Dialogo a Due

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Dialogo a due

ISIA Urbino Diploma accademico di primo livello in Progettazione Grafica e Comunicazione Visiva Anno Accademico 2011/2012 Tesi di Greta Castellana Matricola numero 1006 Relatore: Prof.ssa Binante



Indice

05 ABSTRACT 07 RICERCA STORICA

Il corpo

La centralità del corpo nella fotografia Il corpo surrealista Gli anni Quaranta e Cinquanta Gli anni Sessanta Gli anni Settanta e Ottanta Il nudo nella fotografia Il ruolo delle donne

24 CONCETTI GUIDA DEL PROGETTO

Estraniamento dallo spazio

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Crescita, esperienza, tempo

Eugène Atget: estraneazione tra uomo e mondo circostante Andreas Gursky: il luogo anonimo Luigi Ghirri: l’idea di progetto Francesca Woodman: la geometria del tempo Duane Michals: un modello narrativo

51 INTERAZIONE TRA PAROLE E IMMAGINI

Poesia visiva

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Narrazione

82 CONCLUSIONI 84 FONTI 86

Riferimenti Bibliografici Riferimenti Sitografici

Poesia visiva: quadro generale La parola come immagine L’immagine come parola Equilibri verbo-visivi Le tecniche Il collage Il fotomontaggio Il carattere multi-disciplinare Bilinguismo Plurilinguismo e sinestesia Mirella Bentivoglio: abilità al femminile Barbara Kruger: parola e immagine in contrappunto Jenny Holzer: la forza dei nuovi supporti digitali Duane Michals: un modello comunicativo completo



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Abstract I luoghi con cui si interagisce, i cambiamenti geografici a cui si è sottoposti cambiano il modo di essere della persona. Si tratta di esperienze nate dall’interazione con gli spazi frequentati e vissuti. A livello caratteriale queste esperienze apportano notevoli cambiamenti di cui non si è immediatamente coscienti. La volontà di visualizzare le esperienze sul corpo nasce dall’intenzione di rendere visibile quanto profondamente le esperienze cambino l’essere di una persona. L’interazione dell’uomo con i luoghi circostanti genera un bagaglio di esperienze che il corpo registra ed assorbe. La prima parte di ricerca propone un’indagine sul tema del corpo e del luogo affrontato da punti di vista diversi: dalla storia, alla poesia, dalla fotografia, alla scrittura, all’arte. Nella seconda si analizza la relazione tra parola e immagine come nuovo linguaggio in ambiti comunicativi differenti. Nel progetto fotografico, gli scatti realizzati danno vita a racconti visivi. Le immagini visualizzano esperienze di interazione tra il corpo e i luoghi sotto forma di segni sulla pelle. I segni registrati sul corpo, derivano da elementi collegati al luogo fotografato. L’analisi del segno non vuole, tuttavia, esaurirsi nel ricondurre questo all’elemento che l’ha generato, ma vuole indagare l’interazione avvenuta con il luogo rappresentato. I luoghi in cui si è realizzata l’esperienza, vengono riprodotti sotto forma di scenari, con i quali è stato ritratto il soggetto. A completare la narrazione dell’esperienza visiva si aggiunge il ruolo della scrittura che offre un’ulteriore chiave di lettura alle immagini.



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RICERCA STORICA Il corpo


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La centralità del corpo nella fotografia

Il corpo ha sempre ricoperto un ruolo centrale nella storia della fotografia. Sin dai primi ritratti dell’Ottocento, passando per le avanguardie del Novecento, fino ad arrivare alla fotografia contemporanea, la figura umana è stata il soggetto principale della fotografia. Tramite l’analisi di alcuni autori e di alcune fotografie si è voluto evidenziare come la presenza del corpo umano abbia fortemente influenzato e modificato la nascita e i successivi sviluppi di alcune “poetiche” fotografiche. Tralasciando la rittrattistica dell’Ottocento è stato scelto di focalizzare l’attenzione sul periodo delle avanguardie storiche del primo Novecento e delle tendenze storico-artistiche che a queste hanno fatto seguito. Anche se non strettamente inerente al presente progetto, è stata trattata la fotografia di nudo in quanto espressione della funzione assolta dal corpo in fotografia. Non manca poi uno scorcio sul panorama femminile con alcune delle sue protagoniste.

Ricerca storica

Il corpo surrealista

Nel saggio Fotografia e Surrealismo, un’esposizione sulla fotografia surrealista, Rosalid Krauss opera un paragone tra due immagini. La critica ricorre al metodo comparativo, in perfetta linea con quanto affermato dalla storia dell’arte in merito: il metodo comparativo è stato introdotto per attirare l’attenzione su qualcosa di completamente diverso dall’intenzione creatrice, per cogliere ciò che viene definito stile. Date le premesse nulla si può obiettare al confronto tra le immagini di due fotografi diversi se pur molto vicini. Da un lato Man Ray, un surrealista, dall’altro Florence Henri, che muoveva invece dagli insegnamenti di Moholy-Nagy e dal rigore formale del Bauhaus. Le immagini: da una lato il Monument à Sade di Man Ray, una fotografia realizzata nel 1933 per la rivista “Le surréalisme au service de la révolution”; dall’altro un autoritratto di Florence Henri, del 1928 che documentava le posizioni dell’avanguardia europea in materia di fotografia. 1 Il paragone implica una leggera distorsione dell’argomento di questo studio, che è il Surrealismo, poiché introduce un’immagine intimamente legata al Bauhaus.

1 Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1996


Il corpo

Florence Henri, nel suo Autoritratto, costringe l’osservatore a distogliere l’attenzione dal contenuto della fotografia. L’attenzione, si riporta sul contenente, su ciò che si potrebbe chiamare la natura semiotica o emblematica dell’incorniciatura. La fotografia di Florence Henri e quella di Man Ray hanno in comune non soltanto il ricorso all’inquadratura per definire un soggetto fotografico, ma anche la stessa forma inquadrante. In entrambi i casi, ciò che è offerto allo spettatore è la presa del soggetto fotografico attraverso l’inquadratura; in entrambi i casi tale cattura ha un significato sessuale. Nella fotografia di Man Ray la rotazione che trasforma il segno della croce in immagine del fallo giustappone un emblema del sacrilegio sadiano a un’immagine dell’oggetto di piacere sessuale messo in gioco. Nella fotografia di Florence Henri il rimando sessuale è più evidente: la posizione dello specchio e delle due sfere poste alla sua base richiamano l’immagine del fallo. Altri due aspetti della fotografia di Man Ray attestano ancora la struttura della relazione reciproca che esiste tra incorniciatura e immagine, tra contenente e contenuto. L’illuminazione dei glutei e delle cosce è tale che lo spessore del corpo evapora quanto più ci si allontana dal centro dell’immagine, in modo tale che quando

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lo sguardo raggiunge il margine, la carne ha perso tutta la sostanza e specificità e si fonde con la materia della pagina. Di fronte a questa minaccia di dissoluzione del corpo, si ha l’impressione che l’incorniciatura puntelli la struttura corporea che sta sprofondando e che, tracciando i limiti, ne garantisca la consistenza. La sensazione che l’incorniciatura intervenga nel contenuto a livello della struttura è ulteriormente rafforzato dalla consonanza morfologica - quella che viene definita l’alliterazione visiva - che appare tra la forma dell’incorniciatura e la forma dell’immagine: l’intersezione delle linee formate dalle fessure e le pieghe del corpo fotografato imitano l’aspetto cruciforme dell’incorniciatura. Nell’autoritratto di Florence Henri si trova un gioco simile tra superficie e volume. Anche qui l’immagine fallica è la stessa che fabbrica e che cattura l’immagine del modello. Se si prosegue il paragone, la funzione delle sfere cromate, che proiettano l’idea di fallismo al centro dell’immagine, appare quella di mettere in opera un dispositivo di ripetizione e di eco.


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Gli anni Quaranta e Cinquanta

Nel 1937 Moholy-Nagy arriva negli Stati Uniti e fonda a Chicago il New Bauhaus, trasferendo così nel nuovo continente una parte importante della riflessione estetica delle avanguardie, quella formalista e sperimentale. Dalla collusione con l’arte astratta ci si pongono alcune domande in merito al fatto se la fotografia, come riproduzione della realtà, possa avanzare pretese tese all’astrattismo. Certo, da un lato, la fotografia può abbandonare la ripresa del reale e diventare pura “grafia” della luce. Oppure, e sarà la via preferita, può fissare la propria attenzione sulle forme della realtà, e dunque mantenere la riproduzione come pretesto, spostando il senso sulla forma. 2 Ma negli anni Quaranta, l’arte astratta cambia significato, assumendo un significato di “traccia” nel momento in cui è vicina alla fotografia, ed un’altro lontanissimo quando si distacca da quest’ultima. Si profila quindi il senso di “indice”, inteso in senso semiotico, della fotografia. Pierce spiega che l’indice è quel tipo di segno che è legato fisicamente al suo referente, e questo sposta lo statuto dell’opera fotografica da iconico, com’è quello della pittura, a indicale, da immagine che rappresenta la realtà a impronta lasciata direttamente dal reale, per questo anche astratta

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e non rappresentativa. La lettura delle opere e dei cambiamenti di Harry Callahan, uno degli illustri insegnanti del New Bauhaus, risulta importante per comprende tale periodo. Negli anni Quaranta, Callahan predilige una impostazione fotografica molto ravvicinata che coglie il dettaglio per enfatizzare la composizione e la forma invece del soggetto. Tuttavia, Callahan cambia rotta negli anni Cinquanta recuperando un coinvolgimento della figura umana. All’inizio, egli incomincia a fotografare la moglie e la figlia aderendo perfettamente all’estetica modernista, ma più avanti l’approccio cambia e diventa più aperto allo spazio e all’ambientazione. Callahan darà vita ad un’implicazione più esistenziale legata al coinvolgimento massimo con la realtà e la vita. Tale tendenza verrà portata avanti, in Germania, sotto la denominazione dei Subjektive Fotografie. La tendenza è molto variegata e comprende personalità ed espressioni diverse che presentano, però, due punti comuni: la visione personale dell’autore, misura della libertà individuale posta al centro della riflessione sull’Esistenzialismo, l’attenzione più al mezzo, alla tecnica e al processo di creazione, che

2 Elio Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1998


Il corpo

al risultato in sé. Ed è questa probabilmente la visione più astrattista della fotografia, quella che mira alla salvaguardia della sua specificità e autonomia. 2 Nel movimento confluiscono i nomi più diversi: Bill Brandt, Ansel Adams, Harry Callahan, Minor White, Cecil Beaton, Dorothea Lange, Cartier-Bresson, tra i tanti; tutti pronti a condividere la volontà di affermazione del nuovo cambiamento, che segue la piena libertà dei metodi di espressione. Dalla tendenza “soggettiva” emerge una figura leggendaria della fotografia americana: Minor White. Egli è un’esteta esigente ed un tecnico eccezionale, che sfrutta al massimo le potenzialità del mezzo fotografico per indagare approfonditamente l’incontro tra soggetto ed oggetto. Da un lato l’oggetto, la macchina fotografica che registra superbamente il soggetto, ovvero la materia che si trasforma in spirito. Negli anni Quaranta, Minor White sceglie dei corpi maschili come soggetto di foto che non gli sono state commissionate e che non verranno mai esposte. Si tratta di corpi nudi segno di un perfetto equilibrio tra sensualità e spiritualità, fortemente ribadita da un sapiente gioco di luci ed ombre e dalla presenza di un significativo minimo arredo. Il corpo nudo

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è ritratto con franchezza e sottolineato dalla sua ombra scura che contribuisce a delineare, allo stesso tempo, la cornice dello scatto. Il rimando è evidente: il corpo come il quadro come la fotografia, il corpo come fotografia, la fotografia come corpo. 2 In tale contesto nasce in Italia il gruppo La Bussola, con Giuseppe Cavalli, Mario Finazzi, Ferruccio Leiss e Federico Vender. Sul fronte di rivendicazione della forma nasce invece il gruppo La Gondola, con Paolo Monti, Gino Bolognini, Alfredo Bresciani, Luciano Scattola. Intorno ai due gruppi, ed al centro di altri ancora ruotano le personalità di Fulvio Roiter e Mario Giacomelli. Nelle fotografie di Giacomelli, i corpi sono espressione di sensazioni profonde. Se da un lato i corpi tormentati dei vecchi esprimono “La paura di invecchiare, non di morire, il disgusto per il prezzo da pagare per una vita”; dall’altro le presenze gallegianti e sempre in movimento in Scanno (1957), “Mentre all’ospizio vogliono a ogni costo morire, qui vogliono a tutti i costi vivere. É un controsenso”. Si passa infatti dai vuoti delle precedenti serie, agli affollamenti che stravolgono le espressioni di ciascuno, evidenziando la solitudine e il vuoto interiore che il malato vive nei confronti


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del resto del mondo. Parallelamente, sempre negli anni Cinquanta, c’è un tipo di fotografia che non si costruisce ma che si vive e che si realizza per strada. La poetica non è ancora quella istantanea: il fotografo non è “a caccia”, ma è “in ascolto”, in attesa dell’immagine. Verrà denominata Street Photography per stigmatizzare l’autore che è sempre in viaggio ed il soggetto che è sempre per strada. Robert Frank e William Klein sono i fotografi di questo periodo. Con The Americans (1958) il primo e New York (1956) il secondo celebrano la spontaneità della realtà per così com’è. La figura umana, la gente, le persone, la folla, gli americani appunto, sono il soggetto scelto da Robert Frank. Le espressioni di queste persone non hanno nulla di speciale eppure l’osservatore è portato ad indagare il senso. Il senso che ritrae la vita americana sulle strade degli anni Cinquanta. Il tema della vita ritratta è strettamente connesso alla vita condotta dal fotografo, che diventa un artista a tempo pieno sempre in azione e sempre in viaggio. William Klein insiste sul mezzo fotografico dicendo: “Coscientemente ho fatto il contrario di quello che si faceva. Pensavo che la centratura, il caso, l’uso accidentale, un altro rapporto con la macchina fotografica permettessero di liberare

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l’immagine fotografica. Ci sono molte cose che una macchina fotografica può fare. La macchina è ricca di possibilità che non vengono sfruttate. Ma qui sta la fotografia. La macchina fotografica può sorprenderci”. La fotografia e l’atto del fotografare sono al centro della poetica fotografia di William Klein.

Gli anni Sessanta

Gli anni Sessanta si aprono con un avvenimento centrale per la fotografia della figura umana, si tratta della Prospettiva di nudi di Bill Brandt del 1961. I nudi di Brandt sono giocati su effetti di distorsione percettica dovuta alla prospettiva che crea un forte contrasto tra corpo e spazio: corpi come paesaggi nel paesaggio, dettagli che risultano enormi su un paesaggio che subisce un’allontanamento del punto di fuga, corpi che occupano tutto lo spazio e poi si spezzano per il gioco di ombre e luci a cui sono sottoposti. 2 Si apre la strada ad un rinnovamento dell’ispirazione surrealista nella direzione onirica di rapporto con la realtà. In chiave surreale vanno letti anche alcuni lavori del fotografo americano Duane Michals, soprattutto i suoi angeli o le sue apparizioni,

2 Elio Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1998


Il corpo

soggetti frequenti nelle sue foto. Per Michals la figura umana, nuda o non, è il soggetto ideale da ritrarre, occupata nelle sue azioni quotidiane in luoghi che presentano solo pochi significativi particolari. Michals mette in moto la fotografia e ne crea delle sequenze di immagini che raccontano una storia. Ma gli anni Sessanta sono anche gli anni della pubblicità e del consumo. Il corpo umano, standardizzato e idealizzato, è al centro delle immagini; ogni immagine sembra anzi rimandarvi. Il corpo è divenuto un oggetto, un ideale da raggiungere, una forma a cui ambire. L’immagine della donna presentata, in particolare, fa si che essa sia desiderabile. Per Ralph Gibson, ad esempio, è di fondamentale importanza il rapporto tra il corpo e l’erotismo. Il corpo è al centro, frammentato per lo più in inquadrature che lo ritagliano dall’insieme e ne valorizzano la sensualità, bordo ideale e tensione tra la materialità della carne e l’evanescenza del rimando immaginario. 2 Il taglio dell’immagine consente alla stessa di essere straordinariamente efficace e permette al fotografo di ricercare nuove frontiere artistiche. Gli anni Sessanta segnano un mutamento dell’atteggiamento artistico che si traduce in una volontà a introdurre novità, ad aggiornare

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le tecniche e i criteri estetici, non senza poco disagio e una scissione tra lavoro commerciale e lavoro d’arte. È il caso delle immagini di moda di William Klein cariche di ironia, delle innovazioni apportate da Richard Avedon, e dall’essere sofisticato di Irving Penn. Worlds in a small room rappresenta il tentativo più noto, da parte di Penn, per sfuggire all’universo della fotografia di moda: tutti questi nudi, nell’intimità della loro concezione e realizzazione, richiedono di essere pensati come mondi in una camera ancora più piccola, una stanza privata accuratamente chiusa a chiave. Opere come queste vanno contro la natura pubblica della moda: attraverso l’ossessione alla nudità che esprimono, si oppongono alla complessità dei vestiti di alta moda che sono lo schermo, le armature protettrici del corpo; attraverso il piacere che manifestano di fronte al languore delle carni pesanti, si scostano dalle pose dei manichini dalla leggerezza forzata. Isola il busto come campo di zone erogene, abrogano il decreto con cui la moda sposta gli emblemi della sessualità dal centro del corpo femminile verso la sua periferia. La Krauss parla del ruolo della fotografia e, conseguentemente, anche di quello


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del fotografo. “La fotografia è meno una riflessione sul reale che una diretta beneficiaria del reale: risultato di un transfert fotochimico del mondo stesso sulla pellicola, la fotografia è una sorta di impronta, di matrice, di traccia. Per questo tipo di fotografie è importante che l’immagine sia tanto piena di materia e di dettagli quanto lo è il mondo stesso - o addirittura, a causa del suo potere di concentrazione, ancora più piena. Il fotografo, in questo caso, non è più lo scultore che libera la bellezza formale intrinseca alla materia ostinatamente muta, quanto l’indagatore preoccupato di lasciare i luoghi del dramma come sono, nella loro abbondanza di dettagli disordinati, ma deve, al tempo stesso, decifrare gli indizi lasciati sulla scena, in modo che, attraverso la sua azione, il disordine all’improvviso si organizzi e acquisti senso”. In tale prospettiva di allontanamento dal formalismo fotografico, sembra che queste opere di Penn possano rinnegare la fotografia. I nudi di Penn hanno qualità del tutto nuove che rivelano uno dei tratti essenziali della fotografia: la sua parentela con il collage. Guardando uno dei nudi di Penn si ha l’impressione di trovarsi di fronte ai collages: su un fondo di una bianchezza lancinante il rigonfiamento

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di un ventre bombato, un ciuffo di peli pubici, o ancora la piega di un drappo molto illuminato, sembrano frammenti di realtà applicati sulla stampa fotografica. Questi frammenti appaiono isolati ma, al tempo stesso, integrati con la superficie della carta e, per contrasto con la sua bianchezza vuota, dotati di una presenza allucinante. C’è da dire anche che questi frammenti appartengono a una figura - quella del corpo nudo - che dona loro unità, se non fosse che il volume del corpo è stato a tal punto intaccato dalla luce e si è a tal punto identificato con il foglio di carta che ogni minimo frammento risulta essere una zona in rilievo. “Ciò che un tempo distingueva uno sguardo acuto, chiunque oggi può coglierlo. Istruiti dalla fotografia, siamo tutti in grado di visualizzare ciò che era semplicemente l’oggetto di metafore letterarie, l’aspetto geografico dei corpi: un cliché in cui una donna incinta per esempio offre l’apparenza di un rigonfiamento del terreno, o una collinetta che prende l’aspetto di un corpo di donna incinta”, scrive Susan Sontag. 3 Ancora la Sontag parlando del lavoro di Penn afferma: “Così, se la fotografia di moda si basa sul fatto che una cosa può essere più bella in fotografia che nella realtà, non sorprende che alcuni fotografi al servizio della moda siano

3 Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino, 2004


Il corpo

anche attratti dal non fotogenico”. Dalla costruzione delle foto di moda si passa alla spontaneità dalla strada mediante le fotografie di Gary Winogrand e di Diane Arbus. La Arbus proviene dal mondo della moda, ma afferma: “Per me il soggetto della fotografia sarà sempre più importante dell’immagine”. La fotografa non ricerca la naturalità, chiede ai suoi soggetti di posare per lei, ne risulta che l’espressione rivelatrice della personalità si confonde con ciò che è strano e bizzarro. I suoi famosi soggetti sono i freaks della società. “Seduti o in piedi con l’aria sostenuta, questi personaggi ci appaiono così come l’immagine stessa di ciò che sono”, scrive Susan Sontag. Gary Winogrand predilige le persone tra la folla in un ambiente urbano, proprio come si potrebbero sorprendere in qualsiasi angolo della città.

