Copertina Piante medicinali:Sovraccoperta/copertina piante medicinali
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mia Sardegna, con il piroscafo, come ancora Q nellasi diceva in quel tempo, la prima sensazione,
on sono medico, non sono un botanico, non mi N intendo di fitoterapia e, per dirla tutta, non mi intendo proprio di piante. Neanche il mio lavoro di
all’ingresso della nave nel golfo di Olbia, era olfattiva. La terra che ci circondava, riscaldata dai primi raggi del sole, emanava una serie di odori, profumi direi, che, apparentemente dissonanti, si univano in realtà a formare una precisa identità fragrante. Il vento tiepido ci portava gli aromi del cisto, del lentischio, del mirto, del ginepro ad un tempo individuabili e fusi in unico riconoscibilissimo sentore. Ebbene il libro di Enrica Campanini mi ha rievocato quelle antiche sensazioni fisiche, ma anche cariche di stupore, di piacere e di aspettativa per un mondo, per me bambino, carico di suggestioni e di promesse. Il profumo delle piante della Sardegna emana da ogni pagina del libro scaturendo dalle parole e dalle immagini in gran parte familiari alla memoria. Ma superata questa emozione ecco che se ne presenta un’altra, anche essa costituita da molteplici componenti: Enrica Campanini, in tempi non più vicinissimi, è stata una mia allieva, ha discusso con me la tesi di laurea, abbiamo lavorato assieme accomunati dalla passione per la storia della Medicina. Adesso da allieva è diventata maestra nel campo della fitoterapia come dimostrano abbondantemente le sue pubblicazioni, i libri di successo, l’attività di insegnamento. E allora la prima componente affettiva è l’orgoglio, la soddisfazione di avere tenuto a battesimo una persona che, come si diceva un tempo, “si è fatta onore”. Di questo onore mi sento, seppure in piccola parte, responsabile. Orgoglio quindi, ma anche una punta di malinconia per il tempo che fugge, per i ragazzi che diventano adulti, per gli adulti che invecchiano. Infine ammetterò sinceramente anche un pizzico di invidia: un libro come questo mi sarebbe piaciuto averlo scritto io. Ma come è questo libro? In sintesi estrema lo definirei informatissimo, chiaro senza essere banalmente divulgativo, divertente se non addirittura affascinante per colui che si diletti, superficialmente o approfonditamente, di antropologia e di storia; storia non degli eventi eroici che studiamo a scuola, ma dei piccoli quanto fondamentali accadimenti, problematiche, usi ed abitudini del vivere quotidiano: la tecnica antica di intrecciare canestri col gambo dell’asfodelo al posto del Congresso di Vienna e delle sue conseguenze. Ma al di là delle definizioni un tantino riduttive testé elencate, segnalerò la brillantezza, l’abbondanza e la precisione delle annotazioni storiche su ciascuna pianta, la collocazione del loro uso nell’ambiente della Sardegna di ieri e di sempre; ambiente che emerge a tutto tondo dalle parole dell’autrice (ormai sarda per annosa ed affettuosa consuetudine), imponendosi icasticamente e prepotentemente, con la capacità di evocare l’interesse di chi non conosce l’isola e la nostalgia di chi ne è lontano: non è forse vero che la parola nostalgia significa il dolore per il (mancato) ritorno? Sorvolerò di proposito sull’utilizzo medico, passato e presente, delle singole piante: conosco talmente bene Enrica Campanini da poter dare per scontate la precisione e la completezza del suo lavoro, ma mi devo soffermare sulla iconografia ricchissima, piacevole e accattivante anche per colui che guardi con semplice intento estetico, evocativa, come già si è accennato, per colui che vi si accosti con un patrimonio di ricordi. Insomma un libro da non lasciarsi sfuggire, senza il timore, per chi non è del mestiere, di essere sopraffatto da esoteriche comunicazioni tecniche; un libro per tutti, quindi, ma per tutti coloro che sono capaci di provare un interesse genuino per questa bella famiglia d’erbe e d’animali. Attendo fiducioso il prossimo libro di Enrica.
