La Comunità Spaesata

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Guido Borelli

Volume 2. Le fotografie

Gianni Berengo Gardin

La comunità spaesata

Nella Comunità spaesata di Quattordio mi ha fatto piacere ritrovare lo stesso approccio che avevo utilizzato per realizzare il mio lavoro Un paese venti anni dopo. Come allora, anche in queste fotografie vedo un’attenzione alla quotidianità che è intorno a noi. Ormai i giovani fotografi vanno in posti sempre più lontani e non guardano sotto casa, non osservano il loro paese ma pensano sia più interessante documentare situazioni sensazionali. Invece, io sono d’accordo con la frase che Guido Borelli ha scelto per la copertina del volume di testo che accompagna queste immagini: “normale non significa affatto banale”.

Guido Borelli

La comunità spaesata Quattordio: la parabola di un paese industriale Volume 2. Le fotografie


Progetto realizzato con il sostegno di Comune di Quattordio

Con il patrocinio di Comune di Alessandria

Camera di Commercio di Alessandria

Con il contributo di Elantas Italia Srl

Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria

PPG Industries Italia Spa

Provincia di Alessandria

Essex Italy Spa

Fondazione Cassa di Risparmio di Torino

Prysmian Cavi e Sistemi Italia Srl

Ve.Co Srl

Con la collaborazione di Dipartimento Giurisprudenza, Scienze Politiche Economiche e Sociali

LaST - Laboratorio Sviluppo e Territorio

UniversitĂ degli Studi del Piemonte Orientale

Associazione Nazionale Fotografi Professionisti - Tau Visual

Palazzo del Monferrato


Guido Borelli

La comunità spaesata Quattordio: la parabola di un paese industriale Volume 2. Le fotografie

© Contrasto s.r.l., 2015 via Nizza 56, 00198 Roma Fotografie © Guido Borelli Testi © gli autori www.contrastobooks.com ISBN: 978-88-6965-594-4

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, interamente o in parte, memorizzata o inserita in un sistema di ricerca delle informazioni o trasmessa in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo (elettronico o meccanico, in fotocopia o altro), senza il previo consenso scritto dall’editore.


Persone dentro gli spazi Gianni Berengo Gardin*

Il paese di Quattordio (Alessandria). Fotografia di Guido Borelli

Ne La comunità spaesata di Quattordio mi ha fatto piacere ritrovare lo stesso approccio che avevo utilizzato per realizzare il mio lavoro Un paese vent’anni dopo. Come allora, anche in queste fotografie vedo un’attenzione alla quotidianità che è intorno a noi. Ormai i giovani fotografi vanno in posti sempre più lontani e non guardano sotto casa, non osservano il loro paese, ma pensano sia più interessante documentare situazioni sensazionali. Invece, io sono d’accordo con la frase che Guido Borelli ha scelto per la copertina del volume di testo che accompagna queste immagini: “normale non significa affatto banale”. Le fotografie di Guido Borelli sono ben costruite. Potrà sembrare semplicistico dirlo, ma è importante osservare come le linee siano tutte in bolla, come si usa dire, e come l’autore abbia scelto di mantenere un unico formato – quello classico, quadrato – concentrandosi con grande attenzione sui dettagli. In queste immagini non c’è niente che andrebbe aggiunto e niente che andrebbe tolto: la loro forza risiede nel riuscire a farci capire chi sia la persona ritratta (le foto da cavalletto sono sempre più psicologiche di quelle scattate a mano libera) e nell’essere una diversa dall’altra, senza ripetizioni. Condivido la scelta stilistica di fotografare non solo i personaggi del paese, ma anche gli ambienti in cui vivono e che hanno scelto per lo scatto. Personalmente, amo le fotografie in cui ritroviamo questo rapporto, tra il soggetto e l’ambiente: comunicano di più rispetto ai ritratti stretti, in cui si vede solo il primo piano del soggetto. In una serie di fotografie è importante leggere il racconto, come avviene in queste immagini. Quando Guido Borelli venne nel mio studio per mostrarmi il suo lavoro su Quattordio, mi confessò di aver trovato interesse e analogie con il mio Un paese vent’anni dopo, pubblicato nel 1973. In quel caso, a Luzzara, insieme a Cesare Zavattini, avevo ripercorso le tracce di Paul Strand, grande fotografo americano che venti anni prima aveva realizzato, sempre con lo scrittore italiano, un importante reportage fotografico in quello stesso *da una conversazione con Gianni Berengo Gardin. Testo raccolto da Guido Borelli 5


paese. Con Zavattini mi ero permesso di criticare il lavoro di Strand, per me troppo estetizzante e lirico, dicendo che non raccontava la realtà di un paese della bassa padana come Luzzara. Incuriosito dalle mie affermazioni, Zavattini insistette perché tornassi su quei luoghi per darne la mia personale interpretazione. Per me fu un’esperienza straordinaria e rappresentò anche un successo personale. Avevo deciso di fotografare i luzzaresi dentro le loro case, nel loro ambiente in un modo in cui, all’epoca, nessuno faceva e che si rivelò apprezzato anche dalla critica. Tornando a Luzzara venti anni dopo, mi colpì come tutti i personaggi fotografati dall’autore americano riprendessero immediatamente la stessa posizione che avevano nelle immagini di Strand non appena chiedevo loro di fotografarli. Pur non avendo mai visto il libro – che di fatto non arrivò mai a Luzzara – li vedevo assumere le stesse pose della foto scattata venti anni prima, senza che io intervenissi in alcun modo. Alcuni, addirittura, si vestivano ancora con il cappellino calato sulla fronte, la camicia aperta. Mi sono convinto, allora, che tutti noi, di fronte a una macchina fotografica, abbiamo una reazione uguale nel tempo. Cesare Zavattini era un personaggio molto strano, pieno di entusiasmi. Al mattino dormiva fino a tardi, perché alla sera andavamo in giro per i bar e poi, dopo la chiusura dei locali pubblici, ci trasferivamo in piazza. Io morivo letteralmente dal sonno, ma lui mi obbligava a rimanere insieme anche con i suoi amici sino alle due o alle tre di notte. Quando l’ultimo degli amici dichiarava forfait, ci salutavamo. Io andavo di filato a letto, ma lui tornava a casa e lavorava fino alle sei del mattino. Poi, finalmente a dormire. Ecco perché realizzai buona parte del lavoro da solo. Con lui si andava in piazza a chiacchierare – fondamentale per entrare nello spirito del paese – e in più aveva sempre un codazzo di giovani che si interessavano di cinema e lo fermavano per strada. Allora cominciavano le discussioni a non finire, che potevano durare anche ore intere senza che io riuscissi a scattare neanche una fotografia. Ricordo che Zavattini non voleva che inserissi l’immagine del carro funebre, che a me sembrava naturale del ciclo di vita e morte di un paese; credo fosse superstizioso. In Un paese vent’anni dopo ero interessato a mostrare tutte quelle attività che Strand aveva trascurato. Intendiamoci, le foto di Strand sono bellissime, però il grande fotografo replicava un certo suo cliché nel comporre gli scatti: quello di un fotografo americano in Italia e, più estesamente ‘all’estero’. Quando ad esempio realizzerà un lavoro analogo su alcune

