trimestrale di teatro e spettacolo
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ANNO XXVII 1/2014 GENNAIO-MARZO
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anno XXVII 1/2014
Daria Deflorian Jeton Neziraj CollettivO CineticO
TEATROMONDO: PARIGI BERLINO WROCLAW ZAGABRIA MARIBOR BUCAREST
DOSSIER TEATRO IN LITUANIA
PREMIO HYSTRIO I BANDI 2014
teatro ragazzi / critiche / danza / lirica / biblioteca
Rivista trimestrale di teatro e spettacolo fondata da Ugo Ronfani editore: Hystrio-Associazione per la diffusione della Cultura Teatrale, via Olona 17, 20123 Milano. direttore responsabile: Claudia Cannella redazione: Ilaria Angelone, Albarosa Camaldo, Roberto Rizzente, Monica Giacchetto (segreteria). progetto grafico: www.studiopaola.it grafica e impaginazione: Alessia Stefanini hanno collaborato: Matteo Antonaci, Nicola Arrigoni, Giedrė Bagdžiūnaitė, Elona Bajorinienė, Ramunė Balevičiūtė, Elena Basteri, Massimo Bertoldi, Stefania Bevilacqua, Laura Bevione, Mario Bianchi, Fabrizio Sebastian Caleffi, Roberto Canziani, Laura Caretti, Francesca Carosso, Tommaso Chimenti, Georgia Galanti, Francesca Gambarini, Lorenzo Garozzo, Maddalena Giovannelli, Toma Gudelytė, Nicole Horsten, Andrius Jevsejevas, Giedrė Kabašinskienė, Filippa Ilardo, Giuseppe Liotta, Audronis Liuga, Fausto Malcovati, Stefania Maraucci, Ramunė Marcinkevičiūtė, Antonella Melilli Rossi, Giulia Miniati, Giuseppe Montemagno, Anna Maria Monteverdi, Stefano Moretti, Alessio Negro, Emilio Nigro, Michele Pascarella, Gianni Poli, Robert Quitta, Domenico Rigotti, Paolo Ruffini, Daiva Šabasevičienė, Helmutas Šabasevičius, Laura Santini, Francesca Serrazanetti, Francesco Tei, Pino Tierno, Francesco Urbano, Nicola Viesti, Diego Vincenti, Chiara Viviani, Giusi Zippo. direzione, redazione e pubblicità: via Olona 17, 20123 Milano, tel. 02 40073256, fax 02 45409483, segreteria@hystrio.it – www.hystrio.it Iscrizione al Tribunale di Milano (Ufficio Stampa), n. 106 del 23 febbraio 1990. Stampa: Arti Grafiche Alpine, via Luigi Belotti 14, 21052 Busto Arsizio (Va). Distribuzione: Joo, via Filippo Argelati 35, 20143 Milano, tel. 02 8375671 Manoscritti e fotografie originali anche se non pubblicati non si restituiscono. È vietata la riproduzione, parziale o totale, dei testi contenuti nella rivista, salvo accordi con l’editore.
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GEORGIA GALANTI Georgia Galanti, che ha realizzato la copertina e l'immagine di apertura del dossier, vive e lavora a Cattolica. Ha pubblicato con Nuages (Milano) Io e la mia nonna, Io e il mio papà, Cartoline da Mompracem e Il mio nome è Rosa. Ha esposto i suoi lavori in Italia e all’estero. I suoi progetti e laboratori prevedono materiali poveri e di scarto per indagare temi che appartengono al bambino e all’adulto. L’ultimo suo viaggio è in India presso una comunità per esplorare e disegnare con gli abitanti del luogo.
PUNTI VENDITA Ancona Librerie Feltrinelli c.so G. Garibaldi 35 tel. 071 2073943 Bari La Feltrinelli Libri e Musica via Melo 119 tel. 080 5207501 Bergamo Libreria Fassi largo Rezzara 4/6 tel. 035 220371 Libreria Ibs via XX Settembre 78/80 tel. 035 230130
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Bologna Feltrinelli International via Zamboni 7/B tel. 051 268070
Lecco Libreria Ibs via Cavour 44 tel. 0341 282072
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Livorno Libreria Feltrinelli via D. Franco 12 tel. 0586 829325
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Macerata Librerie Feltrinelli corso Repubblica 4/6 tel. 073 3280216
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Mantova Libreria Ibs via Verdi 50 tel. 0376 288751 Mesagne (Br) Libreria Lettera 22 via E. Santacesaria 1 tel. 0831 1982886
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Libreria Puccini Siracusa corso Buenos Aires 42 Libreria Gabò tel. 02 2047917 corso Matteotti 38 tel. 0931 66255 Napoli La Feltrinelli Express Torino varco corso A. Lucci Libreria Comunardi tel. 081 2252881 via Bogino 2 tel. 011 19785465 La Feltrinelli Libri e Musica Librerie Feltrinelli via Cappella Vecchia 3 p.zza Castello 19 tel. 081 2405401 tel. 011 541627 Librerie Feltrinelli via T. D’Aquino 70 tel. 081 5521436 Novara Libreria Ibs corso Italia 21 tel. 0321 331458 Padova Librerie Feltrinelli via San Francesco 7 tel. 049 8754630
Mestre La Feltrinelli Libri e Musica piazza XXVII Ottobre 1 Palermo tel. 041 2381311 Broadway Libreria dello Spettacolo Milano via Rosolino Pilo 18 Abook Piccolo tel. 091 6090305 Piccolo Teatro Grassi via Rovello 2 La Feltrinelli Libri tel. 02 72333504 e Musica via Cavour 133 Anteo Service tel. 091 781291 via Milazzo 9 tel. 02 6597732 Parma La Feltrinelli Libri Joo Distribuzione e Musica via Argelati 35 Strada Farini 17 tel. 02 4980167 tel. 0521 237492
Ferrara La Feltrinelli Libri Libreria Ibs e Musica piazza Trento e Trieste c.so Buenos Aires 33/35 (Palazzo San Crispino) tel. 02 2023361 tel. 0532 241604 La Feltrinelli Libri Librerie Feltrinelli e Musica via G. Garibaldi 30/A piazza Piemonte 1 tel. 0532 248163 tel. 02 433541
Roma La Feltrinelli Libri e Musica l.go Torre Argentina 5/10 tel. 06 68663267
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Trento La Rivisteria via San Vigilio 23 tel. 0461 986075 Treviso Librerie Feltrinelli via Canova 2 tel. 0422 590430 Trieste Libreria Einaudi via Coroneo 1 tel. 040 634463 Udine Libreria R. Tarantola via Vittorio Veneto 20 tel. 0432 502459 Varese Libreria Feltrinelli corso Aldo Moro 3 tel. 0332 282182 Verona La Feltrinelli Libri e Musica via Quattro Spade 2 tel. 045 809081 Vicenza Galla Libreria corso Palladio 11 tel. 0444 225200
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Ritratto d’attrice anomala: Daria Deflorian — di Paolo Ruffini Festival e territorio: il caso Puglia — di Nicola Viesti Romeo e Giulietta in regalo con Hystrio e LibriVivi
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I bandi 2014
premio hystrio
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Parigi, luci e ombre della Storia — di Giuseppe Montemagno Berlino, povera ma sexy la scena indipendente — di Elena Basteri Essen, alla Triennale i Cuori di Lepage — di Anna Maria Monteverdi Wroclaw, la violenza in scena a Dialog — di Laura Caretti Zagabria: Frljić e la sua famiglia — di Diego Vincenti Neziraj, l’“agitatore” del Kosovo — di Anna Maria Monteverdi Slovenia, a Maribor il teatro guarda all’Europa — di Pino Tierno Bucarest: zombie, clown e dj al Festival Nazionale di Teatro — di Robert Quitta
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G(l)ossip — di Fabrizio Sebastian Caleffi
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Teatro in Lituania — a cura di Claudia Cannella e Laura Caretti, con interventi di Laura Bevione, Stefano Moretti, Ramunė Balevičiūtė, Audronis Liuga, Ramunė Marcinkevičiūtė, Daiva Šabasevičienė, Andrius Jevsejevas, Toma Gudelytė, Helmutas Šabasevičius, Elona Bajorinienė, Giedrė Kabašinskienė, Stefania Bevilacqua e Roberto Canziani
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teatro ragazzi
I festival d’autunno da Lamezia Terme a Mantova — di Mario Bianchi
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nati ieri
I protagonisti della giovane scena/45: CollettivO CineticO — di Matteo Antonaci
50 exit
Addio a Patrice Chéreau, Luisa Pasello, Piero Mazzarella, Zuzzurro e Piero Sammataro — di Domenico Rigotti, Francesco Tei, Fabrizio Sebastian Caleffi e Ilaria Angelone
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critiche
Tutte le recensioni della prima parte della stagione
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danza
Torinodanza, Yasmeen Godder, Wayne McGregor, Virgilio Sieni, Josef Nadj
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lirica
Tutte le sfumature di Verdi: Aida, Traviata, Attila, Paolini e Brunello
88 testi
J.T.B. — di Lorenzo Garozzo, Premio Hystrio-Scritture di Scena 2013
103 drammaturgia
San Miniato, drammaturghi a confronto — di Roberto Canziani
104 biblioteca
Le novità editoriali — a cura di Albarosa Camaldo
108 la società teatrale
Tutta l’attualità nel mondo teatrale — a cura di Roberto Rizzente
Nel prossimo numero: DOSSIER: Drammaturgia inglese 2.0/TEATROMONDO: Berlino, Parigi, Londra, Palestina/ RITRATTI: Strømgren-Quade e Giuliana Musso/TESTO: I vicini, di Fausto Paravidino e molto altro…
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Parola poetica e parola quotidiana l’identità equivalente di Daria Deflorian Da Pasolini a Tahar Ben Jelloun e da Ingeborg Bachmann a Lucia Calamaro e alla fortunata collaborazione con Antonio Tagliarini, l’attrice trentina ha costruito intorno alla parola la qualità della propria presenza scenica in una costante ricerca della verità. di Paolo Ruffini
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e penso al carattere quasi immateriale della presenza scenica di Daria Deflorian, non posso non tornare all’idea di mediazione dialettica che l’attrice incarna fra “scrittura pura” e tempo “desacralizzato”. A quel tratto eminentemente fisico che lei riesce a trattenere su di sé, nonostante sia data alla parola una concretezza maggiore rispetto alle partiture gestuali, non ha mai rinunciato. Eppure in quell’idioma cui si succedono catastrofi interiori e paradossali contrappunti astratti, lei ha scelto di costruire una particolarissima intenzione dello stare in scena che aveva mostrato sin dagli esordi, una vocazione – diciamo – per la ruvida, vera impossibilità alla menzogna in teatro, che ci parlasse dentro e fuori il “giogo” di Brecht e la tensione post-drammatica.
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Tutto adagiato sul precipizio della verità, dunque, in bilico fra il dover essere e essere inevitabilmente o rappresentarne una potenziale eventualità, il teatro detto, interpretato o pensato da Daria Deflorian riesce a raccontarci con nitore il tempo attuale delle trasformazioni personali come quelle sociali, si inabissa nelle concrezioni seppure minimali dei comportamenti umani fallaci esaltandone però gli aspetti meno convenzionali. Attrice, nonostante nutra una certa avversione per l’interpretazione, con Remondi & Caporossi, Mario Martone e Fabrizio Arcuri, Lucia Calamaro o Lotte van den Berg, che le restituisce una dimensione più pop in quell’afflato da spaesamento alla Amelia Rosselli: «Certo, sono esperienze diverse ma ho avuto la fortuna di lavorare qua-
si sempre con artisti che avevano un loro forte “mondo interiore”, ed entrare in contatto con il mondo di qualcuno è uno stimolo e un piacere per me. Spesso – mi rendo conto – questi mondi avevano il teatro-vero-e-proprio più come bordo, periferia, limite che come centro. Mi viene l’immagine di un vulcano e della sua lava incandescente, di cui sono percorribili solo i margini. Non credo di essere un’attrice brava a fare qualunque cosa, ci sono molte e molte persone più capaci di me. Ma credo di essere capace di accogliere, filtrare attraverso la mia esistenza e restituire in particolare questi mondi che hanno il teatro come lava – irraggiungibile e fondante al tempo stesso. Lucia Calamaro e la sua scrittura fluviale e meravigliosa mi hanno segnato fortemente: prima de
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L’origine del mondo non avevo mai avuto un’occasione di provarmi in modo così ampio con il mio stare in scena e quando dico ampio non intendo solo temporalmente, ma anche come profondità. Auguro a tutti gli attori di incontrare un’occasione del genere, anche perché Lucia non è solo una scrittrice, ma è una donna di teatro completa. Prima di conoscere Fabrizio Arcuri come regista non avevo mai avuto la consapevolezza del mio lato comico. Fare con lui Attentati alla vita di lei di Martin Crimp è stato una specie di battesimo a una nuova vita come interprete. Essere stata scelta come performer a fare la versione italiana di Agoraphobia, il progetto in piazza di Lotte van den Berg, mi ha dato la possibilità di misurarmi con me stessa sola in scena, in una scena che era però una piazza piena di passanti. La fiducia che Lotte ha avuto in me fin dal primo giorno, una fiducia da artista ad artista, mi ha dato molto ottimismo rispetto alla possibilità di collaborare tra le persone. Ho combattuto tanto contro la mia natura di attrice, ma con gli anni – e tanti e fortunati incontri – ho fatto la pace con questa questione, anche grazie al fatto di aver maturato pian piano la mia parte “autoriale”». Fuori piume colorate, dentro paglia E autrice, quindi, nel rimasticare le parole di figure che ne hanno segnato il respiro drammaturgico, tra i quali un Pier Paolo Pasolini più volte indagato, finanche “squartato” per cercarne fra le membra una pur sottile venatura di redenzione dal dolore (nel solitario Piccoli poemi d’azione, che arrivava da un Paesaggio con figure dalle suggestioni di Alì dagli occhi azzurri, fino al progetto Petrolio già nel nuovo millennio). Oppure Ingeborg Bachmann, scrittrice perennemente sostanziata da un vuoto, quell’ammanco di un tempo arreso che Deflorian colma trasfigurando il cromatismo di Fabrizio Crisafulli; e poi anche Tahar Ben Jelloun, Daniele Del Giudice, dal quale “ri-scriverà” un folgorante spettacolo sul romanzo Staccando l’ombra da terra. «Per anni ho talmente amato la letteratura, la poesia da negarmi ogni mia parola sulla scena. La Bachmann, Pasolini – per dire i due più abitati – dicevano quello che non sapevo dire. La loro
intensità mi ha nutrito profondamente, ma per anni questa profondità è stata anche un limite alla comunicazione. È una questione complessa. Quando vedendomi lavorare il maestro di butō Masaki Iwana mi disse che ero intensissima dentro e grigia fuori e che dovevo invertire la questione, diventando un uccello impagliato, mille piume coloratissime fuori e paglia dentro. Ancora ci sto lavorando sia in scena che come autrice. Quando esploro le mie zone esterne, di superficie “succede” qualcosa e l’intensità diventa un’altra cosa. L’incontro con Antonio Tagliarini, in questo senso, è stato fondamentale. Quando ho incontrato Antonio avevo accettato una solitudine creativa per quello che riguardava la mia autorialità, condivisa di volta in volta con artisti che stimavo come Franco Pistoni, Alessandra Cristiani, Leonardo Filastò. Ma quello che veniva a mancare era la continuità, il cosiddetto “percorso”. Aspetto fondamentale per una crescita. Mi piace molto collaborare con altri, ma si sa, non è facile. Bisogna essere forti e duttili nello stesso tempo». Una trilogia (più incursioni o deviazioni sul tema) del “tempo tangibile”, ecco cosa mi fa pensare il suo lavoro con Antonio Tagliarini, una sintesi fin troppo contratta di un percorso di autrice-attrice straordinaria che si propone oggi nel racconto di sé attraverso le sfaccettate collaborazioni. Antonio e Daria, la linea e il ghirigoro «Antonio è ironico, ma io lo trovo soprattutto comico. Io credo di essere buffa. Quando lavoriamo insieme e Antonio mi restituisce un pezzo che per me è tragico mi ritrovo a ridere io per prima e questo mi sorprende ancora. Lavorare dal 2008 con Antonio è la cosa più bella tra le tante cose belle che mi è capitata nel mio lavoro. La grande fortuna di un incontro in cui la sua positività e i miei dubbi, la sua linearità e i miei ghirigori, la mia amarezza e la sua innocenza non smettono mai di litigare e comprendersi. È con Antonio che in Rewind ho finalmente trovato il coraggio delle mie parole. Ma la complessità dell’intreccio creativo con Antonio ha tante sfumature: dall’uso dello spazio, allo stare insieme in scena, dal modo di stare in sala prove,
all’amore verso certe questioni filosofico-esistenziali». Perché la sua è una lingua del visibile, che si lascia esteriorizzare traducendosi in impercettibili emozioni, una lingua che prende forma, anzi si sostiene nell’illusione di realizzare una realtà della finzione nei “limiti” del poetico. Arriva tardivo il meritato successo, arriva quando sarebbe potuto arrivare già da un pezzo, Premio Ubu lo scorso anno e pochi mesi fa il Premio Hystrio Anct, per un’ansia “minoritaria” che lascia poco spazio al compromesso. Ancora alla ricerca di parole, infine, non ultima Janina Turek, anche quando apparentemente il disegno dello spettacolo si inarca verso obblighi al movimento o alla visione, quasi un preludio a Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni. «Reality e tutto il periodo di preparazione, compresa la performance rzeczy/cose credo rimarranno a lungo nella mia memoria: dai laboratori con gli anziani, ai due viaggi a Cracovia, a un ribaltamento del lavoro venti giorni prima del debutto alla risposta del pubblico su una vicenda così marginale. Ecco, a proposito di percorsi, quello è stato un vero e proprio procedere a tappe dove il risultato finale è solo un piccolo tassello di una questione molto più ampia e importante. Stare in scena oltre che con Antonio anche con Monica Piseddu e Valentino Villa per questo ultimo lavoro, invece, è stata un’esperienza davvero importante. Ci vorrebbero fiumi di parole per dirlo: imparare uno dall’altro, sentire per la prima volta le parole scritte da noi dette da altri, creare consapevolmente una finzione da una serie di esperienze comuni, occuparsi di una questione delicata come la crisi. Mi è sembrato di essere diventata adulta ultimamente, io che mi sono sempre sentita piccola». ★ In apertura, Daria Deflorian in L’origine del mondo; in questa pagina, un suo ritratto (foto: Serafino Amato).
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In Puglia il teatro svela il cuore delle città Che il legame fra luoghi ed eventi culturali fosse positivo lo si sapeva. Nella regione, però, è a tal punto una buona pratica, da risvegliare interi territori che sui festival costruiscono un possibile futuro: è il caso di Andria e di Trani, ma anche di Putignano e Taranto. di Nicola Viesti
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a scorsa estate è stata caratterizzata, in Puglia, da un inedito proliferare di festival teatrali. Un fenomeno nuovo in una regione di solito parca di eventi del genere. Il Festival Castel dei Mondi ad Andria, giunto alla diciassettesima edizione, è l’appuntamento più consolidato e bisognoso di una messa a punto per acquisire una maggiore e più delineata identità, ma anche di un ripensamento organizzativo per una ormai troppo grande e impegnativa partecipazione di pubblico. Molto più “giovane”, un suo spazio lo ha guadagnato il Festival di Teatro Civile organizzato da Legambiente a Monte Sant’ Angelo che quest’anno, con mossa a sorpresa, non è stato programmato, come al solito, a fine luglio, ma tra Natale e Capodanno. Trattandosi di una manifestazione che si tiene in un paese inerpicato su di una montagna che già con il caldo è una piccola impresa raggiungere, questa sua nuova collocazione potrebbe essere una sfida ulteriore da vincere. Quello con il territorio è dunque uno stretto legame cercato da tutti i festival con risultati a volte sorprendenti. In Italia è cosa abbastanza comune ambientare gli eventi culturali in una cornice di grande bellezza. Non difettiamo certo, infatti, di tesori naturali e architettonici che diventano motivi in più a supporto dell’offerta spettacolare. In Puglia, però, sembra avvenire il contrario: è l’occasione culturale che è chiamata a fare da traino alla scoperta di una terra che, inaspettatamente, si svela anche in maniera inattesa. Ne sono un esempio tre manifestazioni diverse l’una dall’altra e accomunate solo dalla brevità – tre, quattro giorni, ma molto intensi – della loro durata. Il Festival Internazionale di Trani, Ri-Generazioni a Putignano e Start Up a Taranto. A Trani il Festival Internazionale – che ha una struttura molto simile a quella del vicino Castel dei Mondi – ha cercato di offrire un’alternativa di qualità all’enorme afflusso estivo di visitatori a cui interessa principalmente la movida notturna, di cui la città è prodiga, oltre, si spera, al godere della vista delle sue attrattive, non ultima la celebre cattedrale che sembra sospesa sul mare. Intrigante l’operazione a Putignano di cui Ri-Generazioni concorre a svelare un
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centro storico assai poco conosciuto. Il festival è ambientato per lo più tra le mura e le stanze del bellissimo Palazzo Romanazzi-Carducci, antica dimora nobiliare del XIV secolo appena restaurata. Gli ambienti affrescati e il giardino pensile accolgono le proposte teatrali facendo risorgere una scena da camera che entusiasma il pubblico ma anche gli artisti – tutti di rango, da Fausto Russo Alesi a Licia Maglietta – poco avvezzi a una vicinanza così intima con lo spettatore. Ma il risultato più eclatante si ha a Taranto, città marchiata dalle note vicende dell’Ilva, simbolo dell’inquinamento mortifero e di una passata, delinquenziale gestione amministrativa. Ebbene l’occasione di Start Up, festival dedicato alle giovani generazioni – quest’anno siglato da Una Net, rete che raccoglie sei Teatri Abitati, le residenze pugliesi – organizzato in maniera esemplare da Crest, ci mostra una città di straordinaria bellezza, forse la più bella tra le grandi pugliesi dopo Lecce. L’evento consentiva di vivere il borgo vecchio circondato dal mare, certo ancora per molta parte fatiscente, ma di ineguagliabile fascino, prima di raggiungere il rione Tamburi, più pros-
simo alle acciaierie, dove ha sede Tatà, il teatro gestito da Crest diventato a tutti gli effetti il teatro della città. Una sala di trecento posti che può vantare sempre una stagione di “tutto esaurito” e cuore pulsante culturale del territorio. Una sfida non facile che il Crest sta vincendo su tutti i fronti, non ultimo quello della creazione di un pubblico competente e partecipe che non teme di esprimere giudizi anche impietosi o di decretare grandi consensi come quelli tributati, questa volta, a Tindaro Granata e al suo Antropolaroid e a Lo splendore dei supplizi di Fibre Parallele. In Puglia l’assessorato regionale alla cultura e quello al turismo sono stati accorpati con conseguenze di rilievo. Dare attenzione e importanza alla “forma” festival – che dovrebbe riuscire a coniugare buon livello organizzativo, ottima qualità di ospitalità, stimolanti programmi artistici, disponibilità e coinvolgimento delle amministrazioni locali – conferma la tendenza di una regione che si fa laboratorio permanente di idee e di buone pratiche. ★ L’immagine del manifesto del Festival Start Up.
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Premio Hystrio-Scritture di Scena Bando di concorso 2014 Parte la quarta edizione del Premio Hystrio-Scritture di Scena, aperto a tutti gli autori di lingua italiana ovunque residenti entro i 35 anni (l’ultimo anno di nascita considerato valido per l’ammissione è il 1979). Il testo vincitore verrà pubblicato sulla rivista trimestrale Hystrio e sarà rappresentato, in forma di lettura scenica, durante la prima delle tre serate della 16a edizione del Premio Hystrio che avrà luogo a Milano nel giugno 2014. La premiazione avverrà nello stesso contesto. La presenza del vincitore è condizione necessaria per la consegna del Premio. Regolamento e modalità di iscrizione: - I testi concorrenti dovranno costituire un lavoro teatrale in prosa di normale durata. Non saranno ammessi al concorso lavori già pubblicati o che abbiano conseguito premi in altri concorsi. - Non sono ammessi al Premio coloro che sono risultati vincitori di una delle passate edizioni. - Se, durante lo svolgimento dell’edizione, un testo concorrente venisse premiato in altro concorso, è obbligo dell’autore partecipante segnalarlo alla segreteria del Premio. - Se la Giuria del Premio, a suo insindacabile giudizio, non ritenesse alcuno dei lavori concorrenti meritevole del Premio, questo non verrà assegnato. - La quota d’iscrizione è la sottoscrizione di un abbonamento annuale alla rivista Hystrio (euro 35) da versare, con causale: Premio Hystrio-Scritture di Scena, sul Conto Corrente Postale n. 000040692204 intestato a Hystrio-AssoHy6
ciazione per la diffusione della cultura teatrale, via De Castillia 8, 20124 Milano; oppure attraverso bonifico bancario sul Conto Corrente Postale n. 000040692204, IBAN IT66Z0760101600000040692204. Le ricevute di pagamento devono essere complete dell’indirizzo postale a cui inviare l’abbonamento annuale alla rivista Hystrio. I lavori dovranno essere inviati a Redazione Hystrio, via Olona 17, 20123 Milano, entro e non oltre il 20 marzo 2014 (farà fede il timbro postale). I lavori non verranno restituiti. - Le opere dovranno pervenire mediante raccomandata in tre copie anonime ben leggibili e opportunamente rilegate: in esse non dovrà comparire il nome dell’autore, ma soltanto il titolo dell’opera. All’interno del plico dovrà essere presente, in busta chiusa, una fotocopia di un documento d’identità e un foglio riportante, nell’ordine, nome e cognome dell’autore, titolo dell’opera, indirizzo, recapito telefonico ed email. È inoltre necessario inviare i file dell’opera a premio@hystrio.it (nel nome del file e all'interno di esso dovrà comparire solo il titolo; nell'oggetto dell’e-mail indicare “Iscrizione Scritture di Scena”). Non saranno accettate iscrizioni prive di uno o più dei dati richiesti né opere che contengano informazioni differenti da quelle richieste. - I nomi del vincitore e di eventuali testi degni di segnalazione saranno comunicati ai concorrenti e agli organi di informazione entro fine maggio 2013. La giuria sarà composta da: Fausto Paravidino (presidente), Fabrizio Caleffi, Claudia Cannella, Renato Gabrielli, Domenico Rigotti, Roberto Rizzente e Diego Vincenti.
Premio Hystrio alla Vocazione Bando di concorso 2014 Quest’anno c’è un’importante novità per gli attori under 30. Cambiano le modalità d’iscrizione al Premio Hystrio alla Vocazione. Dato il costante successo, che nelle ultime edizioni ha visto un numero sempre crescente di partecipanti, abbiamo pensato per la prossima edizione di modificare la fase di selezione, allo scopo di arrivare alle giornate finali con un gruppo più ristretto di candidati. In questo modo la giuria avrà a disposizione più tempo e quindi maggiori elementi per valutare le prove di ciascun partecipante. Le modalità d’iscrizione, pertanto, prevedono una prima fase di selezione, alla quale parteciperanno tutti i candidati, sia in possesso di un diploma presso le scuole riconosciute, sia autodidatti o comunque sprovvisti di un diploma. Questa fase avrà luogo nella prima metà di maggio, in due sedi, a Milano e a Roma, per facilitare la possibilità di partecipare da tutta Italia. La scadenza per l’iscrizione sarà quindi unica per tutti i candidati ed è fissata al 15 aprile 2014. Non dimenticatelo! Coloro che supereranno questa prima fase, avranno accesso alla finale, che si terrà a Milano nei giorni 19-20-21 giugno 2014. Il Premio alla Vocazione per giovani attori, giunto alla sedicesima edizione, si svolgerà il 19-20-21 giugno 2014 a Milano. Il Premio è destinato a giovani attori entro i 30 anni (l’ultimo anno di nascita considerato valido per l’ammissione è il 1984): sia ad allievi o diplomati presso scuole di teatro, sia ad attori autodidatti, che dovranno affrontare un’audizione di fronte a una giuria altamente qualificata composta da direttori di Teatri Stabili, pubblici e privati, e registi. Il Premio consiste in due borse di studio da euro 1000 riservate ai vincitori del concorso (una per la sezione maschile e una per quella femminile). Il concorso sarà in due fasi: 1) una selezione (a Milano e a Roma), a cui dovranno partecipare tutti i candidati iscritti, scegliendo una delle due sedi indicate; 2) una finale a Milano, a cui hanno accesso coloro che hanno superato la selezione.
fotocopia); c) foto; d) fotocopia di un documento d’identità; e) indicazione di titolo e autore dei due brani (uno a scelta del candidato e uno a scelta fra una rosa proposta dalla Giuria) e di una poesia o canzone da presentare all’audizione. I brani, della durata massima di cinque minuti ciascuno e ridotti a monologo, possono essere in lingua italiana o in uno dei dialetti di tradizione teatrale. Modalità di iscrizione L’iscrizione avviene preferibilmente dal sito www.premiohystrio.org attraverso la compilazione dell’apposito modulo, corredato dei materiali di cui sopra. In alternativa si accetta anche l’iscrizione via posta. La quota d’iscrizione è la sottoscrizione di un abbonamento annuale alla rivista Hystrio (euro 35) da versare, con causale: Premio Hystrio alla Vocazione, sul Conto Corrente Postale n. 000040692204 intestato a Hystrio-Associazione per la diffusione della cultura teatrale, via De Castillia 8, 20124 Milano; oppure attraverso b onif ic o banc ar io sul Con to Corren te Pos tale n. 000040692204, IBAN IT66Z0760101600000040692204. Le ricevute di pagamento devono essere complete dell’indirizzo postale a cui inviare l’abbonamento annuale alla rivista Hystrio.
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IL BANDO PER LA SELEZIONE (tra l’1 e il 15 maggio 2014, a Milano e a Roma) Le selezioni avranno luogo, nella prima metà di maggio, a Milano e a Roma. Le domande di iscrizione dovranno pervenire alla direzione di Hystrio (via Olona 17, 20123 Milano, tel. 02.400.73.256, fax 02.45.409.483, premio@hystrio.it) entro il 15 aprile 2014. Possono essere inviate per posta oppure online (www. hystrio.it, www.premiohystrio.org), corredate dai seguenti allegati: a) breve curriculum; b) eventuale attestato di frequenza o certificato di diploma della scuola frequentata (anche in Hy7
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Parigi, sulla scena del mondo luci e ombre della Storia La Storia e la storia del teatro s’intrecciano al Festival d’Automne, che quest’anno ha dedicato un focus a Bob Wilson. Thomas Bernhard raccontato da Krystian Lupa, la Cambogia di Sihanouk al Théâtre du Soleil e il Medioevo cortese e passionale di George Benjamin tra gli eventi della rassegna. di Giuseppe Montemagno
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n gigantesco, mansueto ippopotamo troneggia impassibile nella corte del Museo nazionale di storia naturale di Parigi; ma al di sopra, minuscolo, un uomo sfoglia appassionato le pagine di un quotidiano, passando in rassegna le novità dell’agenda internazionale. È un’immagine paradossale e al contempo accattivante – firmata da Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla – quella che il Festival d’Automne sceglie quale arguta sintesi della sua quarantaduesima edizione: un incontro a tutta prima improbabile ma foriero d’inaspettate sorprese, in cui il soffio della storia si confronta con la contemporaneità più stringente,
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il presente entra in risonanza con il passato e la memoria «per inventare altri domani», secondo le intenzioni del direttore Emmanuel DemarcyMota. Nomade par excellence, l’edizione 2013 propone oltre sessanta eventi in quaranta siti, nella capitale francese e la sua banlieue, e – proseguendo una tradizione inaugurata l’anno passato con Maguy Marin – quest’anno celebra un artista che ha legato il suo nome alla rassegna sin dalla prima edizione, Bob Wilson. Accanto all’ormai storico Einstein on the Beach, la monumentale opera di Philip Glass, figurano così nel programma l’ultima creazione per il Berliner Ensemble, Peter Pan, da James Matthew Barrie, su musiche del duo psycho-folk CocoRosie, la cre-
azione francese delle surreali vicende della Old Woman di Daniil Charms, immaginato per lo strepitoso talento scenico di Mikhail Baryšnikov e Willem Dafoe, e infine una serie di Living Rooms, installazioni tra le opere d’arte del Louvre, tra cui la Lecture on Nothing, manifesto poetico di John Cage. Proprio l’opera dell’artista texano suggerisce le due traiettorie, lungo le quali si articola la riflessione del festival: da una parte la longue durée, la durata-fiume di spettacoli che per questa via indagano il lento, ma inesorabile fluire della Storia; e dall’altra il linguaggio, componente fondamentale di una semiotica performativa in cerca di nuove poetiche e innovative strategie di comunicazione.