psicoterapeuta sembra avere molte connessioni con la ricerca di Enrica Campanini, se non per la nostra frequente collaborazione professionale, perché dunque propormi di scrivere una prefazione al suo lavoro? Poi ho capito: mi invitava a “viaggiare” nel suo mondo, e per uno scrittore di viaggi questo è un richiamo irresistibile. Il corpus fondamentale del libro è un viaggio nella natura, nella scienza, nell’antropologia e nella cultura sarda, guidati dalle piante, e con le piante entriamo in un mondo sconfinato di notizie. Sapevo che la ferula era usata per battere gli studenti senza lasciare traccia, ma non che fosse considerata un afrodisiaco e forse anche un anticoncezionale, accoppiata opportuna. Non sapevo che Prometeo avesse nascosto il fuoco rubato agli dei all’interno del suo fusto, pratica purtroppo tuttora usata da qualche piromane. Scopriamo poi che i pastori sardi avevano già scoperto che poteva essere tossica per il bestiame e facevano un rito propiziatorio la notte di San Giovanni, «notte magica e propiziatoria per la raccolta delle piante, mangiavano formaggio con fette del fusto della ferula per scongiurare gli avvelenamenti dei propri capi di bestiame». E poi scopriamo la connessione delle fave, proibitissime da Pitagora ai suoi discepoli, con il culto dei morti, ma anche con la nascita (le fave come embrioni dei bambini). Il tabù dell’attraversare i campi di fave non portò fortuna a Pitagora. «La leggenda … narra che il grande filosofo venne assassinato da sicari, dopo essersi trovato dinanzi ad un campo di fave che avrebbe rifiutato di attraversare. La supposta pericolosità della pianta non era del tutto infondata: in alcuni soggetti predisposti causa una malattia molto grave detta favismo o anemia emolitica». Naturalmente, come negli altri testi di Campanini, vi sono tutte le notizie indispensabili per il fitoterapeuta, ove si confronta il sapere popolare con la ricerca scientifica, evidenziando indicazioni e controindicazioni. Ma è anche un viaggio nel tempo, con lo straordinario “Dizionarietto biografico”, che ci racconta di medici e studiosi delle più svariate discipline: alchimia, astronomia, teologia, farmacologia …, testimoni di un tempo in cui il sapere non era parcellizzato e scisso, e la medicina era forse più olistica. Di ognuno di questi personaggi verrebbe voglia di saperne di più, di indagare, di scriverne la storia. Alcuni sono notissimi, Avicenna e Ippocrate, Pitagora e Malpighi, Raimondo Lullo, figure straordinarie che ci ricordano, come nella famosa frase attribuita erroneamente a Newton, che oggi vediamo più lontano perché siamo nani che stanno sulle spalle di giganti. O la mistica Hildegarda di Bingen: o «santa Ildegarda (Bermeshein 1098-presso Bingen 1179), badessa e naturalista. Sebbene sia spesso chiamata santa, non fu mai canonizzata. Scrisse il Liber semplicis medicinae o Physica ove parlava dei poteri curativi delle erbe, delle pietre e degli animali e il Liber compositae medicinae dove disquisiva sulle cause naturali delle malattie. Lasciò anche scritti di carattere mistico (Liber scivias)». Fu anche musicista, aggiungo, e il suo pensiero è rilevante nel descrivere le esperienze mistiche di coscienza. È curioso scoprire il Vissani o il Pellegrino Artusi della latinità, «Apicio, Marco Gavio (25 a.C. ca.37 d.C. ca.), famoso gastronomo romano, autore del più antico testo di cucina, il De re coquinaria, che rappresenta un’importante testimonianza sulle abitudini culinarie della latinità». Ed è divertente scoprire che Thomas Willis, autore nel 1661 del Cerebri Anatome, passa alla storia non solo per la scoperta del circolo di Willis o per la descrizione del diabete mellito, ma anche perché si trasferì a Londra dove «… nessun medico mai lo sorpassò e guadagnò più denaro di lui». Per ultimo sottolineo che, per lo splendido apparato iconografico, è un piacere estetico sfogliare il libro ed entrare con la guida garbata dell’autrice, nelle meraviglie della natura. D’ora in poi guarderò le piante con più attenzione, e attraverserò i campi di fave, sia pure con rispetto.
Pier Luigi Cabras Professore ordinario di psichiatria, Università di Firenze
Andrea Bocconi Scrittore, psicoterapeuta didatta di psicosintesi
uando, bambino, tornavo in estate per le vacanze
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Enrica Campanini
Enrica Campanini
PIANTE MEDICINALI IN SARDEGNA
PIANTE MEDICINALI IN SARDEGNA
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PIANTE MEDICINALI IN SARDEGNA Fotografie di Nelly Dietzel
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Punica granatum L.
STORIA
Punica granatum L. Nome comune Melograno Nome sardo Mela de ranu, Mela de eranu, Melagranada, Melagrenada, Arenada, Arenara; Magrana (Alghero) Nome francese Grenadier Nome inglese Pomegranate Famiglia Punicaceae Parte utilizzata corteccia delle radici, frutto Costituenti principali alcaloidi piperidinici (0,5-0,7%) tannino (25%); flavonoidi (frutto) Attività principali antielmintica uso alimentare (frutto) Impiego terapeutico desueto uso alimentare (frutto)
S
i ritiene che la pianta sia stata posta in coltivazione in Iran circa 5000 o 6000 anni fa. La melagrana, grazie all’epicarpo resistente che forma un involucro sferico e coriaceo, è un frutto che si presta alla lunga conservazione e viene danneggiato difficilmente durante il trasporto. Per questi motivi e per la sua ricchezza in acqua, trattenuta dalla spessa scorza, ha rappresentato nell’antichità uno degli alimenti basilari nei lunghi percorsi per viaggiatori e carovanieri. I suoi semi rapidamente si sono dunque diffusi verso l’est (Afganistan, India, Cina) e verso l’ovest (Egitto). I Mori lo introdurranno in Spagna dove, sotto la loro influenza, darà il suo nome alla città di Grenada. Simbolo di fertilità (a causa dei suoi numerosi arilli, più o meno circa 840) in Mesopotamia, in Asia e nella Grecia e nella Roma antiche, riveste diversi altri significati nelle tre grandi religioni monoteiste: nostalgia della terra promessa per gli ebrei in esilio, simbolo della perfezione divina per i cristiani, antidoto contro l’odio e l’invidia nei musulmani (P. Vanier, 2005, in www.passeportsante.net).