comunità della Scozia, di fatto scatterà foto identiche. A me, invece, ha sempre interessato di più fare emergere il tessuto sociale, in questo caso di Luzzara: volevo fare vedere il paese, la sua vita e, per esempio, mi interessava mostrare l’utilizzo della bicicletta, perché a Luzzara c’era un’infinità di persone che la usava per spostarsi nel paese (il riparatore di biciclette del paese era sommerso di lavoro ed era una delle persone più facoltose del circondario). Mi interessavano i piccoli negozietti, i caseifici dei produttori di formaggi: per quei tempi, anche la presenza di una Coop o di una ragazza in minigonna in un piccolo paese era un fatto di grande importanza. Poi, a differenza della prima edizione de Un paese, abbiamo voluto allestire anche una mostra a Luzzara, per far vedere ai residenti i risultati del nostro lavoro. In tutti i miei lavori fotografici nei quali il soggetto è stato un paese con i suoi abitanti (Corigliano Calabro, Camogli, Figline Valdarno, per citarne solo alcuni), ho cercato di rimanere fedele a questo approccio. Anche l’India che ho fotografato è stata per me l’India dei villaggi, esattamente come predicava Gandhi. Non mi interessavano le vicende dirompenti e drammatiche; ne avrei trovate in quantità a Bombay, se solo avessi voluto. In fin dei conti, devo confessare che a me sarebbe piaciuto fotografare cento anni fa, perché allora c’era più varietà sociale, meno omologazione nelle persone, nelle cose e persino negli spazi. L’incontro con Borelli mi ha fatto ripensare ad alcuni aspetti (su cui spesso riflettiamo poco) del nostro mestiere di fotografi: quelli che riguardano i rapporti con le persone che ci commissionano i lavori, che ci guidano all’interno delle situazioni dove siamo chiamati a scattare fotografie a luoghi e persone, al modo con cui ci avviciniamo ai nostri soggetti. Con Zavattini volevamo che Luzzara venisse fuori come Un paese, proprio come tanti ce ne sono in Italia. Nello stesso modo, la Quattordio di Borelli vuole essere un altro tra quei tanti paesi. Dalle sue foto, mi accorgo che sono passati altri trent’anni dal mio Un paese vent’anni dopo. In Quattordio e nei suoi cittadini si legge un maggiore benessere, si vedono case più belle, persone meglio vestite. Allora, penso che l’interesse per queste immagini aumenterà ancora di più tra trenta o cinquanta anni perché, in fin dei conti, la fotografia è la testimonianza di come siamo e di come eravamo; più passano gli anni più aumenta il suo valore di documento.

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Scatti del dopo Guido Borelli e i quattordiesi Francesca Liotta Guido Borelli sceglie di collocare la galleria di ritratti realizzata nel contesto – e apparentemente a suggello – dello studio specialistico riguardante Quattordio all’interno di una pubblicazione dell’editore Contrasto, imprimendo a questa scelta un significato già di per sé identificativo del valore autoriale-istoriale del lavoro fotografico, non secondo al valore documentario della mostra1. Se il lavoro artistico non può che impreziosire la tesi del lavoro scientifico e se quest’ultimo può tranquillamente essere accolto come filosofia scatenante di un’operazione fotografica, mi piace credere che questa narrazione di immagini si sia sviluppata per ancorare a un tessuto lirico certi assunti della lunga analisi sociologica su quella che fu/è l’importante comunità industriale del paese piemontese: tale può essere la lettura dei ritratti, esaltata, per chi ha la possibilità di goderne, dal percorso espositivo. Viene da dedurne la difesa di un’azione dell’arte alla fine svincolata dalla sua robusta premessa e dalla sua piacevole, come si suol dire naturale, conseguenza. Azione dell’arte – fotografia in questo caso – che vive di vita propria, la quale si imprime sulle pagine di questo volume come il racconto di qualcosa che, nato da un’indagine esigente ed obbediente a criteri alti e colti, propri del Borelli studioso e docente universitario, a un certo punto diventa un nucleo meritorio di un’attenzione mirata. Alimentata dalla curiosità di conoscenza dell’occasione di quell’azione, ma non destinata a farsene sopraffare. Allo stesso modo mi piace pensare che i protagonisti del racconto in 1 Vale la pena precisare che le fotografie della presente pubblicazione costituiscono la mostra “La comunità spaesata. Quattordio: la parabola di un paese industriale”, in calendario dal 19 febbraio al 15 marzo 2015, ad Alessandria, presso la prestigiosa sede del Palazzo del Monferrato e vengono proposte al pubblico per la prima volta. Il cosiddetto catalogo delle opere le avrebbe assimilate tout court nel documento ufficiale dell’esposizione. L’autore ha ritenuto importante per la completezza del progetto, individuare nella firma mondiale Contrasto, il custode unico della sua ultima prova scientifica, nutrita di fotografia. 8

immagini, i soggetti fotografati, si possano sentire appartenenti a un ambito artistico, a un disegno estetico, a un milieu che è ben oltre quello del luogo d’appartenenza, da cui sono scaturiti come dei meta-attori. A un certo punto del suo progetto, nel bel mezzo di un’impegnativa (anche sul piano umano) elaborazione del senso d’identità di una comunità, Guido Borelli sente prepotente il bisogno di far intervenire i suoi componenti; sente di dover loro un riconoscimento affettivo: lungi dalla captatio benevolentiæ, l’includerli nel lavoro (per poi accorgerci noi che grazie alla magia dell’arte, si svincoleranno) è in realtà un’esigenza autentica da parte sua, un sincero tributo alla dimensione della vita, il cui andamento complesso in Quattordio ha determinato ovviamente un interesse umano. La vita che scorre nelle persone – in questo caso appartenenti a un’area geografica che nell’arco di circa ottant’anni ha attraversato le dimensioni agricola, industriale e post-industriale – la vita nel suo dato unico e irripetibile, è ciò a cui può tendere, in termini di interesse empatico, lo spirito di un artista – indipendentemente che sia uno studioso – e su di essa pone, in questa specifica circostanza, l’obiettivo fotografico. L’industria di Quattordio – da realtà locale a realtà mondiale – i suoi pregressi, la sua evoluzione, i suoi picchi, il suo impatto su un sistema ambientale e su un sistema di valori – alla fine non risulta la protagonista di questa mostra (intesa come raccolta di immagini da mostrare, monstrare, radice mon, monere ̄ far vedere, suggerire, informare, dunque auspicabilmente far pensare), ma un campo magnetico in cui scorrono donne e uomini, i loro mestieri, la traccia di essi nell’auto-encomio quasi volontario dell’identità2. Proprio quest’ultima viene da ravvisare quale elemento costitutivo delle fotografie di Borelli: i personaggi “spaesati” paradossalmente forti di identità. Quella che sopravvive a tutti i giri dell’esistenza e che l’intelletto, poi l’occhio, poi la macchina fotografica dell’autore, hanno a cuore di fermare, di fissare. L’identità non solo prodotta da una biografia o da una personalità – il dato unico e irripetibile prima accennato – che si innestano nel tessuto stratificato del paese che le comprende (piani evolutivi o involutivi per un definibile benessere?) 2 Viene spontaneo riferirsi a un precedente importante, cioè la mostra “Industria”di Niccolò Biddau (ancora Palazzo del Monferrato, 19 settembre - 19 ottobre 2014) e ravvisare in quella di Guido Borelli una sorta di rovesciamento: dai “primi piani” degli elementi e degli oggetti dell’industria ai “primi piani” umani. 9


