo certo”.


Nel caso di specie, correttamente era stato condannato il direttore generale e non il presidente del consorzio, dal momento che un articolo dello statuto attribuiva a quello “ampi poteri gestionali, decisionali e di spesa assegnandogli la responsabilità gestionale del consorzio, la possibilità di operare assicurando il raggiungimento dei risultati programmatici, sia in termini di servizio che in termini economici e, in particolare, i compiti di dirigere il personale del consorzio, organizzare funzioni ed attribuzioni di servizi, settori e coordinamenti di aree, predisporre i piani di formazione ed aggiornamento del personale; provvedere agli acquisti in economia ed alle spese indispensabili per il normale ed ordinato funzionamento del consorzio.” La Suprema Corte ha pertanto concluso “che il direttore generale del Consorzio avesse, a norma di statuto, poteri gestionali, decisionali e di spesa e che, quindi, su di lui gravassero gli obblighi di prevenzione infortuni e sicurezza nei luoghi di lavoro. Né risulta che tali obblighi siano stati delegati ad altri”.

3.6 I profili di responsabilità civile del datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni

Nella più recente sentenza n. 22585 del 3.10.2013 della Corte di Cassazione22 (sez. III civile) si è trattato invece proprio della responsabilità civile relativamente al fatto avvenuto presso l’Istituto Regionale della Vite e del Vino della Puglia, dove un agente dirigente chimico era caduto nella spazio vuoto tra due montanti di sostegno del passamano di una scala, riportandone gravissime lesioni. Già nel procedimento penale, a carico sia del presidente del consiglio d’amministrazione e legale rappresentante dell’ente sia del dirigente del settore amministrativo competente sulla gestione degli immobili, era stata accertata l’omissione da parte loro delle dovute misure antinfortunistiche: i gradini della scala infatti “si presentavano pericolosamente sdrucciolevoli”, ma ciò nonostante l’unica

22 Cfr. in argomento R. SAVOIA, La responsabilità dell’ente è indissolubilmente legata alla responsabilità dei soggetti che agiscono in sua rappresentanza, in Diritto & Giustizia, 2013, pag. 1302 e ss.


protezione esistente era un corrimano in ferro che lasciava ai due lati della rampa ampi spazi vuoti privi di un adeguato parapetto, che avrebbe senz’altro evitato il fatto. Nella sentenza in esame si enuncia tra i privi motivi della decisione che “non è legittimamente predicabile la responsabilità di un ente in assenza della speculare ed espressa affermazione di responsabilità dei soggetti che abbiano agito in sua rappresentanza (intesa quest’ultima in senso organico). E’ principio di diritto consolidato presso questa Corte regolatrice, difatti, quello secondo il quale la responsabilità aquiliana degli enti si fonda proprio sul rapporto organico con le persone fisiche che li rappresentino - oltre che sulla relazione che lega gli enti stessi a tutte le altre persone fisiche inserite nell’organizzazione burocratica o aziendale (in argomento tra le tante cfr. sentt. Cass. n. 2089/2008 e n. 3980/2003). Il principio così predicato sul piano della morfologia dell’illecito postula, peraltro, come suo logico corollario sotto il profilo funzionale, che sia stata accertata e dichiarata una qualsivoglia responsabilità ex art. 2043 c.c. di almeno una delle persone fisiche poste in rapporto giuridicamente rilevante (organicamente qualificato, o meno) con l’ente stesso (amministratori, funzionari, dipendenti)”; quindi, non basta accertare sul piano civilistico la responsabilità di un ente, se non si è preliminarmente accertata la condotta colpevole e conseguentemente la responsabilità di un preciso soggetto all’interno dell’organigramma di quell’ente e tenuto al rispetto della normativa sulla prevenzione degli infortuni e sulla sicurezza sul lavoro. Nel caso di specie viene pertanto esclusa la responsabilità del presidente e legale rappresentante dell’Istituto Regionale della Vite e del Vino, in quanto egli aveva competenza “rispetto alla sola consistenza patrimoniale dell’istituto (e non anche quella di adozione di misure antinfortunistiche rispetto alle quali egli non aveva alcun poter decisionale e/o di spesa)”. Si enuncia poi anche l’altro principio di diritto per cui “nel caso di infortuni sul lavoro dovuti a carenze di ordine strutturale, sono responsabili gli organi apicali dell’ente, ai quali fanno capo i poteri di indirizzo e di programmazione”: l’organo politico di vertice, secondo il dictum della sent. Cass. n. 21010/2006. La stessa Corte Suprema “sia pur in sede penale, e sotto diverso profilo, ha dal suo canto affermato ripetutamente che, al fine di affermare la responsabilità di un dipendente amministrativo addetto ad un determinato servizio gestito da una pubblica amministrazione, occorre considerare la ripartizione interna ed istituzionale delle


