PORTI DI MAGNIN OTTOBRE 2013

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Periodico di Arti Scienze e Cultura • N 79-80 • Ottobre 2013 -

PORTI DI MAGNIN

“Magnin Litteraire” N°14

ISSN 1723-6762

romano manescalchi - la buriana creativa di burri e le sue fondamenta - sestante costigliole d’asti: il castello asinari di san marzano e le opere di erich keller

Alberto Burri, Catrame [1949], catrame, olio, pietra pomice su tela, 57,5x64,5 cm.

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PORTI DI MAGNIN N° 79-80 - ottobre 2013 E MAGNIN LITTERAIRE N°14

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Un fascicolo doppio perché le collaborazioni sono tante e importanti, i materiali sono significativi, le risorse economiche modeste e si riesce a risparmiare una copertina. In ogni caso non manca l’aggancio con l’avanguardia figurativa grazie alla fattiva e mecenatesca disponibilità della Fondazione di Palazzo Albrizzi - Fondazione Burri di Città di Castello che ringraziamo per aver reso possibili gli approfondimenti sul maestro Burri del nostro corrispondente Romano Manescalchi. La collaborazione (con il Comune di Mondovì) rende anche possibile un’ampia articolazione di mostre e di approfondimenti sulla grande attività grafica del “genius loci” Gianni Gallo in ragione della sua predisposizione alla natura dei nostri luoghi e delle Langhe in particolare. Ammanisce una sorta di poetico neorealismo l’opera pittorica di Vinicio Perugia messa più in evidenza dalla critica poetica di Laura Scarpellino. Ancora un serrato rapporto di amicizia e di professionalità, di fattiva intrapresa fra compagni di scuola, allievi di Paulucci, Associazioni, Gallerie varie e la Civica Galleria d’Arte Contemporanea Filippo Scroppo di Torre Pellice dà luogo al complesso orizzonte di mostre che sono state, o vengono allestite a Mondovì, Cuneo, Borgo San Dalmazzo, Torre Pellice. Considerazioni specifiche toccano anche Costigliole d’Asti, le sconcertanti vicende antiche e recenti del suo castello e dell’arte figurativa locale che è stata alimentata anche da Erich Keller tedesco di Costanza in Monferrato in cerca di un luogo dove dimenticare l’orrore della violenza. Antonello Catani nel “Magnin Litteraire” ci parla di leggendarie donne (Giuditta, Salomè, Lilith) che hanno colpito l’immaginazione dei creatori figurativi e letterari, musicali di tutti i tempi.

Red.

a n g ta n o rio 5 m a 3 t i i d 1 c li e 5 n b d g i i b 7 s u u 7 ra 1 | g iale p eb de rte 9 or a b r 3 ’ w 3 d te lla | e i a e s t s n ro |m ivis ambi i r r b ie a r h t i e g p rs o l i e i t a v r t i a a r a n t | c i illust esti u imen hi t g al o ibr i | l l t t | io o li d d o c u o st us pr p | i e l o t t a i l e o nd i v ch e i i e t z h t a g n i |e e e i v tt p e o i d ta in o ne t i r a n d p n ola oghi locan oordi v l | c a | t e l a a d |c n zie a ne i g a m m .it |i olo

SOMMARIO

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GIORGIO BARBERI SQUAROTTI - GIANGIACOMO AMORETTI - GIANCARLO BOVETTI - STEFANO CASARINO - SEBASTIANO CASTELLANO PAOLO LAMBERTI - PINO MANTOVANI - ANNA MAROSCIA - CARLO MORRA. IMPAGINAZIONE: Senza titolo di Rossella Borra www.graficasenzatitolo.it - rossella.borra@gmail.com

• de natura animalium (et inanimalium). . . . . . . . . . . . . Lorenzo Mamino pag. 2 • gianni gallo. notizie biografiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Silvia Sala pag. 6 • luglio 1977 a ribote . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Enrico Sanna pag. 15 • alberi, uccelli, fiori e frutti di gianni gallo. . . . . . Lorenzo Mamino pag. 16 • la cascina ribote e la normalità del genio. . . . . . . . . . . Carlo Petrini pag. 23 • per la storia di un “irregolare” . . . . . . . . . . . . . . Giovanna Galante Garrone pag. 24 • composizione per ribote. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pierluigi Zamò pag. 29 • vinicio perugia: te la dò io la natura. . . . . . . . . . . . . Laura Scarpellino pag. 32 • noi di paulucci: storie d’accademia e altro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pino Mantovani pag. 40 i miei ricordi di accademia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Adriana Giorgis pag. 48 del tempo dell’accademia si può anche dire... . . . . Plinio Martelli pag. 53 per paolo guasco. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pino Mantovani pag. 58 rimembranze di un periodo felice. . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pino Mantovani pag. 63 piccolino! a chi vuoi più bene? a mamma o a papà?.Sergio Saccomandi pag. 69 conclusioni. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Red. pag. 75 • Bartolomeo Giorgis pittore - chiusa pesio 1862 - cuneo 1923 . . . Red. pag. 76 • COSTIGLIOLE D’ASTI: IL CASTELLO aspetta programmazioni. . . . Simone Castino pag. 78 • erich keller: dalla germania per provare la serenità. . . . Claudio Cerrato pag. 84 • Magnin litteraire. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Red. pag. 89 • la buriana creativa di burri e le sue fondamenta. . Romano Manescalchi pag. 90 • Alberto burri - sestante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Romano Manescalchi pag. 97 • il premio letterario pavese compie trent’anni. . . Giovanna Romanelli pag. 106 • storia e immagini di eroine e demoni femminili . . . Antonello Catani pag. 111 • giuditta, salomè, lilith - alcune osservazioni. . . . . . . . . . . . . . . Red. pag. 124

Calendario delle manifestazioni in collaborazione con il comune di mondovì

MONDOVÍ - ISOLA DI SAN ROCCO AL PONTE DELLE RIPE

• antologica di gianni gallo - I spazio espositivo di santo stefano • antologica di gianni gallo - II

DAL 12 al 22 ottobre DAL 12 al 27 ottobre

MONDOVÍ - ISOLA DI SAN ROCCO AL PONTE DELLE RIPE

• noi di paulucci - I: giorgis, martelli dal 26 ottobre al 5 novembre noi di paulucci - II: guasco, mantovani, saccomandi dal 9 al 19 novembre

MONDOVÍ - ISOLA DI SAN ROCCO AL PONTE DELLE RIPE • antologica di Vinicio perugia

dall’11 al 21 gennaio 2014

torre pellice

• galleria civica di arte contemporanea “filippo stroppo” noi di paulucci (giorgis, martelli, guasco, mantovani, saccomandi) mostra di dipinti, incisioni, disegni dal 12 ottobre al 14 dicembre

costigliole d’asti

• Castello asinari di san marzano: antologica di erich keller

dal 3 agosto al 22 novembre

In copertina: Particolare del quadro di Alberto Burri “Catrame”. Sul rovescio della copertina: elementi di pittura di Enrico Paulucci e di disegni di Gianni Gallo.

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tico molto colorato), la strafottenza di rinascite improvvisate (tavoli e sedie, panche e divani scomodissimi e goffi, fossero costruiti con doghe di botticelle o con assicelle di” pallets”), il ricercato oblio delle origini e il completo straniamento dalla vecchia esistenza (cornici da ritagli di legno vecchio e nuovo, carta da lettere profumata da fogli di giornali buttati). La noncuranza degli arrivi per urgenze anche molto inventate. Intanto, il rapporto controverso tra pittura e fotografia tra Seicento e Novecento era in evidenza al Filatoio di Caraglio, non solo come testimonianza di due diversi modi di rappresentare ma anche come possibilità di due diverse letture della realtà, ognuna per conto suo o in concorrenza tra loro, in una vera “strategia di appropriazione del mondo”, per una trasfigurazione favolosa e senza limiti.

de natura animalium (et inanimalium) lorenzo mamino

Nell’estate ormai trascorsa sono state aperte e chiuse tre esposizioni, tra di loro molto diverse ma, alla fine, con profilo e contenuti confluenti. Il tema, se si vuole, è certamente quello della morte e della rinascita, quindi un tema antico ma qui trattato con fare sbarazzino. Ma non certamente improvvisato. A San Michele Mondovì si era inaugurata, il 15 luglio, la mostra “A tutto riciclo” che intendeva fare il punto su esperienze di reimpiego di materiali di scarto. A partire dal riuso di “barriques” a San Patrignano (e qui su disegno di Mario Botta, Alessandro Mendini, Michele De Lucchi, Marc Sadler e altri) fino al riuso di carta, rametti, bottiglie, cassette da frutta, fili e cavi colorati, (invece praticato, questo riuso, da giovani e meno giovani operatori del Monregalese) con iniziative un po’ più estemporaneee ma con alcuni risultati davvero affascinanti e insoliti. Si vuole ricordare qui la carta riciclata per fare, ridotta in pasta, fogli di carta tirati a mano, le cassette da frutta riciclate per formare cornici per quadri, i “pallets” composti e uniti a cuscini per fare sedute, gli involucri del caffè macinato che si compra al supermercato per fare borse da passeggio. Ma le proposte erano tante altre, tutte molto interessanti. Al Filatoio di Caraglio era stata intanto aperta il 23 giugno la mostra “Le radici dello sguardo” (nature morte tra pittura e fotografia) con bella mescolanza di composizioni barocche “dominate dai fiamminghi” e un’ottima scelta di “nature morte” di fotografi del Novecento: Edward Weston, Joseph Sudek, Luigi Ghirri, fino al nostro conterraneo Michele Pellegrino. Infine a Busca, al castello del Roccolo, sabato 13 e domenica 14 luglio sono state spalancate le porte per una visita al parco, al lago, alla sala da pranzo ultimamente restaurata da Marcovaldo e all’Ala Est per la mostra “De natura animalium” con 101 opere di Corrado Ambrogio commentate da testi di Laura Pariani. Si vuole parlare delle tre esposizioni artistiche insieme perché sembrerebbero riecheggiare, come detto, un motivo comune: la rinascita delle cose, degli animali, dei materiali di cui sono fatti gli oggetti, anche i più comuni, per una meditazione sul valore e le varietà della vita, sulle possibili metamorfosi ad opera dell’ingegno e della figurazione. Per una meditazione quindi anche sul significato della morte, che non deve essere considerata mai definitiva. Ma sarà vero che le idee, i pensieri, i propositi veri sopravvivono sempre, che sono soltanto rimandati, tramandati, lasciati e ripresi nel tempo, forse perchè hanno soltanto necessità di maturare meglio? Sarà vero che le cose e le immagini delle cose resistono più delle iniziative degli uomini e che esse (oggetti ed immagini) sono i veri testimoni delle tante vite, di uomini e di animali? Ma se poi le idee e i pensieri, riportati dagli oggetti, rifioriscono rinnovati, come le foglie, tutte le primavere, dove è la vera morte? Se già si vede superata, perché parlarne? Se anch’essa dà un contributo alla vita, perché chiedere che sparisca? “L’ultima a morire sarà la morte”. Di tutto poi resteranno raccolte e mucchi, erbari e insettari, fotografie e disegni, di erbe e di bestie; ritratti forse più duraturi? Ecco che, alla fine, tre avvenimenti in tre luoghi diversi hanno cercato di indagare la vera natura delle cose, di materiali quasi grezzi e di fiori appena recisi, di come essi tutti possano essere visti trapassati ad un rango superiore, a partecipare del mondo degli animali e degli uomini, delle sensazioni e dei pensieri. A San Michele era evidente la concorrenza di materiali naturali e artificiali (rametti intrecciati con cavi in materiale sinte4

“Profumo di caffé”, borsa costruita con involucri di caffé macinato cuciti su fodera di tessuto e manico fatto con tubetto di vinile

Michele Pellegrino, 2013. “Bottiglia con zuccheriera”

Josef Sudek, 1951. “Sul davanzale del mio studio”

“Fantasia di luce”, diffusore di lampada in rametti di rampicante color naturale uniti e mescolati a fili colorati in materiale sintetico

“A ruota libera”, giostra per bambini in fili di spago e piccoli recipienti. Stelo, cappello e base con oggetti di metallo di recupero

Michele Pellegrino, 2013. “Rosa con vaso” 5


Al Roccolo di Busca capitava infine una cosa diversa e ancora più complessa. Perché l’intento era, questa volta, denunciato chiaramente: richiamare un “bestiario” del Cinquecento per riproporre un “bestiario” del Duemila. Nei primi due avvenimenti si mirava ad informare semplicemente sul riutilizzo degli scarti (ancora funzionale o semplicemente visivo), a Busca invece al visitatore veniva richiesta una riflessione molto più approfondita, un percorso in salita non facile e non rettilineo. Da Corrado Ambrogio e da Laura Pariani il visitatore veniva scaraventato in un modo fluido, di sbrigliata improvvisazione, ma chiaro e controllato. Come solo può avvenire nell’esistenza infantile o nell’esistenza dei popoli primitivi. Nella libertà rocambolesca, ma strettamente normata, del gioco appena inventato. Non a caso Corrado Ambrogio, nel presentare le opere, ha detto che lo spunto era venuto da Ludovica, la figlia, quando ancora era più piccola e voleva da lui storie e storie, sempre nuove storie. I volumi degli antichi “bestiari” e il De natura animalium stampato dal tipografo Vincenzo Barruerio a Mondovì già nel 1508, erano trattati non semplicemente descrittivi, come sarebbe stato più tardi, per erbari e bestiari diretti alla rappresentazione fedele del mondo naturale e ai fini di una sua schedatura “scientifica” e cioè vera, univoca e universale. All’inizio del Cinquecento, a Mondovì, un linguaggio universale su erbe e uccelli non era ancora in uso e anche altrove non era ancora stato inventato o, almeno, non scritto e non divulgato. Qui era ancora possibile parlare di bestie poco conosciute ma (ancora e già) amate e temute, ritenute portatrici di fortune, di una bellezza diversa e selvaggia ma anche, forse, di danni irrimediabili. Ma, facilmente, proprio a denunciare la difficoltà della conoscenza, si sconfinava a descrivere animali mai esistiti e con caratteri terrificanti e cioè appartenenti ad una natura horribilis. Si affacciavano già allora domande senza risposte: dove vivono le bestie? Sono utili, sono dannose? Con quali possiamo convivere? Da dove vengono, dove vanno? Hanno anch’esse un aldilà? Usano anch’esse un linguaggio? Come capire i loro gesti, le loro grida, il loro canto? Per intanto, nel Cinquecento (ma poi anche dopo) gli animali vengono usati per ammaestramenti morali, come portatori emblematici di vizi e virtù: la volpe astuta, il cane fedele, il pavone vanitoso, il lupo cattivo, la formica operosa…. Caratteri distintivi che suggeriscono richiami ad essere o non essere come loro, richiami a comportamenti saggi, alla “buona educazione”, alla fuga dalle tentazioni. Anche le favole, anche i proverbi avevano lo stesso scopo: indirizzare a vite regolate, con esempi che tutti potessero capire e ricordare. Molto spesso anche le “nature morte”, che accostavano la fragranza delle pesche appena raccolte alla presenza di mosche e di vermi e la meraviglia delle rose a bruchi e a muffe avevano lo stesso scopo: parlare della vanitas. Qualche volta era presente anche un teschio a ricordare in modo inequivocabile il memento mori o il finis cinis. Ambrogio (e con lui la Pariani)

adoperano un altro registro. Partendo da oggetti di uso comune, Corrado Ambrogio afferma di intravedere in essi significati snaturanti e, in particolare, forme di animali che poi, in qualche modo, esalta con aggiunte inaspettate o con tagli, decisi “perché tutti capiscano”. Un meccanismo quindi simile all’impianto dei bestiari o dei proverbi o delle parabole ma con finalità diverse: là l’educazione ad una vita ispirata ai buoni costumi partendo dal reale, animali e cose, qui invece una semplice educazione degli occhi per rifuggire dalla realtà e rifugiarsi nella enunciata fantasticheria dell’artista: riposante, ironica e passeggera. Per questo ultimo lavoro, di ben 101 soggetti, Corrado Ambrogio è anche autore di 101 riprese fotografiche (una per ogni soggetto, guidando quindi anche alla giusta visione dell’opera). Al Roccolo le fotografie erano esposte in un lungo percorso a parete con la presenza, al centro delle sale, di dodici delle opere predisposte. Che sono, queste, certamente più significative e ricche delle riprese fotografiche, perché si possono godere da più punti di vista, nei colori naturali, con ombre proprie ed ombre portate. La serie delle 101 fotografie aiuta però a vederne le differenze, le ricorrenze, le maggiori o minori somiglianze con i titoli di rimando, altrettanto fantasiosi: cornabò, calamaro, eoppio, ragna, trifido, struzzolo, bucchè, loreto. Una delle opere poi (i “fenicotteri”) è stata montata per restare in modo permanente all’interno del parco, sulle sponde del Lago del Tritone. Là dove le isole di ninfee vanno a cozzare con il margine di pietra e i “fenicotteri” in ferraccio arrugginito , prendendo vita dall’acqua limpida del lago sospeso, sono indirizzati all’incontro con i visitatori. Qui si apre un nuovo e ultimo capitolo: il possibile colloquio di un phantasma animalis (molto concreto perché perfino rugginoso), di giorno e di notte, con i frequentatori occasionali del parco, che possono, a questa apparizione, essere certamente non spaventati ma solo leggermente sorpresi. Quindi attirati a guardare più attentamente le macchie di ninfee, i tappeti di edera, i ricami di ombre arboree nell’acqua verde. Altra volta (nel 2007, nella grande mostra personale allestita nella Confraternita di Santo Stefano, a Mondovì Breo) Ambrogio invocava “nuovi occhi” e Marco Vallora declamava i suoi come “sguardi di legno”. Credo significativamente. Alla fine, che dire di questa ultima prova di raffinatezza di Ambrogio? Forse quello che Laura Pariani dice del suo “elefantello alpino” : “ha un fiuto portentoso per i tesori nascosti…è addomesticato dai nani che (ancora e sempre) cercano la fontana dell’oro”. Trovando (ancora e sempre) meraviglie minute, che aprono però a fantasticherie quasi esagerate, ad occhi chiusi. Dove non vale né la Ragione né la Storia. I bambini ne sono maestri. Ma è difficile parlarne.