e che della stratificazione risentono, ma da un “gioco” delle parti. Ravvisiamo un impianto che prevede l’interazione tra un individuo con funzione di auto-rappresentazione e un individuo con funzione di fotografo. Piacerebbe definirli “il personaggio” e “il suo autore”, ma si cadrebbe immediatamente in un tranello pirandelliano, non tanto estraneo alla fotografia come arte, ma alla fotografia di queste specifiche opere che rispondono quanto mai a un criterio anti-fabulistico. Il soggetto scelto di volta in volta da Borelli, il quale soggetto ha a sua volta scelto il proprio contesto che lo rappresenta imprescindibilmente, va a divenire un ritratto sociale. Borelli non inventa nulla, interpreta e racconta. Il lirismo accennato all’inizio che troviamo in questo racconto di immagini non è dato dalla rappresentazione e interpretazione del sentimento intimo dei soggetti che hanno posato, ma dalla loro relazione con il tempo. Dal punto di vista di chi sta scrivendo, dalla prima volta che ha avuto modo di guardare e osservare i ritratti, è scattato forte ed immediato un legame con l’osservatore di domani. Dopo l’unità autore-individuo (fotografo-soggetto) si forma una seconda unità: fruitore di oggi-fruitore di domani. Capacità della prima di aver scaturito la seconda. Nascono per me, da quel momento, gli scatti del dopo, dove il dopo può svelarsi come il tempo successivo a una trasformazione sociale (l’assunto su cui tutto regge), ma soprattutto come il tempo posteriore che toccherà a chi avrà il privilegio di guardare indietro. Ritratti, oggi, accumunati da una speranza, se vogliamo da un’ambizione: che quelle donne e quegli uomini possano costituire l’emblema di un ritratto più grande, il ritratto di un grande progetto. È evidente la riflessione di “tempo” in accezione né bergsoniana né proustiana, non un tempo interiore, non una memoria per analogie, bensì un tempo fisico-matematico, fisicamente e matematicamente successivo che potrà disporre di un materiale illustrativo e identificativo. Un’operazione mentale lucida, lontana dagli obblighi del memoriale e dai ripiegamenti della nostalgia più languida. Le inquadrature, le angolazioni, la cromìa delle foto di Guido Borelli, infatti, non cedendo a stilemi che suggeriscono oscillazioni temporali, anzi risolvendosi in ottimi scatti di un hic et nunc molto preciso, rafforzano il presente e dunque l’idea di un dopo totalmente “a carico” del futuro osservatore. Non svolgono funzioni o celebrazioni di tempo, documentano un nesso dell’oggi tra figura umana e ruolo. Ritrattista e foto-reporter al contempo, mi viene da dire, l’autore usa

il digitale, ma non lo impiega per alcuna mistificazione. Guarda a due miti come Pierre Bourdieu3 e Gianni Berengo Gardin4 (“insediatosi” vent’anni dopo Paul Strand nel paese di Cesare Zavattini), anche in nome della loro onestà intellettuale che si traduce in un fare fotografico genuino, cosciente dello scrupolo, non aperto al vezzo.

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L’arte di questo tipo ha il pregio, ma forse meglio sarebbe dire il compito, di non sottintendere un retroterra umano – o addirittura fantasticare su di esso (come molti e anche illustri esempi di altri generi fotografici usano), ma dargli parola attraverso le pose, sentirne le risposte in merito a come si è e cosa si è, a come si vive… un andamento lungo una vita conchiuso ancora in una posa. Non mentono e non mistificano i quattordiesi ritratti da Borelli, il canale della comunicazione si apre e si chiude attraverso un segnale che non trovo semplicistico definire genuino: espressioni di mestieri – sia esso il mestiere di alunno, di vigile urbano, di barista, di medico – che passano dalla percezione di sé alla resa all’artista seguendo un codice da galantuomini. Ritengo la scelta del bianco e nero inevitabile. Obbedisce al registro lirico di un intimismo diffuso, dettato ancora una volta dal setting (prendiamo a prestito i modi della relazione analitica) fotografo-fotografando e, dunque, inalienabile matrice funzionale della relazione artistica; si pone come un classico del documento storico, meglio si presta a far “rispettare” delle pagine di storia e meglio si addice ad una narrazione attraverso i ritratti, inducendo attraverso la riduzione cromatica, alla concentrazione su un personaggio, scelto come simbolo di un’intera situazione. 3 Cito qui lo stesso Borelli, prendendo dal volume che accompagna la raccolta fotografica: “Non posso fare a meno di pensare a Pierre Bourdieu – un collega ben più noto di me – che all’inizio degli anni ’60 aveva integrato il suo famoso studio etnografico in Algeria con una grande quantità di fotografie alla popolazione indigena, prese con la sua Zeiss Ikoflex nella luce abbagliante di un paese tormentato da una delle ultime guerre colonialistiche del secolo scorso”. 4 Sembra più che calzante per l’autore Borelli la dichiarazione di Berengo Gardin (tratta da un’intervista del 2001, pubblicata su Cultframe): “Non credo a quelli che dicono che una fotografia vale mille parole. Una fotografia vale molte parole, però dovrebbe essere sempre accompagnata da parole, cioè da una didascalia che puntualizzi la situazione”. Qui, abbiamo addirittura uno studio scientifico a puntualizzare una situazione.


Mi colpiscono sempre, nelle fotografie di Guido Borelli (anche in altre non oggetto della presente pubblicazione), quelle che in pittura si chiamano campiture e che si traducono qui in spazi perfetti (che risentono della formazione di architetto dell’autore), luoghi preposti all’accoglimento dei volti e dei corpi dei suoi soggetti, luoghi che diventano l’esaltazione della trama bianco-nera, ambiti puri di intensità e tono, sottolineature del simbolo di volta in volta ravvisabile nel ritratto. A tal proposito non è azzardato guardare al grande Disfarmer5, per i cui ritratti di Heber Springs in bianco e nero, la critica ha riconosciuto nel risultato dell’intensità delle espressioni dei soggetti ripresi, la forza dello straordinario rapporto di collaborazione fra essi e il fotografo: analogia che non mi sento di ritenere forzata. Alla stessa stregua, ravviso una corrispondenza di calma eleganza nelle scene del fotografo statunitense e in quelle di Borelli, pur le prime differendo per tratti d’inquietudine quasi allucinata dei personaggi, dimensione assente nelle seconde. Se, concludendo, di eleganza e di poesia del bianco e nero, sempre ancor oggi, trattasi (dal momento che si usa ed abusa di questa convinzione, personalmente però ritengo a ragion veduta), soffermandoci sulle fotografie di Guido Borelli, rileveremo quanto entrambe possano emergere anche dalla capacità dell’autore di aver unito sulla scena umili e potenti, laddove fasci di luce vanno a tagliare eventuali sbarramenti di classe e/o posizione sociale, fondendosi mirabilmente linguaggio tecnico e linguaggio simbolico.

5 Disfarmer, il cui vero nome era Mike Meyer (1884-1959), rinnegò le origini contadine della sua famiglia (che dall’Indiana arrivò nell’Arkansas), al punto da attribuirsi il nuovo nome in senso di negazione dello stato sociale di appartenenza (Disfarmer: in ingl. farmer = contandino). Disfarmer intraprese il mestiere di fotografo, aprendo un proprio studio al servizio degli abitanti locali e dando vita, con il suo lavoro di ritratti, a una raccolta di immagini di notevole valore storico. Oggi Disfarmer è sicuramente riconosciuto come un grande artista, antesignano dei moderni ritratti fotografici.