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Una fluviale allegoria del male Si prenda il caso di Perturbations, che Krystian Lupa ha liberamente tratto da Verstörung (Perturbamento, 1967), il secondo e più celebre romanzo di Thomas Bernhard. È la storia di Thomas (Matthieu Sampeur), figlio di un medico di campagna, che decide di accompagnare il padre nel corso di una giornata di lavoro, in visita dagli ammalati dalla zona. Per cinque, interminabili giri di lancette lo spettatore è sopraffatto – attraverso gli occhi del narratore – dalla scoperta di patologie, deformità e difformità che, casa dopo casa, squadernano l’orizzonte interiore di un’umanità travolta dalla sofferenza, ulcerata dal dolore, sopraffatta dagli eventi. E come l’autore austriaco affonda il bisturi nella piaga, così il regista polacco asseconda il cupio dissolvi di personaggi risucchiati dalle tenebre, vocati all’autodistruzione, fagocitati da malattie che sono tragiche allegorie del male. Come in un viaggio iniziatico, l’esperienza culmina nella visita al principe Saurau (un superlativo, abbagliante Thierry Bosc), un nobile decaduto recluso nel suo castello in rovina, che di fronte al flusso inesorabile – quanto inutile – della vita sommerge i suoi ospiti con la lucida, irrefrenabile logorrea dei suoi monologhi. Allo stesso modo Lupa affianca il video alla scena, moltiplica racconti e situazioni estreme, sovrappone dialoghi volutamente incomprensibili, viviseziona il vuoto della civiltà occidentale che si esprime nel vacuo errare fàtico dei personaggi. Bagna tra le pieghe della storia anche Written on Skin (Scritto sulla pelle), l’unica produzione lirica del festival, il capolavoro del compositore francese George Benjamin che dal debutto al Festival di Aix-en-Provence, nel 2012, ha già conquistato le platee di Amsterdam e Londra, Vienna e Monaco, Tanglewood e Bonn. Nelle dimensioni raccolte dell’Opéra Comique brilla il libretto del drammaturgo inglese Martin Crimp, che prende le mosse da un poema del XIII secolo di Guillem de Cabestaing: Agnès, invaghitasi di un ragazzo assunto dal marito per redigere un libro miniato, lo induce a raccontare per immagini il tradimento. Le conseguenze saranno fatali: il Protettore,
scoperta la tresca leggendo una pagina segreta del libro, ucciderà l’artista e ne darà in pasto il cuore alla moglie. Rarefatti impasti timbrici – dalla viola da gamba alla glassharmonica – arricchiscono la tavolozza orchestrale di Benjamin, creando un ponte ideale tra sonorità arcaiche e una modernità di scrittura che perfettamente si adegua alle suggestioni del testo letterario, a partire dalla moltiplicazione dei piani narrativi. Su questo artificio gioca l’ispirata regia di Katie Mitchell, che mette a frutto le limpide, geometriche architetture disegnate da Vicki Mortimer: come la pagina di un libro miniato, la vicenda si svolge unicamente al centro di una casa con vari interni, mentre ai lati un terzetto di angeli anticipa o commenta l’azione, rintracciando echi metafisici del racconto medievale nel mondo contemporaneo. Barbara Hannigan, Christopher Purves e Iestyn Davies abitano le passioni dei personaggi con una tale partecipazione, da “scrivere sulla pelle” la scoperta del desiderio e l’amore carnale, fino a un epilogo esiziale in cui emerge la vera natura dell’uomo, homini lupus.
te ore di spettacolo, dalla Cambogia agli Stati Uniti, passando per l’Unione Sovietica e la Cina, evocano la straordinaria, commovente, entusiasmante epopea di un popolo che Georges Bigot e Delphine Cottu ricreano con pochi, essenziali tratti. San Marady, nel ruolo del titolo, incarna un potere illuminato e bistrattato, l’aspirazione a costruire una nazione indipendente, neutrale e democratica e, al contempo, la tragica esperienza di uno tra i più drammatici genocidi, scaturito dalle rivoluzioni culturali del Dopoguerra. Proibito in Cambogia fino al 2011, lo spettacolo è stato montato alla Cartoucherie in lingua khmer da una compagnia cambogiana, diretta dai primi interpreti francesi: quando il teatro ritrova intatto il soffio epico di un’ispirazione militante, capace di restituire la memoria a un paese costretto all’amnesia da più di un quarto di secolo. ★ In apertura, una scena di Perturbation, regia di Krystian Lupa (foto: Mario Del Curto); in questa pagina un’immagine da Storia terribile, ma incompiuta..., regia di Georges Bigot e Delphine Cottu.
Sihanouk torna alla Cartoucherie E poi c’è la Storia che il teatro non solo racconta, ma talvolta contribuisce anche a forgiare. Nel 1985 Ashley Thompson, una giovane ricercatrice americana, assiste al debutto della Storia terribile ma incompiuta di Norodom Sihanouk, re di Cambogia, di Hélène Cixous, messo in scena dal Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine. Entusiasta del progetto, decide, una volta diventata eminente studiosa delle tradizioni del Sud-Est asiatico, di riproporre il testo nel corso dei suoi “Laboratori della memoria”, che mirano alla ricostruzione della storia della Cambogia, grazie al sostegno della compagnia Phare Ponleu Selpak di Battambang. E se allora la “prima epoca” raccontava le vicende dell’Indocina dal 1955 sino al 1970, dall’indipendenza della Cambogia al colpo di Stato di Lon Nol, oggi una “seconda epoca” ripercorre gli anni fino al 1979 e si conclude con la liberazione-occupazione del paese da parte del Vietnam. Dieci atti, quarantuno scene, venticinque attori, set-
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Nella Berlino «povera ma sexy» la Freie Szene è a caccia di risorse Mentre la capitale tedesca rischia di perdere tutto il suo appeal di città culturale e underground nelle fauci dei grandi capitali, la Scena indipendente, che di questo appeal è fra i principali responsabili, è stanca delle briciole e presenta il conto. di Elena Basteri
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uando nel 2004 l’allora e attuale sindaco socialdemocratico di Berlino Klaus Wowereit in un’intervista disse «Berlino è povera ma sexy» non sapeva forse che questa frase sarebbe divenuta una sorta di mantra usato e abusato per brandizzare la città. Berlino la città europea underground e “alternativa”, ancora abbordabile, piena di spazi a disposizione, palazzi e capannoni abbandonati dove realizzare progetti e sogni, la città che con un graffito o un colpo di pennello riscattava la pesantezza di un passato assai ingombrante. Al di là della sua forza pubblicitaria piuttosto dozzinale ma efficace, la formula poor but sexy dieci anni dopo vacilla. Il proverbiale sex appeal ha attratto infatti nel tempo giovani, “creativi”, molti turisti e un esercito di piccoli e (soprat-
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tutto) grandi investitori, agguerriti nella corsa alla spartizione della capitale più economica nella piazza europea. Guardando alle cifre, oggi Berlino è ancora una città indebitatissima e in bancarotta ma quello che si respira nell’aria e che trapela dai mega cantieri a ogni angolo, è una decisiva transizione verso costi e qualità di vita da capitale nord europea. Ma cosa c’entrano la cultura e il teatro in tutto questo? Quegli stessi creativi che hanno contribuito a creare una certa immagine di città e a renderla appetibile da più punti di vista oggi presentano il conto. Lo fanno riuniti in quella che un anno fa si è costituita come Koalition der Freien Szene, la coalizione della scena indipendente che comprende teatro, danza, musica e arti visive. Anime assai diverse sono riuscite ad accordarsi su un manifesto di dieci punti che
rivendica più finanziamenti, più strutture e in generale standard di vita più sostenibili di quelli dettati dalla corsa di “bando in bando” o di “progetto in progetto” che caratterizza il ritmo di lavoro nella scena indipendente, slegata da finanziamenti regolari e sicuri. L’obiettivo economico massimo della Koalition è di ottenere 18 dei 400 milioni di euro totali stanziati per la cultura, rispetto ai soli 10 milioni previsti fino a ora. Il gettito aggiuntivo dovrebbe provenire non solo da una ridistribuzione delle risorse dalle istituzioni culturali statali ma anche dai proventi della cosiddetta city tax. Berlino, ormai terza città più visitata in Europa dopo Parigi e Londra, sta infatti considerando di applicare la tassa di soggiorno ai turisti e la scena indipendente reclama per sé parte di questo provento.
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Tutt’altro che bohemian In un anno intenso di manifestazioni, feste, dibattiti, incontri con politici e attivismo nei social network la Koalition der Freien Szene è riuscita ad acquistare grande visibilità nell’opinione pubblica grazie a un grande interesse mediatico. Alla base della campagna c’era prima di tutto la sfida di far capire ai politici e alla gente che cosa è la scena indipendente e che cosa significa vivere secondo i suoi standard. Essere un’artista o un curatore indipendente non significa essere un outsider bohemian che si crogiola nei sussidi statali, ma un protagonista importante di una scena che, sempre più spesso, nutre e stimola quella istituzionale. Guardando soltanto al teatro, sono moltissime le compagnie e gli spazi della Freie Szene che hanno dato un’identità forte alla cultura tedesca nell’ultimo decennio (per citare solo i più noti Sasha Waltz, Rimini Protokoll, Nico and the Navigators o Constanza Macras). Oltre a questi nomi noti che appartengono già a una fetta privilegiata della Freie Szene (e che difficilmente, pur dovendosi barcamenare anch’essi tra bandi e ricerca di finanziamenti, rimarranno a bocca asciutta), c’è poi una schiera di artisti e operatori non altrettanto conosciuti ma attivissimi nel mantenere vivo il tessuto culturale della città. Oltre agli artisti sono poi molti i direttori di Teatri Stabili che hanno iniziato le loro carriere nella scena indipendente. L’esempio più fresco a Berlino è quello della turco-tedesca Shermin Langhoff, approdata in autunno alla direzione del Gorki Theater dopo aver diretto per anni la Ballhaus Naunynstrasse, piccolo teatro nel quartiere a prevalenza turca di Kreuzberg, che si è fatto un nome importante per aver lanciato l’idea di teatro “post migrante”. Tutto questo dimostra che i confini tra la scena statale e quella indipendente sono sempre più porosi: la Freie Szene è una palestra e un’officina irrinunciabile per sperimentare e creare la linfa che anima anche i teatri statali, i quali non a caso si sono mostrati solidali alla Koalition e al suo operato. Intanto nel piano finanziario di prossima approvazione Wowereit (che unisce nella sua figura anche la carica di assessore alla cultura) ha promesso di accordare alla scena indipendente 3,7 milioni in più, dei quali un milione tondo andrebbe alla sola Sasha Waltz. Siamo dunque lontani dal traguardo ambito dei 18 milioni e bi-
sogna aspettare l’approvazione definitiva del piano finanziario cittadino prima di capire se anche questo primo contentino verrà accordato realmente. Una battaglia, comunque, la Freie Szene l’ha già vinta: nell’essere riuscita ad affermare con compattezza il proprio ruolo necessario nell’identità della città. Un’identi-
tà in transizione e fragile in cui la cultura indipendente può fungere da contrappeso a una deriva di svendita e mercificazione. ★ In apertura, manifestanti della Koalition der Freien Szene; nel box, una scena di Playing cards: coeurs (foto: Eric Labbe).
TRIENNALE DI ESSEN
Dal Québec all’Algeria, storie d’amore nei Cuori di Lepage PLAYING CARDS: COEURS, di Louis Fortier, Reda Guerinik, Ben Grant, Catherine Hughes, Kathryn Hunter, Robert Lepage, Marcello Magni, Olivier Normand. Regia di Robert Lepage. Drammaturgia di Peder Bjurman. Scene di Michel Gauthier e Jean Hazel. Costumi di Sébastien Dionne. Luci di Louis-Xavier GagnonLebrun. Musiche di Jean-Sébastien Côté. Video di David Leclerc. Con John Cobb, Louis Fortier, Ben Grant, Reda Guerinik, Catherine Hughes, Kathryn Hunter, Olivier Normand. Prod. Ex Machina, QUÉBEC. Coeurs ha debuttato con successo alla Triennale di Essen diretta da Heiner Goebbels a ottobre. È il secondo, emozionante episodio del progetto Jeux de cartes dedicato alla simbologia del gioco di carte che pone al centro della ricerca sia una scrittura collettiva sia una scenografia originale e funzionale, a pianta centrale mobile, avente un sottovano da cui i manovratori spostano oggetti di scena e alzano strutture. La storia spazia dal Québec contemporaneo all’Algeria coloniale fino alla Francia di fine Ottocento, con storie che si intrecciano in una struttura narrativa parallela: una ricercatrice di Storia del cinema conosce un taxista marocchino e se ne innamora. Lo scontro religioso e culturale tra la famiglia musulmana di lui e la tipica famiglia del Québec di lei, con il padre inglese e la madre francese, dà vita a una serie di sequenze più esilaranti che tragiche: entrambi condividono una visione un po’ razzista - nonostante il pluralismo culturale sia considerato una conquista precoce della società canadese - e non accettano la nuova religione della figlia. Da qui ci si sposta in Africa: il giovane marocchino scopre che le sue radici sono algerine da alcune fotografie e che il nonno era uno dei capi del Fronte di Liberazione Nazionale. La trama, come ci ha abituato Lepage sin dai tempi di The seven streams of the river Ota, è ben ricamata e ricca di annodamenti imprevisti, punteggiata da molti personaggi tra passato e presente. L’Algeria colonizzata dalla Francia è oggetto di un curioso excursus drammaturgico in cui alcuni artisti legati alla tecnica (il fotografo Félix Nadar, il regista Georges Méliès) si intrecciano come in un ingranaggio di orologio (che ritorna come motivo scenografico), auspice la figura dell’illusionista Jean Eugène Robert- Houdin, ovvero il mago dei tarocchi. In mezzo alla grande Storia, le memorie di resistenti, quei partigiani che hanno combattuto valorosamente, nascondendo la vera identità a figli e nipoti. Memorie di torture, incroci e destini di uomini e di macchine per uno dei lavori più toccanti e riusciti del regista canadese. Anna Maria Monteverdi
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Exhibit B
Tutta la violenza del mondo in scena a Dialog Un’Antigone islamica, un Re Lear decisamente pulp, la storia del pluriomicida Pierre Riviére, ma anche il sangue (vero) di Angelica Liddel sono solo alcune delle immagini dell’edizione 2013 del festival polacco di stanza a Wroclaw. di Laura Caretti
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due anni di distanza, si è rinnovato a Wroclaw, dall’11 al 18 ottobre, l’appuntamento del Festival Internazionale di teatro Dialog, diretto dall’intrepida regista Kristina Meissner. Il tema di questa edizione – «la violenza fa girare il mondo» – ha riunito in una caleidoscopica sequenza i diversi spettacoli in programma; e il pubblico, come sempre, è stato coinvolto nelle discussioni del giorno dopo con registi, scrittori e critici invitati. È la natura davvero “dialogica” del Festival che ogni volta crea un’eccezionale sinergia di idee e riflessioni sugli spettacoli, e non solo. «Tutto il teatro è mondo» potrebbe essere il principio dominante di questo Festival, ed è quel mondo violento che ri-conosciamo come nostro, anche quando in scena c’è Antigone, trasportata dal regista iraniano Homayun Ghanizadeh in un contesto islamico (Antigone, Teatro Raaam di Tallinn); o una Medea che è le
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tante madri “dolorose”, a cui la cantante solista Katarina Chlebny dà voce (Macabra Dolorosa, Teatr Nowy di Cracovia); o quel Pierre Rivière che, come racconta Foucault, uccise la madre, la sorella e il fratello, e che nella riscrittura scenica della regista Agata Duda-Gracz fa strage dell’intero villaggio (Io, Pierre Rivière, Teatr Muzyczny Capitol di Wroclaw). Quando entriamo nella grande sala del teatro, le morti sono già avvenute, e troviamo i personaggi stesi sui letti di un immaginario obitorio. Gradualmente richiamati a vivere, ognuno racconta di sé, in un fatale crescendo di tensioni, amori e rivalità che esplodono con improvvisa ferocia. La connessione scena-mondo ha messo a dura prova la “finzione” della violenza, e il caso del King Lear, diretto da Johan Simons, ha offerto un esempio lampante di eccesso di teatralità. E non mi riferisco alla debordante presenza in scena di grossi maiali grufolanti, ma alla scena
dell’accecamento di Gloucester. Il teatro della crudeltà di Shakespeare non è solo in quell’atto spietato, ma nello sguardo impassibile del figlio Edmund che ha consegnato il padre a quel supplizio. Se invece, come appunto nella messinscena del Münchner-Kammerspiele, Regan strappa con i denti un occhio di Gloucester e lo sputa dalla bocca insanguinata, questo gesto e quel qualcosa che rotola sul palco diventano il fulcro granghignolesco della scena. E allora si rimpiange il teatro che nasconde l’azione cruenta, ma la rende reale nel nostro immaginario. Il sangue sul palcoscenico si sa che è finto, e non è facile renderlo vero. Ci riesce stupendamente Krzysztof Warlikowski, nonostante la partitura truculenta di Cleansed (Purificati) di Sarah Kane, riallestito a Wroclaw, con gli stessi bravissimi attori, dopo 12 anni dalla prima. E basterebbe citare l’intensità tragica della danza d’amore di Carl per Rod, con quelle maniche bianche, appe-
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na arrossate sui polsi là dove sono state mozzate le mani, che si muovono leggere come ali ferite; o ancora le macchie di sangue sulla garza che copre la ferita dopo l’operazione del taglio dei seni sul corpo androgino di Grace. Trucco teatrale certo, ma non per i nostri occhi. Sangue rosso, camicie brune Angelica Liddell, per continuare con questo filo rosso, rifiuta invece la finzione per mettere a nudo la verità del proprio corpo. Il gesto è anche qui performativo, ma la lama taglia davvero la carne e il sangue cola lungo le gambe dell’artista. Yo no soy bonita è un grido di rabbia e di dolore che mescola autobiografia e denuncia nei barlumi di una storia che accoglie in sé altre storie. È un j’accuse che parla della bellezza violata, dell’amore che brucia rapido come la fiamma delle candele sulla torta di nozze, dell’infanzia a cui è rubata l’innocenza. C’è nella performance un impeto di ribellione e una sofferenza che si esprime con una simbologia cristologica che è anche desiderio di catarsi. Un cavallo bianco assiste impassibile alla scena, ed è solo a lui che l’artista si rivolge con disperata tenerezza. La violenza, come sappiamo, non ha sempre le mani insanguinate, può essere fredda, mascherata e impunita come in Exhibit B (Third World Bunfight, Cape Town) che svela la violenza del potere coloniale e dell’implicito razzismo scientifico-antropologico. Il regista sudafricano Brett Bailey ha infatti allestito un “museo vivente” sul modello di quegli “zoo umani” nati come curiosità etnografica nei confronti dei “selvaggi” africani. E noi, invitati a rivivere il ruolo di “spettatori”, siamo stati travolti dalle emozioni e dalla nostra impotenza e vergogna di fronte all’immobilità di quei corpi esibiti, chiusi dentro teche di vetro che ci guardano. In qualche caso il registro tragicomico e l’invenzione ironica hanno invece prevalso sulla tonalità drammatica più diffusa. Così ne Il salotto di Ulisse della compagnia Artus di Budapest diretta da Gabor Goda, che ha coinvolto il pubblico in uno spettacolo corale dove la violenza affiora nella quotidiana meccanicità dei rapporti e nelle ripetitive micro-scene della vita imprigionata dal passare del tempo. E così anche Krystyna Meissner che in Hopla, noi viviamo! ha messo in scena la violenza subita dai vecchi nell’anticamera della morte delle case di riposo, costretti a lasciare la vita con i suoi sogni e desideri per en-
trare in un non-tempo scandito da stupide attività ricreative, e interrotto dalle visite di parenti spietatamente premurosi. E tuttavia anche qui, in questa desertificazione degli affetti, rifiorisce in una coppia di anziani il germe di un amore giovanile. Prendendo spunto dal romanzo di Garcia Marquez, L’amore ai tempi del colera, Krystyna Meissner ha così offerto uno spiraglio di speranza e di possibilità di ribellione. E la sua voce vibrante si è levata anche in difesa di Zygmund Bauman, aggredito fuori dal teatro da un gruppo di “camicie brune” come già era successo a giugno, sempre a Wroclaw, durante una sua confe-
renza. È terribile pensare che i tempi siano cambiati così rapidamente in Polonia. Due anni fa questo vecchio filosofo che ha attraversato tutte le violenze del secolo scorso, era invece venuto al Festival a sostenere, in un clima di piena serenità, l’importanza del “dialogo”, anche tra parti avverse. Quest’anno è invece entrato, nello stesso Teatro Współczesny, scortato dalla polizia e non ha potuto dire nulla a quei giovani che lo insultavano di essere un “ebreo bolscevico”. È stato un drammatico fuori scena che ha mostrato il volto minaccioso della vecchia e nuova violenza che serpeggia in tutta Europa. ★
OLIVER FRLJIĆ
Ritratto di famiglia dai Balcani. Quando realtà e finzione si confondono ODIO LA VERITÀ (Mrzim istinu), testo e regia di Oliver Frljić. Con Ivana Rošcic, Rakan Rushaidat, Filip Križan, Iva Viskovic. Prod. Theatre&TD, Zagabria (Croazia). Interno familiare. In tinello balcanico. Ovvero, un anonimo tavolo intorno a cui prendono vita gioie e dolori, repressioni e frustrazioni, odio e amore. Soprattutto una violenza sottile, spesso solo verbale, a volte qualcosa di più. Non pare essere stata particolarmente felice la giovinezza di Oliver Frljić, enfant terrible del teatro croato che dice d’essersi ispirato alla propria biografia per questo Odio la verità, piccolo cult in patria e portato in Italia dalla vivacissima Zona K di Milano. Con la pièce tutta incentrata sulle dinamiche familiari vissute dal protagonista durante l’adolescenza. Lui e la sorella a cercare di barcamenarsi con due genitori non proprio da manuale. Ma nemmeno due mostri. E alla fine quasi si parteggia per loro, vista la pesantezza morale del figliolo… Ma al di là di un plot abbastanza banale, è l’insieme della produzione che invece colpisce positivamente. E non poco. Prima di tutto per l’intelligenza con cui ci si propone in un gioco meta-teatrale che stempera i momenti più tesi e apre a risate liberatorie. Anche qui non originalissimo. Ma gestito con raro equilibrio. E in una forma “al quadrato”, come se i familiari fossero anche attori di se stessi sotto la regia del figliolo, ostinato nel rivendicare la precisione dei suoi ricordi. Perché ovviamente a emergere è anche l’interrogativo sulla (im)possibilità di rappresentare il vero. Come in Rashomon di Kurosawa. Dove gli avvenimenti si ribaltano a seconda dei punti di vista. Testo scritto con personalità e ottimo ritmo, si rimane solo un poco spiazzati dagli esigui riferimenti al contesto politico-sociale di quegli anni, quando la Jugoslavia era una polveriera pronta a esplodere. Spazio scenico gestito con sicurezza, al centro di un (non) palco dove il pubblico si dispone sui quattro lati. Intimità. E la sensazione di essere ospiti a cena, un poco invadenti. Grazie anche al notevole talento dei quattro giovani interpreti, intensi e credibili. In un incrocio fra freschezza e maturità scenica che conquista. Diego Vincenti
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Jeton Neziraj, dal Kosovo un “agitatore” che supera confini e pregiudizi Drammaturgo e intellettuale, Neziraj ha ben chiaro come debba svilupparsi la nascente cultura nazionale del piccolo Stato balcanico, in costante e critico dialogo tra le radici e il presente, facendo i conti con la paura dei fanatismi religiosi, neocolonialismo e ordinarie precarietà. di Anna Maria Monteverdi
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el neonato Stato del Kosovo mai riconosciuto dalla Serbia, uscito quindici anni fa da una guerra devastante, la voce teatrale è quella di Jeton Neziraj, 36 anni, influente e carismatico drammaturgo e scrittore, già direttore del Teatro Nazionale di Priština. Impegnato sul fronte dell’attivismo intellettuale e sul ruolo dell’artista, sulla sua responsabilità e sul margine di libertà nei processi socio-politici in atto, Neziraj è una figura da cui è impossibile prescindere occupandosi della scena teatrale balcanica. Per quanto operi in una situazione di evidente emarginazione mediatica, la sua notorietà è arrivata sino in Germania, in Svizzera e in Francia dove i suoi testi sono stati tradotti, prodotti e rappresentati anche a seguito di residenze. Neziraj è quello che potremo definire un “agitatore culturale”: nasce come studioso e intellettuale e ha radunato a Priština un gruppo di giovani creativi intorno all’associazione Qendra multimedia, facendo “resistenza” rispetto
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sia alle tematiche del nazionalismo sia ai cliché commerciali imposti dalla “colonizzazione culturale”. Qendra ha sede in un basement di un quartiere molto popolare e vivace non lontano dalla statua sorridente di Bill Clinton nell’omonimo Boulevard: non è l’unico segno dell’America qua in Kosovo, lo ritroviamo nelle bandiere vendute alle bancarelle, dentro i diversi American’s corner e nei nomi dei ragazzi nati dopo il 1999. Politica sì, ma niente propaganda Jeton Neziraj ha un’idea precisa su come debba svilupparsi la nascente cultura del Kosovo, tra indipendenza e tradizione, e ne ha fatto oggetto di convegni internazionali tra cui In place of war: theatre and nationalism (2010) dove ha riflettuto sul ruolo del teatro nella costruzione di un’identità culturale per il suo Paese: «Deve essere un teatro completamente autonomo nelle sue attività, un teatro che esprime le richieste e i bisogni del pubblico kosovaro, un teatro che
riflette criticamente sul passato e sul presente. Un teatro che si riconosce con proprie estetiche, con un ruolo emancipato; un teatro aperto e pronto a vedere oltre i “National topics”, un teatro che diventa la voce dei deboli e degli oppressi». Il piglio politico ma non di propaganda, non meno attenuato da un tono ironico, in alcuni momenti comicissimo, fa del suo teatro uno specchio veritiero di una società e di una parte d’Europa quale raramente i media ci raccontano. Quello che interessa a Neziraj, più che la rilettura del passato, è la lettura del presente, con le sue contraddizioni e i suoi conflitti, in un Kosovo stretto tra istanze indipendentiste e nazionaliste e l’evidenza di una massiccia presenza economica e militare internazionale. Emblematica l’esilarante commedia politica Fluturimi mbi teatrin e Kosovës (Qualcuno volò sul teatro del Kosovo) in cui l’artista immagina la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo come un’attesa alla Aspettando Godot, proclamata da un
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Ministro tenendo all’oscuro la popolazione. Beckett e Brecht ma anche Buzzati sono il bacino letterario e drammaturgico a cui l’autore kosovaro attinge a piene mani con libertà letteraria e uno stile personale e pungente. Il testo La distruzione della Torre Eiffel di Neziraj, dal significativo sottotitolo «tragicommedia dell’assurdo», è stato presentato in forma di reading in Francia e a New York durante le celebrazioni del decennale dell’11 settembre. Ha debuttato con la regia di Blerta Neziraj il 26 novembre a Priština, al Teatro Nazionale (Teatri Kombëtar i Kosovës). La drammaturgia, molto coraggiosa e umoristica, si ispira liberamente ad alcuni episodi di cronaca: il divieto di indossare il burqa in Francia e quello di costruire minareti in Svizzera. La paura generalizzata del fanatismo religioso e dei suoi simboli, attecchisce sempre di più in Europa: Neziraj ne esplora ironicamente le cause e le degenerazioni, costruendo una perfetta macchina drammaturgica che non risparmia nessuno e smonta pezzo dopo pezzo, i luoghi comuni, i fraintendimenti e i pregiudizi sull’Islam ma anche quelli sulla “tollerante” Europa. Se, sin dal titolo, questa può sembrare una vera e propria revenge play elisabettiana in chiave islamica, in realtà i territori narrativi che l’autore va a toccare sono ben altri. Addirittura, forse, bisognerebbe chiamare in causa la “commedia degli equivoci”, nella miglior tradizione da Plauto a Shakespeare a Georges Feydeau. Far esplodere la Torre Eiffel Il comico e il tragico con tutti i livelli intermedi, qua convivono senza “conflitto” insieme a una certa visione un po’ surreale della realtà e a una capacità di ironia che smonta ogni certezza: le motivazioni della vendetta dei presunti terroristi (che vogliono far esplodere la Torre Eiffel) si riveleranno prive di fondamento, facendo scoprire una storia d’amore: l’uomo che solleva il velo alle donne a Parigi – motivo scatenante dell’atto terroristico che però, non accadrà – vuole solo ritrovare la sua amata la quale, indossando il burqa, è diventata irriconoscibile. Si intrecciano poi, varie vicende, da quella
fiabesca del soldato ottomano Osman che distribuisce veli alle donne musulmane, a quella piena di non sense della coppia di terroristi imbranati arrivati a Parigi per far cadere il simbolo dell’Europa. Ridicoli i loro tentativi di far parlare il prigioniero con un elenco infinito di torture al limite della parodia, ma altrettanto ridicoli sono presentati i regolamenti europei per l’ottenimento del permesso di soggiorno. La storia del terrorista “sfortunato” che prova molte volte a farsi saltare in aria ma l’ordigno non funziona mai, è bilanciata dal dialogo sul luogo comune degli europei che vedono tutti i musulmani come potenziali terroristi e tollerano tra loro solo quelli “moderati” ovvero, quelli «che non disturbano con le loro richieste di minareti e di diritti umani». Lo spettacolo prevedeva in scena insieme agli attori (Shengyl Ismaili, Adrian Morina, Ernest Malazogu, Armend Ismajli) un teatrino di figura con un gioco di ombre, manipolate con abilità direttamente dagli attori guidati dall’esperto marionettista francese Clement Peretjatko; sono del geniale ed estroso compositore Gabriele Marangoni i suoni e i canti dal carattere rituale e la composizione ritmica dell’intera scrittura scenica: senza l’ausilio di alcuno strumento, se non di alcune latte colorate, ha creato una non-struttura musicale che offre un inaspettato e talvolta ipnotico, ambiente vocale e sonoro. La direzione di Blerta Neziraj, alla sua terza regia dai testi di Jeton, ha privilegiato alla parola, un ambizioso quanto singolare progetto teatrale che mette insieme linguaggi visivi, sonori e corporei connotati da un forte tratto simbolico e concettuale (con le coreografie dei ballerini bulgari Violeta Vitanova e Stanislav Genadiev), mettendo alla prova i quattro attori che hanno restituito, con grande energia e bravura atletica e interpretativa, la varietà dei registri del testo di Neziraj. Al centro della scena diversi contenitori rigidi con rotelle usati come panchine, tavolini, vasche per l’abluzione rituale. Non sfuggirà a chi conosce l’ambiente militare, che questi altro non sono che i contenitori (i “contichi”) in dotazione degli eserciti per il trasporto (anche) di armi. Uno spettaco-
lo di grande impatto che, in linea con l’intenzione del drammaturgo, esaspera, ridicolizzandoli, i fondamentalismi religiosi e le persecuzioni politiche. Da qualunque parte e in qualunque forma essi si manifestino. ★ In apertura, una scena di Qualcuno volò sul teatro del Kosovo (foto: Avni Selmani); in questa pagina, un ritratto di Jeton Neziraj.
Jeton Neziraj è autore di oltre 15 testi teatrali, tra cui The last Supper (per il progetto Kosovo. Blood.Theatre.Project), Yue Madeline yue, The Demolition of the Eiffel Tower, Peer Gynt in Kosovo, War in Time of Love, rappresentate al Volkstheater di Vienna, a Parigi, New York e Londra, oltre che in Kosovo, Albania, Croazia, Serbia, Macedonia. Liza is sleeping ha vinto nel 2007 il premio come miglior testo albanese. Di Patriotic Hypermarket. A post-dramatic dialogue between Belgrade and Priština (2010) è coautore con Milena Bogvac: lo spettacolo è venuto al Festival Vie-Modena. Unico autore del Kosovo a essere rappresentato a Belgrado, dirige la compagnia Qendra Multimedia, www. qendra.org, che pubblica volumi, produce spettacoli e organizza eventi. Ha ideato il progetto teatrale Voices con l’Office on Missing Persons and Forensics dell’Onu con cui ha unito etnia serba e albanese sulla memoria e sul conflitto. Per le tematiche dei suoi testi, i suoi spettacoli sono stati censurati in Serbia e in Cina.
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Vicini alla lontana, in Slovenia anche il teatro guarda all’Europa Per avvicinare una realtà teatrale geograficamente attigua, ma decisamente poco conosciuta il Festival Teatrale di Maribor è una buona occasione: quest’anno ospiti Slovenia, Croazia, Lituania, Ungheria e un focus sull’Olanda. di Pino Tierno
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rrivati a Trieste sprovvisti di mezzi propri, ci si aspetterebbe comunque di poter arrivare agevolmente in Slovenia, soprattutto nella capitale Lubiana, che dista appena una settantina di chilometri. E invece no, i collegamenti da una parte all’altra, sia con treni che con autobus, sono scarsissimi e per di più in orari notturni. Questa relativa difficoltà di spostamento in qualche modo simboleggia la qualità del rapporto fra i due Paesi limitrofi; rapporto assai cordiale, certo, ma che potrebbe senza alcun dubbio essere rafforzato. Difficoltà linguistiche e tracce di rivalse storiche magari non aiutano e per questo la Slovenia, almeno da un punto di vista artistico, oggi è maggiormente proiettata verso l’area tedesca e, com’è normale, verso quella dei Paesi dell’ex blocco sovietico. Teatralmente parlando, a far da ponte fra le due culture, pensa soprattutto il Teatro Stabile Sloveno, primo Stabile dell’Italia post-guerra, che promuove l’identità della minoranza che abita soprattutto nelle province di Trieste, Udine e Gorizia: gli spettacoli sono in sloveno, fra l’altro la più antica fra le lingue slave, ma hanno sempre sopratitoli in italiano proprio perché, all’azione di salvaguardia di una matrice culturale, si affianca oggi un crescente invito al dialogo e alla conoscenza reciproca.