Corrado Ambrogio, Castello del Roccolo a Busca, 2013. “Fenicotteri che escono dal lago” 6

Lorenzo Mamino

Corrado Ambrogio, Castello del Roccolo a Busca, 2013. “De Natura Animalium”: trifido, uccelspino, bufalo e papalla 7


isola di san rocco al ponte delle ripe - spazio espositivo confraternita di santo stefano

gianni gallo. notizie biografiche silvia sala

DAL 1935 AGLI ANNI ‘60 26 gen 1935

GLI ANNI ‘70 1970 - 74 - 78

crea varie etichette per il Dolcetto di Gallo Ernesto Cascina Ribote: un gallo nero inscritto in una circonferenza, un gallo rosso su un grappolo, un gallo con piumaggio a tre colori

1970

realizza insieme a Piero Fagiolo (amico, maestro elementare ed ex partigiano di Dogliani) il dépliant per la 32^ Sagra del Dolcetto di Dogliani (organizzata dalla locale Proloco), impostando le pagine e facendo anche molti disegni sia per la copertina (Porta Soprana di Dogliani) sia per vivacizzare i prodotti degli inserzionisti. Imposta la “Carta d’identità del Dolcetto”

1971

disegna una carta dei Tarocchi con i quattro simboli e IL RE che si specchia nel proprio scheletro per la copertina del giornale ”Il re nudo” delle classi III B-D della Scuola media statale “Luigi Einaudi” di Dogliani

1972

realizza 10 disegni e scrive il testo di presentazione per un libro di poesie dell’amico Franco Cacciatore

1972-73

prime etichette per la cantina Vietti di Castiglione Falletto: per il Moscato un fascio di spighe e fiori con in basso a destra un galletto nero quale firma (e un testo sul vino Moscato e sui ricordi d’infanzia) e due etichette per le Barbera, con un grillo sul pentagramma e un altro tra erbe e fiori

1973

in una serata invernale a casa Vietti-Currado, da conversazioni tra Gianni, il padrone di casa Alfredo, la moglie Luciana Vietti, Claudio Bonichi ed altri amici nasce l’idea delle “Etichette d’autore” che verranno realizzate per riserve speciali di Barolo e di Barbaresco. La prima “etichetta d’autore” viene realizzata da Claudio Bonichi per il Barbaresco 1971, Gianni inciderà una xilografia per il Barolo Villero nel 1988

nasce a Dogliani, nella cascina di Ribote, in una famiglia di proprietari terrieri; è il secondo di 6 fratelli

1941-46

frequenta la scuola elementare a Dogliani, negli ultimi anni dal maestro Adriano

1947-50

frequenta la scuola media a Castello (fraz. di Dogliani)

1950-55

frequenta il Ginnasio e Liceo Classico a Valsalice (Torino) dai Salesiani e consegue la maturità a pieni voti

1955

si iscrive al Politecnico di Torino per ingegneria aeronautica, ma frequenta solo per un paio d’anni

1960-62

è chiamato militare nell’artiglieria di montagna degli alpini; prima a Bra per il C.A.R., poi a San Rocco Castagnaretta (Cuneo); partecipa a diversi campi estivi e invernali in Veneto e Trentino

1961-64-66

riprende a frequentare l’Università a Torino e vive con altri amici di Dogliani in una camera d’affitto in via Galliari; poi si trasferisce con il fratello Enrico e la cognata nell’appartamento di famiglia di Via Vinovo

1964

secondo il racconto di Gianni, il primo lavoro fu il marchio per la ferramenta Fissore di Monchiero: un marchio stampato sui teloni dei camion della ditta, che ancora adesso, immutato, la caratterizza

1964-65

disegna e stampa le prime etichette per il vino dell’azienda di famiglia “Ribote”: rappresentano un gallo nero stampato su carta marroncina da pacchi

dal 1965

inizia vari studi e prove per l’etichetta del Barolo Monprivato di Giuseppe Mascarello e figlio; realizza uno studio per un’etichetta del Nebiolo che non verrà mai usata

1966

ritorna definitivamente a Dogliani; intensifica l’attività di disegno e di studio personale

1967

dopo qualche ritocco, a fine anni ‘50, modifica l’etichetta del Barolo di Giuseppe Mascarello di Monchiero

1967-70

realizza una serie di disegni e di incisioni per illustrare il De Rerum Natura di Lucrezio; pochi sono rimasti

1967 e seguenti

conosce il pittore Claudio Bonichi e il maestro Eso Peluzzi (nonno materno di Bonichi). Con Claudio fa esperienze nel campo dell’incisione (dalla punta secca al bulino, dall’acquaforte alla xilografia e alla linoleografia) e della grafica. Stampa le sue prime incisioni a Monchiero con un vecchio torchio e collabora con Bonichi nella realizzazione di stampe sul Candide di Voltaire per l’Editore Fògola di Torino. Spesso soggiorna per alcune settimane a Roma, a casa Bonichi e insieme lavorano per lo studio fotografico Picca. Collabora con Peluzzi e Bonichi agli affreschi nella chiesa di Ceriale e sulla facciata della chiesa di Monchiero Alto. Realizza la copertina e collabora con Bonichi all’impaginazione della rivista “PLATEA” (quindicinale tecnico-critico sui mezzi di comunicazione sociale)

1968 e seguenti

realizza alcuni manifesti per il Festival dell’Unità di Dogliani

1968

disegna e stampa la prima etichetta per la Cantina Abbona Celso e figlio di Dogliani: una cascina con davanti alcuni alberi e dei vigneti in monocolore terra di siena

1968

1968/69 8

disegna e incide su acquaforte in un numero limitato di copie un’etichetta personale per l’amica Angela Beldì (Barolo per Lina) etichetta per le Cantine del Castello di Re Carlo Alberto di Verduno (dott. Lisetta Burlotto e sorelle) con disegno della facciata del castello inserita in una fitta vegetazione, stampata in monocolore terra di siena

Gianni Gallo, “Città ideale in riva al mare”, linoleografia

1973-74

una bottiglia della Barbera Vietti con l’etichetta di Gianni Gallo viene esposta al Museo dell’Innovazione di Monaco di Baviera

1973

etichetta per un vino ligure (per un amico?), il Rosato di Ranco: un paesaggio marino, golfo, mare, piante, conchiglie

1974-75

manifesto per la Proloco di Barolo: una rosa canina rosa in campo azzurro. In collaborazione con Bonichi, Beppe Rinaldi e altri , realizza i testi e i disegni (tra cui il bicchiere con la viola) di due dépliant per l’Enoteca del Castello comunale di Barolo

1974-75

incide una acquaforte per la festa anarchica di Umanità Nova a Gragnana di Carrara

1974-1991

amicizia con Valerio Miroglio, artista di Asti 9


1975-76

presenta una serie di etichette per i vini Vietti: per la prima volta su etichette di vini appaiono una chiocciola, dei covoni di grano, della frutta secca con acini d’uva, dei fiori di rosa canina

25-gen-75

organizza una Mostra ad Alba nella Galleria La Vita dell’amico Saporito: espone una serie di incisioni, realizzate con tecniche diverse, dello stesso tema, 2 chiocciole l’una di fronte all’altra, affiancate da due cespugli di erbe ciascuno con una coccinella. In un testo di presentazione, Gianni stesso spiega le motivazioni della scelta.

1976

manifesto del 1° Maggio per la Cooperativa libraria La Torre di Alba

1976-77

modifica l’etichetta per Giorgio Scarzello di Barolo , ridisegnando un tralcio di vite con foglie e grappoli e realizzandone la xilografia

Dogliani, cascina di Ribote. La mietitura

1978

disegna e poi trasforma in xilografie le prime etichette per la Distilleria Santa Teresa-Mussotto d’Alba dei fratelli Marolo: un salice spoglio, tre salici con il nido, una vecchia lampada, un grappolo di moscato, un cespuglio di camomilla, un ramo di rosa, il martin pescatore su erbe palustri

1978-79

prime etichette per la Cantina Vajra di Vergne di Barolo: il castello e lo stemma stilizzati in monocolore terra di siena; seguiranno gli uccellini sui fili del telegrafo, il tralcio di vite e i tetti delle case del paese

1979

1979 1979

1979-80

insieme a Peluzzi e Bonichi, cartella con 3 incisioni Omaggio a Cuneo. Gianni realizza una acquaforte dal titolo “Il sogno di C. Chiapello”: un veliero che naviga tra il Fujiyama e case giapponesi a sinistra e alberi spogli a destra, sotto cui siede Carlo Chiapello di Cuneo,” il primo e vero importatore del seme bachi dal Giappone nel 1866”

etichetta per la Barbera di Domenico Clerico di Monforte: una foglia di vite verde aperta

1981

xilografia per l’etichetta del Barolo Riserva Brunate per Giuseppe Rinaldi: un cervo volante con due rose (a tre colori)

09-ott-81

mostra di disegni, incisioni e etichette presso la Ca dj’Amis di Claudia Ferraresi a La Morra: “Un designer al servizio della terra”

1982

xilografie per le confetture e la crema di castagne dell’Azienda Agrimontana di Cesare Bardini e Sandro Salvadori (Borgo San Dalmazzo): il fiore del castagno e sei frutti sul ramo con fiori e foglie (fragole, ciliegie, amarene, mirtilli, pesca e albicocca). Negli anni successivi realizza altri disegni per etichette di confetture e frutta candita e in particolare il cestino colmo di frutti e il grande albero di castagno che diventano l’immagine di riferimento dell’azienda in pubblicazioni e locandine

Gianni Gallo, Due covoni e una cavalletta, acquaforte su lastra di zinco

1982

cartella di 2 acqueforti con Claudio Bonichi per “Una rosa per la pace”

1982

marchio per “l’ostaria enoteca barbabuc” di Mara Beccaria a Novello

1982-83

etichette per la cantina Bel Colle di Verduno con piccoli grappoli gialli e viola

1983

serie di etichette per la cantina Voerzio Giacomo di La Morra con fiori di papavero e orchidee in rosso, rosa e viola

1983

logo con un ramo di felce verde per il negozio” La Felce” di Dogliani

ott-83

impostazione, testi e disegni per il dépliant de Gli Ori di Alba (di P. Marolo, G. Filiberti e A. Lo Giudice)

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assegnazione dei “Design Awards” da parte della rivista “Wine and Spirit”di Londra (vedi articolo di Cynthia Bacon) a 6 etichette di Gianni Gallo su 6 vini Vietti

1984

serie di etichette per Ca’de la Pasina di San Giacomo di Carbonera (TV) di Franco Mocellin e Roberta Einaudi: rappresentano frutti, verdure, animali e rivestono vasetti di confetture, succhi, salse, ciascuno inserito in una cornicetta

1984-88

disegna altre etichette per le grappe della Distilleria Marolo raffigurando fiori, insetti, crostacei, alberi e ne realizza molte personalizzate per diversi ristoranti ed enoteche, spesso ridisegnando e reinventando i loro marchi

1985

etichetta per il Barbaresco di Bruno Rocca: un piuma verde

acquaforte che raffigura un ponte della Val Roja in occasione dell’inaugurazione della Ferrovia Cuneo-Nizza etichetta per il Dolcetto di Teresa Fenoglio in Agosto di Dogliani: una cornicetta nera che racchiude le scritte etichetta per il Nebbiolo Piemonte della cantina Travaglini di Gattinara con una violetta colorata

GLI ANNI ‘80 1980

realizza il marchio per il Club delle Fattorie di Pienza: una corona di sei cascine collegate a forma esagonale

estate 1981

corso di grafica e mostra a Novello insieme all’amica artista Teresita Terreno

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1981-82

11


1985

la rivista Barolo & Co. diretta da Elio Archimede riproduce a maggio ’85 un disegno del 1977 “1° maggio dell’Agricoltura”; sul numero di novembre, in occasione dell’inaugurazione dell’Enoteca Regionale di Mango, viene pubblicato un disegno con un grappolo di moscato e alcune castagne

1987-89-90

etichetta con “Scena da cortile” con galline, gallo e tacchino per il Dolcetto d’Alba di Sergio Giudice e del figlio Alberto (Serralunga d’Alba); seguiranno etichette per Nebbiolo, Moscato e Barolo con una lucertola sul muro, un ghiro, un riccio, dei melograni e un gallo d’oro “Il Re”

1986

realizza i disegni che introducono ogni capitolo del libro “Dogliani - Una terra e la sua storia” dell’amico don Conterno, parroco di Dogliani

1987-88

etichette per la Cantina Del Tufo di Dogliani: due stemmi speculari di colore viola, il disegno dell’Agriturismo, un lampadario colorato in stile liberty ripieno di frutta e uva, una genziana trafitta da chiodi di garofano per il Chinato

1986

etichette per i vini di Gianni Voerzio di La Morra: fiori azzurri, rosa, rossi, viola, arancio entro una grande V

1987-88

1986

etichetta per il Gavi e il Cortese della tenuta Santa Seraffa a Gavi di Filippo Rusca: due caravelle sul mare e due giovani colombi che incrociano battaglieri le prime piume ritte sulla testa

programma per il XIV Festival Musicale Internazionale “Città di Saluzzo” e per gli Incontri Musicali con disegni di strumenti musicali e di una chitarra che racchiude uno scorcio della città

1988

marchio per l’enoteca Griva degli amici Renzo e Federica Conterno: una “griva” a colori

1988

xilografia con canneto per il Barolo Riserva Villero Vietti (“Etichette d’autore”) etichette per l’Oleificio Polla Nicolò di Loano (che viene ora gestito dal nipote Gianpaolo Provaggi): un’oliva taggiasca per l’olio, fiori, verdure ed erbe per il pesto, le salse, le composte e per le saponette

1986-7

etichette per torte di nocciole e biscotti di meliga di Giovanni Cogno di La Morra: due nocciole con due foglie, una pannocchia, un ramo di nocciole e frutti di cacao

1987

disegna alcune etichette con corone di foglie per il Barolo Vigna Riccardo e Vigna Francesco dell’azienda Rocche Costamagna di Claudia Ferraresi Locatelli a La Morra

1989

1987

etichetta per lo Chardonnay (un mazzo di spighe e fiori di campo) della cantina di Marziano ed Enrico Abbona di Dogliani

GLI ANNI ‘90

1987

etichette per i formaggi della ditta IMALPI di Demonte di Valentino Bertoldi: 3 cardi a corona, fiori di montagna, un girasole, le capre

1987 1987-88

1990

etichetta per il Dolcetto Papà Celso della cantina di Marziano Abbona: rielaborazione a colori con aggiunta di grappoli e pampini della foto in b/n di papà Celso Abbona

marchio con un picchio a colori per la Locanda del Sant’Uffizio di Beppe di Cioccaro d’Asti

1990

inizia la collaborazione con Renzo Ricca e disegna 2 uccelli e un cardo delle Alpi che saranno ricamati sugli zaini INVICTA

logo con due D e due api ed etichette per il miele di Daniele Devalle di Dogliani: fiori di acacia, di tarassaco, fiori di montagna, fiori di campo

1990

etichetta per il Dolcetto Ribote di Bruno Porro di Dogliani: la cascina di Ribote con il gelso fiorito; seguiranno altre etichette con il gelso a colori, una quercia, un cardo e alcune personalizzate per manifestazioni sportive ed eventi vari

1990-91

etichette per GLI ACETI dell’amico Cesare Giaccone, il grande cuoco di Albaretto della Torre: gli aironi

1990-91

disegna diversi logo in occasione di AZZURRISSIMA per la Spa Cervino di Mario Cravetto

1990-96

lavori vari per Renzo Ricca: etichetta personalizzata per l’Admiral’s Cup con una barca in oro (su un Dolcetto di Bruno Porro); etichette di vini (Porro e Abbona di Dogliani) con i campioni della squadra italiana di sci,Thoeni, Tomba, Belmondo, Compagnoni; etichette e marchi per regate di vela, raduni di vecchie auto, gare di sci, ...

1991

etichette personalizzate per il Comune di Dogliani e per la Bottega del Dolcetto: la cupola della chiesa parrocchiale che si specchia in una gerla colma di grappoli, la stessa cupola e un uccellino “re cit” su un ramo fiorito disegnati con i fiammiferi come in un antico gioco di bambini per il premio “Lo zolfanello d’oro”

1991

in occasione del Centenario della banda comunale di Dogliani “Il Risveglio” etichetta personalizzata con tre strumenti musicali per un Dolcetto d.o.c.

1991

etichette per i vini di Tommaso Gianolio di Fossano: due putti che spremono l’uva, un mietitore al lavoro, un mietitore che si abbevera

1991

etichetta per il Dolcetto Ca’Viola di Montelupo dell’enologo Beppe Caviola : i lupi sulla collina

1992

in occasione della 53^ Sagra del Dolcetto di Dogliani realizza una cartolina con un grappolo di colore violetto che ha all’interno dei suoi acini i disegni stilizzati in prospettiva “a occhio di pesce” di monumenti ed edifici locali

1992

disegna un’etichetta personalizzata per Stefania Belmondo in occasione della vittoria alle Olimpiadi invernali di Albertville

1992

etichetta per il Frantoio Venturino Bartolomeo di Diano San Pietro (IM) con una girandola di foglie d’ulivo verdi

Gianni Gallo, Nocciolo in fiore con uccellini, disegno acquerellato

12

2010

13


1992-93

etichette per la Grapperia Sant’Anna (Santa Vittoria d’Alba) di Ugo Marolo: fiori e frutti stilizzati stampati con intensi colori rossi, arancio, viola

dal 1996 e fino al 2011

offre molte volte i suoi disegni all’amico Beppe Martino, direttore del giornale locale “Dogliani e la sua Langa”, per la pubblicazione in prima pagina o nelle pagine centrali

1992-93

realizza alcuni marchi ed etichette con diversi tipi di fiori per la ditta DIVAL (doposci e scarpe sportive) di Caerano San Marco (TV)

1997-98

manifesto con la scritta “Non fare il fringuello - Attento dove metti il becco - Riflessioni sul fumo” per il dott. Claudio Blengini, il suo medico di Dogliani: un fringuello avvolto in enormi foglie di tabacco

1994

etichette per la linea L’ESTETICA e per la linea sportiva Oscar di creme e prodotti per il corpo di Andreina Abbona Sobrero: fiori, essenze, oggetti sportivi a colori

1998

10 xilografie con fiori delle vallate alpine e luoghi doglianesi per il libro di poesie MEIRAR del parroco don Conterno

1994

etichetta per i grissini della Panetteria F.lli Cravero di Barolo: un grande mazzo di spighe e fiordalisi; per le torte e i biscotti, una pannocchia, una spiga e un ciuffo di nocciole

1998

scatola per vini “6 colpi d’ala” con uccelli in negativo bianco su fondo viola e 6 etichette con uccelli diversi per 6 diversi vini di Marziano Abbona

1994

disegna per il logo dell’Istituto tecnico commerciale “A.Roccati” di Carmagnola un’ellisse da cui escono 4 vecchi pennini e una libellula per le magliette della squadra di pallavolo femminile della scuola

1994-95

etichette con fiori per l’azienda La Fusina di Luigi Abbona a San Luigi, fraz. di Dogliani

1995

realizza la xilografia di un vecchio pince - nez con catenella e due spade che attraversano le lenti che viene stampata sugli astucci in cartoncino bianco per l’ Ottica dell’amico Paolo Spada

1995 e seguenti

disegni di grandi salmoni su carta bianca e da pacco per confezionare il salmone selvaggio scozzese importato dall’amico Albino Barberis; marchi ed etichette per gelati italiani prodotti a Londra

1995-96

etichetta per il Dolcetto Bric Sur Pian di Mario Devalle di Dogliani con un fungo su un vecchio tronco; ne seguiranno altre con rose in bianco e nero e a colori e una testa di cavalla

Gianni Gallo, Picchio dorso bianco, disegno 2009 14

GLI ANNI 2000 1999-2002

realizza una serie di disegni del passero su una spiga che diventa il logo della Cantina di Marziano Abbona e verrà anche realizzato in xilografia

2000

disegna nuovamente per la Distilleria Santa Teresa di Paolo Marolo, in bianco e nero, il martin pescatore su un ramo di rosa canina: sulle grappe invecchiate 9, 12, 15, 20 anni propone in successione un ramo carico di boccioli, un ramo con boccioli e qualche fiore, uno con fiori e qualche bacca e infine un ramo con sole bacche

2001

disegna il logo per il Ristorante dei Cacciatori dell’amico Tadato Nagata di Kioto: un gufo in bianco e nero appollaiato sul ramo

2001

manifesto a colori verde, giallo, rosso e marrone “I fiori i Bach” per la nipote Sara Rubatto

2001

acquaforte con un grande papavero da oppio in occasione e a sostegno del Convegno sul trattamento del dolore organizzato a Dogliani dal dott. Blengini

2001

logo per la salumeria dell’amico Mariano Occelli di Dogliani: un maialino rosa davanti ad una pannocchia “otto file”

2002

etichetta per l’atleta Marco Olmo in occasione della sua partecipazione alla Marathon des Sables

2004

manifesto a colori “Il treno dei bimbi” che richiama alla memoria il trenino della Ferrero degli anni ‘50, allegato al volume “La pubblicità mette le ruote” di Paolo Fissore a cura di Enrico Sanna, edito dall’Automobile Club di Cuneo

2006

etichetta per l’Arneis di Massimo Penna di Madonna di Como (Alba): un ramo di rose in stampa a mezza tinta grigia inscritta in un cerchio intorno al quale ruotano le scritte in oro

2006-09-10

serie di disegni per l’amico Cesare Giaccone per etichettare vari prodotti, dalle torte di nocciola al Cristalerbe: fiori, erbe, bonsai, macchinine e treni

dicembre 2006

mostra di disegni, acqueforti ed etichette al Caffè San Marco di Trieste organizzata dagli amici Franco Fiorina, Cesare Giaccone e Pierluigi Zamò

2007

6 xilografie “I frutti perduti” (azzeruoli, nespole, giuggiole, corbezzoli, sorbi, cornioli) per il libro di poesie di Alfonso Cappa “Ritorno alla natura”

maggio 2008

libro con testi e 29 stampe da disegni a china acquarellati “Uccelli di Langa” per la Cantina di Marziano Abbona e Mostra dei disegni al Museo degli ex-voto di Dogliani

2008

disegna il marchio personalizzato con il caduceo avvolto tra i serpenti del dio Mercurio, simbolo dei farmacisti, per la farmacia del dott. Paolo Pomari di San Martino Buon Albergo (VR) 15


ottobre 2009

mostra di disegni, incisioni ed etichette a Loano organizzata da Gianpaolo e Manuela Provaggi dell’Oleificio Polla Nicolò “Gianni Gallo e Frantoio Polla: 20 anni di sogno insieme”

2010

etichette per la cantina Baudana a Serralunga d’Alba di Giuseppe Vajra: tre fiori e un drago verde

novembre 2010

mostra di acqueforti in vendita a sostegno dell’associazione “Acqua per la vita” per la costruzione di pozzi in Eritrea, presso la Cantina di Aldo Vajra a Vergne di Barolo e presentazione della pubblicazione “365 giorni dopo… Diario di una mostra unica”

luglio 1977 a ribote enrico sanna

Questo lungo elenco di lavori che, con l’aiuto dei molti amici di Gianni, ho ordinato e catalogato, rappresenta solo una parte della sua produzione: sono infatti i disegni e le incisioni offerti o richiesti da produttori, enti e associazioni lungo l’arco di oltre quarant’anni, realizzati per la maggior parte per amicizia e simpatia, per curiosità e sfida con sé stesso, rifiutando qualunque compenso, al massimo accettando uno scambio di prodotti da gustare e commentare insieme in lunghe chiacchierate nella cucina della casa di Dogliani. Eventuali omissioni non sono volute. Ma dobbiamo aggiungere ancora alcune migliaia di disegni, un centinaio di lastre per acqueforti, alcune decine di tavolette di legno incise per xilografie, moltissimi schizzi…: di questi è impossibile avere documentazione completa e cronologia precisa, sono sparsi nelle case degli amici, appesi alle pareti, custoditi in cartelline e cassetti, fissati nella memoria. Ed è bello che sia così. Silvia Sala

Gianni Gallo, un sorriso enigmatico A Ribote negli anni Settanta “Il Re Nudo”, dal giornale di classe della scuola media statale di Dogliani sotto la guida di Enrico Sanna e Domenico Milano 1971

Per molti anni dimora estiva della famiglia Gallo, la cascina di Ribote fu spesso rifugio di “perseguitati dalla giustizia”, fin dai tempi in cui il padre di Gianni, Ernesto, antifascista perché naturalmente contrario ad ogni attentato alla libertà personale, permise, nel 1943, ad alcuni colà rifugiati di trovare scampo dalle persecuzioni dei nazifascisti. Pratica ripresa da Gianni dalla metà degli anni ‘60 del secolo scorso e almeno per tutti gli anni ‘70. Tra i rifugiati di quel tempo sono stati citati anche noti personaggi che non è il caso qui di nominare, in assenza di precise testimonianze. E toccò anche a me, nell’estate del 1977, anche se per me si trattò piuttosto di un periodo di convalescenza da un presunto male, più dell’anima che delle ossa bastonate da troppo zelanti tutori dell’ordine. Convalescenza che trascorsi con la mia famiglia quasi al completo, tra il bosco ancora fitto e le vigne di Dolcetto che Ernesto Gallo tutti gli anni trasformava in nettare dai profumi delicati e dall’inconfondibile sapore. Spesso Gianni da Dogliani saliva a Ribote, atteso dalla mia compagna e dal piccolo Simon e in quelle sedute nel prato, testimoniate da una fotografia che conservo e che non sbiadisce mai, con voce pacata che stupiva chi aveva conosciuto la roboante irruenza delle sue parole nella mitica cucina di Dogliani, tra aneddoti in cui trasparivano misurate porzioni di libero pensiero, ci impartiva lezioni spontanee di storia naturale, la versione letteraria dei disegni e delle straordinarie incisioni in cui descriveva la sua visione del mondo. Fu qui che il piccolo Simon, che ancora non aveva compiuto i tre anni, conobbe il gracidare delle rane nello stagno e, al calare della notte, il guaito della volpe e il grido della civetta.