F.L.: Mi racconti qualcosa relativamente alla scena artistica? Cosa scatta prima e cosa scatta dopo l’atto della posa? G.B.: Fare un ritratto è sempre una cosa molto complicata. Per un sociologo è relativamente più semplice fare un’intervista: il cosiddetto “testimone privilegiato”, se richiesto, in genere ritiene di avere qualcosa da dire o da raccontare. Franco Ferrarotti, al proposito, si riferiva (ironicamente) al sociologo “con il magnetofono”. Non esiste il corrispondente: il sociologo con la macchina fotografica. E non esiste per due motivi. Primo: in una relazione tra fotografo e fotografando (come lo chiami tu), il “testimone privilegiato”, improvvisamente diventato “fotografando”, scopre di avere più incertezze da proteggere che certezze da raccontare. Secondo: nel momento in cui ti metti a osservare il “testimone privilegiato/fotografando” attraverso il pozzetto della macchina fotografica, anche tu smetti di essere un sociologo e ti trasformi in un fotografo. Non c’è niente da fare. In un’occasione, nonostante avessi spiegato bene (mi sembrava) il tipo di lavoro che stavo facendo, al termine della sessione di ritratto mi sono sentito dire che: “insomma, la sua categoria non sta facendo proprio una bella figura agli occhi dell’opinione pubblica!”. Richieste spiegazioni, ho capito che l’oggetto della stigmatizzazione era Fabrizio Corona, ti ricordi quello che cercava di ricattare i VIP che la sua agenzia fotografava in situazioni scabrose? Come sociologo avrei potuto girare la discussione sul diritto alla privacy nella società dell’immagine. Non mi è nemmeno passato per la mente di adottare un simile atteggiamento: ho scelto di stare al gioco. In fin dei conti, in quel momento io ero un fotografo. La sociologia ha sempre dedicato una scarsa attenzione agli aspetti performativi contenuti nell’atto di ‘fare interviste’. In genere, si è limitata a considerare l’intervista come una tecnica con cui raccogliere informazioni, senza preoccuparsi eccessivamente di come la qualità delle informazioni possa essere condizionata dal modo in cui l’intervista si svolge. Con la fotografia questo è addirittura impossibile. Fare un ritratto è un atto performativo: un autentico balletto tra te e un’altra persona che, come ho scritto altrove in questo lavoro, costruisce e rivendica una propria “facciata” come un valore positivo, coerente con l’immagine che egli intende dare di se stesso. A Quattordio è andata così: ho chiesto a ciascun soggetto che aveva acconsentito a farsi ritrarre, di scegliere il contesto nel quale si sentisse maggiormente “a posto”. Non c’è un prima e un dopo durante la

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Prima di chiudere la mia riflessione, dal momento che in anni in cui molti sedicenti artisti provano a fare gli intellettuali, vivo come un privilegio ascoltare un intellettuale che non gioca a fare l’artista – eppure proprio questa cosa qui, inaspettata o meno, dell’artista, motiva i pensieri che sono diventati le mie poche righe su di lui – pongo al Prof. Borelli alcune domande.


sessione di scatto. Tuttavia, ci tengo a rivelare che il cosiddetto shooting – per usare il linguaggio dei fotografi – rappresenta la parte “creativa” dell’atto fotografico, e pesa per circa il dieci per cento dell’impegno richiesto per ciascuno scatto. Tutto il resto è un lungo e complesso lavoro che implica aspetti organizzativi, richiesta di permessi, ma soprattutto una minuziosa costruzione di fiducia con i “fotografandi”. Lo scatto sulla torre della ex Alfacavi ha richiesto quattro mesi di continue trattative e intermediazioni per venire realizzato. Anche se, a un certo punto, sembrava impossibile che saremmo riusciti farlo, non mi è mai passato per la mente di rinunciare. Un bel momento, come per incanto, tutto si è reso semplice e abbiamo potuto fare ben più di quanto ci saremmo inizialmente aspettati. F.L.: Un augurio ai tuoi Quattordiesi ? G.B.: “Di fare una seconda campagna fotografica, magari tra vent’anni, come si usa di solito (come ha fatto Gianni Berengo Gardin a Luzzara) per testimoniare i cambiamenti intervenuti, con la speranza di fotografare più contadini rispetto a quanti se ne trovino in questo lavoro. Qui di contadini ce ne sono davvero pochi, non per mia scelta deliberata ma per mancanza di candidature. La famiglia Gatti, è stata, al proposito, molto collaborativa (e, insieme alla fotografia a Barbara Poggio, è l’unico scatto che ho realizzato in pellicola, perché quel giorno avevo dimenticato il dorso digitale a casa). Pure ben consapevole della distanza siderale che mi separa dal grande Paul Strand, tuttavia, se mi passi il paragone, il ritratto dei Gatti rappresenta il mio personale omaggio alla celebre fotografia della famiglia Lusetti contenuto ne Un Paese di Strand-Zavattini. Dovessi rifarla, mi concentrerei di più sulla direzione degli sguardi dei “fotografandi”. Non si finisce mai di imparare… F.L.: Parla di una foto che hai mancato di fare, se c’è. G.B.: Ce ne sono parecchie, accidenti, anche se posso ritenermi soddisfatto del lavoro portato a termine: sono riuscito a fare più o meno tutti gli scatti che mi interessava realizzare. Mi sarebbe tanto piaciuto fotografare Fracchia e Pettazzi, i due ingegneri fondatori, ma purtroppo non c’erano più da tempo. Devo dire che i loro eredi sono stati molto disponibili a farsi fotografare. Tutte le volte che sono stato da Alessandro Uslenghi uscivo con una cassa del suo ottimo vino (ma ci sono state altre volte che tornavo a casa da 14

sessioni di ritratto con cestini di uova, amari e liquori vari, torte intere, prodotti dell’orto e tante altre cose ancora). Sono consapevole che avrei potuto fare meglio con i residenti di origine extacomunitaria. Benché lo scopo del lavoro non fosse mirato precisamente in quella direzione, questo fatto mi resta con una punta di rammarico. Tuttavia, non posso dire di non averci provato. Il risultato è stato che si sono resi disponibili solo gli “stranieri” già bene integrati nel tessuto locale. Con altri, ci ho provato, ma non è andata bene. Altri ancora non hanno voluto proprio saperne. Ci sarebbe voluto un profondo e delicato lavoro di intermediazione culturale ma, come ti ho detto, questo non faceva parte della ricerca. In genere il lavoro funzionava così: dopo l’intervista e altri eventuali colloqui, chiedevo l’autorizzazione a fare il ritratto. Una volta ottenuta, prendevamo accordi per la realizzazione dello scatto. C’è stato un caso, per esempio, di un’intervista con un personaggio “difficile”: hai presente quelle situazioni in cui, a un certo punto, ti rendi conto che non sei più tu a condurre il discorso ma ti devi difendere dagli attacchi verbali dell’intervistato, che è convinto tu sia una sorta di malefica emanazione dell’odiato establisment locale? Ebbene, in quella circostanza ho resistito e, alla fine, ho spiegato, come facevo con tutti, il rito del ritratto. Con grande sorpresa mi sono sentito rispondere: “va bene, dove mi metto?”. Non avevo con me tutta l’attrezzatura necessaria per la posa. Sapevo che difficilmente mi sarebbe capitata una seconda occasione, ma non mi sono sentito di fare una foto con lo smartphone. Ho chiesto, come facevo con tutti, di fissare un appuntamento. Tutte le richieste successive mi sono state puntualmente negate. Dommage! Non avevo bisogno di queste risposte per perfezionare in me il ritratto (ovviamente non fotografico) di Guido Borelli. Chiunque legga, lo troverà immediato, fresco, vivace, quale egli è effettivamente. Niente di artefatto, affettato e costruito trapela dalle sue parole. Alcuna pretesa di alcun genere ha segnato il suo lavoro. Il lavoro di uno studioso che non si è precluso delle strade per la completezza delle proprie indagini e tra queste strade è passato per la fotografia. Ricordo il tratto sbrigativo, sicuro e brusco che mi aveva indotto soggezione quando l’ho conosciuto. Ma chi sa parlare di rito del ritratto e lo sa elaborare come lui, in qualche parte di sé va a pescare nel pacato, nell’amabile e in quella dolcezza inspiegabile che è nell’incerto. 15


Per non creare alcun tipo di gerarchia sociale, le fotografie sono presentate, salvo alcune eccezioni, in ordine cronologico di ripresa. Gli scatti sono stati realizzati dopo l’intervista in profondità ad alcuni (non tutti) dei soggetti fotografati. Per le fotografie di gruppi, i nominativi delle persone fotografate vanno attribuiti da sinistra a destra, se non diversamente indicato.