Mons. Oreste Pantalini, nel suo libro I simboli nell’arte cristiana, scriveva a proposito della melagrana: Frutto altamente ornamentale e simbolico che in araldica significa la potestà regale, perché sormontato da una serie di punte in forma di corona: per il grande numero e l’uguaglianza dei semi che contiene, è altresì l’emblema di una società bene ordinata e governata, e in questo senso rappresenta anche la Chiesa, che accoglie in sé tutte le genti; come pure con la moltitudine dei grani rinchiusi nella ruvida corteccia che si spacca a maturanza, è simbolo della morte dolorosa del Redentore, e dei frutti di grazia che il suo Cuore contiene. La melagrana è uno dei temi decorativi più usati nelle stoffe liturgiche, dagli ultimi anni del Trecento per ben cinque secoli, e fu definita “la protagonista delle arti tessili e dei ricami” che resero famosa in tutta Europa l’industria italiana. Il fiore del melograno, che in antico esprimeva amicizia perfetta, ha pure il significato di compita eleganza (O. Pantalini, 1934, p. 130).
Il melograno sarebbe stato importato dai Romani in Italia al tempo delle guerre puniche,
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razze chimiche uniche, diverse dal punto di vista del metabolismo secondario dagli individui che crescono altrove nel Mediterraneo. La ferula è parte integrante del panorama, e l’intera Isola è decorata in maggio-giugno dalla sua imponente fioritura gialla (G. Appendino, M. Ballero, 2005-06, p. 28). La pianta era considerata velenosa per il bestiame, tanto è vero che i pastori la notte di San Giovanni, notte magica e propiziatoria per la raccolta delle piante, mangiavano formaggio con fette del fusto della ferula per scongiurare gli avvelenamenti dei propri capi di bestiame. La ferula conosce uno scarso impiego terapeutico: Atzei cita l’infuso dei germogli come ipotensivante e l’uso di curare i geloni passando «su di essi la parte erbacea riscaldata, lasciata appena intiepidire» (A.D. Atzei, 2003, p. 451). Dal punto di vista alimentare, il germoglio e il midollo del fusto, prima della fioritura, venivano
TOSSICITÀ ED EFFETTI SECONDARI Effetti avversi sono dovuti al chemotipo della pianta e alla eventuale presenza di ferulenolo (vedi Utilizzo medico). CURIOSITÀ • «Il termine arabo della pianta Fasuh, “quella che scioglie”, designa l’essudato della ferula, al quale la tradizione popolare attribuisce il potere di sciogliere i sortilegi. Le donne arabe mettevano un po’ di questa pasta nelle loro scarpe per preservarsi dai cattivi sortilegi, sui quali avrebbero potuto posare inavvertitamente i piedi» (R. Claisse et al., 2000). • Con il frutto della ferula si tingeva la lana in giallo.
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consumati dopo essere stati cotti sotto la cenere o alla brace «dalle popolazioni rurali che sceglievano le varietà non tossiche». I germogli freschi avrebbero proprietà afrodisiache «perciò certi fidanzati sardi regalavano alle loro morose (di nascosto dai loro genitori) detti germogli pro las alluscare: “per renderle libidinose”» (G. Paulis, 1992, p. 161). Sulla radice della ferula cresce un fungo mangereccio assai apprezzato «sa tunna bianca (= Pleurotus ferulae)» (I. Camarda et al., 1986,
p. 116). Paulis riporta altri nomi popolari della pianta: érula, feurra, faurra, ferula cabaddina. Le sue foglie fresche sono dette scova de forru (spazzaforno) (G. Dodero, 2003, p. 147). Nel Campidano è denominata ferula burda = ferula bastarda una pianta molto simile alla ferula propriamente detta, la Thapsia garganica L., conosciuta anche come ferula minore (ferruledda), che presenta una forte azione revulsiva (acido tapsico e caprilico): Il potere irritante è tale che
basta maneggiare incautamente anche le parti verdi della pianta per procurarsi eritemi cutanei molto molesti. La tapsia è usata nella medicina popolare per ottenere un’azione revulsiva nei casi di lombaggine, ischialgia e affezioni dolorose articolari o muscolari di natura reumatica o nevralgica (G. Paulis, 1992, p. 161).
La tapsia veniva impiegata come ittiotossica nella pesca di frodo: «Su tale abuso aveva emanato disposizioni la Carta de Logu (1,15) nel secolo XIVXV» (A.D. Atzei, 2003, p. 461).
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In queste pagine: Aquilegia nuragica Arrigoni et Nardi
Aquilegia vulgaris L.