Enrico Sanna 16

17


costigliole d’asti - castello asinari - verasis

dal 3 agosto al 22 settembre

erich keller: dalla germania per provare la serenità claudio cerrato

Superato questo primo impatto l’artista si innamorò della tranquillità del paese, delle colline che vedeva dalle finestre della sua abitazione e, soprattutto, della luce che lo circondava. Solitario, chiuso nel suo studio accompagnato da un sottofondo musicale (Mozart, Beethovan e Haydin erano i suoi compagni di lavoro) continuò a dipingere e a sviluppare la sua ricerca. Rammenta il figlio Markus nello scritto sul catalogo della mostra di Costigliole: “Ricordo mio padre come una sorta di “scienziato” sempre teso a ricercare la perfezione nelle varie tecniche di disegno, pittura e stampa. Riusciva a lavorare per ore su una lastra in rame con grande passione e concentrazione e ogni volta realizzava diversi fogli di prova prima che il risultato fosse di suo gusto.” La sua meticolosa precisione lo portò a ideare una nuova tecnica di stampa che battezzò “metodo sandwich” Questa gli permetteva di far combaciare alla perfezione le lastre incise di diversi colori senza la minima sbavatura, difficoltà aumentata dal tipo di carta da lui usata, artigianale con bordi grossolani. Maggiore libertà si concedeva nel disegno. Spesso sul foglio bianco pressava forme irregolari in linoleum, ottenendo in questo modo quelle che lui definiva le “impressioni in rilievo”. Interveniva quindi con lapis neri dalla punta molto grossa tracciando segni gestuali, messaggi o sogni. A queste opere, in particolare, nel contesto della mostra, è dedicata un’intera sala. L’allestimento ha cercato di far continuare il segno/disegno delle opere con le grandi crepe delle pareti (eredità della precedente drammatica gestione del sito) che proseguono l’opera dell’artista.

Erich Keller, Senza Titolo, acquarello con incisione e matita su carta a mano Lafranca (Locarno), (83x46) cm 1996

Erich Keller, Senza Titolo, acquarello con incisione e matita su carta a mano Lafranca (Locarno), (90x63) cm

Erich Keller, Senza Titolo, tempera acrilica ed oro in foglia-tela di lino su cartone, (43x43)cm

Dopo la mostra di sculture lignee di Eugenio Guglielminetti, l’esposizione delle opere di Cristina Saimandi (“Cacciati dall’Eden”) ora le sale del piano nobile del castello di Costigliole d’Asti ospitano disegni, dipinti e incisioni di Erich Keller. Tedesco di Costanza, dopo aver girato l’Italia per alcuni anni, l’artista arrivò a Costigliole nel 1963 e qui rimase fino alla sua morte avvenuta nel 2010. La sua lunga vicenda italiana fu determinata dall’incontro con Clizia - Mario Giani – avvenuto nella Foresta Nera nell’atelier di Richard Bampi, grande ceramista e massimo esponente, in Europa, della tecnica Raku (consistente nella cottura del manufatto a oltre 1200° di temperatura). L’amicizia ed il sodalizio artistico con l’artista piemontese convinsero Keller a raggiungerlo in Italia, pro86

1995

1991

prio a Costigliole, dove nel frattempo Clizia aveva aperto nel castello una scuola di ceramica. Divertente, in merito, il racconto che l’artista tedesco faceva del suo arrivo nel paese del Monferrato. Lui e la moglie, diceva, arrivarono in treno alla stazione di Motta di Costigliole da Torino. In giro non vi era anima viva, in compenso nel tratto di un centinaio di metri incontrarono tre cani, tutti e tre zoppi con solo tre zampe a testa, nove in totale. Questo fu il primo impatto con il luogo che sarebbe diventato la sua residenza definitiva. Ancora oggi la vedova Wiltrud, a chi osa dire che probabilmente ero lo stesso cane che gironzolando li aveva incrociati tre volte ribadisce asserendo che erano di tre colori diversi e che quindi erano tre animali distinti. 87


erick keller è nato nel 1919 a Costanza, città della Germania meridionale di origini romane (fondata dall’imperatore Costanzo II) affacciata sul lago omonimo vicino al confine svizzero e famosa per intense vicende, trattati, paci e concilii storici. La guerra (1939 - 1945) lo segna in modo profondo nel fisico e nel morale e lo restituisce a un mondo civile distrutto e annichilito che lui non vuole convivere. L’incontro con due grandi maestri Julius Bissier (Friburgo 1893 - Ascona 1965) e Richard Bambi (S. Paolo 1896 - Kdnem 1965) segna il suo avvio alla pittura e alla ceramica. Viaggia in Francia, Svizzera, Italia. In ogni caso Keller negli anni sessanta, in età matura si stabilisce con la moglie a Costigliole d’Asti. Espone con grande successo di pubblico e di critica a Torino, Roma, Milano. Conosce e frequenta durante il suo soggiorno italiano, il critico Albino Galvano, Franco Russoli ed Aldo Passoni… Risale a questo periodo l’acquisizione di una sua tempera da parte della Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino. Keller continua la sua ricerca sperimentando le tecniche dell’incisione su piombo, ed il mezzotinto… Dalla ceramica al mosaico; poi le tempere, gli inchiostri a penna e a pennello che rievocano gli ideogrammi giapponesi, gli acquarelli, i monotipi su carta di riso e su seta, le incisioni, sono alcune delle tappe dell’evoluzione artistica di Keller.

Erich Keller, Senza Titolo, acquarello con incisione e matita su carta a mano Lafranca (Locarno), (83x46) cm 1996

Erich Keller, incisione su lastra di piombo con punzoni a secco senza acido-su carta Lafranca (Locarno), (38x35) cm 1975

Erich Keller, Senza Titolo, acquarello con incisione e matita su carta a mano Lafranca (Locarno), (35x28) cm 1982 Erich Keller, Senza Titolo, mezzo tinto-oro in foglia ed incisione a punta secca su carta a mano Lafranca (Locarno), (23x29) cm

Erich Keller, Senza Titolo, acquarello con incisione e matita su carta a mano Lafranca (Locarno), (64x64) cm

1985

1994

Keller amava il formato rotondo, le sue carte, sia nell’incisione che nel dipinto e nel disegno, hanno molto spesso questa caratteristica. L’armonia compositiva e l’equilibrio che permette questa dimensione aveva per lui un che di magico, sovente citava il tondo italiano ricordando Michelangelo ed altri artisti che a lungo aveva studiato. La luminosità delle sue incisioni a mezzo tinto (o manière noir) e la libertà del segno nei disegni sono la ricerca di “altro”, come dice il figlio Markus, una reazione alle esperienze vissute, alla guerra che era stato costretto a combattere, alla tragica Campagna di Russia. Nel verde delle colline l’artista era venuto a cercare, ed evidentemente aveva trovato, pace e tranquillità che potessero far dimenticare o, quanto meno, attenuare il ricordo di quelle distruzioni e di quell’odio profondo. Erich Keller era un uomo dolce e silenzioso, un vero artista, un grande e meticoloso ricercatore, uno dei massimi rappresentanti di quelle persone schive a cui non è ancora stato dato il giusto riconoscimento per quanto fatto. Claudio Cerrato 88

89


Dà inizio al sodalizio con Clizia (Mario Giani). Assieme a Costigliole d’Asti lavorano sotto l’egida del comune ad una scuola di ceramica localizzata nel castello, e a gallerie d’arte nell’agenzia Asinari, ad Asti, a Canelli e stamperie di grafica a incentivo delle Edizioni Del Lanzello. Si susseguono le mostre in Italia e all’estero. Nascono e si consolidano nuove relazioni e collaborazioni quali quella con il Goethe Institut ed il gruppo Edizioni La franca di Locarno di cui Keller entra a far parte nel 1974. Nel 1981 inizia la collaborazione con Pierbattista Nebiolo, inizia ad incidere per lui nelle “Edizioni del Lanzello” che vedono anche l’opera di artisti come Maccari, Bartolini, Vanzi, Calandri. Keller nel gruppo si pone come tenace equilibratore senza sussulti imprevedibili ma che è anche il senso della sua attività creativa, metodica ma risolutiva di un atteggiamento e di uno stile. Muore a Costigliole d’Asti il 5 aprile 2010. In riferimento alla memoria sua, di Clizia e di Nebiolo e del loro variato operare sono oggi forti le sollecitazioni perché siano rimessi in funzione all’interno del castello i laboratori della scuola ceramica, la stamperia e la scuola di disegno e incisione.

porti2

8-09-2010

9:28

Pagina 77

MAGNIN LITTÉRAIRE

● 7 ● Settembre N°Supplemento 14 • Supplemento a “Porti di Magnin” • Ottobre 2010 2013 a “Porti di Magnin” N°72N°79-80

ISSN 1723-6762 ISSN 1723-6762

MAGNIN LITTÉRAIRE

© Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, Città di Castello – by SIAE 2013

POESIA ISSN DEL 1723-6762 CINQUECENTO Supplemento a “Porti di Magnin” N°72 ● 7 ● Settembre 2010 LE GARE DI BELLEZZA E IL MITO DI PARIDE. GIORGIO BARBERI SQUAROTTI IL PREMIO “OPERA CITTÀ DI MONDOVÌ” A MIRELLA FRENI POESIA DEL CINQUECENTO APPUNTI SULLE VOCI LIRICHE MONREGALESI

LE GARE DI BELLEZZA E IL MITO DI PARIDE. GIORGIO BARBERI SQUAROTTI IL PREMIO “OPERA CITTÀ DI MONDOVÌ” A MIRELLA FRENI APPUNTI SULLE VOCI LIRICHE MONREGALESI

Red. Erich Keller al lavoro nel suo studio

Erich Keller, Senza Titolo, pagina della cassetta in ottone con 11 mezzotinto su carta fatta a mano Lafranca (Locarno), (12x8) cm 1985

Erich Keller, Senza Titolo, pagina della cassetta in ottone con 11 mezzotinto su carta fatta a mano Lafranca (Locarno), (9x8) cm 1985

la buriana creativa di burri e le sue fondamenta - romano manescalchi storia e immagini di eroine e demoni femminili - antonello catani Lucas Cranak il vecchio: Il Giudizio di Paride nel dipinto del Paul Rubens: Il Giudizio di Paride del 1638-39 oggi al Lucas al Cranak il vecchio: IlMuseum Giudizio di Paride nel dipinto del Paul Museo Rubens: Il Giudizio di del di 1638-39 oggi (particolare) al 1528 Metropolitan New York (particolare) Nazionale delParide Prado Madrid

il trentennale del premio pavese 1528 al Metropolitan Museum di New York (particolare) Museo Nazionale del Prado giovanna romanelli

di Madrid (particolare)

CON IL PATROCINIO:

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la buriana creativa di burri e le sue fondamenta1 romano manescalchi

Tutte le immagini relative al maestro Alberto Burri sono coperte da Copyright © Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, Città di Castello – by SIAE 2013

Qui trovò anche degli ottimi professori che seppero entusiasmarlo: particolarmente, per il greco, don Aguinaldo Rossi, che curava edizioni di classici per La Nuova Italia (e, a sostegno, un dottissimo sacerdote, amico di famiglia, don Zeffiro Godioli – i due tra di loro parlavano in greco-); per italiano la signora Mariangela Collesi in Pasqui, (che gli fece

amare gli autori italiani e lo aprì alle letterature moderne).4 Conseguì la maturità nel 1934, ancora presso il Liceo Mariotti di Perugia, con un brillante 9 in greco,5 dimostrandosi padrone di quella cultura che è «la cultura che bisogna avere. Il resto non esiste» (S. Zorzi, Parola di Burri, Allemandi, Torino, 1995, p. 68). 6 Subito dopo si arruolò nella guerra

Alberto Burri, Grande Legno 2 [1958], legno, acrilico su cellotex, 200x180 cm.

Alberto Burri, Catrame [1949], catrame, olio, pietra pomice su tela, 57,5x64,5 cm.

Alberto Burri nasce nel 1915 (12 marzo), a Città di Castello, Perugia, dove compie gli studi elementari e medi. Frequenta il Ginnasio al Collegio Serafini di Città di Castello, Istituto privato, e consegue l’idoneità al liceo presso il Liceo Mariotti di Perugia nel 1930, a 15 anni. Viene iscritto al Liceo Classico di Arezzo, da dove viene ritirato il secondo anno per i pessimi risultati ed un “quattro” in condotta con una sospensione

di una settimana, dovuto alle numerose assenze (per correre dietro al pallone e, mi si dice, per andare a guardare le opere di Piero della Francesca).2 Perde l’anno scolastico 1931-32. Nell’anno scolastico 1932-33 è di nuovo al “Serafini”, dove c’era un Liceo privato con anche una squadra di calcio, con la quale disputò un campionato di prima divisione, centrattacco.3

1 Ringrazio preliminarmente la Fondazione Burri per il sostegno datomi ed in modo particolare la Direttrice dei Musei, dott.ssa Chiara Sarteanesi: le lunghe conversazioni che ho avuto con Lei mi hanno permesso non solo di approfondire la materia, ma anche di affinare la mia percezione delle opere dell’Artista.

4 Per queste inedite precisazioni ringrazio la signora prof.ssa Paola Pillitu, purtroppo prematuramente scomparsa, che non solo mi ha permesso di consultare l’archivio del Collegio Serafini non ancora aperto al pubblico, ma mi ha anche dato informazioni basate sui suoi personali ricordi di tifernate. Insieme ringrazio l’arch. P. Zangarelli ed il dottor L. Arcaleni che hanno con me esplorato il detto archivio.

2 Lo ricorda lo stesso Burri in S. Zorzi, Parola di Burri, Allemandi, Torino, 1995, p. 69: «…Durante il secondo anno non andavo mai a scuola e marinavo per andare a giocare al calcio, poi mi scrivevo la giustificazione e così arrivò il 4 in condotta e la settimana di sospensione». Nessuna più testimonianza nell’Archivio del detto Liceo, dove sono andati perduti proprio i Registri degli anni 1929-30 e 1930-31.

5 La votazione finale di quell’esame risulta ancora dai documenti dell’archivio del Liceo Mariotti, che ringrazio (in specie nelle persone del prof. Andrea Serio e dell’archivista Massimo Locci), per avermene fornite le relative fotocopie. L’esame di Greco è stato condotto dal grande studioso di lettere classiche Ettore Paratore, che gli ha attribuito il nove. Crediamo che anche l’incontro tra il giovinetto Burri, ardente di ideali, ed il grande umanista può essere stato non privo di significato.

3 Ibidem. 92

93


Alberto Burri, Nero e Oro 10 [1992-93], cellotex, acrilico, oro in foglia su cellotex, 171,5x243,5 cm.

Alberto Burri, NO 88 da ciclo Non ama il nero, 1988, acrilico su cellotex, 150x220 cm.

d’Abissinia (1935, Ambaradan: falsificò la data di nascita non avendo ancora i 21 anni necessari), al seguito delle note di “Faccetta nera…”. Pochi mesi. Tornato in Italia, si iscrive a medicina e si laurea in malattie tropicali (1940), con l’evidente intenzione di tornare in Africa, dove appunto a tornare riesce, come medico militare, nel marzo 1943 (dopo una parentesi di guerra nei Balcani): in Libia questa volta, come desiderava. Fatto prigioniero l’8 maggio (dopo la disfatta di El Alamein) verrà deportato ad Hereford, un campo di prigionia texano presso Amarillo, il campo degli “irriducibili” (criminal camp). Qui, essendogli impedito di fare il medico, divenne pittore.

Embeh! Traccia con quello sulla roccia la sua rappresentazione. Per questo l’opera vale di meno di quella di un pittore moderno che ha a disposizione colori pennelli tela? Giudicano male coloro che nei dipinti delle grotte di Altamura vedono dei capolavori? Questa mentalità idealistica fu assorbita inconsciamente, per contatto, in primis, in seguito anche con letture dirette di testi filosofici. E non poco gli giovò l’educazione della madre, signora Carolina Torreggiani Burri, maestra elementare che faceva defluire in lui l’estetica di Giovanni Gentile attraverso la metodologia di Lombardo Radice; e che la potenziava con la pedagogia della Montessori, di cui fu tra le prime nella zona a studiare il metodo. Il tutto spingeva verso il libero, rispettoso ed autonomo sviluppo del soggetto, da non “modellare” dall’esterno, ma da “incanalare” sfruttando le inclinazioni naturali rivelate dal fanciullo. Il succo di tutto questo: se l’opera d’arte è ciò che crea il nostro cervello (e non i materiali e le tecniche con cui lo realizziamo) … qualsiasi materiale può andar bene, muffe, catrami, sacchi ecc. Così Burri stesso: «…io ho sempre usato il materiale che avevo sottomano, consapevole del fatto che con tutto potevo esprimere la mia arte».9 Continua lo Zorzi: «Vuoi proprio dire che hai usato il sacco piuttosto che il ferro o il legno perché li avevi “sottomano”?. Ma certo! Erano i materiali a me più vicini. Al di là delle infinite associazioni che può fare il cervello umano, io rivendico la “necessi-

Iniziò con il figurativo. Passato all’astratto (1949) ordinò di distruggere tutti i quadri precedenti (“Ordinò di distruggere”, dico, e non “Distrusse”) per essere soltanto – e meglio sottolineare, incidere direi – il pittore di una straordinaria rivoluzione: il pittore dei “Sacchi”, delle “Muffe”, dei “Catrami” ecc. L’idealismo7 può spiegare tutto della sua opera. L’opera d’arte è tutta in un fatto mentale: nasce e muore nella nostra testa. Per dire il concetto Croce si rifà allo Schleiermacher: «Das innere Bild ist das eigentliche Kunstwerk / È l’immagine che nasce nella nostra testa la vera opera d’arte».8 Fatto secondario l’estrinsecazione. Un primitivo ha soltanto un sasso appuntito.