Franco Testore

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Teresa Borgo, Rosetta Mazzei

Gianni Monti

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Caterina Cariello

Caterina Save, Elio Fracchia

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Le facciate dei quattordiesi Quattordio ha un unico vigile urbano: Mario Acuto, che si è reso immediatamente disponibile a posare per un ritratto fotografico. Ci siamo accordati per realizzare lo scatto sul bordo della strada provinciale che attraversa il paese. Mario si è sistemato su un lato della strada e io su quello opposto. Nonostante quel giorno piovesse a dirotto, abbiamo deciso di procedere comunque. Il vigile da un lato con la paletta in mano, il fotografo che armeggiava con uno strumento posizionato su un cavalletto dall’altra parte: il risultato si è tradotto in un rallentamento degli automobilisti che avevano scambiato l’operazione con una postazione Autovelox. Amo questa fotografia: per le goccioline di pioggia tutto intorno, per lo sfondo con i manifesti mortuari e la sagra paesana della bagna cauda, impregnati di acqua, ma soprattutto per la postura e lo sguardo di Mario. Per me questo ritratto racchiude in modo convincente il concetto di “facciata” espresso da Erwing Goffman, cioè una vera e propria cornice identitaria che Mario si è costruito nel momento dello scatto, composta sia dall’immagine che egli intende dare di se stesso, sia dall’aspirazione che tale immagine possa essere coerente con il contesto nel quale Mario stesso ha scelto di posizionarsi per “sentirsi a posto”.

Mario Acuto

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Silvana Bona

Alberto Damasio

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Chiara Pittaluga, Roberto Gambaudo, Aziz Ait Ba

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Cecilia Pettazzi

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Dentro le case È impossibile negare che le fotografie realizzate da Paul Strand in Un Paese abbiano rappresentato una delle cosiddette “fonti di ispirazione” per progettare il mio lavoro a Quattordio. Tuttavia, sebbene attratto da quell’opera, non mi convinceva il fatto che nelle fotografie dei luzzaresi, Strand avesse sempre evitato di penetrare nelle loro abitazioni, posizionandoli il più delle volte sulla soglia della loro casa. Gianni Berengo Gardin sostiene che secondo lui, ciò è dovuto anche a limitazioni tecniche: Strand utilizzava, infatti, una folding 4x5” su un cavalletto, il che rendeva quasi obbligatoria la scelta di scattare in esterni. Credo però che questa sia solo parte di una spiegazione più complessa. Il fotografo americano aveva una particolare ossessione per porte e finestre, davanti alle quali collocava – sempre sul lato esterno – i suoi soggetti. Nonostante sia stato il “più marxista” dei fotografi, Strand ha sempre privilegiato un approccio estetico nei suoi ritratti, lasciando le questioni sociopolitiche sullo sfondo. Probabilmente, entrare nelle case avrebbe, dal suo punto di vista, sovraccaricato di elementi culturali la composizione. Su questo dilemma aveva perfettamente ragione Berengo Gardin, quando confessava a Zavattini che “la lettura che Strand aveva dato di Luzzara era altamente poetica, troppo poetica”. Alla fine, mi sono reso conto che il riferimento che ha guidato (consapevolmente o meno) il mio lavoro è stata, invece, l’opera di James Agee e Walker Evans, Let Us Now Praise Famous Men, nella quale i due autori calavano i propri soggetti all’interno delle loro misere case dell’America rurale della grande depressione, insieme ai pochi oggetti della loro vita quotidiana. Entrare nelle case dei quattordiesi è stato importante per cercare di capire e di rappresentare la condizione sociale e le aspirazioni morali di una comunità. Perché, come scrive Furio Colombo nell’introduzione alla traduzione italiana di Agee e Evans: “la vita è una cosa troppo seria – e troppo tragica – per lasciarla nelle mani degli intellettuali e dei creativi”. Margherita Goggiano, Giuseppe Ercole

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Maria Silvana Chilin, Carmine Mazzei, Giuseppe Mazzei

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Alessandro Uslenghi

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Franca Fiori

Pier Paolo Monti

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Tutti i paesi hanno il Bar Sport Il Bar Sport di Quattordio è un’autentica istituzione del paese. Lo è in particolare per i camionisti che si fermano numerosi a pranzare e cenare, confermando il detto che: “dove ci sono i camion posteggiati si mangia bene e a buon prezzo”. Questo fatto, però, è solo un aspetto della sua fama: il Bar Sport è unico principalmente per via delle due sorelle che lo gestiscono, Giuseppina e Maddalena, soprattutto per quest’ultima, che apostrofa clienti noti e meno noti con un linguaggio così colorito da scandalizzare gli stessi camionisti. Maddalena non ci mette molto a mandarti “a quel paese” (uso qui un eufemismo) se non le vai a genio o se in quel momento ha la luna storta o cose più urgenti da sbrigare. Con queste premesse, non potevo immaginare con che spirito le due sorelle avrebbero preso la mia richiesta di fare loro un ritratto all’interno del locale. Ero preparato al peggio, praticamente certo che mi avrebbero mandato al diavolo o meglio, al già citato “quel paese”. Invece, questa è stata una delle sessioni più divertenti che mi sia capitato di fare. Realizzata nel bar gremito da clienti (che hanno commentato in continuazione il lavoro che stavamo facendo), in un tardo pomeriggio invernale, le due sorelle si sono messe spontaneamente nella posa in cui sono state ritratte e non hanno avuto bisogno di alcun suggerimento da parte mia, nonostante le spiritosaggini triviali che volavano per il bar. Di tanto in tanto Maddalena replicava ai commenti mettendo a tacere tutti con una battutaccia. Ho fotografato in modo che fossero visibili sia le due sorelle, sia l’interno del bar, provvisoriamente trasformato in un set fotografico. Il grande specchio sullo sfondo ha molto facilitato questo intento, riflettendo i due ombrelli usati come diffusori dei flash, posti alla destra delle sorelle.

Maddalena e Giuseppina Laiolo

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Lucia Antonella Sandrone, Mario Orr첫

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Giovanni Battista Gatti e sulle sue spalle Annamaria De Faveri, Silvano Gatti, Davide De Faveri, Luigi Gatti

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Mario Sillano

Adele Pettazzi

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Trattare la diffidenza Tra tutte le persone con cui sono venuto a contatto nel mio lavoro in Quattordio, Barbara Poggio è sicuramente quella che ricordo inizialmente più diffidente nei confronti della mia missione. Per il luogo dell’intervista, Barbara aveva insistito per un bar affollato (il che ha reso la registrazione terribile). Peggio ancora per il successivo ritratto. Avevamo convenuto di farlo sulle impalcature dentro Palazzo Vetus, in Alessandria, dove Barbara stava terminando il restauro degli affreschi. Vedendomi arrivare con tutta l’attrezzatura necessaria (cavalletto, borse e stativi per i flash), si fermò impietrita e mi disse che non era il caso di andare avanti. Cercai di spiegare le ragioni, ma non ci fu nulla da fare. Coincidenza volle che quel giorno fossi reduce da una mattinata terribile: ero poi andato a casa a preparare l’attrezzatura in tutta fretta (cosa che non faccio mai), senza neppure il tempo di mangiare qualcosa e non avevo trovato parcheggio nelle vicinanze. Con tali premesse (ma anche Barbara, quel giorno, doveva averne delle sue) ci volle poco perché il nostro incontro si trasformasse in un vero e proprio battibecco. Tornato a casa – arrabbiato e senza fotografia – inviai a Barbara una mail di scuse, spiegandole il mio stato d’animo e ribadendo il mio sincero interesse per ritrarla al lavoro. Fortunatamente fui convincente e Barbara accettò definitivamente di posare. Il muratore è comparso improvvisamente dalla scaletta del ponteggio e (non richiesto) si è messo in posa, contribuendo allo scatto migliore di tutta la sessione.

