arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma
Valentino Alberini
Università IUAV di Venezia
matr. n. 269601
Facoltà di Design e Arti
Relatore: Giovanni Anceschi
Corso di Laurea Specialistica
Correlatore: Carlo Vinti
in Comunicazioni visive
Anno Accademico: 2010/2011
e multimediali
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indice
introduzione
pag. 5
il Basic Design
pag. 10
Ulm
pag. 24
il contesto artistico e sociale in Italia
pag. 28
verso l’astrazione
pag. 30
Miriorama 1, l’inizio
pag. 35
i riferimenti nell’arte sul tema del rapporto spazio-tempo
pag. 38
la dimensione spaziale: Lucio Fontana
pag. 49
l’arte cinetica: Bruno Munari
pag. 54
la poetica del Gruppo T: tra arte e design
pag. 60
la critica militante
pag. 80
il basic design in Italia
pag. 85
conclusione
pag. 89
bibliografia
pag. 93
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introduzione
“Non so bene come abbia fatto, ma è sempre stata l’arte per prima, a modificare il nostro modo di pensare, di vedere, di sentire, prima ancora, certe volte cento anni prima, che si riuscisse a capire che bisogno c’era”1 Umberto Eco
Questo progetto di tesi intende introdurre e analizzare il rapporto tra Arte e Design a partire dalle sue origini nel Bauhaus, fino ad arrivare ai giorni nostri; nell’esplicare questo intersecato e vivo dialogo si approfondirà in particolare l’esperienza italiana dell’arte cinetico-programmata attraverso la ricerca operata a Milano dal Gruppo T - composto da Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele Devecchi e Grazia Varisco - e da Bruno Munari. Da prima si analizzerà la nascita della disciplina del design a partire dal Bauhaus, quindi attraverso le sue esperienze più significative di didattica e teorizzazione che l’hanno condotta a superare il design inteso come tecnica al servizio dell’industria, verso la sua definitiva appropriazione del ruolo di disciplina autonoma, configurata e costituita; in seguito si vedrà come questo insieme di saperi fondamentali del fare progettuale siano stati sviluppati e raccolti nella disciplina del basic design, nata dagli insegnamenti di Josef Albers al Bauhaus, e che si potrebbe definire come il corso base della progettazione, intesa come configurazione di artefatti di qualsiasi genere. Come scrive lo stesso Giovanni Anceschi nella sua raccolta online di testi critici (“http://www.ganceschiteoria.altervista.org/”) il basic design “è una disciplina estremamente particolare e originale come statuto, in quanto intreccia intimamente propedeutica, (cioè la pratica dell’insegnamento di un saper fare) e fondazione disciplinare (cioè il pensiero teorico e metodologico che le sta alla base). In altri termini il Basic Design è il luogo ideale dove convergono e si concatenano di fatto ricerca formale e espressiva, progetto e, appunto, insegnamento”. Va ricordato che il corso al Bauhaus, come venne concepito da Josef Albers, 1: AA. VV., Arte Programmata,1962 5
prendeva le mosse dall’attività teorica e didattica di Paul Klee e Vasilij Kandinskij, a partire soprattutto da una riflessione sul concetto di forma e rappresentazione e dei loro primi tentativi di enunciare una didattica della materia. Il corso, per sua natura stessa, cambiò negli anni, sia per i diversi approcci che i vari docenti avevano, sia per i cambiamenti sociali e tecnologici contemporanei, ma mantenne l’idea fondante di matrice neopositivista secondo la quale il basic design poteva essere una disciplina basata su regole e principi condivisibili, oggettivi e universali. Questi saperi vennero ripresi da Tomàs Maldonado e Josef Albers e, una volta aggiornati secondo le necessità derivate dal progresso della tecnica e del sapere in nuovi codici comunicativi, trasmessi sia in Europa, a Ulm, sia in America, a Yale e presso il New Bauhaus di Chicago. In Italia questo processo di trasmissione della didattica del design non ebbe la stessa fortuna, dato che l’architettura ancora era ritenuta la disciplina madre che sovrastava le altre; ma a riprova del nuovo rapporto tra arte e design di cui si era fatto promotore il Bauhaus, furono le correnti artistiche a promuovere questi saperi attraverso le loro opere e le loro teorie. Nel particolare fu l’arte cinetico programmata a farsi portavoce di questo sapere: da una parte Bruno Munari, sia con delle opere d’arte che risentivano dell’influenza degli insegnamenti del basic design sia con la promulgazione degli stessi saperi con la serie dei libri* sulle forme geometriche base, che si possono intendere come un ibrido tra un libro ed un’esercitazione di basic design; dall’altra parte il lavoro del Gruppo T, che applicava le stesse teorie a delle opere d’arte che investigavano i processi visivi, cognitivi e di interazione con lo spettatore. Vedremo nello specifico l’attività del Gruppo T e di Bruno Munari inserite nel contesto sociale e culturale coevo, caratterizzato da un dibattito quanto mai vivace sulla centralità della figura dell’artista nella società italiana in veloce rinnovamento. Il dibattito che prelude e contestualizza gli interventi del Gruppo T e di Bruno Munari è la risultante del superamento della complessa esperienza artistica del Neorealismo che caratterizza l’espressione artistica italiana negli anni successivi alla ricostruzione post-bellica, dall’altro affronta i nodi dello sviluppo economico della società, caratterizzato da una veloce espansione del sistema industriale. Queste trasformazioni trasferirono l’esigenza dell’innovazione anche nel panorama artistico culturale con la nascita delle neoavanguardie come ad esempio il Gruppo ‘63, per quanto riguarda l’approccio letterario, e in arte ad un superamento del pensiero esistenzialista verso le pratiche dell’Informale prima, programmatocinetiche poi, con la nascita dei collettivi Gruppo T a Milano insieme al Gruppo 6
N di Padova, che confluiscono nelle Nuove Tendenze, vero e proprio movimento internazionale parallelamente all’attività trasversale di Bruno Munari. In generale questi movimenti di rottura col passato professavano una nuova attenzione ai grandi cambiamenti sociali e tecnologici dell’epoca, uniti ad una forte componente politica impegnata e ad un bisogno di confronto e discussione sui nuovi temi non solo sociali ma anche culturali. Agli inizi degli anni Sessanta il movimento dell’Informale si inserisce a pieno in questa ricerca di nuovi linguaggi artistici portando alle estreme conseguenze una serie di postulati teorici presenti già nelle opere e negli interventi di personalità artistiche complesse: da Paul Klee a Vasilij Kandisnkij, da Lucio Fontana a Piero Manzoni, per giungere fino a Bruno Munari e Jean Tinguely. A prova dell’importanza delle innovazioni artistiche e culturali di questo periodo va sottolineato che non fu solo nazionale, ma caratterizzato da forti tinte internazionali e internazionaliste, anche dovute all’impatto di importanti personalità italiane, in contatto costante con la cultura europea, in un rapporto di influenza reciproca. Per quanto concerne il Gruppo T nello specifico, si evidenzieranno i tratti salienti della sua produzione artistica, che sviluppatasi a partire dall’Informale, si traduce poi nell’arte cinetica e programmata e, nell’ultimo periodo, nella creazione di ambienti, in un rapporto di continuo dialogo tra arte e design, arte e scienza, arte e esperienza. In questo itinerario di ricerca si renderà conto anche del rapporto dialettico con la critica militante sempre presente nel panorama culturale italiano. La dimensione collettiva del fare arte tipica di questo periodo fa sì che anche questo gruppo si trovi ad operare in continuo contatto con altri collettivi che in Italia e fuori dai confini nazionali elaborano teorie e pratiche affini a quelle che caratterizzano gli interventi del Gruppo T. Attraverso questo percorso tra avanguardie artistiche, pratiche del design e alcune importanti figure trasversali tra i due settori si cercherà di analizzare le innovazioni praticate dai componenti del Gruppo T con i loro lavori, sia dal punto di vista artistico che da quello della riflessione tecnologica e formale. A conclusione dell’analisi, emerge la capacità anticipatrice di questi artisti nel praticare in modi assolutamente innovativi le indicazioni dell’interaction design da un lato e dell’arte digitale dall’altro, come si vedrà nello specifico delle opere di grafica programmata pubblicate sull’“Almanacco Bompiani” nel 1962. Inoltre, con la totale trasversalità dell’intervento estetico, gli operatori del Gruppo T anticipano di fatto la tendenza recente di ibridazione delle discipline del design e dell’arte, ora più che mai strettamente connesse.
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Questo concetto è una riprova del loro approccio scientifico di una ricerca verificabile anche nella pratica artistica, che vede la loro attenzione concentrarsi sullo spettatore e sulle sue reazioni cognitive e percettive di fronte alle opere d’arte; attualizzando il pensiero del Bauhaus in uno spazio di interazione continua tra arte e design, il Gruppo T usa i mezzi tecnologici per creare nuovi scenari di ibridazione tra le discipline. Nel perseguire la volontà di un’arte aperta ad un numero più vasto possibile di spettatori, utilizza le pratiche del disegno industriale per mettere in produzione dei multipli di opere d’arte, collaborando prima con Danese e successivamente con Alessi alla creazione di una serie di opere d’arte riprodotte. Inoltre uno dei punti salienti che avvicina la loro pratica artistica al mondo del design è la creazione degli ambienti, in cui progettando realtà immersive e interattive furono anticipatori profetici della dimensione temporale e interattiva della nostra epoca; infatti ora più che mai il tempo è caratterizzato dal flusso continuo di informazioni della rete e la nostra vita è sempre più pervasa di artefatti tecnologici con cui interagiamo continuamente. Questo aspetto ci permette di riallacciarci a quelli che sono gli sviluppi della disciplina del basic design dei nostri tempi. A riprova della sua capacità di adattarsi alle necessità della progettazione la sua evoluzione più recente è quella rivolta alle nuove tecnologie: nel particolare della progettazione informatica si è configurato il basic design eidomatico, grazie all’apporto di Giovanni Anceschi, un corso che aiuta ad analizzare in maniera approfondita e percettiva gli elementi che compongono un progetto per il web. Allo stesso modo si sono venuti a sviluppare due corsi presso lo Iuav di Venezia, il New Basic Design di Giovanni Anceschi e l’Hyper Basic Design con Cristina Chiappini. Anche se non fa ufficialmente parte dei corsi di basic, la stessa spinta verso una configurazione dei nuovi media si può vedere anche nel lavoro che ha portato John Maeda del MIT (Massachusetts Institute of Technology) a analizzare l’area in comune tra design e tecnologia, creando un settore specifico dell’università: ‘estethics + computational group’; da questo settore nasce Processing, un software open-source per programmare dall’arte elettronica alla grafica.
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il Basic Design
Per capire il rapporto tra arte e design, bisogna fare un’analisi di quello che era stato il primo movimento a teorizzare e professare un nuovo rapporto tra queste discipline: il Bauhaus e nello specifico il suo corso propedeutico, il grundkurs, che tradotto in lingua anglosassone diventa basic design, che è il termine con cui è conosciuto in Italia. E va sottolineato come questo coincida con la nascita della disciplina del design, che prima infatti esisteva solo come attività, legata ai sistemi produttivi determinati come la rivoluzione tipografica di Gutemberg o la rivoluzione industriale di Watt. L’eredità che ci ha lasciato il Bauhaus in termini di architettura, arte, grafica e design è da considerarsi di pari importanza alla sua didattica, che ancora influenza l’insegnamento delle scuole di design. L’organizzazione dei corsi subì molte modifiche durante la vita della scuola, ma alcuni aspetti sono rimasti peculiari e universalmente riconoscibili. Inizialmente, uno dei principali obiettivi del Bauhaus fu di unificare arte, artigianato e tecnologia. Si può dire che presso il Bauhaus nacque la disciplina del design intesa come unione di tecnica ed arte, uno dei concetti informatori dell’ideologia gropiusiana, che risentì dell’influenza del neopositivismo che vedeva la macchina e la tecnologia con fiducia. Il corso propedeutico del Bauhaus e la sua didattica, attraverso i cambiamenti dei docenti e delle strutture in cui venne teorizzato e messo in pratica, arrivò alla sua formulazione finale a Ulm, università che Giovanni Anceschi frequentò dal 1962 al 1966. Contemporaneamente anche Munari si stava interessando alla materia e questo si può notare sia in certa sua attività artistica che in quella didattica delle pubblicazioni. Il corso di basic design è in pratica la disciplina base del design, intesa sia come propedeutica al saper progettare, sia come il pensiero teorico e tecnico alla base del progetto: attraverso delle esercitazioni pratiche lo studente acquisisce i fondamenti della configurazione, come per esempio la forma e il colore, che attraverso la loro verifica pratica diventeranno il bagaglio culturale e tecnico nella progettazione vera e propria. Per definire meglio allora questo termine prendiamo in prestito ciò che afferma Giovanni Anceschi: “che cos’è il basic design? 10
fig.1: diagramma del corso base del Bauhaus di Joannes Itten
Basic design non è un’espressione del linguaggio comune come la parola arte o, ormai, la parola design da solo. E certamente non è una nozione notissima. Se si dovesse fare un’inchiesta presso gli studenti di molte università e scuole di design italiani io ho l’impressione che sarebbe più facile che dimostrino di conoscere quello che si chiama design primario (termine elaborato in Italia a cavallo degli anni ottanta da Antonio Petrillo e Clino Trini Castelli) piuttosto che la tradizione del vero e proprio basic design. Il che risulta davvero abbastanza curioso se si pensa che Alain Findeli in Rethinking Design education for the 21st century è proprio al basic che si affida il ruolo centrale e riequilibrizzatore delle relazioni fra componente estetica, tecnologica e scientifica nella disciplina e nella professione. Ai designer italiani si potrebbe dire che il basic design è la disciplina centrale del design. È una disciplina estremamente particolare e originale come statuto, in quanto intreccia intimamente propedeutica (cioè la pratica dell’insegnamento di un saper fare) e fondazione disciplinare (cioè il pensiero teorico e metodologico che le sta alla base).” 2 2.Anceschi, L’ambiente dell’apprendimento: Web design e processi cognitivi 11
fig. 2: principi strutturali della linea tratti dal manuale ‘Line and form’ di Walter Crane, 1900 fig 3: sviluppo di un pattern visivo da una griglia di elementi geometrici. da ‘Pattern design’ di Lewis Foreman Day, 1903
Storicamente si dà merito alla scuola del Bauhaus per la nascita del corso di basic design, appunto con il corso del grundkurs, ma sarebbe opportuno fare qualche passo indietro nella storia per vedere quali siano stati i precedenti storici e le personalità che hanno creato le premesse e contribuito al suo sviluppo. La disciplina del basic design infatti deve la sua nascita alle prime scuole di design, che nascono intorno al 1850 in Inghilterra, dove per la prima volta si vennero a creare delle scuole di arte applicata corredati dai primi manuali didattici. Gli inizi della formazione estetica del designer furono incentrati sui problemi tecnici formali, dallo studio dell’ornamento nacquero le prime ricerche sulla percezione visiva. Fino agli inizi del ‘900 è questa la disciplina fondamentale della formazione estetica del designer : vanno ricordate le esercitazioni di Walter Crane, che, come si può vedere nel suo ‘Line and form’ partendo dal disegno dal vero chiedeva ai suoi studenti di analizzarne le strutture organiche di origine naturale, per determinarne i loro ritmi dinamici. Uno studio simile venne portato avanti dal suo connazionale Lewis Foreman Day, cui si può assegnare la paternità del pattern design, fulcro della sua ricerca e della sua didattica: partendo dai problemi tecnici del disegno degli ornamenti dei tessuti, sviluppò delle strutture geometriche e una sua rappresentazione tecnica. Questi studi ebbero un notevole successo in Europa, tant’è che i loro insegnamenti vennero introdotti nelle scuole di arte applicata. Da queste premesse si sviluppò il corso del Bauhaus, che nacque a Weimar nel 1919 dalla fusione dell’esistente Scuola d’Arte Applicata e della Scuola Superiore di Belle Arti, sotto la direzione di Walter Gropius, che continuò 12
a dirigerla fino al 1928. Si decise di organizzare il corso della durata di quattro anni, con un corso iniziale comune a tutti gli indirizzi della durata di un anno, ed è così che nacque la disciplina del basic design come la conosciamo noi oggi. Inizialmente il corso preliminare si chiamava vorlehre, in seguito divenne formlhere o gestaltunghere, a sottolineare la peculiarità di essere un insegnamento di una grammatica visiva e formale, sia pratica sia teorica, finalizzata al progetto. Il basic design è caratterizzato dal carattere di propedeuticità intesa sia come sviluppo delle facoltà dello studente sia come trasmissione oggettiva di saperi tecnici e teorici, che ne formano i fondamenti disciplinari. La parte didattica pedagogica è uno degli aspetti più interessanti del corso, dato che sotto la sua spinta i docenti del Bauhaus hanno condiviso e redatto i loro saperi con la produzione di una documentazione oggettiva e disciplinare di matrice neopositivista (nel tentativo di produrre un sapere universale e scientifico universalmente condivisibile), tra cui vanno citati i saggi di Kandisnky ‘Punto, linea, superficie’ (nato da una raccolta di scritti e lezioni ideate apposta per la didattica al Bauhaus), di Klee ‘Teoria della forma e della figurazione’, fino ad arrivare alla ‘Teoria dei colori’ di Albers, di cui parleremo più avanti, che è stato concepito e prodotto durante il corso. Sull’importanza della didattica come matrice caratterizzante di tutta la filosofia alla base del Bauhaus, interviene lo stesso Maldonado, che fu il direttore del corso propedeutico a Ulm: “Può sembrare sconcertante, visto che molti -la maggior parte- ritengono essere il basic design la manifestazione più tipica del funzionalismo e del razionalismo degli anni ‘20. Ho tentato ripetutamente, nelle sedi più diverse, di dimostrare come questa sia solo una mezza verità, preoccupato di chiarire quanto ci fosse di reale e quanto di leggendario nell’idea di Bauhaus oggi corrente (…) Una delle distorsioni più gravi è stata quella di presentare il Bauhaus quasi esclusivamente come un ‘movimento’ nel campo dell’architettura, dell’arte e del disegno industriale, tralasciando il fatto che il Bauhaus fu anche una scuola vera e propria, una vera e propria istruzione scolastica. Secondo questo modo di vedere, la componente didattica avrebbe avuto una funzione ausiliaria, subalterna rispetto al Bauhaus inteso come centro di progettazione e persino di produzione. Cioè: una mera appendice. E come appendice non meriterebbe una valutazione autonoma. Così si spiega perché le sopra accennate versioni riduttive o falsate del movimento sono state trasferite automaticamente al Bauhaus-scuola. Tra le altre, in specie, quella che vede nel Bauhaus una corrente improntata in tutto il suo decorso storico solo dal razionalismo e dal suo funzionalismo cosa che non è esatta per il Bauhausmovimento e ancor meno per il Bauhaus-scuola” 3 3.Maldonado, Arte, educazione, scienza. Verso una creatività progettuale 13
fig. 4: lo schema ‘stella’ dei colori sviluppato da Joannes Itten nel suo ‘Design and form: the basic course at the Bauhaus, 1963 fig. 5: Joannes Itten che fa compiere esercizi di ginnastica ai suoi studenti sul tetto della scuola, prima di iniziare la vera e propria lezione, 1920
Agli inizi del Bauhaus la partecipazione ai corsi era libera, nel 1920 fu istituito il corso preliminare, tenuto da Joannes Itten. Il corso propedeutico era obbligatorio e comune a tutte le specializzazioni, in questo non era un semplice corso di preparazione tecnica per la produzione artigianale, come era stato organizzato in un primo momento da Walter Gropius, bensì consisteva in un metodo didattico volto a sviluppare e fornire le basi teoriche del processo creativo dello studente. Da un lato era caratterizzato dall’azzeramento dei pregiudizi formativi che gli studenti avevano fin lì ricevuto e dall’altro era incentrato su una nuova visione del fare progettuale. Dopo la frequentazione del corso propedeutico gli studenti potevano decidere il loro corso specialistico tra i laboratori di tipografia, ceramica, metallo, falegnameria, teatro, rilegatura; in questi laboratori erano seguiti da due figure didattiche, il maestro della forma,l’artista, e il maestro d’arte, ovvero l’artigiano, in modo da favorire sia la preparazione teorica ed espressiva che quella tecnica e pratica. Gropius decise di rivolgersi a Joannes Itten per la didattica del corso propedeutico, poiché tra i docenti era uno dei pochi che aveva già avuto delle esperienze come insegnante di scuola elementare e secondaria. Itten pose alla base del suo insegnamento la volontà di liberare le menti degli studenti da ogni convenzione e insegnamento pregresso, in modo da rivelarne il talento personale. La sua idea di trasmissione del sapere era influenzata dalle discipline esoteriche, Itten infatti era un seguace del movimento Mazdaznan, che prevedeva di seguire delle regole di vita molto ferree e precise, e la sua adesione convinta a questa dottrina, sommata al fatto che con i suoi proseliti guadagnava seguaci tra gli studenti, fu uno dei motivi che lo spinsero ad abbandonare l’insegnamento presso
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il Bauhaus. La sua visione della didattica era anche basata sull’idea di un sapere inscritto nel corpo, che doveva essere messo in condizione di essere espresso attraverso alcune pratiche specifiche, tra le quali la ginnastica corporale, che Itten faceva praticare ai suoi studenti prima di iniziare le lezioni. Un’altra delle sue esercitazioni era la pratica della ‘scioltezza gestuale’: a mano libera lo studente doveva disegnare su di un foglio delle volute e dei tracciati, seguendo solo l’istinto e le sensazioni, con l’obbiettivo di liberare il corpo dalle costrizioni e stimolare il flusso delle idee. Inoltre nella didattica di Itten lo studio della natura e dei suoi materiali avevano un ruolo importante, servivano ad affinare la sensibilità alla materia e alle emozioni e sensazioni che provocano. L’esercizio era basato sul trovare il ritmo ed i contrasti che gli stessi elementi hanno in natura, descrivendone le sensazioni tattili che suscitano, le impressioni visive, organizzandoli attraverso delle gerarchie di contrasti; il fine ultimo era quello di organizzare la visione ed accrescere la percezione. Il corso di Itten non era solo votato alla sensibilizzazione dello studente, ma era anche supportato da lezioni sulla teoria della forma e del colore. La teoria della forma prendeva le mosse dallo studio delle forme primarie come, ad esempio, il cerchio e il quadrato, cui veniva assegnato un carattere peculiare: il cerchio rappresentava la centralità, il quadrato la calma. L’importanza fondamentale di questa teoria si può vedere anche nei metodi di insegnamento che Paul Klee e Vassillij Kandisnkij introdussero al Bauhaus, prendendo spunto dalle riflessioni di Itten. In ultimo, vanno ricordate le esercitazioni di studio del nudo e dal vero e l’analisi di opere d’arte che Itten usava come completamento dell’insegnamento: gli allievi dovevano analizzare le opere d’arte ridisegnandone i motivi principali, il ritmo e le linee con il fine ultimo di individuare l’essenza strutturale del complesso della figura. Questo doveva servire come un allenamento alla composizione che avrebbero dovuto impiegare nei successivi progetti, inoltre con lo studio della sintesi veniva migliorata la sensibilità visiva e critica degli studenti, capaci di astrarre con l’uso di composizioni e colori i principi compositivi universali di qualsiasi corrente artistica e disciplina, rendendoli capaci anche di sviluppare liberamente le loro capacità individuali. Il basic design di Itten si trasformerà in due saggi didattici: “Arte del colore”, una raccolta di osservazioni protoscientifiche che uscirà nel 1961 e “Design e forma. Il corso base al Bauhaus”, del 1963, che, come suggerisce il nome, è un compendio di tutte le esercitazioni svolte da Itten durante il suo corso.