6 Gran lettore a 360 gradi, esperto in Lettere tanto da meritare la “Laurea honoris causa” proprio in Lettere (Università di Glasgow, 1990), amò soprattutto le letterature classiche, di cui possedeva intere collane (I testi della Fondazione Lorenzo Valla editi da Mondadori e, per le altre letterature, “I Meridiani” sempre di Mondadori: «…Burri era uomo di cultura classica, svariata poi nella quotidiana assiduità delle letture. Una cultura che il suo laconismo lasciava appena trasparire… Era comunque di letture anche impervie e insolite: come sono le pagine di Ezra Pound, di cui frequentava i Cantos, un’opera intorno alla quale gli piaceva disputare con qualcuno che la conosceva bene», Gino Agnese, Officina di Maggio, in P. Palumbo, Burri. Una vita, Mondadori Electa, 2007, p. 170. Palumbo riporta anche questa testimonianza: «Secondo la classicista Monica Centanni, docente dell’Università IUAV di Venezia, esiste una relazione “rintracciabile” tra l’opera di Burri e l’amore che l’artista riservò al greco antico. “Conoscere il greco, leggerlo per tutta la vita come fece Burri”, sostiene la studiosa, “significa cercare specialmente nella poesia greca un modo di dire il mondo. L’opera di Burri ‘pensa greco’». P. Palumbo, op. cit., p. 18. Ed ancora: «Anacreonte, Saffo, Alceo, Pindaro, ripresentati nelle nuove edizioni, non mancarono mai nella sua biblioteca» (Ibidem). Il libraio Paci mi dice che nella sua libreria Burri aveva un posto di lettura, dove passava lunghe ore, per leggere e valutare gli acquisti. Testimonianza della sua cultura sono anche il ciclo dedicato a Saffo - Istituto Italiano di Cultura, Atene, Perielio:Burri-Saffo, maggio-giugno 1990 (a c. di G. Serafini- ed il ciclo Il Polittico di Atene. Architetture con cactus, 11 maggio- 30 giugno (a c. di G. Serafini), esposto all’ Ethnikí Pinakothìki - Mouseio Alexandrou Soutzou, Atene e successivamente: Istituto Italiano di Cultura, Madrid, 30 nov.-10 dicembre; ed altri cicli di chiara derivazione letteraria: 1) Burri, Il Cellotex ha un cuore antico, Bologna, Arte Fiera, 27-31 genn., 2005 (mostra e catalogo di G. Serafini), poi Galerie Sapone, Nizza, Petruzzi Editore, Città di Castello. Tutta l’arte di Burri “ha un cuore antico” e chiaro è il richiamo a Carlo Levi (il romanzo Il futuro ha un cuore antico); 2) Burri, Viaggio al termine della materia, Tornabuoni Arte, Firenze, 12 mag.-20 lug. 2005, (a c. di G. Serafini), F. Motta, Milano, dove io vedo Il cantico del gallo silvestre di Leopardi; ecc. 7 Di sfuggita lo nota anche lo Zorzi: «…a diciannove anni Alberto…. Già rivela… tutto il suo carattere, il suo idealismo e il suo coraggio…», S. Zorzi, op.cit., p. 108. Questo in verità veniva detto per essersi il pittore arruolato volontario per la guerra d’Abissinia: ma questo “idealismo pratico” era direttamente dipendente da quello “culturale”, da tutta un’atmosfera che si respirava nell’aria. 94

tà” di utilizzare il materiale. Anche in prigionia, quando mancavano i colori, se mancava il bianco si utilizzava il dentifricio. E allora? Io faccio quello che mi pare, che mi torna comodo e mi risolve il problema».10 Ecco come nascono i “Catrami”, le “Muffe”, i “Sacchi”, che erano, per Burri, niente altro che “colori”: «La mia è una visione pittorica, attraverso un mezzo visivo anziché un mezzo letterario o musicale, della vita […] La pittura è pittura, si spiega da sé, altrimenti è come tornare indietro di migliaia di anni ai caratteri cuneiformi, ai Sumeri, quando è necessario spiegare di che si tratta. Le mie immagini, perché è di immagini che si tratta, sono un equivalente della parola».11 Tutto diviene più economico ed efficace. La stravaganza non è di chi usa nuovi materiali per rappresentare quello che ha in testa (che in testa qualcosa ce lo ha). La stravaganza, l’errore, è di chi crede che la pittura sia soltanto nei metodi e nei materiali tradizionali, nella “scuola”: e che chi non abbia frequentato la “scuola” ed assunto i suoi strumenti non abbia diritto ad essere artista. Non è vero che negli altri la pittura finge la materia ed in Burri la materia finge la pittura. In realtà non cambia nulla: dai cavernicoli a Burri l’atto creativo è sempre lo stesso. Burri rappresenta i suoi «impulsi psichici che premono dal profondo»,12 come hanno fatto sempre tutti. Bene Calvesi: «La novità… fu tutta nel dare l’oggetto invece che la sua immagine».13 Ma così operano, nel primigenio

8 B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, 1902, XI° 1965, p. 352. 9 S. Zorzi, op. cit, p. 89. 10 Ibidem. 11 Ivi, p. 81. 12 M. Calvesi, Percorso di Burri, in “Fondazione Burri”, introduzione elettronica. 95


Alberto Burri, Combustione, carta, acrilico, vinile, combustione su carta, 1964; 32,7x20,5 cm.; eseguita per il libro “Dante Alighieri, Rime”, MXLXV, Toninelli Arte Moderna, Milano, 25 esemplari riservati, Stamperia Alberto Tallone Alpignano a cura di Francesco Flora

Alberto Burri, Combustione Omaggio a Ungaretti, 1968, acquaforte e acquatinta, 29x19,5 cm., catalogo “Burri Grafica Opera Completa” pag. 47

«spontaneo e naturale gesto creativo»14 i primitivi e i bambini che le loro opere d’arte le costruiscono con i sassi, gli stecchi e… tutto ciò che capita loro per le mani, impietosamente piegato e costretto a divenire il correlativo oggettivo di ciò che hanno in testa. La sua formazione culturale fu vastissima ed approfondita da nutritissime letture: cultura classica e moderna, come detto ed a guidare Palazzo Albizzini Burri ha voluto un professore di Lettere della Sapienza (Maurizio Calvesi); 2) volle toccare con mano i miti della pittura novecentesca, andando direttamente in quell’Africa tanto ammirata dalla cultura europea (che in genere però si limitava a visite museali); 3) conobbe a fondo e sperimentò tutte le tendenze dell’arte moderna, ricavandone pochissimo e coprendole spesso con aperto disprezzo, come il Dadaismo, la Transavanguardia ecc. (ammirò Picasso, Mirò – che conobbe e vide al lavoro a Parigi nel 1949 - Dalì, Chagall e pochi altri). Non si legò a nessuna corrente o gruppo. Noi crediamo che rimanesse “medico” e non abdicasse mai al giuramento di Ippocrate (Non sarebbe più Burri se lo avesse fatto), nonostante le numerose attestazioni da lui fatte di essere soltanto “pittore”, affermazioni che si possono spiegare così: 1) una ragione deontologica per cui il medico deve nascondere quanto più può il suo lavoro per non creare obblighi paralizzanti nel beneficato; 2) per una ragione strategica per cui, dichiarandosi tale, nessuno avrebbe accettato di essere curato

dalla sua pittura. Anche i tragici greci – i suoi tragici greci certamente presi a modello – operavano una “catarsi” (Aristotile) e quindi curavano i mali dell’anima (e per conseguenza quelli del corpo), ma certamente mai si dichiararono “medici”. Fatta la rappresentazione (e curati quindi gli spettatori) si poteva dire loro: «De te fabula narratur». Ed a quel punto nessuno poteva più replicare; 3) per un naturale riserbo, per difendere dalla curiosità le sue cose più segrete, di cui ciascuno è geloso, se ha rispetto di sé e rifiuta di prostituirsi al pubblico. Come Leopardi –come lo Zorzi «cito il Leopardi […] per la dichiarata passione che Burri aveva per le sue opere»15 - rifiutava collegamenti tra il suo pessimismo e la sua salute, che tutto avrebbero banalizzato, così Burri rifiutava i collegamenti tra la sua pittura e gli shock che la guerra non poteva non avergli provocato. Ricopriva tutto con quella che un grande scrittore chiamava “la dissimulazione onesta” (Torquato Accetto) con cui ciascuno ha diritto di non lasciare in pasto a chiacchiere mondane la macerazione che gli ha consentito le sue conquiste. Con altrettanta determinazione nascondeva la sua grandissima cultura. Di certe cose si può parlare solo con quello che Dante chiamava “il linguaggio degli angeli”, cioè senza parole, parole che “Iddio ci ha dato perché si possa nascondere i nostri pensieri”, come diceva Stendhal (altra non improbabile lettura del Nostro): se uno capisce, bene: potrà comportarsi, anche parlando, in modo rispettoso; e se uno non capisce, si

Alberto Burri, Metamorfotex 9 [1991], acrilico su cellotex applicato su compensato, 242x362 cm.

occupi d’altro. E fu intellettuale organico, ma… alla greca, come Eschilo, Sofocle ecc., cioè in modo assolutamente indipendente da partiti, ideologie, ecc., solitario orso, ultimamente ritiratosi a vivere in una residenza inaccessibile ai normali mezzi di comunicazione, a Case Nuove di Morra, sopra Città di Castello, – «un nido d’aquila»16 - a cui si arriva soltanto con fuoristrada ben attrezzati. Produceva arte non per arricchirsi – lui che, potendo, riacquistava i quadri che era stato costretto a vendere – ma per la polis, cui infine ha donato tutta la sua produzione: per aiutare la sua polis – materialmente Città di Castello dove ha i suoi musei, ma polis divenuta oggi il “villaggio globale” – a liberarsi dalle nuove forme di schiavismo

e di dipendenza indotte dalla nostra vita moderna, dalla sua dishumanitas. Così lui: «Io non voglio essere ricco. Non saprei davvero cosa farmene, io posso vivere tranquillamente così. Ho sempre avuto tutto quello che pressappoco mi ci voleva: sono potuto andare in America, ho girato, ho avuto studi ampi e luminosi. Sono soddisfattissimo di ciò che ho avuto».17 Un intellettuale organico, alla greca. Ed era in lotta con quella critica moderna che nel suo insieme chiamerei “strutturalistica”. È parte della disumanizzazione del nostro tempo credere che un’opera d’arte possa essere fatta a pezzi e ricostruita, ambizione di tutta la critica attuale. Come se l’opera d’arte avesse qualcosa a che fare con gli ingredienti usati, con le metodologie – o “poetiche” - dei vari

Alberto Burri, Cretto nero e oro [1994], acrovinilico, oro in foglia su cellotex applicato su tela, 65,5x173 cm.

13 Idem, Burri, Il Viaggio, Sestante, Annottarsi, Città di Castello, Petruzzi, 1987, senza pagine numerate. 14 Uso, rubo, questa espressione a Fernando Fusco, uno dei disegnatori di Tex, pittore dell’area Burri e di Burri amico, da una conversazione avuta con lui. 15 S. Zorzi, op. cit., p. 109. 16 G. Carandente, Burri: ricordi di un’amicizia, 1948-1988, in P. Palumbo, op. cit., p. 164. 96

17 S. Zorzi, op. cit. p. 78. 97


Alberto burri - sestante1 romano manescalchi

Il «sestante» è uno strumento per orientarsi: «strumento per misurare angoli che consente di determinare l’altezza di un astro sull’orizzonte e la distanza angolare tra due astri, usato per rilievi topografici e idrografici, nella navigazione ecc» (De Mauro); «strumento per misurare l’altezza di un astro sull’orizzonte o la distanza angolare fra due punti della volta celeste» (Devoto). Calcolando l’altezza del sole si può avere così la latitudine, l’ora e, avendo un orologio, stabilire la longitudine ecc.: uno strumento per orientarsi, dunque, simile ad una bussola, ma di una bussola più complesso, efficiente e vantaggioso. Sul piano metaforico possono equivalersi.

Alberto Burri, Il Viaggio 1, 1979, acciaio, acrilico su telaio, 252,5x252,5 cm. Alberto Burri, Rosso Plastica, 1964, plastica, acrilico, vinavil, combustione su tela, 132,5x117,5 cm.

gruppi. Con gli stessi ingredienti ad uno la panna monta e ad un altro no.18 Scomponila in parti e rimettila insieme: non avrai beccato niente di essa, perché il tutto non è nella somma delle parti: il tutto compenetra ogni singola parte, che, per quanto minuscola, il tutto lo contiene tutto: «ogni schietta rappresentazione artistica è se stessa e l’universo (dell’artista); l’universo (dell’artista) in quella forma particolare, quella forma particolare come l’universo (dell’artista)».19 E come le “parti” non dicono nulla senza il “timbro” di chi le usa (di chi riesce con esse a far montare la panna), così, con altre “parti”, quando il “timbro” ci sia, la panna monta. È stato scritto: “Se ad Azio avesse vinto Antonio, avesse catturato Virgilio, lo avesse portato con sé, gli avesse fatto scrivere un poema in onore della gens Antonia, il poema che Virgilio avrebbe poi scritto, con altre vicende, con altri personaggi, tempi e luoghi, non ci avrebbe dato una poesia diversa da quella che Virgilio ci ha dato con l’Eneide”. Le “parti” non significano nulla, come in se stessi (per tornare a Burri) in se stessi non significano niente i materiali. Un autore vero, quando “tocca” una cosa la fa diventare sua, trasforma in oro, nell’oro poetico, tutto ciò che tocca. E ad un altro, che pur usasse gli stessi ingredienti (o gli stessi materiali, sempre per tornare a Burri), la panna potrebbe non montare, o ne verrebbe comunque una cosa diversa. Le parti non contano nulla (come i materiali). La realtà dell’opera è altrove. Ed a Burri, con tutta la sua sensibilità, tutti quei discorsi critici, che non toccavano la realtà della sua opera… ci rideva (per non dar soddisfazione), piangendoci in silenzio: «Qui non si capisce più niente. Non c’è niente da fare. Credo che nessuno riesca veramente ad accostarsi con le parole a ciò che è realmente pittura. E in più io sono così diverso dagli altri: non scrivo, non descrivo, non dò titoli che aiutino

a interpretare, non rilascio dichiarazioni di alcun tipo e perciò nessuno ci ha mai capito niente. Ma la verità è che i cosiddetti “critici d’arte” non esistono, non sono efficaci nel comunicare e quindi scrivono castronerie (miei i corsivi). Burri fa quello che gli passa per la testa: se quello che gli passa per la testa è un cosmo ordinato, bene; se è invece disordinato, non resta in piedi e va per terra. Che altro aggiungere?»;20 «Ahi, Ahi, Brandi. Poverino anche lui. Non c’è niente da fare, questa è la dimostrazione che non capivano la realtà delle cose, che parlavano ancora per simboli».21 Nessuno sembrava cercar di capire quello che voleva dire, niente del vulcano che ribolliva dentro di lui, da lui dominato, nascosto come si nascondono le cose più preziose, le conquiste più faticose, le rinunce più dolorose. Ed in proposito, pudicamente e giustamente, lui taceva. Non si danno le perle in pasto ai porci: «Sei un amico e ti voglio bene; ma non mi chiedere cosa voglio dire con i miei quadri ché ti butto dalla finestra», così ad un amico. Quello che lui “intendeva dire” lo diceva con la pittura, il modo migliore che aveva trovato per esprimersi. E si sottraeva alla curiosità, si nascondeva, per non soffrire a vedere discusso – spesso con superficialità (è stato in guerra, ha avuto dei traumi, poveriiino! Ecco perché…) -. Non poteva accettare che ciò che gli era costato tanta nascosta macerazione potesse essere oggetto di frivola conversazione. E si fingeva allegro, frivolo lui, punendo i curiosi ed i detrattori dando loro ragione: meritavano di restare nella loro dabbenaggine. Ma era un asceta, un solitario samurai in lotta contro la dilagante zombizzazione di massa.

Il ciclo di Sestante è collocato in questa serie: «Il viaggio», «Sestante», «Annottarsi», «Non ama il nero», «Metamorfotex». Una prima domanda può essere questa: «Perché si è provveduto di uno strumento di orientamento dopo aver fatto il Viaggio? Normalmente, una persona che abbia un minimo di buon senso se ne provvede prima». Questa una possibile ipotesi. Il pittore si è buttato all’avventura nella vita: volontario in Africa nella seconda guerra mondiale; a far la fame come pittore a Roma mentre poteva guadagnare un mucchio di quattrini come medico, sempre il

primo dove c’era qualcosa da rischiare, incapace di negarsi qualunque più azzardata avventura ecc. Bene, batti la testa oggi, battila anche domani, alla fine uno si dice: «S’ha a provvederci di uno strumento che ci dia un minimo di orientamento?». Torna, o almeno possiamo tenercela come ipotesi di lavoro, perfettamente intonata con il carattere del protagonista, che è sempre andato a cercarsele con il lumicino, come si dice. Ma in che senso questa congerie (accozzaglia, miscuglio, groviglio) di colori può dare un indirizzo, essere una bussola, un orientamento, per la vita del pittore (e per coloro che ne usufruiscono guardandola?). Ad un primo impatto l’effetto che crea è l’esatto contrario, ovvero i quadri di questo ciclo danno un senso di disorientamento, di caos (subbuglio, trambusto, putiferio ecc.), creando smarrimento, scombussolamento, una sindrome di Stendhal già alla prima occhiata. Sembrerebbe più che altro la nostra confusa vita moderna. Dove la bussola – il «sestante», pardon - per orientarsi? Occorre inquadrare il tutto in un orizzonte più ampio. Proviamo.

Alberto Burri, Sestante 6 [1982], acrilico su cellotex, 250x351 cm.

Romano Manescalchi

18 Sarei tentato di far passar per mia quest’immagine che onestamente però devo restituire a Maria Corti, nella conversazione che avemmo, presente anche un incontenibile Ugo Dotti, alla cena “Da Rosati”, a Ponte San Giovanni il 13 aprile 1994, dopo la conferenza che la Corti fece al “Capitini” di Perugia (Aspetti nuovi della lettura della Commedia). 19 B. Croce, Il carattere di totalità dell’espressione artistica, in Nuovi saggi di Estetica, V° ed., 1969, p. 122. 20 S. Zorzi, op. cit., p. 104. 21 Ivi, p. 98. 98

1 Questo saggio è stato pubblicato, in una prima stesura provvisoria e con titolo diverso -Una riflessione su “Sestante” di Alberto Burri -, sugli «Annali» del Liceo Classico “Plinio il Giovane”, Città di Castello, 2009, pp. 177-186. 99


Alberto Burri, Sestante 7 [1982], acrilico su cellotex, 250x360 cm.

A chi gli faceva domande sull’uso delle varie «materie» che usava (Muffe, Catrami, Sacchi, Plastiche, Legni, Gobbi, Ferri, Creta, Cellotex ecc.), Burri non si stancava di ripetere che erano «Colori! Colori!».2 Il pittore vero distrugge la materia, l’argomento che tratta, e lo riduce, appunto, a “colore”. Burri traduceva le sue emozioni in colori come il musicista lo traduce in note: «La mia è una visione pittorica, attraverso un mezzo visivo anziché un mezzo letterario o musicale, della vita […] La pittura è pittura, si spiega da sé… Le mie immagini, perché è di immagini che si tratta, sono un equivalente della parola». 3 Non esiste un argomento trattato, un soggetto: il soggetto è solo l’animo dell’artista, i suoi sentimenti, le sue emozioni, gli «impulsi psichici che premono dal profondo»4 e che il pittore traduce, appunto, in colori, il musicista in note, lo scrittore in parole ed immagini, inventando sempre i fatti che racconta, anche quando si rifà a dati reali ed assume l’atteggiamento del cronista: l’arte è sempre, se del caso, «di gusto realistico» come soleva dire Carlo Grabher e non arte «realistica», essendo l’espressione «arte realistica» una contraddizione in termini. E citava spesso, Burri, Lo spirituale nell’arte di Kandinsky5 ed

Alberto Burri, Sestante 10 [1982], acrilico su cellotex, 250x360 cm.

invitava a leggere questo libro. Forse andavano bene anche i volumi che Croce dedicò all’arte, a cominciare dall’Estetica (1901) per finire a La poesia (1936), o La filosofia dell’arte di Gentile (1931).6 Erano libri che avevano di sicuro nutrito la sua giovinezza - ardente di esperienze culturali; e durante il periodo della sua formazione i testi che dominavano, con D’Annunzio e Carducci, erano quelli - e che io vedo consustanziali alla sua formazione: ne fosse completamente cosciente, come io credo, o non ne fosse, i conti con quella temperie culturale non poteva non farli. Li avesse anche assorbiti inconsciamente! Ma era inopportuno, imbarazzante, disagevole, scomodo, citarli nel periodo postbellico: inattuale Croce, addirittura pericoloso Gentile (che oggi, giustamente, si cerca di rivalutare). Burri, che era stato ribelle, scapigliato, maudit ecc. era divenuto ormai un po’ diplomatico, con magari ironia, almeno come lo vedo io, ironia feroce. Batti la testa di qua, battila di là, diplomatico, almeno un po’, uno non può non diventarlo, già prima di essersi data una bussola o, pardon! un Sestante. Su Kandinsky nessuno poteva aver da ridire, anche se la stazza filosofica non è certo quella dei succitati al cui confronto…. meglio tacere. Leggessero Kandinsky!

2 In quella che Calvesi chiama «sostanziale equivalenza di materia e colore», M. Calvesi, Burri, Il Viaggio, Sestante, Annottarsi, Città di Castello, Petruzzi, 1987 (senza pagine numerate). E Burri: «…io ho sempre usato il materiale che avevo sottomano, consapevole del fatto che con tutto potevo esprimere la mia arte» (S. Zorzi, Parola di Burri, Allemandi, Torino, 1995, p. 89). 3 S. Zorzi, Parola di Burri, Allemandi, Torino, 1995, p. 81. 4 Cfr. W. Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, a c. di E. Pontiggia, Milano, SE, 1989. 5 M. Calvesi, Percorso di Burri, in “Fondazione Burri”, introduzione elettronica. 6 Fu lettore inesausto, ed anche di opere di filosofia. 100

Qualcosa potevano capirlo anche da lì. Ma i riferimenti più solidi sono i succitati, non possono non essere che i succitati, troppo in auge nel periodo della sua formazione per sfuggire alla sua attenzione, e con cui, volente o nolente, non ha potuto non fare i conti, come detto. Ma quanti oggi potevano capire quei riferimenti, se tutto era organizzato a cancellarne il ricordo e l’influenza? Leggessero Kandinsky! Meglio che niente. Qualche buona idea potevano farsela anche da lì. «» Quello a cui con quelle letture si poteva e si può già rispondere, senza bisogno d’altro, a chi pone la domanda ‘Ma cosa vuol dire questo quadro?’, è questo: «Che cosa ti racconta il brano di musica che ascolti con tanta attenzione? Di certo dietro quelle note ci saranno vicende varie dell’autore. Ma in questo caso tu non cerchi di conoscerle. Ti bastano le note musicali che a quelle vicende alludono, che quelle vicende rappresentano, traducono in musica. L’autore del brano ti sottrae le sue personali vicissitudini, pudicamente, come giusto che sia. Ha anche lui diritto alla sua privacy. Per capirlo meglio studiane la vita ed i casi che lo hanno coinvolto. Ma non costringerlo ad esibire le sue cose, a umiliarsi, a prostituirsi. Purtroppo questa “prostituzione”, questa sconcia esibizione dei fatti privati, è fin troppo utilizzata per attirare attenzione. I grandi la evitano. Ecco la risposta. Il musicista ti dà le note, il pittore i colori.