Gli anni Settanta e Ottanta

Nelle fotografie degli anni Settanta e Ottanta la figura umana assolve un ruolo particolare. Se da un lato essa è nuovamente la protagonista principale nei reportage e nei ritorni di interesse per le scienze in ambito fotografico; dall’altro si registra la sua assenza nelle immagini di alcuni

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protagonisti della fotografia italiana di quegli anni. Sulla scena artistica e culturale del periodo, si fanno strada le “teorie della complessità”, che come conseguenza, hanno quella di non vedere più soggetto e oggetto separati e isolabili, così come di non vedere il mezzo, lo strumento, fosse pure scientifico o meccanico, neutrale, ininfluente nell’analisi. Proprio in questo senso vanno intesi i ritorni di interesse per le scienze anche in ambito fotografico, come l’antropologia, l’etnologia. L’antropologia “complessa” è trattata da un fotografo italiano su tutti, Ferdinando Scianna, specializzato nei riti e nelle usanze delle zone agricole del Sud. Egli non accetta più la freddezza scientifica tradizionale, basata su presunti criteri di non interferenza col soggetto: il corpo è spesso al centro della festa. Scianna predilige le feste popolari per porre al centro della raffigurazione il corpo nella sua duplice natura di spirito e materia, di sacro e profano, di individuo singolo e di partecipe attivo della collettività. D’altro canto, come si diceva, anche l’assenza della figura umana è spesso significativa in questo volgere d’epoca che pare essere il senso del passaggio alla Postmodernità. Nei fotografi italiani protagonisti di questo periodo prevale


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un’attenzione per i paesaggi e le forme. Mimmo Jodice dice esplicitamente che l’assenza di figure umane fu una scelta, un “bisogno di isolarsi”. In Luigi Ghirri l’uomo è in balia dei giochi di finzione dell’immagine,manichino metafisico, ripreso da illustrazioni come i paesaggi degli atlanti. Nell’opera di Giovanni Chiaramonte l’uomo è parte integrante, preso dentro la quadratura, da cui il formato preferito quadrato, o disposto intorno alla messa in prospettiva. Scienza e antropologia a parte, le ragioni e la spinta restano poi soprattutto quelle di ordine sociale e politico, per le quali gli anni Settanta sono il periodo più inquieto e spietato: terrorismo, stragi, sequestri, mafia, droga, prostituzione, sottoproletariato, terzo mondo sono alcuni temi delle immagini. Il corpo ritorna ad essere un’altra volta il centro - con le sue sofferenze ed i suoi godimenti, la sua libido, il suo vissuto - di Tulsa, un libro sconvolgente, realizzato dall’americano Larry Clark nel 1971. Vi sono raccolte fotografie mai viste di giovani che si drogano e che si lasciano ritrarre nella loro penosa situazione di emarginazione e degrado. Un altro uso del corpo è fatto, alla fine degli anni Settanta, da Cindy Sherman. L’autrice fotografa

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se stessa, nelle vesti più disparate dei “ruoli” cui la donna è costretta nelle immagini stereotipate dei media. A partire dagli anni Ottanta Sherman apre una seconda fase di lavoro, non a caso sottraendo la propria immagine, per rappresentare un corpo “informe”, frammentato, fatto di parti di bambole erotiche, interiora e deiezioni, non più riconducibile a un’unica forma di origine. Un altro campo è quello pubblicitario che fa un uso del corpo diverso. La pubblicità diventa un grande scambio di immagini ed entra a far parte dell’arte. Oliviero Toscani, fotografo pubblicitario della Benetton, non solo ha fatto dell’immagine il centro della campagna pubblicitaria di un marchio, ma ha anche rovesciato i criteri di selezione e presentazione delle immagini: non più rassicuranti e allineate ai valori del consumo, ma anzi inquietanti e di denuncia.

Il nudo nella fotografia

Studiando la fotografia di nudo dell’Ottocento salta immediatamente all’occhio un paradosso: benché la rappresentazione del corpo senza veli costituisse una prassi assai diffusa, che prometteva ai fotografi successo commerciale


Il corpo

4 Peter Weiermair, Il nudo in fotografia. Uno sguardo a ritroso, in Peter Weiermair (a cura), Il nudo fra ideale e realtà, catalogo della mostra, Skira, Bologna, 2004 5 Ulrich Pohlmann, La fotografia di nudo nell’Ottocento, in Peter Weiermair (a cura), Il nudo fra ideale e realtà, catalogo della mostra, Skira, Bologna, 2004

e allo stesso tempo li impegnava in una sfida artistica del tutto particolare, lo studio e la pubblicazione del materiale fotografico iniziò relativamente tardi. L’immagine del corpo è all’origine della fotografia. Furono soprattutto i ritratti e i nudi, nella forma costosa e dispendiosa del dagherrotipo o, in numero molto maggiore di copie, della stampa di carta di abumina, a essere messi sul mercato ufficiale oppure venduti sottobanco. 4 Oggi è noto che i principali fotografi dell’Ottocento, quali Felix Nadar, Charles Nègre, Roger Fenton, realizzarono foto di nudo, ma non ne sono pervenute copie delle loro opere. Nelle opere dei fotografi dell’Ottocento i modelli presi a riferimento erano quelli dell’arte antica greco-romana, del Rinascimento, del Neoclassicismo. La rappresentazione del nudo si rifaceva al modello delle poesie accademiche ed era, fra l’altro, apprezzata da artisti come Ingres o Delacroix in quanto strumento ausiliario, con funzione di esempio o di correzione. Con il pretesto di questa funzione complementare, dunque, la fotografia di nudo riuscì a sopravvivere alla censura, evitando il più possibile ogni allusione e rimando a suggestioni visive erotiche o all’attività sessuale. 4

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Si parla di “accademie”, ovvero di un modello figurativo che rispondesse alle esigenze degli artisti, mutuato dall’imitazione di un modello vivente disegnato, dipinto o modellato. Fra i tanti strumenti didattici, utilizzati dalle accedemiche di belle arti, la fotografia di nudo serviva come approfondimento alla conoscenza del corpo umano. Tuttavia per la sua capacità di riprodurre le particolarità fisiologiche, la fotografia dell’Ottocento, non mancò di suscitare discussioni, poiché infrangeva la regola della rappresentazione idealizzata del corpo. Parallelamente alle “accademie” si sviluppano i soggetti propriamente erotico-pornografici. Quest’ultimi, a causa di una rappresentazione del nudo maschile pressoché isolata, alimentano un mercato più intimo e clandestino. 5 Le fotografie di nudo non nacquero esclusivamente per servire la pittura e la scultura: alcuni fotografi ricrearono celebri opere figurative della storia dell’arte in forma di “quadri viventi”. Nascono i cosiddetti tableau vivant, che, nonostante le ambizioni artistiche perseguite, non riscossero un grande successo. I tableau vivant vengono realizzati presso gli atelier fino al 1880, quando gli scenari mutano e si spostano in esterno. I primi nudi in esterni furono realizzati nel sud mediterraneo, più


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precisamente in Sicilia ad opera di Wilhelm von Gloeden. 5 Gli anni ottanta dell’Ottocento rappresentano un svolta decisiva per la storia della fotografia. Vengono effettuati i primi studi sul movimento del corpo. Eadweard Muybridge e Jules Étienne-Marey condussero esperimenti sulla fotografia istantanea. L’intero movimento veniva scisso nei singoli attimi che lo compongono e fissato su pellicola. Dalla batteria di macchine fotografiche che riprende la scena del movimento nelle sue diverse fasi alla cronofotografia che fissa più immagini nella stessa lastra, Marey e Muybridge fissano il movimento come non era mai stato fatto. Il periodo storico dei primi anni del Novecento fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale è caratterizzato dalla voglia, dei suoi protagonisti, di sperimentare mezzi, strumenti, forme e linguaggi. Nel momento stesso in cui la fotografia, con orgoglio, la fotografia rivendicava una propria dignità e dunque una propria autonomia, ci si rendeva necessariamente conto che tutto questo doveva avvenire all’interno del sistema arte e non in separata sede. Del resto già la scelta di un tema come quello del nudo, in qualche modo imponeva agli operatori che lo adottavano il confronto con la pittura. 6

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Nel periodo che va fino alla Seconda Guerra Mondiale il nudo maschile resta in netta minoranza, e deve essere giustificato con attività come la danza, lo sport e l’allenamento fisico all’aperto. Questo vale, nella fotografia popolare, anche per il nudo femminile: le numerose pubblicazioni permettevano alla donna di mostrare la nudità solo con il pretesto della scientificità. Ma mentre il nudo femminile si fa spazio tra i pregiudizi, il nudo maschile deve attendere gli anni cinquanta con grandi fotografi come Minor White. Negli ultimi trenta anni del Novecento si assiste a un cambiamento di equilibrio fra sessi: se fino ad ora il nudo femminile aveva dominato qua si completamente la scena, ora i due sessi raggiungono la parità. Si infrangono i vecchi tabù, che si concentravano per lo più sulla rappresentazione dei genitali maschili. Ed ecco le foto di Mapplethorpe, di cui emblema è Man in Polyester Suit. Infine la fotografia contemporanea, in parte creata dalla pubblicità o dalla moda, muta nuovamente contesto, obbligando l’osservatore a riflettere sul contenuto e sul messaggio, ma anche sul linguaggio e sulla forma. 7 Ritorno per un attimo indietro ai primi anni del Novecento, al fine di analizzare alcune tendenze, anche artistiche, che hanno influenzato

6 Claudio Marra, La realtà che conferma l’ideale, in Peter Weiermair (a cura), Il nudo fra ideale e realtà, catalogo della mostra, Skira, Bologna, 2004 7 Ulrich Pohlmann, La fotografia di nudo nell’Ottocento, in Peter Weiermair (a cura), Il nudo fra ideale e realtà, catalogo della mostra, Skira, Bologna, 2004


Il corpo

notevolmente l’esaltazione corporea, specie di nudo. La prima grande fascia di ricerche da prendere in considerazione è certamente quella che ad inizio secolo collega America ed Europa nel comune tentativo di superare gli stilemi di quella tendenza solitamente indicata con il termine di Pittorialismo. L’obiettivo dichiarato era quello di giungere ad una fotografia che, riflettendo sulla propria specificità, vale a dire sulle possibilità di linguaggio derivanti dalla sua stessa struttura tecnica, potesse affrancarsi pienamente alla pittura, fondando una completa autonomia estetica del mezzo. Nell’intraprendere questa strada fu l’America ad anticipare lievemente l’Europa, dove il Pittorialismo aveva ancor di più segnato le vicende della fotografia. Gli esponenti della cosiddetta Straight photography, la “fotografia diretta”, non manipolata, tendono alla semplificazione formale e all’astrazione, e cambiano i temi prediligendo, oltre al nudo, il paesaggio, sia urbano sia naturale e la natura morta. Tra gli esponenti della galleria 291, base operativa del gruppo, ci sono Alfred Stieglitz, Paul Strand, Edward Weston, Imogen Cunningham e Edward Steichen. L’esempio più limpido del nuovo atteggiamento maturato dalla Straight photography è offerto

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dall’opera di Edward Weston. I suoi nudi, più che puntare sulla esaltazione erotica del corpo, sono tutti orientati verso un puro esercizio formale tanto che Susan Sontag ha giustamente notato come “Vengono fotografati in funzione di un gioco di forme, il corpo viene tipicamente mostrato ripiegato su se stesso, eliminandone tutte le estremità, con una carne resa il più possibile opaca da una messa a fuoco e da una illuminazione normali, per diminuirne la sensualità e accentuarne l’astrattezza della forma corporea”. Parallelamente in Europa, a differenza di quanto stava succedendo in America, i percorsi intrapresi, tesi al superamento del Pittorialismo, seguono strade più articolate. Nuova Oggettività, Dadaismo, Surrealismo, Costruttivismo, Bauhaus sono tutte etichette dell’arte europea dei primi anni del Novecento che contribuiscono all’elaborazione di un nuovo linguaggio fotografico. Tra gli autori di questo periodo ci sono Herbert List, Brassaï; Man Ray, muove dalla avanguardia surrealista; László Moholy-Nagy è invece militante prima del Dadaismo e poi del Costruttivismo. André Kertesz, invece, insiste sugli interventi sul corpo: con la sua Distorsione del 1933 modifica l’assetto naturale del corpo.


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Il ruolo delle donne

Parlando di corpo e di rappresentazione fotografica, è giusto far cenno all’azione ed interpretazione delle donne in questo ambito. La Muzzarelli parla di una capacità delle donne, accostate istintivamente, in date condizioni ambientali e storiche, a certe rimozioni culturali e sociali del mondo occidentalizzato. Prima tra tutte quelle del corpo e del gesto. Così, mentre si avviava il lento processo di accettazione e di recupero del corporeo nella sfera culturale occidentale, in modo curiosamente analogo le donne artiste, si facevano interpreti dello stesso processo. Gli intenti sono quelli di un recupero della poetica comune sulla corporeità e sull’azione. Tale scopo costituisce la più chiara, evidente, affascinante anticipazione di un clima di ricerca performativo e identitario che esploderà tra gli anni SessantaSettanta, e che troverà nelle grandi artiste alcune delle sue persecutrici e delle migliori interpreti. La fotografia rappresenta per queste artiste la possibilità di racconti del corpo e dell’azione. Le ragioni di questa pericolosa relazione, tra donne-fotografia-corpo-azione, sono dettate da un’affinità elettiva che si instaura appunto tra le artiste e che porta, mediante l’uso della fotografia, ad un nuovo territorio di emancipazione sociale ed economica.

Ricerca storica

Il nesso donne-corpo è stato a lungo studiato: Simone de Beauvoir sostiene che il corpo sia per la donna il veicolo principale dell’esperienza e soprattutto della formazione e della definizione di identità. Dal nesso donne-corpo si passa al nesso donne-azione e lo si spiega e giustifica mediante un altro connubio, quello tra donne e fotografia. McLuhan parla di una tecnologia che funge per l’essere umano da prolungamento sensoriale delle sue capacità naturali. Tale osservazione si adatta benissimo alla immediata adesione che le donne, da sempre “culturalmente corporee”, sembrano avere verso la fotografia. L’adesione istintiva, da parte delle artiste, al mezzo fotografico, infatti, si presenta con un altrettanto istintivo e naturale interesse per un fare ed un agire che sono proprio l’esaltazione della fotografia stessa: “scoperta di sé, del proprio corpo e del proprio immaginario, e scoperta del linguaggio della fotografia coincidono: in questo senso la fotografia si fa, tipicamente, strumento di indagine esistenziale”. 8 Il connubio donne e fotografia rimette in discussione il ruolo della donna da oggetto a soggetto di questa nuova tecnologia. Le donne che per secoli erano state oggetti delle rappresentazioni maschili, dovettero riappropriarsi e riscoprire se stesse come

8 Roberta Valtorta, Il contributo delle donne alla fotografia in Italia, in N. Leonardi, R. Spitaleri, L’atra metà dello sguardo, Agorà, Torino, 2011


Il corpo

9 Jackson Pollock, The Politics of Theory in Generations and Geographies in the Visual Arts, Routledge, Londra e New York, 1996

soggetti. La storia del femminismo del resto è profondamente intessuta e influenzata dalle riflessioni sulla corporalità, vera interfaccia della femminilità, al punto che il femminismo diventa inscindibile dalle “politiche del corpo”. 9 Il corpo è sede del potere, sostiene Focault, e certamente l’irrompere sulla scena dell’arte delle protagoniste femminili, la grande presenza del corpo come soggetto/oggetto delle operazioni artistiche degli anni Sessanta. E per questo non fa certamente stupore che le femministe usarono il corpo come strumento di potere e simbolo di frustrazione. Nelle sperimentazioni performative degli anni Sessanta, le donne si riappropriano del loro corpo indagandolo e rivivendolo. Le donne scelsero il mezzo fotografico proprio perché lo trovarono il più adatto per raccontare vite estreme, spesso politicamente molto impegnate. Ogni atto performativo fotografico, sembra essere, al di là dei conformismi e delle abitudini codificate dell’epoca, nasce da un desiderio di ostentazione e di affermazione testarda di voler affermare la propria identità. Claude Cahun ad esempio, costruirà una seconda vita fotografica, in cui i ruoli che interpreta e le maschere che indossa sono infinite.

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CONCETTI GUIDA DEL PROGETTO Estraniamento dallo spazio Eugène Atget Andreas Gursky

Crescita, esperienza, tempo Luigi Ghirri Francesca Woodman Duane Michals


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Eugène Atget: estranezione tra uomo e mondo circostante

Jean Eugène Auguste Atget, questo il nome completo del fotografo francese che nasce nel 1857. Oggi sono pochissime le notizie relative alla sua infanzia: verosimilmente si dedicò al teatro per poi passare alla fotografia all’età di quarant’anni. Le sue condizioni economiche erano certamente modeste e quelle di lavoro piuttosto difficili. Era soltanto un fotografo ambulante, che doveva ricercarsi la clientela e girovagare per Parigi in cerca di nuove immagini. Atget ha sempre fotografato con la stessa robusta macchina fotografica 18x24 fornita di un obiettivo rettilineare, un gigantesco treppiede di legno e due scatole con 12 lastre per un peso complessivo di quasi 20Kg circa. Non si saprà mai quando e come Atget imparò

Eugene Atget Avenue de l’Observatoire, 1926

Eugène Atget

la fotografia. Ma ci sono forti probabilità che “si sia fatto da solo”, attingendo da qualche libro e sottoponendo poi alla prova pratica le nozioni acquisite. Ciò spiegherebbe non solo la sua opposizione a qualsiasi trattamento chimico e a qualsiasi procedimento di sviluppo fotografico più recente del suo, ma anche l’indifferenza nei confronti di alcuni errori sempre presenti nelle sue immagini, tra cui i punti scuri agli angoli superiori. Da principio la clientela di Atget era costituita quasi unicamente da pittori che avevano scoperto nel documento fotografico il mezzo per liberarsi dall’incisione e dalla stampa, di cui si erano valsi fino a quel momento. Col passare del tempo la clientela di Atget si fa più numerosa e diversa via via che la sua produzione aumenta in quantità e in varietà. Gli acquirenti sono contemporaneamente alcuni organismi ufficiali, quali biblioteche e musei. Nella rubrica con gli indirizzi dei suoi acquirenti figurano anche i nomi di collezionisti di fotografie della vecchia Parigi come pure di architetti, di scenografi, di arredatori, di artigiani d’arte. Probabilmente per questo Atget realizza una quantità impressionante di “documenti” su Parigi, che ritraevano architettura, monumenti, ed anche fauna e flora della capitale francese.