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Alla partenza di Itten, nel 1923, il corso propedeutico venne assegnato a Laszlo Moholy-Nagy, coadiuvato da Josef Albers. Nel suo insegnamento sviluppò con particolare interesse la questione della multisensorialità e del rapporto dell’artefatto con il corpo; uno dei temi fondamentali era infatti lo studio delle qualità tattili della materia, organizzate per mezzo di esercitazioni volte alla creazione di tavole in cui erano organizzati dei materiali secondo le loro caratteristiche tattili e formali; questo con lo scopo di effettuare una ricerca sistematica ed oggettiva sugli effetti sensoriali, in termini sia fisiologici che psicologici. Un altro punto importante della ricerca di Moholy-Nagy sono le composizioni spaziali costruite per indagare le possibilità dell’equilibrio ed i rapporti tra i volumi e i materiali. Queste sculture non rappresentavano tanto l’armonia dell’universo, come per Itten, ma piuttosto la funzionalità dei nuovi materiali industriali: MoholyNagy infatti era un sostenitore delle nuove tecnologie, e riteneva che i nuovi mezzi tecnici come la fotografia potessero aiutare l’uomo nell’arrivare ad una conoscenza più profonda delle cose e della realtà. La fotografia era per esso un mezzo scientifico libero dalle alterazioni emotive che poteva permettere una conoscenza dell’origine e dello sviluppo della forma grazie al processo stesso della ripresa e della percezione. Per questo faceva esercitare i suoi studenti attraverso l’uso del fotomontaggio e del fotogramma (la fotografia ottenuta senza la macchina fotografica).
fig. 6 (pagina a fianco): Joannes Itten, esercizio di analisi dei chiaro-scuri sul dipinto di Goya ‘La duchessa di Alba’. Il dipinto è geometrizzato per guidare lo studente in una analisi conscia dell’intero piano del dipinto. La figura veniva disegnata da Itten, gli studenti dovevano colorare i principali toni in maniera sempificata, 1921 fig. 7: docente Làszlo Moholy-Nagy studio sull’equilibrio, Tom Grote, 1924
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fig. 8: versione ridotta del volume ‘Interaction of colors’, che nella prima edizione consisteva delle tavole con le esercitazioni sul colore prodotte dagli studenti cui si aggiungevano i disegni di Albers. in copertina notiamo un esercizio sul colore, chiamato ‘quattro colori con tre’, in cui lo stesso colore posto su due sfondi contrastanti appare come due colori differenti. fig.9: viceversa, con il processo della sottrazione del colore, due colori differenti appaiono uguali
Josef Albers era arrivato al Bauhaus come studente, divenne insegnante del corso propedeutico al fianco di Moholy Nagy durante tutto il periodo di Weimar; quando quest’ultimo partì nel 1928, il corso venne affidato ad Albers, che lo mantenne fino alla chiusura del Bauhaus nel 1933. Grazie a lui, il corso propedeutico assunse una maggior raffinatezza didattica, oltre alla formazione dei futuri artisti, elaborò i corsi anche in funzione della formazione dei futuri designer, con una rinnovata attenzione alla ricerca tecnologica. Per Albers le esercitazioni di basic design avevano un valore oggettivo, basato sullo sviluppo di un pensiero progettuale e costruttivo dell’allievo attraverso la ricerca svolta con le esercitazioni. Il nuovo corso era incentrato sulla sperimentazione sul materiale, sulla ricerca delle sue qualità e della sua configurazione. Agli studenti non veniva più richiesto di lavorare su una moltitudine di materiali, ma solo con vetro, carta e metallo, secondo uno schema ben preciso. Il metodo di insegnamento era basato su un processo di apprendimento induttivo, senza la guida dell’insegnante, basato su determinate esercitazioni formali cui seguiva una critica comune dei risultati svolta in aula. Questi esercizi su materiale e texture sono uno dei più notevoli contributi di Albers al corso e alla pedagogia che lo caratterizzava: sono in effetti una trasmissione sperimentale del sapere basata sull’apprendimento, sviluppata con l’esperienza diretta del lavoro con il materiale e i suoi limiti. La sua spinta innovativa nel campo del sapere, definibile senza eufemismi ‘geniale’, coniò in quegli anni due teorie molto importanti, sia per la storia della percezione cognitiva e della sua didattica, sia per le influenze che ebbe su arte e design: stiamo parlando delle teorie 18
di ‘intersoggettività’, che analizzeremo più avanti, e di ‘factual’ e ‘actual’, termini che Albers usa per la percezione dei colori. Sull’importanza di questo concetto così definisce Anceschi: “Albers è un aristotelico, parla di actual e factual reality, che sono due parole d’uso comune per gli inglesi; “realtà fattuale” sono i colori fisici, misurati per intenderci col colorimetro, con il computer abbiamo sotto mano queste misurazioni, però poi il colore è soggettivo, o meglio c’è una ricezione intersoggettiva, un effetto psichico, quello che tu vedi, che possiamo appunto definire actual.”• Oltre al corso propedeutico, gli allievi frequentavano anche lezioni di teoria della forma e dei colori tenute da Paul Klee e Vassillij Kandisnkij, a cui dal 1927, vennero anche affidati dei laboratori di pittura libera. L’indirizzo pedagogico di questi due pittori concordava con le loro teorie artistiche e i loro corsi erano perlopiù basati sulla spiegazione della loro teoria del colore e della forma, anche se erano supportati da alcune esercitazioni pratiche. A differenza di Kandinskij, le cui esercitazioni erano basate sul disegno analitico e sulla teoria del colore, Klee sviluppava la sua didattica usando dei testi specializzati: prima eseguiva delle dimostrazioni corredate dell’apparato teorico, poi richiedeva agli studenti di risolvere graficamente e con l’uso dei colori gli esercizi proposti. In un crescendo di difficoltà lo studente veniva aiutato a sviluppare la teoria del colore e le leggi della composizione bidimensionale. Così scrive sulle pagine del suo “Teoria della forma e della figurazione”, che è la raccolta delle sue lezioni tenute al Bauhaus: “La teoria della figurazione (Gestaltung) si occupa delle vie che conducono alla figura (alla forma). Essa è la teoria della forma, ma con l’accento sulle vie che a questa conducono: la desinenza della parola stessa sta ad indicare quanto s’è detto or ora. L’espressione “teoria della forma,” come si dice dai più, trascura di porre l’accento sulle premesse e le vie che vi conducono. “Teoria della formazione” è espressione troppo inconsueta. Figurazione implica inoltre chiaramente l’idea di una certa mobilità, ed è quindi preferibile. Rispetto a forma (Form), figura (Gestalt) esprime inoltre qualcosa di più vivo. Figura è più che altro una forma fondata su funzioni vitali: per cosi dire, una funzione derivante da funzioni. Tali funzioni sono di natura puramente spirituale; alla loro base sta il bisogno di espressione. Ogni manifestazione della funzione dev’essere necessariamente motivata: allora, momento iniziale, intermedio, e conclusivo saranno rigorosamente omogenei, e mai potrà fare la sua comparsa alcunché di ambiguo, poiché necessariamente l’una cosa si conforma all’altra. La forza creativa non si può definire: essa permane in ultima analisi misteriosa. • da intervista raccolta dallo scrivente, in più date, a cavallo tra 2011 e 2012 19
Tuttavia non è un mistero quel che ci ha scosso dal profondo: questa forza ci pervade tutti, fin nelle più sottili fibre. Non possiamo esprimerne l’essenza, ma ci è dato, per quanto lontana sia, di risalire alla sua fonte. Comunque, questa forza dobbiamo rivelarla nelle sue funzioni, com’essa è manifesta a noi stessi. Probabilmente è essa stessa una forma di materia, solo non percepibile, come tale, con gli stessi sensi validi per le specie materiali conosciute. Tuttavia essa deve manifestarsi nelle specie materiali a noi note, deve agire a esse congiunta; compenetrandosi con la materia, deve assumere un’effettiva forma vivente. Muoversi così lungo le naturali vie della creazione è un’ottima scuola formativa. Essa è in grado di smuovere dal profondo il creatore che, mobile egli stesso, potrà curare la libertà dello sviluppo lungo le proprie vie figurative. La genesi quale movimento formale è, nell’opera, l’essenziale.”
fig. 10: lezione sulle forze dinamiche delle linee tratte da ‘Teoria della forma e della figurazione’ di Vasilij Kandisnkij. si noti come l’autore scompone e rianalizza gli elementi della sua pratica artistica per giungere a un sapere condivisibile fig. 11: lezione sulle proprietà sinestetiche delle figure geometriche di Paul Klee: per l’autore ad ogni figura corrisponde una precisa sensazione/emozione
Già nel 1912, con il saggio “Dello spirituale dell’arte”, Kandinskij aveva teorizzato una riflessione sulle caratteristiche di determinati colori e sull’effetto che stimolano se associati a determinate forme; nell’introduzione del libro ci spiega le sue motivazioni “Compito di questo scritto Quanto al mio compito specifico in questo libro, per poter garantire almeno l’esattezza iniziale non mi mancano solo le forze, ma anche lo spazio; il fine di questo libriccino è unicamente l’intenzione di illustrare solo in generale e su un piano puramente teorico gli elementi “grafici” fondamentali, e precisamente 1) in “astratto,” ossia isolati dall’involucro reale della forma materiale del piano 20
materiale,e 2) sul piano materiale : l’effetto delle proprietà fondamentali di questo piano. Ma anche questi intenti potranno essere condotti innanzi solo nel quadro di un’indagine alquanto frettolosa come tentativo di trovare un metodo normativo nelle ricerche di scienza dell’arte e di sperimentarlo nell’applicazione pratica.” Quando nel 1922 venne chiamato a tenere presso il Bauhaus un laboratorio di pittura ed un corso sulla teoria del colore, che dovessero completare il corso propedeutico di Itten, sviluppò quindi una teoria compositiva che si proponeva come una grammatica della pittura astratta. Nella sua didattica le forme geometriche base, come il punto e la linea, vengono analizzate secondo un modello di tipo sinestetico: questo era volto al tentativo di classificare con obbiettività scientifica le proprietà e gli effetti degli elementi figurativi con un approccio oggettivo e universale. A differenza di Klee, inoltre, Kandisnky dava molta importanza alla questione degli effetti del colore, che erano al centro di molte esercitazioni che faceva svolgere ai suoi studenti del corso di decorazione parietale, coadiuvato dal suo coorganizzatore, Ludwig HirschfeldMack; nello stesso corso un’attenzione particolare veniva riservata al disegno analitico, gli studenti dovevano rappresentare con linee e forme libere un disegno di una natura morta, analizzandone le tensioni compositive e le linee principali fino ad arrivare all’astrazione del soggetto. Nel 1933 la scuola del Bauhaus chiuse per colpa dell’ascesa del nazionalsocialismo tedesco e i vari insegnanti emigrarono principalmente verso gli Stati Uniti, dove ciascuno sviluppò singolarmente i diversi corsi di basic design. Proprio in America, sul ispirazione Bauhaus, John Andrew Rice fondò il Black Mountain college, che fu attivo nel North Carolina dal 1933 al 1956. Egli, scontento della didattica tradizionale americana dei college, volle istituire un corso volto a stimolare la creatività del singolo; ispirandosi agli insegnamenti di Dewey elaborò un piano di studi basato sull’osservazione e sulla sperimentazione. Questo episodio fu importante perché introdusse in America i principi del Bauhaus, accogliendo anche alcuni docenti profughi tra le sue fila, tra questi va ricordato Josef Albers, che vi replicò il suo corso propedeutico al design basato sulla percezione visiva e sulla teoria del colore. Dopo l’episodio del Black Mountain college, Albers si trasferì successivamente a Yale, dove insegnò nel decennio a cavallo tra ‘50 e ‘60 il medesimo corso. Da questa esperienza nacque il volume “Interazione del colore”, pubblicato nel 1963: il saggio è una sintesi delle lezioni sulle proprietà del colore tenute da Josef Albers nelle università americane, con lo scopo di sviluppare in modo pratico e diretto 21
una sensibilità per la tonalità e la luce dei colori, che uno studio solo teorico non può in alcun modo affinare. Mediante una serie di esercitazioni di complessità crescente con pigmenti e strisce colorate, lo studente scopriva la legge fondamentale dell’interazione del colore. È interessante notare il metodo induttivo applicato dallo stesso Albers nella didattica: gli studenti scoprivano con l’esperimento e la ricerca le leggi della Gestalt senza che queste venissero spiegate prima. A questo proposito riportiamo una descrizione del volume da parte di Giovanni Anceschi: “(...) riguardo la forma pedagogica del basic design, Albers si è dedicato anche alla scrittura dei libri, come ad esempio Interaction of colours. È uno scatolone che contiene centinaia di esercitazioni fatte dagli allievi e trasformate in serigrafie da Albers insieme a suoi lavori, presentate come se fosse anche lui un allievo. La sostanza è l’esperienza che si fa insieme agli studenti, e lui fra l’altro questa esperienza la fa da un altro punto di vista. Storicamente il basic (anche quello di Klee e Kandisnky nella parte più virulenta), con i contributi di Max Bill e dello stesso Maldonado, per certi versi tende a un’idea di oggettivazione assoluta. Va ricordato che in quel momento si sta affermando il neopositivismo, idea realista e oggettivista, dove i saperi sono oggettivi ed anche le nostre discipline devono diventare una scienza come la fisica. Sul rapporto tra neopositivismo americano e fenomenologia europea: Albers fa questo intervento sui fondamenti del basic. Qual è il problema? Tu costruisci un sapere, ma come fai a condividerlo? L’atteggiamento neopositivista, in questo, è assolutamente scientifico: io misuro il sapere e lo faccio diventare oggettivo. La posizione di Albers sembra influenzata dalla fenomenologia: l’intersoggettività al posto della soggettività. Tradotto in soldoni pedagogici, i risultati avvengono all’interno di una classe di allievi e c’è un momento fondamentale del processo pedagogico che è la mostra che si realizza alla fine del corso con i risultati, che poi si discutono insieme.”• Anceschi ci fa capire con queste parole uno degli aspetti più innovativi della didattica di Albers: il concetto di intersoggettività, che voleva appunto superare l’idea di un sapere unico e oggettivo che aveva contraddistinto il primo periodo del Bauhaus, verso un nuovo senso critico, che doveva essere il frutto della didattica applicata congiunta alla sua discussione plurale. Ritornando alle esperienze che derivarono dal Bauhaus, dobbiamo ricordare il New Bauhaus di Chicago, fondata nel 1937 grazie al patrocinio della Association of Arts and Industries, una sorta di Deutscher Werkbund americana, il cui obbiettivo • da intervista citata 22
primario era quello di liberare le discipline del design e dell’arte statunitensi dall’influenza del vecchio continente. Gropius fu invitato a dirigere il corso, cosa che rifiutò, ma consigliò il nome di Moholy Nagy, che aderì all’iniziativa. La didattica del corso propedeutico era tesa verso la stimolazione sensoriale e ne abbiamo una testimonianza orale di Michele Provinciali riferita da Giovanni Anceschi 4: una delle esercitazioni consisteva nell’immergere, con gli occhi bendati, le mani in recipienti che contenevano materiali diversi, come sfere metalliche o spugne e di rappresentare poi con il disegno le sensazioni provate. Se Max Bill aveva fondato la pedagogia sul connubio arte-tecnica; invece MoholyNagy propone la triade arte, tecnologia e scienza: la tecnologia e la tecnica diventano il fulcro su cui si basano le esercitazioni del corso di basic design, la componente artistica si sviluppa nel corso di ‘visual fondamental’, l’apporto scientifico alla didattica viene rafforzato, tant’è vero che vengono chiamati studiosi di livello internazionale, come ad esempio il semiologo Charles Morris.
fig. 12: evoluzione storica del modello pedagogico nei diversi rapporti tra arte, scienza e tecnologia che ebbero le scuole del Bauhaus, del New Bauhaus di Chiago e di Ulm.