Barbara Poggio, Serena Marinello, Cecilia Caporali, e un muratore

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In piedi: Giovanni Bigliani, Salvatore Cagnina, Nicolino Iadanza, Pasquale Barison. Sotto: Egidio Lisiero, Giacomo Ceraulo

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Carlotta Della Sala Spada Bava Boggeri, Gino Lombardi

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Anna Venezia

Luisa Codrino, Francesca Bussi

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Anella Gatto, Cinzia Lanzillotta

Giusi Mazzei, Denise Pongoli, Elisa Mazzei, Gabriele Mazzei, Teresa Masoello, Gianluca Mazzei, Diego Pongoli, Riccardo Mazzei, Francesco Mazzei

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Récit de vie 1 Franco Stradella è una figura molto nota nell’alessandrino: già Presidente del Collegio Costruttori, della Camera di Commercio, Senatore della Repubblica per quattro legislature, con un grande epilogo mediatico dovuto al suo mancato appoggio al governo Berlusconi (del cui partito Stradella faceva parte), che portò alle dimissioni dell’allora premier, nel novembre del 2011. Nonostante tali trascorsi, Franco Stradella ha chiesto di farsi ritrarre sul campo di calcio di Quattordio, confessandomi che casa sua affaccia su quel campo e “che io non potevo nemmeno immaginare quante volte lui avesse passato il tagliaerba in lungo e in largo, prima della partita”. Sul bordo del campo abbiamo trovato un pallone abbandonato (un po’ sgonfio, ma comunque adatto allo scopo), il Senatore si è messo in posa. Ho dovuto solo controllare la composizione delle linee e delle due reti (quella della porta e della recinzione) e lo scatto è stato realizzato in breve tempo.

Franco Stradella

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Tiziana Garberi

Niccolò Malfatto, Lorenzo Pettazzi, Nicole Russo, Emanuele Melis, Beatrice OrrÚ, Andrea Nalin

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Giuseppe Barberis

Rosa Chiricò, Flavio Cani, Giovanni Cani

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“Non sono fotogenico” Quando si fotografano le persone comuni, non le star presunte o reali – figure comunque avvezze a offrirsi allo sguardo fotografico – ci si accorge che ci sono perlopiù due tipi di atteggiamenti prevalenti. La maggioranza sono soggetti che soffrono a essere fotografati: non vedono l’ora che tu finisca e deliberatamente ti trasmettono ansia, perché sperano che quel tormento abbia fine prima possibile. Dal momento che sono convinti che la loro immagine sia “nelle mani del fotografo”, il risultato riflette la loro angoscia nel non sapere a che tipo di individuo apparterranno nella fotografia che tu gli stai scattando. Tra questi, quelli più bravi, riescono a dissimulare il proprio disagio frapponendo una distanza comportamentale tra te e loro: si tratta di una vera e propria barriera eretta allo scopo di creare imbarazzo e di mostrare il meno possibile di se stessi. Il risultato è, come postulava Roland Barthes, una sensazione di inautenticità. Oltre a questi personaggi, ce ne sono alcuni – pochi a dire il vero – che sembrano nati per stare davanti a un obiettivo. Con loro, il rito del ritratto cessa di essere semplicemente la mise-en-scène allestita e imposta dal fotografo e si trasforma in una interazione comunicativa tra il fotografo e il soggetto. Questa comunicazione contribuisce enormemente sia a trasformare l’incontro in un esercizio estetico, sia a produrre una forte affinità che prelude a una pratica esperienziale. Tra tutti i soggetti che ho ritratto, Luciano Barberis è probabilmente quello con il quale l’interazione comunicativa si è avvicinata maggiormente all’idea di creazione artistica e di pratica esperienziale. Abbiamo lavorato quasi un pomeriggio intero nella sede del Circolo degli Amici della Serra e Luciano si è divertito molto a interpretare se stesso. La bottiglia di Branca Menta sul tavolo era lì non per scopi estetici, ma per esigenze esperienziali. Luciano Barberis

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Mihaela Balasca

Maria Demaria

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Emanuela Gastaldello

Cristoforo Romagnolo

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L’autenticità della posa Nella sua introduzione a Visual Anthropology, Edward Hall – l’inventore della prossemica – cita un episodio nel quale il sociologo Erving Goffman criticava una fotografia rappresentante un padre, il figlio e un amico del padre. Goffman riteneva quella foto “posata”, non naturale e perciò la scartava, perché inadatta a offrire dati empirici utili al ricercatore. Secondo Hall, Goffman mancava di riconoscere che, nonostante la posa dei soggetti fosse stata costruita, il linguaggio dei loro corpi – la kinesis – non lo era affatto. Con questa osservazione, Hall intendeva richiamare la nostra attenzione sul fatto che una qualsiasi postura invia dei segnali visivi a un osservatore attento e capace di cogliere le numerose informazioni in essa contenute. Per Hall, più della metà del significato di un messaggio ci giunge attraverso ciò che riusciamo a decifrare dal linguaggio visivo del corpo. In questa fotografia il vero protagonista è il banco della farmacia e il messaggio ci giunge dalla disposizione spaziale dei due soggetti. Carlo – che non è farmacista – ha deciso di posizionarsi davanti al banco per evitare qualsiasi fraintendimento sul proprio ruolo professionale, lasciando alla farmacista, la moglie Sonia, il (legittimo) posto dietro il banco.

Carlo Demicheli, Sonia Mussore

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In primo piano: Alessio Palumbo. In prima fila: Giulia Nano, Alberto Sillano, Cesare Monti, Cristiana Marin, Arianna Pettazzi. In seconda fila: Edoardo Ciambarella, Anis Ravera, Clelia Gallo. In terza fila: Angelica Iampietro, Merysol Tonati, Giulia Corsi, Chiara Maggiora, Vittoria Sandrone, Tommaso Cozzo, Lorenzo Resciniti

In prima fila: Emanuele Calvi, Niccolò Robbiano. In seconda fila: Omar Ben Omar, Hicham Ahib, Felipe Carnevale, Costanza Angelucci. In terza fila: Fabiana Ercole, Giulia Orlando, Nada Zioual

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In primo piano: Filippo Costa. Alessandro Romano, Andrea Costa, Giorgia Pacilio, Cristiano Riccioni, Angela Graci

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In prima fila: Luigi Braggio, Piero Mondo, Sandro Cavallero, Roberto Mordenti, Jessica Sandrone. In seconda fila: Renato Poncino, Marco Pozzi, Antonio Brino, Ugo Gotta, Gianni Vignale, Renato Barberis, Franco Boca. In piedi: Roberto Bigliani, Giuliano Nano, Franco Damasio, Mario Venezia, Gigi Lupano, Fiorenzo Fiori, Gianni Bigliani, Vanni Venezia, Riccardo Venezia, Roberto Nespolo, Franco Poggio, Andrea Sandrone 65


Ugo Garberi

Al centro: Erica Masuelli animatrice. Martina Movilia, Rocco Rao, Aurora Pettazi, Antonio Malfatto, Giulia Orlando, Sofia Sportillo, Fabiana Ercole, Matilde Buzzegoli, Anna Barla, Alessio Andronic, Mattia Andronic, Gaia Negrisolo, Camilla Pongan, Giulia Corsi, Petrisor Marin, Cristiana Marin, Silvia Cappellozza, Sara Orlando, Giordana Ala, Camilla Benzi 66