Estraneazione tra uomo e mondo circostante

1 Walter Benjiamin, Piccola storia della fotografia, Skira, Milano, 2011

L’opera di Eugène Atget costituisce il più straordinario memoriale figurato di una città, Parigi, che mai uomo abbia intrapreso con successo. Ma se le sue immagini del popolino nella vita quotidiana, degli artigiani e venditori ambulanti, dei caffè, delle osterie, delle botteghe, delle mostre dei negozi, delle vetrine hanno un posto importante nella sua opera, non c’è ragione di trascurare gli altri numerosi aspetti non meno significativi della sua produzione, sia che si tratti del volto della Parigi di un tempo, con le sue strade, le sue viuzze, i suoi cortili, i suoi dedali, i suoi vicoli, sia del paesaggio urbano che stava trasformandosi o scomparendo.

Eugene Atget Boulevard de Strasbourg (Corsets), 1912

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La sua inchiesta fotografica lo portava a percorrere in lungo e in largo Parigi e all’occasione la periferia e qualche città di provincia per ritrarre immagini del passato ancora visibili nonostante la patina del tempo e i guasti arrecati dagli uomini. Le immagini di Atget sono semplici e dirette. Ma curiosamente quasi tutte queste immagini sono vuote. “Non che siano luoghi solitari, solo senza animazione: in queste fotografie, la città è deserta come un appartamento che non ha ancora trovato un nuovo inquilino. È in immagini come queste che la fotografia surrealista prepara un salutare estraniamento tra l’ambiente e l’essere umano. Libera il campo allo sguardo politicamente educato, per il quale ogni intimità viene meno a vantaggio della illuminazione del particolare”, scrive Walter Benjiamin. 1 Sono le opere di Atget in cui si prefigura quella provvidenziale estraniazione tra il mondo circostante e l’uomo, che sarà il risultato della fotografia surrealista. Ancora Benjiamin scrive in merito alla fotografia di Atget: “In effetti, le fotografie parigine di Atget percorrono la fotografia surrealista; avanguardia di quell’unica colonna veramente cospicua che il Surrealismo è riuscito a mettere in marcia. Atget è stato il primo a disinfettare l’atmosfera stantia che la ritrattistica del periodo della decadenza


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aveva diffuso. Egli ripulisce questa atmosfera, anzi la disinfetta: introduce quella liberazione dell’oggetto della sua aura che costituisce il merito indiscutibile della più recente scuola fotografica”. 1 Nelle strade, nei cortili, nei giardini fotografati da Atget, come scenografie di teatro, non c’è una ricerca del tempo perduto, non traspare un velo di nostalgia. Le sue fotografie sono piuttosto una muta constatazione che suggerisce all’osservatore di guardare il mondo per come è stato e per come non apparirà più. “Atget andava cercando scorci dimenticati o nascosti, e anche le sue fotografie rifuggono dall’idea esotica, roboante, romantica della città; risucchiano l’aura della realtà come l’acqua una nave

Eugene Atget A corner, rue de Seine, 1924

Eugène Atget

affonda. Che cos’è, in realtà, l’aura? Un singolare intreccio di spazio e tempo: apparizione unica di una lontananza, per quanto vicina possa essere. [...] Spogliare l’oggetto del suo involucro, distruggere l’aura è la cifra di una percezione in cui la sensibilità per l’uniformità si è sviluppata tanto da spogliare della sua unicità, riproducendolo, anche ciò che è unico”, torna a scrivere Benjiamin. 1 La perdita dell’aura è diventata secondo Benjamin un tema rappresentativo dell’alienazione fra uomo e spazio urbano, anticipando motivi sviluppati in seguito dai surrealisti. La riproducibilità tecnica garantita dalla fotografia rende possibile una ricezione di massa dell’arte e stimola l’elaborazione di categorie estetiche in sintonia con un nuovo ritmo di vita. Infatti, la progressiva commercializzazione delle immagini, la decadenza del gusto borghese, la nascita della fotografia amatoriale (Kodak lancia sul mercato nel 1888 la prima macchina di facile uso) distrussero l’aura che veniva emanata dai primi clichés. 2 Se per gli altri autori ho proposto un confronto con il mio progetto, con Atget si parla piuttosto di uno scontro. Per chiarire meglio, se il confronto tra il mio

1 Walter Benjiamin, Piccola storia della fotografia, Skira, Milano, 2011 2 Vangi, M., “Fotografia”, Culturalstudies, 2009 http://www. culturalstudies.it/ dizionario/lemmi/ fotografia.html


Estraneazione tra uomo e mondo circostante

progetto ed i vari autori analizzati è avvenuto per analogia, con Atget avviene più per discordanza. La poetica fotografica di Eugène Atget si basa sulla estraneazione tra uomo e lo spazio circostante, operazione che non è consentita nelle motivazioni (volontà) che spingono la realizzazione del mio progetto. Parlare di estraniazione vorrebbe significare uno stato di astensione dalla realtà, una volontà che indica il non interiorizzare il luogo entro il quale si agisce. Al contrario, nel mio progetto, i segni sul corpo sono un’espediente visivo che attesta una fortissima interazione tra l’uomo e lo spazio con cui egli interagisce. Secondo quanto detto, le fotografie di Atget sono una muta constatazione che suggerisce all’osservatore di guardare il mondo per come è stato, le mie fotografie richiedono, al contrario, un’analisi degli particolari che esse contengono, suggerendo così all’osservatore di porsi alcuni quesiti.

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Andreas Gursky: il luogo anomino

Andreas Gursky è stato insieme a Thomas Ruff allievo di Bernd e Hilla Becher. Gursky studia a Düsseldorf e diviene uno dei più noti fotografi contemporanei di architettura e paesaggio di grande formato. La scelta di analizzare le opere di Gursky funge da supporto alle motivazioni che spingono il mio progetto. Quest’ultimo nasce dalla testimonianza di relazione che intercorre tra l’uomo ed il luogo con cui egli ha interagito. Nella fotografia di Gursky il luogo ritratto, che sia una architettura urbana o un paesaggio naturale, è un luogo anonimo. Le persone che vi interagiscono sono molte e, anche se tutte perfettamente identificabili nello svolgere le loro azioni, sono come formiche che non assimilano le caratteristiche dello spazio che hanno intorno. Nel progetto, invece, nessun luogo può passare per “anonimo”, il soggetto infatti sperimenta alcune esperienze in quel particolare luogo che riporta sulla propria pelle. Lo sguardo lucido, intelligente di Andreas Gursky si conferma nel tempo come il punto di vista di un non-umano che osservi la terra da vicino senza però mai entrare nella scena: ne deriva una sorta di galleggiamento sulla realtà che consente all’artista di restituire dall’alto un ambiente umano e naturale misterioso nella

Andreas Gursky

sua complessità e nella ricchezza dei codici nei quali è costretto. Quella di Gursky è una forma aggiornata e colta di possibile fotografia sociale, un modo davvero interessante e problematico che consente una riflessione sulla condizione umana oggi. 1 Andreas Gursky fotografa enormi spazi – città, grattacieli, montagne – in cui una folla di persone guarda piccola e impotente, facendo sentire la sua presenza nel mondo, come potrebbe farlo una colonia di formiche. Come le formiche, queste persone non si interrogano sulla trasformazione che la loro invasione ha apportato all’ambiente naturale da un punto di vista architettonico, tecnologico, e personale. Le fotografie di Gursky costituiscono una mappa del mondo postmoderno civilizzato in cui gli abitanti di un determinato luogo sono la prova attestata che l’ambiente naturale non esiste più e al suo posto l’osservatore trova soltanto i punti di riferimento di un’economia globale e invasiva. La globalizzazione e le dinamiche vertiginose dell’economia sono il tema del lavoro di Andreas Gursky. Il fotografo vuole definire e trovare il luogo del sublime contemporaneo cercando di accostare l’immensamente grande all’infinitamente piccolo. 2 Le sue fotografie sono una mera documentazione di questo processo enorme

1 Davide Faccioli, 100 al 2000: il secolo della fotografia, Photology, Bologna, 2007 2 Saltz, J., “It’s Boring at the Top”, New York Magazine, May 2007, http:// nymag.com/arts/ art/reviews/31785/


Il luogo anonimo

3 Pitteri, M., “Andreas Gursky: l’infinito artificialehttp”, 2photo, Novembre 2010, http://2photo. org/andreasgursky-linfinitoartificiale/

che pervade il mondo visto manipolando le immagini e modificando l’architettura degli ambienti costruiti e naturali attraverso la ripetizione, approfondendo i colori e il collasso del tempo che inconsciamente trasmette e aumenta nel fruitore il senso del sublime che lo schiaccia di fronte a questi eventi. 3 Nel registrare la grandezza fisica, Gursky, non dimentica mai di mettere a fuoco la piccolezza relativa alla specificità dell’uomo, nelle sue fotografie le figure umane sono sempre nitide in modo da poter identificare, leggendole in modo approfondito, le espressioni facciali, la gestualità, il modo di muoversi o di vestirsi. La tensione tra il macro e il micro è il principale fondamento delle sue fotografie che agisce come un monito per ricordare che anche nel livellamento uniforme imposto dalla globalizzazione, la specificità dell’uomo emerge in superficie solo se si dilata il tempo e si osservano in profondità i dettagli. 3 Va detto però che le persone rappresentate nelle fotografie di Gursky non sono coloro che manipolano e influenzano i sistemi globali, come possono essere i capi di governo, i magnati di grandi multinazionali e dei media o i banchieri che gestiscono l’economia mondiale; Gursky preferisce mostrare turisti, lavoratori, pedoni, ossia tutti quelli che hanno una

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relazione con la globalizzazione accidentale e non conflittuale. Momento fondamentale quanto quello dello scatto è la manipolazione digitale dell’immagine. Le fotografie di Gursky, soprattutto quelle di grande formato, sono il risultato di un montaggio di una serie di scatti.

La fotografia cattura un luogo specifico in un particolare momento nel tempo e attraverso le modifiche perde la sua natura documentaria e diventa così un’altra immagine creata dall’artista. 3 L’approccio estetizzato ai luoghi di lavoro attraverso fotografie perfette e manipolate durante la stampa provocano una discrasia nei

Andreas Gursky 99 cent, 1999


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confronti della realtà. “Lo spazio è veramente importante per me, ma in maniera più astratta, credo”, dice Gursky. “Forse nel cercare di capire non solo che viviamo in una determinata struttura o in un luogo definito, ma di essere consapevoli che viviamo su un pianeta che si muove ad una certa velocità nell’universo. Per me è un sinonimo. Leggo un’immagine non per cosa succede nella stessa, ma la leggo alla stregua di cosa succede più generalmente nel mondo”. La descrizione di questa condizione esistenziale è quello che egli chiama “stato aggregato”,

Andreas Gusrky May Day V, 2006

Andreas Gursky

termine utilizzato nelle scienze sociali per indicare il tutto costituito da piccole unità. Per Andreas Gursky è importante che le sue immagini, che combinano realtà e finzione, siano fermamente aderenti alla realtà: “Anche se una fotografia è completamente inventata o costruita, è necessario che l’osservatore debba percepirla come se sia un luogo o uno spazio reale”. Il fotografo afferma infine: “Non sono contento che le immagini appaiano surreali, anche se lavoro con il montaggio, non voglio che l’osservatore lo percepisca”. Andreas Gursky, mediante un uso forte della manipolazione digitale, ricerca ambigui effetti di realtà o, meglio, di super-realtà: scenari plausibili ma segnati da un labirintico senso di eccesso nella modularità e nella ripetitività dei particolari, colori, campiture, che ben inscenano la complessità del mondo globalizzato, resa anche dalla monumentalità delle dimensioni delle opere che trasferiscono la loro genesi digitale-virtuale nella imponente fisicità del tableau pittorico. 4 Si parla di “infinito artificiale” nelle opere di Gursky. Esso si basa quindi sull’ impiego di elementi uniformi che si succedono: è il caso dei particolari delle architetture o delle numerose persone raffigurate. Nell’infinito artificiale il colore assume un’importanza fondamentale

4 Roberta Valtorta, Il pensiero dei fotografi, Bruno Mondadori, Milano, 2008


Il luogo anonimo

2 Saltz, J., “It’s Boring at the Top”, New York Magazine, May 2007, http:// nymag.com/arts/ art/reviews/31785/ 3 Pitteri, M., “Andreas Gursky: l’infinito artificialehttp”, 2photo, Novembre 2010, http://2photo. org/andreasgursky-linfinitoartificiale/

nella ripetizione della composizione fotografica. In una delle immagini più famose di Gursky, 99 cent del 1999, lo spettro dei colori si restringe a una tavolozza di giallo arancio, blu, che si ripetono nella sequenza degli oggetti negli scaffali e in tutti i segni che formano l’insieme della fotografia. 5 L’altro elemento fondamentale nella costruzione dell’immagine è la geometria degli spazi uniformi. Nel fotografare un grattacielo o una città, le dimensione delle singole cellule abitative si ripetono come gli oggetti nelle vetrine o le pile dei libri. La scissione semiotica tra interno e esterno è del tutto assente, gli edifici sono trasparenti: è possibile visualizzare sia la parte esteriore che interiore. 5 Un effetto prodotto dall’infinito artificiale fa si che non è possibile fissare un limite, in tal modo un oggetto continua all’infinito e la fantasia può seguire questa sequenza portando a sviluppi inaspettati. Ecco allora che in molte delle fotografie la ripetizione di determinate strutture fa sviluppare l’architettura fotografata in una dinamica propria e vertiginosa. Tuttavia l’uomo - nella sua piccola dimensione sempre confrontata con la grandezza delle strutture dell’economia, della comunicazione, della cultura e anche della natura, o di ciò che

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di essa resta - rimane l’oggetto di attenzione di questo artista che sa guardare la globalità dello spazio con magica, colorata e fresca energia e con uno stupore di schietto e disincantato sapore concettuale. 6 Ne è un esempio la fotografia intitolata Gelsenkirchen del 1991 che presenta un pezzo di

mondo che si sviluppa intorno alle acque di una piscina dalla articolata forma geometrica. La tipica visione moderatamente dall’alto consente la perfetta osservazione delle forme, delle numerose figure, dell’ampiezza dello spazio che “gravita” sulla piscina e dilatandosi apre poi al prato e al bosco introducendo l’osservatore

Andreas Gursky, Gelsenkirchen, 1991


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Andreas Gursky

al resto della realtà circostante, la quale appare agli occhi del lettore immediatamente limitata. È uno spazio progettato, definito, disegnato dagli uomini, carico di esistenze, di storie,di incontri, di destini che in esso si svolgono perfettamente nitidi. Ma quanto più esatta e trasparente appare l’immagine costruita da Gursky, tanto più interrogativo e inafferabile diviene il concetto di realtà che essa evoca; quanto più Gursky insiste sul concetto stesso di riproduzione, di registrazione dei dati visibili, tanto più la nostra certezza di poter possedere la realtà attraverso lo sguardo si allontana. Così gli osservatori passano dal piacere comodo di vedere bene, di vedere tutto, dall’illusione di poter conoscere, a un sentimento di sottile solitudine e di disarmante estraniazione, che è poi ciò che segna la condizione degli uomini contemporanei”. 7

7 Davide Faccioli, 100 al 2000: il secolo della fotografia, Photology, Bologna, 2007



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Luigi Ghirri: l’idea di progetto

“Luigi Ghirri ha rinnovato con le sue fotografie il nostro modo di guardare il mondo, e c’è un’intera generazione di fotografi che non potrebbe esistere senza la sua opera”. 8 In questa affermazione Gianni Celati, grande amico e collaboratore di Ghirri, fa riferimento al panorama della fotografia italiana degli anni Settanta ed Ottanta. Ghirri inizia a fotografare nel 1970 lavorando principalmente per artisti concettuali. Negli anni Ottanta Ghirri fa parte della cosidetta ‘stagione del paesaggio’, insieme a un folto gruppo di fotografi, tra cui Gabriele Basilico, Mario Cresci, Guido Guidi, Olivo Barbieri, Mimmo Jodice, Giovanni Chiaramonte. Autori di una rivoluzione fotografica che recupera il contatto diretto e per versi affettivo con le cose e con il mondo che si ha intorno, non più mediato e falsato da estetismi esasperati e stereotipi

Luigi Ghirri, Versailles, 1985

Luigi Ghirri

cartolineschi. Si ritorna alla realtà, adesso, pronti a guardarla con nuovi occhi, prontia rivolgersi ai particolari più marginali, quotidiani, sommessi, per dedicar loro sguardi colmi di stupore. In due parole: si smette di cercare il meraviglioso nello stra-ordinario, per cimentarsi nella ben più ardua impresa di scovarlo nell’ordinario. Così, Claudio Marra presenta la ricerca operata in quegli anni da Luigi Ghirri: “Per consuetudine professionale avrei dovuto scrivere “il lavoro di”, ma non mi è venuto, forse perché raramente, ed è vero, capita di incontrare un autore per il quale il lavoro, l’opera, coincide fino in fondo, così come è stato per Ghirri, con la sua stessa persona, con il suo modo di essere, di parlare, di sorridere del mondo e di stare in mezzo alla gente. È imbarazzante perché chiunque lo facesse si troverebbe comunque a tradire lo spirito più autentico del suo lavoro, quella idea di percorso, di viaggio complesso e ramificato per il quale non esiste meta, o meglio, non può esistere meta”. Alla base dei lavori avviati da Ghirri nel 1971 è già presente l’abitudine a lavorare su un progetto e non a un’opera singola, a cogliere il rapporto di senso che si stabilisce tra comunicazione figurativa e verbale e a collegare le singole immagini in un racconto. 9 Sull’importanza del racconto insiste Ghirri:

8 Giulio Bizzarri e Paolo Barbaro (a cura), Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, Quodlibet, Macerata, 2010. 9 Massimo Mussini, Luigi Ghirri, Federico Motta Editore, Milano, 2001


L’idea di progetto

“Il mio desiderio è sempre stato quello di lavorare con la fotografia a 360 gradi, senza limitazioni. Credo che questo modo di operare sia un’amplificazione delle possibilità percettive e di racconto”. 8 La prima problematica legata alle necessità narrative di Ghirri è quella del montaggio. Luigi Ghirri viene definito da Arturo Carlo Quintavalle come un grande narratore che ha la capacità di avvalersi di sistemi narrativi minori, che sono le sue immagini, racconti brevi che ha scritto e che ricorda perfettamente. Ghirri sa quindi, sempre ritrovare nel proprio archivio delle memorie e rimetterle insieme, ricollegarle in nuovi contesti. Sono immagini che, nei suoi libri, appaiono in sequenza, come se fossero una successione serrata, una costruzione, un discorso. Immagini che Ghirri ha abilmente scattato e catalogato. Tale divisione per categorie non rappresenta tuttavia un limite al racconto, ma risulta anzi, essere funzionale ai fini dello stesso. Il nodo sta appunto qui, nel fatto che, dentro il complesso delle immagini che un libro organizza come sequenza lineare, Ghirri percorre invece strade diverse: come se le fotografie si disponessero su un grande pavimento sul quale ciascuno potesse scegliere le direzioni che più ritenesse congeniali.