Ciò che dietro c’è di strettamente personale l’artista vero te lo sottrae (per salvarsi Burri inventava veri depistaggi, in cui son caduti spesso, direi sempre, anche i critici più avveduti, anche quelli a lui più vicini ed affezionati: Argan, Brandi, Calvesi si sono presi delle belle bacchettate sulle dita)7. Direi che l’artista vero lo riconosci appunto in questo «pudore». Aggiungo ancora. Che cosa capisci di una canzone in cinese o in indiano, o semplicemente in dialetto? Eppure puoi starla a sentire incantato per ore. A fare la grande arte non è un “significato” esplicito, è questo incanto, questa magia, e non le vicende dell’autore, riguardo le quali si è parlato di «sublimazione» dei dati personali; e forse questo si intendeva parlando di «sublime». Il «sublime» è forse proprio questo: toglier via gli elementi autobiografici: toglierli alla vista, ma presupporli necessari, indispensabili, all’atto creativo. «» La traduzione delle emozioni in colori (come il musicista in note) sottintende, a mio giudizio, anche la lettura della Farbenlehre (Trattato dei colori) di Goethe8, nonché la frequentazione di Piero della Francesca, di Giotto (e la tradizione medievale), che con i vari colori indicava le tendenze dell’anima umana, vizi in genere per lui ed il suo tempo, mentre in Burri sono in relazione alle reazioni psichiche, agli stati d’animo, ovvero ai sentimenti.

7 Vd. qui, prima, La Buriana creativa di Burri ecc., p. 98. 8 Vedi J. W. Von Goethe, La teoria dei colori, introduzione di G. C. Argan, a c. di R. Troncon, Il Saggiatore, Milano 1979 (tradotto da Goethe, Farbenlehre, a c. di Johannes Pawlik, Du Mont Buchverlag, Köln, 1978). Perché Goethe si ostinò tanto nel difendere la teoria, poi risultata erronea, dell’autonomia dei colori? Goethe, che era anche un buon pittore, sentiva concretamente il colore che quando tu lo stendi risulta «capace di creare sulla tela un mondo visibile assai più compiuto di quanto possa essere quello reale» (La teoria dei colori, cit. p. 14), mentre il colore di Newton, inglobato nella luce, appare in un certo modo inafferrabile ed inutilizzabile (anche se nella realtà non c’è differenza perché Goethe 101


la luce invece che i colori, sarebbe stato come un veterinario che studiava l’aria invece che gli animali). E giustamente Argan afferma che per Goethe (come chiaramente per Burri): «Luce diurna e buio notturno sono entità ugualmente concrete ed attive. Per i romantici la potenza dell’oscurità non è minore di quella della luce, e non soltanto nell’ordine del visivo: lo si vede nello stesso Goethe, nel Faust».11 «» Se i colori, dunque, rappresentano le emozioni, quei colori di Sestante sono tutte le emozioni che il pittore sa accogliere: in Sestante la scala dei colori c’è per intero? Ci sono dunque tutti i colori della stella di Osvald12 e tutte le possibili misture di essi? Significa che il pittore era aperto ad accogliere tutte le manifestazioni della vita, non si negava nulla. Sembra aver fatto suo quanto aveva letto in Terenzio:13 «Homo sum. Nihil humani a me alienum puto». Ci sono tutti i colori? Il suo sguardo è aperto sulla realtà a 360 gradi. Questa dichiarazione o confessione che gli attribuiamo -«Non mi sono negato nulla»- ancora non ci spiega però dove stia la guida, la bussola o “Sestante”. Quel tutto così caotico sembra più confondere che indirizzare. Amici, i colori ci sono tutti, ovvero è la vita ad esserci tutta ed in tutti i suoi aspetti. Ma un solo colore è in tutti i quadri. Ve lo lascio trovare da soli. Ora dilaga ed avvolge gli altri colori, ora si insinua inopportuno, ora appena si vede, ché si affaccia in dosi omeopatiche. A commento verrà subito dopo, non certo a caso, «Annottarsi», poi «Non ama il nero». E certo, se quel colore non lo hai visto, significa che tu, uomo del mio tempo, quel colore non lo ami, come il protagonista del ciclo che ha quel titolo: sei tu, infatti, quel protagonista: Burri ti ha “fotografato”14. Ti sottrai ad esso ed hai «fatto eterno il momento». Ecco la tragedia, la radice di ogni male del nostro tempo malato, nevrotico, schizofrenico. Ritrova la morte, rimettiti nell’orizzonte di una vita destinata a finire, e guarirai, forse. Alberto Burri, Sacco [1952], sacco, stoffa, olio su tela, 103 x 89 cm.

Diversamente da quanto sosteneva Newton (giustamente, come oggi tutti ammettono ed accettano), per Goethe (e per tutta la tradizione pittorica) i colori sono non componenti della luce, ma elementi autonomi, consistenti, vivi, come altrettanto giustamente vengono tanto utilizzati nel mondo moderno (nella propaganda politica o nella pubblicità, dove si cerca di abbinare sempre un prodotto ad un colore e spesso il successo sta nell’azzecco della combinazione); seppur questo sia in contrasto con la chiarificazione che la scienza ha fatto del colore o non ne tenga conto. Goethe non accoglieva la teoria dei colori di Newton, oggi universalmente accreditata,

per cui i colori derivano dalla scomposizione della luce e sono in relazione alla lunghezza d’onda, misurata in millimicron o anche in ångstrom (un decimo di millimicron). Per Goethe (come per Giotto e tutta la tradizione pittorica, almeno medievale) i colori erano una realtà autonoma, un attributo delle cose – si possono infatti pensare «come appartenenti agli oggetti»9, che la luce permette di vedere: la luce per lui non contiene i colori, ma è la «condizione» che permette di vedere i colori, «così come senz’aria gli animali non vivono, ma non per questo lo zoologo studia l’aria invece che gli animali»10 (E si deve intendere, da parte di Goethe, che Newton, studiando

non stendeva un colore, ma una materia, che assorbiva tutti i colori tranne quel colore o la mistura di colori che lo formava e che, rigettato per così dire, viene visto, è il colore che l’occhio vede). Ma soprattutto il colore per Newton è neutro, asettico, visto come è dal solo punto di vista scientifico, mentre Goethe, da artista, sentiva il valore, la forza, l’influenza che il colore esercita: «L’esperienza insegna che ogni singolo colore dona un particolare stato d’animo» (ibidem, p. 190); «…il giallo-rosso dà all’occhio una sensazione di calore e di diletto, rappresentando sia il colore della brace ardente che il riflesso, senz’altro più moderato, del sole al tramonto» (Ibidem p. 192); «si tenga dinanzi ad un toro un panno rosso, ed esso si infurierà» (Ibidem, p. 15). Le sue ricerche in questo senso, particolarmente nella sezione sesta – Azione sensibile e morale del colore – hanno fatto sentire la loro influenza non solo su filosofi come Wittgenstein o pittori come Kandinsky (non per caso tanto raccomandato da Burri), Klee, Albers ecc., ma anche sulla politica, che se ne è servita per i suoi messaggi propagandistici subliminali, ed è sfruttata soprattutto nella pubblicità, che tante volte riesce ad assicurare il successo di un prodotto proprio tramite il giusto abbinamento con un colore (assieme a tanto altro di messaggi subliminali). Goethe e non Newton ha sentito questa forza del colore. Burri viene da questa scuola –l’idealismo, il romanticismo, con anche la cultura tedesca, furono il pane quotidiano della sua adolescenza e giovinezza - e se ne fa interprete estremamente consapevole quanto, a volte, ironico, tragicamente ironico.

Per meglio capire occorre ricordare, credo, che Burri era un medico. Essere medico è come, per certi versi, essere sacerdote: il carattere ne viene impresso in modo incancellabile. Io penso che con la pittura abbia continuato la sua missione. Soltanto ha voluto essere più economico, ovvero utilizzare al massimo le possibilità terapeutiche di cui disponeva: invece di curare i singoli, cosa che poi non trascurava con tremende frecciate verso chiunque gli venisse a tiro, curava le masse. La sua pittura è piena di messaggi subliminali volti ad una cura organica della società. Ecco una testimonianza di ciò che dico. Scrive

Giuseppe Berto, compagno di prigionia: «La leggenda che circolava nel campo [Hereford] era che c’era tra noi un medico il quale, schifato dall’umanità, aveva deciso che gli uomini non meritavano più le sue cure e perciò s’era riproposto di non fare più il medico».15 Burri risponderà, nella famosa intervista a Stefano Zorzi: «Una parte di verità c’è in tutto questo. È vero che gli uomini mi avevano schifato. In guerra, e per di più in prigionia, si impara a conoscere gli uomini, e quegli uomini a me facevano schifo. Ma quello che non è esatto è che per me gli uomini non meritavano le mie cure (mio il corsivo). Questa è una forzatura nel tono ironico di quanto è scritto».16 Qui Burri ammette ciò che di solito nega con forza, ammette cioè che «gli uomini meritavano le sue cure», che rimaneva “medico”. Cercheremo di capire- non è difficile- perché con tanta forza, con tanta decisione, volle sempre dichiarare di essere soltanto “pittore” e non più “medico”. Ci serviremo di quanto da lui stesso affermato commentando un passo di Crispolti (oltre quello già detto in La Buriana creativa di Burri ecc., passim). È necessario riportare il tutto: Ma torniamo a noi, e cerchiamo di mettere meglio in luce come traspare, se traspare, questa tua ideologia nella tua opera. Di te Crispolti ha scritto: «La contestazione di Burri corre dall’inizio perentoria, frontale, cupamente ineluttabile come sorte comune, sul risentimento e sulla denuncia ontologica. L’accusa che egli porta alla società del proprio tempo non è sociale, non è politica, è appunto ontologica: è il presentimento, potentemente proposto in termini figurali, d’uno sfacelo, d’una abissale caduta. Egli è dalla parte di Sartre, ha il coraggio radicale di indicare l’abisso, della discesa agli inferi (come scrisse Mandiargues), di toccare un’origine, di riattingere disperatamente un primordio tellurico, ove la ferita è tanto fisica quanto psichica, ove si sprigiona una tragica, organica, frustrata vitalità (“muta gli stracci in una metafora di carne umana, sanguinante”, ha scritto Sweeney)» (miei i non corsivi). Quelle offerte da Burri sono forse le immagini di più radicale rifiuto che contro la misura di sfacelo morale del mondo contemporaneo (attraverso una contestazione che non può che essere anzitutto verso questa diretta) siano sorte dalla situazione italiana: negli anni del sopruso politico, dell’impero del sottogoverno, dell’opportunismo culturale irrefrenato, Burri getta sul tappeto la condizione dell’esistenza nella nudità della sua primaria questione ontologica (Enrico Crispolti, Burri, Cagli, Fontana, Guttuso, Moreni, Borlotti: sei pittori italiani dagli anni quaranta ad oggi, cit.).17 Lui qui parla di cose essenziali e profonde… lui va al fondo della questione, e al fondo della questione questo c’è di sicuro. Certo io non mi attivo per provocare tutto questo: è che viene dal mio sentire. E a leggerlo, adesso, quasi mi meraviglia che si possa aver colto queste cose che necessariamente sono incluse nella mia opera.

11 Ibidem. 12 Il cerchio cromatico escogitato da Johannes Itten (1888-1967), esponente della BauHaus Schule, cerchio che classifica tutti i colori in “primari” e “secondari”. È lo strumento su cui ci si basa per formare le combinazioni di nuovi colori, usato anche nel Web design. 13 Era bravissimo, come detto, in Latino ed in Greco (vd. La Buriana creativa di Burri ecc., p. 89): “dieci” nella pagella di Liceo in entrambe le lingue, fatto che non si può sottovalutare, come il medesimo voto in italiano e i “due” in matematica, chimica et similia (da “Voci” raccolte in luogo, in primis da Amadei Luigi, amico e collaboratore di Burri, ma negli ultimi tempi). La verità sarebbe nelle pagelle, analitiche e precise, che in verità ancora non sono riuscito a ritrovare; occorre stare a queste “voci” ed a quanto ne dice Burri stesso in S. Zorzi, Parola di Burri, cit.p. 69. 14 Burri era anche un buon fotografo ed ora, nel venir meno delle partizioni delle arti, come le parole potevano inserirsi nel quadro – vedi appunto “Non Ama il nero”- e essere pittura, così poteva avvenire di fare una “fotografia” con una frase. Del resto è in uso dire «Ti ha proprio fotografato» per qualche frase particolarmente azzeccata relativa a qualche personaggio. Penso che Burri fosse pienamente consapevole di “fotografare” con quella frase l’uomo del nostro tempo, ciascuno di noi in un certo senso. 15 P. Palumbo, op. cit., p. 35.

9 (G. C. Argan, Introduzione a W. Goethe, La teoria dei colori, cit. p. 16.

16 S. Zorzi, op. cit., p. 16.

10 G. C. Argan, W. Goethe, Trattato dei colori Introduzione cit. p. xiii e xiv.

17 Lo Zorzi scrive “cit.,, ma nel volume questo libro non è riportato né prima, né dopo.

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Alberto Burri, Saffo, 1973-76, Litografia 6, 25x17,5 cm., catalogo “Burri Grafica Opera Completa” pag. 122

Non è che io voglia a tutti i costi trasmettere messaggi… È che è proprio così. Lette oggi queste cose sono di un’attualità straordinaria, guarda un po’…E comunque va detto che questo sfacelo morale parte dalla caduta del fascismo perché allora c’erano altri valori… artistici e non solo. (N.d.r. I puntini non sono omissioni di parti, ma indicano pause, esitazioni del discorso, che è assolutamente integrale come dato dallo Zorzi).18 Burri ammette di operare su questo «sfacelo morale», ammet-

te di essere medico, insomma, anche se con molta esitazione tanto che queste affermazioni non sembrano tali da poter ribaltare tante decisissime dichiarazioni in senso opposto. La cosa però si può spiegare. Burri dunque rimase medico ed ora, per prima cosa, essere medico, aver fatto il giuramento di Ippocrate,19 imprime il carattere come succede a chi divenga sacerdote. Non poteva venir meno a quel giuramento. Fosse mancato a quel giuramento, Burri non sarebbe Burri. Ma questa – il rimanere “medico” anche facendo il “pittore”, essere

18 S. Zorzi, op. cit. pp. 67-68.

ancora più “medico” di prima proprio facendo il “pittore” era una di quelle cose che Burri non avrebbe mai ammesso: era la cosa più profonda e segreta da cui tutto scaturiva, la cosa di cui era più geloso, quella che non doveva essere assolutamente toccata. E mise in atto tutti i possibili depistaggi perché non fosse scoperta. Ma la sua pittura è anche una cura di massa. Perché allora le tante e decise affermazioni che tutto questo negavano? È che il medico deve nascondersi al paziente, perché non venga irretito nella riconoscenza a lui, una riconoscenza che lo renderebbe in qualche modo sottomesso, non più libero, non più autonomo. La pratica la si può vedere con i donatori di sangue: chi riceve il sangue – puta in un incidente – non può vedere chi glielo dona, da lui separato da un tendaggio, in un lettino adiacente, né dovrà mai conoscere il donatore (che diverrebbe non più un “donatore”, ma un “padrone”). Se Burri avesse ammesso di voler “curare”, di voler continuare la sua missione, ipso facto non sarebbe stato più “medico”, sarebbe divenuto un “ciarlatano”. Per questo Burri si sarebbe fatto ammazzare, ma non lo avrebbe ammesso, per ineludibile scrupolo deontologico, per essere veramente “medico”. Ma rimase medico e fu medico, non pittore, come volle far credere, tutti cascandoci. Se non si prende questa prospettiva si capisce ben poco. Perché non fosse scoperto mise in atto, come detto, tutti i possibili depistaggi. Ed un depistaggio era affermare, come era solito: «Io dipingo per me».20 E perché ha fatto tante mostre, seguendole scrupolosamente? Perché ha voluto la Fondazione di Palazzo Albizzini? Perché il Museo degli ex-Seccatoi? Perché non voleva vendere i suoi quadri ma, potendo, li riacquistava e magari indebitandosi? Tutto per sé, per la sua vanità? Credo che bisogna essere molto attenti nell’interpretare la «parola di Burri». Per essere veramente medico doveva negare, per un “dovere” direi deontologico, negare di essere medico. Per beneficare gli altri, doveva dichiararsi rigorosamente egoista. Era il modo per poter operare al meglio, per poter far meglio il suo mestiere (o missione?) di medico e di pittore: di medico che curava con la pittura (lo avesse dichiarato, oltretutto, gli ammalati gli sarebbero scappati, nessuno volendosi riconoscere per tale). A questo punto c’è da scegliere se fosse un vanesio o un uomo. Io propendo decisamente per la seconda ipotesi. E la sua pittura è un “dono”, fisicamente alla sua città, spiritualmente, moralmente ecc. al mondo intero. Ma la mano destra non doveva sapere ciò che faceva la sinistra. Era anche una strategia, per Dio! Pensiamo ai tragici greci (di cui Burri era appassionato lettore, e li leggeva in greco, nel greco antico). Non operavano una catarsi, non ripulivano le anime, non ristabilivano un equilibrio psicologico, e quindi sociale, politico ecc.? Ma gli Ateniesi sarebbero

andati a farsi curare da Eschilo, Sofocle o Euripide? O Aristofane? Non avrebbero ammesso di avere le magagne lì rappresentate, come oggi si fa da chi va da un analista. Era poi che gli si poteva dire: «De te fabula narratur». E loro dovevano tacere ed accettare. Presa la briscola che avrebbero ormai più potuto dire? Era necessario che Burri tenesse ben celato il suo affilatissimo, impietosissimo, bisturi. Era necessario che negasse di essere medico. E c’è una somiglianza tra Burri ed i tragici greci anche nello stile di vita: costoro non miravano ad arricchirsi, ma svolgevano il loro lavoro per dovere civico. Burri non cercò di ricavare ricchezza dal suo lavoro, cercando di ricavarne soltanto quanto gli bastasse per le sue esigenze.21 La sua vita fu frugale e forse pensava, ma senz’altro pensava, ai suoi tragici greci. È per questo che spesso ricomprava, consentendoglielo le condizioni economiche, i quadri che in tempi difficili – li conobbe - era stato costretto a vendere. E per l’attrazione che questi suoi maestri greci esercitavano su di lui che si occupò anche di teatro. La sua opera, come quella dei tragici greci (o dei comici, di Aristofane, non dimentichiamo quello che forse è il più grande) diveniva possesso della comunità. Come Burri ha voluto che fosse la sua! Il parallelismo che ho proprio ora scoperto, tra la pittura di Burri ed il teatro greco, mi sconcerta! Burri ha voluto vivere la vita in tutti i suoi aspetti, niente negandosi, tenendo però sempre presente che «omnibus moriendum est / Morire tocca a tutti». É questo che gli dava la giusta dimensione di tutte le cose, le ridimensionava, le portava alla loro essenza: è questo il suo Sestante. Era questo che lo liberava dalla seduzione, o incanto o magia, di questo velo di Maya che ci avvolge, bellissimo quando riesca a nasconderci le sue segrete magagne: «Bello il tuo manto, o divo cielo / e bella sei tu rorida terra» (G. Leopardi, l’Ultimo canto di Saffo, vv. 1-2)! Bellissimo ed indifeso questo “manto”, ed inerme di fronte all’attacco tecnologico ed industriale che lo deturpa ed avvelena. Bellissimo e della cui seduzione è pur bene liberarsi per raggiungere vette più alte, l’assoluto, l’“eterno presente”,22 l’aoristo per Dio! In mezzo ai piaceri, ed anche ai bagordi, ché nulla si vietava, egli sentiva ciò che gli ricordava Lucrezio, il suo Lucrezio (credo di poter dire): «Quondam medio de fonte leporum / surgit amari aliquid quod in ipsis floribus angat / Proprio dal bel mezzo dei bagordi emerge qualcosa di amaro capace di insinuarsi nelle gioie stesse della vita».23 O che aveva letto nei Carmina Einsidlensia: «Quod minime reris, satias mea gaudia vexat / Questa è la cosa che meno potresti immaginare: cioè che è proprio la sazietà a mettere angoscia nei miei piaceri».24 Cantavano già, gli antichi, lo spleen, l’ennui, la noia, il tedio. L’eco in Burri è profon-

20 S. Zorzi, op. cit., p. 18. 21 «Io non voglio essere ricco. Non saprei davvero cosa farmene, io posso vivere tranquillamente così. Ho sempre avuto tutto quello che pressappoco mi ci voleva: sono potuto andare in America, ho girato, ho avuto studi ampi e luminosi. Sono soddisfattissimo di ciò che ho avuto» (S. Zorzi, op. cit., p. 78). Come i tragici greci. Lui sì che era un intellettuale organico (alla Comunità, come i tragici greci), altro che quelli che si appoggiavano ai partiti. Ancora un perfetto parallelismo con Eschilo, Aristofane…! 22 Questo contatto, relazione, che il pittore stabiliva o voleva stabilire con l’assoluto, con il «per sempre» di Tucidide», è pur stato visto da taluno: cfr. E. Meschini, Viaggio verso l’eterno presente, in «Gran Bazaar», n. 12, Milano, gennaio-febbraio, 1981, G. Serafini, Burri: verso la forma pura, in «Terzo Occhio», n. 22, Bologna, marzo; F. Gavioli, Il cantore dell’assoluto, in «Gazzetta di Parma», Parma, 17 ottobre 1984. Buoni i riferimenti all’ontologia in Crispolti (vd. il passo sopra riportato) ed in questo volumetto di un tifernate: Venanzio Nocchi, Estetica e ontologia in Alberto Burri, Città di Castello, Graphos, 2006. 23 Come il “nero” nella festa carnevalesca dei colori di Sestante.