STORIA
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Aquilegia vulgaris L. Nome comune Aquilegia; Amor nascosto, Perfetto amore Nome sardo Trefogliu, Tresfollas (Assemini) Nome francese Ancolie Nome inglese Columbine Famiglia Ranunculaceae Parte utilizzata pianta, semi Costituenti principali glucoside cianogenetico (pianta e semi) olio, lipasi, emulsina (semi) acido ascorbico Attività principali antiscorbutica, depurativa, diuretica sedativa Impiego terapeutico pianta velenosa
etimologia del nome scientifico attribuito alla pianta è incerta. Secondo alcuni studiosi, il nome Aquilegia deriverebbe dal latino aquilegium = che raccoglie l’acqua, in riferimento alla forma del fiore all’interno del quale si raccolgono e si conservano a lungo le gocce d’acqua e di rugiada. Secondo altri, deriverebbe dal latino aquila, in allusione all’aspetto dei fiori costituiti da uno sperone uncinato paragonato al becco o agli artigli dell’aquila. È stata invece abbandonata l’identificazione degli speroni con quelli del colombo che aveva dato luogo a un altro nome, quello di colombina, tuttora usato in Francia, Inghilterra, ecc. Giberto Scotti riassume efficacemente gli impieghi terapeutici per i quali era stata utilizzata la pianta: L’aquilegia fu già creduta velenosa. Suspectam omnino illam reddit cum maligna familia cognatio (Murra)y: ed infatti, come appartiene alle ranunculaceae, così è dotata di qualche acredine, che Lieutaud e Schroeder utilizzarono, usandola esternamente come vulneraria detersiva, antisettica nelle ulceri e piaghe. La fama di cui godette quest’erba è principalmente appoggiata 1° alla sua virtù antiscorbutica 2° alla sua efficacia in provocare l’eruzione degli esantemi. I. Fino dal 1716 Schubart publicò una tesi: De aquilegia scorbuticorum asylo; e Tournefort ne consiglia come collutorio, la tintura dei fiori – Ettmuller l’infuso, insieme alla coclearia ed al nasturzio – Tragu e Mattioli i semi in polvere – Astruc un’oppiato colle foglie, miste ad altre erbe ad dentes
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In queste pagine: Paeonia mascula L. subsp. russii (Biv.) Cullen et Heywood
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Myrtus communis L.
STORIA
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ianta cara a Venere «come il pioppo ad Ercole, la vite a Bacco, l’alloro a Febo» (H. Leclerc, 1935), il mirto è una pianta conosciuta fino dall’antichità: menzionato dall’Antico Testamento, sacro presso i Persi, amato dagli Egiziani, per Greci e Romani era simbolo di giovinezza, bellezza e amore. I Greci la dedicarono
Myrtus communis L. Nome comune Mirto Nome sardo Murta; Murtaùrci; Murtaùcci; Murtaùccia Nome francese Myrte commun Nome inglese Common myrtle Famiglia Myrtaceae Parte utilizzata Foglie, bacche Costituenti principali Foglie olio essenziale (0,1-0,8%): a-pinene (15-57%), 1,8-cineolo (12-45%), limonene (5-19%), linalolo (219%), mirtenolo (0,7-5%), mirtenilacetato (1-35%) tannini (14%); resina Bacche olio essenziale: 1,8-cineolo (20-31%), a-pinene (8-25%), limonene (8-18%), mirtenilacetato (10-20%), antociani, vitamina C, zuccheri, ecc. Attività principali aromatizzante; astringente antisettica Impiego terapeutico affezioni bronchiali dispepsia uso topico: gengiviti, emorroidi, leucorrea
a Venere che, come narra la leggenda, appena emersa dalle acque marine, venne incoronata dalle Ore con una ghirlanda di mirto, simbolo dell’amore e della purezza. Tale simbologia si riferiva al fatto che, come il mirto prevale sull’altra vegetazione rimuovendola e conquistando il terreno, così l’amore supera e annulla ogni altro sentimento. La pianta era considerata non soltanto simbolo dell’amicizia perenne, come significano le foglie sempreverdi, ma anche dell’onore, e quindi adoperata per incoronare poeti ed eroi. Proprio perché dedicata a Venere era considerata «simbolo di voluttà – e per taluni di casto amore – … In certi paesi tanto questa pianta è simbolicamente apprezzata che se ne fanno ghirlande per ornare le novelle spose» (G. Bizzarrini, 1945, p. 100). Un’altra leggenda vuole che il nome derivi da Myrsine, una fanciulla greca che venne uccisa da un giovane da lei battuto nei giochi ginnici e che Afrodite trasformò nella pianta che oggi conosciamo come mirto. Nella simbologia cristiana il mirto rappresenta «la prosperità della Chiesa, la felicità dei giusti» (O. Pantalini, 1934, p. 133). Le bacche erano conosciute come un fortificante dello stomaco già da Teofrasto (IV-III sec. a.C.), che raccomandava il mirto d’Egitto come il più soave. Dioscoride e Plinio (I sec. d.C.), riportano diverse indicazioni mediche dimostrando come gli antichi avessero intuito le proprietà antisettiche e astringenti della pianta. Le bacche fresche o disseccate e polverizzate si impiegavano contro le emorragie; il loro succo, unito a vino caldo, veniva utilizzato come stomachico e diuretico, mentre per uso esterno trovava
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CURIOSITÀ • «Murta – mirto, mortella – arbusto sempre verde. Il noto arbusto che cresce dappertutto in Sardegna, in collina e in pianura. È celebre fin dall’antichità ed era sacro a Venere. Ve n’ha una specie a foglie più ampie, chiamata mortella doppia o mortellone, ed un’altra chiamata mortellina o mortella tarentina, che viene coltivata nei giardini come pianta ornamentale» (S. Vacca-Concas, 1916). • Le foglie, ricche in tannino, erano impiegate anche per conciare le pelli, tanto che durante la seconda guerra mondiale, a causa delle difficoltà di approvvigionamento, vennero impiegate a tal scopo. Altro utilizzo del mirto era quello legato alla preparazione di un inchiostro e per tingere in nero i tessuti.