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Ghirri scopre delle parentele fra le singole immagini, e sono quelle montate a coppia sulle doppie pagine: parentele formali, a prima vista, ma, a ben osservare, si tratta di ironiche contrapposizioni, momenti di critica riflessione che scatta dal confronto. Vi sono inoltre, come sopra accennato, delle parentele di immagini più profonde che scaturiscono dalle “strade”, dalle

“vie” che il lettore vuole intraprendere. Tale complessità di intenti deriva non solo dall’apertura propria della ricerca Ghirri, ma anche, e soprattutto, dalla sua abile capacità di classificazione delle immagini, processo che sta alla base di ciascun progetto. Luigi Ghirri ha organizzato il proprio archivio dividendolo per luoghi e temi perché a monte vi era un’idea di

Luigi Ghirri, Lido di Spina, 1973


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una documentazione globale, lui stesso parla di catalogo “globale” degli spazi del naturale e del conoscibile del nostro paese. Un catalogo tematico e un catalogo per luoghi sono poi quelli che permettono, con una certa facilità, un’altra operazione che caratterizza la ricerca di Ghirri: l’associazione. “Fin dall’inizio” - dice Ghirri - “ci sono sempre stati due tipi di lavoro che ho fatto, uno più vicino a una forma di catalogazione, un altro più libero che era come un serbatoio di immagini, immagini che apparentemente erano più slegate ma che invece erano fonte di ispirazione, spunti per ricerche ulteriori, oppure che attendevano una sistemazione futura.” Ghirri continua con un esempio: “Avevo scattato una fotografia che ritraeva due giovani che si dirigevano verso la montagna, in quel caso l’Alpe di Siusi; una decina di anni prima avevo scattato un’altra immagine di due persone che passavano davanti a una cascata in un cartellone pubblicitario: l’associazione è avvenuta a distanza di una decina di anni. In questo senso dunque l’archivio è un serbatoio di immagini. [...] Il mio archivio non lo consulto seguendo un ordine dato al computer, non ho guide tecnologiche ai contenuti dell’archivio stesso ma la frequentazione visiva con tempi e riflessioni completamente diversi mi consente

Luigi Ghirri

una riconsiderazione delle immagini già fatte e mi permette di relazionarle con future immagini possibili che sono sempre più fresche nella memoria. La memoria funziona proprio in termini associativi”. La comprensione della definizione, data da Ghirri, di “immagini serbatoio” è di fondamentale importanza ai fini di una lettura

della ricerca operata dallo stesso autore. Le immagini serbatoio sono immagini che non si esauriscono all’interno di un solo lavoro, di un solo titolo. Alcune volte sembra delinearsi un progetto tematico le cui serie si intersecano sempre; altre volte ci sono aree di ricerca che non hanno una catalogazione precisa, non seguono un progetto, ma costituiscono uno

Luigi Ghirri, Marina di Ravenna, 1986


L’idea di progetto

10 Massimo Mussini, Luigi Ghirri, Federico Motta Editore, Milano, 2001 11 Arturo Carlo Quintavalle, Viaggio dentro un antico labirinto, D’Adamo editore, Brescia, 1991

stimolo per sviluppi futuri, per l’intreccio di nuovi tipi di rapporto, di nuove storie, non solo di tipo verbale ma anche visivo. Alla incredibilmente abile capacità di archivio si accosta poi una frequente consultazione delle immagini che rende rapido il confronto ed il meccanismo associativo. Questi sono gli elementi che stanno alla base dell’idea di progetto di Luigi Ghirri. Alla domanda se esiste un programma a monte del suo lavoro, Ghirri risponde: “Più di un programma, c’è un progetto, il progetto è l’idea di costruire nel tempo e quindi anche con modifiche ulteriori”. 10 Si delineano gli aspetti chiave della “poetica” di Luigi Ghirri, cui va aggiunta l’attenzione che egli ripone nel paesaggio e nell’architettura dei luoghi. In una presentazione di Luigi Ghirri, Claudio Marra prende in esame una frase di Borges, un

Luigi Ghirri, Formigine, Modena, 1985

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autore che Ghirri amava molto e citava spesso, per spiegare l’idea di progetto dell’autore. La frase è questa: “Il segreto, d’altronde, vale assai meno delle vie che mi hanno condotto ad esso”. Ecco il punto allora: “Il segreto, la meta, il luogo della fotografia di Ghirri, per quanto alla fine forse anche identificabile e descrivibile, vale sicuramente meno delle vie,dei percorsi che in qualche modo a quella meta dovrebbero condurre”. 11 Marra intende sottolineare come si parli proprio di “vie” e non di “via”. “Lo stile Ghirri, la maniera Ghirri, per quanto ad un occhio non allenato e forse ingenuo possa apparire semplice e diretto, è in realtà quanto mai complesso e stratificato, sofisticato e sinfonico, capace, come appare, di far stare insieme cultura “alta” e cultura “bassa”, pittoricità e cartolinesco, sublime e kitsch”. Lo stesso Ghirri, infatti, spiega come questa complessità e stratificazione siano necessarie per poter comprendere la contemporaneità. Secondo Ghirri era cambiato il paesaggio che stava intorno all’uomo, sempre meno incontaminato e libero, ma mutato era anche il modo in cui l’uomo vedeva il paesaggio perché consciamente ed inconsciamente operavano in lui una pluralità di significati. Tali significati derivano dalle immagini, dalle fotografie, dalle canzoni, dalla letteratura, dal cinema ed


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implicano un meccanismo articolato di relazioni, che corrono dentro il cervello dell’uomo e che rendono tutto molto più complesso. “È in questo senso allora che le vie finiscono per valere più della meta, perché sono esse che, se attentamente indagate, rivelano i motivi e i perché di una certa inquadratura o di un determinato luogo”. Il luoghi di Ghirri sono i luoghi della pianura padana. Sarebbe un’ingenuità colossale pensare che la scelta del territorio emiliano sia mossa da pure ragioni di nascita e dunque di attaccamento affettivo e viscerale alla propria terra, al campanile, al “paesello” tanto amato. I motivi sono altri e ben più rilevanti. Prima di tutto c’è il grande fascino dell’assenza e del vuoto che il territorio padano sa esercitare. Come Ghirri stesso ha scritto, nel paesaggio padano “non vi è nessun elemento spettacolare o inconsueto a cui aggrapparsi” per cui il vuoto spinge necessariamente a privilegiare il modo dell’avvicinamento alle cose rispetto alle cose stesse, le quali, appunto, risultano come assenti. “Se le vie valgono più della meta, la meta Ghirri l’ha proprio annullata, dispersa nel vuoto e nelle foschie di questa terra, preferendo ad essa il viaggio, il percorso, la ricognizione affettiva” dice Marra. Un’altra motivazione, che porta Ghirri a

Luigi Ghirri

fotografare l’ambiente padano, è da ricercarsi nei suoi intenti. La fotografia di Ghirri, pur muovendo da una situazione per lui nota, non punta dunque al riconoscimento delle cose bensì alla loro visione, cioè al porsi di fronte al mondo con stupore, come se appunto fosse la prima volta. In merito Claudio Marra scrive: “Ghirri,

fotografando incessantemente la sua terra, ha operato la scelta più difficile, ricercando lo sguardo nuovo e stupito del fanciullo, o se si preferisce dello straniero, là dove per lui era certamente più difficile ritrovarlo”. Nel 1986, tentando di descrivere la motivazione profonda del proprio lavoro Ghirri si ritrovò a citare ancora una volta un passaggio di Borges:

Luigi Ghirri, Roncoresi, 1992


L’idea di progetto

“Non c’è niente di antico sotto il sole”. Come dire che lo stupefacente e il nuovo possono anche scaturire da ciò che è noto, a patto, di saperlo guardare, di sapersi avvicinare ad esso con occhio curioso. Ghirri osserva un paesaggio a lui noto, un paesaggio con cui ha interagito e scatta delle fotografie che fungono da testimonianza, da memoria. Analogamente il mio progetto personale muove da una associazione simile, ma con punti di partenza ed intenti differenti. I luoghi da me osservati, i luoghi con cui ho interagito contribuiscono a creare un panorama di esperienze che si visualizzano come segni sul corpo. Si tratta di relazioni con i luoghi e di rapporti con le loro caratteristiche intrinseche che vengono resi visibili. Anche la fotografia di Ghirri è prima di tutto una fotografia di relazione, di esperienza, di rapporti “umani” con le cose. Un’ipotesi che sul momento non è forsefacile da comprendere, considerato che nelle sue immagini la presenza umana è quanto mai rara e comunque mai decisiva. Certo, rara come soggetto ma non come anima, perché si sente, si respira, inonda di sé ogni cosa ed ogni elemento del paesaggio. I luoghi sono di tutti, appartengono a tutti, anche a chi non li conosce direttamente, per cui non si tratta di ritrovare ciò che si conosce ma di

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esperire generalmente il mondo partendo come pretesto da un determinato luogo. Scriveva ancora Ghirri: “Vedere un paesaggio come se fosse la prima e ultima volta, determina un senso di appartenenza ad ogni paesaggio del mondo”. Si delineano i quattro elementi cardine chiave della “poetica” di Luigi Ghirri di cui il mio progetto personale si nutre e da cui se ne discosta: l’idea di progetto, l’estetica del tempo, la capacità di narrazione e l’attenzione al paesaggio. Dalla mia interazione con i luoghi in senso ampio - paesaggi naturali, architetture e spazi interni - nasce un’esperienza che si sviluppa nel tempo e che si manifesta come segno sul corpo. Si tratta di una narrazione dei luoghi che ha come supporto il corpo. Il luogo ci cambia, ci fa crescere ed il nostro corpo registra tali esperienze proprio come Ghirri le registrava scattando le immagini della sua terra.


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Francesca Woodman: la geometria del tempo

Francesca Woodman (Denver, 1958 )è una delle figure più emblematiche dell’arte degli ultimi trent’anni, benché il suo percorso creativo si sia interrotto sul nascere. Dopo un anno trascorso a Roma tra il 1977-1978, ottiene il diploma presso la Rhode Island School of Design (RISD), Providence, successivamente la giovane fotografa si trasferisce definitivamente a New York, dove nel gennaio del 1981, all’età di 22 anni, si lancia dal grattacielo in cui abita. 12 Il significato del lavoro della Woodman è ancora oggi, più di trenta anni dopo la sua scomparsa, oggetto di dibattito. Alcuni legano il suo lavoro a influenze surrealiste, prima fra tutte quella del fotografo Man Ray; altri privilegiano una lettura femminista del lavoro della Woodman. Queste opinioni contrastanti derivano da critiche operate da Rosalind Krauss e Abigal Solomon-Godeau in occasione della prima retrospettiva dedicata alla fotografa nel 1986 alla Hunter College Art Gallery. In special modo, la Krauss legava l’opera della Woodman all’indagine sulla natura della rappresentazione attraverso il medium fotografico, mentre la Solomon-Godeau arriva a proporre un collegamento tra l’attività della Woodman e la pratica di artiste femministe

Francesca Woodman

postmoderne come Cindy Sherman e Barbara Kruger, accomunate dalla presentazione sovvertita degli stereotipi femminili. 13 Entrambe queste critiche offrivano una visione a posteriori dell’artista, basata sulle categorie culturali del postmodernismo degli anni ottanta. 14

Queste letture hanno generato un vero dibattito critico negli anni novanta, attraverso vari interventi, ora favorevoli ora contrari, che legano il lavoro della Woodman ad influenze

Francesca Woodman, Untitled, 1976, Providence, Rhodes Island

12 Marco Pierini (a cura), Francesca Woodman, Silvana Editoriale, Siena, 2009. 13 Abigail SolomonGodeau, Just like a woman, Maryland, 1986 14 Ronetti, A., “Francesca Woodman. Ritratti interiori tra Providence, Roma e New York”, Cultframe, 2010, http:// www.cultframe. com


La geometria del tempo

15 Francesca Woodman, lettere non datate, collezione George e Betty Woodman 16 Ronetti, A., “Francesca Woodman. Ritratti interiori tra Providence, Roma e New York”, Cultframe, 2010, http://www. cultframe.com

surrealiste, Man Ray, Duane Michals e Arthut Fellig Weegee, e femministe, Cindy Sherman e Barbara Kruger. 14 Inevitabilmente l’interpretazione del lavoro della Woodman è segnato dal suo suicidio. “Io vorrei che le mie fotografie potessero ricondensare l’esperienza in piccole immagini complete, nelle quali tutto il mistero della paura o comunque ciò che rimane latente agli occhi dell’osservatore uscisse, come se derivasse dalla sua propria esperienza”, Francesca Woodman. 15 Si parla di esperienza nei lavori di Francesca Woodman, un’esperienza attestata e visualizzata con più di 500 negativi da lei realizzati. Francesca è il soggetto principale delle sue fotografie. La poetica fotografica della Woodman ruota intorno all’introspezione dell’indagine dell’io e della propria identità. Grazie a lunghe o doppie esposizioni riusciva ad essere al contempo fotografa e soggetto principale. Talvolta nelle sue fotografie compaiono altri due personaggi: il compagno Benjamin Moore e l’amica Sloan Rankin Keck. 14 Le fotografie della Woodman sono di piccolo formato quadrate, in bianco e nero, e si focalizzano sul rapporto tra il corpo, spesso equiparato a oggetti presentati come nature morte, e lo spazio. 16 Si tratta di un rapporto intimo che si instaura

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con gli interni, con la natura mediante, ma non sempre, l’impiego di animali e oggetti. Si definisce così una forte relazione con lo spazio e con i luoghi che costituisce un aspetto caratterizzante della poetica fotografica della Woodman.

Tale rapporto non potrebbe essere meglio chiarito che da questo passo estrapolato da L’Œil et l’Esprit di Maurice Merleau-Ponty: «Visibile e mobile il mio corpo è annoverabile fra le cose,

Francesca Woodman, Space2, 1976, Providence, Rhodes Island


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è una di esse, è preso nel tessuto del mondo e la sua coesione è quella di una cosa. Ma poiché vede e si muove, tiene le cose in cerchio attorno a sé, le cose sono un suo annesso o un suo prolungamento, sono incrostate nella sua carne, fanno parte della sua piena definizione, e il mondo è fatto della medesima stoffa del corpo». 17 Nelle sue fotografie infatti la Woodman espone il suo corpo in quanto parte integrante dell’ambiente naturale o architettonico circostante al fine di confonderlo, conformarlo e deformandolo attraverso il movimento stesso. Le pareti, gli alberi, i pavimenti, gli specchi, come diceva lei stessa: “assorbono il mio corpo”. Ecco allora che il corpo della Woodman quasi si assimila all’intonaco dei muri, gioca con la propria ombra, compare da porte e

Francesca Woodman, Polka Dots, 1976, Providence, Rhodes Island

Francesca Woodman

finestre, si nasconde tra i mobili e gli oggetti; la luce ne sfalda la consistenza piuttosto che esaltarla, oppure ne tornisce le forme purché siano sempre colte come frammenti, come particolari. Comunione con le cose vuol dire anche farsi carico con profonda empatia del loro deterioramento, della consunzione, della perdita di funzionalità, delle trasformazioni organiche che la materia subisce. Ne deriva un’inclinazione di interesse dell’artista per le ambientazioni in interni distrutti, abbandonati, ricchi di memoria e di segni che rimandino, a volte, a un vissuto altrui filtrato però dagli occhi della stessa fotografa. Lo studio, ad esempio, è dapprima scelto e poi abitato in modo da farne il teatro nel quale la congiunzione di sé con le cose del mondo possa aver luogo col massimo della naturalezza. 17 Confondersi con le cose non equivale a nascondersi ma a rivelarsi appieno, dissolversi nella luce a ribadire un senso di intima unione con lo spazio circostante, mostrarsi attraverso il riflesso dello specchio a perfezionare la percezione di sé. 17 La Woodman, inoltre, suggerisce in più di un’occasione, talvolta con ironia, il farsi opera del proprio corpo, il suo prender possesso dello spazio come fosse una scultura. Tale consapevolezza deriva sicuramente da

17 Vituzzi, V., “Vita, avventure e morte di Francesca Woodman”, Doppiozero, marzo 2011, http://www. doppiozero.com 18 Corey Keller, Francesca Woodman, SFmoma catalogo della mostra, Distributed Art Publisher, San Francisco, 2011


La geometria del tempo

19 Isabella Pedicini, Francesca Woodman. Gli anni romani tra pelle e pellicola, Contrasto, Milano, 2012

un’influenza Rinascimentale di stampo tutto italiano con cui la Woodman entra in contatto nel suo soggiorno romano. Ma il corpo dell’artista sa addirittura farsi oggetto da esporre in vetrina, come forma plastica abbandonata a terra: è il caso degli scatti, precedenti al periodo italiano, realizzati a Providence. Nel suo unico libro pubblicato quando era ancora in vita, Some Disordered Interior Geometries, emerge la volontà di utilizzare il corpo solo in relazione con l’ambiente naturale o architettonico circostante, confondendolo con gli alberi, la carta da parati, gli specchi, e derformandolo con il movimento. Il libro Some Disordered Interior Geometries è composto da una serie di fotografie che si relazionano ai precetti di un vecchio libro scolastico di geometria in forma di elaborazioni

Francesca Woodman, Untitled, 1975-78, Providence, Rhodes Island

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concrete di concetti ideali. Risulta essere evidente l’attenzione alla costruzione formale dell’opera propria di Francesca Woodman che si traduce in “un’equazione” da risolvere. 17 Non a caso la Woodman afferma: “La teoria dietro l’opera è importante ma per me è sempre secondaria alla soddisfazione dell’occhio”. 1o Dall’analisi delle fotografie della Woodman ci si rende conto come la fotografa cerchi negli autoscatti innanzitutto il proprio sguardo e solo successivamente quello dell’osservatore, secondo un’idea di ricerca di sé confermata anche dai video che ritraggono le fasi precedenti lo scatto. I filmati aiutano a comprendere la varietà dei codici linguistici che processualmente portano al fotogramma definitivo: il disegno, la scrittura, la performance partecipano tutti al risultato finale. 7 Quella della Woodman è una riflessione intima e costante sulla propria identità indagata attraverso la relazione continua tra corpo e spazio e sintetizzata poi nel linguaggio fotografico. Francesca Woodman realizza il primo autoritratto a soli tredici anni svelando un tratto peculiare della sua poetica: la coincidenza dell’io narrante con l’io narrato, dell’artista col soggetto della fotografia. 20 Passando dall’inizio alla fine della sua vita,


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tralasciando la sua attiva produzione fotografica, la Woodman scrive in una lettera ad un amico qualche mese prima della sua morte: “Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate”. 21 L’ultimo periodo della sua vita è segnato da un senso di insoddisfazione per il lavoro prodotto e di insicurezza nei confronti di una situazione sentimentale troppo debole. George Woodman afferma che la carriera di Francesca stava procedendo in maniera veloce: “If you’re into fast, it’s never fast enough”. 22

Francesca Woodman, Then at one point I did not need to translate the notes, 1976, Providence, Rhodes Island

Francesca Woodman

Se nelle fotografie della Woodman il corpo del soggetto è assorbito dallo spazio e dai luoghi circostanti, nel mio progetto il corpo assorbe le caratteristiche dei luoghi e degli spazi circostanti. Il ‘mio’ corpo regista le esperienze vissute nello spazio e le attesta come segni sul corpo. Entrambe le esperienze, quelle mie personali e quelle della Woodman, sono intime e nascono da una relazione con i luoghi vissuti, ma le stesse non si sviluppano nella medesima direzione. Innanzitutto una prima divergenza d’intenti si ha nel tipo di luoghi scelti: nelle fotografie della Woodman gli ambienti non hanno una forte componente narrativa, nel mio progetto, al contrario, la narrazione inizia dai luoghi che rivestono pertanto una fondamentale importanza. I luoghi della Woodman possono essere considerati quasi “anonimi”, luoghi che appunto, come già detto, possono essere considerati altrui. La Woodman tende quindi a caratterizzare gli ambienti con cui interagisce, non solo con la sua presenza, resa a volte poco nitida dal movimento, ma anche tramite l’uso di oggetti ed animali, vivi o imbalsamati. Nel mio progetto gli oggetti che causano i segni sul corpo non sono volutamente ritratti: quasi a voler chiedere al lettore di indovinare l’oggetto

20 Isabella Pedicini, Francesca Woodman. Gli anni romani tra pelle e pellicola, Contrasto, Milano, 2012 21 Francesca Woodman, lettere non datate, collezione George e Betty Woodman 22 Gumport, E., “The Long Exposure of Francesca Woodman”, The New Yorker Review of Books, 2010, http://www. nybooks.com


La geometria del tempo

collegato allo scatto. L’impiego di oggetti da parte della Woodman costituisce una seconda differenza con il mio progetto personale. Nonostante ciò, entrambi i lavori condividono una componente teatrale alla base dell’opera. Se per la Woodman si riscontra nella mise-en-scènes di differenti ambientazioni come teatri d’azione per la realizzazione delle sue fotografie; nel mio progetto la componente teatrale è evidente nella riproduzione dei luoghi in scenari, poi impiegati come fondali negli scatti.