19 La salute, insegnava Ippocrate, è “nell’equilibrio degli umori”. La costante ricerca che Burri fa dell’ “equilibrio” è in relazione a questo principio (come a tutta la cultura classica che lo presuppone come sua meta) e va visto anche in contrapposizione all’alterazione che la tecnologia fa nei confronti dell’ambiente, ad esempio con la manipolazione genetica ma non solo naturalmente, creando «equilibri squilibrati» (S. Zorzi, op. cit., p. 32), anch’essi magari riflessi nella sua pittura, che gronda di dolorose, innaturali, tensioni e distorsioni non meno di quella di Van Gogh: di «trazioni terribili da una parte e dall’altra», (Ibidem).

24 Cfr. «… Curae mea gaudia turbant: / cura dapes sequitur, magis inter pocula surgit / et gravis anxietas laetis incumbere gaudet... / quod minime reris, satias mea gaudia vexat. // Delle ansie (pene, angosce, inquietudini, preoccupazioni) turbano le mie gioie: / l’ansia segue il banchetto, più acuta sorge al momento delle bevute / ed un’angoscia sottile gode a calarsi nei momenti di gioia… / e la cosa a cui mai potresti pensare è che è proprio una forma di sazietà ad angustiare (affliggere) i miei momenti felici», Carmina Einsidlensia o anche Bucolica Einsidlensia (dal manoscritto Einsidlense 266), composto attorno agli anni 55/65 p. C. da autore o autori ignoti (C. Calpurnio Pisone o Lucano per alcuni) alla corte di Nerone, Buc. II, vv. 1- 9.

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25 Canto notturno di un pastore, vv. 117-131.

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do, mediato da Leopardi, credo, che così si rivolge, travestito da pastore asiatico, alla sua greggia: «E io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra, / e un fastidio m’ingombra / la mente, ed uno spron quasi mi punge / sì che, sedendo, più che mai son lunge / da trovar pace o loco. / E pur nulla non bramo / e non ho fino a qui ragion di pianto. / Quel che tu goda o quanto, / non so già dir; ma fortunata sei. / Ed io godo ancor poco, / o greggia mia, né di ciò sol mi lagno. / Se tu parlar potessi, io chiederei: / Dimmi: perché giacendo / a bell’agio, ozioso, / s’appaga ogni animale; / me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?».25 «» Come Dante che, guardando questa vita dall’altro mondo, ne cavava l’essenziale. Non c’è un filo di grasso nella poesia dantesca, tutta muscoli, come un atleta ben allenato. Così in Burri. Il pensiero della morte bruciava tutti gli accorgimenti, i fronzoli, gli orpelli, i similori, gli artifici, i blandimenti retorici, gli ammennicoli ecc. con cui avvolgiamo e nascondiamo, anche a noi stessi, la nostra vita e le sue miserie. Come Leopardi che il superfluo bruciava proiettando ogni atto della sua vita sull’infinito (equivalente della morte): un infinito di fronte a cui tutto diveniva piccolo, ridimensionato, insignificante, per cui sembrava eccessivo prendersela qualunque cosa ti fosse accaduto: ad esempio ne “La sera del dì di festa” l’animo esacerbato per l’umiliazione ricevuta da una fanciulla sdegnosa, di lui sdegnosa, di lui il conte del luogo, si placa quando con l’animo si solleva a guardare le vicende di «que’ popoli antichi… il grido / de nostri avi famosi, e il grande impero / di quella Roma, e l’armi e il fragorio/ che n’andò per la terra e l’oceano…».26 Che cosa sono al confronto le bizze di una bambina? Ne L’infinito ciò che tanto lo aveva scosso - «…e qui per terra mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi in così verde etate!»27 - a confronto con i «sovrumani / silenzi, e profondissima quiete»,28 diviene un fuggevole, labile, soffio di «vento» (v. 8).29 Sestante è, insomma, una rappresentazione pittorica della morale stoica di Seneca che si riassume nella massima «Meditare mortem / Pensa che devi morire». É la miglior traduzione di tutto Seneca che io conosca, come anche la miglior lezione che si possa avere.

C’è in Burri una determinazione jacoponica, che finirà per prendere il sopravvento in «Annottarsi», «Non ama il Nero», «Metamorfotek», nel francobollo dedicato alla Francia ecc.30 «Omnibus moriendum est / Morire tocca a tutti». In Sestante questa determinazione è filtrata da Boccaccio e D’Annunzio, mi pare. E mettici anche un Bacco con frutta e ramarro del Caravaggio, dove il morso del ramarro che emerge dal cestocornucopia ci sta come l’aliquid amari di Lucrezio o la satietas del Carmen einsidliense. Il Decameron comincia con una delle più energiche descrizioni della peste che ci siano mai state date: gonfiori purulenti (marci, suppuranti), piaghe sanguinolenti, fradice e putride, morti immonde, carname putrescente o già impudritito, guasto, in decomposizione già vivo, squallore infinito. Solo Jacopone può star alla pari con questa descrizione boccaccesca. Ma Jacopone si serviva delle immagini della morte, le più ributtanti, per indurti alla continenza, alla penitenza: «Dobbiamo morire. Quindi pentiamoci, ritiriamoci dal mondo e dalle sue vane seduzioni, preparandoci così la via per la salvezza eterna». Questo il suo messaggio, che è il messaggio del Medioevo.

tocca a tutti», l’elemento che a tutte le avventure dava una misura ed un orientamento. Si potrebbe dire che ha vissuto in costante compagnia con la morte, prima di essere da essa tutto avvolto nel matrimonio indissolubile di «Annottarsi», «Non ama il Nero» e «Metamorfotek», il ciclo dedicato a Kafka in cui è più evidente che altrove il distacco dalla seduzione più pertinace, nella sintonia più assoluta con l’ultimo capitolo de

«Il processo», dove il protagonista, il signor K., si distacca, non senza un po’ di ironia, anche dalla signorina Bürstner che tanto lo aveva attratto31, per poter infine abbandonarsi tutto nelle braccia della compagna più amata (e che più gli è stata da sempre vicina): ovvero la morte che lo attende in una cava presso la sommità della collina. Romano Manescalchi

Alberto Burri, Gobbo, 1952, stoffa, olio, vinavil su tela con elemento metallico sul retro, 100x85.5 cm.

Il Boccaccio prende sulle spalle questa mentalità e la rovescia: «Dobbiamo morire e quindi viviamo! Non vietiamoci nulla. Corri la terra prima che la terra ti ricopra». Il Boccaccio rovescia il Medioevo ed inventa il mondo moderno: il mondo dell’avventura terrena, dei conquistadores, di don Giovanni, di Faust ecc.. Ho detto “inventa”: ma forse quel mondo si stava “inventando” da solo e la parola poetica del Boccaccio lo illuminava, lo faceva comprendere. Burri è un Jacopone modernizzato, dannunzianato vorrei dire, tenendo presente che D’Annunzio è un altro mito con cui non può non essersi confrontato, che non può non aver deglutito e metabolizzato, come tutta la sua generazione. Si è gettato all’avventura, senza remore o riguardi, volontario in Africa, a far la fame a Roma, senza nulla vietarsi ecc., rinnovando in sé lo spirito di don Giovanni o di Faust (altra probabile lettura il Faust goethiano), aperto a tutto. Ma sempre tenendo presente che «omnibus moriendum est / morire

26 Canto notturno di un pastore, vv. 117-131. 27 La sera del dì di festa vv. 34-37. 28 L’infinito, vv. 5-6. 29 Ibidem, v. 8. 30 Quanta ironia nei confronti della “grandheur” dei francesi! Che presa per i fondelli in quel sarcofago nero (cioè contenente nulla) prodotto di tanto sangue inutilmente sparso (che quel sarcofago avvolge, amorevolmente)! Le guerre dell’Impero, quella vicina dell’Algeria – quanta crudeltà! E vedi il film dei fratelli Damiani! É stato quel film ad ispirarlo?- per produrre il monumento di un sarcofago insignificante, ché altro non resterà. Mi avete chiesto un ritratto, ed io ve l’ho fatto. Senza sconti, naturalmente, ché non ne faccio mai. Come un fotografo che conobbi e che a chi protestava sembrandogli di esser venuto male rispondeva: «Come siete». 31 Ricompare di fronte al signor K., nel tragitto che egli fa, verso la collina in compagnia dei due individui, incaricati della sua esecuzione. Il signor K., nemmeno troppo sicuro che sia lei, la segue per un po’– ma in modo distaccato ed è un modo per fare definitivamente i conti con lei – e quando poi ella svolta per un vicolo laterale si rende conto che ormai può fare a meno di lei, che ha vinto anche quella seduzione, e si rimette completamente nelle mani dei suoi accompagnatori, i quali, precedentemente, lo avevano assecondato nel desiderio di seguirla («Das Fräulein war inzwischen in eine Seitengasse eingebogen, aber K. konnte sie schon entbehren und überließ sich seinen Begleitern / La signorina aveva nel frattempo imboccato un vicolo laterale, ma K. poteva ormai fare a meno di lei e si rimise in tutto ai suoi accompagnatori», Der Proceß (Originalfassung), Frankfurt am Main, Fischer Verlag, 1990, cit. da 7° Auflage 1999, cap. X, Ende, p. 239). Che distaccata ironia – quanto umorismo nell’omicidio del signor K! - nei confronti del fascino che più ci accalappia! Burri coglie questo momento supremo nel ciclo Metamorfotex, che non allude tanto al noto racconto “La metamorfosi”, ma alla metamorfosi del nostro animo, in questo caso alla metamorfosi finale, alla conquista finale, che opera in noi il definitivo distacco dal mondo. 106

Tutte le immagini relative al maestro Alberto Burri sono coperte da Copyright © Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, Città di Castello – by SIAE 2013 107


cronache dispari

il premio letterario cesare pavese compie trent’anni giovanna romanelli

Santo Stefano Belbo: il tavolo della presidenza. Da sinistra: la giovane attrice interprete di brani dei libri premiati, il Professor Luigi Gatti Presidente del CE.PA.M., la Professoressa Giovanna Romanelli Presidente della giuria Foto di Renato Olivieri

Santo Stefano Belbo, Premio Pavese, Claudio Magris vincitore del Premio Narrativa per l’edizione 2013

Santo Stefano Belbo, Premio Pavese, Sebastiano Vassalli premiato per l’insieme delle sue opere Foto di Renato Olivieri

pubblico, è iniziata la cerimonia di premiazione dei vincitori delle opere inedite, nelle sezioni di narrativa, saggistica e poesia, cui ha fatto seguito l’attribuzione dei premi ai medici scrittori per le loro opere edite. Tuttavia, la parte più stimolante e attesa è stata la veglia letteraria pavesiana, iniziata verso le ore 21,00, dopo un sobrio ma vario e apprezzato buffet offerto dai ristoratori di Santo Stefano che sempre generosamente danno il loro contributo all’organizzazione e alla gestione di questo momento celebrativo. Della veglia, che aveva in programma numerosi interventi, ricordo, in particolare, la relazione di Guido Zavanone che ha parlato con garbo e competenza dell’Identikit della poesia, cui ha fatto seguito il brillante intervento di Beppe Severgnini dal titolo Cesare Pavese e Bruce Springsteen: le Langhe incontrano il New Jersey. È stata poi la volta del germanista Claudio Magris, la cui opera di fine e acuto intellettuale supera di gran lunga la sua fama, essendo una persona schiva e misurata, dote non sempre adeguatamente apprezzata nella nostra società rumorosamente inespressiva. Magris ha parlato del rapporto tra Giornalismo e Letteratura e ha vivacizzato il suo pregevole intervento con gustosi aneddoti vissuti nel corso della sua lunga attività di giornalista.

La serata è stata poi allietata da brani inediti del musicista Beppe Giampà, che con la sua chitarra ha musicato alcune liriche pavesiane. La mattina del primo settembre, già alle ore 9.30 la casa di Pavese pullulava di gente: giornalisti, operatori radiotelevisivi, autorità e veri appassionati di eventi letterari attendevano con impazienza l’arrivo dei noti uomini di cultura, accolti poi da un caloroso applauso di benvenuto. È così iniziata la cerimonia di premiazione in un clima gioioso e partecipato: è stata dapprima intervistata la studentessa giapponese Marie Kokubo per la sua tesi di dottorato sui rapporti tra Pavese e il cinema, lavoro che si è distinto tra molti per l’originalità dei materiali e il rigore della ricerca; esso apre, infatti, nuovi orizzonti sull’argomento del “modernismo” orientato verso una cultura di massa. Il premio della dottoressa Kokubo – è bene

ricordarlo – è stato finanziato dall’agriturismo Giacinto Gallina che da sempre offre il suo prezioso contributo al CE. PA. M. e alla manifestazione. Guido Zavanone ha ricevuto il riconoscimento per Tempo nuovo (Genova, De Ferrari, 2013), silloge poetica i cui versi sono percorsi da una nuova tensione antropologica che dice la provvisorietà dell’essere attraverso una parola essenziale, quasi scarnificata. Il giornalista Beppe Severgnini è stato premiato per il suo Italiani di domani (Milano, Rizzoli, 2012), libro vivace, dotato di quella “leggerezza” di cui parlava Italo Calvino nelle sue indimenticabili Lezioni americane. Il giornalista fornisce otto temi di riflessione su otto argomenti che iniziano tutti con la lettera T (come quella di tempo) per «aprire le porte del futuro», non solo ai giovani, ma a tutti coloro che abbiano voglia di rimettersi in gioco.

Santo Stefano Belbo, Premio Pavese, Guido Zavanone, premio per la poesia Foto di Renato Olivieri

Santo Stefano Belbo, Premio Pavese, Beppe Severgnini, premio per la saggistica

A Santo Stefano Belbo, nella splendida e suggestiva cornice naturale, già venata del fascino sottile di un giovane e gagliardo autunno, il pomeriggio del 31 agosto e la mattina del primo settembre, si è svolta la cerimonia di premiazione dei vincitori del noto e prestigioso Premio Letterario che del grande scrittore porta il nome. Quest’anno, in particolare, la cerimonia era fortemente attesa, non solo per la presenza dei grandi personaggi del giornalismo e della letteratura internazionale, ma anche perché Santo Stefano Belbo celebrava una ricorrenza importante, quella del trentesimo anniversario del Premio che, pur tra alterne vicende, ha sempre potuto godere della guida salda e sicura del suo fondatore, il professor Luigi Gatti. Infatti, senza voler ripercorrere a ritroso, la storia del Premio, è tuttavia necessario ricordare che è stata l’opera costante e indomita del Professor Luigi Gatti a sottrarre il Premio Cesare Pavese a quel naufragio che rovinosamente ha travolto altre istituzioni a causa di un dissennato progetto sorretto solo da desiderio di denaro e potere. E, con Tito Livio, prima di passare a cose più importanti, diciamo: absit invidia verbo, ovvero sia lontana l’ostilità dalla [mia] parola! La sera di sabato 31 agosto, presso la sede del CE. PA. M., nella casa natale di Cesare Pavese, seguita da un vasto e attento

Santo Stefano Belbo, Premio Pavese, alcuni degli autori premiati insieme al Presidente del CE. PA.M. Prof. Luigi Gatti Foto di Renato Olivieri

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Sebastiano Vassalli ha ricevuto il Premio alla carriera come riconoscimento dello straordinario lavoro di ricerca e del suo contributo alla storia della letteratura. In particolare, della sua opera è stata sottolineata e apprezzata la ricerca storica e la forte dimensione territoriale, strumenti utili ad illuminare il presente e renderlo comprensibile. E infine, è stata la volta di Claudio Magris, cui è andato il premio per il suo Itaca e oltre, libro rieditato da Garzanti (2012) per il suo grande valore e la sua attualità. Si tratta di un lavoro intenso, dalla forte valenza artistica che, grazie all’uso di un linguaggio seduttivo e musicale, parla alla sensibilità emotiva e alla capacità interpretativa del lettore. Pur raccontando la perdita di un’idea armoniosa del mondo, genera tuttavia la speranza che questo possa e debba essere migliorato. Volendo ora svolgere alcune brevi osservazioni conclusive, possiamo affermare che anche questa impegnativa ricorrenza si è conclusa positivamente e con profonda soddisfazione da parte di tutti coloro che, a diverso titolo, vi hanno preso parte; come abbiamo più volte avuto modo di dire il Premio Letterario Cesare Pavese risulta ogni volta una festa dello spirito e della mente, un’occasione di incontro e di scambio civile di idee. Insomma la cultura, in ogni sua forma, è un obiettivo non da mortificare ma da promuovere, anche a costo di sacrifici. Lo ricordino i politici quando opereranno le loro scelte. Noi, da parte nostra faremo come Virgilio e, quando saremo sconfortati, ricorderemo a noi stessi queste parole: Tu ne cede malis sed contra audentior ito, altrimenti detto non soccombere alle avversità ma piuttosto con coraggio ad esse opponiti.

Santo Stefano Belbo, Premio Pavese, la giapponese Marie Kokubo premiata per la sua tesi di laurea sui rapporti fra Pavese e il cinema Foto di Renato Olivieri

Giovanna Romanelli

cronache dispari

La complessa attività della fondazione bottari lattes di monforte FONDAZIONE

BOTTARI L AT T E S

Seguiamo con grande interesse le vicende, i programmi, le realizzazioni della Fondazione Bottari Lattes, almeno dal momento delle convulse situazioni createsi attorno ai resti del Premio Letterario “Grinzane Cavour” che la Fondazione ha voluto salvare nella sua essenza pur rigenerandolo nella sua struttura. Ma i suoi programmi hanno ormai assunto anche territorialmente un’articolazione sempre più complessa, diversificata e coinvolgente l’ambiente “langhet”, anche se poi non mancano improvvisazioni a Milano, presenze a Torino

e qua e là altrove. Fissata la sua sede a Monforte e fornitala di una rappresentativa locazione bene inserita modernamente nel contesto storico di quel caratteristico centro, affiancata dall’Associazione Culturale specifica ha disposto il Premio Letterario Grinzane secondo due filoni diversi: “Il Germoglio” per autori in entrata con una giuria giovanile espressa dagli allievi lettori di dieci istituti superiori italiani ed europei; “La Quercia” per premiare l’opera di un autore già maturato attraverso la pubblicistica mondiale.

Lucian Freud, incisione in mostra a Monforte

Mostra collettiva a Monforte, “Pensare Caravaggio”

Rembrandt Van Rijn, incisione in mostra a Monforte Monforte, logo del Festival Internazionale di musica da camera

Santo Stefano Belbo, Premio Pavese, il folto pubblico Foto di Renato Olivieri

Murazzano, il paese con l’alta torre e sulla sinistra il palazzo convenzionato dalla Bottari Lattes per manifestazioni di carattere culturale.