specifiche competenze, i limiti della delega ottenuta e le funzioni in concreto esercitate, e distinguere tra carenze strutturali, addebitabili ai vertici dell’ente, e deficienze derivanti dall’ordinario buon funzionamento, delle quali è tenuto a rispondere il funzionario addetto al settore”. Questa distinzione era già stata sottolineata molte volte dalla Corte di Cassazione, come già nella sentenza n. 5407/1996 esaminata prima, quando ancora la legislazione nazionale non aveva completato la sua evoluzione in tema di sicurezza sul lavoro; e nel caso di specie, ha concluso la Corte che “non potevano, pertanto, dirsi esenti sic et simpliciter, i vertici dell’istituto, cui andava viceversa ascritta la qualità di <debitori di sicurezza>”, ossia la posizione cardine di garanzia. “L’obbligo di impedire l’evento dannoso gravava, pertanto, sugli organi apicali dell’ente -consiglio di amministrazione e presidente” il quale ultimo aveva anche “il potere di adottare eccezionalmente i provvedimenti di urgenza salvo ratifica del consiglio”: appare degna di nota pure la circostanza che tale soggetto, a seguito dei rilievi mossi dagli ispettori del lavoro e dopo soli sei giorni dall’incidente, aveva dato incarico ad un ingegnere “di procedere alla realizzazione dei lavori urgenti di messa in sicurezza della scala medesima”.

Ed infine, si vuole ricordare anche la curiosa vicenda della recentissima sentenza n. 5176 del 5.03.2014 della Corte di Cassazione (sez. lavoro) sulla pretesa, da parte di un dipendente comunale addetto ai servizi di manutenzione e pulitura dei parchi e dei giardini pubblici di Napoli, dell’indennità prevista in considerazione del fatto che doveva utilizzare indumenti propri e provvedere a lavare e disinfettare personalmente le tute di stoffa fornite dal datore di lavoro, a fronte dell’insufficiente fornitura di dette o di tute usa e getta da parte dell’ente comunale. Infatti, ai sensi del D.Lgs. n. 626/1994 e successive modificazioni, il datore di lavoro è obbligato a consegnare ai lavoratori idonei strumenti di protezione, a tenerli puliti ed efficienti nonché a corrispondere loro un’indennità in caso questi provvedano personalmente al lavaggio ed alla manutenzione di tali dispositivi; ma nel caso del giardiniere di Napoli, le tute da lavoro non sono state considerate dei veri e propri “Dispositivi di Protezione Individuale”, rigettandone pertanto il ricorso. E’ comunque interessante, sebbene in effetti esuli dall’oggetto preso in esame nel presente studio (sulla responsabilità della figura datoriale nelle pubbliche


amministrazioni) sottolineare l’argomentazione della Corte di Cassazione: “se le tute fornite dal datore di lavoro Comune di Napoli si dovessero considerare dispositivi di protezione individuale, allora non vi sarebbe alcun dubbio del connesso obbligo per il Comune di tenere indenni i lavoratori dai costi e dai disagi del loro frequente lavaggio”, ma nella fattispecie “oggetto della domanda era l’obbligo per il Comune di fornire le tute e comunque di tenerle pulite e, in linea subordinata, di risarcire il dipendente dalle spese sostenute di lavaggio delle tute, questione completamente estranea al tema della tutela della salute e dell’igiene nel luogo di lavoro. (… omissis …) La domanda non concerneva quindi la fornitura di DPI ove necessario al fine di salvaguardare i beni costituzionalmente protetti”. A questo punto, però, la Suprema Corte conclude affermando comunque che “non si può escludere che, per le lavorazioni cui era addetto il ricorrente, fosse necessario predisporre Dispositivi di Protezione Individuale specifici di riduzione del rischio di contaminazione o altre cautele”: ma allora, se la questione fosse stata prospettata dal punto di vista della normativa sulla sicurezza ed igiene negli ambienti di lavoro, molto probabilmente la pronuncia avrebbe affermato davvero la necessità di un rigoroso esame dei rischi di contaminazione di certe attività, fino ad ora non considerate pericolose per la salute dei lavoratori, come appunto la manutenzione dei parchi e dei giardini pubblici di una città, e del correlativo obbligo per il datore di lavoro pubblico di fornire tute adeguate alla protezione dei lavoratori. Come si può notare, l’attività giurisprudenziale della Corte di Cassazione è sempre innovativa ed al passo dei tempi, non solo nell’individuazione concreta dei soggetti e delle singole responsabilità, ma anche nell’individuazione dei nuovi rischi per la salute, in considerazione della tutela di tale bene costituzionalmente garantito.