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Duane Michals: un modello narrativo

Duane Michals è un abile narratore che ha saputo mettere in scena importanti tematiche con una incredibile semplicità. Michals esplora i misteri della condizione umana realizzando ritratti, storie e racconti. Ha fotografato persone che pensava fossero suoi avversari ed ha scoperto di avere cose in comune con loro che non avrebbe mai immaginato. È un fotografo curioso ed indagatore, precursore di nuove tendenze che non ha volontariamente ricercato. Il suo fotografare è stato sempre dettato dalla necessità di farlo: a volte si è liberato da un senso di frustrazione, altre da alcuni limiti imposti. Duane Michals ha sempre cercato delle alternative alla immagine fotografica singola come massima sintesi dell’immaginario creativo fotografico, proponendo delle soluzioni che la maggior parte dei fotografi non avrebbe nemmeno lontanamente considerato. Ed ecco che ogni sua idea, ogni suo ricordo, di una persona amata o di un libro letto, ogni sogno sono diventati potenziali soggetti delle sue fotografie: “Spendiamo una grande parte della nostra esistenza sognando. E perché il Sogno stesso non può essere il soggetto delle nostre fotografie? Forse perché i fotografi credono di

Duane Michals

poter fotografare solo ciò che sta di fronte ai loro occhi...”, dice il fotografo. 23 La fotografia intesa da Michals non è una tecnica che permette di catturare ciò che vedi, ma è uno strumento che consente di indagare ciò che vedi. Secondo Michals non si

riesce ad illustrare la tristezza realizzando una fotografia di una donna che piange. Il fotografo, deve invece aiutare il lettore a percepire la tristezza tracciando il dolore della donna con le fotografie, il testo, e qualsiasi altra cosa

Duane Michals, The illuminated man, 1968

23 “Duaneland - the adventures od Duane Michals. A Documentary”, Mon Valley Education Consortium, DVD


Un modello narrativo

24 Cotter, J., “Duane Michals”, Eight Modern, 2004, http://www. eightmodern.net/ files/view/60

che possa portare il lettore più vicino a tale esperienza. 24 Michals enfatizza dicendo: “È la differenza tra leggere centinaia di storie d’amore e innamorarsi”. Frustato dai limiti imposti da una singola immagine, Michals realizza le sequenze. È autore di vere e proprie storie fotografiche che narrano le scene come nessun fotografo aveva mai fatto prima. La capacità di narrare le esperienze è in stretto contatto con la realizzazione del mio progetto personale. Duane Michals parla di esperienze attestate che non sono una semplice riproduzione fotografica di cosa si ha davanti agli occhi, si tratta di inventare le storie da mettere in atto. L’invenzione è un espediente a cui Michals da molta importanza. Esaustive le sue parole in merito: “La macchina fotografica è come una macchina da scrivere, che può essere usata per comporre una lettera d’amore, un libro, un testo, un’annuncio. È solo una macchina. Alcuni la usano soprattutto per documentare la realtà. Io credo che la si possa usare anche come strumento dell’immaginazione. La fotografia è un’arte, ma resterà sempre un’arte minore perché, dato l’uso che ne fa la maggior parte dei fotografi, le manca sempre un ingrediente essenziale della grande arte: l’invenzione totale. Lo scrittore

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si siede davanti a una pagina bianca e tutto ciò che mette sulla carta proviene dalla sua immaginazione. Il pittore usa una tela intatta e, anche se copia qualcosa, sta sempre inventando. Abbiamo una pellicola vergine: Cartier-Bresson avrebbe potuto non trovarsi lì, ma quell’uomo avrebbe saltato ugualmente la pozzanghera, nella famosa foto dell’ombra. Fu un fatto che lui raccolse con molta eleganza, ma che si sarebbe prodotto comunque, anche se lui non fosse stato presente. Quindi, fin tanto che i fotografi andranno avanti a lavorare cercando di trovare le fotografie invece di inventarle, continueranno a passare la propria vita alla ricerca di qualcosa. Continueranno a tagliare la realtà visiva a pezzettini, sempre sperando di imbattersi in una fotografia. Un pittore non incontra un quadro, uno scrittore non incontra un romanzo, sono opere di invenzione, le producono loro”. Michals era mosso da un senso di frustrazione derivante sia da una visione uniformata di concepire la fotografia destinata ad identificarsi prevalentemente con quella di reportage, sia da un senso di insoddisfazione derivante dai limiti imposti dal fotogramma che non gli consentiva, di fatto, di ampliare il suo messaggio. Da tali premesse emerge la volontà dell’autore nel ricercare, nell’inventare qualcosa di nuovo. Così nel 1966 nascono le prime sequenze.


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Michals sosteneva che: “In una sequenza la somma delle immagini fa capire quella che una singola fotografia non è in grado di esprimere”. Egli componeva vere e proprie storie fotografiche utilizzando da tre sino a quindici fotografie. Nella maggior parte dei casi non si tratta di racconti compiuti, ma di eventi misteriosi che sollevano interrogativi e hanno lo scopo di spingere l’osservatore a un’ulteriore riflessione. 25 Prima di realizzare le sue sequenze, Michals era a conoscenza solo dell’esempio di Muybridge con la cattura fotografica del movimento e di quello di Minor White che aveva fatto delle sequenze con una struttura diversa, per nulla narrativa, si trattava, infatti, di alcune fotografie accorpate e chiamate sequenze. Le sequenze di Michals formavano invece, un insieme coeso. “Ci arrivai a causa della frustrazione che mi procurava il mezzo espressivo. In verità fu un processo interessante, perché in quel momento coincisero tre diverse circostanze. Cominciai ad appassionarmi alle fotografie di Atget. Mi affascinava quella sensazione di trovarsi in uno scenario teatrale deserto. Poniamo il caso che nei paraggi ci fosse il negozio di un barbiere. Mi svegliavo presto la domenica mattina, quando ancora non c’era nessuno in giro, e mettevo la macchina fotografica contro la vetrina in

Duane Michals

modo che non si creassero ombre. Il negozio di un barbiere vuoto: lì c’erano le poltrone e più in là l’asciugamano che ti mettono intorno al collo. Riconoscevo anche il camice bianco che portava il barbiere, appeso al gancio. Potevo immaginarmi l’uomo entrare in negozio, indossare il suo abito da lavoro e mettersi all’opera. Fu così che tutti questi spazi vuoti cominciarono ad apparirmi come le quinte di un teatro. Era come avere una poltrona in una platea e osservare il palco su cui sarebbe potuto succedere qualcosa, il principio di un concetto di costruzione teatrale. Mi interessava molto anche Balthus. E c’era anche qualcun altro... Tutto questo a poco a poco andava sedimentandosi dentro di me, e quindi un bel giorno pensai che magari sarebbe stato interessante aggiungere della gente a quelli scenari e fare in modo che succedesse qualcosa. Così chiamai un gruppo di amici e li portai sotto il ponte di Brooklyn. [...] Disposi le persone in modo artificiale, ma c’era qualcosa che non funzionava. Ero molto deluso. Naturalmente avrei dovuto permettere loro di muoversi. C’erano un uomo e una donna con un ombrello che attraversavano la strada, un ragazzo in moto con la sua ragazza che scendeva lungo la strada e un atro che leggeva il giornale. Quello che avrei voluto era che la moto avesse continuato a scendere lungo la strada, che la

25 AA. VV., Fotografia del XX Secolo, Museum Ludwig do Colonia, Taschen, Cina, 2007


Un modello narrativo

26 Mauro Fiorese, Viganò Enrica (a cura), Duane Michals, Siz Admira Edizioni, Roma, 2003

coppia avesse attraversato e fosse entrata nel palazzo e che l’altro uomo avesse buttato il giornale nel cestino. Avevo bisogno di azione. Più tardi mi dissi che forse avrei dovuto lasciare che si mettessero a proprio agio e fu una vera liberazione”. 26 Michals inizia con le sequenze nel 1966 e fa la sua prima mostra nel 1968 presso la Undeground Valley. La mostra si rivela un vero e proprio fiasco. Le idee, le sue fotografie erano troppo rivoluzionarie in un contesto dove tutti volevano solo il reportage. “Non si trattava più di andare sempre in giro con la macchina fotografica cercando cose esistenti da raccontare, ma dovevo pensarle e crearle dal nulla”, racconta Michals, che realizza così, ricostruendo tutta la scena, l’emblematica sequenza di The Spirit

Duane Michals, Magritte with hat, 1965

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Leaves the Body. In tale sequenza emergono i temi forti prediletti dal fotografo, in questo caso la morte, il sapiente uso della luce naturale, e l’ambientazione minimale che non presenta elementi particolari che concorrano ad acquisire l’attenzione del lettore, distraendolo così dalla scena. La sequenza è costituita da sette immagini che illustrano il momento in cui, come suggerisce il titolo, l’anima lascia il corpo dopo la morte. La resa della scena è aiutata dalla luce naturale che proviene da una finestra situata dietro il soggetto. Michals predilige la luce naturale ed ambientazioni scarne prive di elementi che competono nel ricevere attenzione. Il fotografo è solito fotografare i soggetti nell’ambiente dove vivono o dove lavorano. L’abile capacità narrativa di Michals ben si associa con la narrazione espressa dal mio progetto. Se nelle sue sequenze Michals utilizza più fotogrammi per narrare un racconto, io opero ugualmente ma con una, non piccola, differenza. In Michals i fotogrammi di una sequenza presentano la stessa ambientazione, nelle mie immagini invece lo scenario cambia. Il mio lavoro è da leggersi come un unico racconto, una esperienza unica che avviene interagendo con diversi ambienti.


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La capacità di Michals di comporre storie fotografiche utilizzando poche immagini (da tre sino a quindici) richiama lo scopo del mio progetto che tramite poche immagini mostra alcuni elementi chiave che sollevano importanti interrogativi. Il mio progetto non è infatti una narrazione lineare, quanto un racconto realizzato da una serie di esperienze personali che portano il lettore ad indagare i segni presenti nelle immagini.

Duane Michals, The spirit leaves the body, 1968

Duane Michals


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INTERAZIONE TRA PAROLE E IMMAGINI Poesia visiva

Mirella Bentivoglio Barbara Kruger Jenny Holzer

Narrazione

Duane Michals


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Poesia visiva: quadro generale

La ricerca sulla poesia visiva prima e su alcuni dei suoi esponenti poi insiste sulla interazione tra parole e immagini che sta alla base del progetto. Tuttavia, la ricerca non si esaurisce all’interno di tale rapporto verbo-visivo, ma spazia a tal punto di comprendere alcune esponenti che attualizzano basi teoriche e pratiche della poesia visiva. Non manca poi uno sguardo approfondito sull’approccio sinestetico e sul carattere multidisciplinare della poesia visiva. Con la denominazione di Poesia visiva si indica una forma espressiva poetico-visuale diffusa, in tutto il mondo, agli inizi degli anni Sessanta. Essa si presenta come strumento operativo spesso connotato di una forte carica di critica ideologica e teoria artistica la cui forme di espressione si manifestano nelle tendenze visive e iconografiche della cultura di massa. Le esperienze di poesia visiva nascono generalmente sotto forma di collage, e poi si evolvono nelle direzioni più varie, secondo gli interessi e le specificità dei vari autori, salvaguradandone però l’aspetto caratterizzante: la scrittura vi si qualifica non solo per il suo aspetto estetico e formale ma anche e

Interazione tra parole e immagini

soprattutto semantico. La Poesia visiva si sviluppa, a partire dal 1960, sotto la spinta di due impulsi apparentemente contrastanti. Essa trae origine dalla frantumazione del linguaggio, cui lavorano, da un lato il futurismo e dall’altro il dadaismo. Se pur con differenti intenti, in entrambi i casi si assisteva ad uno sgretolamento della forma poetica e ad una sterminazione della grafia. Spesso si tratta di parole estrapolate da altri contesti , per esempio rotocalchi e giornali, e poste ad interagire in maniera provocatoria con immagini estrapolate allo stesso modo, anche da contesti non similari a quelli da cui stato “prelevato” il testo. É questa la tecnica prediletta dai poeti tecnologici del Gruppo 70, che raggruppa i principali esponenti italiani della poesia visiva, tra cui Lamberto Pignotti considerato il caposcuola dell’avanguardia verbovisiva. La Poesia isiva muove e si inserisce all’interno di un periodo, quello delle Avanguardie storiche, dinamico ed articolato che ingloba, al di là delle più note Avanguardie, Dadaismo, Futurismo e Surrealismo, anche altre forme di sperimentazione e di interazione tra parola ed immagine: poesia concreta, poesia tecnologica, arte multimediale, mail art, scrittura sinestetica, libri oggetto, solo per citarne alcune.

1 Lamberto Pignotti, Stefania Stefanelli, Scrittura verbovisiva e sinestetica, Campanotto Editore, Pasian di Prato, 2011


Poesia visiva

Le avanguardie storiche del primo e del secondo Novecento sono attraversate da un filo rosso che si collega a modelli ben più antichi, dei carmi a figura degli alfabeti figurati, e che esplode nelle tavole parolibere futuriste e nei vari esperimenti tipografici dadaisti e surrealisti. Un’idea centrale regge queste esperienze: la scrittura verbale ha un aspetto visivo che, se potenziato, può prendere adirittura il sopravvento sul significato dei segni alfabetici. Dettò ciò il collegamento alla comunicazione visiva viene quasi ovvio. In tale ambito infatti il momento verbale non è del tutto assente ed in certi periodi ha assunto a una funzione preponderante.

Eugenio Miccini, Poetry is dead

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Interazione tra parola e immagine

Uno dei temi ricorrenti all’interno dei manifesti di tutti i maggiori movimenti delle avanguardie storiche è quello della riflessione sui linguaggi verbali, visivi, o di altro tipo - in relazione sia alle loro potenzialità espressive vecchie e nuove, sia alle loro possibilità di interrelazione reciproca. È appunto in queste occasioni che si avanzano le prime ipotesi di una ricerca sistematica sui rapporti tra aspetto verbale e aspetto visivo in un testo artistico, all’interno di una più generale concezione dell’arte come momento di conoscenza totale e integrale. 1 Le esperienze di poesia visiva nascono dall’interazione di parola ed immagine. Tuttavia la Poesia visiva non è né una pittura con le parole, né una poesia con le figure. In altri termini le parole non devono fare da commento a delle autosufficienti immagini visive, né queste ultime devono risultare l’illustrazione di un testo che basta a se stesso. Ma ciò nonostante all’interno degli orientamenti della poesia visiva, maggiormente di quella degli anni Settanta, si possono distinguere due modalità di lavoro che ruotano intorno al rapporto chiave parola-immagine: da un lato, parola e immagine tendono a equivalersi, nel senso che la parola può essere trattata alla stessa


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stregua dell’immagine, o viceversa, l’immagine può essere sottoposta allo statuto linguistico della parola. Dall’altro lato, parola ed immagine tendono ad integrarsi, dando luogo ad un messaggio verbovisivo nel quale un linguaggio sopperisce ai limiti dell’altro e lo completa. 2

La parola come immagine

La parola che si fa immagine rappresenta il momento di massima vicinanza tra poesia visiva e scrittura visuale. La parola che si fa immagine è sul punto di perdere la propria specificità linguistica per avvalersi in misura dominante delle proprie caratteristiche iconiche. La linea di demarcazione tra scrittura tipografica e scrittura manuale cade e il segno verbale diviene l’immagine. Il cuore della consumatrice (1976) di Mirella Bentivoglio è un’opera che risulta essere esplicativa nel rapporto di eguaglianza parolaimmagine. La scritta “coca”, che sta per CocaCola, riprodotta nei ben noti caratteri che hanno reso famoso il prodotto, è privata della ‘c’ iniziale posta nella sua corretta inclinazione offrendo così la soluzione al rebus imposto dal titolo dell’opera. La ‘c’ iniziale abilmente inclinata forma con la seconda ‘c’, della parola Coca-Cola, specchiata a formare un cuore all’interno del quale ciò che si legge a primo impatto è la parola ‘oca’. La componente iconica

Interazione tra parole e immagini

gioca in questo caso un ruolo molto forte.

L’immagine come parola

Un’altra esponente della Poesia visiva, Ketty La Rocca annuncia il cammino che conduce dalla parola all’immagine. La Rocca si serve di una successione di momenti verbo-visuali, che porteranno la sua ricerca a ricondurre tale successione all’uso del videotape. Viene così reintrodotta in questi testi la dimensione temporale, il racconto, che in un primo momento era stato trascurato dai poeti visivi, allo scopo di porre in rilievo la così detta simultaneità percettiva alla base del codice di questo tipo di sperimentazioni. Nello stesso periodo tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, il concetto di narrazione per immagini viene messo a fuoco da Clemente Padin a Alvaro De Sa e Moacy Cirne: secondo questi artisti, una sequenza di immagini, come una sequenza di parole, può diventare un discorso con una sintassi e una sua articolazione lineare. Un’altro esempio di realizzazioni esclusivamente visuali viene fornito dal giapponese Takahaschi Shohachiro in un’opera composta da strisce di un unico soggetto, raffigurato in diverse

2 Lamberto Pignotti, Stefania Stefanelli, Scrittura verbovisiva e sinestetica, Campanotto Editore, Pasian di Prato, 2011


Poesia visiva

posizioni e secondo diverse angolazioni; il risultato è un soggetto astratto che sottolinea la ricerca di una sintassi ritmica dell’immagine indipendente ormai dalla parola ed indirizzata verso una sua rappresentazione filmica.

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linguaggio semantico, controbilancia la parte visiva creando un equilibrio armonico che sta alla base dell’interazione. Le modalità secondo cui la parola si rapporta all’immagine si orientano in due direzioni: la

Equilibri verbo-visivi

3 Marisa Dalai Emiliani, Ricerche visuali dopo il 1945, documenti e testimonianze, Unicopli-Cuem, Milano, 1978

“Ho sempre avvertito una certa indecisione fra il portare avanti un discorso in senso letterario e il perseguire un tragitto più specifico delle arti visive; in qualche modo mi ha sempre affascinato la possibilità di intrecci e rapporti tra parole e immagini”, racconta di sé Lamberto Pignotti. La poesia visiva, per essere tale, pretende un effettivo rapporto, una vera interazione, fra parole e immagini visive in un unico contesto, e non la loro semplice convivenza. Le componenti verbali e quelle visive non dovrebbero essere proposte né dovrebbero poter essere fruite separatamente, a meno di fraintendere, o voler fraintendere il senso di una tale esperienza. 3 La parola si contrae con la componente iconica in rapporti semantici molto stretti: anche se, generalmente, l’estensione della parte verbale è inferiore a quella della parte visiva, l’alta concentrazione semantica, che è tipica del

parola può introdurre un elemento semantico che indirizza la lettura dell’immagine; oppure essa può presentarsi per integrare le aporie

Mirella Bentivoglio, Il cuore della consumatrice, 1976


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dell’immagine. Secondo quest’ultima modalità ed in linea con l’evoluzione tecnica della poesia visiva, appare interessante notare come l’accostamento verbovisivo si allontana dalla forma originaria del collage e si orienta sempre di più ad assumere la struttura della scritta su fotografia. Naturalmente, la tentazione di far assumere alla scrittura una funzione di commento all’immagine è molto forte e risulta essere particolarmente congeniale in quelle operazioni in cui si mira a trasmettere un contenuto critico della realtà: è il caso dei testi verbovisivi impegnati sul piano ideologico-politico, come quelli di Sarenco e di Paul De Vree. Se si prende come esempio La famiglia della vittima è stata avvertita (1971) di Sarenco, in cui sulla drammatica istantenea di un guerrigliero ucciso a freddo dai soldati dell’esercito regolare capeggia il titolo con gelata ironia. Stessa

Lamberto Pignotti, La poesia ve lo dice prima, la poesia ve lo dice meglio

Interazione tra parole e immagini

drammatica ironia si riscontra in un’altra opera dell’artista, di un anno successiva alla precedente (1972), Poetical licence in cui il titolo riportato in quattro lingue, funge da commento ad un drammatico pestaggio tra civili. Un significato diverso, che supera l’accostamento iconico ed abbandona almeno in parte le tematiche politiche, assumono gli interventi di Jirì Valoch. Tra il ‘69 e il ‘74, l’artista ceco comincia a lavorare per mezzo della fotografia e ad interessarsi alle possibilità semantiche del contesto naturale fotografato. Nella serie Interpretazioni tutte le opere sono immagini fotografiche sovraimpressionate da una parola in piano. È il caso di Voice in cui si legge la parola su una schiera di palazzi fotografati da lontano. Il risultato ottenuto non è di contrasto tra immagine e parola, ma è la compenetrazione della parola nell’ambiente ad assumere un significato specifico. Si è parlato di evoluzione tecnica della poesia visiva e si può parlare anche di una sua variazione tecnica. Si assiste infatti al passaggio dai caratteri da stampa alla scrittura autografa. La scritta apposta sulla foto, pur mantenendo la sua funzione di timone dell’immagine, perde il carattere di separatezza proprio del titolo, del commento all’immagine, per integrarsi più profondamente con essa.