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Lavandula angustifolia Mill. (syn. = L. officinalis Chaix = L. spica L. = L. vera DC.)
Lavandula angustifolia Mill. (syn. = L. officinalis Chaix = L. spica L. = L. vera DC.) Nome comune Lavanda officinale, Lavanda vera Nome sardo Spicu, Spigu, Ispigu, (Is)pigula, Ispikku Lavandula stoechas L.: Spicula aresti, Ispìgula areste, Spigula aresti; Abiol (Cagliari), Alchimissa (Alghero) Nome francese Lavande vraie Nome inglese Common lavender Famiglia Lamiaceae Parte utilizzata fiori Costituenti principali olio essenziale (1-3%): alcoli monoterpenici (linalolo, acetato di linalile), monoterpeni, canfora, cineolo flavonoidi Attività principali aromatizzante, digestiva, carminativa, coleretica balsamica; antisettica; diuretica antispasmodica e sedativa vulneraria Impiego terapeutico disappetenza, flatulenza, turbe dispeptiche stati neurotonici degli adulti e dei bambini uso cosmetico
STORIA
I
l termine Lavandula deriva dal latino lavare, in quanto la pianta era impiegata, già in epoca romana, per aromatizzare i bagni, le acque di toeletta, gli abiti, ecc. Nell’antichità era maggiormente apprezzata la Lavandula stoechas L. (lavanda selvatica): i suoi fiori rientravano tra i componenti della teriaca e di altri antichi preparati «e si credettero espettoranti, antispasmodic[i] ed utili nell’asma. La loro infusione teiforme, dall’Alibert è reputata ottimo antispasmodico in certe affezioni nervose dello stomaco … Gli antichi la chiamarono Sthoecas dalle isole Sthoecades presso Marsilia, ora dette Hieres, dove nasce abbondante» (A. Targioni Tozzetti, 1847, p. 571). La Lavandula spica L. viene citata, nel Medioevo, dalla Scuola Salernitana come pianta in grado di restituire vitalità agli arti paralitici: «Salvia, Castoreum, Lavandula, Primula veris, Nasturtium … sanant paralytica membra». Oltre a ciò le veniva riconosciuto un potere disinfettante e con essa erano fatte fumigazioni e impiastri per combattere la peste. Santa Ildegarda (XII sec.) riteneva la pianta utile nelle malattie del fegato e dei polmoni: «Chi fa bollire la lavanda nel vino
o, se non ha vino, con miele e acqua e ne beve spesso tiepida mitiga i dolori al fegato e ai polmoni e l’asma nel suo petto e (si) procura una conoscenza pura e un puro intelletto» (E. Breindl, 1989, p. 204). Nel XIX sec. Scotti scriveva: Fra le labiate è una delle specie più aromatiche e stimolanti: era consigliata nelle flatuosità intestinali, nelle emorragie passive, nella leucorrea, nell’amenorrea, nei patimenti nervosi, nel languore generale. Di uso più comune è l’infuso aromatico per fomentazioni e bagni, e l’olio essenziale per esterne frizioni nelle malattie nevralgiche e paralitiche … l’acqua distillata, come migliore eccipiente per colliri tonici ed astringenti (G. Scotti, 1872, p. 676). UTILIZZO MEDICO
I
l termine lavanda indica un genere comprendente numerose specie: indubbiamente la più conosciuta è la Lavandula officinalis Chaix il cui olio essenziale è una componente importante e fondamentale per l’industria profumiera. Dal punto di vista farmacologico l’olio essenziale di lavanda presenta una blanda attività antimicrobica che però
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Clematis vitalba L.