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Sospendere il giudizio Il Bar Total deriva il proprio nome dall’essere stato una stazione di servizio lungo la provinciale per Asti. Oggi le pompe di benzina non ci sono più, ma il bar è ancora aperto e gestito dai fratelli Visconti. Mi avevano detto che si trattava di un posto particolare e che dovevo andarci assolutamente perché: “dentro c’era il Duce”. Non avevo capito bene a cosa si riferissero i miei informatori, ma non riuscii a saperne di più. Fino al giorno che non entrai nel locale per fare il ritratto a Claudio Visconti. In cima alla cappa aspiratrice della macchina del caffè, faceva bella mostra di sé una serie di bottiglie di vino variamente raffigurate ed etichettate Dux, Mussolini, Il Camerata. Poiché uno dei caveat del lavoro era quello di non prendere in considerazione le questioni riguardanti le inclinazioni politiche dei quattordiesi, ho voluto restare fedele alla consegna e non ho chiesto alcuna spiegazione in merito alla presenza delle bottiglie. Le ho considerate una presenza “naturale” – pari a soprammobili “di famiglia” – così come sembrava assolutamente naturale per Claudio posare sotto cotanta formidabile presenza storica.

Claudio Visconti

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Harishinie Ossen

Maria Adelaide Molinari, Carlo Poggio

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Adele Fracchia Uslenghi

Paolo, Piero e Matteo (Pinuccio) Codrino

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Récit de vie 2 Uno degli obiettivi del lavoro era che i personaggi di Quattordio dovessero riflettere la varietà delle identità sociali presenti nel paese. Tra le numerose possibili, una traiettoria sociale era sicuramente quella “dalla culla alla tomba”. Poiché avevo già fotografato l’anziano Dottor Garberi di fianco al lettino per le partorienti, mi mancava l’altro estremo del percorso di vita: la tomba. Gli Alciati sono, insieme al mobiliere Damasio, titolari dell’impresa di pompe funebri Alciati & Damasio, con sede nella vicina Felizzano. Avevo chiesto di fotografare Alciati padre, ma all’appuntamento si presentò Matteo, il figlio, anche lui impiegato nell’impresa di famiglia. Ricordo che quel giorno faceva un gran caldo, ma con molta calma e professionalità, Matteo, in giacca e cravatta, si sottopose alla seduta di ritratto. Devo confessare che rimasi impressionato dall’aspetto di Matteo, che mi è subito apparso come perfettamente calato nel proprio ruolo: quello che gli inglesi definiscono undertaker e che non ha un corrispondente preciso in italiano. Per ritrarre adeguatamente la straordinaria presenza fisica di Matteo ho abbassato il cavalletto (di solito metto l’obiettivo all’altezza dell’ombelico per i ritratti a figura intera) e ho scattato, a carro funebre aperto. Ho poi sottoesposto l’interno del carro per accentuare il senso di “buio eterno”. Il personaggio – assolutamente enigmatico già durante lo scatto – mi si è rivelato meglio tempo dopo quando ho saputo che era candidato a Mister Gay Italia. Sul blog gayburg.com si legge che Matteo Alciati, 24 anni di Felizzano, lavora come dipendente di un’agenzia di pompe funebri e di notte è soccorritore del 118: “partecipo a Mister Gay Italia per dare un’immagine nuova dell’uomo gay, che sia genuina e vada oltre agli stereotipi a cui siamo abituati”. Non potrei essere più d’accordo con lui in merito alla sua capacità di dare esattamente quel tipo di immagine. Matteo Alciati

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Sandra Boca

Angelina Vezza, Silvana Nale

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Marta Leung Kwing Chung

Niccolò Borelli (mio figlio), Giuseppe (Ueppe) Codrino e Giuseppe Codrino, Matteo Iadanza

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Renzo Scarsi

Michele Prestigiovanni

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Orientarsi nella comunità All’inizio, una delle maggiori difficoltà che ricordo, fu quella di costruirmi una precisa mappa dei componenti delle principali famiglie del paese. È vero che a Quattordio non sono tante, ma alcune sono molto articolate e numerose. I Venezia sono sicuramente una di queste. I primi tempi dovevo stare molto attento a non fare gaffe, ma l’attenzione a volte non basta. Mario Venezia, oltre che principale animatore della Sezione degli Alpini di Quattordio, è uno dei titolari della Ve.Co, azienda che produce vernici high tech per numerose forze armate di differenti nazioni. Mi era stato indicato come uno dei principali testimoni privilegiati e, per questo motivo, fu tra i primi a essere contattato. Ricordo che l’intervista si svolse in una sala dell’azienda dove faceva bella mostra di sé un grande quadro raffigurante un personaggio – evidentemente un chimico – tra i propri attrezzi di lavoro. Mario mi disse che si trattava del suocero, Francesco Cordero, discepolo del grande Primo Levi e fondatore, quasi quaranta anni prima, della Ve.Co. Quando fu il momento di fare il ritratto, gli telefonai e gli domandai cosa ne pensasse se lo avessimo fatto sullo sfondo del quadro del suocero, a testimonianza della continuità familiare nella gestione dell’azienda. Mario accettò con qualche breve silenzio che al telefono suonò come un leggero imbarazzo. Qualche minuto dopo il telefono squillò. Era ancora lui: “guardi che, se vuole, la foto possiamo farla con mio suocero, perché è ancora vivo!”. Francesco Cordero gode tuttora di ottima salute e tutti i giorni non manca di fare una capatina in fabbrica.

Mario Venezia, Francesco Cordero

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Gli assenti giustificati Questa pagina è dedicata a tutti i quattordiesi che non hanno voluto comparire nella raccolta dei ritratti. Fortunatamente non sono stati numerosi i casi di rifiuto: sette su più di ottanta ritratti. Ciascuno di loro ha motivato la decisione in vari modi: da un vago “non mi sembra il caso” a giustificazioni più complesse. Per un fotografo, il rifiuto che un soggetto oppone alla richiesta di posare è una perdita secca: uno scatto mancato. Per un ricercatore, invece, non si tratta mai di un fatto completamente negativo. Poiché sono abbastanza sicuro di avere spiegato in modo comprensibile a tutti le finalità del lavoro su Quattordio, considerare i rifiuti che ho ricevuto, offre forme di conoscenza di fatti e di persone che, ai fini della ricerca, sono pari alle accettazioni. È più facile ottenere il consenso per un’intervista (solo due quattordiesi si sono negati), piuttosto che per un ritratto. Questo è un punto interessante: nonostante i riferimenti all’imperversante cultura dell’immagine, i miei soggetti sembrano vivere nella convinzione che stia prevalentemente nella loro voce – e non nella loro immagine – il significato ‘’autentico’’ della loro esperienza. Ci possiamo chiedere se, oltre le più disparate motivazioni, esista un “senso più profondo” nei confronti del rifiuto di posare per una fotografia. Leonardo Sciascia sostiene che nei ritratti fotografici noi ci consegniamo “a mano altrui, al destino, alla morte, a Dio. E all’ignoto se stesso”. Per chiarire, Sciascia tira in ballo Aristotele e Hofmannsthal: dal primo prende il concetto di entelechia: “nel ritratto fotografico degli uomini di cui conosciamo, sia pure sommariamente, la vita, la storia personale, l’opera, si realizza un’attendibilità che non pone o allontana il problema della somiglianza fisica e però restituisce il senso di quella vita, di quella storia compiutamente in un’entelechia”. Del secondo, cita un enunciato enigmatico da Il libro degli amici: “un uomo che muore a trentacinque anni è in ciascun punto della sua vita un uomo che morrà a trentacinque anni”. Con Sciascia potremmo allora pensare che il rifiuto a posare si annidi tra timori che nemmeno siamo coscienti di avere: la paura di offrirci a una mano altrui che ci costringa a riconoscerci senza conoscerci. “Se mi trovassi di fronte a questa effigie /Ignoto a me stesso, ignaro dei miei lineamenti/In tante orrende pieghe d’angoscia e d’energia/Leggerei i miei tormenti e mi riconoscerei” (Paul Valéry, Cahiers).