Poesia visiva

In merito all’intervento manuale, Barilli, critico del Gruppo 63, scrive: “apre anche nuove possibilità di convivenza con l’immagine fotografica: non più un rapporto di continuità, di buon vicinato...; bensì un rapporto di compenetrazione, di assimilazione: la scrittura ora aggredisce la foto, la solca , vi si incide sopra come un tatuaggio sulla pelle... La foto, per parte sua, così allargata, offre una vasta e docile superficie alle aggressioni...: la sua grana si fa rada e sbiadita, invitando così all’intervento, che invece verrebbe scoraggiato se la foto stessa si mostrasse troppo chiaroscurata o definita”. L’intervento autografo su foto di giornale rappresenta un tipo di esperienza cui anche

Lamberto Pignotti, Journal, 1969

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Lamberto Pignotti si è interessato fino al 1969. Journal è il titolo di un libro oggetto realizzato graffiando le pagine di un quotidiano. Pignotti lavora sulle fotografie tratte dai quotidiani, elimina il contesto e interviene sulla stampa con interventi manoscritti. Gli episodi del giorno, i fatti di cronaca vengono così sottratti al destino dell’usa e getta e rientrano in un nuovo contesto quello dei “generi” narrativi. Nella serie Journal infatti si indaga il rapporto tra l’immagine di cronaca e i sistemi di racconto. L’intenzione è anche quella di riabilitare con il gesto poetico la fotografia che appare sui giornali, non quella incorniciata nelle gallerie, ma quella che una volta guardata viene cestinata.

Le tecniche

Il rapporto tra immagine e parola non si sviluppa su un unico supporto e non fa uso di una sola tecnica. La Poesia visiva viene appunto definita arte intermediale, ed in quanto tale viene collocata in un’area compresa fra la letteratura e la pittura, ottenendo più fortuna nella area della pittura che in quella della letteratura. Tuttavia il rapporto tra immagine e parola non si esaurisce nel quadro,


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bensì fa proprie altre tecniche: il collage, il fotomontaggio, il video,ribadendo così il carattere multi-mediale della Poesia visiva. Nell’ambito della ricerca pittorica, non sono frequenti le situazioni in cui la parte verbale e la parte visiva contraggono un rapporto di sostanziale equilibrio, entro il quale, cioè, nessuno dei due piani sia subordinato alla lettura dell’altro. Un esempio in cui tale equilibrio si realizza invece, viene offerto da alcune opere di Joan Mirò in cui gli interventi calligrafici si integrano con forme geometriche dipinte sulla tela. Uscendo dalla tecnica pittorica legata al quadro, le potenzialità espressive che nascono dalla relazione di parola ed immagine si arricchiscono di elementi considerati estranei alla sfera estetica. Si assiste al recupero di materiali poveri, molto spesso di uso quotidiano, grazie ad alcune tecniche di provenienza popolare come il collage, l’assemblage e il fotomontaggio.

Il collage

L’utilizzazione dei materiali extra pittorici è parallela alla ricerca operata dall’avanguardia cubista e futurista. Ma se tuttavia in quest’ultima, l’elemento verbale non perde

Interazione tra parole e immagini

la propria fisionomia di “parola”, nel collage cubista si assiste invece, ad un uso della parola come materiale esterno alla pittura. Il collage cubista introduce nel quadro anche materiali grafici, come carta da giornale e altro, tuttavia la parola non rappresenta se stessa, ma è parte integrante del supporto garantendo così all’artista una completa libertà formale. Nel

collage futurista, invece, ben altro peso assume l’elemento verbale: collage e composizione tipografica si affiancano e si intersecano sovrapponendosi reciprocamente. Come detto, l’integrazione di parola e immagine viene raggiunta, in un primo momento, grazie alla tecnica del collage: un accostamento tutt’altro che idilliaco, rivolto anzi alla ricerca

Lamberto Pignotti, 1997


Poesia visiva

di uno scontro tra codici, per denunciare impietosamente le mistificazioni di una cultura fortemente influenzata dai mezzi di comunicazione di massa. Pignotti parla di un particolar tipo di collage definendolo “largo” rispetto al “collage stretto” riferibile a qualunque composizione poetica. Il “collage largo” rendeva visibili le sperimentazioni verbovisive, che si ricollegano, in tal senso, alle avanguardie primonovecentesche, con riferimento particolare alle sperimentazioni dadaiste di ambiente berlinese. Non è un caso, infatti, che sia nell’ambito della corrente tedesca, sia nell’ambito della poesia visiva, l’impegno e la critica sociale, e per certi versi politica, era forte tanto da far ricorso a tecniche dotate di una capacità di impatto immediato e violento nei confronti del destinatario. Nella poesia visiva non si ritrovano però, i montaggi di Raoul Hausmann e le sequenze simultanee di John Heartfield. L’uso dei ritagli di giornale, infatti, assume una nuova valenza nell’ambito della poesia visiva: le scritte insieme ai frammenti di giornale o di riviste vanno a costruire un sintagma verbo-visivo. Passando dagli anni Sessanta agli anni Settanta, la ricerca di nuovi codici conduce gli operatori della poesia visiva a nuovi orizzonti. Dopo aver

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preso in considerazione i codici tecnologici, gli interessi si spostano in direzione di altri codici della comunicazione dotati di un ampio grado di compromissione con la vita quotidiana: si sfiora adirittura un tipo di ricerca che va a sconfinare negli ambiti della cultura popolare, di cui un caso è il Rebus. Si passa a nuove forme dei codici, ma anche a variazioni di tecniche già esistenti. É caso del collage. Il modello di riferimento è sempre l’accostamento e relazione tra parola ed immagine, ma questa volta tramite un nuovo linguaggio: quello fotografico. I fotomontaggi portano con sé tutto il potenziale semantico insito nel codice della fotografia. Per cui adesso devono essere tenuti in considerazione anche altri aspetti (il colore, lo sfumato, lo stile) da accostare alla componente linguistica.

Il fotomontaggio

Le origini del fotomontaggio sono radicate nelle sperimentazioni di esteticità popolare. I primi realizzatori di questa tecnica sono Raoul Hausmann, George Grosz e Hohn Heartfield. I punti di contatto tra il fotomontaggio ed il collage non si limitano soltanto alla loro comune origine popolare, intendendo con quest’ultima


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una sperimentazione destinata alla massa. Il fotomontaggio è una variante della tecnica del collage, da cui differisce solo per l’uso di immagini fotografiche e parole ritagliate da contesti preesistenti. Tuttavia sembra esserci nell’adozione del termine fotomontaggio una differenza con la tecnica del collage: Hausmann asserisce che il procedimemto del fotomontaggio esprimeva la volontà da parte dell’artista di considerarsi come “costruttore”, “ingegnere” dei suo lavori. Emerge quindi come le parentele culturali di questi artisti vanno ricercate oltre che nel Dada, anche con i costruttivisti russi. Il fotomontaggio trova un terreno ideale nella realizzazione di manifesti, confermando così che il campo di ricerca del linguaggio verbovisivo sia legato alle sperimentazioni legate ai mezzi di comunicazione di massa.

Il carattere multidisciplinare

Nella Poesia visiva, la parola interagisce con l’immagine, non la didascalizza. La Poesia visiva è proprio questo: l’interazione tra parole e immagini visive in un nuovo contesto. Il nuovo contesto è quello della comunicazioni di massa della nuova civiltà dell’immagine, della

Interazione tra parole e immagini

tecnologia. Nell’ambito della Poesia visiva si distinsero alcuni gruppi che mettevano insieme esponenti dalle specificità più differenti. Il Gruppo 63 fu quello che trattò tematiche tradizionali legate alle problematiche strettamente letterarie. L’esigenza di andare oltre i tradizionali campi d’azione, quali erano la pittura e la letteratura, porta invece alla nascita del Gruppo 70. Il gruppo dichiarava già nel nome intenti di prolungata vitalità, si proponevano infatti, sin dalla loro nascita, di parlare di problematiche future che avrebbero avuto un campo di azione di sette otto anni, che poi sono stati effettivamente quelli. Il Gruppo 70 era costituito, in una sua fase iniziale, da Lamberto Pignotti, Luciano Ori, Eugenio Miccini, Lucia Marcucci. La critica è ormai concorde a far risalire le prime espressioni e le prime consapevoli formulazioni di poesia visiva al Gruppo 70. 4 L’interesse degli artisti, che aderivano al Gruppo 70, si era rivolto fin dall’inizio alle potenzialità offerte dall’elemento linguistico. Le modalità linguistiche sono capaci di consentire un’operazione che risulta già essere una scommessa su se stessa: adottare i nuovi codici tecnologici con lo scopo di farli entrare in crisi. Il Gruppo 70 sostiene la necessità di

4 Lamberto Pignotti, Stefania Stefanelli, Scrittura verbovisiva e sinestetica, Campanotto Editore, Pasian di Prato, 2011


Poesia visiva

riappropriarsi dei linguaggi della tecnologia; l’artista per sentirsi protagonista della profonda trasformazione della società deve confrontarsi con l’invasività dei mezzi d’informazione, non deve restarsene tranquillo nella sua torre d’avorio a custodire la purezza del linguaggio. Il Gruppo 70 ha un programma attivo che prevede una serie di convegni e mostre in tutta Italia, a partire dal 1963. Anno in cui ha luogo il primo convegno dal titolo assai significativo, Arte e Comunicazione, a cui prendono parte non solo poeti, Miccini e Pignotti, ma anche critici d’arte, come Gillo Dorfles, e studiosi di problemi estetici e linguistici, Umberto Eco e Aldo Rossi. L’eterogeneo gruppo si avvaleva delle competenze dei singoli componenti per affrontare secondo un’ottica interdisciplinare il problema relativo a che cosa può rappresentare nel contesto al loro tempo in atto l’esperienza estetica in rapporto ad un universo comunicativo profondamente mutato rispetto al passato. 4 Il discorso volge il suo interesse agli effetti prodotti sulla comunicazione dai mezzi tecnologici di massa e dal rapporto tra arte e tecnologia. La mostra Tecnologia conferma infatti la volontà di operare in un contesto interdisciplinare e prospetta, per la prima volta, la concreta

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possibilità di visualizzare il testo poetico in galleria. Il Gruppo 70, con i suoi membri, si fa promotore principale di questo nuovo apporto tecnologico: il gruppo si caratterizza per la sua multidisciplinarietà. Tra i suoi componenti figurano musicisti, poeti, artisti, architetti e critici. Lamberto Pignotti è considerato il caposcuola dell’avanguardia verbovisiva. Egli aveva, da sempre affascinato dalle possibilità offerte dagli intrecci tra parole ed immagini, avvertivo l’urgenza di uscire dal linguaggio letterario e di attingere ad altri linguaggi che egli chiamava tecnologici in sintonia con Max Bense che parlava di “stile tecnologico” per indicare una lettura più oggettiva e sincronica con la società. Pignotti si nutre di linguaggi “impuri” come la pubbilicità e teorizza l’idea di una “poesia tecnologica” fatta di frammenti di scritture e figure tratte da rotocalchi, fumetti, messaggi pubblicitari e manifesti politici. La poesia tecnologica è una verifica delle potenzialità comunicative e percettive della forma visiva delle parole. Pignotti, verifica inoltre la relazione tra estetica e teoria della comunicazione. La sua produzione artistica si collega subito all’analisi critica del sistema della comunicazione visiva.


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La naturale propensione di Lamberto Pignotti nell’oltrepassare gli steccati disciplinari derivata da una formazione multidisciplinare frequente e curiosa, offre la chiave di lettura per comprendere non solo la sua metodologia progettuale, ma anche gli intenti che spingono la poesia visiva. Nella ricerca di Pignotti vi è poi un ulteriore aspetto che riveste grande importanza: la casualità. Così come i dadaisti ed i surrealisti pone tra i materiali della processualità artistica il caso: cercare qualcosa senza magari trovarlo, ma in compenso trovare qualcosa che interessa molto di più di quello che si stava cercando, è una realtà perfettamente corrispondente alla posizione scelta da Pignotti.

Lamberto Pignotti, Visibile Invisibile, 1981

Interazione tra parole e immagini

Realtà a cui, in tempi più recenti, verrà definita con il termine inglese di serendipity.

Bilinguismo

Lamberto Pignotti afferma che la Poesia visiva si è posta subito come genere che ortodossamente non rientra né nella letteratura, né nella pittura. L’albero genealogico, la culla e i progetti per il futuro sono stati posti fin dall’inizio all’insegna della tecnologia e della comunicazione di massa. 5 Pignotti, prendendo in considerazione questa nuova civiltà, parla di “cultura del neoideogramma” in cui arte e parola convivono come semplice messaggio, come strumento destinato all’informazione e alla comunicazione, a vantaggio del contenuto e del significato. Oltre a delineare un nuovo codice artistico che subito rapportasse parola e immagine ( il “neovolgare” tecnologico e mass-mediale esibiva già parole da “parole da vedere” e “immagini da leggere”), la poesia visiva si è proposta come luogo di esperimenti e riferimenti di tipo inter-artistico, inter-disciplinare, inter-mediale. 5 Si parla di bilinguismo della Poesia visiva, ovvero l’interazione tra parola ed immagine che

5 Lamberto Pignotti, Stefania Stefanelli, Scrittura verbovisiva e sinestetica, Campanotto Editore, Pasian di Prato, 2011


Poesia visiva

si sviluppa in plurilinguismo teso ad accogliere e a fare interagire una pluralità di linguaggi. Il bilinguismo della poesia visiva, si concretizza in una duplice modalità del messaggio estetico, comprendente il momento - linguistico dell’analisi dei linguaggi contemporanei, e il momento - estetico - della loro reciproca articolazione. Gli elementi per una definizione del nuovo codice della poesia visiva sono da individuare quindi, sia sul piano della strutturazione del messaggio, sia sul piano della sua ricezione. Sul piano strutturale, la chiave consiste nella raggiunta integrazione tra elemento verbale e elemento iconico. Simmetricamente sul piano della ricezione, l’elemento distintivo è rappresentato dalla simultaneità e dalla globalità percettiva che il destinatario è chiamato ad operare sul testo. In termini più chiari, l’atto di lettura presuppone una forma di sincretismo che stabilisce rapporti di integrazione tra i vari livelli percettivi. D’altra parte, l’ipotesi estetica che è alla base della poesia visiva trae fondamento dalle modificazioni strutturali introdotte dai mass media nell’atto di fruizione dell’opera, sembrò pertanto evidente ai poeti visivi che l’uomo contemporaneo doveva orientarsi verso il sincretismo.

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Plurilinguismo e sinestesia

Parlando di plurilinguismo della Poesia visiva si intende il suo carattere multidisciplinare, il quale consente che le sperimentazioni si nutrino di più linguaggi. Il carattere intermediale della poesia visiva fa si che il rapporto tra parola e immagine non si fermi a tradizionali forme espressive - quale è il quadro - né a sperimentazioni più moderne ma comunque legate alla carta stampata - quale è il collage - ma entri nel video. Grazie al video le relazioni tra parola e immagine si arricchiscono di effetti acustici e colonne sonore. Si delinea la volontà, degli artisti verbovisivi di coinvolgere tutti i sensi del fruitore, compresi quelli generalmente più trascurati, come l’olfatto e il tatto. É il trionfo della sinestesia, figura retorica “utilizzata da moltissimi poeti, ma mai considerata con grande attenzione”, così come afferma lo stesso Pignotti. La sinestesia propriamente detta è stata scoperta a metà del XIX sec.; il nome le è stato attribuito da neurologi e psichiatri che hanno studiato nei pazienti particolari associazioni tra colori e suoni. Pignotti recupera questa accezione, in opposizione al concetto tradizionale di estetica, perché richiama invece un’estetica in cui collaborano tutti i sensi.


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Il fruitore è quindi coinvolto in una percezione plurisensoriale. L’attenzione alla sensorialità emarginata dai codici comunicativi che relegano gusto e olfatto in un rango inferiore, implica anche il recupero di una certa fisicità e matericità di cui il collage è espressione. Il collage presenta caratteristiche tattili sia nel momento della produzione, sia nel momento della ricezione dando vita così alla percezione simultanea e pluridimensionale auspicata. La Poesia visiva, pertanto, è, sin dalle sue prime tecniche, il campo di un’arte sinestetica che coinvolge nell’elaborazione e nella ricezione tutti gli organi sensoriali.

Lamberto Pignotti, Visibile Invisibile, 1981

Interazione tra parole e immagini

Trattandosi di arte intermediale, la poesia visiva, allargava la sua relazione di parola e immagine all’uso di diapositive, alla registrazione di sequenze teatrali, all’utilizzo di effetti sonori. Per l’interazione e la contiguità della parola col suono - musica, effetti sonori, rumore - si usano espressione come poesia “sonora”, “fonetica”, “auditiva”. La dimensione orale della poesia tradizionale trova in un nuovo mezzo, il nastro ellettromagnetico, la possibilità di conservazione nel tempo e della sua successiva manipolazione. La poesia tende a convergere con la musica, gli effetti sonori e le colonne sonore. Contiguo e spesso associato al rapporto artistico fra suono e parola è il rapporto fra azione e parola. 6 Le azioni poetiche progettate rivendicano certi aspetti verbali delle performance, termine ancora poco usato nell’Italia degli anni Sessanta, e richiamano il movimento Fluxus, che muove dagli happenings americani e si distingue per il carattere interdisciplinare dei suoi eventi. L’accostamento tra parola ed azione, oltre rivendicare di certi aspetti verbali degli happenings degli anni Sessanta, fa quindi pensare anche alla tradizione teatrale e spettacolare.