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Nel contempo ha dato luogo a mostre di pittura, fotografia, incisione e altro tanto a Monforte nella sede sociale quanto a Mondovì, Torino, Acqui in sedi e gallerie diverse, ma a Torino ha poi formalizzato un suo ambiente espositivo: lo “Spazio Don Chisciotte” dove espone opere dei maggiori creatori contemporanei. Con lo sfaccettato ricordo di Mario Lattes (imprenditore, romanziere, pittore, incisore, collezionista) si articolano riferimenti attuali per esempio a Caravaggio e presenze di artisti celebri dal rinascimentale Rembrandt al più attuale e inquietante Lucian Freud. La fotografia è elemento che ritorna spesso con le opere di “obiettivi” famosi o in aderenza con filoni narrativi giornalistici o la definizione di laboratori, workshop, a coinvolgimento diretto degli osservatori. Ma l’attenzione si fissa non solo sulle arti figurative e sulla letteratura contemporanea, ma anche la musica ha i suoi ritorni periodici nel modulo “Cambi di Stagione” concertato con l’Associazione Culturale “Amici della musica” di Savigliano con il “Festival Internazionale della Musica da camera” esecutori (concertisti, orchestre, direttori di prestigio) che si esibiscono all’avvento di ogni nuova stagione. Fatto singolare, l’attenzione alla musica scivola a vol-

te anche sugli strumenti che la realizzano e non manca per la messa in scena di spettacoli, storie di marionette, rappresentazioni di tradizione folkloristica, giocate (parrebbe) per i bambini ma più spesso stimolanti per gli adulti, collaborando con l’“Associazione Culturale Burattin-arte” di Alba. Recente è la stipula di una convenzione con il Comune di Murazzano per la realizzazione di avvenimenti culturali all’interno del restaurato Palazzo Tovegni, grande edificio dei primi del ‘900 improntato a un Liberty un po’ legato e rappreso ma significativo che domina il paesaggio. E a Murazzano la musica espande ancora i suoi confini con il festival del “Black Sheep Jazz” dominato dalla voce di Denise King esibita in un contorno di iniziative espositive editoriali, fotografiche. Tale somma ingente di attività e di risultati è supportata dall’efficienza delle segreterie con una puntuale e precisa informazione a più livelli (attraverso la comunicazione informatica, diretta, postale, giornalistica) ma a noi pare invece che la comunicazione riassuntiva e critica dei vari episodi e del loro insieme resti un po’ limitata e comunque di difficile approfondimento. Red.

Logo del Festival di musica jazz di Murazzano

Presentazione degli spettacoli realizzati in collaborazione con l’Associazione Burattin-arte

Logo delle manifestazioni fotografiche di Monforte

storia e immagini di eroine e demoni femminili antonello catani

Il nudo femminile ha sempre attratto l’attenzione e suscitato l’ispirazione degli artisti. A parte lo stuolo di ninfe, dee e nobildonne e anche voluttuose popolane – vedi Renoir - intente a rimirarsi allo specchio o in compiacenti lavacri oppure solo languidamente reclinate ma in fondo anonime e senza una loro specifica personalità, gli annali della pittura occidentale mostrano altre figure di donna psicologicamente ben più ricche e assurte a modello simbolico di intere generazioni. Una di esse, forse la più famosa ed emblematica, è il personaggio di Eva, in cui si sono cristallizzati certi caratteri attribuiti alla donna dall’occidente giudeocristiano: gerarchicamente inferiore all’uomo (perché fabbricata con una costola di Adamo), compagna docile ma spesso anche capricciosa, petulante e curiosa, come dimostra la storia della mela a lei offerta e divenuta poi oggetto di innumerevoli opere pittoriche. Se le suddette caratteristiche spiegano in parte il perchè Eva sia stata associata con la caduta dell’umanità, non sono tuttavia sufficienti a spiegare del tutto l’astio e la riprovazione da parte dei misogini e dei moralisti di ogni denominazione ed epoca. Dietro di lei e la sua mela proibita esistono insomma livelli e percezioni assai più occulti e profondi. Per rintracciare tali livelli sommersi dobbiamo rivolgere la nostra attenzione ad altre figure che hanno goduto di straordinaria fortuna nella storia della pittura. Si tratta di Giuditta, di Salomè e dell’enigmatica e conturbante Lilith, che pare essere l’originario ma quasi indecifrabile palinsesto psichico del disagio sopra menzionato. Proviamo ora ad esaminare le loro storie. Giuditta Il Libro di Giuditta, presente nella cosiddetta ‘Bibbia dei settanta’ e riconosciuto come parte autentica del Vecchio Testamento dalla chiesa romana e da quella ortodossa ma non dall’ebraismo rabbinico, che lo considera invece aprocrifo, narra la storia di una bellissima vedova, Giuditta, la cui audacia e determinazione salvano la città di Betulia dall’aggressore assiro, il generale Oloferne. E come avviene ciò? Semplicemente, con lo strumento antichissimo ma sempre efficace delle lusinghe d’amore. Infatti, indignata per la scarsa resistenza dei suoi compatrioti nei confronti di Oloferne, Giuditta ricorre all’arma della seduzione: ... depose le vesti di vedova, poi lavò con acqua il corpo e lo unse con profumo denso; spartì i capelli del capo e vi impose il diadema. Poi si mise gli abiti da festa, che aveva usati quando era vivo suo marito Manasse. Si mise i sandali ai piedi, cinse le collane e infilò i braccialetti, gli anelli e gli orecchini e ogni altro ornamento che aveva e si rese molto affascinante agli sguardi di qualunque uomo che l’avesse vista. (Giuditta X, 3-4) Così agghindata, la donna si presenta all’assiro, che rimane ammaliato dalla sua bellezza e dal suo spirito. Continua Incunabolo di Norimberga, Giuditta e Oloferne, xilografia colorata a mano, Washington, DC, USA, (1493)

Murazzano, fronte del Palazzo Tovegni destinato a manifestazioni culturali

Uno dei simboli di Cambi di stagione

Giorgione, Giuditta con la testa di Oloferne, olio su tavola trasportato su tela, cm 144 x 68, Museo Hermitage - San Pietroburgo (1504 c.)

quindi a frequentarlo, ma senza mai concedersi. Finché, una notte, approfittando dell’occasione propizia – Oloferne giace ubriaco e privo di sensi – aiutata anche dalla fida ancella, essa recide la testa dell’uomo, privando quindi del loro comandante gli invasori che, scoraggiati, si ritirano. La storia racconta inoltre come poi Giuditta rimarrà vedova e casta per tutto il resto della sua vita. 112

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Conrat Meit, Giuditta con la testa di Oloferne, alabastro, Museo Nazionale Bavarese, Monaco 1525

Nonostante le differenze di ambientazione e di stile, a parte il motivo della testa mozza, ciò che accomuna quasi tutte le varie raffigurazioni del personaggio è comunque la sua più o meno prorompente sensualità. Se infatti Giuditta appare coperta e stranamente poco attraente nell’omonima opera del Mantegna (1495) o in quella di Cristoforo Allori (1613, Palazzo Pitti, Firenze), ben più ardita e voluttuosa è la statuina (in alabastro) di Konrat Meit (1512), dove anzi è nitidamente disegnata la fessura vaginale. Sempre nuda e seduta sul letto a rimirare la testa mozza di Oloferne è poi la Giuditta di Sebald Beham (1547). Sensualità e femminilità inquietanti compaiono inoltre nelle rispettive opere di Lucas Cranack il Vecchio (ca. 1530) e in quella di Jan Sanders van Hemesse (ca.1540): una raffigura un volto insinuante e raffinato, e l’altra un corpo voluttuoso. Nella prima, Giuditta è ritratta sfarzosamente vestita e ingioiellata, con un caratteristico capello a falde larghe sui capelli (ovviamente, rossi), mentre nella la seconda essa é invece nuda e brandisce ancora in mano la spada. Altrettanto ingioiellata e sempre con i capelli rossicci sormontati da un diadema sarà inoltre la Giuditta (1596) di quella Fede Galizia (1578-1630) morta durante la peste di Milano. Un’eccezione poco convincente e decisamente agiografica è costituita dall’analoga pittura (1730) della veneziana Giulia Lama, dove il personaggio, per nulla discinto, viene raffigurato senza la famigerata spada e in un atteggiamente mistico: con le mani giunte e lo sguardo rivolto al cielo.

Caravaggio, Giuditta e Oloferne, olio su tela, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini

Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, olio su tela, Museo di Capodimonte, Napoli

Autentica o meno che sia la vicenda,1 sta di fatto che il suo carattere esemplare avrebbe esercitato un profondo fascino non solo in pittura, come vedremo, ma anche in letteratura (vedi la Giuditta di Hebbel) e in musica (vedi, per esempio, La Giuditta di Scarlatti o la Giuditta triumphans di Vivaldi). Al di là degli oleografici stereotipi circa l’eroina pronta a sacrificarsi per il bene della patria, in realtà molti elementi contradditori suggeriscono che qui ci troviamo di fronte a un personaggio di gran lunga più complesso. Contrariamente a tante altre figure femminili la cui virtù è insidiata, ma che però sono scialbe e poco sessualmente consapevoli, qui al contrario la protagonista è perfettamente conscia del suo potere di seduzione, e gli strumenti da lei usati lo dimostrano: vesti di lino semi-trasparenti, unguenti, monili. Giuditta si comporta cioé da esperta cortigiana. Ma è una cortigiana che non si concede. Il maschio non può conquistarla, anzi, ne è talmente dominato che soccombe a causa sua e, fra l’altro, in un modo terribile.

1599

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Tutti questi elementi, e in particolare il fantasma della vittoria femminile nelle sue forme più angosciose, sono ben presenti nelle innumerevoli rappresentazioni della vicenda. La miniatura di un manoscritto di Norimberga (1493) mostra infatti la donna seduta e altera come una castellana mentre regge con la punta della spada la testa mozza di Oloferne. Ancora più espressiva la Giuditta del Giorgione (1504), raffigurata con un piede sopra la testa dell’uomo: il simbolo del dominio non potrebbe essere più vistoso. Ma anche senza tale particolare, è sempre l’atto feroce ad aleggiare nelle varie rappresentazioni. A torso nudo e con la spada ancora insanguinata in una mano, mentre regge con l’altra la testa di Oloferne, sarà la Giuditta (1565) di Jan Metsys. Una sorta di sadico compiacimento si avverte poi in un omonimo dipinto (1631) di Artemisia Gentileschi, che ritrae Giuditta nell’atto stesso di affondare la spada nel collo di Oloferne, mentre il sangue sgorga sul lenzuolo.

1 La cosa più probabile è che la narrazione sia a sua volta una reminiscenza o la replica di un’altro evento analogo, quello in cui la Jael dei Giudici uccide il generale canaanita Sisera mentre dorme nel sonno. Cfr. O. Eissfeldt, The Old Testament. An introduction, 1965, pp. 585-587. 114

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Botticelli, Il ritorno di Giuditta a Betulia, tempera su tavola, 31 x 25 cm, Museo Diocesano, Milano 1599

Donatello, Giuditta e Oloferne, scultura in bronzo, Piazza della Signoria, Firenze 1457

Cranach, Giuditta con la testa di Oloferne, olio su tavola, Palazzo della Legione d’Onore, San Francisco 1531

Qui Oloferne giace addormentato, per quanto semi-nudo, e ancora con la testa attaccata al collo... Più fedele alla tradizione sarà molto più avanti la Giuditta di Paul Albert Steckt (ca. 1900), vestita solo di un velo che non nasconde nulla delle sue forme opulente. Da notare che il personaggio sarà ritratto, fra gli altri, anche da 116

Cristofano Allori, Giuditta con la testa di Oloferne, olio su tela, Palazzo Pitti, Firenze 1615

Cranach, Giuditta con la testa di Oloferne, olio su tavola, Museo Storico di Vienna 1530

Gustav Klimt, Giuditta I, olio su tela, cm 82 x 42, Österreichische Galerie Belvedere, Vienna 1901

Klimt, per ben due volte (1901 e 1909). Nell’immaginario maschile, dunque, peraltro rappresentato - come si è detto - anche da una Artemisia Gentileschi con insolita ferocia, il personaggio sembra incarnare un’inquietante modello: la seduzione più raffinata e irresistibile, che conduce poi all’annientamento fisico del maschio.

Salomè Replica e quasi calco della figura di Giuditta e dello stesso timore nei confronti della donna è quella Salomè “figlia di Herodiade”, menzionata da Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche, XVII, cap. 5,4), che, secondo quanto scrive l’evangelista Marco (6:21-29), avrebbe richiesto al patrigno Erode la testa mozza del Battista. Anche tale episodio, vero o falso che sia, godette di grande fortuna nella storia della pittura, ispirando una moltitudine di opere di artisti quali Bellini (1464-1468), Verrocchio (14771480), Botticelli (1488) e Tiziano (1515), la cui Salomé, peraltro vestita, guarda con una sorta di malcelata soddisfazione il trofeo che regge in mano. Sempre vestita, per quanto ingioiellata, la ritrarrà inoltre Lucas Cranach (ca. 1530). Il personaggio sarà poi dipinto da Caravaggio e anche da Reni, fino ad arrivare a Moreau, Stuck, Corinth e Klimt. Moreau in particolare ne fu talmente ossessionato da dedicargli più di un dipinto. La sua Salomè del 1876, per esempio, allo stesso modo della Giuditta di Giorgione, tradisce una percezione del latente dominio femminile, non tanto per lo sfarzo tipicamente orientale della rappresentazione quanto per l’espressione imperiosa del volto. Non meno altera e inoltre ricoperta solo di un velo trasparente è poi la già citata Salomè di Pierre Bonnaud, allievo di Moreau, raffigurata mentre tocca capricciosamente la testa mozza del Battista deposta sopra un bacile. Schiettamente lussuriosa è infine la Salomè (ca. 1900) di Lovis Corinth. Col volto pesantemente imbellettato e il seno scoperto, la donna è ritratta china sulla testa del Battista deposta su un bacile. Anche se non sembra essere lei l’autrice dell’esecuzione – è un uomo dall’espressione rozza e volgare a tenere ancora in mano la spada insanguinata - in realtà, l’espressione di morbosa curiosità e di compiacimento sul volto di Salomè suggerisce quale sia la mandante.

Gustav Klimt, Giuditta II, (Salomé), olio su tela, cm 176 x 46, Galleria Internazionale d’Arte Moderna, Venezia 1909 117


Ora, tale ossessiva replica di teste (maschili) mozzate non sarebbe così significativa, se a commettere il gesto fossero solo delle semplici figure di donne. In realtà, sia Salomè che Giuditta sono quasi sempre rappresentate come la quintessenza della seduzione e della sensualità, come l’espressione simbolica del (quasi incontrollabile) potere della donna sul maschio. Ma è proprio tale associazione “bellezza femminile-perdita della testa” a suggerire a questo punto come molto probabilmente essa non sia altro che il sintomo e la traslazione simbolica di un atavico e sotterraneo complesso di castrazione nei confronti della bellezza femminile, per cui la rescissione della testa corrisponde in realtà a un non meno orribile timore: quello della rescissione del fallo. Se tale traslazione simbolica è fondata, noi abbiamo allora anche una spiegazione più realistica delle ostinate foglie di fico, dei panni che tradizionalmente ricoprono i lombi maschili o della rappresentazione del pene quasi contratto e mai in stato di erezione, come se non volesse dare nell’occhio e quindi esporsi a indebiti pericoli. Imprevedibilmente, dunque, pur nelle loro variazioni, il tema di Salomè e di Giuditta si sovrappongono. In entrambi i casi sembra agire una sorta di fascino-ossessione ma anche un latente sintomo di ansia e disagio nei confronti della sessualità più prorompente.

Copertina e illustrazioni della tragedia di Oscar Wilde disegnate da Aubrey Breadsley

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Tiziano, Salomè con la testa del Battista, olio su tela, Galleria Doria Pamphilj, Roma 1515

Tiziano, Salomè 1550

Bernardino Luini, Salomè riceve la testa di San Giovanni Battista, olio su tela, cm 62,5 x 55 1515

Andrea Solari, Salomè con la testa del Battista, olio su tela, 57,2 x 47 cm, Metropolitan Museum of Art, New York 1507

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Caravaggio, Salomè con la testa di San Giovanni Battista 1607 Gustave Moreau, Salomè

Lovis Corinth, Salomè, olio su tela, Museo di Lipsia part.

1900

Lilith In un rilievo della cattedrale di Autun (XII secolo) il serpente tentatore che porge la mela a Eva ha il busto e il volto di una donna seducente. Ed è ancora un serpente con una testa di donna quello che appare in una scena analoga sulla facciata occidentale di Notre Dame a Parigi. In realtà, non si tratta di coincidenze o di bizarrie di scultori medioevali, ma questa misteriosa figura, in genere ritratta con lunghi capelli rossi, continua ad affiorare nell’iconografia di Adamo ed Eva, dal medioevo fin quasi ai nostri giorni. Nel XV secolo essa è presente nella penisola scandinava – per esempio, affreschi della chiesa di Öja nell’isola di Gotland e di quella di Vittskövle nella diocesi di Lund – ma anche in Borgogna, nei Paesi Bassi e in Germania. È infatti sempre con un volto femminile che il serpente viene raffigurato da Van der Goes ne Il peccato originale (1440-1482). Ma lo stesso accade anche in quel capolavoro dei manoscritti miniati che sono Les Tres Riches Heures (inizi XV sec.) dei fratelli Limbourg, commissionato da un eccentrico collezionista di libri, il Duca di Berry. Compare anche nel Paradiso (ca. 1511) di Hyeronymus Bosch (Prado) e nella già citata Eva di Cornelis van Harlem. Allo stesso modo lo ritrae inoltre H. Holbein in una sua incisione (Danza macabra, II, La tentazione, ca. 1520). Che non si tratti poi solo di un vezzo fiammingo-borgognone o nordico, lo conferma la presenza dello stesso motivo anche nella pittura italiana del Rinascimento. Ha un volto di donna il serpente che compare nella Tentazione di Adamo ed Eva (1425) di Masolino da Panicale, mentre anche l’analoga opera di Michelangelo (Capella Sistina) mostra, attorcigliato all’albero del bene e del male, un serpente dal volto di donna con i lunghi capelli rossi. Lo stesso motivo ricompare inoltre in un affresco (1502) della Capella Sistina di Filippino Lippi. Nonostante il trascorrere dei secoli, il fascino del modello rimane invariato, ed eccolo così riapparire in Adamo ed Eva di Blake. Per quanto non in uno scenario adamitico, ritroveremo poi Lilith e i suoi boccoli rossi anche nel già menzionato quadro di Dante Gabriele Rossetti, datato 1868 e intitolato Lady Lilith, o anche The body’s beauty. Completamente nuda e col corpo avvvolto dalle spire di un serpente la ritraggono poi sul finire del XIX secolo anche John Collier (Lilith, 1892) e Kenyon Cox.

Michelangelo, Cappella Sistina, La tentazione di Adamo ed Eva (particolare)

Chi è dunque questa conturbante figura, mezzo umana e mezzo mostruosa? E perchè essa appare così spesso nell’iconografia di Adamo ed Eva? In realtà, la sua storia è tanto remota quanto intricata, e qui se ne possono accennare solo alcuni tratti salienti. Già presso i Sumeri era noto un dèmone femminile della notte, chiamato Lilit, “la giovane vento” e anche Ardat-lili, “serva del vento”. Sarebbe costei quella che appare in un poema intitolato “Inanna, Gilgamesh e gli Inferi “, dove leggiamo di un serpente che fa il nido nell’albero Khuluppu: Nelle sue radici un serpente che non teme magia vi aveva fatto il nido; [....] nel suo tronco la vergine-fantasma vi aveva costruito la sua casa [...]2 Non vi è accordo se la terracotta Colville (ca. 2000 a.C.), raffigurante una dea alata con i piedi da rapace e con due civette ai lati, che paiono sottolinearne il carattere notturno, sia o meno una rappresentazione di Lilit. Sta però di fatto che esseri dal nome e dalle caratteristiche simili erano ben noti anche presso i Babilonesi, per i quali esistevano infatti dèmoni femminili

William Blake, La tentazione e la caduta di Eva

1808

chiamati lilîtu, la cui attività principale era quella di assediare il sonno degli uomini, di tentarli nelle strade e suscitarne la lussuria, ma senza mai soddisfarla: difficile non pensare a Giuditta. Come abbiamo appena visto, Lilit (o Lilith) era inoltre associata a varî animali, fra i quali il serpente. Data la cattività ebrea in Babilonia, non è probabilmente una coincidenza se poi tale figura ricompare anche nel Vecchio Testamento (Isaia 34:14).