4, da “Il Verri”, ‘newbasic’ n. 42 23
Ulm
Nel 1955, con la fine della seconda guerra mondiale, venne fondata a Ulm la Hochschule fur Gestaltung sotto la direzione di Max Bill, che era stato a suo tempo uno studente del Bauhaus. La scuola di Ulm si costituisce come centro internazionale di studio e ricerca nelle diverse discipline del design industriale, che rappresentava il fulcro degli innovativi insegnamenti e della pratica progettuale, saperi così progressisti e innovativi che sono tuttora alla base della didattica di molte università di design contemporanee. Riportiamo le parole con cui Maldonado descrive quest’esperienza: “L’HfG non è solo una scuola dove vieni educato ad una materia specifica; l’HfG è piuttosto una comunità i cui membri condividono le stesse intenzioni: conferire struttura e stabilità al mondo che ci circonda”.5 Sulla volontà di Max Bill, il corso propedeutico dell’università era organizzato come un unico laboratorio che accoglieva tutti gli studenti che poi si sarebbero divisi nelle varie sezioni a partire dal secondo anno. Le finalità erano l’omogeneizzazione e l’allenamento alla creatività, in questo Bill si era limitato a riproporre la formula bauhausiana che aveva conosciuto da studente. Quando succedette alla direzione del corso Tomàs Maldonado, nel 1956, rielaborò integralmente l’impostazione della scuola, a partire dal corso propedeutico, secondo tre principi fondamentali. Il primo punto della riforma consistette nella differenziazione delle corso propedeutico in tre sezioni: un basic strutturale per l’architettura industrializzata, un basic bidimensionale e semiotico per la comunicazione visiva e un basic tridimensionale per il design del prodotto. Il secondo punto consisteva nell’abbandono della formula della sperimentazione libera di matrice artistica in favore di una formula caratterizzata da un approccio scientifico e tecnico più marcato, supportato da esercitazioni basate su precisi elementi, regole e obbiettivi. Le esercitazioni erano basate su dei modelli semplificati di progetto, basati sul problem solving, in modo da simulare una vera e propria progettazione da designer. Il terzo punto, che prendeva le distanze da quella che era stata l’impostazione della didattica al Bauhaus, era l’innesto sistematico di discipline scientifiche basate 5, Maldonado, ‘Discorso inaugurale per il rettorato al HfG’, 5 ottobre 1964 24
fig. 13: Tomàs Maldonado, mentre tiene una lezione al corso di basic design di Ulm
sulla tecnologia e sulle competenze che lo studente doveva sviluppare. Avevamo così l’introduzione dello studio di simmetria, topologia, psicologia della percezione e semiotica, mai fini a se’ stesse ma funzionali per il raggiungimento di una progettualità matura e conscia. Ispirandosi alle teorie neopositiviste, il nuovo direttore cercava un corso che si facesse portatore di un sapere condivisibile ed oggettivo, inoltre voleva separare le discipline arte e design per tutelare e configurare quest’ultima, garantendo ai futuri designer che frequentavano Ulm una cultura progettuale basata sulla tecnologia e sulla scienza. Su questo aspetto è opportuno citare quanto afferma Anceschi, che fu allievo di Maldonado: “Alla Gestaltungschule di Ulm era evidente un’ideologia “anti arte”, ma in che senso? Si voleva differenziare radicalmente il design dall’arte: questa è una cosa tipica della modernità matura. Il fatto di sottolineare l’autonomia della disciplina del design è una caratteristica della modernità, che tende a sottolineare l’autonomia delle discipline, o meglio l’articolazione di una pluralità di discipline. Maldonado però, appena arriva a Ulm, proprio perché lui era stato un artista, sapeva veramente come andavano le cose e non aveva mai preso una posizione ideologica anti arte, ma preferiva riconoscere le differenze tra le discipline. In effetti la sua definizione di design, fatta nel ‘60, è molto buona. Dice: “che cos’è il compito del designer? di attribuire/dare una forma agli oggetti”, ma non vuol dire dare solo forma alle carrozzerie ma anche alla strutture.”• • da intervista citata 25
Maldonado orientò il corso di basic design verso la ricerca gestaltica, venivano insegnate materie scientifiche come la topologia, la geometria, la psicologia della forma,la matematica combinatoria e, fatto importante, la semiotica; progettare voleva dire attribuire con metodo scientifico qualità formali ed estetico/strutturali agli oggetti di design come ai prodotti della comunicazione. Il grande teorico di questa visione del basic design è stato William Huff, allievo e assistente di Albers a Yale, nonché collega e seguace di Maldonado, a lui dobbiamo i termini ‘geometrizzazione’ e ‘percettualizzazione’ intesi come aspetti costitutivi del basic design.6 Per quanto riguarda gli esercitazioni che Maldonado proponeva ai suoi studenti, Anceschi ci illustra quella più celebre, ovvero l’esercitazione dell’anti primadonna: “esercizio dell’anti primadonna: prendete un foglio, nel foglio fate una finestra di una certa misura. L’importante è che questo rettangolo allungato va diviso in sei parti, diceva Tomàs; io ho portato le parti a 7. Queste bande verticali vanno dipinte di colore tinta piatta o con una trama bianca e nera. È fondamentale: devi ottenere questo effetto percettivo, dove nessuna delle bande o nessuna parte dell’immagine giochi il ruolo di prima donna. Cosa vuol dire? Tutti capiscono tutto. Una volta finita l’esercitazione, i singoli fogli vengono appesi e tutti giudicano, si passa a un sapere che non è soggettivo, mentre l’altro polo è puramente soggettivo (l’ “io”). I ragazzi infatti all’inizio sono convinti che sono dati opinabili, che ogni soluzione è autonoma, indifferente e soggettiva, ma non è vero, perché alla fine della discussione vedono il loro lavoro nella dimensione intersoggettiva. Questo esercizio viene anticipato da una piccola esercitazione: prendi un foglio grande e cerca il centro a occhio, segnandolo con un punto, successivamente con la stecca devi trovare qual è il vero centro. In questo modo passi dalla soggettività all’oggettività (quella prodotta da un’operazione di verifica scientifica). Il punto viene messo abbastanza giusto ma tutti lo pongono leggermente al di sopra del centro reale del foglio. Dopo quella manovra non puoi più dire che l’oggettivo è nel visibile, dato che è frutto della percezione.” (intervista citata) L’esercizio dell’antiprimadonna insegna allo studente a fare pattern che non contengano gerarchie visive, viceversa la capacità di crearne e quindi di pilotare la percezione del destinatario sono l’insegnamento che lascia. Questo sapere non viene però esplicitato con una teoria, venendo sperimentato praticamente ne si viene a conoscenza in un modo più conscio e significativo rispetto ad un sapere condiviso in modo induttivo. Il corso propedeutico di Ulm risentì delle influenze dei vari docenti dell’università, 6, Huff “Geometrizzare e percettualizzare”, da Il Verri, n. 43 26
che cercavano di aggiornare il modello didattico ai tempi dei grandi cambiamenti che stavano vivendo, sia tecnologicamente che culturalmente: Walter Zeischegg portava avanti ricerche morfologiche, Gui Bonsiepe analisi semiotiche sulla retorica, Tomàs Gonda analizzava la sintassi dello storyboard. In ogni caso ogni sforzo era congiunto verso una critica al modello del Bauhaus e alla sua impostazione attivistico-espressionista per quanto riguardava il corso base, che ritenevano potesse avere un effetto dannoso se rivolto agli studenti, che a Ulm erano visti come professionisti. Si pensava che il modello del Bauhaus dando troppo spazio agli aspetti emotivi e intuitivi, lasciasse lo studente sprovvisto degli strumenti razionali necessari per la progettazione. Come sottolinea Maldonado su questo approccio espressionista: “al momento del confronto diretto con questo ordinamento della società borghese, la risposta non poteva che essere la fuga nella sterile, grottesca parodia dell’espressività individuale. Il gesto disarticolato si sostituiva al pensiero articolato; l’azione gratuita all’azione finalizzata. Tutto diventa spettacolo e tutto diventa subito riciclabile da parte di una società che era ed è ancora sostanzialmente spettacolare”.7 Dopo la chiusura della scuola di Ulm nel 1968, dovuta a forti contrasti interni, ci fu una seconda diaspora; alcuni docenti fondarono nuove scuole sia in Germania che all’estero, la metodologia ulmiana continuò ad essere applicata nella didattica, anche se aggiornata secondo una chiave di lettura che fosse coerente con il nuovo contesto sociale ed economico, si pensi che erano gli anni in cui il boom economico aveva esaurito la sua spinta iniziale e nel frattempo iniziavano le prime
fig. 14: esercitazione dell’antiprimadonna, docente Tomàs Maldonado, studente Giovanni Anceschi, 1962
contestazioni degli studenti.
7, Maldonado, “Arte, educazione, scienza. Verso una nuova creatività progettuale”, Casabella, n. 435 27
il contesto artistico e sociale in Italia
Prima di analizzare quali siano state le influenze e gli sviluppi della lezione del basic design nel nostro Paese, occorre fare prima una breve analisi di quello che era il panorama artistico e sociale dell’epoca; questo per capire i presupposti che hanno portato alla trasmissione dei saperi del Bauhaus attraverso l’arte, nello specifico l’arte cinetico programmata, prima che ciò avvenisse all’interno delle università. Un tentativo di radicale mutamento della ricerca visiva e della sua rete di diffusione fu portato avanti in Italia – a partire dal secondo dopoguerra – da una moltitudine di esperienze artistiche in cui era centrale il rapporto immediato con la realtà. Iniziò così a prendere forma nel nostro Paese una proposta di opposizione operativa in cui la pratica e la discussione artistica assunsero come cardine la volontà di rimettere in discussione i ruoli stabiliti entro il sistema dell’arte e dell’industria culturale, affermando la necessità di trovare canali alternativi per la diffusione e la conoscenza della loro ricerca. Tra i tratti comuni più importanti di questo periodo vi fu il coinvolgimento del territorio e della cittadinanza entro la processualità dell’artista, che mirava all’intervento diretto nelle strutture del sociale, ritenendo che la pratica artistica fondasse il suo valore soltanto all’interno di una comunicazione estesa, condivisa e indipendente. Il senso del fare arte risiedeva allora nel suo porsi come strumento di costruzione di nuove socialità e aggregazioni intorno ai valori alternativi. L’emergere di tali aperture nell’arte derivò anche dall’esplicita interconnessione degli artisti con il contesto ideologico, sociale e politico, con i rivolgimenti culturali che investirono trasversalmente la società. Ne emersero opere e azioni artistiche dialetticamente legate alle urgenze di una società nuova, legata al boom economico e ad un nuovo panorama industriale. Una modalità operativa che non si limitò alla proposta di una ricerca indubbiamente innovativa e radicale, che non si conforma, ma produsse anche una forte consapevolezza critica sul senso del fare arte. Le opere furono sottoposte a continui ripensamenti e verifiche nel momento stesso in cui venivano presentate al pubblico. Nacque una forte negazione dell’approccio individualista – e in molti casi anche dell’autorialità – dell’essere artista che si concretizzò nel lavoro e nelle poetiche di gruppo, nella nascita del collettivo di artisti e nell’ampliamento stesso del concetto di artista come operatore estetico, come scrive Marco Meneguzzo sulle pagine del catalogo Arte Programmata 1962: “termine coniato in margine 28
all’attività dei gruppi, proprio in quegli anni, per sostituire la parola ‘artista’ o del ricercatore, aggiungendo all’oggettivizzazione razionale dei lavori realizzati uno spirito innovatore anche rispetto ai rapporti dell’arte con altri campi produttivi, nella dichiarata volontà di uscire dall’asfittico recinto del sistema dell’arte”, sottintendendo l’apertura dell’arte al servizio della società. Oltre a mettere in discussione sé stessi, gli artisti cominciarono a interrogarsi sul ruolo e l’identità dello spettatore che si voleva attivo e quindi fruitore. Si sviluppò così un genere artistico che mirava a contrapporsi all’Informale mediante una più immediata ricerca dei valori essenziali della percezione visiva. Si trattò di una ripresa di alcuni tentativi già sperimentati dai neoplasticisti e dai concretisti, ma condotti con una maggiore coerenza e con un minore rigorismo dogmatico. Il Gruppo T e con loro il Gruppo Zero tedesco, il Gruppo N di Padova, le Nove Tendencije slovene e i GRAV (Group de Ricerche d’Art Visuelle) francesi prendevano spunto da queste riflessioni formali per astrarsi da un livello di fruizione non più estetica ma gestaltica e percettiva; l’artista cercava un coinvolgimento diretto dello spettatore, che di fronte a variazioni timbrico-cromatiche, a strutture geometriche, ad ambienti interattivi diventava uno spettatore-coautore nel senso che rispondeva percettivamente e corporalmente a questi stimoli.
Con il termine Informale, coniato negli anni Cinquanta da Michel Tapié, vengono 29
verso l’astrazione
Con il termine Informale, coniato negli anni Cinquanta da Michel Tapié, vengono definite una serie di esperienze artistiche, sviluppatesi soprattutto in quel decennale e che hanno una fondamentale matrice astratta. Gillo Dorfles nel suo saggio Ultime tendenze dell’arte d’oggi quando parla di “Informale” lo delimita a “quelle forme di astrattismo dove non solo manchi ogni volontà e ogni tentativo di figurazione, ma manchi anche ogni volontà segnica e semantica” La caratteristica dell’Informale è di essere contrario a qualsiasi “forma”, che nella realtà sensibile si intende come tutto ciò che ha un contorno, con il quale un oggetto o un organismo si differenzia dalla realtà circostante e nel quale si definiscono le sue caratteristiche visive e tattili. Anche l’arte astratta nelle sue correnti più geometriche, si costruisce per organizzazioni di forme. L’Informale invece, rifiutando il concetto di forma, si differenzia quindi anche dall’arte astratta, costituendone al contempo un ampliamento. Quest’ampliamento non è da intendersi solo come possibilità di creare immagini nuove, ma anche come allargamento del concetto stesso di creatività artistica, in quanto l’Informale produrrà in seguito una notevole serie di tendenze che finirono per sconfinare del tutto dalle tradizionali categorie di pittura e scultura. Si può definire l’Informale come l’insieme di quelle correnti astratte non geometriche, come il tachisme, l’art autre e l’action painting; la connotazione del termine è principalmente rivolta all’indicazione di un’assenza di forme definite. L’Informale è pertanto da considerarsi una matrice fondamentale di tutta l’esperienza artistica contemporanea, compresa quella del Gruppo T, che deve infatti la sua nascita ad una prima mostra collettiva dei suoi componenti, Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo e Gabriele Devecchi, alla galleria Pater di Milano nel 1959. Questa esposizione collettiva, dovuta prima di tutto all’amicizia dei quattro all’Accademia di Brera, ha ospitato i loro quadri informali e polimaterici, chiave di lancio per un successo che permise loro di organizzare una nuova mostra personale nell’anno successivo dedicata all’arte cinetica e, con la stesura del loro manifesto, di aderire ufficialmente ad un nuovo filone artistico, quello dell’arte cinetica appunto, che risente nel primo periodo dei loro riferimenti informali. Il quadro teorico che permise l’affermarsi dell’Informale era stato in realtà 30
fig. 16: Giovanni Anceschi fig. 17: Davide Boriani, ricerche informali
sedimentato dall’importante esperienza artistica che si raccolse per un decennio circa attorno al Movimento Arte Concreta, fondato a Milano nel 1948 da Attanasio Soldati, Bruno Munari, Gianni Monnet e Gillo Dorfles, con la volontà di sviluppare una nuova forma d’arte scevra da ogni riferimento naturalistico, che superasse da un lato la stagione del realismo politicamente impegnato e dall’altro andasse verso la creazione di forme pure, anche in polemica con un certo astrattismo “lirico”, collegato cioè all’espressione dei sentimenti dell’artista. L’obiettivo era quello di elaborare forme, linee e colori in modo assolutamente autonomo e libero da ogni riferimento naturalistico: il termine di Arte Concreta prende le mosse da una pubblicazione di Van Doesburg, edita a Parigi nel 1930, che esplicitava la necessità di rovesciare le definizioni tradizionali di astratto e concreto in arte. Doesburg scrive infatti: “Nulla è più concreto e reale di una linea, di un colore, di un piano”. Riprendendo successive elaborazioni di Max Bill, in Italia il movimento assume lucidità teorica con l’apporto di Gillo Dofles che nel 1949 scrive: (l’arte concreta è arte) “…basata soltanto sulla realizzazione e sull’oggettivazione delle intuizioni dell’artista, rese in concrete immagini di forma-colore, lontane da ogni significato simbolico, da ogni astrazione formale, e mirante a cogliere solo quei ritmi, quelle cadenze, quegli accordi, di cui è ricco il mondo dei colori.” Il MAC nasce a Milano, ma presto sarà presente in tutta Italia; nel 1953 si collega in modo organico con il Groupe Espace, movimento analogo creatosi intorno all’attività della galleria Denise Réné di Parigi, tanto che successivamente si parlerà del gruppo MAC/Espace, che si caratterizza per il suo interesse principalmente 31
rivolto verso il design industriale ed una stretta relazione tra arte e industria. Tra le ricerche teoriche ed estetiche che influenzarono maggiormente il Gruppo T va ricordato che Umberto Eco in una serie di importanti interventi teorici, il più famoso dei quali è contenuto nel saggio Opera aperta (Milano, Bompiani,1962), include l’Informale e nello specifico i tachistes, gli esponenti dell’action painting, l’art autre sotto la definizione di poetica dell’opera aperta, così esplicitata dal suo stesso creatore anche nel catalogo Arte Programmata, catalogo della mostra, Milano, 1962: “forma costituita da una costellazione di elementi in modo che l’osservatore possa individuarvi, con una scelta interpretativa, vari collegamenti possibili, e quindi varie possibilità di configurazioni diverse, al limite intervenendo di fatto per modificare la posizione reciproca degli elementi”. A riprova dell’influenza che le innovative proposizioni teoriche di Umberto Eco ebbero anche sul Gruppo T si può ricordare ad esempio la dichiarazione di Davide Boriani che, nel contesto della mostra Miriorama 2 del 1960, sottolinea come la loro produzione artistica fosse caratterizzata da una forte componente interpretativa dello spettatore : “Questi valori (schemi variabili e struttura mobile, nda) sono soggetti ad una variazione continua e discontinua, non per mostrare l’immagine in un movimento che si ripete indefinitivamente, ma per dare la sequenza delle immagini che si trasformano continuamente”. Paola Serra Zanetti commentando tali prese di posizione, scrive: “in omaggio alla famosa definizione di ‘Opera aperta’ l’intenzione di Boriani è quella di allargare il multiforme destino dell’oggetto estetico, travalicando la nozione di serializzazione e di parcellizzazione che sembra emergere dalla dicitura apparsa in margine al catalogo della mostra alla Olivetti: formula riduttiva, per la verità, ampliata poi nel famoso saggio di Eco, che appare proprio in quell’anno” 8 Quando analizza nello specifico le arti visive, Eco annette anche l’arte cinetica alle tendenze esemplificative all’opera aperta, mettendole sullo stesso piano dell’Informale per quanto riguarda la direzione che avevano intrapreso nello sviluppare un’arte nuova e moderna: “Quindi, pur battendo vie diverse, maniaci del programma matematizzante, e ‘urlatori’ della dilacerazione plastica, perseguivano in fondo lo stesso fine; allargare all’uomo contemporaneo il campo del percettibile e del godibile, questo al di fuori di ogni altra differenza di scuola e di corrente; al di fuori di quel divergere delle intenzioni, per cui, come è stato notato, in fondo i mistici della forma compiuta e misurata, si avviavano ad integrare le forme di loro invenzione nell’ambito di una società industriale accettata senza riserve; mentre gli anarchici della forma dissolta e oltraggiata protestavano contro l’ordine costituito che non potevano accettare. Ma tiene una simile dicotomia? (…) 8, AA. VV., L’arte in Italia nel secondo dopoguerra 32
Questi sono problemi che, al di fuori delle scommesse individuali, dovranno attendere di essere visti in prospettiva storica. Ma che da entrambi i lati si perseguisse una liberazione dell’uomo dalle abitudini formali acquisite, questo sÏ. Una esigenza di rottura degli schemi percettivi�9.
