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opinioni d'autore: Reddito di cittadinanza, più danni che benefici

REDDITO DI CITTADINANZA, PIÙ DANNI CHE BENEFICI

LUIGI MARATTIN: È L'ORA DI POLITICHE PER IL LAVORO

Luigi Marattin, ferrarese, è professore associato di Economia politica all'Università di Bologna. Già consigliere economico del Governo Renzi, poi eletto deputato, dal luglio 2020 è Presidente della Commissione Finanze della Camera.

Sono passati quasi tre anni dall’introduzione del RdC: cosa ci dicono i dati sull’efficacia di questo decreto?

«Chi introdusse il Reddito di cittadinanza dichiarò che aveva almeno due obiettivi: abolire la povertà e far trovare lavoro ai disoccupati. Sul primo fronte, i dati Istat dimostrano che il massimo che è riuscito a fare – prima del Covid – è stato ridurre dello 0,6% l’incidenza della povertà assoluta, ad un costo tuttavia esorbitante per le finanze pubbliche. E riguardo al secondo obiettivo, le statistiche sono impietose: circa il 3,8% dei beneficiari che hanno sottoscritto il Patto per il lavoro (a loro volta una minoranza del totale dei beneficiari) ha trovato un lavoro a tempo indeterminato. E probabilmente non lo ha fatto grazie ai navigator, ma nonostante essi. Allo stesso tempo, per com’è strutturato, ha fornito un naturale incentivo a richiedere il sussidio e poi lavorare in nero: chiunque non passi la sua giornata nei palazzi della politica sa che è esattamente questo che sta succedendo nell’economia italiana. Non credo quindi occorra particolare sforzo per sottolineare che, così com’è, questo strumento ha provocato molti più danni che benefici».

Il RdC è stato progettato non solo come misura assistenziale, ma anche come incentivo a trovare lavoro. Molti dei percettori, tuttavia, risultano difficili da collocare. Come si può fornire una migliore professionalizzazione ad una platea rimasta ai margini del mercato del lavoro?

«Io rimango della mia opinione, piuttosto radicale. Per far funzionare davvero

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le politiche attive, occorre rendere le

politiche per il lavoro una compe-

tenza esclusiva statale, anziché concorrente con le regioni. Altrimenti ogni disegno di riforma radicale (quale quello necessario su quel settore) si scontrerà con i veti e i contro-veti (e spesso i contro-contro-veti….) di 20 regioni. In parte è quello che sta accadendo ora con la GOL, il nuovo progetto del ministro Orlando per la riqualificazione professionale. Per farlo, certo, occorre cambiare la Costituzione. Ma in Parlamento lo stiamo facendo in questi mesi, per introdurre la tutela degli animali. Magari possiamo anche farlo per cose… come dire, almeno altrettanto importanti. Una volta fatto questo decisivo passaggio di governance, a mio parere bisogna puntare sull’assegno di ricollocazione, che riforma radicalmente il settore della formazione professionale, mettendo i vari centri in concorrenza tra loro e strutturando il sistema sulla base delle esigenze del disoccupato, e non dei centri di formazione».

L’idea di un reddito “universale” ha un fondamento reale nell’ambito delle politiche economiche, o crede che ci siano misure più efficaci per incrementare il potere d’acquisto e favorire l’occupazione?

«Un sussidio contro la povertà, diretto a coloro che non possono lavorare, è sacrosanto e nessuno lo mette in discussione. Certo, anch’esso con radicali riforme rispetto all’attuale funzionamento del reddito di cittadinanza (penso ad esempio a modifiche alla scala di equivalenza per garantire il sostegno alle famiglie numerose, al coinvolgimento dei comuni, e molto altro ancora). Ma per incrementare il potere d’acquisto e favorire l’occupazione serve mobilitare ogni energia della politica economica verso l’obiettivo di innalzare il tasso di crescita dell’economia. In primis riducendo la pressione fiscale sui fattori produttivi, ma anche migliorando il funzionamento dei mercati, compreso quello del lavoro».

Infine, una considerazione più generale. L’Italia è un Paese a bassa alfabetizzazione economica, un problema rilevante quando si cerca di motivare ai cittadini le scelte fatte dal Governo. Come affronta questa sfida?

«Certo non aiuta il fatto che da noi materie come educazione finanziaria o statistica siano insegnate molto poco, soprattutto nella scuola superiore. Ma credo che il problema sia ancor più profondo: da un po’ di tempo a questa parte si è persa la consapevolezza che per governare una società complessa, e financo per partecipare pienamente e costruttivamente al dibattito pubblico, occorre fare il sacrificio di informarsi, di studiare, di approfondire. Per troppo tempo abbiamo ceduto alla tentazione del semplicismo, dell’approssimazione, della dittatura dello slogan e dell’immagine, che hanno preparato il terreno all’avvento della stagione populista, una delle peggiori del mondo. Per fortuna già sembra passato un secolo, ma veniamo da un periodo in cui affidare enormi responsabilità politiche e istituzionali ad una persona senza alcuna esperienza o addirittura competenza era un vanto, anziché una vergogna. Se vogliamo veramente archiviare il populismo, e per sempre, dobbiamo ripartire da questa consapevolezza, e trasmetterla soprattutto alle nuove generazioni».

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