2 Cfr. G. Pettinato, Angeli e demoni a Babilonia, Milano, 2001, pp. 40, 123; 120

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Ma ritorniamo al testo di Nag Hammadi, per cogliere ulteriori elementi che riguardano la tradizionale iconografia di Adamo ed Eva: The authorities approached their Adam. When they saw his female partner speaking with him, they became aroused and lusted after her [….] In their grasp she turned into a tree, and when she left for them a shadow of herself that looked like her, they defiled her sexually […] Then the female spiritual presence came in the shape of a serpent [….]7** [Corsivi nostri] Analogo scenario ricompare in un altro testo, sempre di Nag Hammadi, dedicato alla creazione del mondo. Anche qui, una volta deflorata la sua ombra, è sempre la donna spirituale, sotto forma di serpente, ad invitare Adamo ed Eva ad appropriarsi della perduta conoscenza del bene e del male.8 Più avanti, fra il XII e il XVI secolo, cabalisti e mistici ebrei di Spagna svilupparono ulteriormente certe caratteristiche di Lilith, riprendendone le già menzionate associazioni col serpente e facendone inoltre la moglie di Semael, angelo ribelle. In quella che forse è l’opera più famosa del misticismo giudaico di Spagna, e cioé, nello Sefer ha-Zohàr (Libro dello Splendore), vi sono passi come questo, dove noi ritroviamo molti degli aspetti associati all’iconografia di Lilith ma, imprevedibilmente, anche a quella di Giuditta e di Salomè: La regina della notte, terracotta paleobabilonese, 1800-1750 a.C., British Museum - Londra

La storia del Paradiso terrestre, Notre-Dame de Paris, Francia

È interessante notare come un personaggio simile, che poteva assumere varie forme animali, era fra l’altro conosciuto anche alla mitologia greca, sotto il nome di Lamia o anche di Empusa. Regina di Libia, bellissima e amata da Zeus, dopo che quest’ultimo la abbandona e Hera le ruba i figli, Lamia si vendica rubando a sua volta quelli delle altre donne, anche quando sono ancora nel loro grembo. Ben più interessante di queste sue pur temibili caratteristiche, è tuttavia il fatto che a costei fosse attribuita una sfrenata lussuria, cosicché uno degli appellativi tipici della prostituta era appunto quello di Lamia.3 È verosimilmente sulla base di quest’ultima associazione che poi Gerolamo, nella Vulgata, traduce come Lamia la Lilith di Isaia: ibi cubavit Lamia et invenit sibi requiem. Una Lilith dai tratti assai simili è inoltre menzionata in vari testi mandei, in genere a carattere magico.4 Il personaggio riappare quindi nel cosiddetto Alfabeto di Ben-Sira, intitolato a Yeshua ben Sira (II sec. a.C.) ma in realtà di autore anonimo e scritto attorno al X secolo d.C. Quello che appare tuttavia probabile è che l’opera riprenda tradizioni assai più antiche, e quindi precedenti lo stesso giudaismo rabbinico. Mentre essa consolida l’immagine di Lilith come la quintessenza della lussuria femminile, l’elemento ancora più significativo ai nostri scopi è che sarebbe stata costei la prima moglie di Adamo, e non Eva. Se poi Dio fu praticamente costretto a creare anche quest’ultima, ciò fu dovuto al fatto che l’unione fra Adamo e Lilith fallì fin dall’inizio: la donna, Lilith, non accettava di “stare sotto” il maschio – presumibilmente non solo durante il coito – e per tale motivo lo abbandonò. Curiosamente, in queste due figure femminili paiono echeg-

giare motivi ben più antichi, forse precedenti lo gnosticismo stesso. Nonostante il nome Lilith non vi sia espressamente menzionato, in un testo della biblioteca gnostica di Nag Hammadi leggiamo infatti di una Eva spirituale, che precede e supera quella fisica. Paradossalmente, è proprio la prima a fare di Adamo un essere psichicamente consapevole:

3 Cfr. K. Kereny, The gods of the Greeks, London, 1951, pp. 37-40.

Apparentemente dimenticata dalla letteratura dei secoli successivi ma, come abbiamo visto, non dalla pittura, agli inizi del XIX secolo, Lilith riappare inaspettatamente in una scena del Faust. Non è chiaro se Goethe abbia pensato a lei dietro l’nfluenza di opere come il Lexicon Talmudicum del famoso ebraista di Basilea Johannes Buxtorf (1564-1629), che diffuse molte nozioni dei cabalisti, inclusa quella che faceva di Lilith la prima moglie di Adamo.

The woman of spirit came to him and spoke with him, saying: Arise, Adam. “When he saw her, he said: “You have given me life. You will be called the Mother of the living.”5* È chiaro che “la vita” di cui parla Adamo ha a che vedere con una elevazione o trasformazione spirituale, ed è a questo punto quasi impossibile non associare tale trasformazione a un’altra storia, ancora più antica, dove è nuovamente una donna, per quanto prostituta, a trasformare un bruto in uomo civilizzato. Nella prima tavola del poema sumero di Gilgamesh, che narra dell’incontro del selvaggio e quasi animalesco Enkidu con una prostituta di nome Shamkhat, dopo che costui ha posseduto la donna per sei giorni e sette notti, leggiamo infatti che: [...] gli animali della steppa si tengono lontani da lui [Enkidu]. Enkidu (infatti) era diverso, una volta che il suo corpo era stato purificato: le sue gambe, che prima potevano tenere il passo con le bestie, erano diventate rigide; Enkidu non aveva più forze [...] egli aveva però ottenuto l’intelligenza. 6 [Corsivo nostro]

4 Cfr. S. Hurwitz, Lilith, The first Eve, Eisiedeln, 1999, pp. 93-114. 5 M. Meyer (ed. by), The Nag Hammadi scriptures, New York, 2007, (The nature of the rulers, 86.27-87.23), p. 193. 122

Ella si adorna con molti ornamenti come una spregevole prostituta e si mette ai crocicchi per sedurre gli uomini[....] Gli ornamenti che usa per sedurre sono: capelli lunghi e rossi come le rose, guance imbellettate, monili che pendono alle orecchie...I suoi abiti sono scarlatti... E cosa fa quando qualche folle si è invaghito di lei e ha fornicato con lei? Lascia che si addormenti... Quando poi costui si risveglia e crede di potersi nuovamente sollazzare, allora ella si spoglia dei suoi ornamenti e assume l’aspetto di una figura minacciosa. Sta ritta di fronte a lui, con indumenti fiammeggianti, ispirando terrore e facendo tremare l’anima e il corpo con i suoi occhi minacciosi, con una spada sguainata in mano che stilla gocce amare. E poi ella uccide il folle e lo scaglia nella Gehenna.9 [Corsivi nostri]

Scultura lignea dipinta, chiesa di öja, Isola di Gothland, Svezia

Hugo van der Goes, La caduta, Museo della storia dell’Arte di Vienna, Austria 32.3 x 21.9 cm 1480

* La donna di spirito venne da lui e parlò con lui, dicendo: Levati, Adamo. “Quando la vide, disse:” Tu mi hai dato la vita. Sarai chiamato la Madre dei viventi”. 6 Cfr. G. Pettinato, La saga di Gilgamesh, Milano, 1993, p. 131. 7 M. Meyer, Op. cit. p. 193

**Le autorità si avvicinarono ad Adamo. Quando hanno videro la sua compagna femminile/parlare con lui, eccitato e concupito suo [....] Nel loro/abbracciarsi lei si trasformò in un albero, e quando lasciò per loro l’ombra di se stessa/che sembrava la sua, la contaminarono sessualmente [...] Poi la donna, spirituale/presenza, diventò a forma di serpente 8 Ibid., pp. 214-216. 9 Zohar, i. 148a-b, Sitre Torah. Cit. in: R. Patai, The Hebrew Goddess, Detroit, 1990, pp. 233-234.

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ma misteriosamente vitali? Furono cioè opere che riprendevano la letteratura post-biblica (e quindi anche l’Alfabeto di Ben Sira), come il grandioso dizionario enciclopedico, l’Aruch, del dottissimo poliglotta Rabbi Nathan ben Jehiel 1030-1106, cresciuto a Roma, ma che soggiornò a lungo in Sicilia e poi anche a Narbonne prima di ristabilirsi definitivamente nella città dei papi, o il tema circolava tramite canali non meglio identificabili? Fra l’altro, Nathan non doveva certo essere l’unico studioso conoscitore dell’Alfabeto. Ma anche il Talmud denominato “babilonese”, per via della sua elaborazione in Mesopotamia, era diffuso nelle comunità ebraiche medioevali dell’Italia del sud e, fra i passaggi in esso che dipingono Lilith come una seduttrice, ne esiste anche uno che menziona esplicitamente i suoi lunghi capelli.11 Nè va infine trascurato, per limitarci solo all’Italia di quei secoli, che sarà proprio a Firenze, e quindi nella culla della pittura rinascimentale, che un Pico della Mirandola entrerà in contatto con vari esponenti e dotti della Kabalà, in cui, come già accennato, lo Zohàr godeva una posizione di rilievo. È insomma indubbio che, sia pure tramite canali e strumenti di diffusione ben difficilmente ricostruibili, il tema di Lilith e del serpente deve aver viaggiato nel corso dei secoli e dei millenni fino a diventare un elemento centrale di buona parte dell’iconografia relativa a Adamo ed Eva, mostrando così la sua inesausta vitalità.

Kenyon Cox, Lilith

1892

Sta comunque di fatto che, nell’episodio della Notte di Walpurga, costei appare a Faust, e i commenti di Mefistofele non lasciano dubbi che si tratti della stessa Lilith dell’Alfabeto di Ben Sira: Faust - E quella chi é? Mefistofele – Guardala bene. È Lilith. Faust – Chi? Mefistofele – La prima moglie di Adamo. Guàrdati dai suoi bei capelli. Il riferimento si fa poi ancora più preciso quando Faust dice di aver visto un melo nel giardino, e la ‘La bella’, e cioé Lilith, gli ricorda i pomi e il serpente.10 Pochi anni dopo la comparsa della prima parte del Faust, e precisamente nel 1819, vedrà poi la luce la Lamia di Keats, raffigurata anch’essa come donna bellissima costretta ad apparire sotto le spoglie di un serpente: She seem’d, at once, some penanced lady elf, Some demon mistress, or the demon’s self. (Lamia, 55-56, Parte I). L’associazione serpente-Lilith - e quindi per estensione anche lussuria-pericolo - è insomma non solo diffusa ma tale da rimandare a una tradizione molto antica, per quanto oscura e nebulosa. E qui si pone ovviamente un problema essenziale: la presenza nell’Occidente cristiano dell’identificazione serpente-Lilith, già nel tardo medioevo, è dovuta alla sotterranea (per via delle persecuzioni) influenza di testi come quello di Ben Sira, oppure è da collegare a tradizioni indipendenti

Convergenze e analogie di caratteri Se ora si confrontano i tre personaggi femminili sopra descritti, è facile rendersi conto di come essi in buona parte si sovrappongano uno sull’altro e siano per così dire ‘varianti’ di uno stesso antichissimo modello. Una volta escluse alcune differenze di costume e circostanze, certi elementi essenziali sono infatti identici e comuni sia a Giuditta e Salomé che a Lilith. Dai loro ritratti emerge un’analoga percezione angosciosa nei confronti della seduzione femminile, sul cui fascino aleggia sempre un fantasma inquietante. Detto in altre parole, queste figure di donna sono la proiezione senza addomesticamenti di tutto ciò che sembra aver sempre attratto ma anche intimorito il maschio. Le teste mozze di Oloferne e del Battista e la spada sguainata della stessa Lilith sono lì a suggerire una sorta di atavico e misterioso timore della femminilità. Paradossalmente, quest’ultima nel suo grado più intenso evoca angoscia. Ma vi è di più. La singolare identificazione del serpente tentatore con Lilith e la sua replica in tante rappresentazioni di Adamo ed Eva suggeriscono quali ne fossero le tacite implicazioni. La vera tentatrice a cui simili opere rimandano, non è, cioé, la tanto fustigata Eva, passiva e succube e in fondo insipida, quanto piuttosto il suo doppio, Lilith - anzi, la vera Eva - ben più consapevole e insidiosa. In fondo, è costei che, sia pure indirettamente, offre il pomo ad Adamo. Ed è da tale conturbante essere femminile che Adamo, e per estensione ‘il maschio’, sembra attratto, sedotto e sconfitto. I testi gnostici (considerati eretici o pseudoepigrafici) sopra citati aggiungono tuttavia un’ulteriore lato, apparentemente contradditorio, al già così complesso e sfuggente personaggio della prima e vera Eva: quello di essere una benevola elargitrice di conoscenza. Senza qui pretendere di addentrarci nei meandri dell’esegetica biblica, bisognerà a questo punto soffermarci brevemente sul racconto della Genesi, là dove noi assistiamo a una proibizione di Dio, quella di mangiare i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male e, contemporaneamente, all’insinuante invito del serpente a fare esattamente il contrario e, insomma,

a disubbidire. Ma quando Adamo ed Eva mangiano il frutto e i loro occhi si aprono (alla conoscenza), per la prima volta essi si acorgono di essere nudi e coprono le loro parti genitali con delle foglie di fico (Gen. 2-3). È su questo episodio, per molti aspetti singolare, che poi Sant’Agostino avrebbe costruito la sua teoria del peccato originale. Facendo risalire alla disubbidienza verso la prescrizione divina il risveglio del pudore e, per estensione, la ribellione della carne alla volontà, in tal modo egli avrebbe esasperato per i secoli a venire la demonizzazione del sesso, tollerato - ma a denti stretti - solo se finalizzato alla procreazione e, quindi, non goduto e assaporato in quanto tale.12 Ora, apparentemente, qui siamo di fronte a due diverse disubbidienze: quella del testo biblico, nei confronti di Dio, e quella dell’Alfabeto di Ben Sira, della prima Eva nei confronti di Adamo. Inoltre, siamo anche in presenza di una ‘conoscenza’, stranamente presentata come proibita e fonte di morte, e di un’altra, presentata al contrario come fonte di illuminazione e di avanzamento spirituale. Tuttavia, sia il testo biblico che tutti i vari testi di disparate epoche e provenienze che menzionano Lilith, convergono su un punto essenziale: il serpente è collegato a un essere femminile, e ciò ha delle conseguenze sconvolgenti. La stranezza e illogicità del divieto divino e, soprattutto della colpevolizzazione della relativa disubbidienza diventa meno incomprensibile, se noi la interpretiamo come la dissimulata metafora di un più realistico tipo di disubbidienza, velato e irriconoscibile nel testo della Genesi ma non in Ben Sira: quella della prima Eva-Lilith nei confronti di Adamo. Come abbiamo visto, infatti, secondo l’Alfabeto, la prima Eva non accettava di stare sotto. Ma questa, che è a sua volta un’ulteriore metafora, non rimanda semplicemente al rifiuto della donna di essere dominata, anche psicologicamente, dal maschio. A un livello più riposto, essa evoca il timore dell’aggressività e potenzialità erotica della donna, difficile da arginare ed esaurire, soprattutto se la donna sta letteralmente sopra il maschio e gli impedisce in tal modo di sollevarsi a sua discrezione. In tal modo, quest’ultima diventa anche la proiezione di tutto ciò che è anarchico e incontrollabile nel desiderio. Visto in questa prospettiva il ‘peccato originale’ di Agostino, è difficile sottrarsi al sospetto che la disubbidienza apparentemente tutta teologica che egli aveva in mente fosse in realtà quella, giovanile, della (sua) carne nei confronti della ragione e della volontà, esperienza che avrebbe segnato indelebilmente il suo atteggiamento verso la donna e il sesso. Questa Eva ancestrale, dunque, questa Lilith che appare come l’esasperazione del modello di donna seducente, non poteva che essere demonizzata, ancor più della sua scialba omologa o di sia pure insidiose figure come Giuditta e Salomé. Le sue virtù - la capacità di arrivare fino alla mente e all’intelligenza del maschio, anzi, di essergli superiore - e il suo fascino – la sua aggressiva lussuria - attraggono ma anche respingono. Non è insomma un caso se questa versione della prima Eva non è stata omologata nel canone testamentario e neanche in quello culturale in senso lato dell’occidente, ma ha sempre evocato il fantasma della donna fatale. La sua presenza non è limitata alla pittura. L’immaginario romanzesco, specie quello d’avventura, dove spesso emergono imprevedibili archetipi, ne offre ulteriori testimonianze. Essi sono troppo numerosi e ubiqui e per così dire ecumenici per essere delle mere coincidenze o vezzi letterari. Bellissime e seducenti, ma dal fascino tenebroso, sono per esempio la Milady de I tre moschettieri, Antinea di P. Benoit o

Masolino da Panicale, La tentazione, Cappella Brancacci, Firenze

March Chagall, Paradiso, (particolare) Nizza 1427

1970

She di Rider Haggard, senza tuttavia dimenticare la Elena goethiana o la Madame Chauchat de La montagna incantata di Th. Mann. Ma forse che caratteri analoghi non sono già presenti nel personaggio della Circe omerica, non a caso rappresentata come una maga? Allo stesso modo dei demoni femminili del panteon mesopotamico, tutte queste figure di donna presentano tratti torbidi e insidiosi, che testimoniano di una sorta di ossessione radicata da millenni nell’immaginario della civiltà indo-europea e possono forse spiegare perchè il porto-rifugio agognato da tanti protagonisti maschili siano in realtà figure femminili di segno opposto e per così dire cristalline: da Penelope alla Ofelia shakespeariana e dalla Margherita di Goethe fino alla materna Agnese del David Copperfield. In nessuna di esse Eros, nelle sue valenze più anarchiche e insondabili, appare come il segno dominante. Il latente disagio, se non addirittura astio nei confronti delle donna non è ovviamente sempre affiorato in modo eguale e consapevole. Ci furono comunque periodi in cui più di altri noi ne riconosciamo le tracce, ancorchè travestite. Basta pensare al forsennato accanimento con cui l’Europa cristiana, dal tardo medioevo fino ad almeno il XVII secolo, diede la caccia alle streghe fatte complici di riti satanici. Non è insomma una coincidenza che, nonostante gli stermini delle varie crociate contro gli eretici riguardassero ambo i sessi, siano state delle “streghe” ad essere arse a decine o forse centinaia di migliaia, e non degli “stregoni” e che per esempio le sventurate di Salem fossero appunto donne, e non uomini. In conclusione, la frequenza con cui i personaggi di Giuditta, Salomè e, indirettamente, Lilith sono stati rappresentati dalla pittura occidentale appare come un inatteso riflesso di turbamenti mascherati e inconsci ma mai interamente superati. Demonizzata l’Eva primordiale e alienata sotto forme serpentine nella storia biblica, in modo da renderla irriconoscibile e disprezzabile, l’indomito e inesausto fantasma di quest’ultima ha tuttavia continuato a riaffiorare nei secoli e millenni, assumento altri nomi e altre sembianze, ma sempre conservando la sua aura insidiosa e inquietante. Antonello Catani

10 Cfr. Goethe, Faust (Trad. G. Manacorda), III voll. Firenze, 1949, Vol. I , vv. 4118-4135, pp. 310-311. 11 Talmud babilonese: Nidda 24b; Erubin 100b. Cit in : S. Hurwitz, Op.cit., p. 89. 124

12 Cfr. Agostino, La Città di Dio, XIII, 12-13; XIV 12, 17 e passim. 125


giuditta, salomè, lilith - alcune osservazioni

I personaggi di riferimento (Giuditta, Salomè, Lilith) hanno sollevato l’interesse dei creativi d’arte di ogni settore, in ogni epoca, in quantità ben oltre a quelli citati e riprodotti su queste pagine. Anche la letteratura e la musica si sono interessate delle loro vicende interpretandole secondo umori personali o d’epoca affatto unici. Per esempio, lo scrittore tedesco Friederik Hebbel (1813-1863) che la critica letteraria indica come un antesiniano di Ibsen scrive “Judith” (dopo aver visto ed esserne stato suggestionato un dipinto di Domenichino) fuori dallo schema biblico e la donna uccide il nemico non per salvare il suo popolo ma per vendicare il suo orgoglio. I musicisti Alessandro Scarlatti (Palermo 1660-1725) e Antonio Vivaldi (Venezia 1675-1741) composero oratori vocali (Judith / Judith Triunfans 1716) di diversa intonazione. Anche l’arioso e brillante Franz Lehar, musicista ungherese, volle accanto alla sua “allegra vedova” la vendicativa “Salomè”, operetta in un atto. In tempi più recenti Oscar Wilde (1854-1900) scrittore inglese famoso anche per le drammatiche vicende umane e per il ritratto suo dipinto da Toulouse Lautrec, scrisse in francese il dramma “Salomè” per la “divina” trionfante attrice parigina Sarah Bernhart che per disposizione governativa venne vietato in tutta la vittoriana Inghilterra. La perversione sanguinaria di Salomè sarà sentita molto negli ambienti della raffinatezza Liberty, dei simbolisti, dei preraffaelliti che in ambito figurativo hanno dato luogo agli inquietanti disegni del tragico Aubrey Beardsley (1872-1898) grafico e poeta, del tenebroso William Blake (1757-1827) pittore, poeta e teorico esoterico di natura visionaria, di Dante Gabriele Rossetti (Londra 1828-1882) pittore e poeta di elegante ambiguità, alle rutilanti tavole del francese Gustave Moreau (1826-1899) sino alle immagini dorate del secessionista viennese Gustav Klimt (1862-1918) senza dimenticare che nei secoli passati quasi tutti i grandi maestri della pittura rinascimentale e barocca si sono fatti carico di darci la loro immagine di Giuditta e di Salomè. Più antico appare l’interesse per la misteriosa “Lilith” che in ogni caso viene rappresentata con una maggiore libertà di forme (donna, mostro, serpente) tanto dagli artefici dei reperti archeologici di 3/4.000 anni fa quanto dagli scultori medievali delle chiese del nord Europa e delle grandi cattedrali gotiche, con quasi dirette trasformazioni delle fantasie della poesia sumera o dei testi giudaici o di quelli salmudici, per apparire in forte rilievo in pieno rinascimento anche al centro della creazione michelangiolesca nella romana Cappella Sistina in relazione alla figurazione della tentazione di Adamo. Red. Gustave Moreau, Salomè (particolare)

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1871

Guido Reni (1575 - 1642), Salomè (particolare)

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Periodico di Arti Scienze e Cultura •

PORTI DI MAGNIN

N 79-80 • Ottobre 2013

“Magnin Litteraire” N°14

“noi di paulucci”: pino mantovani e compagni: giorgis, martelli, guasco, saccomandi a mondovì e alla galleria civica “filippo scroppo” di torre pellice Gianni Gallo: natura e cose di tutta una vita

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