fig. 18: i membri del Gruppo T, Gianni Colombo, Giovanni Anceschi, Grazia Varisco, Davide Boriani, Gabriele Devecchi
9, Arte Programmata 1962, catalogo a cura di Marco Meneguzzo 33
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Miriorama 1, l’inizio
Come già accennato sopra, nel gennaio 1960 viene data la possibilità a questo gruppo di artisti di organizzare una mostra personale. Questo avvenne precisamente alla galleria Pater di Milano, e rappresenta la loro prima mostra,
fig. 19 (pagina a fianco): manifesto per l’esposizione Miriorama 10 con uno scritto di critica di Lucio Fontana, 1961
dopo che nell’ottobre 1959 si era costituito il Gruppo T, e diventa l’occasione di presentare il loro primo manifesto, denominato Miriorama 1, che si configura come piattaforma teorica e manifesto tecnico. Prima della pubblicazione la dichiarazione era stata presentata a Guido Ballo, Lucio Fontana, Bruno Munari e Luciano Anceschi al fine di raccogliere eventuali osservazioni ed avviare un produttivo confronto critico con quanti potevano essere ritenuti maggiormente vicini a questa presa di posizione teorico-artistica. Di seguito, il testo integrale del manifesto: “manifestazione del gruppo T dichiarazione ogni aspetto della realtà, colore, forma, luce, spazi geometrici e tempo astronomico, è l’aspetto diverso del darsi dello SPAZIO-TEMPO o meglio: modi diversi di percepire il relazionarsi tra SPAZIO e TEMPO. consideriamo quindi la realtà come continuo divenire di fenomeni che noi percepiamo nella variazione. da quando una realtà intesa in questi termini ha preso il posto, nella coscienza dell’uomo (o solamente nella sua intuizione) di una realtà fissa e immutabile, noi ravvisiamo nelle arti una tendenza ad esprimere la realtà nei suoi termini di divenire. quindi consideriamo l’opera come una realtà fatta con gli stessi elementi che costituiscono quella realtà che ci circonda è necessario che l’opera stessa sia in continua variazione. con questo noi non rifiutiamo la validità di mezzi quale colore, forma, luce, ecc., ma li ridimensioniamo immettendoli nell’opera nella situazione vera in cui li riconosciamo nella realtà, cioè in continua variazione che è l’effetto del loro relazionarsi reciproco. giovanni anceschi davide boriani gianni colombo gabriele devecchi 35
fig. 20 (pagina a fianco): ‘Grande oggetto pneumatico’ /’Ambiente a volume variabile’, 1959/1960 Galleria GNAM, Roma
in alcune tra le personalità più rappresentative nel panorama d’avanguardia degli ultimi 50 anni noi ravvisiamo queste stesse esigenze delle quali in questa sede diamo una documentazione attraverso alcune opere. inoltre noi proponiamo all’attenzione del pubblico degli esperimenti in cui colori, forme, superfici in variazione possono costituire i mezzi con i quali ci esprimeremo. la manifestazione sarà inaugurata il giorno 15-1-60 alle ore 18 alla galleria pater, via borgo nuovo 10, milano e resterà aperta i giorni 16-17. il gruppo T ringrazia per la concessione delle opere”10
“La manifestazione, della durata di quattro giorni, era divisa in due sezioni. La prima comprendeva una serie di scritti di Boccioni, Balla, Depero, Klee, Fontana, (manifiesto blanco), Munari e riproduzioni ed opere di Brancusi (colonna senza fine), Calder, Gabo, Pevsner, Moholy-Nagy, Vasarely, Fontana, Munari (macchina inutile), Tinguely, Manzoni (linea) concernenti la presenza di particolari aspetti della questione SPAZIO-TEMPO nelle loro ricerche. Nella seconda sezione erano esposte opere collettive del Gruppo T a carattere sperimentale che presentavano variazioni nel tempo dei valori di colore, forma, superficie, volume, spazio in relazione con l’ambiente e la percezione visiva. ‘Pittura di fumo’, riquadro trasparente dove l’immagine prodotta da vapori di anidride carbonica veniva variata da correnti d’aria aspirata. ‘Superfici in ossidazione’: superficie in rame sulla quale per effetto della polarizzazione provocata da una sorgente di calore, apparivano aloni di colore variabile. ‘Superfici in contrazione [alias ‘Superfici in combustione’]: superfici in materia plastica sovrastampate con trame regolari, messe in variazione dalle contrazioni della superficie provocate da una sorgente di calore. ‘Grande oggetto pneumatico’ (insieme che varia nello spazio) : da un cubo di 80 cm. di lato, fuoriescono, spinti da aria compressa, tubi di materia plastica trasparente (p.v.p) di 60 cm. di diametro, e lunghi da 6 a 10 metri. I tubi, gonfiandosi, si espandono nell’ambiente disponendosi in diversi modi. L’aria è soffiata e aspirata, in modo che i tubi entrano e escono alternativamente nel cubo che è piazzato [in fondo alla stanza].” 11
10, Gruppo T, Miriorama 1, manifesto 11, “Velina” per l’articolo di Giulia Veronesi, Le groupe T à Milan, in “Art Actuel International” 36
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i riferimenti nell’arte sul tema del rapporto spazio-tempo
“Nostri antenati da un lato e dei nostri compagni di strada dall’altro” (G. Anceschi) La particolarità della prima mostra del Gruppo T è l’assenza voluta di una critica ufficiale della mostra stessa, ciò è dovuto alla loro visione critica del mondo ufficiale e istituzionale dell’arte, così com’era praticato soprattutto in quel periodo storico e per la loro spinta avanguardista che al suo apparire aveva trovato spiazzati i critici attivi sulla scena culturale nazionale coeva. Questa mancanza viene ovviata in maniera del tutto personale e comunicativa dedicando una parte dell’esposizione alle opere degli artisti più vicini alla poetica del Gruppo T: sia con foto riproduzioni e libri d’arte visibile dal pubblico, sia con la presenza delle opere stesse degli artisti cinetici e concettuali, che stavano sviluppando ricerche analoghe. La scelta viene così motivata da Giovanni Anceschi: “noi cominciammo a fare la nostra prima mostra senza un critico. Siamo noi stessi che facciamo la critica della mostra stessa attraverso una sala iniziale che è un mezzo critico che dice con le immagini proprio quello che avrebbe dovuto dire un critico. Non l’abbiamo fatto in forma di testo ma oltre alle immagini e alle opere stesse abbiamo ripreso gli stessi testi teorici dei nostri antenati da un lato e dei nostri compagni di strada dall’altro”.• Si decide così che la parte introduttiva della mostra stessa vedrà ospitare alcuni dei protagonisti del primo Novecento, a partire da un riferimento “forte” alla tematica del tempo nell’opera d’arte, grazie alla foto riproduzione della Colonna senza fine (1937), dello scultore rumeno Costantin Brancusi, chiamato a rappresentare, come ha detto lo stesso Anceschi, “una temporalità diversa, un po’ allusiva, più poetica, con un eccezionale oggetto che quasi scompare nelle nuvole nella parte alta”•: l’opera viene quindi scelta a rappresentare un modulo seriale infinitamente ripetuto fino a spingersi alla negazione della dimensione temporale. Con i futuristi italiani Balla e Boccioni, invece, la motivazione della loro presenza risiede nella scelta di analizzare ed interpretare il concetto di movimento nella pittura: nei dipinti e nella scultura futuristi il movimento, che è una delle idee • da intervista citata 38
fig. 21: ‘Colonna senza fine’, Costantin Brancusi, 1937 fig. 22: ‘Ragazza che corre su un balcone’, Giacomo Balla,1912
fondanti la loro poetica, viene interpretato come una via di mezzo tra movimento oggettivo (impressionistico o cubista) e quello soggettivo (espressionistico) in una categoria che si può chiamare movimento concettuale. Boccioni svolse la sua opera artistica nella ricerca di un equivalente artistico e moderno del movimento della velocità, sia nella pittura che nella scultura, dove trovò i risultati più convincenti e l’importante novità dell’uso di molteplici materiali: “l’aspirazione tradizionale di fissare nella linea il gesto, e la natura e l’omogeneità della materia impiegata (marmo o bronzo), hanno contribuito a fare della scultura l’arte statica per eccellenza. Io quindi pensai che scomponendo questa unità di materia in parecchie materie, ognuna delle quali servisse a caratterizzare, con la sua naturale diversità, una diversità di peso e di espansione dei volumi molecolari – si sarebbe già potuto ottenere un elemento dinamico” 12 Altro elemento caratterizzante l’opera di Boccioni che il Gruppo T ha voluto sottolineare nella sua presentazione critica alla mostra è la ricerca dell’espressione del movimento, così sintetizzata dall’artista stesso: “la nostra brama di verità non può più essere appagata dalla Forma né dal Colore tradizionali! Il gesto, per noi, non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà, decisamente, la sensazione dinamica eternata come tale. Tutto si muove, tutto corre, tutto si sviluppa rapidamente. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente. Per la persistenza dell’immagine nella retina le cose in movimento si moltiplicano, si deformano, susseguendosi, come vibrazioni, nello spazio che percorrono.” 13 12, Umberto Boccioni, s.t., in “Lacerba”, 13, Umberto Boccioni, Pittura, scultura futuriste 39
E’ interessante notare una visione già smaliziata del processo biologico della percezione visiva, che non viene riproposta come esperienza attiva per lo spettatore ma viene fissata in termini statici e di scomposizione del movimento sulla tela; esperienza artistica questa che avvicina Boccioni a Balla, come si può verificare ad esempio nell’opera di quest’ultimo, ‘Ragazza che corre su un balcone’ (1912), opera in cui il pittore aveva cercato una rappresentazione del movimento, tema più volte affrontato da Balla, come in ‘Dinamismo di un cane al guinzaglio’ (1912) o ‘Volo di rondini’ (1913): uno dei temi della sua ricerca era infatti la scomposizione del movimento in un procedimento cinetico in cui lo stesso appariva scomposto nei suoi diversi posizionamenti nello spazio visualizzati contemporaneamente. Tratto comune questo di una produzione artistica volta all’analisi del movimento, alla sua ricomposizione plastica e in ultimo alla sua astrazione più geometrica. Va sottolineata la componente milanese del movimento futurista che il Gruppo T espone in mostra quale riferimento culturale ed operativo del suo procedere, non a caso riaffermando una comune radice metropolitana ed industriale, riferita esattamente alla città di Milano. La parte introduttiva della mostra era completata poi, per quanto attiene alla presentazione di testi critici, da contributi di Fortunato Depero, che è allo stesso tempo uno dei fautori del “secondo futurismo”, termine coniato da Enrico Crispolti negli anni Cinquanta per definire l’operato di Balla e Depero nello sviluppo di una poetica più aderente alla teoria estetica che voleva “portare l’arte nella vita”, che aveva però fallito nel “primo futurismo” in quanto l’arte era rimasta relegata nelle gallerie e nei musei e si era limitata ad esprimersi principalmente con la pittura e la scultura. Balla da una parte aveva cercato nella pittura una nuova struttura della forma con ‘Compenetrazione iridescente n. 2’ (1912), primo passo avanguardista verso l’astrazione analitica e geometrica e la genesi di una nuova forma con una composizione interamente non figurativa che si può vedere come un’anticipazione delle avanguardie storiche europee successive. Depero invece prende spunto nella sua attività dai risultati raggiunti da Balla stesso per giungere ad una ridefinizione dell’opera d’arte e del quadro presagendo in questo la crisi del figurativismo del Novecento e aprendo la strada alle nuove correnti astrattiste. Sempre nella prima sezione della mostra, tra i riferimenti concettuali dell’agire del Gruppo T, presenti anche testi teorici di Paul Klee, apprezzato sia in quanto ritenuto tra i “padri fondatori” dell’astrattismo, sia per il suo costante richiamo alla necessità di una fruizione dinamica dell’opera d’arte da parte dello spettatore: “Ogni figurazione è movimento, in quanto comincia in qualche luogo e in qualche luogo ha termine. Le vie percorse dall’occhio che procede a tentoni riguardo a ciò, sono generalmente libere in senso temporale e spaziale” 14 14, Paul Klee, Teoria della forma e della figurazione 40
Per Klee l’arte è un’operazione estetica e il risultato è una comunicazione intersoggettiva, caratterizzata da una funzione formativa o educativa (testimoniata anche dagli insegnamenti tenuti al Bauhaus, di cui abbiamo trattato sopra).
fig. 23: ‘Compenetrazione iridescente n. 2’, Giacomo Balla,1912 fig. 24: “Linea”, Piero Manzoni
Il quadro diventa una visualizzazione dell’io interiore dell’artista che si confronta con l’interiorità dello spettatore, in un rapporto diretto ed emotivo. Klee è il primo artista che attraverso il ricorso all’attività grafica dell’infanzia cerca di analizzare il proprio inconscio (va ricordato che nello stesso periodo Freud e Jung avevano posto le basi della moderna psicoanalisi): le immagini e i segni sono la rappresentazione astratta del pensiero più intimo dell’artista, vale a dire il vocabolario delle sue pulsioni di base. Tra le opere presenti nella parte introduttiva della mostra, alcune lo erano fisicamente e non soltanto grazie a foto riproduzioni: l’opera di Fontana, venne scelta dal Gruppo T, non solo perché rappresentasse la concettualizzazione del gesto dell’artista, ma piuttosto perché ne fissava l’attimo, il momento dell’atto artistico, rivelando un attenzione alla questione della temporalità, che era uno dei tratti caratteristici del Gruppo T. La medesima questione temporale veniva poi presentata nel lavoro di un altro artista milanese, Piero Manzoni, che per l’occasione aveva prestato alla mostra una delle sue ‘Linee’. Questo artista, prendendo spunto dalle operazioni dadaiste, aveva iniziato la sua esperienza personale con l’utilizzo di materiali e oggetti di vita quotidiana, qualificati attraverso l’uso del colore, in un processo che vedeva il gesto e la volontà dell’artista come determinanti nella definizione dell’opera. Successivamente la sua produzione si rivolse verso l’inscatolamento di fiato e feci d’artista e linee tracciate su rotoli di carta, chiuse ermeticamente in scatole sigillate in un’attività demistificatrice nei confronti del mondo dell’arte e della società, 41
fig. 25: opera optical senza titolo di Victor Vasarely fig. 26: catalogo delle ‘Edition Mat’ in cui venivano venduti i multipli di una sua opera d’arte, insieme a opere di Munari e Duchamp
della quale egli critica il modo di produzione industriale del tutto alienante. In questo tipo di operazioni Manzoni si pone come precursore dell’arte concettuale: disegnando una linea su di un foglio di carta della lunghezza di un chilometro ed inscatolandola per sempre in un cilindro di metallo che ne testimonia la presenza solo attraverso un’etichetta autocertificatoria, l’artista congela il suo gesto per l’eternità e così facendo crea un’espressione di un ‘tempo spazializzato’. L’arte diventa così un atto puro in cui la riconoscibilità dell’autore coincide quasi con la presenza stessa della dimensione creativa dell’arte: la critica al modo di produzione industriale si allarga qui anche alla critica del disegno industriale, inteso quale premessa di un modo di produzione seriale e indeterminato. Altro artista presente nella sezione introduttiva, Victor Vasarely annovera qui alcune foto riproduzioni di sue opere a significare l’importanza per il Gruppo T di un approccio scientifico e di ricerca nel campo dell’arte, compiuto appunto da Vasarely con le sue composizioni optical, legato alla sua visione di un’arte riproducibile alla stregua di un prodotto industriale. “L’arte è un fenomeno sociale. Sotto questo aspetto”, afferma infatti l’artista allievo del Bauhaus ungherese (il Muhely) quindi trasferitosi a Parigi, “l’opera unica artigianale non è fine a se stessa ma inizio: è concepita per essere ricreata, moltiplicata, trasmessa, diffusa con i mezzi tecnici della nostra civilizzazione. L’opera d’arte (concentrazione di tutte le qualità in una sola) appartiene al passato; ora incomincia l’era delle qualità plastiche perfettibili nei numeri progressivi. Se ieri l’arte significava ‘sentire e fare’, oggi significa forse ‘concepire e far fare’ Se in passato la dura abilità dell’opera si basava sull’ottima qualità dei materiali,
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sulla perfezione tecnica e sull’abilità manuale, oggi risiede nella coscienza di una possibilità di ‘ricreare, moltiplicare e diffondere’. Così sparirà, con l’artigianato, il mito del pezzo unico e trionferà infine l’opera che può essere diffusa grazie alla meccanizzazione. Non bisogna temere i nuovi mezzi che la tecnica ci ha dato; non possiamo vivere che nella nostra epoca.” 15 Si nota l’attenzione dell’artista al superamento della discriminazione tra artigianato e arte, retaggio della formazione avuta presso il Muhely, e la ferma fiducia nel progresso e nell’ampliamento dei limiti consentito dalla rivoluzione tecnologica e industriale, con il fine si giungere ad una concezione dell’arte non più autoriale ma piuttosto accessibile a molti. Il tema è caro anche agli operatori del Gruppo T, i quali – come verificheremo più avanti – collaborarono con Danese nella realizzazione di multipli d’arte, come a suo tempo fece lo stesso Vasarely con le Edition MAT. Va sottolineato -soprattutto ai fini dell’interesse per questo artista da parte del Gruppo T – che la sua attività fu incentrata sulla spazialità e sul movimento, e sulla loro rappresentazione attraverso le modalità del cinetismo plastico, una poetica che cercava, con gli elementi grafici, cromatici e geometrici, di generare la percezione di un falso movimento agli occhi del fruitore. Una ricerca simile veniva condotta anche da Làszlò Moholy-Nagy, ungherese anch’egli, e, come Vasarely, precursore della op art: se da un punto di vista artistico e grafico viene ricordato soprattutto per i suoi studi fotografici sul movimento e sulla luce, per quanto riguarda l’arte cinetica va ricordato come uno dei padri delle opere in movimento. Infatti, di formazione costruttivista, la sua ricerca era incentrata sull’attivazione dello spazio attraverso un sistema dinamico di forze realmente in tensione, che non si risolveva soltanto nella grafica e nella fotografia ma si sostanziava anche nella produzione di sculture: “dobbiamo dunque mettere al posto del principio statico dell’arte classica, il principio dinamico della vita universale”. A questa dichiarazione segue la presentazione nel 1930 all’Esposizione internazionale della costruzione di Parigi della sua “Macchina luminosa” (o Lichtrequisit): una macchina a superfici riflettenti, una scultura in movimento in costante dinamismo. L’opera era divisa in tre parti: nella prima pezzi metallici rettangolari in movimento irregolare, nella seconda dischi metallici perforati muovono una piccola palla nera, nella terza gira una spirale di vetro che produce un volume conico virtuale. Il tutto è mosso da un motore ed è decorato da un centinaio di lampadine elettriche di diverso colore che creano un complesso spettacolo luminoso. 15, Victor Vasarely, Manifesto sul sistema di forme dinamico-costruttive 43
fig. 27: Làszlo Moholy-Nagy, ‘Macchina luminosa’ (o Lichtrequisit), 1930 fig. 28: Naum Gabo e Antoine Pevsner, modellino per il ‘Monumento della Terza Internazionale’ (mai realizzato), che nel progetto consisteva di una torre che racchiudeva tre grandi elementi geometrici in perenne movimento a rappresentare giorni, mesi e anni
Nella redazione del suo manifesto, Moholy-Nagy si era ispirato alle teorie dei fratelli Gabo e Pevsner, russi formatisi agli insegnamenti del costruttivismo, e quindi, una volta fuoriusciti, attratti dalla ricerca estetica fondata sul metodo scientifico, al fine di dimostrare una sostanziale continuità tra scienza ed arte, in una visione molto politica dell’arte che non doveva volgere il suo interesse esclusivamente verso la realizzazione di capolavori, frutto di tecniche raffinate e preziosi materiali, destinati alle élites, ma doveva essere una ricerca di tipo scientifico nel campo della conoscenza estetica, i cui risultati non erano dunque opere d’arte ma esempi della ricerca stessa. “(...) Spazio e tempo sono oggi per noi rinati. Spazio e tempo sono oggi le uniche forme su cui la vita è costruita e su ciò deve quindi essere edificata l’arte. (…) 1. Perciò nella pittura rinunciamo al colore in quanto elemento pittorico: il colore è la superficie ottica idealizzata degli oggetti; è un’impressione esteriore e superficiale; è un accidente che non ha nulla in comune con l’essenza più intima dell’oggetto. Affermiamo che la tonalità della sostanza, cioè il suo corpo materiale assorbente l a luce, è l’unica realtà pittorica. 2. Rinunciamo alla linea in quanto valore descrittivo: nella vita non esistono linee descrittive; la descrizione è un segno umano accidentale sulle cose, non è tutt’uno con la vita essenziale e con la struttura costante del corpo. La descrittività è un elemento d’illustrazione grafica, è decorazione. Affermiamo che la linea vale solo come direzione delle forze statiche e dei loro ritmi negli oggetti. 44
3. Rinunciamo al volume in quanto forma spaziale pittorica e plastica: non si può misurare il liquido col metro. Guardiamo lo spazio... Che cos’è se non una profondità continuata? Affermiamo il valore della profondità come unica forma spaziale pittorica e plastica. 4. Rinunciamo alla scultura in quanto massa intesa come elemento sculturale. Ogni ingegnere sa che le forze statiche di un corpo solido e la forza materiale di esso non dipendono dalla quantità della massa. Es.: un binario, un profilato a T, ecc. Ma voi, scultori di ogni ombra e rilievo, aderite ancora al pregiudizio vecchio di secoli secondo cui non è possibile liberare il volume della massa. Qui, in questa mostra, prendiamo quattro piani e ne otteniamo lo stesso volume come se si trattasse di quattro tonnellate di massa. Perciò reintroduciamo nella scultura la linea come direzione e in questa affermiamo che la profondità è una forma spaziale. 5. Rinunciamo alla delusione artistica radicata da secoli secondo cui i ritmi statici sono gli unici elementi delle arti plastiche. Affermiamo che in queste arti vi è il nuovo elemento dei ritmi cinetici in quanto forme basilari della nostra percezione del tempo reale. Questi sono i cinque principi fondamentali del nostro lavoro e della nostra tecnica costruttiva. Oggi noi proclamiamo davanti a tutti voi la nostra fede. Nelle piazze e nelle strade esponiamo le nostre opere, convinti che l’arte non deve rimanere un santuario per l’ozioso, una consolazione per il disperato e una giustificazione per il pigro. L’arte dovrebbe assisterci dovunque la vita trascorre e agisce: al banco, a tavola, al lavoro, in riposo, al gioco, nei giorni feriali e in vacanza, a casa e nella strada, in modo che la fiamma del vivere non si estingua nell’umanità. Non cerchiamo consolazione né nel passato né nel futuro. Nessuno può dirci quale sarà il futuro e con quali strumenti lo si possa prevedere. È impossibile non ingannarsi sul futuro e su di esso si possono dire tutte le bugie che si vogliono. Per noi le urla sul futuro equivalgono alle lacrime del passato: il ripetuto sogno a occhi aperti dei romantici. Il delirio scimmiesco del vecchio sogno paradisiaco con indosso vesti contemporanee. Chi si occupa oggi del domani, è occupato a non fare nulla. E chi domani non ci darà nulla di ciò che ha fatto oggi, non è di alcuna utilità per il futuro. L’oggi è del fatto. Ne terremo conto anche domani. Ci lasciamo dietro il passato come una carogna. Lasciamo il futuro ai profeti. Per noi prendiamo l’oggi.” 16 16, Gabo e Pevsner, Manifesto del Realismo 45
fig. 29: Alexander Calder, ‘Steel Fish’, 1934 fig. 30: Alexander Calder, ‘Senza titolo’, 1940
E’ di rilevante importanza la direzione presa da questi artisti provenienti dall’Europa orientale, che avevano individuato come possibile sviluppo delle teorie costruttiviste la creazione di sculture in movimento, di fatto creando i presupposti per la successiva affermazione dell’arte cinetica, riferita in particolare alle opere tridimensionali in movimento, che costituiscono un superamento del movimento ottenuto attraverso ambiguità percettive tipico delle prime sperimentazioni di Vasarely e in generale dell’optical art. L’origine delle opere tridimensionali in movimento imprevedibile è difficile da definire con precisione ma la figura dominante nel panorama internazionale si può individuare nello statunitense Alexander Calder, che proseguendo una certa ricerca formale iniziata da Tatlin e Man Ray avviò una sperimentazione impregnata di personali scelte estetiche che lo portò alla creazione dei celebri mobiles. Per mobiles si intendono comunemente le sue sculture in movimento, in opposizione agli stabiles, sculture tradizionale immobile. Potevano essere di due tipi: su piedistallo o appesi a fili, ma in ogni caso erano prodotti con materiali industriali (lamiera, profilati, tondini metallici), eventualmente dipinti con semplice vernice a smalto; erano accomunati dall’espressione del movimento 46
per il movimento, slegato da qualsiasi rappresentazione figurativa o da ogni riferimento alle forme dell’inconscio (come ad esempio presenti invece nella pittura di Mirò): “generalmente “, ha scritto Jean Paul Sartre, “egli non imita nulla, e io non conosco arte meno menzognera della sua. La scultura suggerisce il movimento, la pittura suggerisce la profondità o la luce. Calder non suggerisce niente: egli afferra degli autentici movimenti vivi, e li lavora. I suoi mobiles non significano niente, non rimandano ad altro che a se stessi: essi sono, ecco tutto; sono degli assoluti” 17 Se in un primo momento, per muovere queste macchine, l’artista le aveva dotate di piccoli motorini elettrici, successivamente si orienta verso una scultura in cui il movimento è dato dalle forze naturali, intese sia come forza di gravità o agenti atmosferici (vento) sia come l’azione fisica dello spettatore stesso, chiamato in causa in una stretta interazione con l’opera d’arte, a modificare l’instabile equilibrio delle sue parti meccaniche. Il movimento quindi deriva dalla perdita dell’equilibrio di forze naturali sul quale è basato ed in questo rivela tutta la sua paradossale naturalità, pur essendo la struttura composta da elementi artificiali, assemblati dall’artista, tanto è vero che Marcel Duchamp paragonò i mobiles di Calder ad alberi mossi dal vento. fig. 31: Jean Tinguely, ‘Meta Malevic’, 1954
17, Les mobiles de Calder, catalogo della mostra 47
Sulla linea di ricerca tendente all’esaltazione della dimensione cinetica nell’opera d’arte possiamo inserire a pieno titolo anche l’attività dello svizzero Jean Tinguely, formatosi artisticamente in Francia dove aderisce al movimento Nouveau réalisme, anch’esso come i precedenti presente nella sezione introduttiva della mostra del Gruppo T, ma in questo caso con una vera e propria opera d’arte ceduta provvisoriamente in fiducia a questi giovani (e allora pressochè sconosciuti) artisti milanesi, a significare una scelta di condivisione dell’impegno nella ricerca estetica. Dice Giovanni Anceschi a proposito di questa scelta: “per esempio avevamo un’opera del primo Tinguely, che in una fase successiva invece aveva dirottato la sua attività verso un’arte umoristica e dadaisto-surrealista del cinetismo con la creazione delle sue macchine-sculture dalle movenze umane, mentre nel primo periodo era incentrato su di un cinetismo più elementare. La sua opera che abbiamo esposto era una tavola nera su cui era applicata una struttura sottilissima dipinta in nero, questa struttura era composta di ingranaggi costruiti con un leggerissimo filo di ferro nero che si confondeva con lo sfondo; un motorino elettrico faceva girare questi ingranaggi su cui erano applicate delle forme bianche che quindi creavano un astrattismo cinetizzato.”•
• da intervista citata 48
la dimensione spaziale: Lucio Fontana
Il Gruppo T scelse di avvalersi dei testi critici di Lucio Fontana: questa scelta in realtà era ben meditata da parte del Gruppo T, in quanto Fontana viene definito da Anceschi come “nostro maestro”, per la questione dello spazialismo, che insieme al tempo sono uno dei punti fondanti la poetica del gruppo. Come ci racconta Gillo Dorlfes nel suo ‘Il divenire delle arti’, Fontana stesso rappresentava quel gruppo di artisti che tra il ‘30 e il ‘40 a Milano (che aveva ormai strappato a Torino il primato industriale ed era la sola città moderna d’Italia) si stavano muovendo verso un’arte non figurativa: del gruppo, denominatosi “astrattisti milanesi”, facevano parte anche Atanasio Soldati, Mario Radice, Manlio Rho. L’influenza di questo gruppo sulla produzione artistica successiva deriva da una loro capacità di realizzare un’originale sintesi, tutta interna ai caratteri culturali nazionali, tra correnti artistiche immediatamente precedenti, metafisica e futurismo, per arrivare in modo rigoroso e non retorico a una ricerca puramente formale, nel tentativo di avvicinare la produzione artistica italiana a quella europea. In questo contesto, va ricordata l’opera di Lucio Fontana per due aspetti significativi: la nascita dello movimento artistico dello spazialismo e il gesto concettuale del taglio della tela. Anche questo riferimento del Gruppo T va annoverato all’ambiente artistico dell’Accademia di Brera, con una parentesi in Argentina, dal 1940 al 1946, periodo in cui è stato da lui redatto il Manifiesto blanco, summa teorica dello spazialismo. L’importanza di Fontana va inquadrata nella sua spinta innovativa contro ogni retaggio del figurativismo novecentesco da un lato e per il superamento anche delle istanze astrattiste dall’altro, nella ricerca invece di una nuova dimensione spazio-temporale in cui l’opera d’arte si appropria di spazi fisici nuovi, con l’ausilio dei moderni linguaggi e strumenti tecnologici. In un lungo percorso di ricerca Fontana giunge innanzitutto al quadro concepito come unico campo di colore e quindi superamento assoluto di ogni astrazione e/o figurazione; in secondo luogo, l’operazione concettuale del taglio della tela, segno dell’operato dell’artista, raddoppia quello spazio concettuale, aggiungendo da una parte una nuova dimensione al quadro in cui il taglio non è negazione ma superamento della delimitazione spaziale della tela, dall’altra congela l’atto artistico 49
nel rapporto spazio-temporale agli occhi del fruitore.