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Clematis vitalba L. Nome comune Vitalba Nome sardo Auzzara, Azzara, Zara, Benziglia; Isterzu, Sterzu (Aritzo); Auciada (Iglesias); Idrighinzu, Bidighinzu, Bidichinzu (Cagliari); Vitichingiu (Fonni) Nome francese Clématite Nome inglese Traveller’s joy Famiglia Ranunculaceae Parte utilizzata pianta intera Costituenti principali protoanemonina, anemonina (alcaloidi) saponine, materie resinose, pectine Attività principali purgativa; diuretica rubefacente-vescicatoria Impiego terapeutico desueto
lematis deriva dal greco klema = sarmento, termine che designava presso gli antichi svariate piante rampicanti, mentre vitalba deriva dal latino vitis alba = vite bianca. I mendicanti, per ispirare pietà, erano soliti procurarsi delle ulcere ricorrendo alle foglie di vitalba: per tale motivo la pianta era conosciuta anche come erba dei cenciosi. L’olio, in cui sono messe a macerare le foglie di vitalba, anticamente serviva per curare la scabbia e la lebbra. Già Dioscoride, Plinio e Galeno (I e II sec. d.C.) segnalavano la pianta per tale attività. Dioscoride segnalava anche l’azione «purgativa della bile» ad opera dei semi. Il medico senese Mattioli (XVI sec.) la riteneva utile come antifebbrile specialmente «contro le quartane». Antonio Targioni Tozzetti riferiva che la pianta era impiegata per «farne vescicanti» e adoprata applicandola all’esterno in certe malattie ribelli della cute … nella gotta, nelle ulceri fagedeniche … Presso molti campagnoli le abluzioni col di lei decotto sono un rimedio popolare contro gli erpetri. Anche all’interno fu data come purgativa … L’infusione delle foglie si ritiene diuretica, e fu perciò usata nelle idropi … L’azione caustica della vitalba rende bensì dubbia questa pianta nell’uso medico, poiché fresca può cagionare degli sconcerti, infiammando lo
stomaco e producendo delle pericolose superpurgazioni, per cui è messa dall’Orfila fra i veleni irritanti (A. Targioni Tozzetti, 1847, p. 219).
L’autore riporta anche che i rami flessibili della vitalba venivano utilizzati per farne «ciambelle per sostenere l’utero prolassato». UTILIZZO MEDICO
L’
impiego terapeutico della droga è attualmente desueto e comunque sconsigliato per la tossicità della pianta. Le parti verdi e fresche della pianta, contuse e applicate sulla cute, provocano un’azione rubefacente e vescicatoria. L’inalazione della pianta polverizzata determina una forte azione irritante. Le proprietà rubefacenti venivano sfruttate nel trattamento di reumatismi e gotta. Secondo Leclerc,
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l’alcolaturo ottenuto dalla pianta poteva essere impiegato, come analgesico locale, in caso di nevralgie, nevriti e cellulalgie. Negri riporta quanto segue: «Non è senza interesse l’osservazione di Wolanshy che piccole applicazioni di triturati delle parti verdi di Clematis vitalba introdotti nelle narici, interrompono rapidamente una emicrania ostinata; proprietà che sarebbe interessante precisare» (G. Negri, 1979, p. 134). Ai giovani germogli appena colti veniva riconosciuta, per uso interno, un’attività di purgante drastico. L’infuso delle foglie essiccate, assunto a tazze con lunghi intervalli di tempo, era considerato diuretico: si ricorda che l’essiccamento riduce la tossicità della pianta. L’uso interno è tuttavia sconsigliato in quanto la dose terapeutica risulta troppo vicina a quella tossica (alcaloidi).
MEDICINA POPOLARE
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a pianta fresca veniva impiegata, internamente, come purgativo mentre le foglie essiccate erano somministrate – data l’azione diuretica e quindi depurativa – per trattare le malattie croniche della pelle, in particolare quelle di origine sifilitica, la gotta, le forme reumatiche, i dolori articolari. Era comunque l’uso esterno quello più seguito: l’azione vescicatoria veniva sfruttata per trattare reumatismi e gotta. Foglie pestate fresche venivano applicate sulle unghie suppurate per determinarne la caduta, mentre la decozione, ottenuta con le foglie fresche, era impiegata come topico per curare le ulcere atoniche al fine di facilitarne la cicatrizzazione. L’olio ottenuto dalla macerazione delle foglie era consigliato nella scabbia.
IN SARDEGNA
L
a pianta si contraddistingue per l’estremo rigoglio vegetativo: pur non essendo una specie parassita può risultare dannosa per le altre piante. Essa, infatti, vi si arrampica ricoprendole e soffocandole, precludendo in tal modo la loro la normale attività fotosintetica. I nomi sardi della Clematis riflettono questa caratteristica: vitichingiu, idrighinzu, bidighinzu, bidichinzu, benziglia fanno riferimento a “viticcio, vitigno” in quanto la clematide presenta rami rampicanti che assomigliano ai tralci della vite. Isterzu, sterzu, “intreccio”, indica l’avviticchiarsi dei piccioli ai rami delle altre piante a formare un intreccio. I termini auciada, auzzara, azzara, zara «sono sospettati di appartenere al fondo preromano del lessico sardo» (G. Paulis, 1992, p. 183).
