Few Lines TEXT AND PHOTOS BY CAMILLA PIZZINI
“Sciare è come danzare, ha un ritmo che scorre continuo, crea delle linee indistinguibili eppure precise, devi solo trovare il tuo modo di percepirlo.” Un giorno, quando ero ancora piccola e stavo imparando a sciare, mia madre mi disse: “Sciare è come danzare, ha un ritmo che scorre continuo, crea delle linee indistinguibili eppure precise, devi solo trovare il tuo modo di percepirlo.” Mi ci vollero alcuni anni per capire quella frase appieno. Un preambolo di consumi e passioni. Potrei dire di aver passato più giorni della mia vita sugli sci e sugli impianti di quanti non ne abbia passati seduta su una sedia a scuola. Non che non abbia conseguito un diploma e in seguito una laurea, ma ho semplicemente sciato tanto. Tanti pali, tante manche, tanti allenamenti, le uscite in ghiacciaio l’estate, in Austria, Francia, sullo Stelvio e tante gare in giro per tutta la regione e per tutta Italia. Se vi steste ponendo come sia la vita di un atleta di sci, il riassunto si limita a: “A volte vi sentite più comodi con un paio di scarponi e un paio sci al freddo, di quanto non vi sentiate normalmente a vostro agio a ammirare lungo le vie della vostra città”. Con questo continuo ritmo forsennato di discese e risalite tra una sciata e l’altra non mi sono mai posta il dubbio di quanto fossero problematici ed inquinanti gli impianti sciistici. Non c’era motivo per me di pormi un tale dubbio, i problemi erano altri: “Tieni il ginocchio esterno meno chiuso”, “Guarda che voli sull’interno così”, “Dove diavolo tieni le braccia?”, “Se
stai più alta con il busto prendi il volo”. E così, anno dopo anno, ho passato più ore sui seggiolini ghiacciati degli impianti di quanto effettivamente sciassi. Credo sia così per tutti gli sciatori alpini, amanti della neve. Abbiamo perso, sin dalla nascita di questa passione, la concezione di questa sproporzione. Dieci minuti di discesa, quando andava bene, quindici minuti di risalita, minimo. Un’enormità di tempo investito, perso tra una prova e l’altra, una modesta dose di inquinamento emesso nel mondo. Dovrei prendere in considerazione anche la neve artificiale, ma questa storia non parlerà solo di inquinamento, quindi per quanto riguarda sensi di colpa e errori passati mi fermerò qui. Solo in tempi recenti e solo dopo molti infortuni, ho scoperto lo sci alpinismo. Sette anni fa, la prima volta che ne sentì parlare pensai: “Ma questi fanno tutta quella strada per una discesa? Che voglia. No ma sto bene anche senza, grazie.” Cinque anni dopo eccomi anche io con delle pelli sotto gli sci, poco convinta di volermi buttare in questa avventura. Mai fui più in errore. Ogni parte di una curva ha un ritmo, devi seguirlo. Due anni dopo eccomi ancora qui, con gli sci ai piedi, appassionatissima di sci alpinismo. Il virus si è preso tutti gli impianti e le risalite facilitate. Se si vuole sciare bisogna fare fatica e noi non aspettavamo altro.
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“Hai portato la macchina? L’Artva? Il rifugio sarà aperto per una birra?” e si parte. Non ci ho mai messo così tanto ad arrivare al Grosté, pensando ai tempi con gli impianti aperti e alla risalita in quindici minuti. Eppure, passo dopo passo, partiti da Madonna di Campiglio centro, siamo arrivati in cima. Nulla di sconvolgente, faticoso? Sì, ma non è l’Everest. Eppure, in quei tanti passi mi sono resa conto che mai avevo atteso con tanta ansia una discesa, e mai prima d’allora avevo capito che, forse, il senso di una curva non era tanto il modo in cui l’avrei fatta, ma cosa mi avrebbe portato a farla in quel modo. Tutt’ora credo che ogni curva sia perfetta ed imprecisa nel suo essere. Ogni sciatore cerca la sua posizione migliore, la stabilità, il divertimento e la precisione nella curva e in quella dopo ancora. Eppure in anni di tentavi e allenamenti, mai mi ero posta il dubbio di quanto tutti quelle prove fossero vane, ripetitive e profondamente prive di ritmo. Le mie continue discese erano parte di un meccanismo che privava lo sciatore della soddisfazione, del piacere della conquista. Ero un criceto in una ruota infinita. Salendo lungo le dune del Grosté ho contemplato ciò che mi circondava e ho visto tante linee e i tanti semicerchi più o meno perfetti, e lì ho visto il ritmo, il circolo continuo di quella danza, di quello scorrere che tanto cercavo di capire, quelle linee indistinguibili eppure precise.