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fig. 32 (pagina a fianco): Lucio
Nel caso dell’esposizione curata dal Gruppo T, il rapporto tra questi artisti e Fontana
Fontana, ‘Taglio’, 1960
è particolarmente stringente in quanto la mostra presenta fisicamente uno dei famosi tagli ed insieme anche il Manifiesto blanco elaborato da Fontana stesso nell’ultimo periodo di permanenza in Sud America. Dal Manifiesto blanco emerge innanzitutto l’affermazione della supremazia della scienza sulle forme tradizionali del pensiero: “(...) Le scoperte della scienza gravitano su ogni organizzazione della vita. La scoperta di nuove forze fisiche, il dominio della materia e dello spazio impongono gradualmente all’uomo condizioni che non sono mai esistite nella sua precedente storia. L’applicazione di queste scoperte in tutte le forme della vita crea una trasformazione sostanziale del pensiero.” Anche l’arte astratta viene superata da nuove concezioni artistiche: “(…) Si concepì l’astrazione alla quale siamo arrivati progressivamente attraverso le deformazioni. Però questo nuovo periodo non risponde alle esigenze dell’uomo attuale. (...) È necessario quindi un cambio nell’essenza e nella forma. È necessario il superamento della pittura, della scultura, della poesia. Si esige ora un’arte basata sulla necessità di questa nuova visione. Il barocco ci ha diretti in questo senso, lo rappresenta come grandiosità ancora non superata ove si unisce alla plastica la nozione del tempo, le figure pare abbandonino il piano e continuino nello spazio i movimenti rappresentati. Questa concezione fu la conseguenza dell’idea dell’esistenza che si formava nell’uomo, la fisica di quell’epoca rivela per la prima volta la natura della dinamica, si determina che il movimento è una condizione immanente alla materia come principio della comprensione dell’universo. Arrivati a questo punto dell’evoluzione la necessità del movimento è tanto importante da non essere più raggiungibile dalle arti plastiche ed allora quella evoluzione è continuata dalla musica e le arti entrano nel neoclassicismo, pericoloso pantano della storia dell’arte. Conquistato il tempo, la necessità del movimento si manifesta pienamente. Gli impressionisti sacrificano il disegno della composizione al colore-luce. Nel futurismo sono eliminati alcuni elementi, altri perdono la loro importanza restando subordinati alla sensazione. Il futurismo adotta il movimento come principio ed unico fine. Lo sviluppo di una bottiglia nello spazio, forme uniche della continuità dello spazio iniziano la sola e vera grande evoluzione dell’arte contemporanea (dinamismo plastico): gli spaziali vanno al di là di questa idea: né pittura, né scultura ‘forme, colore, suono attraverso gli spazi’. Coscienti ed incoscienti in questa ricerca, gli artisti non avrebbero potuto raggiungere la finalità senza poter disporre di nuovi mezzi tecnici necessari e di nuove materie. Ciò giustifica l’evoluzione del mezzo nell’arte. Il trionfo del fotogramma, ad esempio, è una testimonianza definitiva 51
per l’indirizzo preso dallo spirito verso il dinamico. Plaudendo a questa trasformazione nella natura dell’uomo, abbandoniamo la pratica delle forme di arte conosciuta ed affrontiamo lo sviluppo di un’arte basata nell’unità di tempo e dello spazio. L’esistenza, la natura, la materia sono una perfetta unità e si sviluppano nel tempo e nello spazio. Il movimento, proprietà di evoluzione e di sviluppo è la condizione base della materia; questa esiste ormai in movimento e non in altra forma, il suo sviluppo è eterno, il colore ed il suono sono i fenomeni attraverso il cui sviluppo simultaneo s’integra la nuova arte. Il subcosciente, dove si annidano tutte le immagini, che percepisce l’intendimento, adotta l’essenza e le forme di queste immagini, accetta le nozioni che informano la natura dell’uomo. Il subcosciente plasma l’individuo, lo completa e lo trasforma gli dà l’indirizzo che riceve dal mondo e che l’individuo di volta in volta adotta. La società tende a sopprimere la separazione fra le due forze per riunirle in una sola forma maggiore, la scienza moderna si basa sull’unificazione progressiva fra i suoi elementi. Da questo nuovo stato della coscienza sorge un’arte integrale nella quale l’essere funziona e si manifesta nella sua totalità. Passati vari millenni del suo sviluppo artistico analitico, arriva il momento della sintesi. Prima la separazione fu necessaria, oggi costituisce una disintegrazione dell’unità concepita. Concepiamo la sintesi con una somma di elementi fisici: colore, suono, movimento, spazio, integranti un’unità ideale e materiale. Colore, l’elemento dello spazio, suono, l’elemento del tempo ed il movimento che si sviluppa nel tempo e nello spazio. Sono le forme fondamentali dell’arte nuova che contiene le quattro dimensioni dell’esistenza. Questi sarebbero i concetti teorici dell’arte spaziale, brevemente esporrò la parte tecnica e la sua possibilità di sviluppo, che contiene le quattro dimensioni dell’esistenza. L’architettura è volume, base, altezza, profondità, contenute nello spazio, la 4a dimensione ideale dell’architettura è l’arte. La scultura è volume, base, altezza, profondità. La pittura è descrizione. (…) A questa nuova architettura un’arte basata su tecniche e mezzi nuovi; Arte spaziale, per ora, neon, luce di Wood, televisione, la 4a dimensione ideale dell’architettura.” Nonostante riconosca all’architettura coeva una spinta verso il moderno, va ricordato infatti l’affermarsi del razionalismo, Fontana se ne discosta aggiungendo nell’arte la dimensione della quarta dimensione, quella dell’arte spaziale, fatta di nuovi spazi e materiali e basata sul concetto di modernità e di movimento, un’arte che travalichi il contingente della sua essenza per arrivare ad una nuova forma di arte. 52
“La Torre di Babele è un esempio antichissimo della pretesa dell’uomo per il dominio dello spazio. La vera conquista dello spazio fatta dall’uomo, è il distacco dalla terra, dalla linea d’orizzonte, che per millenni fu la base della sua estetica e proporzione. Nasce così la 4a dimensione, il volume è ora veramente contenuto nello spazio in tutte le sue dimensioni. La prima forma spaziale costruita dall’uomo è l’aerostato. Col dominio dello spazio l’uomo costruisce la prima architettura dell’Era Spaziale - l’aeroplano. A queste architetture spaziali in movimento trasmetteranno le nuove fantasie dell’arte. Si va formando una nuova estetica, forme luminose attraverso gli spazi. Movimento, colore, tempo, e spazio i concetti della nuova arte. Nel subcosciente dell’uomo della strada una nuova concezione della vita; i creatori iniziano lentamente ma inesorabilmente la conquista dell’uomo della strada. L’opera d’arte non è eterna, nel tempo esiste l’uomo e la sua creazione, finito l’uomo continua l’infinito.” 18 fig. 33: un’istantanea dell’atto artistico di Lucio Fontana, parte della serie che gli viene dedicata da Ugo Mulas
18, Lucio Fontana, Manifiesto Blanco 53
l’arte cinetica: Bruno Munari
L’altra forte personalità artistica che il Gruppo T invita a partecipare alla sezione introduttiva con dignità di maestro è Bruno Munari, che in quella occasione ebbe la possibilità di conoscere personalmente questi giovani artisti milanesi, di cui sarebbe diventato, oltre che capo scuola e punto di riferimento imprescindibile, anche amico. Il ruolo di maestro conferito a Munari trova la sua ragione d’essere nel fatto che era stato il primo artista italiano a introdurre l’arte cinetica nel nostro Paese; come abbiamo accennato sopra, in questa operazione egli si rifaceva alle teorie del basic design; a riprova di quanto fosse fondamentale il progetto di parificare arte e design del Bauhaus, è da sottolineare come i primi episodi di trasmissione della disciplina nel panorama italiano siano ascrivibili a delle figure artistiche. Bruno Munari era di sicuro a conoscenza delle ricerche portate avanti dalla scuola di Ulm, ne è la prova il fatto che in uno dei volumi della serie sulle figure geometriche compaia la ‘Octanosfera’ di Walter Zeischegg. Ma si può anche azzardare che Munari aderì alla disciplina del basic design, facendosene portavoce in Italia: lo si può riscontrare appunto nella sua serie di volumi sulle tre figure geometriche base, ‘Il quadrato’, ‘Il cerchio’ e ‘Il triangolo’, che altro non sono che un corso di basic fatto libro, una piccola lezione teorica destinata a stimolare la cultura visiva del pubblico italiano. E inoltre, sempre osservando la ‘Octanosfera’, si può notare come possieda somiglianze formali e strutturali forti con l’opera ‘Tetracono’ di Munari. E ancora, in questo senso, gli studi compiuti a partire dal 1947 sulla forma tridimensionale dei “Concavi-convessi”, in rete metallica, hanno forti analogie formali con le contemporanee e similari ricerche scultoree di Max Bill. “Ci sono due modi di impostare un programma di insegnamento... c’è un modo statico e un modo dinamico. C’è un modo nel quale l’individuo viene forzato ad adattarsi ad uno schema fisso, quasi sempre superato o comunque, nel migliore dei casi, in via di superamento nella realtà pratica di ogni giorno. E un altro modo che si va via via formando, modificato continuamente dagli stessi individui e dai loro problemi sempre più attuali... Nel caso dell’insegnamento dinamico, gli insegnanti studiano un programma di base, il più avanzato possibile e quindi continuamente modificabile secondo gli interessi che emergono dall’insegnamento stesso. Solo alla fine del corso si saprà quale forma avrà avuto e come si sarà sviluppato.”19 19, Bruno Munari, Design e comunicazione visiva 54
fig. 34: Bruno Munari, ‘Macchina inutile’, 1952
Lo stesso Anceschi ricorda così l’opera che Munari concesse per l’esposizione della galleria Pater: “una struttura modulare, una lastra di alluminio suddivisa in strisce e composta di moduli quadrati; tutte le parti di quest’unica lastra sono imperniate da una parte con un filo di nylon che le lega in modo da dare loro la forma di un blocco di volumi virtuali non più vorticosi ma volumi pensati; un’opera di una bellezza straordinaria, forse il motivo per cui abbiamo ritenuto di non esporre anche Calder”. • Si può parlare quindi di un’opera d’arte che riflette da una parte delle commistioni con il mondo del design, per la sua matrice industriale, dall’altra di una messa in atto delle ricerche visive sulla configurazione per quanto riguarda la sua forma in divenire. Davanti alla necessità di valutare la sua opera, la prima domanda che ci si deve porre è se vada definito come un artista o come un designer. Munari fu in questo una rivoluzione per l’Italia; il design con lui si è inventato nella prospettiva di una sintesi delle arti, nuova assiologia tra l’arte e l’arte decorativa, capace di rivedere l’idea delle arti totali. Infatti a Milano Bruno Munari elabora il concetto di artista-designer, rivalutando i rapporti tra l’arte e l’industria. Piuttosto che fondere le differenti discipline, Munari decide radicalmente di dissolverle e rimaterializzarle, per rinnovarle con la pratica quotidiana democratica e rivoluzionaria dell’arte. “L’arte non è più il quadro nel salotto, ma l’elettrodomestico in cucina”, scrive Munari in un articolo pubblicato sul quotidiano “Il Giorno” nel 1966. Oltre ad essere cofondatore del MAC, Movimento Arte Concreta, Munari fu anche grafico, autore e designer, o artista/designer grazie alle sue macchine inutili: chiamate macchine perché erano il risultato di un assemblaggio e inutili “perché • da intervista citata 55
fig. 35: Bruno Munari, ‘Macchina inutile’, 1952 fig. 36: Bruno Munari, ‘Macchina inutile a giostra’, 1953
non producono nulla. Al contrario delle altre macchine, queste non producono alcun bene di consumo, niente di materiale, non eliminano la manodopera e non fanno aumentare il capitale”. 20 Con queste formule pone la questione dell’eventuale povertà dell’arte e della sua rivitalizzazione con il design: in questo senso si può iscrivere Munari nella tradizione del design. Con la redazione del Manifesto del macchinismo del 1938, Munari intende fare esplodere le distinzioni tra le categorie di differenti espressioni artistiche, tra le arti liberali e le arti applicate. Egli decreta la fine dell’artista in contrasto con il mondo moderno cui sostituisce un nuovo artista, capace di concepire l’elettrodomestico e ogni altro oggetto utile del quotidiano, praticamente di instillare dignità e grandezza ovunque. Con questa poetica Munari ci riporta alle difficoltà incontrate nel porre frontiere chiare tra l’arte e il design e teorizza una ridefinizione di quest’ultimo che riguarda gli oggetti globali, sociali, urbani e politici: “che cos’è dunque il design se non è uno stile o un’arte applicata? È la progettazione più obbiettiva possibile di tutto ciò che costituisce l’ambiente nel quale l’uomo oggi vive. Un ambiente che comprende tutti gli oggetti industriali, dal vetro alla casa, fino alla città.”(ibidem) Per Munari il design supera il quadro fisso o convenzionale e abbraccia una nozione più vasta, che deriva dalle teorie di arte totale del Bauhaus sulla costituzione dell’ambiente. Munari inventa il concetto di artista-designer a partire da una rivalutazione dei rapporti tra arte e industria. Nei due manifesti intitolati Le Arti e la tecnica e Linea e obbiettivi del MAC del 1953, i teorici del gruppo, Franco Passoni e Gillo Dorfles precisano quanto la “sintesi delle arti” che si sa essere lontana dall’essere una formula ex novo è sempre valida finche permette 20, Bruno Munari, Arte come mestiere 56
fig. 35: Bruno Munari, ‘Il cerchio’, pubblicato con Corraini nel 1953. si può intendere come un tentativo da parte dell’autore di sviluppare una risposta didattica italiana al basic design, che ormai a Ulm stava vivendo la sua fase più florida. questa tesi è supportata dalla fotoriproduzione del ‘Octanosfera’ di Walter Zeischegg qui riportata.
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fig. 36 (pagina a fianco) Gruppo T, manifesto ‘Miriorama, 1960
di sviluppare un “concorso diretto dei tecnici e degli artisti su un piano di stretta collaborazione, nella prospettiva finale di raggiungere un risultato concreto che aderisce alla funzione, in un legame armonico tra i mondi della forma, dello spazio e l’applicazione pratica dell’opera collettiva.” 21 Il MAC entra cosi nel dibattito sulla tecnologia e l’espansione del design, che Max Bill teorizza nella Hocshule fur Gestaltung di Ulm, una scuola che “conceda ancor più valore al design degli oggetti, dia più spazio all’urbanistica e alla pianificazione, attualizzi la sezione visual design, e aggiunga infine una sezione informazione. Noi non facciamo che rispondere ai bisogni natura della nostra epoca”. Rispondere a questi bisogni, per Munari, riporta a definire il designer come “l’artista del nostro tempo”. Questa posizione modifica non solamente l’accezione tradizionale dell’artista e del designer, ma metamorfizza tanto il territorio dell’arte che quello del design. In questo senso il contributo di Munari rompe i classici limiti tra i campi disciplinari e ridefinisce al di là delle categorie l’arte e il design come un’unica nozione rivoluzionaria.