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CURIOSITÀ • «L’infuso delle foglie è molto stimato per togliere le macchie ai tessuti. Per ciò una ventina di foglie, lavate bene, si mettono in un recipiente metallico con le stoffe, su cui si versa mezzo litro di acqua bollente, e vi si lasciano almeno due ore; con quest’acqua poi si lavano i tessuti, che riprendono il loro vigore e ritornano quasi nuovi. Questo processo si usa specialmente per la seta e per i nastri sciupati per il lungo uso: poi si fanno asciugare con cura e non si devono stirare con il ferro» (G. Antonelli, 1941). Analogo utilizzo anche in Sardegna: «Si adopera il decotto di foglia come detergente e smacchiante di indumenti di lana e di velluto, in particolare scuri, avendo esso la proprietà di non decolorarli, anzi di ravvivarne il colore» (A.D. Atzei, 2003). • «L’ellera è pianta di lunghissima vita, e che può ingrossare moltissimo il suo fusto, ma è di legno leggero, tenero e poroso. Esso è stato adoprato … per costruirne delle specie di tazze, nelle quali come avverte Varrone mettendo del vino, si pretendeva scuoprire se era mescolato all’acqua; la quale in tal caso doveva rimanere pura al di dentro, ed il vino trasudare, lo che sarebbe una endosmosi dei moderni» (A. Targioni Tozzetti, 1847). A questo riguardo Andrea Manca Dell’Arca (1780) così si esprimeva nel suo trattato: «Dell’acqua mischiata con vino … Scrivono anche molti autori, che il vaso fatto di legno d’edera ha virtù di ritener solo il puro vino, scolando l’acqua mischiata …». • A uso tintorio sono impiegate le foglie e le bacche «che si mettono a macerare in acqua e poi a bollire per circa un’ora. Allora si immerge il filato e si lascia per un’altra ora. Naturalmente il filato viene in precedenza mordenzato con i soliti allume di rocca, cenere, aceto. I colori ottenuti vanno dal grigio perla al beige, oppure tonalità di verde e marrone» (G. Rau, 2004).
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Segni di taglio x sovraccoperta
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mia Sardegna, con il piroscafo, come ancora Q nellasi diceva in quel tempo, la prima sensazione,
on sono medico, non sono un botanico, non mi N intendo di fitoterapia e, per dirla tutta, non mi intendo proprio di piante. Neanche il mio lavoro di
all’ingresso della nave nel golfo di Olbia, era olfattiva. La terra che ci circondava, riscaldata dai primi raggi del sole, emanava una serie di odori, profumi direi, che, apparentemente dissonanti, si univano in realtà a formare una precisa identità fragrante. Il vento tiepido ci portava gli aromi del cisto, del lentischio, del mirto, del ginepro ad un tempo individuabili e fusi in unico riconoscibilissimo sentore. Ebbene il libro di Enrica Campanini mi ha rievocato quelle antiche sensazioni fisiche, ma anche cariche di stupore, di piacere e di aspettativa per un mondo, per me bambino, carico di suggestioni e di promesse. Il profumo delle piante della Sardegna emana da ogni pagina del libro scaturendo dalle parole e dalle immagini in gran parte familiari alla memoria. Ma superata questa emozione ecco che se ne presenta un’altra, anche essa costituita da molteplici componenti: Enrica Campanini, in tempi non più vicinissimi, è stata una mia allieva, ha discusso con me la tesi di laurea, abbiamo lavorato assieme accomunati dalla passione per la storia della Medicina. Adesso da allieva è diventata maestra nel campo della fitoterapia come dimostrano abbondantemente le sue pubblicazioni, i libri di successo, l’attività di insegnamento. E allora la prima componente affettiva è l’orgoglio, la soddisfazione di avere tenuto a battesimo una persona che, come si diceva un tempo, “si è fatta onore”. Di questo onore mi sento, seppure in piccola parte, responsabile. Orgoglio quindi, ma anche una punta di malinconia per il tempo che fugge, per i ragazzi che diventano adulti, per gli adulti che invecchiano. Infine ammetterò sinceramente anche un pizzico di invidia: un libro come questo mi sarebbe piaciuto averlo scritto io. Ma come è questo libro? In sintesi estrema lo definirei informatissimo, chiaro senza essere banalmente divulgativo, divertente se non addirittura affascinante per colui che si diletti, superficialmente o approfonditamente, di antropologia e di storia; storia non degli eventi eroici che studiamo a scuola, ma dei piccoli quanto fondamentali accadimenti, problematiche, usi ed abitudini del vivere quotidiano: la tecnica antica di intrecciare canestri col gambo dell’asfodelo al posto del Congresso di Vienna e delle sue conseguenze. Ma al di là delle definizioni un tantino riduttive testé elencate, segnalerò la brillantezza, l’abbondanza e la precisione delle annotazioni storiche su ciascuna pianta, la collocazione del loro uso nell’ambiente della Sardegna di ieri e di sempre; ambiente che emerge a tutto tondo dalle parole dell’autrice (ormai sarda per annosa ed affettuosa consuetudine), imponendosi icasticamente e prepotentemente, con la capacità di evocare l’interesse di chi non conosce l’isola e la nostalgia di chi ne è lontano: non è forse vero che la parola nostalgia significa il dolore per il (mancato) ritorno? Sorvolerò di proposito sull’utilizzo medico, passato e presente, delle singole piante: conosco talmente bene Enrica Campanini da poter dare per scontate la precisione e la completezza del suo lavoro, ma mi devo soffermare sulla iconografia ricchissima, piacevole e accattivante anche per colui che guardi con semplice intento estetico, evocativa, come già si è accennato, per colui che vi si accosti con un patrimonio di ricordi. Insomma un libro da non lasciarsi sfuggire, senza il timore, per chi non è del mestiere, di essere sopraffatto da esoteriche comunicazioni tecniche; un libro per tutti, quindi, ma per tutti coloro che sono capaci di provare un interesse genuino per questa bella famiglia d’erbe e d’animali. Attendo fiducioso il prossimo libro di Enrica.