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La Slovenia, nel suo territorio poco più grande del Veneto, ha consolidato negli anni una vivace struttura teatrale che comprende tre Teatri Nazionali e molte compagnie stabili. Il sistema è vicino a quello del “repertorio” in uso nell’area tedesca e il pubblico sembra gradire, più del nostro, proposte legate alla contemporaneità. Un’ottima possibilità di assaggio delle offerte teatrali slovene è costituito dal festival internazionale di Maribor (Festival Borštnikovo Srečanje), seconda città del Paese. Simile a quello degli altri anni è rimasto il formato dell’evento, guidato, fin dal 2009, dalla vitalissima e poliglotta direttrice artistica, Alja Predan. L’evento quest’anno prevedeva un gran numero di performance slovene, varie proposte provenienti da Croazia, Lituania e Ungheria e infine un piccolo focus sul teatro e sulle produzioni di un Paese che anche da noi, teatralmente, si frequenta poco: l’Olanda. La Predan rivendica, non a torto, la qualità registica e attorale generalmente molto alta degli spettacoli, dominati in maniera massiccia dalla presenza di artiste donne. Il festival, esso stesso con gestione tutta al femminile, ha organizzato quest’anno anche un certo numero di incontri e seminari e si è chiuso con una serata di conferimento di premi teatrali, trasmessa in diretta dalla tv nazionale. Due riconoscimenti (miglior gio-
vane attrice e miglior collettivo artistico e tecnico) sono stati attribuiti allo Stabile Sloveno di Trieste per Esercizi di inquietudine. Fra gli spettacoli si è notato in particolare una compressa eppure limpidissima versione di John Gabriel Borkman ibseniano, messo in scena dal Drama Sng di Maribor, con un carismatico gruppo di attori diretto da Mateja Koležnik. L’essenzialità della scena girevole, dominata da una scala, rende ancora più cupo il viluppo delle oppressioni familiari e il rovinoso crollo del protagonista, interpretato da un divo locale, Igor Samobor. Meno efficace è apparso il troppo facilmente provocatorio 25.671, messo in scena dal croato Oliver Frljić, per il Teatro Prešernovo di Kranj, e che tratta del dramma di quelle persone, provenienti da altri territori ex-jugoslavi – il titolo ne indica il numero esatto – le quali, all’alba dell’indipendenza slovena, nel 1992, furono cancellate dal registro dei residenti e si videro così annullati tutti i diritti civili. Questa tragedia sociale viene annacquata da didascalici pamphlets e da un “dialogo”, in realtà prepotentemente monodiretto, con gli spettatori, esortati finanche a strappare per solidarietà i loro documenti identificativi. Natale dagli Ivanov (del Drama Sng di Lubiana) è una frizzante favola nera con la drammaturgia di Eva Kraševec che impasta piacevolmente tempi e luoghi, rivelandoci i limiti e gli errori di ogni logica. Non classificato invece, Three Elizabethan Tragedies. State::R.III. - Epilogue, spettacolo diretto da Dragan Živadinov, per lo sloveno Performing Arts Research Centre Delak, che, in una verbosissima performance di oltre un’ora e mezzo, per discutibili ragioni artistiche, ha preferito non concedere agli ospiti internazionali l’ausilio dei sopratitoli. Forse poco spazio è stato offerto, in questa edizione, alla drammaturgia locale che pur conta nomi di spicco appartenenti a varie generazioni, ma il buon livello delle proposte ha comunque evidenziato la maturità e la ricchezza di una scena che si può gustare giusto a pochi passi da noi. Treni e autobus permettendo. ★
Una scena di John Gabriel Borkman, del gruppo Drama Sng (foto: Damjan Svarc).
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Zombie, clown rispolverati e dj il Festival di Bucarest compie 23 anni In una città che ristruttura tutti i suoi teatri, non sorprendono le code interminabili ai botteghini per il Festival Nazionale di Teatro, che offre il meglio della produzione locale: dalle grandi firme della regia, Andrei Şerban e Silviu Purcărete, al giovane Radu Afrim. di Robert Quitta
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erpenti umani davanti ai teatri. Gli spettatori ammessi all’ultimo momento anche senza biglietto, si siedono, sono ammucchiati, stanno in piedi nei corridoi e sui gradini. Già solo questo è sorprendente per l’ospite “occidentale”, perché testimonia una vitalità insolita. Ancora più sorprendente è il constatare quanti investimenti sono stati fatti a Bucarest in ambito culturale negli ultimi anni. Il Teatro Nazionale è appena stato liberato dalle deturpazioni di Ceausescu, e riflette già un nuovo splendore colorato. Nel corso del rinnovo ha inoltre acquisito la vecchia sala del teatro operettistico, aggiungendo così una black box di media grandezza. Non soddisfatti, è stato completamente ristrutturato anche il teatro adiacente, l’Arcub. E la “Comedie” ha così ricevuto una seconda meravigliosa sala in un edificio liberty che prima era un deposito. In tutti questi ambienti spaziosi (e in molti altri ancora) ha avuto luogo in ottobre il Festival nazionale del teatro. Il curatore unico (quest’anno Alice Georgescu) ha riunito, per la 23a volta nella capitale rumena, le produzioni migliori e più interessanti di tutto il paese e ha offerto in questo modo l’occasione perfetta per avere un panorama di tutta la stagione scorsa in solo dieci giorni, aspetto particolarmente utile per i visitatori stranieri. Rappresentazione d’apertura e attrazione principale è stata la pièce Le Troiane di Andrei Şerban. Parte centrale della sua leggendaria trilogia sull’antichità e portata per la prima volta in scena da La Mama nel 1974, ora è una pièce unica e autonoma, dove sono stati inseriti dei cantanti al posto degli attori per il teatro d’opera Iaşi. Una rivisitazione che ha lasciato impressioni contrastanti. Per chi scrive, che nel passato ha visto la rappresentazione originale alla Biennale di Venezia nel 1975, è stato un po’ come osservare un pezzo da museo, una rappresentazione zombie. Perché in realtà Şerban non ha cambiato niente alla sua produzione. All’epoca però era supportato dallo spirito e dai mezzi stilistici post ’68 e dall’epoca hippy (il linguaggio artistico, gli elementi performativi,
gli attori su pedane in mezzo al pubblico). E nel frattempo sono passati quattro decenni. Se lo spirito del tempo non soffia più, rimane solo il pezzo d’arte giustiziato dagli impiegati del teatro cittadino. Un triste revival. Al contrario particolarmente piacevole è stato lo sforzo più recente del grande maestro e regista rumeno Silviu Purcărete. Con Un cappello di paglia di Firenze di Labiche, per il teatro Iaşi, ha realizzato un lavoro esemplare, anni luce lontano da qualsiasi meccanica convenzionale di teatro del boulevard. Qui tutto sembra già perduto da principio. Tutto è imperfetto: le scene collocate in modo sbagliato, i costumi, le speranze, i sentimenti... Un mucchio di figure tristi si trascina, esaurito da una prossima inevitabile catastrofe, con il pericolo crescente di cadere in una follia collettiva. Ogni tanto emerge un suggeritore, e nel frattempo due tecnici di scena, come clown da intermezzo, fanno battute stanche, mentre una primadonna svitata canticchia una canzoncina dalla loggia… È tragico straziante, comico rinfrescante: un capolavoro. Non c’erano solo rappresentazioni in rumeno ma anche in ungherese (eccellente: L’avaro dalla città di Sfântu Gheorghe, San Giorgio), in tedesco (deludente il Gabbiano da Timisoara), e in
yiddish. Spettacoli di teatri cittadini come di piccole compagnie, di autori morti (Molière, Shakespeare) e di vivi (von Mayenburg, Matei Vişniec), in location minuscole (Unteatru) ed enormi (Oper), misere (Radu Beligan) o meravigliose (Odeon). Un’attrattiva particolare per il visitatore straniero, era naturalmente rappresentata dal focus su Ion Luca Caragiale (1852-1912), il “Goldoni rumeno”, poco rappresentato all’estero. Per quanto potevano essere interessanti le sue commedie popolari La lettera d’amore perduta oppure il Signor Leonida, la sua unica tragedia Nă pasta (Ingiustizia) ha lasciato sicuramente il segno più forte. E al giovane regista Radu Afrim stava indubbiamente a cuore far proprio questo raro e insolito lavoro (una donna sposa l’assassino di suo marito e si vendica), attraverso palcoscenici doppi, dj-set, cantanti dal vivo e uno stile di rappresentazione estremamente figurato e fisico, fino a concludere con una grottesca sfilata di moda di dieci minuti. È possibile che lo straniero non abbia capito di che cosa si trattasse, però tutto lo spettacolo era bello e affascinante da vedere. ★ (traduzione dal tedesco di Nicole Horsten) Una scena di Un cappello di paglia di Firenze, di Silviu Purcărete (foto: Mihaela Marin).
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G(L)OSSIP Mafarka, ritorno al futuro di Fabrizio Sebastian Caleffi
Morto il comico (morire dal ridere è stato lo sport del Novecento), suicidatosi il tragico (cfr. Szondi*), que reste-t-il de nos amours? Il teatro contemporaneo. Quarant’anni fa, il vs. Enfant Gatè – così mi chiamava la Miserocchi (**), o cara! – vinceva due volte di seguito il Premio Riccione, con I Tagliatori di Teste e Le dimissioni rinviate. Quarant’anni dopo, non s’è ancora dimesso nessuno e, tra gli (in)tagliatori di Testi, a vincere il Riccione è un garbato giovane commediografo già rivelatosi Generale con piglio napoleonico ai Fersen, prevalendo su un folto drappello di finalisti d’hystrionici concorrenti ai ns. awards. Un premio (at)tira l’altro, come le ciliegine sulla torta, la Saint Disonorè del teatro italiano, nell’era democristiatrica delle scissioni scombinate: di Alfano da Berlusconi, dei cretini dai... Arlecchino servitore di 2 padroni non basta più: ora ce ne vogliono almeno tre, ArlecchinSoleri, Favinarlecchino e LatellaBatocio. Mafarca ritorna con i suoi teschi in mano e par che siano passati non quarant’anni, nemmen quaranta mesi. «E se trovassi la testa adatta ancora attaccata a un corpo vivo? La staccherei. Se trovo un bel teschio devo impadronirmene. Se lo troverò non esiterò. Non è il momento degli scrupoli». Also spracht Mafarka, tornato al futuro con la k nel nome. È arrivato in un gran bel brutto momento. Si accendono le candele di Hannukkah, si spengono le luci del varietà del Ragiunatt Berluschi, fantasmatico Fantozzi dei Ricchi. Però Mafarka è tornato e il sipario, magari strappato, non è ancora calato. Thanksgiving day: oggi come oggi chi dobbiamo ringraziare per essere restati nel cosiddetto Mondo Libero, anche se, secondo il folgorante monologo tres chic del milanese Gabershick, «qualcuno era comunista» ed erano tanti? Una commediografa nordamericana, Ms Booth Luce, per esempio. Certamente ci è piaciuto vivere l’Età dell’Innocenza alla Edith Warthon in blue jeans. And now? La terza età dell’innocenza? Mentre si moltiplicano i colpevolisti, Tagliatori di Teste a tempo perso. Mafarka, alla ricerca del tempo perduto, travestito da Salomè en travesti, per danzare ancora chiede la testa del Ballista. Naturalmente, twitta: twittate con lui, https://twitter.com/Mafarkamilork. Parlo io Mafarka. La k l’ho presa negli States, dove ho fondato il Dying Theatre, che debuttò con il memorabile Apocalyps Now. Passato nella
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Russia del putinferio, mi sono convertito a Grottewski, trasformando lo spettacolo in Apocalipsis cum loschifiguris. Ora torno a Milano per lanciare i Premi Voodoo. Ma qualcuno ha insinuato che ci sono già e da un pezzo. «Francamente me ne infischio!» Chi osa, vinca. Giudice a latere, questo estensore attribuisce, sul suo personalissimo cartellino, come diceva Rino Tommasi commentando la boxe, il titolo dei pesi Mas (Mario Audere Semper) a Perrotta per il suo Ligabue, che si misura con successo con la memoria televisiva del Crazy Naif – così facile era scivolare su un Bucci di banana... Fuori i secondi anche sul ring di Roma, dove, espulso Lavia, arriva il notissimo Ninni Cutaia. No contest al Biondo di Palemmo, dove convivono il direttore Alajmo e la residente Dante. «Noi abbiamo un passato. Io posso continuare. La mia parte. I nostri compiti. La mia dignità. I nostri sentimenti. La mia forza. I loro soprusi. I miei destini. Mi faccio impressione». Battuta di Mafarca o di Mafarka? Che ha ritrovato una Milano divisa dall’invisibile Muro di Milino, alias Milano&Berlino: metropoli sospesa tra l’Expo, con cui può davvero trasformarsi in Milork e la repubblichina del crepuscolo del capomastro. Pensierini finali per l’anno nuovo di Mafarka: intanto il 13, che non porta + fortuna nemmeno al TotoCalcio, è passato; per uscire dalla Stasi, seguire il dito di Cattelan; se siamo nella merda, meglio quella di Manzoni. Mafarka fa un inchino e se ne va. (*) Peter Szondi, figlio dello psiconalista Leopold, fu autore di studi d’avanguardia nel campo della teoria teatrale e insegnò all’università di Gottinga e di Heidelberg, infine alla Freie Universität di Berlino, dove diresse l’Istituto di Letteratura Comparata. A soli 42 anni si suicidò per annegamento a Berlino. (**) Ricordare Anna Miserocchi è un imperativo categorico: attrice romana scomparsa nel 1988, prediletta da Orazio Costa come dalla platea paleotelvisiva italiana, rese giustizia a Lauren Bacall, Katherine Hepburn, Irene Papas, Simone Signoret con il doppiaggio – e fu una Vera Signora.
DOSSIER: Teatro in Lituania a cura di Claudia Cannella e Laura Caretti
Nella giovane Repubblica Baltica, il teatro è sempre stato al centro della vita culturale, soprattutto a Vilnius. Prima per criticare l’ortodossia sovietica e poi, dopo l’indipendenza, per affermare la propria identità. A metà degli anni ’80 Nekrošius si rivela sulle scene europee, ma è solo la punta dell’iceberg di una realtà estremamente ricca e vivace: Tuminas, Varnas, Vaitkus e Koršunovas i grandi nomi della regia, insieme a Ivaškevičius per la drammaturgia. Senza dimenticare le nuove leve, anche della scenografia e della danza, i festival e il ruolo fondamentale dell’Accademia Lituana di Musica e Teatro.
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DOSSIER/TEATRO IN LITUANIA
Una piccola e bistrattata repubblica dove il teatro è una religione Il drammaturgo Marius Ivaškevičius, una delle star della scena lituana, racconta della passione dei suoi connazionali per il teatro: una sorta di “terapia”, ma anche un mezzo per riflettere sul proprio passato e immaginare un futuro migliore. di Laura Bevione e Stefano Moretti
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l quarantenne Marius Ivaškevičius è il drammaturgo lituano attualmente più conosciuto. Autore di tre romanzi e di svariati documentari e cortometraggi, personaggio pubblico ammirato come una star e dunque ospite anche di popolari programmi televisivi, Ivaškevičius è in primo luogo un inventivo e dissacrante scrittore di teatro. La sua fluviale commedia Madagascar (l’unica tradotta e pubblicata in Italia, presso Titivillus, nel 2012) viene oramai considerata nel suo paese un “classico” ed è inserita nei manuali scolastici. A lui abbiamo chiesto di tracciare alcune coordinate storico-teatrali della Lituania, un pae-
se che, conquistata l’indipendenza dopo il soffocante dominio sovietico, è tuttora alla ricerca della propria orgogliosa identità. Che cosa ha significato a livello culturale e, più specificatamente, teatrale, l’indipendenza della Lituania? Per noi l’indipendenza ha significato non solo il fatto che siamo diventati autonomi come popolo, ma liberi come esseri umani dalla prigione dove eravamo rinchiusi da decenni insieme ad altri 150 milioni di abitanti dell’Urss. Che cosa significa davvero la libertà lo può capire solamente colui che l’ha persa o l’ha acquistata. Per fortuna, io
e la mia generazione abbiamo vissuto la seconda esperienza. Fino all’acquisizione dell’indipendenza abbiamo avuto una doppia cultura. Una parte sopravviveva adattandosi al regime e funzionava da megafono dell’ideologia, l’altra parte giocava d’astuzia e sussurrava la verità al pubblico parlando in codice, in modo da passare inosservata al regime. Era il cosiddetto “linguaggio esopico”, un linguaggio allegorico o di doppi sensi che codificava le idee contrarie al regime, in modo che il messaggio superasse la censura raggiungendo il pubblico. Con l’arrivo dell’indipendenza questo tipo di linguaggio, insieme a un’analoga estetica teatrale, ha perso la sua attualità ed efficacia comunicativa. Tuttavia, la tendenza al simbolismo e all’uso delle metafore, così caratteristici del teatro lituano, derivano proprio da questo fenomeno. Quali costanti e quali differenze avverte nel modo di intendere il teatro fra le generazioni più “adulte” - quella di Nekrošius per intenderci - e la sua? A dire il vero non vedo un radicale conflitto generazionale nel teatro lituano. Almeno per quanto riguarda l’estetica teatrale. A volte anche la continuità può portare risultati di ottimo livello. Le principali differenze, a mio avviso, consistono nella scelta dei temi. Oggi il teatro lituano accoglie sempre più spesso temi sociali e politici, un fenomeno del tutto estraneo alla generazione di Nekrošius. Dal momento che ai tempi sovietici l’arte, almeno di facciata, doveva sempre mostrarsi politicamente attiva, ossia glorificare la realtà socialista, alla fine dell’epoca sovietica e soprattutto dopo l’indipendenza l’arte è diventata apolitica e totalmente estetizzante. Ora è maturata una generazione che prova a restituire al teatro la sua funzione sociale. La vedo come una trasformazione essenziale: il teatro può e deve essere vario. Io stesso come drammaturgo mi ritrovo perfettamente in questa ampia gamma di possibili approcci al teatro. In quale direzione si muove, invece, la nuova generazione di artisti della scena, quella dei trentenni? Condivide lo stesso sentimento di precarietà e di incertezza che affligge i coetanei italiani?
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No, in Lituania abbiamo una situazione completamente opposta. Qui ogni anno attendiamo un nuovo “genio” della regia, un nuovo Nekrošius o un nuovo Koršunovas, per cui ogni lavoro di un giovane autore che ottiene riscontro positivo viene accolto con grande entusiasmo. Forse anche troppo, perché carica il giovane di un peso difficile e di una grande responsabilità per il futuro. La ricerca del nuovo genio perseguita anche i giovani drammaturghi e, in un certo senso, li ostacola. Comunque, bisogna ammettere che è praticamente impossibile, nel teatro lituano, creare qualcosa di valore e passare inosservati. In che misura le istituzioni appoggiano e finanziano il teatro? Il teatro in Lituania è molto apprezzato, incentivato e sponsorizzato, almeno rispetto alle altre forme d’arte. E dal momento che il teatro ricopre un ruolo prioritario, i giovani si sforzano di farne parte. Certo, gli aspiranti attori non sempre valutano bene che dovranno lavorare nei teatri lituani per degli stipendi miseri, ma quando si è giovani si è idealisti, massimalisti e ottimisti. Qual è l’atteggiamento degli artisti nei confronti del travagliato passato della Lituania? Rievocazione o rimozione? Malinconia oppure desiderio di rivalsa e di affermazione della “lituanità”? Credo che coesistano entrambi i punti di vista, come avviene in generale nella società lituana. Intendo dire che si producono spettacoli di bassissima qualità che mostrano una visione storica piuttosto ristretta ed esageratamente patriottica, ma la comunità teatrale non li considera spettacoli seri e validi. Quindi direi che in teatro prevale una riflessione sana e critica sulla storia nazionale. Quali sono le tematiche ricorrenti nella drammaturgia lituana contemporanea? Ultimamente si è scritto molto sul tema della nuova emigrazione lituana. Oggi per noi è un fenomeno di proporzioni devastanti, che è stato recepito e discusso con più attenzione pro-
prio dal teatro. Il repertorio dei principali teatri è molto vario, anche se si distingue una tendenza comune a toccare alcuni tabù politici e storici, come per esempio il genocidio degli ebrei in Lituania durante la Seconda Guerra Mondiale. In patria lei è un personaggio conosciuto anche al grande pubblico: è il segnale di un ruolo non elitario assegnato al teatro nella sfera della vita pubblica del Paese? In Lituania i protagonisti del teatro - Eimuntas Nekrošius, Oskaras Koršunovas, Rimas Tuminas - sono delle vere e proprie star. Lo stesso per gli attori di teatro. La gente li riconosce per strada, i giornalisti sono continuamente a caccia di interviste. Probabilmente è un fenomeno dovuto alla nostra tradizione. Circolano ancora leggende, ma so per esperienza che sono vere, su interminabili file di persone che, durante l’epoca sovietica, passavano le notti in coda per comprare i biglietti per gli spettacoli di Nekrošius. Biglietti, che erano come una sorta di visto per accedere a un altro mondo, migliore, più colorato e più saggio. Le persone erano consapevoli che in questa piccola e bistrattata repubblica sovietica c’era una cosa che riusciva a emergere dal grigiore: un teatro di altissima qualità, di grande talento, di livello internazionale. Questa tradizione, sebbene sia avvenuto un cambio di regime, non è facile da far morire. Anche oggi in Lituania abbiamo degli spettacoli di altissima qualità artistica, i cui biglietti si vendono mesi prima. Ci sono persone, spettatori comuni, che vanno a vedere lo stesso spettacolo più volte. Il teatro in Lituania è una sorta di terapia o forse perfino una religione. Alla fine degli anni Novanta, Koršunovas fece scalpore mettendo in scena alcuni testi di autori “occidentali” come Ravenhill, Kane e von Mayenburg. Che influenza ha avu-
to, per la sua generazione, la cultura teatrale dell’Europa occidentale? A dire il vero, quando i lavori di questi drammaturghi sono arrivati in Lituania - circa quindici anni fa - come spettatore trovavo questa critica sociale del capitalismo poco comprensibile, dal momento che noi all’epoca vivevamo in condizioni del tutto diverse. Da noi il capitalismo era ancora nella sua fase iniziale e selvaggia: nelle strade delle nostre città si svolgeva una guerriglia tra bande di delinquenti, la corruzione era diffusa dappertutto, come le speculazioni finanziarie, mentre la bancarotta delle banche più importanti mandava in fumo i risparmi della gente comune. Per cui i problemi introdotti da Ravenhill o von Mayenburg mi sembravano in qualche modo artificiali, non veritieri. Allora ritenevo che loro semplicemente non avevano dei veri problemi e che, per sfuggire alla noia, se li inventavano. Oggi leggerei e guarderei molto diversamente queste pièce, perché anche noi alla fine siamo “arrivati” al mondo che Ravenhill e von Mayenburg avevano raccontato. Se dovesse riassumere in un’immagine o in una parola il ruolo dell’artista in questo momento storico, quale userebbe? L’artista deve essere colui che turba la quiete. Colui che con insistenza punta il dito contro i problemi evidenti della società e allo stesso tempo è alla ricerca dei problemi meno evidenti. Se la società ama incondizionatamente un artista, vuol dire che c’è qualcosa che non va: probabilmente è solo un impostore. L’artista è tenuto ad avere nemici ideologici. Lo richiede la sua professione. ★ (traduzione dal lituano di Toma Gudelytė)
In apertura, una performance del Teatro Drammatico di Užupis; in questa pagina, Oskaras Koršunovas e Marius Ivaškevičius.
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DOSSIER/TEATRO IN LITUANIA
Quando le parole fanno la storia scrivere per il teatro in Lituania In un paese a lungo schiacciato da altre culture dominanti, la drammaturgia si è diffusa come importante veicolo di affermazione identitaria e di critica all’ortodossia sovietica. Parulskis, Ivaškevičius, Grajauskas, Keleras, Labanauskaitė e Černiauskaitė gli autori più affermati dopo l’indipendenza. di Stefano Moretti
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ietro una lingua arcaica e nomi impronunciabili alle nostre latitudini, la Lituania nasconde una cultura teatrale ricchissima ma quasi del tutto inesplorata. Quel poco che il comune spettatore conosce del teatro lituano si limita al lavoro di due registi, Eimuntas Nekrošius, autore di celebri riletture di Shakespeare e Cechov, e Oskaras Koršunovas, noto per ora a una più ristretta cerchia di spettatori dai gusti raffinati. Ovviamente, c’è molto di più. Il teatro in Lituania è una risorsa essenziale per la società: personalità come Nekrošius, Tuminas, Vaitkus e Koršunovas hanno un enorme seguito e godono di un’attenzione privilegiata come essenziali testimoni del tempo e preziosi interpreti del vivere comune. Alla base del sistema teatrale lituano, in gran parte incentrato attorno a un teatro di regia in dialogo con una serie di piccoli gruppi di ricerca, non c’è però solo l’indiscussa figura del regista demiurgo, interprete o arte-
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fice di spettacoli destinati a far discutere l’intero paese. Sin dalle sue origini, il teatro in Lituania poggia su una solida e vitale tradizione di drammaturghi e scrittori che, molto spesso, hanno contribuito alla fortuna di quegli stessi registi che oggi godono di un prestigio internazionale. Ancora oggi, scrivere per il teatro resta un punto d’arrivo per ogni scrittore lituano, sia esso poeta, romanziere o saggista. Il teatro lituano nasce come teatro di parola, quando far risuonare sul palcoscenico la lingua lituana equivaleva a lanciare un grido liberatorio nei confronti della cultura dominante, fosse essa polacca o sovietica. Durante il primo periodo di indipendenza, tra gli anni Venti e gli anni Trenta del secolo scorso, le prime pièces lituane furono un importante veicolo di affermazione identitaria. A Kaunas, la capitale dell’epoca, il Teatro di Stato nasceva insieme al nuovo Stato indipendente e il pubblico vi accorreva a vedere le opere di Petras Vaičiūnas (1890-
1959), Vincas Krėvė (1882-1954) e Balys Sruoga (1896-1947) insieme alle traduzioni lituane dei capolavori di George Bernard Shaw, Maeterlinck, Pirandello e Čapek. In epoca stalinista, il teatro lituano fu costretto ad allinearsi al diktat culturale sovietico e il socialismo reale arrivò a permeare e impregnare ogni scrittura per la scena. Negli anni Sessanta e Settanta, con il relativo graduale allentarsi delle direttive culturali sovietiche, autori come Juozas Grušas (19011986), Kazys Saja (1932), Juozas Glinskis (1933) e Saulius Šaltenis (1945) cercarono di superare la censura con un teatro grottesco, talvolta assurdo, con forti rimandi al teatro della crudeltà. Le opere scritte in quegli anni adottavano molto spesso quello che in Unione Sovietica veniva chiamato “linguaggio esopico”, una lingua fatta di metafore e allusioni che permettevano allo spettatore di cogliere immediatamente il significato critico dell’opera salvando al tempo stesso l’ortodossia politica di facciata, superando
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così le maglie del censore sovietico. Da questo parlare cifrato proviene in parte lo stile simbolico e metaforico di Nekrošius, il grande riformatore del teatro lituano contemporaneo, che inizia la propria attività mettendo in scena testi di Delaney e Šaltenis. Dopo l’indipendenza, la rinascita Gli Ottanta sono anni di decadenza e di stagnazione: occorre aspettare alcuni anni dopo l’indipendenza, giunta nel 1990, per avere una vera rinascita del teatro e della drammaturgia in Lituania. Nel 1995 debutta al teatro di Šiauliai Sulla vita dei fantasmi (Iš gyvenimo vė liy), opera prima del poeta e romanziere Sigitas Parulskis (1965). A partire dal 1997, Parulskis scrive opere dirompenti e provocatorie, realizzate per o con il regista Oskaras Koršunovas. Insieme determinano una vera e propria rivoluzione nel teatro lituano: la scrittura di Parulskis, surreale e al tempo stesso corrosiva e violenta, si sofferma in quegli anni a sviscerare il conflitto tra la generazione dei padri e quella dei figli. In Ps fascicolo Ok (Ps byla Ok, 1997), primo importante successo di Koršunovas, autore e regista puntano violentemente il dito sulle responsabilità di chi aveva vissuto sotto il regime continuando poi a vivere come se nulla fosse cambiato. Prima di portare in Lituania le opere più provocatorie del teatro occidentale, con le storiche messe in scena di Faccia di fuoco di von Mayenburg, Roberto Zucco di Koltés e Shopping and Fucking di Ravenhill, Koršunovas si era fatto le ossa su alcuni testi del genio russo Daniil Charms, tradotti o riscritti per l’occasione da Parulskis, che firma anche la traduzione di un altro testo fondamentale nella carriera di Koršunovas, Il maestro e Margherita di Bulgakov. In seguito, dopo aver pubblicato diverse raccolte di poesie, saggi e romanzi – tra i quali uno, Tre secondi di cielo, tradotto in italiano nel 2005 da Isbn – Parulskis ha scritto opere sempre più profonde e mature, affrontando gli spettri della solitudine, della morte e del rapporto con l’aldilà in opere come Solitudine a due (Vienatvė dviese, 2001) e Il traghettatore (Keltininkas, 2008), entrambe messe in scena al teatro Okt di Vilnius.