21, Arte Programmata 1962, catalogo a cura di Marco Meneguzzo 58
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la poetica del Gruppo T, tra arte e design
Abbiamo visto precedentemente quelle che sono state le ricerche analoghe, coeve e non, al Gruppo T. Ora vedremo nello specifico la poetica del gruppo stesso attraverso i suoi tratti più caratteristici. La prima affermazione da fare riguarda il nome stesso sotto il quale si sono riuniti gli artisti oggetto del presente studio: la “T” del nome Gruppo T sta ad indicare la parola “tempo”, con ciò volendo sottolineare il fatto che la loro poetica artistica si esprimeva nel divenire e quindi affidando alla dimensione temporale un’importanza sostanziale. Dalla lettura del manifesto di Miriorama 1 si evince l’importanza data da questi operatori al concetto di spazio riferito al tempo, che è il vero nodo centrale della loro poetica, incentrata non sulla rappresentazione del tempo ma sulla sua presentazione in divenire. A questo proposito ricordiamo le affermazioni di Davide Boriani: “la prima idea (di programmazione, n.d.a.) nasce dal concetto di tempo: io facevo dei monocromi craquelé, che si screpolavano casualmente, con l’andare del tempo: mi divertiva di più vedere la materia che si trasformava da sola che il quadro fatto casualmente, automaticamente, in serie: le serie di quadri erano come sequenze di fotogrammi: cercavo allora di superare l’idea di opere e casuali e conseguenti con una cosa unica che le contenesse tutte: il tempo era la dimensione che poteva riuscire a contenere tutte le operazioni possibili. Ne parlai con Anceschi, che mi diede dei testi, tra cui Bergson, e da lì nacque la nostra idea di arte cinetica. Cioè le tre dimensioni non sono più sufficienti; ogni cosa si trasforma; se facciamo un quadro con la dimensione temporale dobbiamo far vedere questa attraverso la variazione temporale dell’immagine; la variazione fa percepire la durata, il tempo; la variazione non si esprime con i mezzi tradizionali dell’arte, ma con mezzi ‘altri’...per questo pensavo a una macchinetta, ma Devecchi obbietta che il meccanismo si ripete, così si deve inserire qualcosa che turbi questa ripetitività attraverso la componente casuale, il caso, Colombo, sempre elegante, si preoccupa dell’antiesteticità del meccanismo, ma alla fine, già nell’ottobre ‘59 avevamo fatto le prime cose”22 Da questa intervista si evince la centralità, per il Gruppo T, dell’interesse per le tematiche dell’arte cinetica e programmata, termine quest’ultimo che viene coniato da Bruno Munari nel 1962, per la celebre mostra Arte Programmata, 22, Arte Programmata 1962, catalogo a cura di Marco Meneguzzo 60
fig. 37: Gianni Colombo, ‘Strutturazione fluida (nastro), 1960
patrocinata da Olivetti e ospitata nei negozi del marchio a Milano, Torino e Venezia. Munari stesso spiega come è nata la definizione di arte programma: “L’ho trovato io. Naturalmente ci sono ancora dei legami coi princìpi futuristi della velocità e del movimento, ma anche della fissità e della variazione. Per esempio, l’albero è un oggetto programmato perché ha i suoi tempi e ogni tempo produce un effetto diverso. Per programmazione si intende un tipo di progettazione che permette infinite o molte varianti dello stesso tema” (ibid.). Va aggiunto altresì che la stessa Olivetti ha esercitato una positiva influenza sulla scelta del nome: infatti in quegli anni era l’industria delle macchine di calcolo o programmatrici e quindi il concetto di programmazione rientrava nei cardini della produzione industriale del gruppo di Ivrea. Inoltre sia Olivetti che Italsider rappresentavano la nuova industria del boom economico: un’industria basata sulle nuove tecnologie e su di una visione illuminista che tendeva a eliminare i confini e le distinzioni tra mondo dell’industria e mondo dell’arte. Mentre ad esempio il pittore Eugenio Carmi era stato investito da una funzione di art director rispetto alla comunicazione esterna di Italsider, è emblematico il caso della Olivetti, azienda all’avanguardia in Italia, e non solo, per lo stretto rapporto tra produzione industriale, ricerca del coinvolgimento attivo dei dipendenti nelle strategie aziendali, qualificazione architettonica degli spazi produttivi 61
e di riposo, fin quasi a realizzare un modello ideale di città fabbrica con il contributo dei migliori architetti. In questa prospettiva, fondamentale il contributo di Adriano Olivetti, che a queste linee guida darà addirittura la forma di un partito politico, il movimento di Comunità, e che comunque aprirà letteralmente le porte della fabbrica ad artisti, intellettuali e scrittori tra i più qualificati e conosciuti dell’epoca, in un inedito rapporto tra mecenatismo e committenza. L’esempio di Olivetti resterà emblematico per l’alta qualità della produzione industriale, intrinsecamente innovativa, e l’attenzione ai contenuti culturali della propria proposta, affidata ad artisti, designer e scrittori. Dopo l’esordio alla galleria Pater nel 1960, la partecipazione del Gruppo T alla grande iniziativa promozionale curata da Bruno Munari per Olivetti fa assurgere immediatamente i giovani artisti milanesi al ruolo di protagonisti delle scene dell’arte contemporanea. L’iniziativa Arte Programmata si caratterizza poi per il contributo del giovane semiologo piemontese Umberto Eco, presente con alcuni testi nel catalogo della mostra. Significativo il fatto che negli stessi anni Eco si segnala come una delle presenze più vive e stimolanti dell’esperienza interdisciplinare di quegli anni nota come Gruppo ‘63, ampia e qualificata aggregazione di filosofi, scrittori, artisti visuali, poeti, critici letterari, che dominerà la scena culturale degli anni successivi, accompagnando la stagione della neoavanguardia degli anni Sessanta. Sulla qualità dell’intervento di Eco, Davide Boriani ebbe a dire: “il suo testo è molto interessante. Fino alla Olivetti noi abbiamo avuto interventi critici ‘variopinti’, nel senso che parlavano di neodadaismo, qualcuno di futurismo ma senza molto interesse. Invece Eco, forse per non essere un critico abituato alle categorie artistiche, ha dato una lettura in termini giusti, sia nel testo per la mostra che in quello per l’ ‘Almanacco Bompiani’. Poi è arrivato Argan”. (ibidem). A riprova dell’attenzione e della fiducia dimostrate dall’opinione pubblica dell’epoca verso le nuove tecnologie – si stava infatti andando verso la prima fase della rivoluzione informatica che successivamente, con l’estendersi dell’uso del computer, modificherà radicalmente i modi di produzione e di diffusione della conoscenza – va sottolineato il fatto che nello stesso anno, il 1962, l’“Almanacco Bompiani” (pubblicazione periodica con cadenza annuale, dedicato di volta in volta alle problematiche più discusse ed attuali) è interamente dedicato al tema “LE APPLICAZIONI DEI CALCOLATORI ELETTRONICI ALLE SCIENZE MORALI E ALLA LETTERATURA”: sulla copertina è presente un’opera di grafica programmata, In tempi successivi, 4 cerchi attraversano un quadrato nell’ordine, firmata da Gianni Colombo, membro del Gruppo T. 62
fig. 38: copertina di ‘Arte programmata, 1962’, catalogo della mostra itinerante patrocinata da Olivetti fig. 39: copertina di ‘Almanacco letterario Bompiani, 1962’ che ospita al suo interno interventi di grafica programmata del Gruppo T
Il saggio di Umberto Eco ivi ospitato, “La forma del disordine”, si segnala per la sua capacità di fissare con chiarezza i tratti distintivi di un’epoca di tumultuosa evoluzione nel dibattito dell’arte contemporanea; è addirittura contraddistinto da un linguaggio biblico nel suo esordio: “In principio era l’Ordine. E la terra era informe e vuota. Poi lo Spirito di Dio soffiò sopra le acque e fu il Caos. E con esso la vita, l’immensità dei possibili, la giovinezza della novità perpetua e della creazione perenne. Cosi la nuova cosmologia, se non fosse diffidente di ogni metafisica e non tentasse saggiamente di disconoscersi proprio come cosmologia per riconoscersi metodologia, dovrebbe organizzare il suo mito della creazione, posto che volesse trovar proseliti tra le masse dei semplici e scolpire sui timpani dei grandi edifici, che ospiteranno le calcolatrici elettroniche, le storie della creazione. Ma i tecnici della nuova cosmologia statistica restano schivi e silenziosi nei grandi monasteri sterilizzati eretti dalla Chiesa Industriale, e quasi avessero il mondo in gran dispetto, perforano su schede i segnali binari delle loro immense summae cibernetiche. Sono la Bit Generation.” Subito dopo questo irriverente gioco di parole, Eco prosegue richiamando la dialettica tra arte e il Caso: “E l’arte? Attentissima, le antenne tese, coglie confusamente la forma del nuovo mondo in cui l’uomo va abitando e cerca di esprimerlo come può e come deve, per figure. La scienza scopre il Caso? L’arte si butta a corpo morto sul Caso, e lo fa suo.” Dinnanzi a questo dilemma, Eco presenta le due grandi famiglie della creazione artistica, così definibili rispetto all’incidenza del Caso sulla creazione estetica. Il primo di questi approcci è quello che possiamo definire, con le parole di Eco, romanticismo del Caso. 63
“Si sprizzano follemente tubetti di colore sulla tela stesa in terra, si picchia con un martello sul pianoforte: il Caso disegna le sue figure e il pittore le coglie e le riconosce per sue, il Caso orchestra i suoi rumori e il musicista li accoglie nella sua gamma priva di pregiudizi. Ma in verità, quanto più è artista, tanto più chiede aiuto al Caso ma infine lo addomestica, lo dirige, lo sollecita ma lo sceglie, lo accetta ma ne rifiuta una parte, non fa a caso le sue forme ma dà delle forme al Caso.” Il secondo fondamentale approccio al rapporto tra arte e casualità il saggio lo individua in quella corrente che possiamo chiamare della probabilità statistica del Caso: “Ma se cosi fa il romanticismo del Caso, l’espressionismo astratto, la pittura di azione, il neo-dada musicale, si potrà tuttavia afferrare il Caso anche dal lato opposto: prevederlo, programmarlo, non sceglierlo una volta accaduto, ma farlo accadere secondo le regole imprescindibili della probabilità statistica, in cui il massimo di casualità coincide col massimo di prevedibilità.” Eco poi, tentando di inventare una nuova definizione per questi operatori estetici, “pittori? o programmatori? pianificatori di forme?”, prosegue ricordando come costoro “assumono dunque per lo più una conformazione geometrica di base e la sottopongono a rotazioni e permutazioni (così come avviene per certe serie musicali) programmandone tutte le variazioni necessarie e allineandole tutte senza discriminazione. Risultato: non una forma, ma la pellicola di una forma in movimento, o la scelta complementare tra varie forme. Il principio è rigorosissimo, il punto di partenza la immobilità perfetta delle forme classiche che facevano impazzire di vertigine matematica i teorici della Divina Proporzione. Niente di più lontano dalla irresponsabile libertà della pittura informale. Ordine e geometria, ecco il punto di partenza. Il punto d’arrivo invece non dipende più dal programmatore, ma appartiene a quella zona di libertà in cui si muove il mondo subatomico, quello della equiprobabilità statistica. (...) Cosi la programmazione statistica del Caso ci può dare una regolarità quasi assoluta, che nasce però da una decisione opposta da quelle del costruttore pitagorico alla ricerca delle proporzioni e dei moduli ottimi tra tutti. Per cui avremo, negli esercizi di questi programmatori, una proporzione raggiunta per negazione, un rinascimento capovolto, una Diabolica Sproporzione, ovvero la Sezione Plutonica. (...) Sproporzione diabolica perché sospende nell’indeterminato la scelta dei possibili: fissato l’elemento di base e programmatene le permutazioni, l’opera non consiste nell’elemento meglio riuscito, scelto tra tutti gli altri, ma proprio nella compresenza di tutti gli elementi pensabili.” Umberto Eco si cimenta poi direttamente con l’analisi di una delle opere 64
fig. 40: Bruno Munari ‘Perturbazione cibernetica’
maggiormente significative dell’esposizione, realizzata dal suo stesso curatore, Bruno Munari, indicando al fruitore dell’opera la modalità stessa della sua fruizione: “Qui non si fa della critica d’arte, qui si tasta il polso al tempo. La lucida follia della ‘perturbazione cibernetica’ di Munari ha infine una sola inoppugnabile giustificazione, insospettabile perché ‘nasce bene’. Si giustifica con una formula: l’arte imita la natura. Salvo che in questo caso l’arte non imita quella natura che per abitudine percettiva vediamo tutti i giorni, ma quella che concettualmente definiamo in laboratorio. E dunque, intendendo ‘natura’ nel solo senso corretto possibile, l’arte imita non la natura, ma il nostro modo di interpretare e definire la natura, imita il nostro rapporto operativo con la natura, imita la natura come oggetto possibile di una nostra definizione che sa di definire non definitivamente. Posate gli occhi sulla ‘perturbazione cibernetica’: lasciateli scorrere lentamente, entrate nel gioco di questi bastoncelli in rotazione, fatevi prendere prigionieri da questo simbolo grafico perfetto come quello esoterico del serpente che si morde la coda, dato che la posizione finale coincide con quella iniziale, e la parola con cui il discorso grafico si apre si salda con quella con cui si chiude. Entrate dunque in questi spazio curvo finito e limitato. E ora cercate di distogliere lo sguardo, di riposarlo su di un solo particolare. Non vi riuscirete più, sarete trascinati nella danza del provvisorio e del relativo, accumulerete una informazione che non si identifica con un solo significato, ma con la totalità dei significati 65
possibili, non riceverete un messaggio, ma la possibilità di tanti messaggi compresenti. E non troverete più le coordinate tranquillizzanti che vi indichino il sopra e il sotto, la destra e la sinistra. Il cosmo esplode, si espande, si espande, dove andrà a finire? L’osservatore della prospettiva rinascimentale era un buon ciclope che appoggiava il suo unico occhio alla fessura di una scatola magica nella quale vedeva il mondo dall’unico punto di vista possibile. L’uomo di Munari è costretto ad avere mille occhi, sul naso, sulla nuca, sulle spalle, sulle dita, sul sedere. E si rivolta inquieto in un mondo che lo tempesta di stimoli che lo assalgono da tutte le parti. Attraverso la saggezza programmatica delle scienze esatte si scopre abitatore inquieto di un expanding universe. Non dico che sia una bella storia. È la Storia.” Sul tema della casualità nella ricerca estetica, Anceschi stesso interviene in questo modo: “sul versante della variazione ontologica, che cosa rende veramente interessante e non noioso il movimento? La casualità, vista sia come casualità naturale che artificiale, che possiamo definire col termine anglosassone serendipity. Che era un termine già in uso ai nostri tempi, come dimostra la prima mostra avvenuta a Londra sul tema cibernetic serendipity negli anni Sessanta e curata da una collaboratrice di Max Bense, J. Reikard, in cui la serendipità era intesa come emulazione numerica della casualità. Come fa il programmatore a mettere la casualità nel programma? La casualità è il risultato della produzione di formule complesse di serie di numeri come la radice quadrata. Si attua un inganno cognitivo che si ripercuote sulla percettività, perché in realtà la programmazione consiste in una stringa di comandi talmente complicata che la mente non li percepisce come regolari e programmati.”• Va altresì ricordato come in occasione della pubblicazione dell’“Almanacco Bompiani” del 1962 vengano commissionate al Gruppo T alcune opere di grafica programmata, che testimoniano da un lato la tensione innovativa verso le nuove tecnologie delle macchine elettroniche, dall’altro il loro approccio progettuale che è sì figlio della loro poetica artistica, ma anche sintomatico di una certa attitudine all’ibridazione con il design vero e proprio. Tra queste opere si annoverano: sperimentazioni di Anceschi con reticoli complessi, che risentono sia della loro ricerca gestaltica sia di alcune coeve sperimentazioni di Bruno Munari con retini; variazioni di posizionamento di puri segni grafici e geometrici, condotte dallo stesso Anceschi, anticipano in versione analogica una più complessa programmazione frutto di intervento elettronico che ora, a distanza di cinquant’anni, potremmo definire a tutti gli effetti generative art • da intervista citata 66
fig. 41: Giovanni Anceschi, ‘reticolo complesso generato dalla sovrapposizione di due reticoli semplici, uno quadrato, uno triangolare eqilatero’ fig. 42: Giovanni Anceschi, ‘in dieci tempi, nove rettangoli orientati orizzontalmente decrescono da 9 a 0 mentre nove rettangoli orientati verticalmente crescono da 0 a 9 secondo due schemi diversi fig. 43: Gianni Colombo, ‘in tempi successivi, 4 cerchi attraversano un quadrato nell’ordine’
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fig. 44: Davide Boriani, ‘Permutazione d’immagine con criteri cibernetici’, un ritratto del ‘500 è diviso in 400 unità modulari (oggi pixel); di ogni unità sono analizzati e tradotti in numeri i valori di luminosità (B/N) e cromatici (tre colori primari RGB). alla serie di 400 numeri è data una variazione con una componente randomica (es. nx7=x, somma delle cifre di x). la serie di numeri ottenuta, riconvertita in valori di luminosità e cromatici, genera una variante dell’immagine iniziale.
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fig. 45: Giovanni Anceschi, ‘Interferenza’, ripetizione modulare variata da un leggero sfalsamento di due diversi gruppi di elementi, pubblicata su ‘L’ultima avanguardia’, 1962
(a riprova della validità di questa operazione e del suo essere prefiguratrice dei tempi, l’opera ‘In dieci tempi’ è diventata recentemente un’applicazione per i-phone); similmente si può riscontrare nella sovrapposizione di forme geometriche in una sequenza combinatoria di Colombo un tentativo geometrico di simulare un morphing digitale; e ancora, sempre su questo filone, le significative opere di Davide Boriani, che anticipa graficamente il pixel con un’image processing ante litteram, scompone matematicamente e geometricamente in numeri e in moduli un’opera pittorica rinascimentale, ipotizzando il metodo di un calcolatore elettronico. All’interno delle diverse presenze e manifestazioni legate all’arte programmata, caratteristica del Gruppo T è sempre stata una particolare attenzione alla dimensione del movimento e della relazione spazio-temporale nello sviluppo delle arti cinetiche, intese da un lato come produzione di oggetti programmati e dall’altro come realizzazione di ambienti interattivi: ciò che interessa non è l’opera d’arte in se stessa ma la fruizione che di essa può avere uno spettatore. Era di questi anni infatti tipico della ricerca artistica di usare le modalità del disegno industriale per sviluppare una ricerca dai caratteri scientifici sulla percezione visiva in un’epoca in cui il disegno industriale e la società capitalistica avevano avviato i loro studi più approfonditi sull’immagine e la pubblicità, con tratti anche mistificatori della realtà. In opposizione critica a tali modi di persuasione massiva, gli artisti, mettendo al centro del loro operato lo spettatore, cercano di dotarlo di una capacità autonoma di giudizio e di una percezione lucida e critica del reale: in questo senso, 69
paradossalmente gli artisti più critici verso i modi di produzione industriale e la conseguente alienazione, mutuano dal sistema produttivo più intensivo e dal disegno industriale ad esso organico le tecnologie più avanzate per invece ribaltarle di segno e metterle al servizio di una diversa fruizione dell’opera d’arte. In questo senso lo spettatore diventa protagonista del rapporto occhio-manufatto artistico, in una produzione che mutua i risultati più attuali da un lungo percorso di ricerca partito dall’analisi della necessità di riprodurre il movimento attraverso la serializzazione dell’immagine. Altra caratteristica essenziale dell’attività del Gruppo T è il fatto di proporsi non come artista singolo ma come collettivo: in questo ogni referenzialità e ogni legame con le poetiche romantiche del Novecento vengono abbandonate in funzione di una nuova arte più aderente alle problematiche contemporanee, soprattutto in riferimento al rapporto arte/industria. Inoltre l’idea di collettivo è in stretta correlazione con la ricerca che gli artisti mettevano in atto, poiché presuppone un dibattito critico interno più serrato. D’altra parte proprio negli anni Cinquanta e Sessanta era piuttosto diffusa la pratica dei linguaggi culturali vissuta in collettivi, gruppi di lavoro e simili raccolti attorno ad un’unica idea di espressione artistica, spesso contraddistinta da un manifesto iniziale di esposizione delle idee e delle linee di ricerca del gruppo stesso. Il Gruppo T, ad esempio, si è ritrovato nella sua attività, più volte assai vicino ad altri collettivi capaci di esprimere teorie e pratiche alternative a quelle tradizionali nel mondo artistico, a partire soprattutto dagli ambienti più vicini all’arte visivacinetica, come il Gruppo N a Padova, Gruppo 1 a Roma, Gruppo Zero a Dusseldorf e GRAV (Group des Recherches d’Art Visuel) a Parigi e l’Equipo 57, spagnolo. E’ importante sottolineare altresì la capacità di questi diversi collettivi artistici nel collegarsi tra di loro in significative iniziative culturali con coordinamenti internazionali dove i gruppi sopra citati si costituirono in un’unica sigla, Nuove Tendenze. “L’estensione alla dimensione ambientale è la naturale conseguenza dell’interesse alla verifica dell’esperienza percettiva, in questo caso avvertita con tutto il corpo in movimento condizionato, in uno spazio predisposto in un tempo limitato. L’esperienza, ripetibile, si carica di volta in volta di variabili dipendenti dal modificarsi dell’aspettativa del protagonista”23: così Grazia Varisco puntualizza la grande attenzione degli operatori del Gruppo T verso la dimensione ambientale vera e propria della loro proposta estetica. Sul tema, interviene anche Gabriele Devecchi: “Gli ambienti sono una conseguenza naturale e il superamento degli oggetti cinetico-programmati, attuati per offrire maggiori possibilità di partecipazione. L’ambiente estingue tutto ciò 23, Gli ambienti del Gruppo T, catalogo della mostra, a cura di Lucilla Meloni 70