6 Lamberto Pignotti, Stefania Stefanelli, Scrittura verbovisiva e sinestetica, Campanotto Editore, Pasian di Prato, 2011


Poesia visiva

Un cenno va fatto anche ad un altro rapporto intermediale: quello tra parola e spazio. Nella poesia visiva esso si riferisce alla dimensione tridimensionale su vasta scala, dalla scultura all’ambiente, dall’architettura al territorio e si concretizza livello di produzione artistica in “parole sui muri”. Intendendo con quest’ultima un impiego di parole variamente segnaletiche in contesti urbani e territoriali. Considerando la poesia visiva come un’arte intermediale e plurisensoriale, si capisce bene come il ruolo dei suoi esponenti muti. Si assiste al passaggio dalla tradizionale figura del poeta a quella di un’artista eclettico, i cui ambiti di ricerca e di interesse si allargano a vari settori, ma anche a quella di un produttore di teoria, di un critico e di un promotore di eventi culturali. Come è facile comprendere le analogie della poesia visiva al mio progetto riguardano l’interzione tra aspetto visivo e componente verbale. Non manca infatti, nel mio progetto, il bilinguismo di cui si nutre la poesia visiva.

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Mirella Bentivoglio: abilità al femminile.

La volontà di dedicare un paragrafo a Mirella Bentivoglio nasce dalle capacità e dalle competenze che questa artista ha dimostrato non solo all’interno della ricerca verbo-visiva, ma anche in un’ambito di intervento più vasto e tutto al femminile. La Bentivoglio è presentata come un’esperta artista che ha saputo fare da collante tra tutte le esperienze verbo-visive e non, attive a livello internazionale. “Il mio lavoro è una celebrazione della cultura, in senso antropologico; il tentativo, sempre più desoggettivizzato, di una consacrazione trasgressiva dei segni della comunicazione”. Con questa definizione Mirella Bentivoglio delinea perfettamente non solo la sua attività di artista, ma anche il suo ruolo critico nell’ambito della poesia visiva, con un accento squisitamente femminile. Mirella Bentivoglio si occupa di poesia dal 1966; esordisce con una composizione in versi e si dedica poi alla ricerca verbovisuale negli ambiti della poesia concreta, della poesia visiva; sperimenta anche la realizzazione di alcuni librioggetto, non mancando di intervenire anche nello spazio urbano.

Mirella Bentivoglio

Con Mirella Bentivoglio si apre un capitolo nella storia della poesia visiva tutta al femminile. Infatti nel 1971, Ugo Carrega, noto esponente e ricercatore di poesia verbo-visiva, affida alla Bentivoglio la curatela dell’Esposizione Internazionale di Operatrici Visuali che si tiene nel gennaio del 1972 a Milano presso il Centro

Tool. Tale incarico è di estrema importanza: rappresenta un momento fondamentale nella carriera della Bentivoglio e consente un raggruppamento di tantissime informazioni ed opere delle esponenti tutte femminili che operavano nel campo della poesia verbo-visiva. La Bentivoglio ravvisa in tale opportunità

Mirella Bentivoglio, Fiori del nostro tempo, 1974


Abilità al femminile

7 Donatella Ferrari (a cura), Poesia Visiva. La donazione di Mirella Bentivoglio al Mart, catalogo della mostra, Rovereto, 2011

offertale la possibilità di coinvolgere, con il suo impegno e la sua dedizione, le sue colleghe al fine di renderle partecipi di un’avventura intellettuale artistica di notevole prestigio. In quella mostra Mirella Bentivoglio espone con Anna Oberto, Betty Radin, Amelia Etlinger, Annalida Alloatti, e tante altre. Da allora non ha smesso la sua ricerca al femminile, calamitando intorno a sé artiste provenienti da ogni angolo del mondo. Osservando con uno sguardo d’insieme il suo percorso critico ed espositivo si avverte come la Bentivoglio sembri essere sempre in bilico tra il suo ruolo di creatrice e quello di mediatrice. 7 Forse mossa da una brama di conoscenza mista a curiosità, la Bentivoglio sembra provare meno interesse verso la sua attività personale di artista rispetto a quello per un discorso globale e collettivo che coinvolga le sue colleghe. La scelta di un comune denominatore che restringa il campo, ma consenta nel contempo di estenderlo all’internazionalità, le permette di creare una rete fittissima di scambi e informazioni. Pietra miliare del percorso di Mirella come studiosa è la curatela della Biennale di Venezia del 1978 dal titolo suggerito dalla stessa artista, Materializzazione del Linguaggio, che intendeva riunire nella radice ‘mater’ il duplice significato

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di femminilità e materia. Grazie al rapporto di fiducia che aveva instaurato con le sue colleghe straniere, la

Bentivoglio riuscì ad ottenere, in modo privato, le opere che furono poi messe in mostra nell’edizione veneziana. Soltanto all’interno della

Mirella Bentivoglio


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rassegna verbovisiva furono presenti in quella edizione della Biennale i Paesi d’oltre cortina, a prova di quanto fosse unificante il legame tra donne. La sperimentazione verbovisiva, infatti, rappresenta una forma di globalizzazione sul piano espressivo. E il taglio internazionale, in questo settore operativo, si addice particolarmente alle mostre di opere prodotte da donne: la somiglianza di condizioni superava infatti i confini/limiti geografici. Fra le opere in mostra alla Biennale, la Bentivoglio espone il suo Fiore nero, un fotomontaggio realizzato su legno sagomato ispirato a una fotografia, apparsa sui quotidiani, del funerale di un giovane di colore. L’evento

Mirella Bentivoglio, Ovo-trullo

Mirella Bentivoglio

è scandito dal ripetersi del colore nero, ogni cosa è nera: vestiti, bara fiori. L’immagine del corteo funebre è ritagliata e scontornata nella forma di un fiore dai petali scomposti. Lo stelo è composto con i ritagli della didascalia della foto e rende esplicito il riferimento funereo. Vi si legge: “funerali di un negro ucciso”, mentre sulle foglie è riportata la scritta “Lawrence (Stati Uniti): duecento negri hanno seguito il funerale del diciannovenne Donald Rick Dowell, ucciso da un poliziotto. Neri i vestiti, nera la barba, neri i cavalli, neri perfino i fiori. (Radiofoto Associated Press)”. Il fiore nero, unico elemento nero a non essere presente in natura, allude al rapporto tra il colore della pelle del giovane e il colore del lutto. L’accostamento di parole e immagini invita a far riflettere su quanto accaduto; il fiore è un simbolo che esprime caducità e dolore. Tutta la complessità comunicativa della Bentivoglio fa uso del simbolo. L’artista si avvale di sottili giochi linguistici carichi di intuizioni, volti a far sorgere nell’osservatore processi mentali che scavano nel profondo intellettuale ed emozionale. 8 Alla base delle sue azioni poetiche vi è un procedere sequenziale legato alla dimensione temporale. Il tempo concorre sia nella gestazione dell’opera, che richiede spesso un

8 Donatella Ferrari (a cura), Poesia Visiva. La donazione di Mirella Bentivoglio al Mart, catalogo della mostra, Rovereto, 2011


Abilità al femminile

lungo percorso per essere compiuta, sia nei rimandi simbolici che gli oggetti messi in gioco evocano. Il valore della sequenza si ha in una sorta di ripetizione, in più opere, delle stesse simbologie. Vengono, infatti, riproposti elementi compositivi ricorrenti: l’albero, la luna, il libro, ma soprattutto l’uovo. Fra le diverse forme del panorama artistico della Bentivoglio, l’uovo è appunto quella con maggiore impatto. L’uovo è simbolo di vita, è una forma priva di principio e fine, una forma essenziale ma difficilmente riproducibile con semplici costruzioni geometriche. Noti sono, ad esempio, i suoi libri-oggetto in marmo dove compare la forma

Mirella Bentivoglio, Ti amo, 1970

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dell’uovo. Le creazioni di Mirella Bentivoglio, scrive Renato Barilli, sfuggono alla definizioni restrittive che connotano la ricerca verbovisuale. Per tale ragione la chiave di lettura per interpretare la produzione poetica della Bentivoglio va individuata nel significato che la parola simbolo ha ab origine: “Perché ci sia simbolo, occorre che due realtà entrino fortemente in collusione, o meglio ancora, che raggiungano un effetto di sintesi finale. [...] Perché ci sia un simbolo, occorre che intervenga una componente fortemente materiale, fisica, tangibile...”. 8 Mirella Bentivoglio è definita “tessitrice”, perché possiede l’abilità di intrecciare trame tra parole e significati, tra parole e immagini, scoprendo così interpretazioni nascoste del linguaggio, delle immagini, dei segni. Giocare con le parole e i significati plurimi, doppi o ambigui, che amplificano ed espandono il senso che l’opera racchiude e svela, è un’operazione distintiva della poetica di Mirella Bentivoglio, la cui ricerca ha dato origini a una modalità del tutto personale nell’elaborazione dei rapporti fra parola e immagine, che include anche l’elemento simbolico, mediato da influenze surrealiste e duchampiane. 8 A ciò si aggiunge una propensione alla


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condivisione della Bentivoglio, che risulta essere un’attitudine che riguarda l’atto creativo. Un esempio di tale propensione per la creazione corale è il libro d’artista Un albero di pagine, 1976. L’artista colloca in piazza a Gubbio un albero e invita i passanti a scrivere un pensiero da appendere ai suoi rami. Una volta raccolti tutti i fogli, è stata composta con essi una poesia collettiva. Dall’evento è nato poi un libro-oggetto dall’omonimo titolo, che presenta le pagine divise e tagliati in cinque strisce sulla quali sono state riprodotte le frasi dei passanti. Il libro è il risultato di un’opera di tutti, così come la poesia e le immagini che contiene.

Mirella Bentivoglio

Mirella Bentivoglio

Un’altra opera della Bentivoglio è Je suis (l’inconscio androgino), 1979-1984. Tale opera è letta in rapporto con quella di Ketty La Rocca, Il corpo e il Linguaggio (“J”), 1969-1970, poiché entrambe presentano come elemento caratterizzante l’impiego della lettera maiuscola “J”. Si nota come vengono privilegiate, nelle opere femminili della verbovisualità, le lettere alfabetiche isolate, staccate da ogni contesto verbale. Così separate dal senso, sono presenze che si propongono come la minima unità di misura della scrittura; ne costituiscono la cellula primaria, pregna ancora della matrice ideologica. Non sorprende che una esponente russa della poesia verbovisiva abbia fondato e teorizzato per questo approccio al singolo segno alfabetico, un tipo particolare di poesia definita “typoesia”, ovvero poesia tipografica. Se Ketty La Rocca impiega la lettera maiuscola “J” attribuendole una forte connotazione maschile, Mirella Bentivoglio mette l’accento sulla consapevolezza di esistere, e quindi sul conferimento della vita, facendo pertanto assumere alla lettera “J” una prerogativa naturalmente femminile. Concludendo, si sottolinea ulteriormente l’importanza del lavoro svolto dalla Bentivoglio in ambito verbovisivo. Attraverso un lungo lavoro di ricerca, di scrittura, di rapporti


AbilitĂ al femminile

tra linguaggi, di relazioni tessute fra donne poetesse ed artiste, Mirella Bentivoglio ha contribuito ad affermare non solo il suo ruolo di artista, ma anche quello di tutte le esponenti della poesia visiva al femminile. Il confronto tra la poetica di Mirella Bentivoglio e il mio progetto va letto alla stregua del rapporto che l’autrice ha con la poesia visiva. Il bilinguismo proprio della poesia visiva, ovvero la comprensione di parola ed immagine, ritorna nelle mie fotografie.

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Barbara Kruger: parola e immagine in contrappunto

Parlando di manifestazioni contemporanee della poesia visiva e di arti sempre più ibride, sia dal punto di vista del coinvolgimento di diverse sfere sensoriali, sia dalla varietà di supporti utilizzati, non si possono non prendere in considerazione il lavoro di Barbara Kruger e di Jenny Holzer. Barbara Kruger è una fotografa e un’artista concettuale statunitense. Dopo aver frequentato la scuola di arti visive e aver studiato arte e design con Diane Arbus, Kruger lavora negli anni ‘70 per l’editore Condé Nast e per diverse testate come art director e graphic designer, un’esperienza che ha influenzato i successivi sviluppi della sua attività artistica. Fin dagli esordi, Barbara Kruger colloca i suoi lavori (fotografie in bianco e nero, spesso raccolte sui giornali, raffiguranti il più delle volte donne, cui giustappone slogan, testi bianchi su fondo rosso, scritti sempre con lo stesso carattere) negli spazi cittadini destinati ai manifesti pubblicitari, sovvertendo il senso del loro linguaggio e creando così uno stile forte, inconfondibile e d’impatto e, soprattutto,

Barbara Kruger

permettendo all’arte di uscire fuori dai luoghi istituzionali del museo e della galleria per generare un corto circuito con il quotidiano. Il risultato scuote l’osservatore, minandone le certezze e scardinando i luoghi comuni della società, perché i messaggi lanciati dalla Kruger

(frasi personali o tratte dal linguaggio corrente) sono critiche potenti degli stereotipi legati alla donna, al consumo di massa o al vivere sociale, ma offerte in una maniera che disattende

Barbara Kruger I shop therefore I am, 1987


Parola e immagine in contrappunto

le aspettative di colui che guarda e che da un manifesto pubblicitario pensa di essere gratificato e rassicurato. 1 I lavori di Kruger sono diretti ed evocano una risposta immediata. Il lavoro della Kruger si collega ad alcune pratiche artistiche già operate negli anni Settanta e Ottanta da Ketty La Rocca. Kruger si rifà, infatti alla poesia visiva. Il primo elemento, di chiara ripresa del genere, è appunto la comprensione di testo ed immagine. L’artista spesso si avvale di immagini di donne recuperate da pubblicità su riviste o giornali, a cui aggiunge brevi testi che ne sovvertono il senso. La caratteristica propria della Kruger è infatti il contrappunto che esiste tra parola ed immagine. Nei suoi lavori ci sono due racconti uno lineare testuale, che fa riferimento all’idilliaca visione iconografica del mondo, ed uno visivo che attinge da un panorama più moderno e che funge da denuncia politica e sociale. Lo scontro di questi due racconti genera il contrappunto presente nei lavori della Kruger. L’ironia delle immagini e delle parole dell’artista denunciano i consolidati immaginari collettivi e le comode speranze. Questo aspetto distingue il suo lavoro da quelli operati dagli esponenti della poesia visiva, in cui

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immagine e testo sono posti in relazione. L’uso delle immagini in bianco e nero, la scelta della font e la scelta dei colori hanno creato uno stile originale e facilmente riconoscibile. Lo scopo dei messaggi di Barbara Kruger è quello di farci riflettere su temi politici e sociali

e sui luoghi comuni della società moderna. Barbara Kruger ha affermato: “Lavoro con immagini e parole perché questi elementi hanno l’abilità di determinare chi siamo e chi non

Barbara Kruger, Your body is a battleground, 1980


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siamo”. 2 Il suo poster del 1989 è a supporto del diritto delle donne di poter scegliere sull’aborto e sul controllo delle nascite. Come già detto, il lavoro della Kruger è legato a problematiche sociali e politiche. Il poster mostra un’immagine divisa in due parti, lungo l’asse verticale, una positiva ed una negativa, raffigurante il volto di una donna. La fotografia in bianco e nero è enfatizzata da blocchi rossi con testo bianco posti sopra la stessa immagine su cui viene riportata la scritta “Your Body is a Battleground”. Le caratteristiche della donna ritratta, come il suo trucco, l’acconciatura dei capelli mostrano uno stile tipico degli anni Cinquanta. Lo

Barbara Kruger Thinking of You, 1980

Jenny Holzer

sguardo diretto del soggetto è rivolto verso il lettore, stabilendo così un contatto visivo dall’impatto forte. I messaggi di Barbara Kruger sono facilmente riconoscibili sotto il profilo grafico e contenutistico: la scelta dei colori, la font e l’uso di immagini in bianco e nero hanno creato un segno originale e definito, che non è sostanzialmente cambiato negli ultimi vent’anni. Le tematiche care alla Kruger, sulle quali lo spettatore è invitato a riflettere, includono il consumismo (I shop therefore I am), il consenso (Look like us), la politica (Hate like us), l’amore (Thinking of you) e altre ancora (Love for sale, Don’t be a jerk). 3

Jenny Holzer: la forza dei nuovi supporti digitali

Jenny Holzer, è una artista americana considerata una delle principali esponenti delle più recenti tendenze dell’arte concettuale e dell’arte pubblica. Anche la Holzer, fa parte della generazione di artisti emergenti degli anni Ottanta così come la Kruger. Holzer è conosciuta per i suoi interventi in spazi pubblici: proiezioni su palazzi e altre strutture architettoniche, interventi su grandi pannelli


La forza dei nuovi supporti digitali

pubblicitari. Il suo campo d’azione è costituito dal posizionamento di brevi testi nello spazio urbano attraverso l’utilizzo di vari supporti (cartaceo, LED luminosi, pietre incise, video). I testi, tipograficamente privi di ogni accento calligrafico, sono costituiti in prevalenza da brevi enunciati relativi alla quotidianità, al potere, alla giustizia ai rapporti umani e, con maggiore insistenza negli anni più recenti, alla morte e alla guerra. Il punto di vista, soprattutto nei primi lavori, è spesso contraddittorio o ambiguo, mentre nelle ultime ricerche si registra spesso una maggiore

Jenny Holzer, Truisms T-Shirts, 1983

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componente drammatica. Il suo intento è quello di ribaltare i dispositivi pubblicitari dal loro scopo tradizionale, per poter così trasmettere messaggi che provocano e che creano spunti di riflessione. Inizialmente l’artista utilizza poster pubblicitari per strada, successivamente l’utilizzo di neon rende più visibile il suo messaggio. Con i suoi lavori sperimenta inoltre l’impiego di altri supporti, quali placche in bronzo, adesivi, T-shirts, installazioni video, performance di luce, ed Internet. Dunque, in tutte le opere utilizza il linguaggio come mezzo di comunicazione di massa e, nel caso di lavori riguardanti tematiche forti come la guerra e la violenza, gli attribuisce anche una funzione edificante. Le opere dei J. Holzer implicano la partecipazione di uno spettatore attivo, non hanno alcun senso se non sono notate e lette; le persone completano il lavoro, gli danno un significato, è attivato “un processo di comunicazione”, “di interazione”, “di influenza reciproca”. Nel suo caso è lo spettatore che tende ad avere un ruolo primario, le opere sono solo degli imput per instaurare la relazione opera-spettatore. Le sue installazioni sono dunque interattive e il mezzo col quale comunica è più importante dell’opera intesa


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come oggetto materiale presentato in un museo. Non vi è più neanche un posto ideale dove lo spettatore deve collocarsi per vedere al meglio le opere, come nelle opere incentrate sulla prospettiva: ora l’osservatore può liberamente girare per la galleria e interagire con le opere nel modo che più gli piace. I suoi lavori implicano anche uno stretto rapporto con lo spazio: le opere sono realizzate per essere installate in un dato luogo, ma poi vengono in seguito esposte in vari altri posti; possono essere create per un luogo pubblico ma essere in seguito esposte in una galleria: cambiano significato e d’intensità in base al contesto in cui sono collocate.