Ivaškevičius, identità e utopia Altra voce importante che si è rivelata alla fine degli anni Novanta è quella di Marius Ivaškevičius (Molėtai, 1973), senza dubbio l’autore più seguito e prolifico del momento. I suoi testi hanno portato all’attenzione del pubblico il tema della costruzione dell’identità nazionale, mettendo in questione, con un linguaggio spesso ironico e grottesco, la storia della Lituania. Nella sua poliedrica attività di romanziere, drammaturgo, sceneggiatore e regista cinematografico, Ivaškevičius segue sempre il filo rosso della Storia, mettendo al centro dell’azione personaggi o eventi storici che hanno cambiato il destino della Lituania e dell’Europa. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, la sua scrittura non è mai “documentaristica”, anzi: la sua particolare bellezza sta nella capacità di trasfigurare, con una proliferazione fantasiosa davvero stupefacente, figure reali in personaggi te-
atrali memorabili. Sino a oggi Ivaškevičius ha scritto dieci opere teatrali, tutte rappresentate con grande successo dai principali teatri lituani. Già il testo che lo ha rivelato, Il vicino di casa (Kaimynas, 1998), vincitore del premio New Drama Action, contiene in sé molti elementi caratteristici di quello che sarà in seguito il suo teatro: la fedele ricostruzione della vita quotidiana in un condominio di epoca sovietica s’intreccia al ritratto stralunato ma acutissimo di un giovane solitario, ossessionato dall’idea di fare il soldato in Australia. Il viaggio verso una vita migliore, la ricerca dell’identità e l’utopia sono i temi ricorrenti del lavoro di Ivaškevičius e si ritrovano sia nelle opere più brevi, come Piccolo (Malыš, 2001 - tradotto in italiano per L’Ancora del Mediterraneo) e La città vicina (Artimas miestas, 2005), sia nelle opere di grande respiro come Madagascar (Madagaskaras, 2004) e Il Maestro (Mistras, 2010), entrambe scritte su ri-
Per saperne di più Roberta Carlotto e Giovanni Papotto (a cura di), A est, scritture dall’Europa orientale, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2005 (contiene Piccolo di M. Ivaškevičius e Laura sul ghiaccio di L.S. Cėrniauskaitė). l Cristian Giammarini, Il Gabbiano secondo Nekrošius, Milano, Ubulibri, 2002. l Marius Ivaškevičius, Madagascar, trad. it. Toma Gudelytė e Stefano Moretti, Pisa, Titivillus, 2012. l Eimuntas Nekrošius, in I miei Shakespeare, a cura di Franco Quadri, Milano, Ubulibri, 2002. l Valentina Valentini (a cura di), Eimuntas Nekrošius, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1999. l AA.VV., Art History & Criticism Theatre and Society. Problems and Perspectives, Vytauto DidžIojo Universiteto Leidykla, Kaunas, 2006. l AA.VV., Social Change. Contemporary Lithuanian Literature, The International Cultural Programme Centre, Vilnius, 2012 (scaricabile su http://www.ebooksfromlithuania.lt/en/e-books/fiction/anthology/ social-change-contemporary-lithuanian-569). l AA.VV., When theatre talks about theatre. Materials of the International Theatre Studies Student’s Conference Vilnius, 29 September-1 October 2011, Lithuanian Academy of Music and Theatre, Vilnius, 2012. l Gintaras Aleknonis e Helmutas Šabasevičius, Lithuanian Theater, Kultūros, Filosofijos ir meno institutas, Vilnius, 2009. l Jeff Johnson, The New Theatre of the Baltics: from Soviet to Western Influence in Estonia, Latvia, and Lithuania, McFarland and Co., Jefferson, 2007. l Aušra Martiši ū tė, The Latest Lithuanian Drama (2005-2008), The International Cultural Programme Centre, Vilnius (scaricabile su http://www.booksfromlithuania.lt/old/index.php?page_id=137). l Ludvika Apinytė Popenhagen, Nekrošius and Lithuanian Theatre, New York, Peter Lang, 1999. l Jurgita Staniškytė, East and West: Intercultural Challenges and the Problem of Authenticity in Contemporary Lithuanian Theater, in Lithuanian Quarterly Journal of Arts and Sciences, vol. 56, n. 2, 2010. l Jurgita Staniškytė, New Representations: the Languages of Contemporary Lithuanian Theatre, in Lithuanian Quarterly Journal of Arts and Sciences, vol. 48, n. 3, 2002. l Jurgita Staniškytė, Rewriting the Canon. The Nature of the Political, in Contemporary Lithuanian Theater, vol. 52, n. 3, 2006. l Rasa Vasinauskaitė (a cura di), The Theatre of Oskaras Koršunovas, Vilnius, Baltos Lankos, 2002. l Marius Ivaškevi č ius e Sigitas Parulskis, Deux dramaturges lituaniens, Caen, Presses Universitaires de Caen, 2003. l
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DOSSIER/TEATRO IN LITUANIA In apertura, una scena di Madagascar, di Marius Ivaškevičius, regia di Rimas Tuminas (da sinistra Arvydas Dapšys, Raimunas Cic ė nas, Eglė Gabrenaitė); in questa pagina, Aurelija Tamulytė e Petras Lisauskas in Lucia sui pattini, di Laura Sintija Černiauskaitė, regia di Yana Ross.
chiesta di Rimas Tuminas per il Piccolo Teatro di Vilnius. La prima, pubblicata in italiano da Titivillus, narra la storia del geografo Kazys Pakštas, che sognò di trasferire tutti i lituani in Africa, e dell’élite intellettuale che affrontò l’occupazione sovietica, mentre la seconda sposta l’azione nella Parigi di Balzac, George Sand e Chopin, dove nei salotti di questi grandi scrittori e artisti il poeta polacco Adam Mickiewicz e feudatario lituano-polacco Andrzej Towiański, detto Mistras, tentano di fondare una setta ultra-religiosa di avventurosi rivoluzionari. Nel 2012, Ivaškevičius è tornato sul tema scottante dell’emigrazione con Esodo (Išvarymas, 2011), scritto a partire da una serie di interviste realizzate a Londra tra gli emigrati lituani mentre era Resident Playwright al Royal Court. L’opera, diretta da Koršunovas per il Teatro Nazionale, è considerata in patria l’evento teatrale più importante degli ultimi dieci anni e ha portato per la prima volta di fronte al pubblico lituano le vite, le voci e le speranze deluse dei molti concittadini che ogni anno scelgono di cercare fortuna nei sobborghi della City. Da quando ha lasciato il giornale per il quale lavorava per fare il drammaturgo di professione Ivaškevičius non si è mai fermato: fu Nekrošius a incoraggiarlo a intraprendere quella strada e da un’idea del grande regista è nato Immanuel Kant, appena andato in scena al Teatro Majakovskij di Mosca. Nel frattempo, Ivaškevičius sta già lavorando a un nuovo testo pensato per una compagine di attori lettoni e lituani diretti da Árpád Schilling. Tra Storia e quotidianità Un altro autore interessato al rapporto con la storia nazionale e alla critica del nazionalismo è Gintaras Grajauskas (Marijampolė, 1966), autore di La riserva (Rezervatas, 2004), messo
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in scena da Koršunovas al Festival di Avignone e di La ragazza di cui Dio aveva paura (Mergaitė , kurios bijojo Dievas, 2007) - pièce vincitrice del premio Versmė nel 2007 e diretta da Jonas Vaitkus per il Teatro di Klaipėda. Dopo aver scritto il monologo I lituani (Lietuviai), che riprende per certi versi il Madagascar di Ivaškevičius, nel 2009 ha vinto per la seconda volta il premio Versmė con la pièce Brunone e i barbari (Brunonas ir barbarai), un’opera scritta per ironizzare sul carattere “barbaro” dei lituani di oggi, simili a quelli che nel 1009 uccisero il vescovo Brunone mandato a convertirli e ricordati dalle cronache nelle quali, per la prima volta, comparve il nome “Lituania”. Come nel caso di Ivaškevičius, anche Grajauskas sceglie spesso un linguaggio surreale e grottesco per affrontare temi scottanti per la società contemporanea, perché a suo dire «l’assurdo è l‘unico modo possibile per parlare del caos del mondo in cui ci troviamo a vivere». Tra gli autori più interessanti attivi oggi sui palcoscenici di Vilnius vanno citati inoltre Julius Keleras (Vilnius, 1961) e Gabrielė Labanauskaitė (Klaipėda, 1980). Il primo è principalmente poeta e traduttore, ma ha dato ottime prove sia come fotografo, sia come drammaturgo. Nel 2009 è stata pubblicata una raccolta delle sue opere teatrali, intitolata 58 sogni e altre pièces e, tra queste, Taxi n. 5 è stata messa in scena da Yana Ross, regista lettone che attualmente collabora con il Teatro nazionale lituano. La stessa regista ha appena portato in scena I lacci rossi (Radoni batraišč iai), di Gabrielė Labanauskaitė, artista visiva che ha trascorso un periodo di studio in Italia e che appare oggi come una delle autrici più promettenti del teatro lituano. La pièce è importante perché per la prima volta ha portato con for-
za l’attenzione del pubblico sul tema dell’omosessualità, raccontando la spietata adolescenza di due fratelli e della loro difficile ricerca di un’identità sociale e sessuale. Un gruppo di naziskin, del quale i due vorrebbero far parte, sceglie il fratello omosessuale come capro espiatorio, mentre l’altro fratello, come Caino, deve versare il suo sangue per poter indossare i lacci rossi simbolo dell’iniziazione. La voce femminile più talentuosa e autorevole del teatro lituano è però senza dubbio Laura Sintija Černiauskaitė (Vilnius, 1976). Benché negli ultimi anni si sia dedicata principalmente, e con successo, alla scrittura narrativa (il suo romanzo più importante, Il respiro sul marmo, ha vinto il premio dell’Unione Europea per la Letteratura nel 2009 ed è stato tradotto in italiano nel 2011 da Atmosphere Libri), Černiauskaitė si è fatta conoscere una decina d’anni fa come un talento teatrale di prima grandezza, soprattutto quando una delle sue prime pièces, Lucia sui pattini (Liučė č iuožia, 2003, tradotta in italiano da L’Ancora del Mediterraneo), vinse il primo premio al Theatertreffen di Berlino. Nel suo teatro, come nei suoi romanzi, la struttura narrativa sottende un’indagine psicologica – e talvolta onirica – dei rapporti interpersonali: genitori e figli, uomini e donne, sono còlti nei momenti più critici delle loro vite, dove nuovi inizi si intrecciano a momenti estremi, abbandoni, sconfitte, improvvise epifanie quotidiane. Tesa tra quotidianità e assoluto, anche la sua scrittura alterna un linguaggio semplice e quotidiano a repentini salti verso uno stile allucinato e visionario. Per concludere, si può dire che certo non è semplice, per un lettore che non conosce il lituano, penetrare questo mondo affascinante, che ci porta – attraverso il teatro – a una visione insolita del mondo e della vita. Con un po’ di sforzo, grazie alle traduzioni inglesi, francesi e – speriamo sempre di più – italiane, quel lettore potrà però scoprire che il teatro lituano non è fatto solo di grandi registi, ma anche di autori che, con ironia surreale e spiazzante o con un paradossale e malinconico amore per la vita, riescono a rappresentare il nostro mondo, dove la marginalità (nazionale, sociale e politica) è divenuta centrale e la periferia si estende all’infinito. ★
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Il Teatro Drammatico Nazionale al giro di boa tra passato e futuro Il direttore Martynas Budraitis racconta l’evoluzione del tessuto teatrale lituano prima e dopo l’indipendenza: il rapporto tra spazi istituzionali e indipendenti, il decentramento e la promozione internazionale. di Laura Caretti
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artynas Budraitis è da tre anni direttore del Teatro Drammatico Nazionale di Vilnius: un tempo breve in cui però già si misurano i cambiamenti e i risultati ottenuti nell’organizzazione e nella programmazione, nei rapporti sempre più stretti con i teatri indipendenti, nel decentramento e nella promozione internazionale. Con lui si è interrotta la tradizione dei direttori artistici che erano prima di tutto registi, come Jonas Vaitkus e Rimas Tuminas. Budraitis ha invece nominato, in questo ruolo, il critico di teatro Audronis Liuga, e questo permette una gestione condivisa più propulsiva e un’apertura del Nazionale a tutti i migliori registi, senza rivalità di sorta. Budraitis aveva già mostrato il suo talento organizzativo e progettuale nella sua precedente esperienza come direttore dell’Okt, il teatro indipendente fondato da lui e da Koršunovas. Ma il vero giro di boa è stato quello di mirare a una produzione di alto livello artistico, sottraendo così il Nazionale alla deriva commerciale promossa dal suo contestato predecessore Adolfas Ve čerskis. Prima di parlare del presente gli chiedo di guardare indietro nel passato, ed ecco che subito anche questo giovane direttore, che appartiene alla generazione che ha cominciato a fare teatro con l’Indipendenza, sottolinea la forza di resistenza del teatro lituano durante il periodo sovietico e l’importanza di quel “linguaggio esopico” che attraverso una scrittura scenica metaforica dialogava segretamente con il pubblico. Ma questo, aggiunge, non era il solo modo per sfuggire al controllo e alla mancanza di libertà, c’era un’altra copertura di compromesso che consentiva di creare uno spazio di indipendenza per i più giovani artisti che si stavano formando. «Nei tempi sovietici – ci dice – i teatri costituivano un’isola dove era possibile sentire una parola diversa. Il linguaggio allegorico lasciava capire cosa si nascondeva dietro la facciata delle metafore e del linguaggio esopico. Il teatro giocava sui doppi sensi e il pubblico capiva, mentre i censori non si rendevano conto. A quell’epoca i teatri indipendenti non esistevano, c’erano solo teatri statali. E c’era una
rigida pianificazione dello Stato per quanto riguardava la programmazione del repertorio. Era necessario fare dei compromessi per permettere ad altri artisti di lavorare in modo più libero. Così hanno fatto Vaitkus e Dalia Tamulevičiūtė, una regista straordinaria che ha spianato la strada a Nekrošius. Non è stata solo una maestra di teatro, ma anche di vita. Aveva trent’anni quando fondò a Kaunas il Teatro dei Dieci e quelli che lavoravano con lei erano ancora più giovani. Metteva in scena opere codificate per lasciare spazio ai più giovani di sperimentare in modo diverso». È un flashback illuminante, che tra l’altro chiarisce gli inizi della carriera di Nekrošius: gli studi prima come attore con Dalia Tamulevičiūtė al Conservatorio di Vilnius e il passaggio, consigliato da lei, ai corsi di regia a Mosca; poi i suoi primi spettacoli nell’ambito del Teatro della Gioventù di Vilnius (diretto da questa eccezionale regista-pedagoga) e il suo debutto con Sapore di miele (Medaus skanis) di Shelagh Delaney. Insomma capiamo che Nekrošius e altri giovani artisti hanno potuto godere di una sorta di underground, dove era possibile una più libera ricerca artistica. E questa eredità sembra oggi pienamente raccolta dai contemporanei
“teatri indipendenti”. «Dopo il 1990 – conclude – sono nati dei teatri indipendenti con l’intento di sperimentare e realizzare nuove idee. E tra questi, nel 1998, quasi contemporaneamente, i due più importanti: l’Okt (Oskaro Koršunovo Teatras) e Meno Fortas di Nekrošius. L’intento era quello di realizzare nuove idee. Koršunovas e io lavoravamo insieme ad altri artisti al Teatro Nazionale, la nostra prima produzione è stata Roberto Zucco. A un certo punto abbiamo capito che dovevamo fondare una nostra organizzazione, anche perché l’attività internazionale era ostacolata dall’allora direttore, Tuminas. All’inizio eravamo un teatro virtuale e gli spazi dovevamo cercarli in giro per la città. Così Il Maestro e Margherita è nato in una vecchia fabbrica, Romeo e Giulietta in un palazzo dei sindacati. Poi abbiamo avuto uno spazio nostro. E adesso la storia è cambiata. L’Okt è diventato il Teatro della città di Vilnius e per le grandi produzioni il Teatro Nazionale mette a disposizione i suoi spazi e cerchiamo di creare anche qui le condizioni ottimali per la creazione teatrale». ★ Particolare della facciata del Teatro Drammatico Nazionale di Vilnius.
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Rimas Tuminas, l’ultimo romantico Insieme a Nekrošius e Koršunovas è l’alfiere del teatro lituano nel mondo. La predilezione per i classici russi – Lermontov e Cechov in testa – è al centro del suo repertorio, il cui comune denominatore registico è un gusto romantico non privo di umorismo e ironia. di Ramunė Balevičiūtė
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opo gli spettacoli di Rimas Tuminas capita spesso di sentirsi come se ci si fosse appena svegliati da un sogno, o come se si fosse stati a una festa. Oppure come se avessimo incontrato noi stessi da bambini. «Non importa a quale epoca appartenga il testo che metto in scena, lo trasferisco sempre nell’epoca romantica», dice il celebre regista lituano. Un romanticismo che è interpretato da Rimas Tuminas anzitutto come gioco. Negli anni Settanta Tuminas abbandonò il corso di regia televisiva che frequentava in Lituania e partì per Mosca, dove aveva scelto di dedicarsi alla regia teatrale, sebbene il cinema abbia lasciato nel suo stile un’impronta chiarissima. Tuminas usa molti mezzi espressivi tipici del cinema, è particolarmente attento al ruolo delle luci e ai cambi di piani. Tuminas esordì con alcuni testi drammaturgici poco noti e si rivelò da subito un raffinato riformatore della tradizione del realismo psicologico, coltivando al tempo stesso una peculiare visione ludica del teatro. Fin dagli inizi, Tuminas
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creava sul palcoscenico un mondo facilmente riconoscibile, ma allo stesso tempo straniante, dove il quotidiano improvvisamente si trasformava in poesia, mentre la dimensione lirica o prosaica della pièce acquisiva delle sottili sfumature ironiche. Già nelle sue prime messe in scena dimostrava doti eccezionali sia nel rivelare le potenzialità degli attori, sia nella capacità di accompagnarli nella ricerca di complesse e inaspettate interpretazioni dei personaggi. Tra Vilnius e Mosca Nel 1990, assieme ai suoi studenti, Tuminas ha fondato il Piccolo Teatro di Vilnius. Per l’inaugurazione del teatro fu scelto Il giardino dei ciliegi di Cechov, che divenne uno degli spettacoli più significativi del teatro lituano dell’ultimo decennio del Novecento. Il teatro non svolse un’attività particolarmente intensa, ma ogni nuovo spettacolo prodotto divenne un vero e proprio evento nella vita teatrale lituana e restò a lungo in repertorio: confrontati con quelli dei maggiori registi lituani, gli spettacoli di Tuminas sono in assoluto i più longevi nei cartelloni lituani.
Nella sua carriera, Tuminas – che attualmente dirige il Teatro Vachtangov di Mosca – ha messo in scena circa cinquanta spettacoli in Lituania e all’estero. Il cardine del suo repertorio è costituito dall’interpretazione dei classici russi: Lermontov, Gogol’, Griboedov, Dostoevskij e Puškin. Un ruolo speciale occupano le messe in scena delle pièces di Cechov, senza dimenticare Sofocle, Shakespeare, Goldoni, Schiller, Beckett e la drammaturgia contemporanea lituana. Per Tuminas è fondamentale ricreare, in ogni rappresentazione, la memoria culturale e teatrale legata a un periodo storico specifico. Inoltre, quello che accomuna i suoi spettacoli è la capacità di intravedere l’ambivalenza dei fatti della vita, di percepire il lato comico di una situazione palesemente drammatica e di scovare tratti eccentrici nei personaggi più realistici. Questo determina un variare camaleontico tra diversi generi e diversi registri, nonché l’impressione di una “ambiguità tra la vita e il teatro”, resa possibile da una recitazione che combina principi psicologici e istrionici con ampi margini di improvvisazione.
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Il lato comico di Cechov Per molto tempo il biglietto da visita di Tuminas e del Piccolo di Vilnius è stato Un ballo in maschera di Lermontov (Maskaradas, 1997), che ha girato numerosi paesi e vinto prestigiosi premi nazionali e internazionali. Questo spettacolo si è distinto per le sue immagini sceniche particolarmente suggestive, per la sorprendente armonia tra i registri alto e basso, per la maestria delle improvvisazioni degli attori e per un’incantata atmosfera nostalgica. In Un ballo in maschera, come in altri spettacoli, il regista ha utilizzato simboli della storia lituana, citazioni, parafrasi, associazioni e rimandi alla cultura del tempo che fu, ricreando nell’insieme una personale e particolare rievocazione del passato. L’elemento ludico di Un ballo in maschera si ispira invece alla Commedia dell’Arte. Succesivamente Un ballo in maschera ha trovato un valido concorrente in Madagascar di Marius Ivaškevičius (2004), una tragicommedia che racconta le grandi utopie lituane, messa in scena da Tuminas con uno stile davvero unico. Ma la sua principale ispirazione drammaturgica rimane senza dubbio quella di Cechov. L’abilità del drammaturgo russo di intravedere il senso comico del “dramma della vita” è alquanto affine alla concezione del mondo di Tuminas. Anche il regista lituano, come Cechov, preferisce il riso lì dove gli altri versano lacrime. Nel Giardino dei ciliegi (1990) Tuminas ha creato una “commedia della vita” assurda e insieme profondamente tragica, mentre le sue Tre sorelle (2005) potrebbero essere definite “una reminiscenza della vita passata”. Qui il romanticismo tuminiano ha rivelato un altro suo volto, una peculiare forma del teatro della memoria, che annoda l’esperienza storica, culturale e teatrale all’esperienza personale degli attori e degli spettatori. Nei suoi spettacoli Tuminas non cerca di formulare delle tesi, preferisce creare variazioni su un tema e lo fa rivelando un brillante ingegno teatrale e un raffinato umorismo. I temi centrali del suo teatro sono l’infanzia e la nostalgia di casa, una casa che spesso è la terra promessa o il paradiso perduto. Il teatro ludico di Tuminas, come pure i suoi personaggi, sono intrisi di spirito romantico, cui però non manca uno sguardo autoironico. I suoi personaggi, seppur
romantici, non assomigliano al Don Carlos di Schiller, ma piuttosto al Don Chisciotte di Cervantes: sono colmi della grandezza dell’assurdo e dell’avventura, una grandezza a volte grottesca ma sempre tesa a un idealismo e a una passione senza confini. La sensazione di “festa”, che il teatro di Tuminas ricrea, trasmette l’idea
di un “teatro umano” che, in qualche modo, avvicina il regista lituano alla poetica e all’estetica di un maestro italiano come Giorgio Strehler. ★ (traduzione dal lituano di Toma Gudelytė) In apertura, Vaida Būtytė, Gintarė Latvėnaitė e Valda Bičkute in Tre sorelle (foto: D. Matvejevas).
Le marionette grottesche di Gintaras Varnas Gintaras Varnas è uno dei registi più significativi emersi sulla scena lituana dopo l’indipendenza. Viene sovente affiancato a Koršunovas, di cui condivide la tendenza a leggere i conflitti del presente attraverso i generi teatrali classici e a ricercare i propri punti di partenza non tanto nel dramma quanto nella propria visione del mondo. La carriera di Varnas ebbe inizio nel 1998 con la fondazione del Šėpos Teatras (Teatro del Guardaroba), una realtà anticonvenzionale che non aveva precedenti nella storia del Paese. Si trattava di un moderno teatro di marionette, che adottava un linguaggio grottesco e politicamente assai provocatorio. In seguito lo stile registico di Varnas fu influenzato dalla rilettura di autori quali Federico Garcia Lorca, Pedro Calderon de la Barca e Albert Camus. In un certo senso, egli predilige l’estetica barocca, che nella realtà scenica coniuga una raffinata espressione visuale a un livello metafisico. Anche la drammaturgia contemporanea ha avuto una notevole influenza sul suo stile, ma non tanto quella brutale e realistica, quanto quella che sa illuminare le zone più profonde e oscure della condizione umana (Il paese lontano di Jean-Luc Lagarce, Portia Coughlan di Marina Carr e Innocenza e La vita in piazza Roosevelt di Dea Loher), oppure quella che si traduce in stratificati misteri dell’intelletto (Merlino o la terra desolata di Tankred Dorst). Varnas ha realizzato tutte queste produzioni presso il Teatro drammatico statale di Kaunas, di cui è stato direttore artistico dal 2004 al 2008. Varnas è forse il regista più coerente nell’opera di superamento dei confini del tradizionale teatro di prosa per mezzo dell’utilizzo di marionette ed elementi propri del teatro musicale, ovvero grazie alla scelta di spazi non teatrali. Il suo allestimento di La terra desolata, basato su Merlino o la terra desolata di Tankred Dorst, fu messo in scena nella tipografia abbandonata del quotidiano Tiesa (Verità) – pubblicato durante il periodo sovietico – e poi riallestito e sviluppato anche in altri luoghi. Recentemente Varnas ha messo in scena, con esiti stupefacenti, un musical basato su alcuni madrigali barocchi di Claudio Monteverdi (Combattimento di Tancredi e Clorinda e La danza dell’ingrato, nella foto) grazie a una sintesi di teatro musicale, prosa e marionette. Dal 2006, Varnas insegna recitazione presso l’Accademia Lituana di Musica e Teatro e, nel 2008, ha fondato con alcuni studenti il teatro indipendente Utopia, il cui principale obiettivo è quello di promuovere e realizzare progetti teatrali innovativi. Audronis Liuga (da Theatre in Lithuania pubblicato sul sito www.cultureguide.lt, traduzione dall’inglese di Laura Bevione)
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Nekrošius, quotidianità e trascendenza dai campi di patate al Paradiso Dopo la rivelazione sulle scene europee a metà degli anni ’80, oggi è considerato uno dei maestri della regia a livello mondiale. Con un teatro fatto di elementi primari, oggetti simbolici ed emozionanti partiture fisiche, Nekrošius ha sempre privilegiato la rilettura dei classici (Shakespeare, Cechov, Goethe, Dante) alla ricerca di categorie estetiche universali. di Ramunė Marcinkevičiūtė
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imuntas Nekrošius aveva trentatré anni quando Arthur Miller, in visita a Vilnius, disse: «Questo Nekrošius è probabilmente un genio». Le parole del celebre drammaturgo americano, ormai divenute proverbiali, risalgono al 1985, quando lui e Allen Ginsberg videro Pirosmani, Pirosmani (1981) e Un giorno lungo un secolo (1983) al Teatro Stabile della Gioventù. Cosa poteva significare nella Lituania sovietica, isolata dal mondo libero dalla quasi insormontabile cortina di ferro, sentirsi dire parole del genere e incontrare due personalità leggendarie della letteratura mondiale? Un’emozione difficilmente immaginabile per chi non ha vissuto la Vilnius di quell’epoca. Sembra incredibile, ma la fama di un giovane regista lituano, attivo in una città conosciuta da pochi, valicava la “cortina di ferro” raggiungendo il mondo teatrale dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti. Durante l’epoca sovietica molti vennero a Vilnius per vedere i suoi spettacoli: Mira Trailovič, ideatrice del celebre festival Bitef di Belgrado, Ellen Stewart, anima del newyorchese La Mama e Franco Quadri, il primo ad annunciare alla comunità teatrale italiana il nome di Nekrošius e a presentare la peculiare visione del suo teatro. I suoi lavori iniziarono a comparire nei contesti teatrali mondiali già nel 1984, quando il suo Pirosmani, Pirosmani fu inserito nel programma del Bitef. Quella fu la prima volta nella storia del teatro lituano del Novecento che uno spettacolo partecipò a un festival internazionale di teatro. Da quell’episodio iniziò la trionfale marcia di Nekrošius attraverso i palcoscenici mondiali, che oggi ospitano abitualmente i suoi lavori. Già i primi spettacoli di Nekrošius – Il sapore di miele di Shelagh Delaney (1977), Le ballate di Duokiškis di Saulius Šaltenis (1978), Ivanov di Anton Cechov (1978), Quadrato (1980) – ebbero un profondo effetto innovativo nella regia teatrale lituana, mostravano una totale originalità della visione scenica e una personalissima percezione del mondo e del teatro. Quando nel 1994 Nekrošius ricevette il premio dell’Unione dei Teatri d’Europa, il New Theatrical Realities, nelle motivazioni veniva sottolineata la caratteristica essenziale di questo artista: nella regia lui lavora come un vero e proprio drammaturgo. La natura metaforica del teatro di Nekrošius ha originato una qualità totalmente nuova della regia, una “drammaturgia delle immagini” che si manifesta come parallelo concettuale al testo drammaturgico, come una vera e propria narrazione visiva creata dal regista. Nel teatro di Nekrošius, l’osmosi tra le immagini create porta a una sorta di “drammaturgia registica”, che conduce all’universalità semantica di una determinata messinscena.
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Secondo Eugenio Barba, «Nekrošius è un artista che comprende la drammaturgia delle azioni in modo tanto chiaro quanto la drammaturgia delle parole». Un’elementare azione fisica o il gesto di un attore può aprire significati espressi tradizionalmente attraverso il testo drammaturgico, attraverso il potere persuasivo della parola. L’attore e la materia Negli spettacoli di Nekrošius lo svilupparsi della “drammaturgia registica” si basa su potenzialità interpretative non immediate e obbligatorie, ma implicite e codificate nel testo letterario. La visualizzazione dei significati e il senso delle immagini, il nesso tra l’espressione scenica e il suo valore semantico, nesso che scaturisce dall’incontro tra testo e azione, sono stati sempre importanti per Nekrošius. È da qui che nascono la persuasività psicologica e l’impatto emotivo del suo teatro, successivamente definito dai critici teatrali di diversi paesi come «la magia del teatro di Nekrošius». Gli oggetti della quotidianità inglobati nello spazio teatrale diventano oggetti artistici, ai quali il regista conferisce una funzione performativa, cercando sempre un possibile rapporto tra l’attore e l’oggetto sul palcoscenico. Fino alla fine degli anni Novanta, il teatro di Nekrošius era dominato dall’uso di metafore “realistiche”, basate sull’inaspettata convergenza tra la materialità e la quotidianità dell’oggetto e l’espressione attoriale. La struttura dell’immagine teatrale svelava e mostrava al pubblico il processo stesso della creazione della metafora hic et nunc. Avvicinandosi al teatro di Shakespeare (Hamletas, 1997; Makbetas, 1999; Otelas, 2000), fanno la loro comparsa diverse materie ed elementi naturali che vengono impiegati nell’elaborazione delle immagini registiche: l’acqua, il fuoco, la terra, il ferro, il legno, la pietra. Accanto ad alcuni oggetti che rappresentano e personificano la tragicità umana del vivere quotidiano (aspetto che Nekrošius deriva dalla letteratura russa classica e in particolare dal teatro cechoviano), si stanno formando nuovi significati metafisici, espressi tramite gli elementi della natura. Si amplia così l’intertestualità delle immagini sceniche e la loro capacità di creare associazioni, in un sincretismo caratteristico del teatro di Nekrošius. L’espressione fisica pura rimane comunque la parte essenziale e vitale: attraverso di essa si sviluppa e si realizza la fabula dello spettacolo, grazie a essa si concretizzano sul palcoscenico il significato dello spettacolo e le idee che esso racchiude. «Semplicità e profondità», «semplicità intelligente», «semplicità severa» e «semplicità polisemica» sono
le definizioni ormai canoniche del teatro di Eimuntas Nekrošius. La semplicità intelligente dei suoi spettacoli è sorprendente, misteriosa e accattivante. Una semplicità che nasce da associazioni inattese e imprevedibili, perché, partendo da segni del reale, da azioni e oggetti presi dalla vita quotidiana vengono plasmate complesse forme di speranza e immagini esistenziali. Gli spettacoli che evocano i trucchi dell’alchimia sono la prova indiscutibile che, per Nekrošius, non esistono modelli canonici o mode da seguire, l’unica misura è l’instancabile procedere sulla strada che si è scelto di intraprendere. Il punto fermo del suo teatro è la letteratura alta, classica. Sono ormai trent’anni, dai tempi di Zio Vanja (1986), che il regista vive nel mondo classico, con i testi di Cechov, Gogol’, Puškin, Shakespeare, Goethe, Dante e la Bibbia sugli scaffali della sua biblioteca teatrale. Persino nel periodo del grande interesse europeo per la nuova drammaturgia contemporanea, nel teatro di Nekrošius venivano riletti i testi della letteratura classica, alla ricerca di categorie estetiche teatrali universali. Provocazione e sfida, elementi che hanno influenzato molto il gusto teatrale tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI e che sono diventati sinonimi del teatro lituano nato in quegli anni, sono stati tenuti in considerazione anche nel teatro di Eimuntas Nekrošius. Accolti nella poetica teatrale e nei valori personali di questo regista, queste istanze venivano verificate e trasformate, evitando con coscienza gli stereotipi, facilmente riconoscibili, anche se di moda, della cultura contemporanea. Il teatro di Nekrošius oggi si attiene a un atteggiamento tipicamente postmoderno, incline a non sovrapporre l’arte poetica dello spettacolo con gli avvenimenti della vita reale, ma che prevede un continuo e inevitabile confronto dell’uomo contemporaneo con le minacce del nuovo secolo, creando allegorie universali che abbiano un forte impatto sullo spettatore.
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L’inciviltà civilizzata L’atteggiamento programmatico del regista è quello di darsi degli obiettivi professionali complessi, lavorando a ogni messinscena come se la propria maestria non fosse ancora stata provata del tutto. Da qui deriva un’attenta selezione dei testi, un serio coinvolgimento nei temi che essi affrontano, l’attenzione riservata a captare il peso delle parole pronunciate, la ricerca responsabile della funzione performativa della parola, ma anche la lunghezza degli spettacoli e, di certo, la massima tensione dell’immaginazione creativa. È stato notato che Nekrošius, dopo aver a lungo indagato sulle oscurità dell’animo umano, sembra essere giunto alla conclusione che le cose più importanti e più difficili sono quelle semplici. Terminata la trilogia shakespeariana, il regista ha iniziato a ricercarle in opere che hanno a che vedere con la genesi: il poema settecentesco Le stagioni (Metai), che dà l’origine alla tradizione letteraria nazionale lituana, e la poesia del Vecchio Testamento, alle origini della cultura cristiana. Entrambi i testi sono difficilmente immaginabili sul palcoscenico e al tempo stesso si addicono perfettamente al teatro di Nekrošius, caratterizzato dall’unione sorprendente tra il moderno e l’arcaico. Questo connubio si direbbe condizionato in modo naturale dalla stessa biografia del regista: da un lato le sue origini rurali, con le quali ha sempre conservato un legame forte, dall’altro la cultura urbana entrata a far parte del suo mondo insieme al teatro. La combinazione dei segni arcaici con i tratti della cultura teatrale moderna crea un importante ossimoro nel teatro di Nekrošius, un ossimoro che diventa il vessillo postmoderno della sua estetica teatrale: “l’effetto dell’inciviltà civilizzata”, sotto la cui influenza si sposano bene la poetica shakespeariana e gli oggetti dell’autentica vita rurale come i lavatoi di legno, i versi sacri d’amore di re Salomone e l’incudine massiccia giunta direttamente dall’officina di un fabbro. Allo stesso modo si sposano Let it be dei
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Beatles con il mondo dantesco (La divina commedia, 2012) o l’antica canzone lituana Il falco azzurro con il Paradiso (2013) sotto la volta storica del Teatro Olimpico di Vicenza. Un nuovo oggetto scenico si trasmette da Inizio. K. Donelaitis. Le stagioni (2003) al Cantico dei cantici (2004) sino al Faust (2006): si tratta del libro o del foglio di carta. La metaforizzazione della scrittura e del libro, il fruscìo delle pagine sparse sul palcoscenico, come se comunicassero l’inquietudine delle lettere composte in parole, è la consequenza naturale della presenza costante di Nekrošius nel mondo della letteratura classica. Grandi fogli bianchi arrotolati vengono portati sul palcoscenico all’inizio del Cantico dei cantici, come se fossero libri scritti su rotoli di pergamena. Successivamente i fogli bianchi vengono arrotolati in una tromba, per annunciare al mondo le parole d’amore, mentre alla fine dello spettacolo verranno disposti in modo da evocare un organo di chiesa, la cui musica riempie lo spazio vuoto del palcoscenico e risuona come invincibile eternità. Nel teatro più recente di Nekrošius la musica continua a risuonare, come se il regista volesse esprimere una concezione musicale del teatro. In tal senso, è possibile definire Nekrošius un attento allievo del riformatore del teatro russo Vsevolod Mejerchol’d. Aiutato da alcuni compositori, crea per ogni spettacolo una particolare partitura sonora, che introduce nell’atmosfera, detta il ritmo e il tono di ciò che avviene in scena oltre che il significato della parte sonora dello spettacolo. Ma nel momento in cui irrompono le parole, il loro flusso è potente, irriversibile ed essenzialmente autentico. Così come lo è il teatro di Eimuntas Nekrošius. ★ (traduzione dal lituano Toma Gudelytė)
In apertura, Victorija Kuodytė e Andrius Mamontovas in Hamletas; nella pagina precedente, un ritratto di Nekrošius; in questa pagina, Vladas Bagdonas e Egle Špokaitė in Otelas (foto: D. Matvejevas).