ELENCO DELLE SENTENZE CITATE DELLA CORTE DI CASSAZIONE

1) sentenza n. 5407 del 30.04.1996 (sez. III penale) 2) sentenza n. 2297 del 13.01.1999 (sez. III penale) 3) sentenza n. 8585 del 2.06.2000 (sez. III penale) 4) sentenza n. 9580 del 14.06.2000 (sez. III penale) 5) sentenza n. 6804 dell’11.01.2002 (sez. penale) 6) sentenza n. 19634 del 4.03.2003 (sez. penale) 7) sentenza n. 39268 del 13.07.2004 (sez. III penale) 8) sentenza n. 23729 del 19.04.2005 (sez. IV penale) 9) sentenza n. 29229 del 19.04.2005 (sez. III penale) 10) sentenza n. 38840 del 22.06.2005 (sez. IV penale) 11) sentenza n. 47249 del 30.11.2005 (sez. penale) 12) sentenza n. 21010 del 27.09.2006 (sez. penale) 13) sentenza n. 22843 del 19.04.2007 (sez. penale) 14) sentenza n. 37397 del 10.07.2007 (sez. III penale) 15) sentenza n. 29543 del 17.07.2009 (sez. III penale) 16) sentenza n. 20047 del 1°.04.2010 (sez. IV penale) 17) sentenza n. 21519 del 6.05.2010 (sez. IV penale) 18) sentenza n. 35204 del 12.05.2011 (sez. IV penale) 19) sentenza n. 15206 del 22.03.2012 (sez. III penale) 20) sentenza n. 28410 del 14.06.2012 (sez. penale) 21) sentenza n. 10327 dell’11.07.2012 (sez. IV penale) 22) sentenza n. 23944 del 17.04.2013 (sez. IV penale) 23) sentenza n. 37519 del 14.05.2013 (sez. III penale) 24) sentenza n. 22585 del 3.10.2013 (sez. III civile) 25) sentenza n. 5176 del 5.03.2014 (sez. lavoro)


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responsabilità dei soggetti che agiscono in sua rappresentanza, in Diritto & Giustizia, 2013, pag. 1302 e ss. TAMPIERI A., Tra regolamento interno e modello organizzativo, in Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, 2011, fasc. 6, pag. 885 e ss. TAMPIERI A., L'applicabilità del decreto legislativo n. 626/1994 alle Pubbliche Amministrazioni, in L. GALANTINO, 1996, pag. 123 e ss. TIRABOSCHI M., Le correzioni al Testo unico della salute e sicurezza sul lavoro, in Guida al Lavoro, Il Sole 24 Ore, 2009, vol. 15, pp. da 10 a 16 TIRABOSCHI M., La tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro dopo il decreto legislativo n. 106 del 2009: il nuovo Testo Unico, in M. TIRABOSCHI, L. FANTINI (a cura di), Il Testo Unico della salute e sicurezza sul lavoro dopo il correttivo, Giuffrè Editore Milano, 2009, pp. 3-14 TIRABOSCHI M., La tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro alla prova del «Testo Unico» , in Diritto delle Relazioni Industriali, vol. 2, 2008, pp. da 373 a 384 TIRABOSCHI M., L. FANTINI, Il Testo Unico della salute e sicurezza sul lavoro dopo il correttivo (d.lgs. n. 106/2009), Commentario al decreto legislativo n. 81/2008 come modificato e integrato dal decreto legislativo n. 106/2009, in M. TIRABOSCHI, L. FANTINI, op. cit. TIRABOSCHI M., GIOVANNONE M., Le nuove regole per la salute e sicurezza dei lavoratori negli ambienti confinati, in Guida al Lavoro, Il Sole 24 Ore, 2011, vol. 45, pp. da 20 a 30


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