fig. 46: Davide Boriani, Gabriele Devecchi, ‘Ambiente cronostatico’, in un ambiente cilindrico con pareti fosforescenti una lampada UV si accende a intervalli di quattro secondi e ruota alla velocità di un giro/minuto, fissando sulle pareti in immagini persistenti le figure ed i movimenti degli spettatori
che la struttura dell’opera oggetto esibiva attraverso il supporto fisico dell’accadimento in termini di forma e materia, anche se dissimulate. Non è l’unica ragione. L’oggetto cinetico, esterno al destinatario, costituisce una polarità di variazione spaziale, basata su stimoli filtrati dal senso della vista, mentre nell’ambiente è interamente coinvolto il corpo dello spettatore, che costruisce e sperimenta cinestaticamente spazi metamorfici. (…) Gli elementi d’ordine vengono selezionati all’incrocio tra l’esperienza e la cultura.” (ibidem, pag. 29). “Perché eravamo contro la rappresentazione?”, si domanda Giovanni Anceschi, “ perché ci interessava la reazione dello spettatore, anche quello era un passo avanti, oppure, come dicono i futuristi: metteremo lo spettatore al centro del quadro. 71
fig. 47: Gabriele Devecchi, ‘Scultura da prendere a calci’, struttura in materiale espanso alloggiata su di una pedana e ancorata ad un filo che la ricompone dopo la ‘fruizione ginnicomotoria’ dello spettatore
L’hanno detto, anche se poi non l’hanno quasi mai fatto. Noi facendo gli ambienti mettiamo lo spettatore al centro del quadro, al centro dell’opera, e però se Munari è il nostro referente o maestro sul versante del cinetismo, del movimento, della variazione e della trasformazione, chi è veramente il nostro riferimento essenziale per gli ambienti è Lucio Fontana. Nel ‘49 mia madre mi accompagnò alla Galleria del Naviglio di Milano dove c’era un ambiente spaziale di Fontana, che mi ricordo come fosse adesso: l’ambiente ti dava la sensazione di essere in una caverna, perché era una specie di loft largo e lungo, occupato completamente da questa struttura fatta in cartapesta, che era immensa, 72
grandissima, con degli anfratti, delle subcaverne. Era avvolta dal buio, dipinta con vernice fluorescente e c’era la luce di wood: la luce nera come diceva Fontana, con quel suo tipico tono di stupore fantastico. Quindi ci sono due filoni: da una parte gli oggetti cinetici, chiamiamoli così, e dall’altra gli ambienti, che in tutta onestà sono la cosa più significativa. Poi c’è un’opera che si chiama Scultura da prendere a calci di Devecchi: è un ambiente però, cioè è un’installazione ambientale che ha bisogno di uno spettatore attivo; tutta l’interattività si sposta verso il dato ambientale, tutto diventa microambientale. Noi abbiamo concepito le cabine immersive quando ancora la parola immersiva non c’era. Nell’opposizione tra correnti si andava sviluppando il concetto di astrazione: prima il confronto illusionismo/astrattismo, poi astrattismo astraente/ concretismo, nel concretismo la contrapposizione e il suo superamento è tra interattivo percepito passivamente o attivamente, come nel nostro caso in cui tu sei coinvolto a lavorare nell’opera, a co-agire (interattività). Questo sviluppo delle correnti è sintomo di una ricerca che spinge sempre più verso un’arte performativa e corporale e somatica. La nostra non è solo un’arte cinetica; cinetico è una descrizione neutrale, vuol dire solo che si muove; mentre nella nostra arte la parte veramente progressiva è la componente interattiva; storicamente l’interazione che supera la contemplazione.”• La riflessione sugli ambienti come una degli aspetti più avanguardisti della loro produzione artistica deriva dal fatto che fossero appunto uno dei primi esperimenti di arte immersiva; ma non solo, erano anche un tentativo di usare l’arte come ricerca, finalizzata a misurare il gradimento estetico attraverso lo studio delle reazioni (in questo caso il tempo di visione dell’opera). In questo si rifacevano direttamente agli studi di estetologia dell’informazione di due dei massimi esponenti del basic design: Abraham Moles e Max Bense (il suo studio sulla programmazione del bello è pubblicato nel volume “Programmierung des Schonen” del 1960). Infatti, su suggerimento di Gillo Dorfles, che probabilmente ci vedeva dei tratti in comune con la loro arte cinetica, Giovanni Anceschi aveva frequentato la scuola di Ulm a cavallo degli anni sessanta. L’influenza di questa esperienza fu notevole, come ci conferma lo stesso Anceschi: “L’ambiente a variazione luminosa ha una variazione chiusa e determinata, che consiste di dodici sequenze che variano dalla più semplice alla più complessa. Quest’opera risente del mio passaggio a Ulm. Quest’opera ha un’altra peculiarità straordinaria per il fatto che noi artisti programmati l’abbiamo messa dentro a una situazione di normale utenza artistica: uno spettatore che pensava di andare a vedere un’opera d’arte, non vedeva un’opera d’arte. Gli spettatori venivano ingannati, andavano dentro a un laboratorio, • da intervista citata 73
fig. 48: Giovanni Anceschi, Davide Boriani, ‘Ambiente a variazione luminosa’
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erano cavie: che poi tutto abbia funzionato culturalmente è un altro discorso. Quando lo spettatore esce, un sensore sulla porta comunica il numero del programma di luci eseguito e il tempo di permanenza nell’opera. Qui è la grande intuizione nostra, di indicare il tempo di permanenza come indicatore della preferenza estetica, nozione complessa elaborata da Gillo Dorfles, nel suo ‘La proareresis’ o preferenza, un libro che cerca di capire perché e come preferiamo una cosa rispetto a un altra.”• L’influenza di Ulm ed in particolare del basic design si può notare in certe somiglianze concettuali e formali di alcune opere d’arte: l’”Ipercubo” di Davide Boriani risente della “Sfera topologicamente non orientabile” del corso di Basic di Maldonado e, ancora, la struttura cinetica Tricroma di Giovanni Anceschi si richiama all’esercitazione di Maldonado intitolata “Concavi e convessi”. Va sottolineato inoltre che queste opere risentono sì degli insegnamenti del basic design, di cui si fanno portatori, ma ne sviluppano i confini: l’arte cinetica programmata deve la sua originalità all’attenzione riposta nella relazione tra fruitore/ spettatore e oggetto ed all’introduzione degli ambienti, in cui si attua un’inclusione dello spettatore nell’opera. Questi due aspetti di interazione e immersività sono ora le basi della progettazione di interfacce e artefatti per il web. Come abbiamo già accennato precedentemente in quegli anni la riflessione di un’arte moltiplicata e aperta a tutti era stata introdotta, con critica e coscienza, per la prima volta dalle Edition MAT – moltiplication d’oeuvres d’art, che, alla pari di un editore avevano messo in produzione una serie di artefatti artistici progettati per lo scopo. Tra gli artisti che collaborarono a questo progetto vanno ricordati Yaakov Agam, Pol Bury, Marcel Duchamp, Jesus Raphael Soto, Jean Tinguely, Victor Vasarely, tra gli italiani Enzo Mari e Bruno Munari. Si può notare come tra questi artisti ci siano molti esponenti delle correnti storiche della neo-avanguardia europea sviluppate dal Gruppo T come l’arte cinetica e la optical art. Nel 1960 Danese decise di ripercorrere l’esempio iniziando una collaborazione con i membri del Gruppo T, cui affidò la progettazione ad hoc di alcune opere d’arte, che potremmo quasi definire come oggetti d’uso artistico, con il fine di metterle in produzione. La stessa iniziativa viene ripetuta nel 2010 grazie al patrocinio di Alessi per i cinquant’anni di vita e attività del Gruppo T a cura di Azalea Seratoni: “Non è arte, non è design, è miriorama. Miriorama vuol dire infinite visioni (dal greco orao, vedere, e myrio, che indicava una quantità pressoché infinita). (...) Nel 1960 a Milano, presso lo showroom di Bruno Danese, il Gruppo T presenta l’edizione in 10 copie numerate e firmate degli oggetti miriorama. (...) Oggi, cinquant’anni dopo, Alberto Alessi ha deciso di portare a compimento • da intervista citata 75
fig. 49: catalogo Gruppo T e Danese fig. 50: catalogo Gruppo T e Alessi: Davide Boriani ‘Giradischi ottico-magnetico’, Giovanni Anceschi ‘Abstract video’, Gianni Colombo ‘Rotoplastik’, Gabriele Devecchi ‘Miramondo’, Grazia Varisco ‘Sferisterio semidoppio’
il progetto ideale di un’arte per tutti. Non si tratta in questo caso di un’arte semplicemente riprodotta, come l’incisione, ma di un’arte concepita per essere prodotta in molte copie. È un salto di qualità definitivo: l’arte esce dalla galleria per diffondersi attraverso canali di distribuzione finora impensati. Pur mantenendo tutte le sue caratteristiche di gradimento estetico, l’opera d’arte circola come oggetto di design tra gli oggetti di design.”24 Abbiamo così di Davide Boriani ‘Giradischi ottico-magnetico’, un disco di metallo contenente polveri di ferro sotto vetro, mosse da magneti in movimento, che citava le sue prime Superfici magnetiche; di Giovanni Anceschi ‘Abstract video’, 24, Giovanni Anceschi, dal catalogo dell’iniziativa 76
un oggetto geometrico d’acciaio (mentre nella prima versione di Danese era stato usato l’alluminio) che sorregge una sacca di plastica contenente fluido rosso; di Gianni Colombo ‘Rotoplastik’, sorta di puleggia in legno, modificabile dal movimento dell’utilizzatore, citazione anche questa di una precedente opera di Colombo; di Gabriele Devecchi ‘Miramondo’, una serie di caleidoscopi in metallo la cui diversa forma determina anche la diversa visione fornita; di Grazia Varisco ‘Sferisterio semidoppio’, una scatola in legno, contenente tre diversi livelli: uno specchio, un retino e oggetti semisferici movibili a piacimento. Questo a riprova dello stretto rapporto che il Gruppo T, sull’esempio dell’attività di Munari, ha sempre cercato di instaurare tra arte e disegno industriale, con il fine ultimo di creare un’arte basata su fondamenti scientifici e culturali, ma anche accessibile al più alto numero possibile di fruitori. L’episodio di questa riedizione dei multipli creati cinquant’anni fa dagli operatori del Gruppo T testimonia di un rinato interesse verso le poetiche e le produzioni del gruppo. Storicamente invece va ricordato che a metà degli anni Sessanta l’interesse verso questo nuovo tipo di arte e il suo affermarsi culturalmente a livello internazionale vide la sua riprova con l’organizzazione della mostra The responsive eye, curata da William C. Seitz nel 1965 al Museum of Modern Art di New York. Traducendo direttamente il comunicato stampa ufficiale dello stesso Moma di allora si può leggere che “The Responsive Eye, un’esposizione di più di 120 dipinti e installazioni di 99 artisti provenienti da 15 differenti Paesi, documenta un importante sviluppo su scala mondiale di questa corrente (…) come afferma William Seitz sulle pagine del catalogo, questi lavori sono da considerarsi non solo come oggetti da esaminare, ma piuttosto come stimolatori di reazioni percettive nella vista e nella testa dello spettatore. Usando solo linee, bande e pattern, area piene di colore, bianco, grigio o nero, o di semplici legno, vetro, metallo e plastica, gli artisti della percezione instaurano un nuovo tipo di rapporto tra spettatore e opera artistica. Questi nuovi tipi di esperienze soggettive, che derivano dal contrasto dei colori, dalla persistenza retinica, dalle illusioni ottiche e da altre ricerche visive, si realizzano solo alla vista dello spettatore, tuttavia non esistono fisicamente nel lavoro stesso. Infatti ogni spettatore vede e reagisce in modo diverso. (…) Com’era uso comune nel IX secolo quando gli artisti impiegavano i nuovi metodi della prospettiva lineare, le conseguenze di questi studi avevano sviluppi anche fuori dal mondo dell’arte. Ora usano gli studi sulla vista degli scienziati del secolo scorso come Helmholtz, Hering and Chevreul, già applicati sporadicamente da artisti del tempo come Monet, Cezanne and Seurat. 77
fig. 51: Davide Boriani ‘Ipercubo’, quattro cubi concentrici ruotano su assi diversi
La nuova arte percettiva segna un picco nella storia della ricerca visuale; utilizza le dimostrazioni grafiche della psicologia della percezione (...); traduce gli esperimenti nati nelle scuole di belle arti; offre una nuova e ricca risorsa di studio per scienziati di svariati campi. Come afferma Mr. Seitz nel catalogo della mostra, la nuova arte percettiva apre a nuove affascinanti possibilità. Possono questi lavori, che non si riferiscono a nient’altro che a loro stessi, rimpiazzare il significato perso con l’efficacia dell’effetto che producono? Quali sono le potenzialità di un’arte capace di ingannare la percezione in maniera così fisica e diretta? Possono uno studio avanzato e un’applicazione di queste immagini aprire una nuova via per le emozioni e le idee generate grazie alle stimolazioni retiniche? Tra gli artisti presenti: Josef Albers, Enrico Castellani, Getulio Alviani, Piero Dorazio, Karl Gerstner, Ellsworth Kelly, Heinz Mack, Almir Mavignier, John McLaughlin, Guido Molinari, Kenneth Noland, Gerald Oster, Bridget Riley, Jeffrey Steele, Frank Stella, Tadasky, Luis Tomasello, Victor Vasarely, Ludwig Wilding; Groupe de Recherche d’Art Visuel (Francia), Gruppo ‘T’ e Gruppo ‘N’ (Italia); Equipo 57 (Spagna) e Gruppo Zero (Germania) (…).” La mostra segnò la massima celebrità raggiunta dal movimento dell’arte cinetica (e delle correnti sue affini), che venne messa in crisi dall’esplosione della pop art americana e dall’affievolirsi della spinta economica dovuta al boom industriale. Va ricordato inoltre che la mostra non ricevette molte critiche positive da parte degli intellettuali e degli addetti al settore, ma ebbe un grandissimo successo 78
a livello di pubblico, a riprova della validità di uno dei postulati caratterizzanti l’arte cinetica, e cioè la volontà di attirare l’interesse di un pubblico ampio alle manifestazioni di questa corrente. Per quanto concerne il Gruppo T il curatore della parte italiana della mostra, Enzo Mari, aveva deciso di ospitare ‘Ipercubo’ di Davide Boriani.
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la critica militante
Abbiamo potuto constatare come nella prima mostra organizzata dal Gruppo T fu fondamentale la scelta di non avvalersi di interventi critici esterni sia per una visione critica di quello che era il mondo dell’arte dell’epoca, che si erano prefissati di superare , sia anche per il contenuto avanguardista della loro espressione. La scelta non era però assoluta, ma gli artisti trovarono spesso spunti e stimoli dalle figure intellettuali e artistiche più vicine: lo stesso titolo dato alla mostra, Miriorama, è frutto del suggerimento del loro professore all’Accademia, “Enrico Bordoni, pittore, che seguendo un po’ le nostre discussioni ci ha proposto di chiamarci ‘Miriorama’, che significa: infinite visioni, molte visioni.”, come ricorda Davide Boriani in un’intervista rilasciata a Nanda Vigo nel 2010, “ho trovato poi nell’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce, nel monologo di Molly, un riferimento a un ‘miriorama’ di Poole a Dublino, che doveva essere un luogo di spettacoli. Allora noi avevamo già il nome Gruppo T ma per cortesia con il professore abbiamo deciso di usare ‘Miriorama’ come nome che avrebbe contraddistinto le nostre manifestazioni e le mostre del Gruppo T. Così abbiamo avuto due nomi, il che ha creato molte confusioni. Io per esempio ho trovato in un libro di aver fatto parte di due gruppi, il Gruppo T e ‘Miriorama’ .” Per porre chiarezza sul punto, Giovanni Anceschi aggiunge: “…perché c’è questa importante differenza fra le mostre sul Gruppo T e le mostre del Gruppo T. Le manifestazioni del Gruppo T si possono chiamare ‘Miriorama’.”25 Sempre nella stessa occasione, si può ricordare il contributo di Bruno Munari, ad esempio, che suggerì una titolazione meno elitaria ma più facilmente comprensibile per una delle opere esposte, quella collettiva che gli autori del Gruppo T volevano denominare Ambiente a volume variabile, mentre Munari suggerì Grande oggetto pneumatico, e la proposta venne accolta. Ed è sempre grazie a Munari, che aveva invitato gli artisti a esporre alla mostra Arte Programmata, di cui si è già parlato, che entrarono in contatto con Umberto Eco, che si può definire come loro primo critico, figura anomala anch’egli in questo contesto in quanto non era un vero e proprio critico d’arte quanto piuttosto un estetologo e un teorico dell’arte. Lo stesso Munari, anch’egli non critico militante, traccerà uno sguardo da critico 25, tratto da un’intervista di Nanda Vigo del 22 Giugno 2010 80
sulle opere del Gruppo T sulle pagine della rivista “Domus” (numero 5, 1961): “abbandonata la pittura e la scultura, un gruppo di giovani milanesi (che si sono riuniti nel Gruppo T) si è avviato in ricerche e scoperte interessanti, usando materiali nuovi, mezzi nuovi e producendo oggetti non più definibili con le vecchie categorie; evitato ogni preconcetto di forma e di stile, di astratto e o di informale, di geometrico e non, di pittura o di non pittura, si sono trovati di fronte a un mondo nuovo, pieno di possibilità con tecniche e schemi da inventare con la massima libertà. (…) Le loro opere sono tutte caratterizzate dalla dimensione tempo, ognuna ha una natura diversa ma tutte svolgono il loro tema oltre che nello spazio bi-o tridimensionale dell’oggetto che le presenta, anche nel tempo. Nella Galleria dove avvenne la manifestazione (…) i visitatori erano piuttosto disorientati, non sapendo ‘come’ guardare questi oggetti. Giovanni Anceschi presentava qualcosa che poteva sembrare un quadro informale, ma questo oggetto si poteva ruotare e allora la composizione, fatta con una massa fluida tra due vetri, si trasformava continuamente. Davide Boriani esponeva un grande piano orizzontale sul quale della limatura di ferro si spostava in varie direzioni, attratta dalle calamite sottostanti. Gianni Colombo presentava delle superfici verticali fatte di gomma morbida, dietro la quale una serie di sfere metalliche spostabili creava altorilievi e bassorilievi variabili a volontà. Gabriele Devecchi esponeva delle superfici verticali di gomma cosparse regolarmente, come un retino, di elementi vibranti, sporgenti, azionati irregolarmente da un meccanismo nascosto. Grazia Varisco esponeva delle forme mobili su una superficie piana, combinabili in molti modi. Il pubblico, abituato alla solita pittura o scultura, era sempre più disorientato, alcuni giovani erano entusiasti, i critici non si fecero vedere per non compromettersi in cose non ben catalogabili e incerte.” Anche Lucio Fontana, artista riconosciuto come uno dei maestri del Gruppo T, non si esime dall’intervenire in termini critici nel catalogo della mostra Miriorama 10 (Galleria “La Salita”, Roma, aprile 1961): “La pittura e la scultura non rispondono più alla sensibilità dell’uomo d’oggi. La sua sensibilità viene conformandosi continuamente sulle emergenze create dalle manifestazioni della civiltà che si rinnova. La scienza, la nozione del rapido, del mutevole, determinano nell’uomo un modo più intenso nel percepire il flusso del tempo. Questo modo nuovo di concepire la realtà non trova più nella pittura e nella scultura i mezzi atti a darne l’espressione più concreta e diretta. S’impone, per una necessità di comunicazione totale, di arrivare a un arte basata sull’unità del tempo e dello spazio. (…) Queste opere, che escono dalle categorie usuali, e sono realizzate con materiali e mezzi offerti dalle scoperte della stessa civiltà attuale, propongono un’arte che nella variazione è continuamente immersa nel presente, 81
un’arte che rifiuta la pretesa e usurata assolutezza dell’immagine per evidenziarne la relatività, che abbandona l’evocazione per la concretezza, che distrugge la forma e la ritrova nel movimento organico. La macchina è riconosciuta come mezzo atto a dare la sequenza di immagini ed esclusivamente come mezzo; usata per una necessità positiva di indagine e di comunicazione; non per esaltarla ingenuamente e nemmeno per farne oggetto di ironia negativa. Gli artisti del Gruppo T non vogliono restare ai margini di un mondo che è necessario affrontare e riconoscere nella sua validità.” Centrale nel catalogo della mostra Arte Programmata (Milano, maggio 1962), curato da Bruno Munari e dallo scrittore Giorgio Soavi (responsabile quest’ultimo dell’immagine culturale della Olivetti), l’introduzione di Umberto Eco che anch’egli si cimenta nell’analisi dei contenuti artistici: “Quello che il critico dovrà riconoscere è che l’arte del XX secolo doveva tentare di proporre all’uomo la visione di più forme contemporaneamente e in divenire continuo perché questa era la condizione a cui veniva sottomessa, a cui sarebbe stata ancor più sottomessa, la sua sensibilità. (…) Non è vero che le forme omologate dalla tradizione siano le migliori perché riflettono la stabilità dei cicli naturali. La stabilità del ciclo solare vale come punto di riferimento per un uomo che sta fermo sul pianeta mentre il pianeta si muove. Ma un uomo che muove col pianeta e in direzione opposta, a velocità superiore? Tutto il suo modo di pensare, di percepire, di far funzionare i riflessi cambierà. E tanto meglio se i geometri delle forme, i pianificatori delle polveri di ferro, gli architetti delle sfere giustapposte, i lirici dei motorini elettrici che muovo nastri colorati, olii, superfici di rete, perspex, luci, lastre, tasselli e cilindri, lo avranno abituato a considerare che le forme non sono qualcosa di immobile che aspetta di essere visto, ma anche qualcosa che si fa mentre noi lo ispezioniamo. (…) Non so bene come abbia fatto, ma è sempre stata l’arte per prima, a modificare il nostro modo di pensare, di vedere, di sentire, prima ancora, certe volte cento anni prima, che si riuscisse a capire che bisogno c’era.” Grazie alla nuova visibilità data al Gruppo T dalla partecipazione a questa iniziativa culturale itinerante, realizzata dalla Olivetti in diverse sedi italiane, si interessano ai risultati di questa produzione estetica anche critici d’arte noti come Giulio Carlo Argan, che sul quotidiano “Il Messaggero”, nel settembre 1963, scrive: “Si spostano così i termini del pericoloso dilemma di massa e individuo; al termine ‘individuo’ si sostituisce il termine ‘gruppo’. Non arbitrariamente: il pericolo della situazione attuale consiste nel fatto che molto spesso invece della socialità, si predica e difende la non-socialità la solitudine della persona. Ma il singolo è disperatamente solo nel deserto, disperatamente solo nella folla. É l’individuo 82