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Jonas Vaitkus, il carismatico pedagogo Dopo gli studi a San Pietroburgo, allora Leningrado, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, non solo si afferma come uno dei registi più importanti della scena lituana, ma è stato ed è un riferimento fondamentale per la formazione di attori e registi, Koršunovas e Varnas tra i suoi allievi. di Daiva Šabasevičienė
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l regista Jonas Vaitkus (1944) ha messo in scena più di novanta spettacoli, confermando ogni volta l’energia, la creatività e la complessità del suo linguaggio teatrale dal punto di vista attoriale, scenografico e musicale. Dopo gli studi all’Istituto Statale di Teatro, Musica e Cinema di Leningrado (attualmente San Pietroburgo), ha lavorato come regista al Teatro Drammatico di Šiauliai e al Teatro Statale di Kaunas. Dal 1988 al 1995 è stato direttore artistico dell’attuale Teatro Drammatico Nazionale di Vilnius, dove oggi dirige il Teatro Drammatico Russo. Numerosi anche i suoi spettacoli all’estero nei teatri di Boston, Stoccolma, San Pietroburgo, Copenaghen, Tokyo. La sua arte ingloba una varietà di modelli registici, richiamandosi a Stanislavskij, Mejerchol’d e Brecht. Vaitkus cerca non solo di allargare i confini del teatro, ma si ricollega alle fondamenta e ai metodi della scuola teatrale classica, tentando di penetrare più a fondo possibile nel significato dell’opera che sta creando. Pur mantenendo sempre una forma estremamente coerente, i suoi spettacoli sono molto diversi. Le idee registiche prendono corpo attraverso la scelta di un materiale drammaturgico molto eterogeneo. È essenziale per lui che abbiano rilievo tutte le componenti della regia. Nei suoi spettacoli, contraddistinti da un forte impianto formale, il lavoro dell’attore rimane al centro. E questo si riflette nelle sue messinscene più importanti: Il costruttore Solness (1980), Casa di bambola (1995), Il nemico del popolo (2011) di Ibsen; Tordo, un uccello verde (1984) di Sigitas Geda e Bronius Kutavi čius; Riccardo II (1985) e Il Mercante di Venezia (2003) di Shakespeare; Gli Avi (1995) di Adam Mickiewicz; Il sogno (1995) e Il padre (1997) di Strindberg; Miguel Mañara (1996) di Oscar Milosz; Il villaggio di Stepanč ikovo (1998) e Demoni, Diavoli, Indemoniati (2005) da Dostoevskij; The Pillowman (2006) di Martin McDonagh; Iwona principessa di Borgogna (2007) di Witold Gombrowicz; Che disgrazia l’ingegno! (2009) di Aleksandr Griboedov; La ragazza di cui Dio aveva paura (2010) di Gintaras Grajauskas: Natale a casa Ivanov (2012) di Aleksandr Vvedenskij. La personalità di Vaitkus esercita un grande fascino artistico, tanto che, fin dagli esordi, ha saputo appassionare al teatro molte persone. Grazie a lui, ad esempio, Juozas Budraitis, famoso attore del cinema lituano, ha cominciato a recitare in teatro. Con lui, si sono formate alcune personalità di spicco nate negli anni SettantaOttanta. Mentre lavorava al Teatro di Kaunas, gli è stato permesso di formare una sua classe di attori al Conservatorio Statale della Lituania (oggi Accademia d’Arte Drammatica) e, dal 1981, ha preparato per il diploma
sette classi accademiche. A lui si deve anche la fondazione del corso accademico di regia drammatica, dove si sono diplomate due classi di registi (1988–1993; 1999– 2003). Tra gli allievi della prima, Oskaras Koršunovas e Gintaras Varnas oggi lavorano con successo in Lituania e all’estero. E ultimamente spiccano anche i diplomati della seconda classe accademica, Agnius Jankevičius e Albertas Vidžiūnas. Senza l’attività artistica dei suoi allievi sarebbe impossibile immaginare un panorama completo del teatro lituano contemporaneo. Dal 1991 Vaitkus svolge attività pedagogica anche all’estero: in qualità di professore, è stato invitato dal dipartimento delle Arti performative dell’Emerson College di Boston. Dal 1992, insegna spesso alla Scuola Superiore Statale di Teatro di Oslo (1992–2002), alla Scuola Statale di Teatro di Helsinki (2000), alla Scuola Nazionale di teatro di Copenaghen (2005) e all’Accademia di Teatro di Cracovia (2005). Il suo insegnamento mira a formare la personalità degli artisti in tutta la sua ricchezza, e questo è evidente osservando non solo le opere dei registi che hanno studiato con lui, ma anche la recitazione dei suoi attori: la maggior parte dei suoi allievi sono dotati di grande energia fisica, sanno cantare, ballare, suonare diversi strumenti musicali, e instaurare un dialogo attivo con i propri personaggi. Insomma Vaitkus è un vero riformatore anche della pedagogia teatrale, e insieme a Eimuntas Nekrošius, ha allargato i confini della concezione della scuola attoriale, aprendo così la possibilità a tutto il teatro lituano di entrare nell’ambito del nuovo teatro. ★ (traduzione dal lituano di Giedrė Bagdžiūnaitė) Una scena di Iwona principessa di Borgogna, di Witold Gombrowicz.
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Koršunovas, abbattere i muri per un teatro di spietata verità La vicinanza con gli spettatori, raccontare storie d’amore e di morte per parlare di teatro e dell’essere attori prima che personaggi. Poco più che quarantenne, con le sue riletture di Shakespeare, Gorkij e Cechov dalle forti valenze metateatrali, Koršunovas è attualmente il regista più inventivo della scena lituana. di Laura Caretti
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olti di noi hanno cominciato a conoscere Oskaras Koršunovas, classe 1969 e studi all’Accademia lituana di musica e teatro, a partire dal suo Hamletas del 2008, vedendosi riflessi negli specchi della scena insieme agli attori, invitati a chiedersi con loro «chi sei?»: chi sei tu-attore, chi sei tu-personaggio, chi sei tu-spettatore? L’interrogativo sempre più gridato faceva da prologo alla tragedia di Shakespeare, e ci portava nel tempo sospeso che precede l’inizio dello spettacolo, quando l’attore si prepara in camerino, in quel luogo di trasformazioni e creazioni di sé dove l’essere e l’apparire si congiungono e si sdoppiano. Con loro anche noi venivamo presi nello spazio illusorio disegnato dalle quinte mobili degli specchi che per tutto il dramma restavano in scena. Simbolici e reali, moltiplicavano corpi e volti, svelavano trame e inganni. Bastava ruotarli su se
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stessi ed ecco che apparivano gli spalti notturni del castello di Elsinore o le luccicanti pareti del palazzo. Venivano alla mente gli interni del film di Branagh, solo che qui lo scenario era opera degli attori che muovevano a vista, in rapide geometrie caleidoscopiche, quelle fonti luminose. L’invenzione scenografica era dello stesso Koršunovas e oggi che conosciamo le sue regie precedenti, ci rendiamo conto del legame tra questi specchi e quei pannelli che creavano la magia coreografica del suo Sogno di una notte di mezza estate di dieci anni prima. Anche allora l’intento era di sfidare il pubblico abituato a scenari di favolose foreste e incantamenti, per portarlo a “vedere” la fantasmagoria dell’opera di Shakespeare con la propria immaginazione. «Il pannello dietro a cui sta l’attore – dice Koršunovas parlando del Sogno – non è uno scudo, ma lo specchio che riflette il flusso dell’immaginazione degli spettatori».
Attori allo specchio Nell’Hamletas questa stessa metafora dello specchio si fa più complessa. Quando lo vidi a Wroclaw al Festival Dialog nel 2009 (Hystrio, n. 1.2010, pag.22), mi colpì l’eccezionale valenza metateatrale della regia di Koršunovas che non solo punta i riflettori sul “teatro nel teatro”, ma fa “teatro del teatro”. Quei camerini non appartengono infatti a un separato retroscena, sono il luogo stesso dove avviene la tragedia. Agli attori è concesso soltanto quello spazio e i pochi oggetti consueti sulle loro tolette: i contenitori dei trucchi, un pacchetto di sigarette, un bicchiere d’acqua, degli omaggi floreali, dei kleenex per ritrovare alla fine il proprio viso... e tutto si trasforma. Così i fiori diventano la quinta mortale di Ofelia e quei fazzoletti di carta invadono la scena, facendosi sempre più rossi via via che la storia si tinge di sangue. Un suono esterno dà
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il segnale dell’azione, ed ecco che gli attori si duplicano nei personaggi di Shakespeare. Le scene, scandite da quel suono imperioso, procedono a singulto, con un ritmo spezzato. Sono picchi di alta tensione emotiva come se gli interpreti fossero improvvisamente posseduti dalle passioni che animano i personaggi, poi eccoli seduti di nuovo davanti agli specchi: pronti, al comando del copione, a entrare o a uscire di scena. Così fino alla fine quando, al suono dei tamburi del suo esercito, arriva Fortebraccio a strappare la spina delle luci degli specchi, cancellando così i volti degli attori insieme ai nostri. Questo Hamletas, che ancora appassiona un largo pubblico, come a Pontedera, due anni fa, non è un punto di partenza soltanto per noi. Per Oskaras Koršunovas segna l’inizio di una esplorazione sulla enigmatica natura dell’arte del teatro e sul senso del suo farsi. Da allora il regista ha anche avviato un modo nuovo di lavorare con i suoi bravissimi attori, spingendoli a partecipare al processo creativo partendo da se stessi. «Chi sei?» è un interrogativo che mette in moto il loro immaginario, li spinge a non restare chiusi nella gabbia della finzione dei ruoli, a saper essere simultaneamente se stessi e altro da sé. E, come nell’Hamletas, questa domanda si estende anche a noi, togliendoci la maschera di una passiva invisibilità, mettendoci a nudo. Il laboratorio di questa ricerca è l’Okt (il teatro indipendente che porta il nome del regista: Oskaro Koršunovo Teatras, fondato nel 1998) e in particolare quella piccola sala, che Strindberg direbbe “un teatro intimo”, al terzo piano di un vecchio edificio, diventato negli anni un eccezionale luogo di sperimentazione teatrale aperta al pubblico. Qui sono nati i due spettacoli che proseguono, dopo Hamletas, l’avvincente percorso creativo di Koršunovas e dei suoi attori: ai Bassifondi di Gorkij (2010) (Hystrio, n. 1.2012, pag. 22), venuto anche in Italia quest’anno al teatro Era di Pontedera, si aggiunge ora la messinscena del Gabbiano di Cechov a comporre una speciale “trilogia” o un “trittico” come dice Koršunovas. Mettono in scena storie d’amore e di morte, di crudeltà e di potere, e parlano di teatro e dell’essere artisti di teatro.
tarci. La sua visione registica è inclusiva, ci invita a sentirci partecipi dell’esperienza teatrale come momento di verità e di scoperta. La forza di questo invito è cresciuta nel tempo di questi ultimi anni, rendendo la linea di confine progressivamente sempre più valicabile. «Nel teatro - continua - è essenziale abbattere i muri per riuscire a fondere tutti in una comune condivisione». In Hamletas il rispecchiamento frontale ancora ci separava dagli attori e tuttavia quel segnale sonoro esterno attivava anche in noi un cambio di attenzione e di ascolto, era una scossa che faceva vibrare la nostra percezione del dramma. Nei Bassifondi la distanza si è raccorciata. Gli attoripersonaggi di Gorkij si sono voltati verso gli spettatori e ci guardano dall’altra parte di un tavolo coperto di bicchieri e bottiglie di vodka. Siamo tutti in piena luce, commensali anche noi a quel banchetto di rabbiose bevute e discorsi apparentemente sconclusionati che evocano ricordi perduti, e immaginarie storie d’amore per affermare un’identità diversa dal naufragio del presente. Il dramma sta proprio in questo bisogno di dirsi ed essere ascoltati. Si rivolgono a noi reagendo all’irrisione degli altri, invitandoci a bere, a partecipare alla loro angoscia, a cercare di rispondere all’assillante interrogativo «che cos’è l’uomo?» quando va così disperatamente alla deriva, quando come il Barone non sa più chi è o come l’attore ha perso tutto nel vuoto della memoria. Nel Gabbiano, la tappa più recente di questa trilogia, è sparita anche la lunga tavola e nulla ci divide materialmente dagli attori seduti insieme a noi. Questa compresenza rende ancora più percettivi i nostri sensi, più acuto il nostro
sguardo e intenso il nostro ascolto. In scena, ci sono solo delle sedie messe in fila, speculari alle nostre, predisposte per il pubblico dello spettacolo di Kostja. La voce solitaria di Mascia intona il tema del desiderio e dell’impossibilità dell’amore, facendo da prologo alla scena “del teatro nel teatro”, in cui siamo messi di fronte alla cecità affettiva dell’Arkadina, all’egoismo distratto di Trigorin, all’ansia di vita di Nina, alla disperata ricerca artistica di Treplëv. Ed è la spietatezza di questa scena che fin dall’inizio determina la tonalità di tutta la messinscena di Koršunovas e dei suoi attori che sanno dare un rilievo eccezionale alla passione vibrante dei giovani e alla loro sconfitta in un mondo che accoglie il loro talento con spregio o indifferenza, derubandoli della giovinezza, un mondo che somiglia così tragicamente al nostro. Alla fine, mentre Nina si allontana tenendo fede alla sua tenace volontà di vivere e di fare l’attrice, Treplëv invece fa a pezzi furiosamente i suoi manoscritti, e sul vuoto del suo solitario suicidio fuori scena si chiude il dramma. Amleto, l’attore dei Bassifondi e Kostja sono legati da un comune destino di morte che, per Koršunovas, «non lascia nessuna speranza». La sua visione tragica si riappropria delle componenti di orrore, pietà e catarsi del teatro greco per riportarle nel nostro tempo. E, in questa prospettiva, lo spettatore dovrebbe poter ritrovare il ruolo del coro antico, ma è drammaticamente privo di voce, e l’applauso non basta. ★ In apertura, una scena di Hamletas (foto: D. Matvejevas); in questa pagina, Oskaras Koršunovas con gli attori durante le prove de Il Gabbiano.
Al tavolo con Gorkij Il nuovo metodo di lavoro ha cambiato profondamente il rapporto con il pubblico. «Nella nostra nuova ricerca – dice Koršunovas – non cerchiamo la chiave del personaggio ma dell’attore. E come gli attori vanno oltre il ruolo, così anche lo spettatore deve oltrepassare quella linea di confine». In questo superamento è proprio lui ad aiu-
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Giovani registi in cerca d’identità Mentre Tuminas, Nekrošius e Koršunovas sono sempre più impegnati all’estero, le nuove generazioni cercano di colmare i vuoti della scena lituana. Emergono Ignatavičius, Areima e Barzdžiukaitė, allievi del primo, e Bareikis con il suo gruppo No Theatre. di Andrius Jevsejevas
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i dice che il teatro lituano di oggi si regge su tre pilastri: Eimuntas Nekrošius, Rimas Tuminas e Oskaras Koršunovas. Una tale concentrazione di energie creative potrebbe far pensare che il paesaggio delle arti sceniche del nostro piccolo paese sia alquanto ricco e che la vita teatrale lituana sia multiforme, dinamica e avvincente. Negli ultimi anni, però, i suddetti “grandi nomi” scelgono sempre più spesso per le loro messe in scena palcoscenici esteri: Nekrošius lavora frequentemente in Italia, Tuminas in Russia, Koršunovas nei teatri scandinavi. Ciò fa emergere un problema piuttosto spinoso per il teatro lituano: la necessità di nuove energie creative professionalmente pronte a colmare le lacune apertesi nei repertori dei teatri nazionali, nonché a rappresentare con successo il pensiero del teatro lituano oltre confine. Negli ultimi cinque anni, tuttavia, in Lituania si sta lentamente formando una nuova generazione di registi, il cui nucleo è composto da tre allievi di Rimas Tuminas: Paulius Ignatavičius, Artūras Areima e Rugilė Barzdžiukaitė. Questi giovani artisti conducono un’esistenza più o meno caotica e individuale, senza manifestare la necessità di condividere una visione estetica o ideologica comune né di avere scambi dialettici tra loro o con la generazione teatrale precedente. Dall’altra parte, questi registi sono riusciti, durante il loro ancora breve percorso creativo, a formulare una propria posizione estetica, netta e corente, e a introdurre, nel contesto teatrale lituano, un proprio linguaggio espressivo. L’attore sempre al centro Il raggio degli interessi teatrali di Paulius Ignatavičius oscilla tra gli spettacoli per i bambini e le messinscena dei testi classici e contemporanei, in particolare provenienti dai paesi di lingua tedesca. Ignatavičius è regista e attore e come tale ha preso parte a spettacoli di Koršunovas e Areima. Perciò non sorprende che nelle sue regie l’attenzione cada soprattutto sull’attore, ossia sull’uomo che ogni giorno si mette nuovamente alla ricerca della propria identità. Negli spettacoli basati sull’opera di Kafka questa ricerca è stata declinata attraverso il conflitto tra individuo e società, mentre in Amleto è morto. Zero forza di gravità (Hamletas mirė. Gravitacijos nė ra) di Ewald Palmetshofer, messo in scena al Teatro Nazionale di Vilnius, si sottolinea l’impossibilità dei legami umani. In questo spettacolo i personaggi vivono come isole deserte separate, mentre la crisi d’identità diventa globale e irrisolvibile.
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In questo periodo Ignatavičius sta portando in scena all’Okt di Koršunovas una rivisitazione alquanto personale della Metamorfosi di Kafka, nella quale lui stesso interpreta Gregor Samsa, e il suo vero padre interpreta il ruolo del padre di Samsa. Al Teatro Nazionale, come si è detto, va in scena Amleto è morto, uno spettacolo più vicino alla tradizione teatrale tedesca che a quella lituana, sia per quanto riguarda il linguaggio registico, sia per quanto riguarda l’espressività fisica ed emotiva degli attori; mentre al Piccolo Teatro, sotto l’egida del suo maestro Tuminas, custode dei valori tradizionali, porta in scena uno spettacolo poetico e sentimentale, Dostoevskij per i bambini (Dostojevskis vaikams). Pur mantenendo una cornice tematica e stilistica comune, Ignatavičius si dimostra capace di captare e rispettare la natura di ogni singolo luogo, collettivo e realtà teatrale nella quale si trova a operare. Anche Artūras Areima, compagno di corso e collega di Ignatavičius, ha intrapreso una interessante strada nel teatro di regia. Dopo un esordio notevole, con le messe in scena di testi contemporanei come il Viaggio all’interno di una stanza di Walczak e La strada di Cartwright, che hanno permesso di parlare della nascita di un nuovo linguaggio registico capace di coniugare, in modo eclettico ma coerente, i princìpi del teatro politico con quello metaforico, il nichilismo postmoderno con l’esistenzialismo, Areima non ha più lavorato su testi contemporanei. Al loro posto il regista ha affrontato l’intero repertorio della drammaturgia classica, iniziando con Koltès per arrivare a Schiller, Ibsen, Strindberg, Shakespeare e Cechov. Il passaggio da una drammaturgia tagliente, provocatoria e socialmente impegnata, che rispecchia l’esistenza dell’uomo contemporaneo, alle opere drammaturgiche più astratte, classiche, dotate di una ricchissima storia di messe in scena ha cambiato inevitabilmente il linguaggio registico di Areima, nonché la sua posizione ideologica. È comparso nel suo stile un desiderio di ribellione, benché egli non sia riuscito a definire bene l’oggetto di tale ribellione. Alla ribellione si è aggiunto il desiderio di svelare la verità, ma per farlo ha adottato gli strumenti fittizi e retorici del teatro borghese come l’iperbole e la descrizione. Nei primi spettacoli di Areima l’azione scenica riduceva al massimo la possibilità di identificazione empatica tra attori e personaggi e, al tempo stesso, impediva l’immedesimazione dello spettatore, spersonalizzava il testo e si basava su una fisicità crudele ma severamente controllata, mettendo al centro dell’attenzione
le difficoltà esistenziali della nuova generazione alla ricerca di se stessa. Le messe in scena più recenti si ispirano invece a una concezione più classica del teatro, dove il momento chiave diventa lo sprigionarsi delle energie creative e interpretative dell’attore. Un po’ di sana polemica Il lavoro teatrale di Rugilė Barzdžiukaitė, anche lei allieva di Rimas Tuminas, per ora è piuttosto frammentario. È come se fosse sempre “accanto” al teatro e mai “nel” teatro: per ora ha creato solo due spettacoli, dedicando più attezione al cinema e alle arti visive. Ma proprio sotto l’influenza di tale sinergia tra arti diverse si è formata la sua peculiare percezione estetica del mondo, proponendosi come un’artista che crea per il palcoscenico. A partire dal suo primo spettacolo, Hipokampas, la regista ha rinunciato alla tradizionale soglia che divide l’attore dal pubblico. Nello spettacolo il pubblico partecipa come paziente alla seduta di psicoterapia, l’espressione attoriale è ridotta al massimo e avvicinata il più possibile al parlare quotidiano, rompendo così una qualsiasi forma aristotelica della teatralità. La regista ricorre a questi strumenti espressivi anche nella messa in scena dell’opera contemporanea Buon Giorno (Geros dienos), nella quale si scaglia con ironia contro la vita e le illusioni di chi lavora nei centri commerciali. Mettendo in discussione le convenzioni del tempo e dello spazio teatrale lo spettacolo non inizia nel momento in cui si spengono le luci in sala, ma nel momento del risveglio, appena aperti gli occhi la mattina. In Geros dienos si realizza l’idea del teatro documentario: il materiale della realtà viene adattato
e combinato con gli elementi della finzione. Il teatro di Barzdžiukaitė è un’intrusione non diretta, estetizzata, nella realtà che ci circonda. Di qualche anno più giovane rispetto ai suoi colleghi, Vidas Bareikis rappresenta una diversa visione artistica: il suo maestro Gintaras Varnas è un vero adepto della cultura barocca. A differenza degli altri giovani registi lituani, Bareikis basa il suo teatro sulla polemica, estetica e ideologica, rivolta al suo maestro e quasi ogni suo spettacolo è una sorta di replica o risposta all’ultimo lavoro di Varnas. Nei suoi spettacoli risuona con forza il leitmotiv della generazione come comunità e ciò orienta l’esistenza del gruppo teatrale No Theatre da lui guidato e il cui nucleo è composto dai suoi compagni di accademia. Partito da performances politico-sociali e da happening nelle strade, nei negozi, nei foyer dei teatri, No Theatre ha trasferito il suo entusiasmo giovanile verso il “grande formato” con due spettacoli: Mr. Fluxus, o Ciarlatano! (Mr. Fluxus, arba Šarlatanai!), che si svolge su alcune rampe da skate, e Fight Club (Kovos klubas), che è stato rappresentato nel cortile e sul palcoscenico del Teatro della Gioventù. Mr Fluxus, che si ispira alla biografia di Jurgis Mačiūnas, fondatore del movimento Fluxus, è diventato un vero manifesto – non solo teatrale – della giovane generazione lituana, che cerca il proprio posto al sole nella società postsovietica ed è a mio avviso una delle messe in scena più importanti nel teatro lituano degli ultimi cinque anni. ★ (traduzione dal lituano di Toma Gudelytė) In apertura, una scena di Giulio Cesare, regia di Artūras Areima (foto: D. Matvejevas); in questa pagina, un’immagine di Mr Fluxus, o Ciarlatano!, regia di Vidas Bareikis.
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Vilnius, la città dei teatri Dal Teatro Drammatico Nazionale alla Tipografia delle Arti, dall’Okt di Koršunovas al Meno Fortas di Nekrošius passando per il Piccolo Teatro e il Teatro Drammatico Russo, è estremamente variegata e vivace la geografia degli spazi nella capitale lituana. Senza dimenticare i festival e altre città come Kaunas e Klaipėda. di Toma Gudelytė
C
hi si aggira nel centro storico di Vilnius, circondato da due fiumi e disseminato di spettrali chiese barocche, può rimaner stupito dalla concentrazione dei luoghi teatrali, piccoli e grandi, che esso ospita. «Vilnius is full of space», recita una grande scritta in graffiti sul muro di una chiesa sconsacrata nel cuore della capitale baltica. Niente di più vero può essere detto degli spazi urbani occupati dal teatro e del ruolo che nella vita culturale lituana svolgono gli spettacoli e i festival teatrali. A poca distanza fra loro si trovano, infatti, il Teatro Drammatico Nazionale, il Piccolo Teatro di Vilnius, la rivoluzionaria officina teatrale di Oskaras Koršunovas Okt, il Meno Fortas (La Fortezza dell’Arte) di Eimuntas Nekrošius, il Centro Educativo di Teatro e di Cinema, Menų
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Spaustuvė (La Tipografia delle Arti) - la vecchia tipografia della locale Pravda, oggi abilmente ristrutturata all’uso di diverse compagnie teatrali -, il Teatro Drammatico di Užupis, situato nel piccolo quartiere bohémien dichiaratosi Repubblica indipendente degli artisti, con tanto di statuto, inno, presidente e, immancabilmente... teatro! Vilnius è da sempre una città multietnica tradizionalmente ricca di spettacolo dal vivo, un territorio di confine dove nei secoli si sono incrociate e consolidate diverse memorie culturali e identitarie. Il Teatro Drammatico Nazionale, attivo dal 1940, inizialmente ospitava il circolo culturale polacco, mentre a pochi passi, durante l’occupazione nazista, si svolgeva la breve vita del Teatro Yiddish del ghetto, un fenomeno unico nel contesto europeo, raccontato da Joshua Sobol nella pièce Ghetto. Oggi questo edificio è affidato al
Teatro per i ragazzi Lėlė (Il pupazzo) che affianca il Teatro della Gioventù, luogo dove nel 1977 esordì Eimuntas Nekrošius. Sempre nel territorio del vecchio ghetto si trova il teatro indipendente Okt, fondato nel 1998 dal regista Oskaras Koršunovas, uno dei principali volti del teatro contemporaneo lituano, che vanta un proprio pubblico ormai consolidato. Lo storico edificio che oggi ospita la sede amministrativa di questo teatro fu l’ultimo baluardo della resistenza ebraica durante la liquidazione del ghetto di Wilno, vecchio nome della capitale lituana. L’ombra di Mosca Per completare il quadro “identitario” va menzionato il Teatro Drammatico Russo, fondato ancora nel 1864 su iniziativa di Pavel Vasiljev, insigne artista del Teatro Imperiale di San Pie-
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troburgo. Nell’epoca in cui prendevano forza le sommosse indipendentiste antirusse, il teatro riaffermava la presenza del potere zarista sul territorio e offriva un repertorio esclusivamente russo, in linea con l’ideologia dello Stato. Oggi, dopo le vicende travagliate della storia lituana, il Teatro Drammatico Russo mantiene forti legami con la minoranza etnica russa, proponendo un repertorio composto maggiormente dai classici e contemporanei russi, ma al contempo puntando al dialogo e all’integrazione: dal 2008 alla guida del teatro è Jonas Vaitkus, uno dei maestri del teatro lituano contemporaneo. La storia dell’occupazione lituana, del resto, ha fatto sì che negli anni la formazione teatrale di molti artisti fosse strettamente legata alla scuola di Mosca (nello specifico il Gitis), dove ha studiato, per esempio, Rimas Tuminas, fondatore del Piccolo Teatro di Vilnius nonché dal 2007 direttore artistico del Teatro Vachtangov di Mosca. Il repertorio portato da Tuminas al Piccolo di Vilnius perciò è fortemente ambivalente e diviso tra i classici russi (Il ballo in maschera di Lermontov, Cechov e Gogol’) e la nuova drammaturgia lituana (Madagaskaras e Mistras di Marius Ivaškevičius). Vilnius, va detto, ha investito molto nell’istituire un proprio centro di formazione culturale che oggi ha le vesti della prestigiosa Accademia di Musica e Teatro (Lmta), con lauree e master in regia, recitazione e critica teatrale. Il Teatro Drammatico Nazionale nel 2005 ha avviato un progetto per incentivare la scrittura drammaturgica e rafforzare i legami tra il teatro e la cultura letteraria nazionale, che ben presto si è trasformato nel Festival Versmė (La fonte) composto da due parti: letture delle pièces, selezionate dalla commissione, seguite dai workshop creativi che permettono l’incontro diretto tra autore, regista e attori; e le messe in scene dei classici o contemporanei della drammaturgia lituana, proposte da diversi teatri lituani, professionali e amatoriali. Le pièces vincitrici del festival vengono inserite nel repertorio del Teatro Drammatico Nazionale dell’anno successivo. Una struttura alternativa che accoglie le compagnie di teatro e di danza, offrendo uno spazio multifunzionale composto da cinque sale attrezzate, è la Tipografia delle Arti, aperto nel 2002 in seguito ad alcune importanti iniziative teatrali: la messinscena dello spettacolo Regola Nr. 1: proibito sognare Vilnius con il Keistuolių Teatras (Compagnia di persone bizzarre), il primo teatro professionale indipendente lituano (1989), e il New Drama Action, festival della drammaturgia contemporanea europea, attivo
dal 1999 grazie all’entusiasmo di Audronis Liuga e del Centro Educativo di Teatro e di Cinema. La Tipografia delle Arti oggi propone un’ampia gamma di attività, tra cui residenze creative, laboratori teatrali, incontri e mostre, nonché spazio per le performances delle compagnie emergenti o già affermate. È ormai diventata la sede non ufficiale della Compagnia Atviras ratas (Il cerchio aperto), allievi di Vladas Bagdonas e Aidas Giniotis (alla guida di Keistuoliai), del regista Cesaris Graužinis e del nuovo movimento No Theatre di Vidas Bareikis. Festival e dintorni Vilnius è anche la capitale dei piccoli teatri indipendenti e sperimentali. Nel 2007 il regista Gintaras Varnas, allievo alla Lmta di Vaitkus e Tuminas, lascia il Teatro Drammatico di Kaunas per fondare il Teatro Utopia, anch’esso senza una “dimora” fissa, portando in scena García Lorca, Ursula Ehler, Micheal Lewis MacLennan e i contemporanei lituani, tra cui Gabrielė Labanauskaitė, e scegliendo temi particolarmente attuali e provocatori per la società lituana. L’esordio con La grandine delle stelle della Labanauskaitė, sul tema di come i reality trasformano la nostra quotidianità e la nostra concezione del mondo, nasce durante un laboratorio, dove il testo veniva costruito insieme agli attori durante le improvvisazioni. Portato al Festival Tylos! (Silenzio!) ha riscontrato grande successo. Accanto al Festival Sirenos, nato nel 2004 su iniziativa dell’Okt, ormai di fama internazionale, Tylos! è un’altra importante esperienza teatrale uscita dal Piccolo Teatro nel 2008. È un festival dedicato esclusivamente agli esordienti, il cui obiettivo principale è il confronto sulle nuove tendenze e realtà che formano il teatro contemporaneo e sui nuovi linguaggi espressivi.
Al contesto esclusivamente baltico è riservato il Baltic Theater Festival, con particolare attenzione alla drammaturgia lituana, lettone ed estone, che dal 2007 si svolge alternativamente in una tra le città delle tre repubbliche. Quest’anno tocca a Kaunas, capitale lituana nel primo dopoguerra, sede di ben tre teatri stabili (Teatro Drammatico, Teatro Musicale e Teatro dei burattini) e di una radicata tradizione artistica. Il festival offre un programma ricco e variegato, non dimenticando le maggiori novità della stagione teatrale, tra cui quest’anno si inserisce il regista Artūras Areima con il cechoviano Giardino di ciliegi. Areima, un regista giovane e ambizioso, è tra i pochi ospitati sotto il tetto del Okt, insieme alla coreografa Andželika Cholina (Teatro A|CH), dove ha messo in scena, per la prima volta nella storia teatrale lituana, il Giulio Cesare di Shakespeare, rappresentazione fortemente intrecciata con le vicende politiche lituane e che ha suscitato non poco scandalo. Infine Klaipėda, il porto lituano affiancato dalla magnifica penisola curlandese, è città par excellence del teatro per i bambini. Qui nasce il Festival internazionale Karakumų asilėlis (L’asinello di Karakum), organizzato dal Teatro di burattini di Klaipėda, che vanta un programma internazionale. Mentre l’annuale Festival internazionale di teatro di strada Šermukšnis (Il sorbo), organizzato dal Pilies teatras (Teatro del Castello), porta il pubblico fuori dai luoghi tradizionali, trasformando il piccolo centro storico portuale col suo spirito carnevalesco, fatto di performance e danza, immerso nella musica e nel circo. ★ In apertura, in senso orario, il Teatro Drammatico Nazionale, la Tipografia delle Arti, l’interno del Teatro Lėlė (ex Yddish) e il Piccolo Teatro; in questa pagina, l’interno del teatro indipendente Okt, durante Bassifondi, di Gorkij, regia di Koršunovas.