Jenny Holzer, Florence, 1996

Jenny Holzer

E’ a New York che comincia ad utilizzare le strutture dei mass media e l’ambiente metropolitano come mezzo per veicolare la sua prima serie, Truisms, costituita dai truismi, frasi che l’artista compone ispirandosi a modi di dire popolari o parafrasandone il linguaggio. L’artista afferma che cominciò ad essere affascinata dal linguaggio perché “it communicated in a way that painting could not”/ “comunica in maniera in cui la pittura non sarebbe in grado”. I Truisms (1977-1979) sono una serie di testi scritti in stampatello, lunghi una riga, disposti in ordine alfabetico, stampati su poster e T-shirts in bianco e nero, affissi abusivamente in tutta la città, sulle cabine telefoniche, sui parchimetri, sui muri delle case. I suoi truismi scuotono il senso comune e il pensiero dominante. Essi sono contraddittori: è presente una molteplicità di voci narranti. Il modo di fare arte della Holzer è provocatorio, poiché accosta messaggi scottanti e anticonvenzionali alla tradizionale pubblicità; i media utilizzati hanno dunque un ruolo primario nel catturare l’attenzione dei passanti. La Holzer inserisce silenziosamente e in modo realistico i suoi messaggi nei luoghi pubblici, anche grazie all’utilizzo di media poco appariscenti, così che ci si accorge casualmente, passando, della loro forte presenza. Ne consegue


La forza dei nuovi supporti digitali

che l’osservatore può instaurare un legame di dipendenza e in più viene coinvolto dall’opera, maggiori sono gli effetti mediali che possono influenzarlo. Nelle sue installazioni è importante il rapporto che si instaura tra opera e corpo: nei Truisms stampati nelle magliette e in Living, i cui testi erano scritti sulla pelle, il corpo è il veicolo del messaggio; nelle installazioni con le panchine, tra cui Under the rock e Benches, il corpo diventa un tutt’uno con l’opera poiché le persone si siedono su di loro per poter leggere cosa vi è scritto, compiendo un atto performativo. Jenny Holzer ha saputo quindi sviluppare un modo di fare arte nuovo, provocatorio, di forte impatto, altamente comunicativo, che le ha permesso di essere considerata una delle artiste

Jenny Holzer, Paris, 2001

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più importanti della postmodernità. Barbara Kruger e Jenny Holzer utilizzano parole ed immagini nelle loro opere. Solo in virtù di tale comprensione di immagini e testo è possibile il confronto con il mio progetto. Se si vuole comprendere la motivazione mi ha portato ad analizzare le opere delle due artiste si deve tralasciare l’analisi degli intenti e dei supporti delle opere della Kruger e della Holzer. L’unica analogia possibile resta infatti una sapiente relazione tra testo e immagini fotografiche.


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Duane Michals: un modello comunicativo completo

L’abilità narrativa di Duane Michals non si esaurisce soltanto nelle sequenze, ma si allarga anche ai foto-testi. Si passa così da una narrazione di tipo visivo, le sequenze, ad una di tipo visivo-testuale, i foto-testi. Nel 1974, Michals comincia a corredare le sue fotografie con titoli scritti di suo pugno che con il tempo amplia in spiegazioni sempre più dettagliate. In alcuni casi sono diventati addirittura testi letterari a sé stanti. 9 La scrittura era il risultato di una frustrazione che provava nei confronti del mezzo fotografico. Michals ricorda che: “Incominciai a scrivere perché avevo in mente una foto con mia madre, mio padre e mio fratello in cui quello che mi interessava non era il loro aspetto, ma la relazione esistente tra loro. Quell’estate, quando mio padre morì, scrissi dieci testi. Fu come se si fosse rotta una diga. Tutto quello che ho fatto nella mia vita è servito per liberarmi, non me lo sono inventato per stare al passo coi tempi, ma perché avevo bisogno per esprimermi meglio e in modo più completo. È stato sempre una necessità”. A seguito della perdita paterna, Michals realizza A Letter from my Father e This Photograph is my Proof.

Duane Michals

Michals afferma più volte che la scrittura che integra alle sue fotografie nasce da una pura necessità. Vengono meno gli intenti provocatori che, ingenuamente, si potrebbe pensare di collegare a tale azione. La frustrazione del conoscere qualcosa in più sul soggetto

fotografato, spinge Michals a scrivere sulle sue fotografie. In tal modo le fotografie non erano più statiche, ma erano qualcosa di più, come lo stesso fotografo le definisce. Afferma a tal merito: “Dove finisce la fotografia

Duane Michals A letter from my father, 1975

9 AA. VV., Fotografia del XX Secolo, Museum Ludwig do Colonia, Taschen, Cina, 2007


Un modello comunicativo completo

10 Mauro Fiorese, Viganò Enrica (a cura), Duane Michals, Siz Admira Edizioni, Roma, 2003

inizia la scrittura. È una relazione simbiotica. Per questo motivo il testo e l’immagine, quando li si guarda insieme, dicono qualcosa che nessuno dei due elementi sarebbe in grado di dire da solo”. La scrittura autografa di Duane Michals permette al positivo fotografico, un prodotto meccanico altamente impersonale, di essere arricchito e reso unico in modo che nessuno potesse riprodurlo. Michals riscrive continuamente ogni volta che fa una nuova copia e la scrittura non è mai esattamente uguale. Alcune volte fa degli errori che poi cancella per tornare a scriverci sopra, anche questo rende ogni fotografia speciale, unica. 10 Per ciò che concerne il linguaggio della scrittura, Michals afferma: “Ho la fortuna di non essere uno scrittore migliore. Se lo fossi sarebbe più complicato, invece sono abbastanza semplice”. Il linguaggio di Duane Michals è semplice, ingenuo, diretto e comprensibile. Il linguaggio rispecchia il modo di essere dell’autore, ed è per questo motivo che funziona. Nelle opere di Michals a fare da contrappeso a questo linguaggio semplice ci sono temi più complessi quali la morte e il tempo. “Il tempo è assolutamente fondamentale nel nostro modo di fare esperienza della vita, della coscienza della realtà, eppure lo diamo per scontato, non

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ci accorgiamo nemmeno di lui, non ne siamo coscienti”. Morte e tempo sono legate nell’opera di Michals: “Il tempo è una cosa davvero straordinaria, una costruzione della mente, una parte primordiale della realtà plasmata dai sensi. Credo che morire consista nel cadere fuori dal

tempo, in una sorta di atemporalità”. Ecco la ricchezza dei “foto testi” che con una sintesi straordinaria di forma e contenuto espandono gli orizzonti e le possibilità di fare fotografia. Ecco che le possibilità messe

Duane Michals This photograph is my proof, 1974


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a disposizione dal mezzo fotografico, come il mosso, lo sfuocato, l’esposizione multipla, diventano strumenti utili e innovativi nelle mani dell’autore che cerca di distruggere la natura oggettiva della realtà per crearne di nuove. “Viviamo sulle nostre emozioni” continua Michals, “e la parte visiva è solo una piccola fetta di questa grande torta che è la realtà. I fotografi continuano a limitare se stessi a quella piccola porzione di torta, ma io direi, invece: dobbiamo espandere la definizione stessa di realtà per includervi l’intera esperienza”. 11 L’intento di esprimere un’idea è opposta per Michals alla semplice azione di catturare un’immagine. La fotografia che intende Michals non evoca solamente dei sentimenti, ma invita il lettore ad esaminarli internamente. 12 In esame si mette lo stesso autore con il lavoro Questions without Answers in cui, tramite una serie di quesiti appunto, l’autore si interroga su importanti tematiche, quali la morte, Dio, la vecchiaia, l’omosessualità, il nulla, l’umorismo. L’autore afferma che realizzare un lavoro fotografico come Questions without Answers è complicato, in tale opera i testi hanno un registro più intimo e non servono da spiegazione alle fotografie, ma sono piuttosto delle illustrazioni del concetto espresso dall’immagine.

Duane Michals

Il collegamento tra Duane Michals e il mio progetto è quello certamente più evidente. A richiamare i foto-testi di Michals non è solamente l’impaginazione delle mie immagini affiancate dal testo, ma anche la volontà di ampliare l’orizzonte comunicativo implicando non solo la parte visiva ma anche quella testuale. La scrittura mi consente di completare le immagini, di arricchire il panorama entro cui sono state scattate e di suggerire all’osservatore una chiave di lettura ulteriore che non faccia riferimento solamente ad i segni visualizzati sul corpo.

11 “Duaneland - the adventures od Duane Michals. A Documentary”, Mon Valley Education Consortium, DVD 12 Cotter, J., “Duane Michals”, Eight Modern, 2004, http://www. eightmodern.net/ files/view/60



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Conclusioni Dialogo a due parla delle esperienze di interazione tra il corpo ed i luoghi circostanti. La ricerca propone un’indagine sul tema affrontato, tramite punti di vista differenti: dalla storia, alla poesia, dalla fotografia, alla scrittura, all’arte. Gli autori presentati hanno elementi di guida nella realizzazione del progetto. L’analisi degli autori non segue un ordine temporale ma, uno di tipo contenutistico. Il progetto si apre con una indagine storica sul ruolo rivestito dal corpo nella fotografia. In questa parte vengono analizzati alcuni autori ed alcune opere che mostrano il corpo come protagonista indiscusso. A tale momento di ricerca si aggiunge un rimando alla fotografia di nudo con riferimento al panorama femminile e all’analisi di alcune protagoniste. Nella seconda sezione di Dialogo a due gli autori storici e contemporanei fungono da guida concettuale al progetto. Per il concetto di “luogo” e di “spazio” vengono analizzate le poetiche fotografiche di Eugène Atget ed Andreas Gursky. I concetti di “tempo”, di “esperienza”, di “crescita” sono invece indagati mediante l’estetica di Luigi Ghirri, gli scatti intimi di Francesca Woodman e l’abilità narrativa di Duane Michals. La terza sezione, più ampia, è interamente dedicata all’interazione tra parola ed immagine. Tale rapporto viene indagato attraverso lo studio dei primi esponenti della Poesia visiva per poi arrivare all’analisi di fotografi e artisti contemporanei. L’interesse nei confronti della Poesia visiva e dei suoi esponenti non si esaurisce nella relazione che intercorre tra parola ed immagine, ma si amplia comprendendo uno sguardo sull’aspetto sinestetico e sul carattere multi-disciplinare del movimento artistico. Analogamente alla prima sezione dedicata al corpo, in questa ultima parte viene


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ricercato il ruolo femminile in ambito verbo-visivo sottolineato dalla ricerca su Mirella Bentivoglio. Parlando di manifestazioni contemporanee della poesia visiva e di arti sempre più ibride e multi-disciplinari, sono stati poi analizzati i lavori di Barbara Kruger e di Jenny Holzer. Questa sezione di attualizzazione delle esperienze verbo-visive conclude la parte di ricerca sulla Poesia Visiva. Nella terza sezione del progetto viene nuovamente focalizzata l’attenzione su Duane Michals. Michals, in un particolare periodo della sua attività fotografica, ama arricchire le sue immagini con la scrittura. Questo aspetto, oltre a richiamare il panorama verbo-visivo precedentemente trattato, ispira la realizzazione di Dialogo a due. Alla parte di ricerca e analisi degli autori che hanno guidato il progetto segue il lavoro fotografico. Ciascuna immagine realizzata dialoga con un estratto narrativo. Il testo rende l’esperienza più completa suggerendo all’osservatore una chiave di lettura ulteriore; un grado superiore che non si esaurisce con il solo riferimento dei segni visualizzati sul corpo.


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Riferimenti Bibliografici il corpo • • • • • • • •

Elio Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1998 Federica Muzzarelli, Il corpo e l’azione, Editrice Quinlan, Bologna, 2007 Federica Muzzarelli, Le origini contemporanee della forografia, Bologna, 2007 Jackson Pollock, The Politics of Theory in Generations and Geographies in the Visual Arts, Routledge, Londra e New York, 1996 Roberta Valtorta, Il contributo delle donne alla fotografia in Italia, in N. Leonardi, R. Spitaleri, L’atra metà dello sguardo, Agorà, Torino, 2011 Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 1996 Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino, 2004 Peter Weiermair (a cura), Il nudo fra ideale e realtà, catalogo della mostra, Skira, Bologna, 2004

concetti guida del progetto • • • • • • • •

Abigail Solomon-Godeau, Just like a woman, Maryland, 1986 Arturo Carlo Quintavalle, Muri di carta, Fotografia e paesaggio dopo le avanguardie, Electa, Milano, 1993 Arturo Carlo Quintavalle, Viaggio dentro un antico labirinto, D’Adamo editore, Brescia, 1991 AA. VV., Fotografia del XX Secolo, Museum Ludwig do Colonia, Taschen, Cina, 2007 AA.VV., Venezia ‘79, Electa Editrice, Milano, 1979 Corey Keller, Francesca Woodman, SFmoma catalogo della mostra, Distributed Art Publisher, San Francisco, 2011 Davide Faccioli, 100 al 2000: il secolo della fotografia, Photology, Bologna, 2007 Francesca Woodman, lettere non datate, collezione George e Betty Woodman


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• • • • • • •

Giulio Bizzarri e Paolo Barbaro (a cura), Luigi Ghirri, Lezioni di fotografia, Quodlibet, Macerata, 2010 Isabella Pedicini, Francesca Woodman. Gli anni romani tra pelle e pellicola, Contrasto, Milano, 2012 Mauro Fiorese, Viganò Enrica (a cura), Duane Michals, Siz Admira Edizioni; Roma, 2003 Marco Pierini (a cura), Francesca Woodman, Silvana Editoriale, Siena, 2009 Massimo Mussini, Luigi Ghirri, Federico Motta Editore, Milano, 2001 Roberta Valtorta, Il pensiero dei fotografi, Bruno Mondadori, Milano, 2008 Walter Benjiamin, Piccola storia della fotografia, Skira, Milano, 2011

interazione tra parole e immagini • • • • • • • •

Donatella Ferrari (a cura), Poesia Visiva. La donazione di Mirella Bentivoglio al Mart, catalogo della mostra, Rovereto, 2011 Flavio Caroli, Luciano Caramel, Testuale, Gabriele Mazzotta editore, Milano, 1979 Lamberto Pignotti, Figure scritture su certi segni delle arti e dei mass media, Campanotto editore, Bologna, 1987 Lamberto Pignotti, Stefania Stefanelli, Scrittura verbovisiva e sinestetica, Campanotto Editore, Pasian di Prato, 2011 Lucia Fiaschi (a cura), Il tempo della poesia visiva 1963-1968, Carlo Cambi editore, Parigi, 2009 Lucia Miodini, Lamberto Pignotti. Poesia Visiva. Fra figura e scrittura, catalogo della mostra CSAC, Università di Parma, Skira, Parma, 2012 Martina Corgnati, Francesco Poli, Dizionario dell’arte del Novecento, Bruno Mondadori, Milano, 2001 Marisa Dalai Emiliani, Ricerche visuali dopo il 1945, documenti e testimonianze, Unicopli-Cuem, Milano, 1978


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parte progettuale • • • • • • • •

Erik Orsenna, La grammatica è una canzone dolce, Salani Editore, 2002 Francesco Careri, Walkscapes, Piccola Biblioteca Einaudi, 2006 Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Gli Adelphi, Roma, 2007 Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, Edizioni e/o, 1984 Paolo Giordano, La solitudine dei numeri primi, Milano, 2008 Patrick Suskind, Il profumo, Longanesi, 2010 Paul Arden, Whatever you think, think the opposite, Penguin Books, London, 2006 Stefano Lanuzza, Gli Erranti, Feltrinelli, 2002

Riferimenti Sitografici • • • • • • •

Cotter, J., “Duane Michals”, Eight Modern, 2004, http://www.eightmodern.net/ files/view/60 Effe, S.,“Il profumo delle nuvole”, Nadir, 2006, http://www.nadir.it/libri/ PROFILONUVOLE/ProfiloNuvole.htm Gumport, E., “The Long Exposure of Francesca Woodman”, The New Yorker Review of Books, 2010, http://www.nybooks.com Pitteri, M., “Andreas Gursky: l’infinito artificialehttp”, 2photo, Novembre 2010, http://2photo.org/andreas-gursky-linfinito-artificiale/ Ronetti, A., “Francesca Woodman. Ritratti interiori tra Providence, Roma e New York”, Cultframe, 2010, http://www.cultframe.com Saltz, J., “It’s Boring at the Top”, New York Magazine, May 2007, http://nymag. com/arts/art/reviews/31785/ Tousley, N., “Andreas Gursky: Interview with Insigh”, Canadianart (Vancouver Art Gallery), May 2009, http://www.canadianart.ca/online/features/2009/07/09/ andreas-gursky/index4.html


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• • • • • • • • •

Vangi, M., “Fotografia”, Culturalstudies, 2009 http://www.culturalstudies.it/ dizionario/lemmi/fotografia.html Vituzzi, V., “Vita, avventure e morte di Francesca Woodman”, Doppiozero, marzo 2011, http://www.doppiozero.com http://www.eng.fju.edu.tw/Literary_Criticism/feminism/kruager/kruger.htm http://www.noemalab.org http://www.wikipedia.org http://www.artsblog.it http://www.eightmodern.net http://www.nymag.com http://www.canadianart.ca



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Ringrazio:

Mia madre e mio padre per aver creduto in me, mio fratello Mauro che inconsciamente mi ha aiutata. Paola Binante che ha guidato egregiamente questo progetto; Matteo Dini per il supporto e la disponibilità ; Antonio Manta per la fiducia e per la post produzione fotografica; Marinella e Jennifer per avermi sopportata in tutti questi anni; Catia, Simonetta, Franca e Renzo per la pazienza; tutta l’ISIA per avermi cresciuta; Samuele Mancini per gli ottimi consigli; Francesco Valerio Panatta per l’amicizia e le torture subite durante gli scatti; Marcello Russo per essere stato un ottimo compagno di classe; Salvatore Aranzulla per la determinazione e per essere sempre presente; Alice Martinucci per essere mia amica; tutti quelli che coloro che hanno sostenuto il progetto; il mio anno di corso per i continui confronti e le tante avventure; tutti gli amici di Urbino e le persone che hanno fatto di questa terra la mia seconda casa.


Post produzione fotografica: Antonio Manta Stampato da Fina Estampa S.r.l. su carta IQ Selection Smooth 100 gr./m2 by Mondi, Smooth CX22 Diamond White 100 gr./m2 by Conqueror. Testi composti in Archer Š Hoefler & Frere-Jones, Aaux Next by Neil Summerour, NatGrotesk by Natalia Vasilyeva.



Tempo e spazio si combinano. L’esperienza che sto tentando di descrivere è molto precisa e immediatamente riconoscibile. Ma essa esiste a un livello di percezione e sensazione che probabilmente è preverbale; di qui, soprattutto, la difficoltà di scriverne. Non se ne parla perché non ha nome. A questo punto siete dentro l’esperienza. - Gli Erranti, Stefano Lanuzza -



Le scelte si fanno in pochi secondi e si scontano per il tempo restante. - La solitudine dei numeri primi, Paolo Giordano -



Ciò che distingue una persona che ha studiato da un autodidatta non è la qualità di conoscenze, ma il grado di vitalità e di conoscenza di sé. - L’insostenibile leggerezza dell’essere, Milan Kundera



La gente crede di inseguire le stelle e finisce come un pesce rosso in una boccia. Mi chiedo se non sarebbe più semplice insegnare fin da subito ai bambini che la vita è assurda. Questo toglierebbe all’infanzia alcuni momenti felici, ma farebbe guadagnare un bel po’ di tempo all’adulto-senza contare che si eviterebbe almeno un trauma, quello della boccia. - L’eleganza del riccio, Muriel Barbery -



Make tea. Make it often, make it willingly. Influential people like it. It will give them a good opinion of you, and they will want to help you in return. - Whatever you think, think the opposite, Paul Arden -



Il profumo ha una forza di persuasione più convincente delle parole, dell’apparenza, del sentimento e della volontà. Non si può rifiutare la forza di persuasione del profumo, essa penetra in noi come l’aria che respiriamo penetra nei nostri polmoni, ci riempie, ci domina totalmente, non c’è modo di opporvisi. - Il profumo, Patrick Suskind -



C’era una volta. La frase magica che, ogni giorno dall’infanzia alla morte ci porta in viaggio. C’era una volta. Le quattro parole che danno inizio alla nostre partenze più belle. Ecco perché mormorare “c’era una volta” è come issare le vela. Pagina bianca, vela bianca. Ci imbarchiamo nelle parole o sul mare. Davanti a noi, gli orizzonti misteriosi. - La grammatica è un canzone dolce, Erik Orsenna -



Chi può pensare di produrre del miele se non è ape? - L’eleganza del riccio, Muriel Barbery -



Uno dei principali problemi dell’arte del camminare è trasmetterne in forma estetica l’esperienza. - Walkscapes, Francesco Careri -



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