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Roberto Tambussi, Gabriele Gribaudo

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Don Francis Thomas Kunnathoor

Gianni Tedeschi

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Fisiognomica e autodeterminazione La fisiognomica è una disciplina parascientifica che ha la pretesa di stabilire delle correlazioni tra l’aspetto fisico di una persona – in particolare dai lineamenti e dalle espressioni del viso – e alcune caratteristiche psicologiche e sociali della persona stessa. Ciò premesso, riconosco che, a un certo punto del lavoro, mi sono reso conto che un altro modo per riguardare l’intero mio progetto avrebbe potuto essere quello di considerarlo una raccolta di tipi sociali, un vero e proprio catalogo di personaggi che rappresentavano se stessi come “idealtipi” di ceti, di professioni o di condizioni sociali differenti. Questa concettualizzazione mi avrebbe avvicinato al metodo di lavoro reso celebre da August Sander – il che esercitava anche un certo fascino nei miei confronti – ma mi avrebbe decisamente allontanato dall’idea di fare ricerca situata in Quattordio. Ho così resistito alla tentazione e ho cercato di proseguire sulla strada inizialmente tracciata. Tuttavia, è difficile non ritrovare in alcune fotografie quattordiesi un forte tratto idealtipico. Tra tutti questi, il ritratto che ho realizzato al sindacalista Michele Palma è, probabilmente, quello che meglio testimonia la validità degli assunti del lavoro di Sander.

Michele Palma

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PPG - In primo piano: Roberto Milan. Mario Collini, Gianluca Cairo, Domenico Del Colle, Diego Trotti, Nicola Masuelli, Andrea Venezia, Andrea Olivieri, Marco Mondo, Alex Bonazza, Giancarlo Barberis, Andrea Raviola, Roberto Piotti

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PPG - Mauro Canale, Gilberto Atzeni

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Michele Venezia

In primo piano: Mauro Bezzini e Luciana Pavese. Paolo Quaglia, Carlo Scurati, Liviana Sesia, Mauro Leva, Mario Robotti, Franca Ercole, Rodolfo Saporiti, Riccardo Badarello, Andrea Sandrone

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Le infinite complessità di una fotografia Nel periodo in cui la rivista Domus era diretta da Alessandro Mendini – correvano gli anni ’80 – il tema monografico del numero era introdotto da una serie di pagine curate dall’indimenticabile Pierre Restany. Il pezzo forte era una brevissima intervista ad artisti, architetti, creativi, persone dello spettacolo e altro ancora, presentata come un fotoromanzo, del tipo di quelli che si trovavano nei rotocalchi dei negozi delle parrucchiere. Mi ricordo molto bene quando fu il turno di Giorgetto Giugiaro. Restany domandò al designer torinese se si considerasse un creativo, ottenendo come risposta che “il momento creativo riguardava solo il 10% dell’intero processo, la restante parte era un complesso percorso di organizzazione, valutazione e controllo delle attività”. Tutte le volte che rivedo la fotografia dei dipendenti Prysmian, non posso fare a meno di pensare alle parole di Giugiaro. Non è stato per niente difficile decidere come fare questa fotografia: sul tetto della torre ex Alfacavi, alta circa 70 metri e posta sulla sommità di Quattordio. Sapevo già che avrei scattato dalla cima di una scala, riprendendo i soggetti dall’alto verso il basso, in una prospettiva aerea, con il paese sullo sfondo, lontano, in basso. Ciò che si è rivelato, invece, estremamente laborioso sono stati i permessi necessari per arrivare a realizzare lo scatto. Richiesti nel mese di luglio, sono stati ottenuti nei primi giorni di novembre: quattro mesi in cui ho mobilitato l’intera amministrazione di Quattordio per convincere l’azienda a dedicarmi il tempo necessario allo scatto. Indubbiamente non è facile per una struttura produttiva trovare tempi e spazi mentali per questo genere di cose, ma alla fine il Dott. Contaretti ha acconsentito allo scatto come avrebbe fatto un padre con le richieste di un figlio irriducibilmente pedante. La giornata era stupenda: dalla cima della torre si vedevano distintamente una grande porzione dell’arco alpino a Nord e la distesa della Pianura Padana a Est. Prysmian - Franco Contaretti, Nicola Cariello, Mario Trimarco, Walter Orlandi, Bosko Vangelov

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Essex - In primo piano: Enrica Canepari. Franco Formento, Silvio Fassone

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Alessandro ed Eugenia Magrin, Pietro Frisella

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Roberto Alciati

In piedi: Giovanna Fascetto Molina, Rosanna Macciò, Carla Savina, Claudio Cani. Seduti: Elena Cani, Giordana Ala, Giada Malvone, Gaia Negrisolo

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Aurelio e Stefania Cervetti

Sandro Venezia

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L’anonima Salendo lo scalone di Palazzo Sanfront per accedere agli uffici comunali, ci si imbatte nel busto di una donna a seno nudo. Mentre per la maggior parte dei quattordiesi la statua raffigura una nobildonna (è stato addirittura fatto un sondaggio tra i residenti), secondo le ricerche storiche compiute da Gianni Tedeschi, sembra che essa, datata intorno al 1600, provenga dal giardino di una casa di tolleranza. Tedeschi è propenso a credere che il busto sia stato prelevato dal giardino del postribolo e collocata, a metà dell’800, dove si trova tuttora da un discendente della casata nobiliare che, sebbene fosse votato al celibato e (forse) fosse un alto ufficiale dei Carabinieri, sicuramente aveva un debole per la casa e per la signora in questione. Lo storico Ferdinando Viglieno Cossalino, a cui Tedeschi si era rivolto per un erudito parere, condivide l’ipotesi: “che si potrebbe identificare con l’Abbondanza, iconografia tipica della donna a seno scoperto. Il volto ha però un sapore pagano e leggermente rusticotto, con quel curioso sogghigno sulle labbra”. L’antica famiglia nobiliare dei Negri di Sanfront aveva venduto lo stabile alla Inves di Fracchia e Pettazzi nel 1946, che lo utilizzò per alloggiare le prime famiglie degli operai dell’azienda quattordiese: di fatto il Palazzo fu adibito per diversi anni a casa popolare. In seguito, l’amministrazione comunale lo acquistò dai due ingegneri e, nel 1981, iniziò il restauro. Quello che ha sempre stimolato la mia fantasia, tutte le volte che salivo quelle scale, non era il reale vissuto della statua, ma il fatto che essa avesse attraversato una tale varietà di classi sociali, economiche e politiche – la nobiltà aristocratica, la borghesia industriale, il proletariato, l’amministrazione pubblica – osservandole tutte dall’alto della sua nicchia, con il suo sorriso sarcastico e, in fondo, benevolo. Proprio per via di questa sua inossidabile permanenza – e nonostante il naso segnato dal tempo – l’anonima statua ha finito per mostrarsi come la rappresentazione allegorica del paese, una figura femminile che testimonia l’incessante divenire della società locale. Come la Marianna dipinta da Géricault (parimenti a seno nudo, ma senza il berretto frigio) l’anonima statua incarna la libertà e chiama a raccolta tutte le classi sociali del paese affinché possano tornare a guardarsi senza giudizio. A lei è dedicato l’ultimo ritratto.

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L’anonima

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Finito di stampare nel mesei di gennaio 2015, presso EBS, Verona


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