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Sirenos 2013, viaggi nel tempo Il Festival internazionale, che ha compiuto dieci anni, si conferma come la vetrina più importante del teatro lituano (Nekrošius, Koršunovas, Varnas) e fecondo spazio di confronto, aperto agli artisti internazionali più innovativi (Silis, Ross, Doiashvili, Emma Dante). di Laura Caretti
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irenos compie dieci anni e li celebra dedicando questo Festival 2013 ai suoi spettatori diventati col tempo sempre più appassionati, numerosi e... giovani. Parlando con i fondatori e gli organizzatori, con il manager-director Martynas Budraitis e soprattutto con la direttrice artistica Audra Žukaitytė, cuore e mente di questa rassegna internazionale, si sente l’orgoglio di aver mantenuto fede non solo all’impegno iniziale di «portare a Vilnius il nuovo teatro occidentale», ma di continuare a offrire ai propri artisti, non più chiusi dentro confini nazionali, l’occasione di un confronto e di uno scambio fertile di idee e di progetti condivisi. Il Festival è solitamente diviso in due parti: la prima, curata da Aušra Simanavičiūtė, presenta le novità del teatro lituano, mentre la seconda si apre agli ospiti, scelti tra quelli che osano i percorsi più inconsueti. A Sirenos, mi dice Audra Žukaitytė, sono venuti infatti molti artisti che hanno “sfidato”
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il pubblico, la critica e messo persino a soqquadro il Parlamento, com’è successo l’anno scorso con Sul concetto di volto nel Figlio di Dio di Castellucci. E tuttavia, proprio il tentativo pretestuoso di avviare una crociata politico-religiosa ha mostrato la forza della comunità che si raccoglie intorno a Sirenos e condivide un’idea di teatro inteso come laboratorio creativo a porte aperte. Il giovane Peer e il vecchio Krapp Non mancano dei punti di contatto tra le due parti del Festival, che spesso includono produzioni tra diverse realtà teatrali. È il caso, quest’anno, del Peer Gynt del Teatro Nazionale di Oslo con attori norvegesi diretti da Oskaras Koršunovas. Uno spettacolo che ha rinnovato in modo del tutto imprevisto la messinscena di quest’opera. Merito della drammaturgia e della regia che ha genialmente fatto scorrere in flashback la storia di questo Peer «ribelle, sempre
pronto a mentire, egocentrico e innamorato di se stesso e della vita», come appunto lo vede Koršunovas. La scena, disegnata dall’artista lituano Vytautas Narbutas, è quella di un circo con al centro dell’arena una barca su cui Peer viaggia a ritroso nel tempo, ed ecco che appaiono ed entrano in pista, accompagnati da una musica circense, che ricorda Fellini, i personaggi delle sue picaresche avventure: la donna in verde con il figlio, i troll, il fonditore di bottoni... È come se Peer rivedesse tutta la sua vita con le lenti di un immaginario nutrito di antiche saghe e leggende. C’è infatti un contrasto netto tra queste figure, di cui il trucco e il costume sottolineano la natura “fantastica”, e le due donne di Peer, la madre e Solveig, che invece appartengono al suo mondo umano e affettivo. Così in questo surreale replay, la fine coincide con l’inizio del testo di Ibsen, con Peer ragazzo che racconta alla madre di aver inseguito un alce e di essersi buttato da una montagna altis-
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sima in mare. E lei, che conosce la sua abilità di inventare storie che paiono vere, lo rincorre minacciosa, ma anche divertita, portandosi dietro tutti i personaggi, in un ultimo giro di pista. Anche l’altro spettacolo diretto da Koršunovas, L’ultimo nastro di Krapp, mette in scena un viaggio a ritroso nel tempo, ma con una tonalità ben diversa. Il personaggio di Beckett non ha la vitalità e l’estro ribelle del vecchio Peer, né quella sua perenne inventiva giovinezza. È sì anche lui un “narratore” di se stesso, solo che qui siamo nella nostra epoca post-proustiana e il “tempo perduto” riaffiora attraverso i frammenti di un diario registrato, in cui Krapp si è illuso di aver fermato le epifanie della sua vita. L’attore lituano Juozas Budraitis è eccezionale in questo ruolo che già vent’anni fa aveva proposto a Koršunovas giovanissimo. «A lungo non mi sono sentito pronto - dice, e poi aggiunge - oggi sono invecchiato e ho percepito l’orrore della vecchiaia». Di tante versioni sceniche che ho visto, questa è la più spietata e la più tragica. Quel nastro che ascolta è davvero “l’ultimo”, gli altri sono aggrovigliati a terra in una irrecuperabile matassa di memorie che Krapp, camminando, trascina dietro di sé. E quell’ultimo ascolto lo fa ridere delle speranze di un tempo, ma fa anche affiorare dei ricordi che lo colpiscono al cuore, come pugnali. Il Krapp di Koršunovas è ucciso da questi ricordi e alla fine la sua voce rievoca solo per noi la scena d’amore nella barca che ondeggia lentamente sul fiume. I classici e la Storia Il viaggio a ritroso nel tempo, che abbiamo visto come un denominatore comune del Festival, unisce altri due spettacoli, La nostra classe e I legionari, che puntano i riflettori su due episodi emblematici e solo apparentemente marginali, della nostra Storia europea. Ed è chiaro l’intento, in entrambi, di mostrare il teatro come luogo di svelamento. «Non si può mai seppellire la verità», è l’ultima battuta con cui si chiude la messinscena di Yana Ross del dramma di Tadeusz Slobodzianek La nostra classe: una storia corale di un gruppo di compagni di scuola polacchi, cattolici ed ebrei, negli anni del nazismo e dello stalinismo, che, in un terrificante crescendo (ben reso dal ritmo accele-
rato della regia), si smembra e genera al suo interno una ostilità e una violenza collettiva che trasforma l’amico in nemico fino a volerne la morte. I legionari (vedi recensione su Hystrio n. 4.2013), diretto dal regista lettone Valters Silis, ridà invece voce al dibattito aperto dalla richiesta di estradizione da parte dell’Unione Sovietica di un gruppo di soldati delle repubbliche baltiche, arruolati dall’esercito tedesco e prigionieri dopo la fine della guerra in Svezia. Una richiesta che scatena a lungo pareri favorevoli e contrari, fino al loro forzato ritorno in una “patria” che non sanno più quale sia. In scena ci sono solo due bravissimi attori, Carl Aim e Kārlis Krūmiņš che danno voce a tutti i personaggi, alle ipocrisie e ambiguità della diplomazia politica, ma anche all’angoscia, alle paure, alla perdita di ogni diritto di quei 167 “legionari”. Un altro viaggio nel tempo riporta in scena i “classici”. Così il Macbeth del regista georgiano David Doiashvili, che immerge nel buio le allucinazioni e gli incubi dei personaggi; le Baccanti, messe in scena da Gintaras Varnas, con Dioniso che danza leggero e onnipotente sulla distruzione dell’Acropoli, sulla follia e sul dolore delle donne e degli uomini, e ancora il viaggio Verso Medea di Emma Dante, che va diretto al cuore della tragedia. Qui, non c’è alcun ricorso alla scenografia, tutto è affidato alla bravura dei suoi attori, al talento di Elena Borgogni, e al ruolo di cantastorie dei fratelli Mancuso che amplificano, con la loro musica, le tonalità dolorose del dramma. Quando entra in scena, Medea è incinta, ma è già sola e resa violenta dal tradimento di Giasone. Si batte furiosamente il corpo, decisa a colpire quel figlio a cui non può impedire di nascere, ma a cui, con grande tenerezza, impedisce di vivere perché non sia ucciso. La scrittura scenica di Emma Dante fa propria la lettura del mito fatta da Christa Wolf, ma guarda più a fondo nel tumulto del cuore di questa giovane donna - straniera in una terra che non è la sua, diversa dalle altre donne, prive della sua sensuale bellezza e della sua rabbia - e crea un atto unico di forte intensità che ha appassionato il pubblico lituano. Due serate del Festival sono state dedicate al viaggio dall’Inferno al Paradiso (vedi le recensioni su Hystrio n. 4.2012) di Nekrošius, di cui in Italia già molto è stato scritto. Dirò solo che
qui, nonostante l’applauso di tutto il pubblico levato in piedi, molti sono rimasti perplessi. Sembra sorprendente che la scrittura scenica di Nekrošius, ricca come sempre di “correlativi oggettivi” e inafferrabili simbologie, sia giudicata ora, proprio in Lituania, “eccessivamente ermetica”. Ci si può chiedere se questo sia dovuto a una scarsa conoscenza della Commedia che impedisce quello shock of recognition che noi proviamo. O è perché il regista lituano persegue una sua ricerca che lo isola nel contesto attuale del teatro lituano? O più semplicemente perché il Paradiso, al Teatro Nazionale di Vilnius, ha perso la scenografia irripetibile dell’Olimpico di Vicenza, in cui è nato? Comunque sia, va però anche detto che questo straordinario spettacolo ha incantato la mente e il cuore di tanti e confermato, ancora una volta, l’assoluta originalità creativa di Nekrošius, coerente a se stesso e al proprio immaginario, che ha saputo raccontarci con «chiare immagini visive», come direbbe T.S. Eliot, il «romanzo d’amore» della Commedia dantesca. ★ In apertura, Juozas Budraitis in L’ultimo nastro di Krapp, regia di Oskaras Koršunovas; in questa pagina una scena di Divina Commedia, di Dante, regia di Nekrošius.
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La scenografia lituana fra teatro e arti visive Sempre più di frequente, dalla fine degli anni ’90, la realizzazione delle scene viene affidata ad artisti non necessariamente legati al mondo del teatro. Tra questi, Jūratė Paulėkaitė, Gintaras Makarevičius e Dainius Liškevičius. di Helmutas Šabasevičius
L
o sviluppo della scenografia lituana contemporanea partecipa del contesto di trasformazione di tutta la cultura visuale in corso negli ultimi venti anni. Le componenti tradizionali della messinscena erano alla fine del XX secolo in un rapporto fisso: le messinscene erano dirette dai registi formati nelle scuole di teatro russe (San Pietroburgo o Mosca), mentre gli scenografi venivano dalla Accademia delle Arti di Vilnius. Questi schemi rigidi hanno cominciato a rompersi nei tardi anni Novanta, quando alcuni noti artisti lituani sono stati chiamati a creare scene e costumi per le rappresentazioni. Ci sono anche dei registi che non si sono mai preoccupati di elaborare delle scenografie complesse ed Eimuntas Nekrošius è tra questi. La struttura visiva dei suoi spettacoli si basa unicamente sulla relazione tra spazio, oggetti e il loro significato metaforico, e tutte le sue recenti messinscene sono state realizzate con gli stessi artisti: lo scenografo Marius Nekrošius (1976) e la costumista Nadežda Gultiajeva (1949). Ma la maggior parte dei registi, le cui carriere cominciarono quando la Lituania dichiarò la sua indipendenza nel 1990, stanno cercando nuovi artisti per ottenere risultati innovativi. Gintaras Varnas con un gruppo di artisti fondò il teatro politicamente impegnato Šėpos (Guardaroba), con piccoli burattini di esponenti politici sovietici e lituani, e il talento di Koršunovas si rivelò clamorosamente con la trilogia basa-
ta sulle opere degli scrittori russi di avanguardia Alexandr Vvedenskij e Daniil Charms: Là per essere qua, La vecchia, Ciao Sonia nuovo anno. Queste messinscene furono allestite insieme ad artisti visivi molto ambiziosi, per i quali il teatro era una forma nuova e stimolante di sperimentazione. Elementi di installazione negli allestimenti di Aidas Bareikis (1967) e Julius Ludavičius (1969) per Là per essere qua e La vecchia e di illusionismo ottico di Žilvinas Kempinas (1969) per La vecchia 2 e per Ciao Sonia nuovo anno potrebbero essere rintracciati nei loro lavori artistici (specialmente nel Tubo di Kempinas alla Biennale di Venezia del 2011), a riprova che la loro breve avventura teatrale è davvero la fonte della loro ispirazione artistica. Koršunovas per molti anni ha collaborato con Jūratė Paulėkaitė (1962-2011), una artista che fino da quando studiava nell’Accademia delle Arti di Vilnius cercava un suo spazio indipendente nel mondo artistico lituano. I lavori più notevoli, nati dalla loro collaborazione, sono Roberto Zucco, Fireface, Shopping and Fucking, Il Maestro e Margherita, Edipo Re, Romeo e Giulietta, dove lo stile individuale dell’artista si trasformava in accordo con la loro visione condivisa dell’allestimento. Paulėkaitė ha lavorato anche con Varnas e Vaitkus. Il suo ultimo impegno è stato per Il nemico del popolo, dove la concezione dello spazio è risultata decisiva per le soluzioni registiche. Gintaras Makarevičius (1965), diplomato del Dipartimento di pittura dell’Accademia delle Arti di Vilnius, si è fatto dapprima un nome come notevole artista concettuale, con installazioni e opere di video art. Solo dopo diversi anni è salito sul palcoscenico, trasformando il suo concetto di spazio e di immagine per diversi registi: Portia Coglen, Roosevelt’s Square e Le baccanti con Varnas, Patrioti con Vaitkus, Esodo con Koršunovas. Makarevičius crea architetture minimaliste arricchite da luci e proiezioni video. Il più recente incontro tra l’arte lituana contemporanea e il teatro è rappresentato dagli allestimenti dell’artista concettuale Dainius Liškevičius (1970), che ha collaborato con Koršunovas . Il suo lavoro più importante è stato quello per Miranda, che Koršunovas ha tratto dalla Tempesta. La scena di Liškevičius assomiglia a un appartamento sovietico inzeppato di mobilia, libri, souvenir e utensili, e ricorda il suo Obelisco, un’opera della cosiddetta home art, dove l’artista ha stipato ogni cosa del suo appartamento.Va detto infine che alcuni scenografi non si limitano a collaborare: Paulėkaitė è scenografa ma anche regista (con l’attore Dainius Gavenonis) di Insieme e Festa privata, e Makarevičius di Un gatto nel Tamigi e La bestia dagli occhi azzurri. ★ (traduzione dall’inglese di Laura Caretti) Obelisco, di Dainius Liškevičius (foto: Modestas Ezerskis).
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Illusioni nello spazio della mente A Vilnius la mostra Illusionisti. Sulla scenografia e l’arte contemporanea evoca, attraverso parole, immagini, video e oggetti di scena, usati come installazioni, le suggestioni che alcuni spettacoli hanno creato nella memoria degli spettatori. di Laura Caretti
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i celebra quest’anno in Lituania l’anniversario della prima mostra di set-design fatta a Kaunas nel 1933: una ricorrenza che vuole essere l’occasione per dare visibilità e rilievo al contributo “artistico” che gli scenografi hanno dato al teatro. Per questo l’esposizione Illusionisti. Sulla scenografia e l’arte contemporanea della scena è allestita nella grande sala al primo piano del Centro di Arte Contemporanea di Vilnius (Cac), ed è curata da due esperte d’arte: Julija Fomina e Virginija Januškevičiūtė. Molti sono, infatti, gli artisti visivi, come Gintaras Makarevičius, Dainius Liškevičius, Žilvinas Kempinas, che partecipano alla regia. Ecco perché nessuna scenografia è esposta di per sé, isolata dal contesto in cui è stata creata, ma “vista” nello spazio illusionistico della performance. E come? «Non essendo esperte di teatro – dice la curatrice Virginija Januškevičiūtė – abbiamo preso a prestito gli occhi dei fotografi, dei videomakers e dei critici che hanno espresso in immagini o in parole la loro visione della scena». Sulle pareti della grande sala al primo piano si dispiegano le immagini fotografiche degli spettacoli, e si passa da quelle in bianco e nero dell’artista Gintaras Zinkevičius, ai più recenti fotogrammi colorati di Dmitrijus Matvejevas, Paulius Gasiūnas, Gintautas Trimakas, Dainius Liškevičius. Al centro, lo spettatore è invece invitato a muoversi liberamente tra i monitor, che proiettano non stop alcuni spettacoli salvati attraverso il tempo. Gli assurdi musicisti di uno spettacolo “storico” come Là per essere qua di Aleksandr Vvedenskij e Daniil Charms, diretto da Koršunovas in collaborazione con Aidas Bareikis, richiamano il periodo di sperimentazione d’avanguardia degli anni ’90, mentre poco più in là scorrono le sequenze del Makbetas di Nekrošius. A scandire lo spazio, ci sono delle bacheche dove, evidenziati in giallo, si “leggono” gli scenari che gli occhi dei critici hanno saputo mostrare nelle loro recensioni. Un bel riconoscimento per chi scrive di teatro! Altre parole sul teatro e sul suo cambiamento, dopo l’indipendenza, si possono ascoltare dalla voce registrata di Jūratė Paulėkaitė: una scenografa che ha collaborato con i più importanti registi lituani con la leggerezza inventiva di un immaginario sempre sorprendente. La mostra insomma ha voluto di proposito evocare le illusioni visive che lo spettacolo crea nel teatro della mente, immagini che non si perdono se gli occhi degli spettatori sanno tradurle in altre immagini. «La nostra è stata una ricerca nella memoria visiva del teatro – continua Virginija Januškevičiūtė – Abbiamo scelto, di proposito, di non raccogliere oggetti scenici, togliendoli dal contesto della rappresentazione, e farne delle scultu-
re». Ma ci sono alcune eccezioni che rivelano l’intervento originale delle curatrici. A terra, infatti, su una piattaforma sono ammucchiate le armi che il teatro utilizza. Il pubblico le tocca, le prende e le sposta variandone l’ammasso. Vengono dall’arsenale del Teatro Nazionale, messe lì alla rinfusa. Mi dicono che «c’è anche una vera ascia che però non si distingue dalle altre». Il risultato va oltre l’intenzione di mostrare la materialità del teatro. E si presenta come una installazione che parla di battaglie e di duelli, della morte e della sua finzione. Del tutto surreali appaiono invece le palle bianche di diverse dimensioni disposte in vari punti della sala, opera di Adomas Jacovskis per la messinscena di Maskaradas (Un ballo in maschera) di Michail Lermontov, diretta da Rimas Tuminas. «Nello spettacolo – spiega la curatrice – un personaggio comincia a far rotolare una piccola palla di neve che si ingrossa via via che il dramma procede fino a diventare gigantesca e più grande di lui. Ecco, abbiamo pensato di metterle tutte simbolicamente insieme qui, per la prima volta». Sono oggetti emblematici dell’illusione scenografica; svelano insieme i trucchi del teatro e la sua capacità di creare effetti di realtà. Di qui, da questo doppio ha avuto origine la mostra che ha fatto proprie le affermazioni contrapposte di Koršunovas: «Se si finge, il teatro muore», e di Nekrošius: «Se non si finge, se si dice solo la verità, è improbabile che in scena emerga il dramma». ★ Panoramica della mostra “Illusionisti” al Cac (Centro di Arte Contemporanea) di Vilnius.
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DOSSIER/TEATRO IN LITUANIA
A scuola di teatro alla Lmta incubatrice di nuovi talenti L'Accademia Lituana di Musica e Teatro prepara attori, danzatori e registi, ma anche operatori e critici. Lì hanno studiato o vi insegnano gli artisti più noti della scena nazionale. Fondata nel 1952 oggi è caratterizzata da una forte internazionalizzazione e da una febbrile creatività basata sull'interazione fra le diverse discipline. di Elona Bajorinienė e Giedrė Kabašinskienė
L’
Accademia lituana di musica e teatro (Lmta) è un’università delle arti specializzata in musica, teatro, cinema e danza. È articolata in due facoltà: la Facoltà di Musica e la Facoltà di Teatro e Cinema (Ftf), che comprende i dipartimenti di recitazione e regia, cinema e televisione, storia e teoria dell’arte, danza e movimento; e include anche una sezione di management delle arti. La Ftf offre 15 diversi programmi di studio di primo e secondo livello (laurea e master) e corsi di dottorato nel campo del teatro e del cinema. La finalità è quella di preparare attori, danzatori, registi teatrali e cinematografici, specialisti di teoria, storia e critica teatrale e cinematografica, professionisti, esperti nell’arte del teatro/cinema/danza, specialisti nella legislazione, professionisti preparati per un lavoro
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artistico indipendente e in grado di comprendere i processi artistici dal punto di vista storico, teorico, pratico e sociale. Il curriculum di studi è stato elaborato da professori lituani di fama internazionale e professionisti della scena musicale e teatrale, della danza e dell’industria cinematografica. Dal 1952, con la fondazione del dipartimento di recitazione all’interno dell’Accademia, la preparazione dei professionisti di teatro è infatti stata affidata a docenti di grande personalità artistica. Tra questi, la famosa regista Dalia Tamulevičiūtė ha allevato numerose generazioni di attori e registi che hanno cambiato profondamente la storia del teatro lituano. Uno dei suoi studenti è stato Eimuntas Nekrošius, che ha iniziato a studiare recitazione alla Lmta, continuando poi i suoi studi di regia a Mo-
sca (nel periodo sovietico, i registi, così come tutti gli esperti di teatro, potevano studiare soltanto negli istituti di Mosca e di Leningrado). In seguito, i migliori registi del teatro lituano come Nekrošius, Rimas Tuminas, Oskaras Koršunovas, Gintaras Varnas, Jonas Vaitkus, coreografi quali Aira Naginevičiūtė, Jolanta Vymerytė, Eglė Špokaitė hanno lavorato o stanno attualmente lavorando all’Accademia, e molti di loro, a loro volta, si sono formati all’interno dell’istituzione. Koršunovas e Varnas sono stati allievi di Vaitkus e oggi non sono soltanto autori di spettacoli di fama internazionale, ma insegnano alle nuove generazioni di attori e registi dell’Accademia. Anche Nekrošius è strettamente legato alla Lmta: le sue ultime grandi messe in scena (L’Idiota, Divina Commedia, Il libro di Giobbe) sono state realizzate con
DOSSIER/TEATRO IN LITUANIA
gli studenti della Lmta e questa esperienza è stata sicuramente per loro il miglior insegnamento possibile. Un diploma europeo La Lituania conta più di 50 teatri professionistici e compagnie teatrali (di cui 13 sono teatri statali). Inoltre, ci sono più di 30 teatri professionistici indipendenti e la maggior parte sono stati fondati da ex studenti della Ftf. Nel corso degli studi, gli studenti, infatti, danno vita a progetti e vengono coinvolti attivamente nella vita teatrale lituana. Per esempio, nel 2008 un gruppo che comprendeva i dieci migliori allievi del corso tenuto dal regista Tuminas ha organizzato un festival teatrale, Tylos! (Silenzio!), che è cresciuto ed è diventato un appuntamento annuale che attira un numero crescente di partecipanti e spettatori. Attualmente, una delle attività particolarmente innovative è il progetto inglese Thinking Body (Corpo pensante) finalizzato a porre le basi interdisciplinari di un laboratorio di ricerca sull’arte teatrale. Il progetto esplorerà i presupposti teorici (filosofici, neurologici, cognitivi, psicologici, fisici) del “corpo pensante” e tecniche di training teatrale quali il metodo Suzuki, la recitazione psicofisica, il metodo Stanislavskij, l’ideokinesi, ecc. Si terrà, inoltre, un laboratorio per ricercatori, teorici del teatro e artisti (registi, specialisti del movimento e coreografi). Come esito finale del laboratorio verranno proposte due performance sperimentali. La riflessione teorica, invece, verrà esposta nel corso di una conferenza internazionale, attraverso le reti internazionali (Nortea, Elia, Ede). Nel corso della sua storia, il processo di internazionalizzazione si è molto intensificato. Tutti i programmi di studio dell’Accademia sono stati stabiliti da un comitato di esperti internazionali dei sei paesi Ue e sono stati accreditati a livello nazionale. I diplomi ottenuti all’Accademia, così come il diploma europeo supplementare che accompagna la certificazione di istruzione superiore, vengono riconosciuti validi de jure in tutti gli stati membri dell’Unione Europea. L’Accademia riconosce inoltre la validità degli studi di vario genere compiuti all’estero e sostiene la mobilità degli studenti e degli insegnanti. Ogni anno più di 70 artisti e professori ospiti tengono lezioni, seminari, laboratori e masterclass. Ogni anno circa il 4% degli studenti dell’Accademia studia all’estero nell’ambito di programmi di mobilità quali Erasmus e Nordplus, e circa il 25% degli iscritti partecipa a progetti di mobilità a breve termine: programmi offerti da istituzioni partner
e imprese, che coinvolgono gli studenti in progetti intensivi, festival teatrali e cinematografici, residenze e laboratori creativi, corsi estivi, collaborazioni artistiche e scambi culturali. Tutte le attività internazionali, supplementari rispetto ai programmi di studio della Lmta, offrono l’opportunità di passare dall’insegnamento accademico all’autoformazione, indipendente e attiva. Le reti internazionali L’Accademia collabora con più di 120 scuole superiori di musica, teatro e cinema oltre che università di 34 paesi, ed è membro attivo di reti internazionali finalizzate a valorizzare le attività nell’area Nordica e Baltica e a favorire scambi in ambito europeo. Inoltre, aderisce a Icon, rete internazionale dei Conservatori innovativi, e partecipa attivamente a varie iniziative promosse dalle associazioni internazionali musicali e teatrali: Elia, Aec, Anma, Ede, Ecma, Ecmt, e Eutsa (Unione europea delle Scuole e delle Accademie di teatro), che si propone proprio di aiutare le giovani generazioni a muovere i primi passi in campo teatrale. Lo scorso anno la Lmta ha partecipato al Fresh Festival inserito nel Festival internazionale di teatro Baltic House tenutosi a San Pietroburgo e nel programma riservato al giovane teatro europeo del Festival di Spoleto. Nello stesso periodo, l’associazione Ede (École des Écoles), di cui la Lmta fa attivamente parte, ha riunito i direttori delle scuole di teatro per sviluppare una strategia educativa e una futura politica teatrale realmente europee. Una delle peculiarità più significative della Facoltà di teatro e di cinema (Ftf), comunemente chia-
mata Scuola nazionale di teatro, è la sua atmosfera, caratterizzata da un’attività febbrile, con numerosi progetti che coesistono e si susseguono. Studenti e insegnanti hanno libero accesso a una rete di artisti, mentre la costante interazione con gli altri dipartimenti, facoltà e discipline funziona come incubatore di innovazione. Qui gli artisti possono crescere in un ambiente in cui la teoria incontra la pratica secondo modalità impensabili nelle sterili istituzioni ultra-tradizionali. Un ambiente in cui è costante l’interazione con il mondo esterno: enti professionali, festival, progetti ed eventi organizzati da altre accademie e scuole. Questa atmosfera stimola studenti e insegnanti a realizzare nuove produzioni interdisciplinari, con cui partecipare a rassegne internazionali di danza, teatro e cinema. La Ftf inoltre organizza un festival internazionale di danza contemporanea, Schock Academia; una rassegna di teatro Tylos (Silenzio!) in collaborazione con il Piccolo Teatro di Vilnius; il festival cinematografico Šoblė e il laboratorio internazionale di cinema Summer media studio. La Ftf è anche un’attiva sostenitrice della ricerca in campo teatrale. In collaborazione con il noto festival internazionale Sirenos si tengono, nel mese di settembre, conferenze dedicate agli studi teatrali, che nel 2013 hanno ottenuto il Premio Internazionale Carlo Magno per i giovani ad Aquisgrana; mentre nel mese di ottobre si svolge la Conferenza scientifica internazionale degli studiosi di teatro. ★ (traduzione dall’inglese di Laura Bevione) In apertura, No concert (movimento creativo del teatro Nō); in questa pagina, attori dell’Accademia durante un laboratorio.
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DOSSIER/TEATRO IN LITUANIA
Danzando con gli attori nuovi coreografi alla riscossa Accanto all’istituzionale Teatro Nazionale dell’Opera e del Balletto, artisti come Andželika Cholina, Gytis Ivanauskas e Birutė Letukaitė hanno fondato nuovi teatri e lavorano spesso mescolando attori, danzatori e musicisti. di Stefania Bevilacqua
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a studi effettuati dall’Università di Vilnius sulle antiche tradizioni delle danze popolari lituane emerge che la vita di questo Paese, il suo carattere e la morale si esprimono soprattutto nella danza. Ancora oggi, infatti, non solo la danza folk, ma anche la danza classica e moderna sono molto popolari in Lituania. Lo testimoniano le realtà artistiche che operano in questo paese: a Klaipėda, nel 1965, è stata creata la compagnia di danza moderna Žuvėdra (Il Gabbiano) affiliata all’Università. A Vilnius, il Teatro Nazionale dell’Opera e del Balletto, fondato nell’autunno del 1920, realizza ogni anno circa 15-20 produzioni, presentando una decina di spettacoli di danza al mese. Il repertorio comprende sia i grandi classici come Giselle, Il lago dei cigni e La bella addormentata, sia le coreografie contemporanee di Andželika Cholina come Barbora Radvilaitė e Tristano e Isotta. La Compagnia è riconosciuta a livello internazionale per l’alto livello di professionalità e ha raggiunto un enorme successo con la tournée mondiale di Romeo e Giulietta, con Mstislav Rostropovič come direttore d’orchestra, toccando Germania, Francia, Egitto, Grecia, Stati Uniti, Italia, Giappone, Spagna e Regno Unito. La compagnia ha inoltre presentato i suoi titoli del repertorio classico nel Regno
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Unito, Italia, Polonia, Ungheria, Germania. Eccellenze della danza sono giovani artisti come la ballerina e coreografa Andželika Cholina e Gytis Ivanauskas. Andželika Cholina si è laureata al Gitis di Mosca e, insieme a Greta Cholina, ha fondato a Vilnius l’A|CH Dance Theatre, uno dei teatri di danza più grandi, innovativi e di successo in Lituania, sempre in tournée in diversi paesi europei e anche in Cina. La coreografa lavora con ballerini e attori creando spettacoli unici che intrecciano elementi di danza classica, moderna e recitazione: Anna Karenina, Carmen, valorizzati dai costumi del famoso stilista Juozas Statkevičius. L’A|CH Dance Theatre è aperto ai coreografi di talento che qui possono realizzare le loro idee. Per esempio, nel 2008, il coreografo russo Oleg Gluškov ha creato un originale spettacolo di danza ispirato al Don Chisciotte di Cervantes. Gytis Ivanauskas nel 2004 ha completato i suoi studi di perfezionamento all’Accademia di Musica e Teatro della Lituania ottenendo la qualifica di attore-ballerino. Come attore aveva raggiunto il successo interpretando l’adolescente Kurt in Faccia di fuoco di Marius von Mayenburg e Romeo in Romeo e Giulietta diretto in entrambi gli spettacoli da Oskaras Koršunovas. Nel 2005 ha fondato un teatro che porta il suo nome, dove ha esordito con uno spettacolo di danza, Hallmark, riscuotendo un grande successo. La nascita del suo teatro è stata determinata dal desiderio di veicolare un concetto completamente diverso di teatro e danza. Una scelta ispirata dalla collaborazione di giovani artisti disposti a rompere le regole della danza contemporanea. Gli interpreti sono ballerini professionisti, attori teatrali e cinematografici, cantanti, che arricchiscono le performance con la loro unicità. Il repertorio del teatro è sempre aggiornato con nuove e originali forme creative e idee. Infine, altra presenza di straordinaria importanza in Lituania è la coreografa e ballerina Birutė Letukaitė che, nel 1980, ha aperto a Kaunas la scuola di danza moderna Aura, che negli anni si è trasformata nel primo teatro professionale di danza contemporanea in Lituania. Nel 2006 è stata insignita della Croce d’oro del Teatro per la coreografia della performance Zone asettiche o canzoni lituane e, nel 2008, ha ottenuto dal Governo lituano il Premio per la cultura e l’arte. Quest’anno, Birutė Letukaitė ha ricevuto per la seconda volta la Croce d’oro del Teatro per il contributo significativo che lei e il suo teatro apportano costantemente all’arte e alla danza contemporanea lituana. Durante l’estate del 2013 l’Aura Dance Theater ha presentato in Italia lo spettacolo Medeas. ★ Una scena di Barbora Radvilaitė , di Andželika Cholina.