psicoterapeuta sembra avere molte connessioni con la ricerca di Enrica Campanini, se non per la nostra frequente collaborazione professionale, perché dunque propormi di scrivere una prefazione al suo lavoro? Poi ho capito: mi invitava a “viaggiare” nel suo mondo, e per uno scrittore di viaggi questo è un richiamo irresistibile. Il corpus fondamentale del libro è un viaggio nella natura, nella scienza, nell’antropologia e nella cultura sarda, guidati dalle piante, e con le piante entriamo in un mondo sconfinato di notizie. Sapevo che la ferula era usata per battere gli studenti senza lasciare traccia, ma non che fosse considerata un afrodisiaco e forse anche un anticoncezionale, accoppiata opportuna. Non sapevo che Prometeo avesse nascosto il fuoco rubato agli dei all’interno del suo fusto, pratica purtroppo tuttora usata da qualche piromane. Scopriamo poi che i pastori sardi avevano già scoperto che poteva essere tossica per il bestiame e facevano un rito propiziatorio la notte di San Giovanni, «notte magica e propiziatoria per la raccolta delle piante, mangiavano formaggio con fette del fusto della ferula per scongiurare gli avvelenamenti dei propri capi di bestiame». E poi scopriamo la connessione delle fave, proibitissime da Pitagora ai suoi discepoli, con il culto dei morti, ma anche con la nascita (le fave come embrioni dei bambini). Il tabù dell’attraversare i campi di fave non portò fortuna a Pitagora. «La leggenda … narra che il grande filosofo venne assassinato da sicari, dopo essersi trovato dinanzi ad un campo di fave che avrebbe rifiutato di attraversare. La supposta pericolosità della pianta non era del tutto infondata: in alcuni soggetti predisposti causa una malattia molto grave detta favismo o anemia emolitica». Naturalmente, come negli altri testi di Campanini, vi sono tutte le notizie indispensabili per il fitoterapeuta, ove si confronta il sapere popolare con la ricerca scientifica, evidenziando indicazioni e controindicazioni. Ma è anche un viaggio nel tempo, con lo straordinario “Dizionarietto biografico”, che ci racconta di medici e studiosi delle più svariate discipline: alchimia, astronomia, teologia, farmacologia …, testimoni di un tempo in cui il sapere non era parcellizzato e scisso, e la medicina era forse più olistica. Di ognuno di questi personaggi verrebbe voglia di saperne di più, di indagare, di scriverne la storia. Alcuni sono notissimi, Avicenna e Ippocrate, Pitagora e Malpighi, Raimondo Lullo, figure straordinarie che ci ricordano, come nella famosa frase attribuita erroneamente a Newton, che oggi vediamo più lontano perché siamo nani che stanno sulle spalle di giganti. O la mistica Hildegarda di Bingen: o «santa Ildegarda (Bermeshein 1098-presso Bingen 1179), badessa e naturalista. Sebbene sia spesso chiamata santa, non fu mai canonizzata. Scrisse il Liber semplicis medicinae o Physica ove parlava dei poteri curativi delle erbe, delle pietre e degli animali e il Liber compositae medicinae dove disquisiva sulle cause naturali delle malattie. Lasciò anche scritti di carattere mistico (Liber scivias)». Fu anche musicista, aggiungo, e il suo pensiero è rilevante nel descrivere le esperienze mistiche di coscienza. È curioso scoprire il Vissani o il Pellegrino Artusi della latinità, «Apicio, Marco Gavio (25 a.C. ca.37 d.C. ca.), famoso gastronomo romano, autore del più antico testo di cucina, il De re coquinaria, che rappresenta un’importante testimonianza sulle abitudini culinarie della latinità». Ed è divertente scoprire che Thomas Willis, autore nel 1661 del Cerebri Anatome, passa alla storia non solo per la scoperta del circolo di Willis o per la descrizione del diabete mellito, ma anche perché si trasferì a Londra dove «… nessun medico mai lo sorpassò e guadagnò più denaro di lui». Per ultimo sottolineo che, per lo splendido apparato iconografico, è un piacere estetico sfogliare il libro ed entrare con la guida garbata dell’autrice, nelle meraviglie della natura. D’ora in poi guarderò le piante con più attenzione, e attraverserò i campi di fave, sia pure con rispetto.
Pier Luigi Cabras Professore ordinario di psichiatria, Università di Firenze
Andrea Bocconi Scrittore, psicoterapeuta didatta di psicosintesi
uando, bambino, tornavo in estate per le vacanze
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Enrica Campanini
Enrica Campanini
PIANTE MEDICINALI IN SARDEGNA
PIANTE MEDICINALI IN SARDEGNA
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