già spogliato di ogni interesse ed attitudine sociale, disarmato, preparato ad essere inghiottito dalla massa: ecco perché le correnti artistiche che vanno in cerca di indizi e di sintomi, e si limitano a constatare con indifferenza o magari, a denunciare con ira la situazione, ci appaiono, sul piano morale e politico, pericolosamente rassegnate e già, di fatto, alienate. Chi voglia difendere la libera attività dell’individuo dall’inerzia torpida e letale della massa, deve riflettere, anzitutto, che la qualità fondamentale della persona umana è la capacità, la volontà, di mettersi in relazione, di associarsi ad altri per un fine comune, di coordinare la propria azione all’altrui, di fare gruppo, infine, e costruire così una società che trovi nel proprio dinamismo interno l’impulso a superarsi e progredire. Non si dimentichi che la massa, o chi la dirige e la sfrutta, è sempre indulgente e perfino generosa col solitario, quand’anche ribelle; ma teme il gruppo organico e impegnato, detesta la comunità organizzata per un fine creativo, odia mortalmente la società in movimento.” Negli stessi anni anche Gillo Dorfles prende nota delle novità emerse nel panorama artistico italiano; dalle pagine del suo “Il divenire delle arti” afferma: “C’è un altro genere di arte cinetica che negli ultimi anni ha avuto un inatteso sviluppo ed è quello dovuto a numerosi gruppi di artisti operanti sia singolarmente che in équipe e che hanno cercato di approfondire delle ricerche di carattere più scientifico su quelle che sono le componenti psicologico-estetiche del movimento. Partiti spesso da ricerche percettivistiche statiche (…) si volsero man mano allo studio della percezione dinamica sfruttando le infinite possibilità offerte dal concorso dell’effetto dinamico e luminoso.” A conclusione dello spazio dedicato alle poetiche del Gruppo T, non va sottaciuto il rapporto tra le attività di questo e la galleria “Azimut”. La galleria nasce a Milano negli anni Sessanta da un’iniziativa di Piero Manzoni e Enrico Castellani, entrambi artisti, esponenti dell’arte concreta italiana che contemporaneamente creano un’omonima rivista con la funzione di organo di informazione e dibattito teorico sulle attività dell’omonima galleria d’arte. Con questa galleria l’intenzione dei due promotori era da un lato avere la responsabilità delle scelte estetiche, che dovevano comprendere l’esposizione delle loro stesse opere, ma non soltanto, dall’altro lato promuovere la nuova cultura artistica in senso lato, di cui sia Manzoni che Castellani si sentivano legittimi esponenti. I rapporti tra la galleria Azimut e il Gruppo T inizialmente erano dovuti ad un rapporto di amicizia personale tra Manzoni e Anceschi, cosa che li porta dapprima a collaborare, per poi invece chiudere le possibilità di un comune lavoro quando gli operatori del Gruppo T ravvedono nell’attività di Manzoni soprattutto 83
e della sua galleria l’intenzione di strumentalizzare le innovazioni artistiche, soprattutto quelle più legate al cinetismo. Ricorda Boriani: “Anche se partecipavamo ad Azimut, non ci identificavamo, avevamo un nostro percorso. Di Manzoni ci piaceva l’atteggiamento nei confronti dell’arte, la critica al sistema, la rivoluzione e alcune opere, come la ‘linea’, che infatti abbiamo esposto nelle nostre mostre ‘Miriorama’. (…) Manzoni non faceva sue tutte le cose che esponeva in galleria, ma aveva capito che ponendosi come organizzatore stava creando una scuola: questa furbizia non ci piaceva” 25 In realtà tra il Gruppo T e l’attività di “Azimut” i motivi di dissenso non riguardano soltanto la gestione della galleria ed il rapporto di questa con gli artisti e le correnti emergenti; vi sono differenze sostanziali anche nelle prospettive filosofiche di fondo, come sostiene ad esempio Devecchi: “ Non possiamo certo dire che il passaggio di Manzoni sia stato indifferente per noi: dal momento in cui si è emancipato dall’area ‘nucleare’ diventa sicuramente un personaggio internazionale, è lui che gira, che porta Zero, Klein in tutti i suoi risvolti. Però sia lui che Castellani (…) sostenevano che il tempo è un’entità fissa, che lo spazio non si muove, un’impostazione filosofica che si è completamente separata dalla nostra: in loro non c’era spazio-tempo, relatività, ma tempo fisso, astratto, e quindi c’è l’oggetto, mentre noi rivelavamo il tempo attraverso il mutamento dello spazio.” (ibidem)
25, Marco Meneguzzo, Arte Programmata 1962, catalogo della mostra 84
il basic design in Italia
Abbiamo visto quali sono stati gli sviluppi del basic design nel nostro Paese: il caso particolare che siano stati degli artisti a introdurre una didattica è anche figlio della libertà e dell’autonomia di cui gode l’arte, che può decidere quale sia il problema da investigare, e che nelle sue esperienze avanguardiste trova dei risultati che poi influenzano la società in generale. In Italia va sottolineato come lo scarso riguardo al settore didattico della configurazione del design è dovuto al ruolo di totale leadership che ha avuto negli anni passati l’architettura; questa valutazione non equa è stata superata solo recentemente, grazie soprattutto all’importanza preponderante che hanno raggiunto le discipline tecnologiche, si pensi in particolare all’interaction design ed a tutte le professioni che ora ruotano intorno alla tecnologia. Questa lacuna è stata colmata da Giovanni Anceschi, che ha introdotto l’insegnamento in Italia del corso del basic design presso lo Iuav di Venezia e ne ha prodotto una trattazione teorica e critica mediante svariati saggi sul tema, tra cui va annoverato “Web design e processi cognitivi”. È significativo ricordare questo volume perchè contiene sia una trattazione storica del basic design, sia l’introduzione del termine basic design eidomatico, termine coniato da Anceschi per le nuove tecnologie del web. Il basic design per sua definizione è un corpus disciplinare in continuo cambiamento, nel senso che le esercitazioni vengono ridefinite a seconda dei progressi della tecnologia e quindi dei diversi problemi che il designer si troverà ad affrontare. Il basic design eidomatico si propone di essere un supporto al linguaggio informatico, è destinato ad individuare e studiare gli elementi morfologici, cromatici e strutturali che stanno alla base di qualsiasi progetto informatico. Eidomatica, o eidologia informatica, deriva il suo nome da eidos (immagine), ed indica l’insieme delle teorie e delle tecniche per l’acquisizione, il trattamento e la presentazione di immagini attraverso strumenti informatici. Sempre presso lo Iuav di Venezia, va ricordato il corso l’Hyper Basic Design di Cristina Chiappini, che è orientato sempre verso la configurazione degli artefatti tecnologici. È interessante vedere come da una parte l’arte cinetico-programmata aveva preveduto e messo in atto l’arte immersiva e gli ambienti multimediali tipici della nostra rivoluzione tecnologica e come d’altra parte una disciplina nata agli inizi 85
fig. 52: New Basic Design, workshop tenutosi allo Iuav di Venezia nel 2006. Giovanni Anceschi analizza i risultati dell’esercitazione di scioltezza gestuale di Joannes Itten. fig. 53: i risultati dell’esercitazione dell’anti primadonna di Tomàs Maldonado
del secolo scorso per insegnare la progettazione tecnica e industriale possa vedere applicate la base della sua teoria a un campo di ricerca come il web design, summa delle scoperte tecnologiche. Inoltre entrambe queste diverse discipline condividono la centralità dell’insegnamento (in questo il caso dell’arte cinetico-programmata è quasi un unicum nel panorama artistico) come ricorda Davide Boriani: “Nel 1971 io e Colombo iniziammo ad insegnare a Brera; ed è curioso notare che alla fine tutti e cinque abbiamo finito, come la maggior parte degli artisti cinetici, ad insegnare. 86
L’aveva già preconizzato acutamente Argan, indicando nella didattica la sola via d’uscita per l’arte cinetica e programmata. E l’insegnamento è stato anche un modo di verificare, applicare, sviluppare nell’ambito del design, dell’architettura, del territorio, del sociale, ricerche di laboratorio fatte come artisti”.26 Infine, nel panorama del basic italiano, va ricordato il lavoro di Attilio Marcolli, teorico della percezione visiva e del colore, che viene così ricordato da Giovanni Anceschi: “l’unico rappresentante del basic design italiano, che ha scritto libri sull’argomento, che va benissimo, ma non è il vero basic; perché il corpus del basic design sono le esercitazioni, dove poi si possono far confluire tutti i saperi extra disciplinari come la topologia, la teoria della simmetria, tutti i discorsi percettologici, che sono basici, ma non è il cuore pulsante della disciplina.” (da intervista citata) Un’attività che non fa parte ufficialmente dei corsi di basic design, ma che ne condivide l’analisi semiotica e formale degli artefatti è quella portata avanti da John Maeda, docente e ricercatore del MIT (Massachusetts Institute of Technology), che insegna nella stessa università dei corsi di visual design, ispirato ai lavori di Paul Rand e Muriel Cooper (direttore della sezione di counicazione visiva del MIT) e dei corsi di programmazione in cui si focalizza sull’analisi dell’area in comune tra design e informatica, con l’idea di base che una buona programmazione – che risente della configurazione di cui abbiamo parlato – possa creare nuove forme di design. Lo stesso Maeda è una figura trasversale tra un programmatore, un docente e un artista digitale e questo ha influito nella nascita di Processing, un software opensource per programmare dall’arte elettronica alla grafica, nato nel 2001 presso la sezione del MIT chiamata ‘estethics + computational group’ grazie all’iniziativa di Casey Reas e Benjamin Fry. Il software si presta alla realizzazione di una estesa varietà di artefatti multimediali, dalla grafica alle animazioni ed ai contenuti interattivi; il suo essere open-source ne ha decretato un enorme successo e la nascita di una comunità che ne arrichisce i contenuti e ne discute le possibilità progettuali; a riprova della varietà di risultati che se ne possono ottenere è oggetto di studio presso le università di tutto il mondo e viene usato da centinaia di artisti, designer, architetti e ricercatori.
26, tratto da un intervista di Nanda Vigo del 22 Giugno 2010 87
fig. 53: Max Bill ‘senza titolo’, 1938 fig.54: John Maeda ‘Fireball’, 2005
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conclusioni
“Non so bene come abbia fatto, ma è sempre stata l’arte per prima, a modificare il nostro modo di pensare, di vedere, di sentire, prima ancora, certe volte cento anni prima, che si riuscisse a capire che bisogno c’era”* Umberto Eco Riprendo la citazione di Umberto Eco, presentata in introduzione, per chiudere il cerchio di quello che è stata questa ricerca: un’analisi della nascita della disciplina del design attraverso il punto di vista storico e artistico, e uno studio sul progresso della forma che ha visto arte e design agire all’unisono nella stessa direzione. Abbiamo visto come il sapere del design derivi dall’attività del Bauhaus in cui queste due discpline erano strettamente connesse tra loro, in un rapporto di continuo scambio, di saperi e di contenuti didattici. Ma allora qual’è la differenza tra le due discipline? Citando Giovanni Anceschi potremmo trovarla nel fatto che l’arte, nella sua concezione occidentale del XX secolo di l’art pour l’art sia una pratica autonoma, trovi in se’ stessa la sua finalità; mentre il design ha bisogno di una committenza, un’intenzionalità esterna per poter esistere, perciò si profila come attività finalizzata, quindi eteronima. Invece citando l’insegnamento di Josef Albers (Josef Albers, Search versus Research: Three Lectures by Josef Albers at Trinity College, Hartford, Connecticut: 1965, Trinity College Press), quello che hanno in comune lo si può ritrovare nella questione formale, ovvero nel tentativo che entrambe le discipline attuano nella configurazione, nel saper dare la giusta forma a idee, progetti e opere e nel fatto che entrambe producono artefatti, di qualsiasi genere essi siano. Ed è di questo che ci siamo occupati con l’analisi della disciplina del basic design, dal Bauhaus ai giorni nostri, della spinta a istituire una didattica che fondasse la pratica del design attraverso la ricerca della sua grammatica di base; disciplina che viene definita esaustivamente da Tomàs Maldonado nel 1961: “il disegno industriale ha il compito di progettare la forma dei prodotti industriali e progettare la forma significa coordinare, integrare e articolare tutti quei fattori che, in un modo o nell’altro, partecipano al processo costitutivo della forma del prodotto. E, più precisamente, si allude tanto ai fattori relativi all’uso, alla fruizione e al consumo individuale o sociale del prodotto (fattori funzionali, simbolici e culturali) quanto a quelli relativi alla sua produzione (fattori tecnico-economici, tecnico-costruttivi, tecnico-sistemici, tecnico-produttivi e tecnico-distributivi)”.27 27, Arte Programmata,1962, catalogo della mostra
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Questa la teoria fondante della rivoluzione scientifica e semiotica introdotta da Maldonado per attualizzare il corso di basic design, di cui fu direttore a Ulm. La stessa spinta avanguardista che aveva convinto i docenti del Bauhaus a cercare un sapere universale e condivisibile, per permettere alla comunità dei designer di perseguire una disciplina che non fosse solo rivolta a dare la forma ai prodotti dell’industria, ma che sapesse progettare sia l’artefatto (la forma) sia il suo contenuto. Abbiamo anche visto come questi saperi siano un insieme di conoscenze che si evolvono con lo sviluppo tecnologico, e che, partendo dalle esigenze della società, ne approfondiscono i linguaggi e le necessità, dando forma ad una disciplina sempre attuale e attualizzabile, allo stesso tempo rigida ma vivente. In questo va sottolineato il fatto che nel fondarla, gli interventi più significativi furono introdotti da artisti, da Max Bill a Vasilij Kandinkij, fino ad arrivare appunto a Maldonado, o Anceschi per quel che riguarda la situazione italiana. Questo è dovuto principalmente alla volontà di condividere un sapere inteso come cultura a disposizione di tutti e nella capacità tipica dell’arte di anticipare i tempi, sia dei linguaggi, sia della forma. Questo ha fatto si che la disciplina giungesse in Italia, nonostante il ritardo delle istituzioni, per merito delle attività di quella corrente che possiamo definire arte cinetica programmata, in particolare con Bruno Munari e il Gruppo T. Questi artisti, dando centralità al tema del tempo e dell’interazione, avevano inoltre prefigurato la società in cui viviamo noi ora, immersi in un flusso continuo di dati che è internet e circondati da un mondo artificiale e tecnologico che richiede appunto la nostra interazione per esistere. Avevano insomma immaginato il futuro ed il suo linguaggio: citando Giovanni Anceschi il basic design era ed è in questo “la rivendicazione di un moto della cultura che potremmo definire ‘il processo della configurazione’ o forse ancora meglio ‘il progresso infinito della forma’.”28
28, da “Il progresso della forma”, articolo di G. Anceschi su NB, I linguaggi della comunicazione 90
testi composti in: berthold akzidenz grotesque, univers
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manifesti
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referenze fotografiche
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fig. 2
Walter Crane ‘Line and Form’ http://www.flickr.com/photos/erinhickey/3246207864/
fig. 3
Lewis Foreman Day http://nxtform.org/?q=system/files/imagecache/blog_main/pattern1.JPG
fig. 4
schema dei colori, Joannes Itten http://www.flickr.com/photos/ad_symphoniam/4031517374/in/set72157622506146709/
fig. 5
fotografia di Joannes Itten http://www.flickr.com/photos/ad_symphoniam/4030762243/in/set72157622506146709/
fig. 6
analisi dei chiaro-scuri di Joannes Itten Itten Joannes, Design and form: the basic course at the Bauhaus, New York: Reinhold publishing corporation, 1963
fig. 7
studio sull’equilibrio di Moholy-Nagy Anceschi Giovanni , Botta Massimo, Garito Maria Amata , L’ambiente dell’apprendimento: web design e processi cognitivi, Milano: Mc GrawHill, 2
fig. 8
copertina di ‘Interaction of colors’ di Josef Albers http://www.flickr.com/photos/eoorider/6260688675/
fig. 9
tavola sullo studio del colore, Josef Albers http://yalepress.yale.edu/images/interior13/9780300115956/01.jpg
fig. 10
estrapolato ‘Punto e linea nel piano, Articoli teorici, I corsi inediti al Bauhaus,’, Vassilij Kandinskij Kandisnkij Vassillij, Punto e linea nel piano, Articoli teorici, I corsi inediti al Bauhaus, Milano: Feltrinelli, 1989
fig. 11
illustrazione di Paul Klee Klee Paul, Teoria della forma e della figurazione, Feltrinelli, Milano, 1959
fig. 12
schema dell’evoluzione del modello pedagogico del Bauhaus ‘Design issues’, volume 17, winter 2001
fig. 13
fotografia di Tomàs Maldonado http://www.flickr.com/photos/renespitz/3383392278/
fig. 14
esercitazione dell’anti primadonna, Tomàs Maldonado http://www.hfg-archiv.ulm.de/english/the_hfg_ulm/
fig. 15
fotografia del boom economico http://www.nicoladangelo.net/wp-content/uploads/2012/02/anni50-fiat.jpg
fig. 16
opera informale di Giovanni Anceschi archivio personale di Giovanni Anceschi
fig. 17
opera informale di Davide Boriani archivio personale di Giovanni Anceschi
fig. 18
fotografia del Gruppo T http://www.artitude.eu/immagini/news/GruppoT-2809101919240.jpg
fig. 19
manifesto Miriorama 10 archivio personale di Giovanni Anceschi
fig. 20
Gruppo T ‘Grande oggetto pneumatico’ Meloni Lucilla, Gli ambienti del Gruppo T: le origini dell’arte interattiva, Milano: Silvana editoriale, 2006
fig. 21
Costantin Brancusi ‘Colonna senza fine’ http://www.centroarte.com/images/scultori/brancusi/La%20Colonna%20senza%20 fine.jpg
fig. 22
Giacomo Balla ‘Ragazza che corre su un balcone’ http://www.italica.rai.it/immagini/arte/futurismo3/gr1.jpg
fig. 23
Giacomo Balla ‘Compenetrazione iridescente n.2’ http://www.atlantedellarteitaliana.it/immagine/00004/2473OP89AU3877.jpg
fig. 24
Piero Manzoni ‘Linea’ http://3.bp.blogspot.com/-8zSSZpWFw7Y/Tm9GG8_okRI/AAAAAAAAAI4/ GQUBwCoqzT0/s1600/Manzoni_k_525_a.jpg
fig. 25
Victor Vasarely http://www.fondationvasarely.fr/images/eridangd.jpg
fig. 26
catalogo ‘Edition MAT’ archivio personale di Giovanni Anceschi
fig. 27
Làaszlo Moholy-Nagy ‘Macchina luminosa’ http://0.tqn.com/d/arthistory/1/0/E/v/bauhaus_moma_09_45.jpg
fig. 28
Gabo e Pevsner ‘Monumento della terza internazionale’ http://www.tfo.upm.es/docencia/ArtDeco/artdoc1.jpg
fig. 29
Alexander Calder ‘Steel fish’ http://calder.org/images/work/full/a00505.jpg
fig. 30
Alexander Calder ‘senza titolo’ http://www.biuso.eu/wp-content/uploads/2009/12/calder-untilted.jpg
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fig. 31
Jean Tinguely ‘Meta Malevic’ http://www.neromagazine.it/POPE/Jean_Tinguely_1925-1991_M%C3%A9ta_ Malevich_1954.jpg
fig. 32
Lucio Fontana ‘Taglio’ http://elvirafrak.files.wordpress.com/2010/05/lucio-fontana-pananti2.jpg
fig. 33
foto di Lucio Fontana scattata da Ugo Mulas http://en.wikipedia.org/wiki/File:Photograph_of_Lucio_Fontana_by_Ugo_Mulas.jpg
fig. 34
Bruno Munari ‘Macchina inutile’ http://www.oblique.it/images/manifesto/obliqui/munari/munari7.jpg
fig. 35
Bruno Munari ‘Macchina inutile’ http://www.munart.org/index.php?p=10
fig. 36
Bruno Munari ‘Macchina inutile a giostra’ http://www.munart.org/index.php?p=10
fig. 37
Gruppo T manifesto ‘Miriorama 1’ archivio personale di Giovanni Anceschi
fig. 38
Gianni Colombo ‘Strutturazione fluida’ Meloni Lucilla, Gli ambienti del Gruppo T: le origini dell’arte interattiva, Milano: Silvana editoriale, 2006
fig. 39
copertina di Arte programmata, 1962 Arte Programmata, catalogo della mostra, Milano, 1962
fig. 40
copertina di Almanacco letterario Bompiani Almanacco letterario Bompiani, Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura, Milano: Bompiani, 1962
fig. 41
Bruno Munari ‘Perturbazione cinetica’ Almanacco letterario Bompiani, Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura, Milano: Bompiani, 1962
fig. 42
Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele Devecchi, opere di grafica programmata Almanacco letterario Bompiani, Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura, Milano: Bompiani, 1962
fig. 43
Giovanni Anceschi ‘Interferenza’ archivio personale di Giovanni Anceschi
fig. 44
Davide Boriani, Gabriele Devecchi ‘Ambiente cronostatico’ Meloni Lucilla, Gli ambienti del Gruppo T: le origini dell’arte interattiva, Milano: Silvana editoriale, 2006
fig. 45
Gabriele Devecchi ‘Scultura da prendere a calci’ archivio personale di Giovanni Anceschi
fig. 46
Giovanni Anceschi, Davide Boriani ‘Ambiente a variazione luminosa’ Meloni Lucilla, Gli ambienti del Gruppo T: le origini dell’arte interattiva, Milano: Silvana editoriale, 2006
fig. 47
catalogo Gruppo T e Danese archivio personale di Giovanni Anceschi
fig. 48
catalogo Gruppo T e Alessi archivio personale di Giovanni Anceschi
fig. 49
Davide Boriani ‘Ipercubo’ Meloni Lucilla, Gli ambienti del Gruppo T: le origini dell’arte interattiva, Milano: Silvana editoriale, 2006
fig. 50
New Basic Design, Itten http://www.flickr.com/photos/coconu/4093223449/sizes/l/in/photostream/
fig. 51
New Basic Design, Maldonado http://www.flickr.com/photos/coconu/4093191267/in/photostream
fig. 52
Max Bill ‘senza titolo’ http://www.abstract-art.com/abstraction/l2_grnfthrs_fldr/g0000_gr_inf_images/ g073a_max_bill_dist.jpg
fig. 53
John Maeda ‘Fireball’ http://www.sessantottopigro.com/wp-content/uploads/2011/06/maeda_fireball.jpg
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arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma Valentino Alberini 269601 2009/2010
Giovanni Anceschi Carlo Vinti III Aprile 2012
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Valentino Alberini
269601
Comunicazioni visive e multimediali III Aprile 2012
2010/2011
arte e design: dal Bauhaus all’arte cinetico programmata, verso una nuova forma
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