DOSSIER/TEATRO IN LITUANIA
Spirito e materia: la Lituania attraverso lo sguardo degli italiani 1989, pochi mesi prima della Caduta del Muro, il pubblico italiano scopre Nekrošius. Un quindicennio dopo conoscerà la vocazione internazionale di Koršunovas. di Roberto Canziani
È
grazie a due registi teatrali che l’immagine della Lituania è apparsa più netta agli italiani, di solito poco portati per la geografia. Se la collocazione del paese baltico resta un po’ indefinita nella nostre mappe culturali, almeno i nomi di Eimuntas Nekrošius e Oskaras Koršunovas segnano un punto fermo. Identica provenienza, ma diverse generazioni (del 1952 il primo, del 1969 il secondo). Diversi soprattutto gli orizzonti teatrali. Nekrošius legato con profonde radici al proprio paese. Europeo per vocazione l’altro. Veloce nell’assorbire gli stimoli di una drammaturgia che, a partire dal testo con cui si è affermato (il clamoroso Shopping and Fucking di Ravenhill, nel ’99), Koršunovas esplora volentieri l’arco della contemporaneità (Marius von Mayenburg, Jon Fosse, Sarah Kane) e quando gli capita sottomano Shakespeare, lo preferisce ristrutturare (Montecchi e Capuleti sono bande di pizzaioli rivali in Romeo e Giulietta, mentre La tempesta rivive dentro un appartamentino di dissidenti lituani, in Miranda visto quest’anno a Lucca, mentre Pontedera aveva ospitato I bassifondi). Altro era invece l’89, l’anno in cui il pubblico italiano, la sua parte più curiosa almeno, sentì soffiare per la prima volta il vento del teatro lituano. L’Europa cambiava pelle, confini, regimi. E tra gli ospiti “sovietici” (così si intitolava la sezione) che Parma Teatro Festival invitava in Emilia, compariva per la prima volta il nome di Nekrošius, alla guida dello Jaunimo Teatras, il Teatro della Gioventù di Vilnius. Il 26 aprile la compagnia avrebbe presentato Pirosmani Pirosmani, poi Zio Vanja, per chiudere la breve tournée a Torino, alla Festa Internazionale del Teatro & Giovani, con Il Quadrato, un testo dello stesso 38enne regista lituano. Di lui «tutti parlano un gran bene, per la sconcertante modernità del suo lavoro» assicurava la stampa italiana. Pirosmani Pirosmani (sulla vicenda biografica del pittore primitivista georgiano) avrebbe subito mostrato i germi di quella geniale diversità teatrale che riconosciamo oggi al 60enne Nekrošius. Il muro di Berlino doveva ancora cadere (nel novembre ’89). La glasnost’ gorbačëviana cominciava appena a sciogliere il piccolo paese baltico dalla ferrea tutela sovietica (accadrà nel
marzo ’90, e solo nel ’91 l’indipendenza lituana verrà riconosciuta). Eppure lì, a Parma, in palcoscenico, in quell’aprile di trasformazioni, per la fotografia di famiglia – la famiglia di uno zio Vanja che parla lituano – mentre tutti i personaggi in silenzio attendono il lampo dell’apparecchio, ecco il groppo dell’emozione investire la platea quando dalle bocche dei servi accosciati a terra si solleva il Va’ pensiero verdiano, e a lato della scena si srotola la bandiera nazionale lituana. Un brivido: il pensiero di quella patria «sì bella e perduta» che solo un anno dopo i lituani avrebbero ritrovato. Quel lampo e quel groppo emotivo furono il biglietto da visita per la rapidissima ascesa che Nekrošius compirà sulle scene italiane. Nel ’95 Tre sorelle (alle Vie dei Festival a Roma e a Parma), quindi, in fulminante sequenza, la trilogia shakespeariana – Hamletas, Makbetas e Otelas – dove la diversità lituana si manifesta come eccellenza registica. Paese cattolico (dopo che pogrom e shoah avevano azzerato la componente ebraica), a fronte dell’ostinato laicismo sovietico, la Lituania assicura al suo regista più noto una doppia matrice che allo sguardo dell’Occidente suona inedita, conturbante, magica. Abituati alla regia critica
europea, al regista dramaturg, che contemporaneizza e politicizza, gli spettatori dell’Ovest gridarono al miracolo scoprendo che principi ancestrali come materia e spirito trovano unità anche dentro i più spremuti capolavori shakespeariani. Il ghiaccio e la ruggine di Amleto. Le ramaglie che Macbeth si carica sulle spalle. L’acqua che investe e dilava le vele e i cordami in Otello. Tagliati sempre dalla lama di un ostinato motivo musicale. È la Forza del Destino che spinge Amleto renitente all’azione. È l’amato e risorgimentale Giuseppe Verdi, che tornerà più volte, quando, inevitabilmente, Nekrošius affronterà il melodramma. Sta scritto da qualche parte che quello lituano è il teatro di un paese che cresce «tra i campi di patate». Anche se Nekrošius, quasi offeso, rifiuta quella matrice contadina, noi la sentiamo invece propria all’anima baltica che congiunge principi elementari, profondamente naturali, originari, minerali: lo zinco dei secchi, per esempio, e il vento che muove le girandole del suo Gabbiano, nato miracolosamente nel 1999, a Udine, in una sessione dell’École des Maîtres. ★ Kostas Smoriginas in Makbetas, regia di Nekrošius.
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TEATRO RAGAZZI
Giocattoli animati e pulcini in carne e ossa le storie d’autunno del teatro ragazzi TeatrOltre a Lamezia Terme, Segni d’Infanzia a Mantova e Zona Franca a Parma offrono quest’anno molte novità: dalle “magare” di Art Patachipi alle storie di carta di Riserva Canini e dal soldatino di piombo di Malorni e Pallara agli uccelli migratori di Luigi d’Elia. di Mario Bianchi
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a stagione delle vetrine e dei festival di teatro ragazzi, dopo la breve parentesi dei mesi vacanzieri per eccellenza, è iniziata in Calabria, a Lamezia Terme, dove dal 10 al 12 ottobre si è svolta la quarta edizione di TeatrOltre. La manifestazione, con la direzione artistica di Teatrop, si è dimostrata, ancora una volta, importante per far risaltare le realtà teatrali della Calabria, che per molti anni non hanno avuto grandi occasioni di visibilità, soprattutto nel campo del teatro dedicato ai ragazzi. Un’edizione buona, quella di quest’anno, che ha posto in evidenza compagnie e artisti nuovi. Achille Veltri, per esempio, dell’Associazione Art Patachipi in Le Magherie di Giustina, su testo suo e di Giulia Secreti, ha proposto una creazione degna di nota, rendendo omaggio alla “magara”, antica mitica figura, tra maga e fattucchiera, che ancora abita alcuni paesi
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della Calabria. È lo stesso Veltri che, tra intrugli magici e pozioni, la impersona con giusta adesione, immettendo nel personaggio una carica ironica mai parodistica, piena piuttosto di affettuosa condivisione per un mondo che purtroppo sta scomparendo. Il teatro dei burattini è stato ben rappresentato da Zampalesta u cane tempesta, del giovane burattinaio calabrese Angelo Gallo del Teatro della Maruca, diretto per l’occasione dal maestro napoletano Gaspare Nasuto. Il dialetto calabrese usato con sobrietà e alcuni stilemi delle guarattelle si mescolano per narrare, attraverso un ritmo parossistico, le tragicomiche avventure del terribile cane Zampalesta. Ne fanno le spese la povera gallina Serafina, la dispensa del cuoco Mariuzzu, gli averi del contadino Rusaru e persino l’incolpevole burattinaio costretto a uscire dalla baracca. Il Festival ha proposto anche spettacoli provenienti da
TEATRO RAGAZZI
altre regioni, tra loro in grande evidenza Grimm. I guardiani del pozzo di Riserva Canini. Marco Ferro e Valeria Sacco narrano alcune misconosciute fiabe dei Grimm attraverso figure di carta che si compongono e scompongono uscendo da un pozzo, in un gioco di rimandi dove tutte le tecniche del teatro di figura vengono utilizzate in modo veramente preciso e di grande suggestione, confermando la qualità di un giovane gruppo che si sta qualificando come uno dei più innovativi nel campo del teatro di figura italiano. Toy stories In Segni d’infanzia e Zona Franca rispettivamente a Mantova e a Parma abbiamo visto due spettacoli degni di nota Il tenace soldatino di piombo e Aspettando il vento. Il tenace soldatino di piombo, di e con Valerio Malorni e Fabrizio Pallara, coprodotto dal Centro Teatrale degli Accettella e dal Teatro delle Apparizioni, in una sinergia di lavoro che dovrebbe fare scuola, è una curiosa creazione che vive tra cinema e teatro utilizzando in modo creativo entrambi i linguaggi. La celebre fiaba di Andersen viene infatti reinterpretata in un reale gioco di ruolo in cui gli oggetti posti sul palcoscenico, che ricostruisce la celebre stanza protagonista della vicenda, prendono vita «parlando, combattendo, danzando, protagonisti di un film teatrale proiettato su un grande schermo in diretta». La videocamera dei due attori animatori si muove nella stanza restituendo, in un gioco continuo di rimandi, che ne fanno una sorta di viaggio di formazione, la celebre storia del rapporto di amore tra un soldatino di piombo con una gamba sola e una bambola-ballerina, posta in alto, troppo lontana da lui. Malorni e Pallara si muovono a loro agio nella complessità dell’esperimento dove il teatro si compie fattivamente nell’alternanza creativa dei due linguaggi confermando la possibilità di offrire ai ragazzi nuovi modi di approccio al teatro in sintonia con il loro mondo dove le immagini sono ben presenti. Dopo Storia d’amore e di alberi tratto da L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono e La grande foresta, a Parma è stato presentato Aspettando il vento il terzo spettacolo del narratore pugliese Luigi d’Elia, scritto con il fido Francesco Niccolini, che ha come protagonisti gli uccelli, la loro vita, la loro migrazione, i venti che accompagnano il loro destino, visti con gli occhi di tre bambini molto particolari, Arturo, il protagonista e i suoi due amici, Caterina e Andrea. La narrazione di d’Elia entra direttamente nel cuore dell’infanzia per regalarci la definizione di un
mondo dove l’incanto regna sovrano. Nella descrizione di una natura arcana, tutta da scoprire, Andrea, il bambino uccello, che a un certo punto, forse, migrerà con i suoi amici alati con cui vive quasi in simbiosi, è il tramite tra il protagonista e il mistero di un rito miracoloso che ogni anno si compie inevitabilmente. La minuziosa descrizione del mondo ornitologico e delle sue abitudini, operata dal testo, non frena in nessun modo la vena poetica di questo nuovo spettacolo di d’Elia-Niccolini, intriso di pathos e di venata ironia, che si posiziona ancora una volta tra le creazioni più originali del teatro ragazzi italiano. ★ In apertura, Il tenace soldatino di piombo, di e con Valerio Malorni e Fabrizio Pallara (foto: Patrizia Chiatti).
A Mantova, anche il teatro ragazzi ha buone pratiche da raccontare Il 1 novembre si sono svolte a Mantova, nell’ambito del Festival Segni d’Infanzia, “Le buone pratiche del TeatroRagazzi”, ciclo di incontri curati dall’associazione culturale Ateatro che, per la prima volta, ha riunito il mondo del teatro ragazzi per uno scambio di esperienze. Parecchie pratiche virtuose illustrate, a cominciare da quelle di carattere gestionale, così importanti per le imprese culturali in questo momento di crisi. E così il caso dell’accorpamento avviato da Stilema, attraverso Uno Teatro, con Non solo Teatro e Dottor Bostik; la collaborazione di Scarlattine con Principio Attivo e Factory Compagnia Transadriatica, che hanno condiviso una yurta al Fringe Festival di Edimburgo dove hanno mostrato gli spettacoli delle tre Compagnie; o ancora l’esperienza raccontata da Vania Pucci (Giallo Mare Minimal) del progetto di innovazione politico-culturale avviato insieme a Fondazione Sipario Toscana in questa regione. Sono stati proposti poi Festival e rassegne particolari, come “Visioni di futuro, visioni di teatro - Festival di teatro e cultura per la primissima infanzia”, de La Baracca-Testoni a Bologna; TeatroOltre di Teatrop a Lamezia Terme, in una terra difficile come la Calabria. Per parlare dello stretto rapporto che deve esserci con la scuola, Silvia Colle e Lucia Vinzi dell’Ert - l’Ente Regionale Teatrale del Friuli Venezia Giulia - hanno illustrato la loro iniziativa di Udine “Fare teatro a scuola”, mentre Paolo Piano, del Teatro del Piccione, ha sorpreso gli astanti presentando la realtà della scuola “Nicolò Garaventa”, nel centro storico di Genova, dove il suo gruppo ha un fattivo interscambio con gli studenti. In molte circostanze il Teatro ragazzi è ancora capace di operare collegamenti virtuosi: il Teatro dell’Orsa unisce, in progetti specifici, ragazzi e anziani, mentre Pandemonium ha mescolato ragazzi provenienti da territori e nazioni diversi in una produzione sul personaggio di Giufà. E ancora, sono state proposte nuove visioni, da quella del Teatro delle Briciole-Fondazione Solares con l’iniziativa “Nuovi Sguardi per un pubblico giovane”, che propone coproduzioni a gruppi di ricerca, a quella illustrata da Valeria Frabetti che coinvolge una rete di teatri e operatori bolognesi per creare un Festival sulle identità glbt, Gender Bender. Infine, in una giornata piena di interventi e suggestioni, in collaborazione con l’Assitej, sono stati presentati anche due progetti internazionali: “La Festa annuale del Teatro dei bambini” in Danimarca, organizzata dal Teatercentrum e l’associazione Scene(s) d’Enfance et d’Ailleurs che raggruppa tutte le componenti del teatro jeune public francese per promuoverlo sia a livello istituzionale e di ricerca teorica sia nel territorio. Uno strumento, quest’ultimo, che Giovanna Palmieri, nuova presidente di Assitej Italia, ha dichiarato di voler introdurre anche nel nostro paese. Mario Bianchi
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NATI IERI
Tra Spiderman e Foucault i dispositivi teatrali di CollettivO CineticO I protagonisti della giovane scena/45 - Unire la riflessione teorica all’ironia e al gioco, il pensiero matematico al pop e alla cultura di massa, la grafica alla scrittura coreografica. La compagnia ferrarese gioca con la definizione stessa di spettacolo teatrale per imporre la propria originalità. di Matteo Antonaci
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igore formale e imprevedibilità, regolamentazione ed eccentrica tensione alla disobbedienza. Si potrebbe riassumere così il lavoro di CollettivO CineticO, compagnia ferrarese nata nel 2007 e guidata dalla coreografa e danzatrice Francesca Pennini e dal drammaturgo Angelo Pedroni. Un insieme di dicotomie che sfiorano la funzionalità dell’ossimoro, poli negativi e positivi che, sull’orlo della repulsione, si attraggono confermando le leggi scientifiche di un manipolo di nerd salvatosi dall’hipsterismo collettivo. Ma non troppo. Mai troppo se stare sulla scena significa scervellarsi sui dispositivi e sulle regole che la generano senza mai perdere di vista il mondo e lo spettacolo che si dà nel mondo: lo schiantarsi rumoroso e coltissimo di immaginari teatrali, coreografici, musicali, che ha il Crash! dei fumettoni americani e le linee schizofreniche dei manga giapponesi, per plasmare un corpo, un tempo, uno spazio. Ricerca
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del computazionale, dell’informatico, della perfezione algida della macchina e santificazione della sporcizia, dello scarto, del trash. Sulla giacca Francesca Pennini porta, come fosse una spilla, una Galatina ammuffita. Sta lì da mesi, forse anni. È un gioco portato avanti con gli altri membri della compagnia. Un giorno, probabilmente, qualcuno la mangerà. Ma non è questo il punto. Il fatto è che sta lì, come testimonianza di qualcosa che affonda le sue radici altrove: nella formulazione delle regole del gioco, nella sua messa in atto, nella serie di reazioni che quelle regole hanno prodotto. CollettivO CineticO «indaga lo statuto ontologico dell’evento performativo discutendone meccanismi e regolamentazioni». Lo spettacolo sta alle regole che lo hanno strutturato esattamente come la Galatina sta alle regole del gioco che lo hanno spillato sulla giacca della fondatrice della compagnia. È un risultato, la testimonianza di qualcosa che sta fuori la scena.
Da Second Life a Fluxus Sin dal primo spettacolo Eye Was Ear, primo frammento di C/O architettura coreografica decennale articolata in performance sparse in spazi e tempi “altri”, nato da una ricerca sulla piattaforma virtuale Second Life, CollettivO CineticO non pensa la propria attività artistica in contrapposizione ai percorsi teatrali e coreografici storicizzati o più o meno recenti, non cerca una forma provocatoria capace di affermarsi con conflittualità rispetto alla funzionalità del linguaggio teatrale. Piuttosto si immerge all’interno di tale funzionalità, sta dentro definizioni e regole per spostarne il senso con leggerezza, esattamente come l’insignificante spostamento di un numero all’interno di un’equazione è in grado di modificarne interamente il risultato. Questo è il filo rosso che attraversa il percorso artistico della compagnia i cui risultati spettacolari non si pongono necessariamente in un processo di evoluzione, ma
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sono spesso distanti l’uno dall’altro declinandosi tanto nella danza quanto nel teatro, nella performance quanto nella grafica, nell’invenzione di giochi da tavolo quanto nell’attività di formazione che CollettivO CineticO svolge regolarmente con gli adolescenti. L’impossibilità di incasellamento attraverso la canonicità dei generi artistici ridisegna ed evidenzia i termini utilizzati dal gruppo per autodefinirsi: CollettivO CineticO è un progetto liquido la cui costante è da rintracciarsi nell’identità visiva del gruppo, nell’utilizzo sfrontato di parentesi grasse, tonde, quadrate, di asterischi; nell’impostazione grafica dell’atto performativo, nell’attività ludica (con riferimento all’esperienza Fluxus) che sempre lo caratterizza. «Il collettivo – spiega Francesca Pennini – è nato con la necessità di formalizzare un lavoro coreografico che avevo fatto come autrice insieme a un gruppo di persone. A livello formale era necessario essere una struttura giuridica. Non è nato, dunque, come gruppo di persone che vogliono formalizzarsi in quanto collettivo. Si trattava dell’esigenza di un grado zero di definizione, avevamo bisogno di far capire che l’autorialità era diffusa e non custodita in un singolo, che si trattava di un lavoro di équipe diversificato nelle competenze e basato sull’incontro con un focus incentrato sul movimento, da cui la scelta del termine “cinetico”». Ma CineticO indica allo stesso tempo una mobilità continua dei membri che prendono parte al progetto. «La scelta dei componenti del collettivo deriva da un’analisi a posteriori piuttosto che da una scelta iniziale. Partiamo sempre dall’esigenza di ciascun lavoro. Così chiunque entri a far parte dei nostri spettacoli diviene membro integrante di CollettivO CineticO. Ciò non significa che tutti saranno costantemente presenti. Si tratta più di un senso di appartenenza incentrato su una continua mobilità interna». John Cage, Amleto e gli origami In ::D_monoscritture retiniche sull’oscenità dei denti la scena teatrale diviene il luogo in cui testare l’attività fruitiva dello spettatore giocando sui diversi gradi di percettibilità di un corpo che si offre in una serie di pose la cui durata dipende dall’attenzione offerta dal pubblico, cronometrata da Andrea Amaducci con tanto di campanello a scandire l’inizio e la fine di ogni azione. Questo stesso strumento è parte integrante di <Age>, penultimo spettacolo della compagnia,
nato in stretto contatto con un gruppo selezionato di adolescenti e vincitore del bando Ripensando Cage 2012. Ancora l’analisi del ruolo dello spettatore e il concetto di indeterminazione sono i perni sui quali si muove questo spettacolo strutturato come un atlante in cui, capitolo per capitolo, gli adolescenti sono chiamati a esporsi sul palco, rispondendo in diretta a una serie di quesiti legati alla definizione di sé per caratteristiche, opinioni, gusti ed esperienze. La condivisione di una serie di regole e comportamenti, che caratterizza questo lavoro come reinvenzione e riattualizzazione della aleatorietà caegiana, è prima caratteristica di Cinetico 4.4: un gioco da tavolo, utilizzato per la costruzione di una performance. Autore, spettatore, performer, location, oggetti, tema e spiegatore sono selezionati nella partecipazione all’avvenimento ludico attraverso comportamenti strategici e casualità. Sulla (s)piegazione si concentra *Pleck-, spettacolo nato attraverso il dispositivo Cinetico 4.4, tutto giocato sull’idea di piega temporale e spaziale e sulla possibilità di offrire una effettiva enucleazione scientifica dell’avvenimento performativo tra body fluo, origami, aree barocche e videogames. Amleto, ultima produzione della compagnia, mette in scena un concorso reale per la selezione del performer a cui verrà affidato il ruolo di Amleto con successivo avvio e proseguimento dello spettacolo. L’atto ludico diviene essenza del testo drammaturgico nell’oscillare continuo tra teatralità, meta-teatralità e reale. «Il gusto per i dispositivi deriva dall’interrogarsi sulla posizione dell’autore, sul come vengano applicate delle scelte, e sulla
possibilità di scegliere», spiega Francesca Pennini. Ma, come si accennava, non si tratta di una riflessione metalinguistica. Come spiega Angelo Pedroni: «Questi dispositivi adempiono esclusivamente alla loro funzione. Ma vogliamo che lo spettacolo sia autosufficiente». All’interno del dispositivo si inserisce, infine, una forte attenzione all’attività dello spettatore, qui inteso come uno dei parametri coinvolti, continuamente stimolato e posto in una situazione di reattività. «Studiamo delle strategie ad hoc per generare dei fenomeni non controllati ma vagamente prevedibili. Un set di variabili in cui lo spettatore si può posizionare. E in queste variabili avrà poi libertà assoluta di essere se stesso». ★ In apertura, una scena di XD vignette sfuse per uso topico, dal progetto C/O (foto: Marco Davolio); in questa pagina, un’immagine da <Age> e una da *Pleck- (foto: Marco Davolio).
CollettivO CineticO nasce nel 2007. Caratterizzato per la flessibilità e mobilità dei suoi componenti il gruppo è guidato da Francesca Pennini e Angelo Pedroni. Una serie di competenze interne e limitrofe alle arti sceniche segna il lavoro della compagnia. Francesca Pennini esordisce come ginnasta agonista dopo una formazione che va dal Butoh giapponese all’apnea, dalle arti marziali alla disco dance-agonistica. Ha danzato nelle produzioni di Sasha Waltz & Guest. Angelo Pedroni si forma come sportivo, studia pianoforte e discipline teatrali. Lavora come tecnico teatrale e studia matematica presso l’Università di Ferrara e Logica presso la facoltà di Filosofia di Firenze, si forma come operatore Shiatsu. Dal 2010 è drammaturgo e performer per CollettivO CineticO.
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Patrice Chéreau, genio vulcanico e maestro di stile Addio al regista francese che, con le sue sorprendenti regie di Shakespeare, Marivaux e Koltés, ma anche delle opere di Berg e Wagner, ha segnato quarant’anni di teatro europeo. di Domenico Rigotti
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ra l’estate del 1988 e, almeno a mia memoria, un Amleto così spettacolare, così freudiano, così violento e contemporaneo, con le musiche di Prince, non s’era mai visto. Tutto estremo nella grande Corte del Palazzo dei Papi di Avignone con il pubblico che saliva, scavalcandosi, le alte gradinate alla ricerca di un posto difficile da trovare. Estremo e avvincente. Grande coup de théâtre, lo spettro del padre su un impetuoso e nero cavallo che si sarebbe detto fuggito dalla scuderia di Bartabas, quello di Zingaro, su quell’enorme palcoscenico approntato da Richard Peduzzi, colui con il quale Patrice Chéreau avrebbe stretto sodalizio fecondo e inossidabile (la scena non poté ripetersi quando lo spettacolo, in parte prosciugato rispetto alle sei ore provenzali, apparve al Lirico di Milano). Un palcoscenico che si trasformava in cimitero, meglio in museo dei deliri: botole, teschi, duelli mortali, coppe avvelenate. Carico di dubbi nevrotici e con la foga psicopatica di un attore del calibro di Gérard Desarthe, davvero questo Amleto fu il capolavoro del regista francese ucciso da un
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cancro ai polmoni ancora nel pieno della sua creatività. (Nei traguardi, c’era prossimamente uno scespiriano Come vi piace per l’Odéon parigino). Difficile la graduatoria nell’infinito curriculum del vorace regista. Anche nella lirica espresse tutta la sua originalità: lo prova un maliardo e wagneriano Tristano e Isotta visto alla Scala nel 2007. Senza dubbio, l’ex enfant terrible del teatro francese, colui che portò nella prosa di fine Novecento una diversa concezione (tutto molto trasgressivo ma anche coerente), diede uno dei suoi migliori risultati. Enfant terrible (Bernard Dort, il fine saggista e critico, fu tra i primi a segnalarlo dopo averne visto le prove: «di una vitalità teatrale inesauribile») perché la sua parabola teatrale iniziò assai presto. Allievo del famoso liceo parigino Louis le Grand si unisce subito alla compagnia formata da alcuni studenti e ne diventa direttore. Non ancora ventenne, si rivela con L’intervention di Victor Hugo (ma c’è anche Fuente Ovejuna di Lope de Vega). È l’apprendistato registico che culmina nel 1966 quando diventa direttore del Théâtre de Sartrouville (città dormitorio ai margini della capitale francese) e qui mette in scena I soldati di Lenz, lavoro che lo fa conoscere a un pubblico internazionale, e, tra gli altri, un Don Giovanni di Molière in cui il protagonista incarna la crisi dell’intellettuale moderno. Nel 1969 esce dai confini francesi per creare, al Festival di Spoleto, una Italiana in Algeri di Rossini che fa rumore. Scalpore anche per un successivo, e questo a Marsiglia, Riccardo II di Shakespeare dove il fragile sovrano è presentato infantile e omosessuale, incapace di rispettare le regole di una società che non faticherà a liberarsi di lui. Sempre in quell’anno, 1970 (è l’epoca in cui Strehler ha lasciato il trono del Piccolo Teatro per dissapori), Paolo Grassi lo chiama a Milano dove dirigerà tre spettacoli che partono da uno sconcertante Splendore e morte di Joaquin Murieta di Neruda (qui, se pur confusamente, è resa esplicita la sua idea di teatro politico come travestimento e derisione), proseguono col gelo brechtiano di Toller di Tankred Dorst, fino alla «stupefacente» (è l’aggettivo usato dalla critica) Lulu di Wedekind. Spettacolo dove, con l’autorità di uno Strehler, riesce a riunire attori del calibro di Alida Valli, Valentina Cortese, Renzo Ricci e Tino Carraro. (En passant da ricordare come l’ultima sua apparizione milanese avvenne nell’aprile del 2011 quando firmò un non troppo convincente Rêve d’automne di Jon Fosse). Sempre in quel triennio dirige, sempre per Spoleto, La finta serva (1971), suo secondo Marivaux, autore da lui apprezzatissimo fino a fare successivamente de La dispute (Parigi, 1973) uno dei suoi capolavori registici dicendo sull’autore cose definitive. Un successone ri-
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spetto a Le massacre de Paris di Marlowe dell’anno precedente, tutto giocato su un palcoscenico invaso dall’acqua. Altri autori classici, compreso Ibsen (Peer Gynt), seguiranno quando diventerà direttore artistico del Théâtre National Populaire di Villeurbanne (dal 1972 al 1981). Sono gli anni in cui metterà in scena per Bayreuth anche una grandiosa e discussa Tetralogia wagneriana diretta da Pierre Boulez, musicista con il quale, nel 1979, realizza la prima esecuzione mondiale moderna della Lulu di Berg, mentre troverà complice Daniel Barenboim per Wozzek sempre di Berg. Sempre in prima linea della vita culturale francese dirigerà anche (1982-1990) il Théâtre des Amandiers-Nanterre dove, fra Cechov, Shakespeare e Marivaux, mette in scena la maggior parte dei lavori dell’amatissimo e prematuramente scomparso Bernard-Marie Koltès, sancendo definitivamente l’originalità di questo drammaturgo il cui teatro parla di emarginati, di deracinè, di disperati alla deriva la cui ribellione passa attraverso una lingua non facilmente addomesticabile. In Dans la solitude des champs de coton diventerà per l’amico anche attore. Più frequenti invece per l’inquieto Chéreau sono le apparizioni nel cinema (anche nel Danton di Wajda), di cui fu appassionato. Il suo primo film Un’orchidea rosso sangue (1974) cui seguirà il più interessante Un homme blessé e il pomposo film in costume La reine Margot. Pellicola che è una po’ un’eccezione rispetto ai successivi lavori tra i quali spiccano, Intimacy (la Berlinale gli consegna l’Orso d’oro per il potente sondaggio emozionale), il poetico Son frère (per esso l’Orso d’argento), Gabrielle e Persecution. Tutti film nei quali mette soprattutto l’accento su uno degli aspetti più caratterizzanti del suo operare: la fascinazione/repulsione per la carne, ostentata nei suoi trionfi e nelle sue miserie, nell’estasi dell’amore e nel disfacimento della malattia, attraverso i corpi sempre veri di attori famosissimi, da Isabelle Huppert a Charlotte Rampling. Un regista vulcanico, un talento invidiabile, un maestro di stile, l’ex enfant terrible Patrice Chéreau il cui vuoto sicuramente non risulta facile da colmare. ★
due ragazze indistinguibili l’una dall’altra (ricordo un’intervista a Firenze a metà anni ’90 in cui, in camerino, le misi ferme e sedute, ripetendo e memorizzando «tu sei Silvia, tu sei Luisa»…). E, in effetti, molti dei loro migliori spettacoli giocarono, dall’inizio fino alla fine della carriera – ora prematuramente interrotta – di Luisa, sulla loro somiglianza, sull’essere l’una il “doppio” o lo specchio dell’altra; il che si sommava alla sottile ambiguità del loro aspetto insieme femminile e androgino, di donne comunque affascinanti anche nella loro singolarità. Da A. da Agatha, di Thierry Salmon da Marguerite Duras, lo spettacolo della vita (merito innegabile dell’allora Centro di Pontedera fu quello di scoprire in Italia quel geniale regista morto giovane in un incidente) fino al loro ultimo lavoro insieme, Due lupi, da Agota Kristof, di Virgilio Sieni, tra danza, teatro e teatrodanza, in cui Silvia e Luisa si esprimevano solo con la loro presenza e col corpo, esposto – coraggiosamente – anche nel decadimento (relativo) dovuto agli anni, nascondendo al pubblico il loro viso. E ancora, lo stesso valse per il non troppo compiuto Aspettando Godot “al femminile”, di Roberto Bacci (a lungo compagno di vita di Luisa), in cui le Pasello diventavano insolitamente gli immortali vagabondi di Samuel Beckett. Come la sorella, Luisa è stata attrice e intellettuale di qualità, personaggio dal carattere nervoso ed enigmatico, inquieto e inquietante. È stata anche regista, e, fuori dalla “famiglia” artistica di Pontedera, ha lavorato con Santagata e Morganti e nello Zio Vanja di Tiezzi, in cui era una Elena, tanto per cambiare, carismatica e affascinante. Francesco Tei.
Addio a Luisa Pasello, l’anima della Pontedera anni ’80 L’accento e la provenienza dalla non lontana Ferrara contribuivano a dare a lei e alla sorella gemella Silvia – nella Toscana teatrale in cui scelsero entrambe di vivere e lavorare, presso il Centro Studi e Ricerche Teatrali di Pontedera – un’aria “straniera”, particolare, che si aggiungeva a quel che di misterioso e sfuggente che presentavano anche ai nostri occhi di “addetti ai lavori” queste
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Se ne va Piero Mazzarella il volto e la voce del Nost Milan Era lo spirito della Milano più autentica. Era la maschera beffarda e furfantesca del Tecoppa, inventato da Ferravilla e che lui schizzava come nessun altro: il cappello a cilindro straziato, il mozzicone di sigaro smangiucchiato, il viso colorato. Piero Mazzarella, milanese Doc anche se nato a Vercelli nel 1928, era il campione di quell’artigianato teatrale d’altri tempi che il nuovo teatro ha completamente spazzato via. La sua una sapienza antica. E quanta ne possedesse lo si vedeva ogni volta che lo si incontrava su un palcoscenico. Nella “sua” Milano non vi fu ribalta che non lo ebbe ospite. Il San Babila, il Parenti, il Ciak, il Teatrino della Quattordicesima, il San Calimero, il Gerolamo. Erano allora gli anni Sessanta ed erano gli “anni d’oro” del teatro dialettale (si recitavano i classici meneghini dell’Ottocento, Carlo Dossi, Camillo Cima, Cletto Arrighi, Luigi Illica, anche Carlo Porta – e strepitoso fu Mazzarella ne El marchionn di gamb avert – ma anche i contemporanei, Severino Pagani, Luigi Greppi, Carlo Maria Pensa). Riusciva a trasfondere la sua sapienza anche in lavori di poco o nullo valore ma che la sua mimica straordinaria, la sua voce roca che sapeva di brume riuscivano a portare al successo. Si spese per il teatro con una passione che non aveva l’eguale. Amatissimo da un pubblico che fino all’ultimo gli è rimasto fedele e però stimato anche da grandi registi. E in primis da Giorgio Strehler che lo volle tra i protagonisti del celeberrimo El nost Milan di Bertolazzi. Al personaggio del Peppon a dare una dignità e una malinconia semplice e patetica. Molti anni dopo, sempre nello storico teatro di via Rovello, partecipò a Temporale di Strindberg e regalò un cameo. Ma a valorizzare questo schivo, burbero ma straordinario attore, fu anche Andrée Ruth Shammah chiamandolo al Franco Parenti, che fu l’ultima sua casa, come protagonista di La Tempesta di Emilio Tadini e per un singolare Re Lear. Anche, e fu una delle sue ultime grandi e memorabili sortite, per La Leggenda del Santo bevitore
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di Joseph Roth. Resterà il ricordo di quel suo volto bonario, di quella sua voce singolare, di quella sua mimica che rendeva straordinari anche i personaggi che non lo erano. E lo rimpiangeremo perché un teatro come lo faceva lui non esisterà più. Domenico Rigotti
Andrea Brambilla: con la brioche in paradiso «Ce l’ho qui la brioche» è un tormentone ben conosciuto anche in cielo, nei Campi un po’ Lisi dei Comici passati a miglior (?) scrittura. Andrea Cipriano Brambilla da Varese non ha mai portato in scena Beckett. Ma il suo senso dell’assurdo aveva più di un punto di contatto con Vladimiro, tanto che l’Andy e Norman da Neil Simon in coppia con l’elegante Estragone stregonesco di Nino Formicola ha scalato la top hit dello straniamento stralunato. È stato negli studi televisivi di Italia 1 a Cologno che ho conosciuto Zuzzurro e Gaspare, lavorando con loro alla sit com della Strana Coppia, diventando estimatore del primo e amico del secondo. Già, perché Zuzzurro aveva spesso la luna di traverso, mentre Nino sempre sdrammatizza e mondanizza. Col senno di poi, tristemente contestuale, si potrebbe ravvisare nella spigolosità del Brambilla un’oscura consapevolezza delle trappole disseminate sul suo cammino: un tremendo incidente d’auto, quasi un tenebroso contrappasso del Drive in, a cui sopravvivere per finire nell’ottobre del 2013 in pasto al Male che non serve più nominare. Piaccia ricordarlo per la sua comunicativa e perizia attorale. Mi piace ricordarmi di lui a cena dopo teatro, in compagnia di amici comuni, divertenti come le repliche più divertenti della Cena dei Cretini, altro test-successo del repertorio del “commissario”. Mi piacerebbe che in omaggio alla sua provenienza dal Derby di via Monterosa si leggesse l’evocazione del leggendario locale fatta dal Faletti nel suo romanzo più impegnativo, Appunti di un venditore di donne (Baldini e Castoldi, 2010). Mi auguro che abbiano parte-
cipato numerose alle sue esequie (io non vado ai funerali) le ragazze del Drive in. Da parte mia, lo vedo cavalcare una stella nel cielo varesotto, indicando la tasca dell’impermeabile alato dove conserva l’indimenticabile brioche. E verso su questo coccodrillo due lacrime da coccodrillo: le più sincere. Fabrizio Sebastian Caleffi
Piero Sammataro, una vita in scena tra Pirandello e Gogol’ Aveva festeggiato lo scorso anno cinquant’anni di carriera, a Catania, la città che aveva scelto dal 2002 come casa anche per il suo Teatro del Canovaccio. Diplomatosi nel 1963 all’Accademia Silvio d’Amico di Roma, debuttò nel ’65 ne I sei personaggi in cerca d’autore diretto da De Lullo, nel ruolo dell’attor giovane e in seguito incrociò il proprio percorso artistico con i maggiori maestri del secondo Novecento, presso lo Stabile di Roma (La bottega del caffè di Goldoni, diretta da Patroni Griffi, nel 1966 e Dal tuo al mio di Giovanni Verga, con la regia di Paolo Giuranna, nel ’67) per approdare nei primi anni Settanta al Piccolo di Milano dove resterà fino al ’91, prendendo parte ad alcune delle produzioni del periodo strehleriano (Barbablù diretto da Lamberto Puggelli, nel ’73, Il giardino dei ciliegi di Strehler nel ’74, La vita è sogno e Il precettore di Lenz, regia di Enrico d’Amato, nel 1980 e nell’83, Il Conte di Carmagnola, nell’89, sempre con Puggelli, la ibseniana Donna del mare diretta da Brockhaus nel ’91). Collaborò anche con lo Stabile di Catania e l’Olimpico di Vicenza, dove fu diretto da Puggelli, Guglielmo Ferro e Maurizio Scaparro. Tornato all’Accademia come insegnante, nel ’96, si trasferì in seguito definitivamente a Catania, dove, presso il Teatro del Canovaccio, da lui diretto, istituì la sua Bottega dei Maestri Artigiani, dedicata alla formazione dei giovani attori, misurandosi anche con la regia come in Salvo ognuno e Diario di un pazzo da Gogol’, nel 2005. Fra i suoi ultimi lavori, come attore e regista, I vecchi e i giovani, tratto dall’amato Pirandello, messo in scena durante la scorsa stagione. Ilaria Angelone
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critiche Premio Scenario: attenti a quei quattro
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i avevamo lasciati a Santarcangelo, lo scorso luglio, con gli studi da venti minuti con cui avevano vinto o erano stati segnalati al Premio Scenario 2013, il più importante osservatorio sulle nuove generazioni teatrali. Lo scorso dicembre, al Teatro Franco Parenti di Milano, i magnifici quattro di Generazione Scenario 2013 hanno presentato i rispettivi lavori in forma “compiuta”. Come premessa generale, essendo stata presente alla finale santarcangiolese, direi che i pronostici nel complesso sono stati rispettati. Più nel bene che nel male. I veneti, nonché fratelli, Diego e Marta Dalla Via, vincitori del Premio Scenario 2013, hanno sfoderato una bellissima scrittura scenica: efficace, sferzante, piena di arguti giochi di parole mai fine a se stessi, musicale e piena di ritmo in quel loro tagliente italiano appena “sporcato” dal dialetto. In Mio padre era come un figlio per me, spietato ritratto del miracolo del Nord-Est che si rivela la copia sbiadi ta del sogno americano, hanno gius tamen te approfondito soprattutto il tratteggio dei quattro personaggi, due in scena e due evocati, che fanno da campione per una riflessione più ampia sulla crisi e sulla precarietà economica e psicologica delle giovani generazioni. I due diabolici fratelli che, divorando boeri, architettavano l’omicidio dei genitori, si ritrovano loro malgrado orfani perché il papà, che aveva fatto i soldi con una fabbrica di pavimenti in legno ora in bancarotta, si è gettato sotto un treno, e la mamma, ex reginetta di bellezza votata al silicone, è sparita per avvelenarsi in santa pace. Tra euforia, depressione e ansia da prestazione verso un futuro incerto, i due, per ricominciare, partono da una sorta di “fune-
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rale didattico” del passato, dei genitori ma anche della loro giovinezza dissipata, in cui, parodiando il Credo, si ripropongono di rinunciare agli status symbol farlocchi e di credere nel valore catartico della crisi, dell’errore e dell’imperfezione. Pessimismo cosmico, ma venato di una bizzarra speranza, che, anche dal punto di vista attorale, colpisce nel segno. Solido e affiatato nelle partiture corali si conferma Collettivo Interno Enki, Premio Scenario per Ustica 2013 con M.E.D.E.A. Big Oil. Un’innegabile qualità che però rischia di trasformarsi in un limite per l’uso eccessivo che ne viene fatto e che mostra con troppa evidenza il debito con alcuni modelli, in primis con il teatro di Emma Dante (mPalermu). È tutto troppo urlato, da ricalibrare tra le parti corali e gli assoli, quasi totalmente nelle mani dell’istrionica leader Terry Paternoster. Ma la rivisitazione della tragedia, dove Medea è una combattiva donna lucana e Giasone, che la seduce e la tradisce, una multinazionale petrolifera colpevole di aver devastato e avvelenato il territorio, ha un suo senso e originalità. Lo sguardo politico è forte, la tessitura drammaturgica fondata su un serio lavoro di documentazione e d’inchiesta sul campo, il grido di denuncia sacrosanto. Ma è necessario trovare delle sfumature nell’esecuzione, anche a costo di rimettere drasticamente mano alla drammaturgia. Alla notizia che il loro spettacolo sarebbe durato circa due ore (contro l’oretta canonica degli altri), confesso di aver avuto quasi un mancamento, anche se, a Santarcangelo, il “segnalato speciale” Trenofermo a-Katzelmacher mi aveva molto colpita. Sono stata smentita. Lo spettacolo
della compagnia nO (Dance first. Think later) è uno strepitoso musical trash, che in realtà nasconde un uso sapiente delle canzoni neomelodiche napoletane a scandire, anche nei contenuti, i vari momenti dell’azione, spesso coreografati con divertita intelligenza e notevole capacità performativa. Certo, c’è da trovare la giusta sintesi (pare che la versione integrale duri addirittura due ore e mezza) e da sistemare la drammaturgia, ma la formidabile energia sprigionata cattura anche lo spettatore più scettico. Se lo spaccato di un Sud indolente e parassitario, fermo ad aspettare un treno che non partirà mai, funziona, sbiadita risulta invece la figura del Katzelmacher, l’immigrato di fassbinderiana memoria (ma si pensa più a Teorema di Pasolini), la cui presenza e azioni dovrebbero destabilizzare il branco facendone deflagrare la violenza. Conferma, ma delle perplessità estive, è infine W (prova di resistenza) dell’altra “segnalata speciale” Beatrice Baruffini. Il suo racconto di un episodio di resistenza ai fascisti di Italo Balbo da parte degli abitanti di due quartieri popolari di Parma semplicemente dilata i tempi dello studio, complicando la linearità del racconto con ambizioni liriche e trasformando il curioso teatro d’oggetti che lo caratterizzava (mattoni a dar vita a luoghi e personaggi) in un gioco meccanico un po’ ripetitivo. Un teatro di narrazione e di impegno civile che andrebbe radicalmente ripensato, aldilà delle pur nobili intenzioni, per aggirare le trappole di un didascalismo alquanto monocorde. Claudia Cannella MIO PADRE ERA COME UN FIGLIO PER ME, di e con Marta Dalla Via e Diego Dalla Via. Scene e costumi dei Fratelli Dalla Via. Prod. Fratelli Dalla Via, TONEZZA DEL CIMONE (Vi). M.E.D.E.A. BIG OIL, Testo e regia di Terry Paternoster. Luci di Giuseppe Pesce. Con gli attori del Collettivo Interno Enki. Prod. Collettivo Interno Enki, ROMA. TRENOFERMO A-KATZELMACHER, di Dario Aita ed Elena Gigliotti. Costumi di Giovanna Stinga. Luci di Giovanna Bellini. Con gli attori della Compagnia nO (Dance first. Think later). Prod. nO (Dance first. Think later), ROMA. W (PROVA DI RESISTENZA), di e con Beatrice Baruffini. Luci di Emiliano Curà. Prod. Beatrice Baruffini, PARMA. In senso orario, Mio padre era come un figlio per me, M.E.D.E.A. Big Oil, Trenofermo a-Katzelmacher e W (prova di resistenza) (foto: Marco Caselli Nirmal).
CRITICHE/LOMBARDIA
L’IMBALSAMATORE, libretto di Renzo Rosso. Musica e regia di Giorgio Battistelli. Scene, costumi e luci di Angelo Linzalata. Live electronics di Alvise Vidolin. Con Riccardo Massai e l’Ensemble Giorgio Bernasconi dell’Accademia del Teatro alla Scala, diretta da Marco Angius. Prod. Accademia del Teatro alla Scala, MILANO. Ci sono miti che sono duri a morire. Uno di questi, tra i più celebrati, forse, è Lenin. Benché sia crollato il comunismo, la salma del padre fondatore è custodita nel mausoleo sulla Piazza Rossa, attirando milioni di visitatori e costringendo gli esperti a un lavoro immane per la conservazione. Ma cosa accadrebbe se il corpo, d’un tratto, collassasse? Prende le mosse da qui il monodramma di Renzo Rosso. Solo che – ed è questo il merito maggiore dell’opera – il Grande viene analizzato dal punto di vista del Piccolo. Non le prosopopee, le accorte dietrologie intorno alla caduta del Muro e l’incipiente occidentalizzazione della Russia interessano l’autore. Ma i riflessi che la Storia ha sulla vita del singolo. Insignificante, per di più: l’imbalsamatore di Lenin. Un uomo solo, alcolizzato, lasciato dalla compagna e con un pugno di ambizioni frustrate. Un “vinto”, come suggerisce il nome, Aleksej Miscin, forse mediato dal principe Myskin di Dostoevskij. Quindi, in sostanza, un testimone inattendibile. Che ha a cuore, prima ancora della conservazione della salma, lo sfogo dei personali rancori. Come l’Hans Schnier di Böll, cui il monodramma, per certi versi, è debitore. Non, dunque, in un processo al comunismo si traduce la pièce. Bensì in un corpo a corpo con le emozioni, il vissuto insindacabile dell’uno, attraverso il quale passa la Storia, in un crescendo vorticoso che alterna il tragico col comico, per la via del grottesco. Senza mai una posizione certa, ma accavallando ipotesi, rimpianti, meditazioni. Il resto lo fa la musica, brillante quanto basta per insinuarsi nelle pieghe del dettato, dando il tempo all’attore e dosando le emozioni, in un condensato di energia e di silenzio che scalda e commuove. Roberto Rizzente
Don Chisciotte sulla luna DON CHISCIOTTE - OPERA POP, drammaturgia e regia di Emilio Russo. Scene di Elena Beccaro e Denise Carnini. Costumi di Mariella Visalli. Luci di Mario Loprevite. Musiche di Alessandro Nidi. Con Alarico Salaroli, Marco Balbi e I Musicisti del Toboso. Prod. TieffeTeatro, MILANO. IN TOURNÉE Cosa avrebbe fatto Don Chisciotte se fosse vissuto, invece che nel 1600, duran te l’es ta te del 1969 quando l’uomo è sbarcato sulla luna? Emilio Russo immagina proprio che don Chisciotte e il suo fedele Sancio Panza conducano le loro famose peregrinazioni per la Mancia durante l’estate leggendaria del ’69 e si soffermino a guardare la luna con la convinzione che sia un luogo raggiungibile. Russo trasforma la storia dell’hidalgo in un’opera pop: le riflessioni di uno stanco Chisciotte, interpretato da uno straordinariamente malinconico Alarico Salaroli, e i sogni di Sancio, il sornione Marco Balbi, sono af fiancati alle canzoni eseguite da Dulcinea del Toboso. Dulcinea non è una contadina, ma una cantante (la emozionante Helena Hellwing) che si esibisce nella taverna, in cui i due si fermano a riposare tra una avventura e l’altra, divenuta un night club con tanto di pianoforte, contrabbasso e chitarra. Le canzoni, eseguite tutte dal vivo, si collegano alle riflessioni di Chisciot te sul senso della vita che, recitate di fronte alla grande luna che troneggia sullo sfondo della scenografia, diventano ancora più profonde. Il giorno dopo lo sbarco dell’uomo sulla luna, tutto nell’esistenza umana rimane uguale, quindi è stata solo un’altra illusione per il nostro don Chisciotte che, invece di combattere contro i mulini a vento, combatte, osservandoli spaesato, contro due ragazzini che sfrecciano in vespa davanti a lui. Originali le scenografie che ricreano sul palco una sorta di deposito di periferia con copertoni e pareti di lamiera, in contrasto con le parole originali del testo usate nei dialoghi f r a i due per sonag gi. Albarosa Camaldo
Se la faccia diventa un brand BRUTTO, di Marius von Mayenburg. Regia di Bruno Fornasari. Scene e costumi di Erika Carretta. Con Tommaso Amadio, Mirko Ciotta, Michele Radice, Cinzia Spanò. Prod. Teatro Filodrammatici di MILANO. IN TOURNÉE Quando c’è un testo, bastano gli attori. Questa, in sintesi, la conclusione che si può trarre vedendo Brutto di Marius von Mayenburg, drammaturgo quarantenne di stanza allo Schaubuhne di Berlino. Quattro attori in una scena più che vuota svuotata di tutto (anche delle quinte). Quattro attori che interpretano otto personaggi senza la minima variazione del loro aspetto, segnando la differenza con la semplice inflessione della voce, con la postura, il gesto. Una serie di scene “madri” brevi, con rapidi passaggi di situazione e, su tutto, la finzione massima. Lette (un appropriato Tommaso Amadio) è un geniale inventore, ma ha un difetto, una faccia orrenda e inguardabile, che lo rende inadatto a “vendere” l’ottimo prodotto da lui stesso inventato. Questo “dettaglio” di cui non è mai stato cosciente, è causa di discriminazione prima, di un’autentica crisi d’identità poi. Tenterà l’impensabile, un improbabile intervento chirurgico che rivoluzionerà i suoi connotati. La sua nuova faccia riesce a tal punto bene da trasformare la sua personalità, uniformandola completamente alla sua immagine e allo strepitoso successo che riscuote fra donne, uomini, consumatori tutti, ma, ahimé, gli effetti si succedono a catena in modo imprevedibile, generando un enor-
me cortocircuito. Un testo ironico e cattivo sulla società dell’immagine, dove anche le relazioni umane sono improntate al consumismo, usa e getta, dove l’apparenza è tutto e il narcisismo una strategia di marketing. Tommaso Amadio è Lette, prima e dopo, Mirko Ciotta è il collega Karlmann e il figlio gay della miliardaria, Michele Radice è Scheffler, il direttore, e il chirurgo e Cinzia Spanò è Fanny, la signora Lette e la miliardaria vittima della chirurgia estetica: insieme danno vita al perfetto meccanismo scenico con enorme aderenza, tempi perfetti, massima intensità in ogni istante, fino al paradossale finale. Ilaria Angelone
Quando la ragione cede il passo alla follia PRODIGIOSI DELIRI, ispirato a due studi di Sigmund Freud e Ludwig Binswanger. Drammaturgia di Lorenzo Loris, Mario Sala, Roberto Traverso, Patrizia Zappa Mulas. Regia di Lorenzo Loris. Scene di Daniela Gardinazzi. Costumi di Nicoletta Ceccolini. Luci di Luca Siola. Con Mario Sala e Patrizia Zappa Mulas. Prod. Teatro Out Off, MILANO Stanze/Teatro Alkaest, MILANO. Viaggio al termine della notte. Nel dolore. Nell’impossibilità di comprendere il crollo di una mente, di un’intelligenza. Si torna a casa con un terrore sottile dopo Prodigiosi deliri, quel terrore che si prova di fronte a qualcosa di spaventoso che arriva senza spiegazione. E così Daniel Schreber, presidente della Corte d’Appello di Dresda nel 1893, un giorno pensa che debba essere «molto bello trasformarsi in una donna che
Brutto (foto: Umberto Terruso)
L’imbalsamatore di Lenin storia di un vinto
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CRITICHE/LOMBARDIA
BRUNI/DE CAPITANI
Frost e Nixon, duello all'ultima parola FROST/NIXON, di Peter Morgan. Traduzione di Lucio De Capitani. Regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani. Luci di Nando Frigerio. Con Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Luca Toracca, Alejandro Bruni Ocaña, Claudia Coli, Matteo de Mojana, Andrea Germani, Nicola Stravalaci. Prod. Teatro dell’Elfo, MILANO - Teatro Stabile dell’Umbria, PERUGIA. IN TOURNÉE Un duello. All’ultima parola. Per il più classico dei climax, gioco adrenalinico che sempre funziona. Su questo si costruisce il confronto fra il giornalista David Frost e l’ex-presidente Richard Nixon. Dimissionario in seguito al Watergate, a distanza di tre anni concesse alcune interviste all’anchorman, all’epoca più celebre per le chiacchierate con gli Abba che per l’analisi politica. Fu un successo. Grazie soprattutto all’abilità di Frost nel “costringere” per la prima volta Nixon a dire: «Scusate, sono colpevole». Una confessione. A cui nessun tribunale era arrivato. Questo il testo di Peter Morgan, già un fortunato film di Ron Howard, ora scelto come nuova produzione dell’Elfo. A conferma di un po’ di cose: l’attenzione per la drammaturgia di lingua inglese, la passione per il cinema (con i suoi ritmi, il suo immaginario), la volontà di impegnarsi in un teatro corale, di generazioni attoriali diverse. Il tutto attraverso proposte che vanno sempre incontro a un pubblico eterogeneo, che non a caso risponde in massa. Ricetta solo all’apparenza semplice. Perché è un giusto dosaggio di tradizione e ricerca, forma e sostanza, coro e primedonne. Come gli eccellenti Bruni e De Capitani, duellanti senza vincitore. Il primo a gigioneggiare il giusto, il secondo un Caimano meno rampante, più umano. Ma ottimo tutto il cast, dove si fa notare (e non è la prima volta) Alejandro Bruni Ocaña. Allestimento anni Settanta per colori, luci, materiali. Con il lavoro a svilupparsi omogeneo, ispirato dalla versione cinematografica. Un teatro classico, d’attore, senza fronzoli, solidissimo fin nei dettagli. Gran ritmo e silenzio in sala. L’attenzione non subisce cali, l’emozione a incrociarsi con la curiosità intellettuale verso le tematiche toccate: informazione e politica, verità e menzogna, limiti e potere. Scatta il parallelismo con la società italiana. Ma in scena nessun riferimento, nessuna malizia. Per un disciplinato equilibrio scenico-drammaturgico che non va mai sopra le righe. E piace così. Diego Vincenti
soggiace alla copula» e niente è più come prima. Fra deliri, internamenti, curiose architetture filosofiche. Fu uno dei più famosi casi clinici di Freud e firmò il diario Memorie di un malato di nervi, una delle fonti per la drammaturgia. L’altra voce di questi due monologhi è invece quella di Ellen West, le cui vicende sono state narrate da Binswanger. Malata di anoressia, schizofrenica, ossessionata dalla morte, la West terminò suicida il suo calvario. Si capisce bene che lo spettacolo non è proprio un inno alla gioia. Allestimento che ricorda uno studio/salotto di quegli anni: scrivania, lavagna, una certa pesantezza degli arredi tra cui una gigantesca sedia, forse simbolo di inadeguatezza. Il resto è parola. Due monologhi, due difficilissime prove d’attore, su una drammaturgia che convince pur concedendo troppo alle visioni a scapito dell’analisi. Necessità sceniche, forse. E così ci si immerge in questi due mondi di confusione e dolore, che spiazzano per l’intelligenza e la sensibilità dei protagonisti, cui donano vita Mario Sala e Patrizia Zappa Mulas. Il primo sempre a proprio agio coi personaggi ai margini, è di una precisione tale da risultare quasi freddo. Intima ed empatica la Mulas, il cui disagio apre il cuore. Non una passeggiata. E forse non proprio da consigliare a una scolaresca. Ma ben strutturato, asciutto e con un lato oscuro claustrofobico, in grado di commuovere. Diego Vincenti
L’anima soul di Ghost dal cinema al teatro GHOST IL MUSICAL, dal film Ghost, di Bruce Joel Rubin. Regia di Stefano Genovese. Musiche di Dave Stewart e Glenn Ballard. Coreografie di Thomas Signorelli. Regia di Stefano Genovese. Con Salvatore Palombi, Ilaria Deangelis, Cristian Ruiz, Loretta Grace, Sebastiano Vinci, Riccardo Ballerini, Davide Paciolla, Francesca Gemma e tredici ballerini. Produzione Mas Music, Arts & Show Poltronissima spa, MILANO. IN TOURNÉE Una sfida trasformare in musical il film cult Ghost (1990), con Demi Moore, Patrick Swayze, Whoopi Goldberg, premio Oscar come miglior attrice non protagonista. Nella parte della veggente tro-
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va il suo corrispondente italiano nell’attrice italiana di colore Loretta Grace. Ed è lei, come nel film, l’anima del musical, cantato e recitato interamente in italiano, capace di alternare momenti comici a canzoni ritmate e grintose. Infatti le musiche scritte da Dave Steward, per ricreare l’atmosfera del film spaziano dal rock, al pop romantico, al soul in sintonia con le abilità degli artisti in scena. Si rivive così la storia d’amore tra Molly (Ilaria De Angelis) e Sam (Salvatore Palombi), assassinato per strada da un killer misterioso, mandato dal suo migliore amico e collega Carl (Cristian Ruiz) per impedirgli di scoprire i suoi imbrogli a danno della società per cui entrambi lavorano. Sam non si rassegna ad abbandonare la sua amata e cerca di metterla in guardia da Carl, attraverso la falsa veggente Oda Mae che ora scopre, con stupore, di avere reali doti per comunicare con l’aldilà. Nel giovane cast, tra cui la più in parte è sicuramente Loretta Grace, efficace anche Davide Paciolla, Premio Hystrio 2013, nel ruolo del misterioso killer. La parte più spettacolare del musical sono le scenografie ricreate in 3d al computer per ovviare ai tanti cambi di scena del film e capaci di catapultare ugualmente gli spettatori in modo cinematografico dai grattacieli di New York alla romantica casa costruita insieme dai due innamorati, alla squallida casa della veggente Oda Mae, agli uffici della banca. La regia di Stefano Genovese ricalca lo spirito del film, di divertire e commuovere nello stesso tempo. Albarosa Camaldo
Marilyn, ovvero quando muoiono i sogni MARILYN... MON AMOUR, di Cinzia Spanò. Regia di Chiara Petruzzelli e Silvia Giulia Mendola. Collaborazione artistica di Vanessa Korn. Composizioni sonore e musicali di Marcello Gori. Con Silvia Giulia Mendola e Elena Rolla. Prod. Teatro Franco Parenti, MILANO Associazione Pianoinbilico, MILANO. IN TOURNÉE Mentre, nei mesi scorsi, giornali e tv hanno celebrato l’anniversario dell’assassinio di J.F. Kennedy, un piccolo e godibile spettacolo, Marilyn mon...
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amour di Cinzia Spanò, ci ha ricordato che esiste sempre un’altra storia. L’altra storia o l’altra faccia: dell’amore, del potere che di amore si nutre o che l’amore nutre, del successo, della luce, sia essa quella dei riflettori o quella della giovinezza. La raccontano l’attrice Silvia Giulia Mendola e la danzatrice Elena Rolla, che si confrontano in scena ripercorrendo gli ultimi giorni di vita della star simbolo di un’era, abbandonata dal suo amante, il presidente Usa, a pochi giorni dal 36esimo compleanno. Mendola è Marilyn, donna inquieta, che parla e intanto cammina, poi cerca di dormire ma i fantasmi la svegliano. Rolla è il suo doppio, una bambina, muta e cocciuta, che le danza davanti e tra i ricordi. Si insiste sulla stanchezza, sulle ferite e le disillusioni. È una scelta azzeccata perché la disillusione non è vissuta come perdita del sogno, ma come tradimento di ciò che Marilyn aveva deciso, a tutti i costi, di ottenere dalla vita. È quindi una riflessione in soggettiva, che non incolpa circostanze avverse, una famiglia tragica o amanti troppo difficili da gestire. È un pensiero che ci avvicina all’icona diventata personaggio: tutti siamo Marilyn, tutti possiamo arrivare all’apice e poi cadere. Tutti, come lei, dobbiamo chiederci perché. Il merito dello spettacolo va anche alle interpreti, empatiche con il personaggio fino alla fisicità, con quelle gambe nude piene di lividi che si procurano saltando e poi cadendo dalle panche di legno bianco. Esse rappresentano il palco della vita e non possono che ridurti così: provata, gonfia, in equilibrio sul tacco dodici che fa le vesciche. La scrittura di Spanò sa essere schietta e di buona profondità. Se cade nella tentazione del flusso di coscienza, si riprende velocemente e tutto risulta quasi sempre leggero. Non manca una certa dose di ironia (nelle micro scene al cimitero), dote che sempre dovrebbe accompagnarsi alla bellezza delle cose, come sapeva Marilyn. Francesca Gambarini
L’oscuro puzzle del reale IL SILENZIO DEI CASSETTI, regia e drammaturgia di Benedetto Sicca. Scene di Mariapaola Di Francesco. Luci di Marco Giusti. Con Paola Michelini, Valentina Picello,
Filippo Renda, Beppe Salmetti, Giorgio Sorrentino, Simone Tangolo. Prod. Compagnia Filippo Renda/Benedetto Sicca, MILANO Compagnia Idiot Savant/Ludwig, MILANO - Teatro Ringhiera, MILANO. La realtà non è una narrazione lineare, ma un insieme di frammenti destrutturati che tentiamo invano di ordinare e di comprendere. Su questa non inedita ma affascinante suggestione (anche il titolo evoca l’idea di una storia smontabile e apribile come un cassetto) poggia lo spettacolo di Benedetto Sicca, autore giovane ma già molto stimato in residenza presso il Teatro Ringhiera di Milano. Lo spettatore si trova alle prese con i tasselli di un puzzle da comporre in itinere, che lascia emergere l’immagine di un triangolo: sotto lo stesso tetto vivono Marinella, il suo fidanzato Ferro, e l’amico di lui Tommaso. Comprendiamo presto che la quotidianità di litigi e cene – con Marinella e Tommaso costantemente rivali per l’affetto e la considerazione di Ferro – appartiene a un passato oscuro e onirico: il presente (?) è quello del letto d’ospedale dove Ferro giace in coma irreversibile, dopo un incidente in macchina. A mescolare ulteriormente le carte, una coppia di attori (palese alter ego di Ferro e Marinella) recitano un testo scritto da Tommaso, forse la scatola metateatrale che contiene l’intera vicenda. Proprio come in Nella casa di François Ozon, la presenza di un piano narrativo che fa esplicito riferimento alla finzione – in questo caso l’interpretazione di un copione – mette in discussione la realtà di tutti gli altri: è tutto un racconto di Tommaso? Tortuoso e stratificato come un film di Lynch, lo spettacolo può risultare ambizioso e cervellotico ma ha dalla sua alcuni indubbi punti di forza: un’ottima direzione di attori, che calibrano bene la loro interpretazione sull’atmosfera allo stesso tempo rarefatta e quotidiana; una scrittura pulita, efficace, che sperimenta codici e linguaggi senza rinunciare all’accessibilità. Il doppio ruolo di autore e regista ha forse condotto Sicca a qualche involuzione ma, in un panorama dove di rado vengono prodotti testi corposi e significativi, questa esperienza drammaturgica di ampio respiro è da accogliere positivamente. Maddalena Giovannelli
PICCOLO TEATRO
L'immortale Cyrano risorge nelle mani di Lavaudant CYRANO DE BERGERAC, di Edmond Rostand. Regia di Georges Lavaudant. Scene e costumi di Jean-Pierre Vergier. Luci di Georges Lavaudant. Con Patrick Pineau, Marie Kauffmann, Frédéric Borie, Gilles Arbona, François Caron, Olivier Cruveiller, Astrid Bas, Emmanuelle Reymond, Pierre Yvon, Laurent Manzoni, Alexandre Zeff, Stéphane Czopek, Loïc-Emmanuel Deneuvy, Julien Testard, Maxime Dambrin, Bernard Vergne, Marina Boudra. Prod. Lg Théâtre - Mc93, PARIGI e altri 4 partner internazionali. Commedia o tragedia, si domanda, certo un po’ ironicamente, Georges Lavaudant, a proposito di Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand, un testo sul quale la critica andò giù duramente, in alcuni casi deriso per lo squillo vuoto (vuoto e pomposo) dei suoi pennacchi verbali, ma amato dal pubblico fin quasi all’idolatria. E si direbbe ancora oggi. Quella di Cyrano, si sa, è una storia di grandezza e megalomania e lui, Cyrano, paragonato a un assegno in bianco come ha felicemente scritto qualcuno, ha ripagato generosamente coloro che l’hanno affrontato in Francia ma anche in casa nostra. Evitiamo l’elenco e veniamo a Lavaudant, la cui messa in scena si è vista al Piccolo Teatro di Milano. Lui, il fecondissimo regista di Grenoble (classe 1947), a quella classicità finta o non finta sembra crederci. E parteggia con il drammaturgo che l’ha aiutato nell’operazione (Daniel Loayza) che, neanche fosse Alceste o Fedra, considera Cyrano uno dei nomi di battesimo del (grande) teatro. Sarà! E allora via a dar vita a uno spettacolo che è un fuoco d’artificio, corre via leggero, spiritoso, animatissimo né tragedia né commedia anche se qualcosa e dell’uno e dell’altra traspare. La tragedia quella di un impossibile amore a tre (Cyrano, Cristiano, Roxane che per il regista diventa qualcosa di più del semplice stereotipo dell’innamorata), la commedia sofisticata in cui veleggia sopra qualcosa di Marivaux. Una lettura insomma, fresca e moderna nemmeno mancante di qualcosa di caricaturale, a tratti coltivata col gioco della Commedia dell’Arte, a tratti ad assumere il tono caricaturale (presente nei costumi; e presenti all’inizio persino due clown) come se si trattasse di Offenbach. Guidato, il Cyrano di Lavaudant, verso un pubblico che non chiede al teatro troppo intellettualismo ma che appaga anche lo spettatore più raffinato. La concertazione perfetta; peccato soltanto che la compagnia sia di non molto alto livello (in fondo però i personaggi sono delle figurine e nulla più). Non tuttavia il protagonista Patrick Pineau che sulle prime sembra entrare nel personaggio svogliatamente, annoiato da quel naso che è la sua maledizione, ma che poi lo senti vibrare carico di malinconia e di vera sofferenza. Un Cyrano inedito il suo, che rifiuta l’enfasi, che va controcorrente. Chapeau! Domenico Rigotti Cyrano de Bergerac (foto: Hervé All).
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CRITICHE/LOMBARDIA Chi resta
Vittime e sopravvissuti in cerca di giustizia CHI RESTA, di Roberto Cavosi, Angela Demattè, Renato Gabrielli, Carmelo Rifici. Regia di Carmelo Rifici. Luci di Matteo Crespi. Con Caterina Carpio, Mariangela Granelli, Tindaro Granata, Emiliano Masala, Francesca Porrini. Prod. Associazione Culturale Proxima Res, MILANO. Vittime del terrorismo, della mafia, delle cosiddette “stragi di stato”. Raccontare il dolore di chi resta è impresa difficile e delicata. Ci ha provato la compagnia Proxima Res chiamando quattro drammaturghi a scrivere brevi testi a partire dalle testimonianze, dirette e indirette, di parenti di chi è stato ucciso. In scena vanno la rabbia e la ricerca della giustizia; l’obbligo morale (e spesso ipocrita) delle istituzioni di tenere accesa la memoria; la (im)possibilità di trovare sollievo nel confronto tra la figlia di una vittima e il figlio di un carnefice; la concessione del perdono a chi ha sparato al proprio padre; la fine del lutto e la sopravvivenza nel ricordo degli altri. Nei testi di Roberto Cavosi, Renato Gabrielli, Angela Demattè e Carmelo Rifici, che firma anche la regia, e nella drammaturgia fisica di Alessio Maria Romano, prende forma il vuoto di chi se n’è andato ma anche del tormento dei colpevoli. I quadri si susseguono senza orpelli. Lo spostamento di un tavolo e qualche sedia segna il passaggio da un episodio all’altro e la presenza di una telecamera evoca il valore di testimonianza delle parole pronunciate dagli attori che riescono, quasi sempre, a non urlare il dolore. Gli ingredienti per il successo ci sono tutti: alcuni interessanti nomi della drammaturgia contemporanea, uno dei giovani registi più affermati del panorama nazionale, attori di riconosciuta bravura. L’operazione è audace ma, forse per la delicatezza del tema e il rischio di cadere nel retorico, osa troppo poco. Lo spettaco-
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lo rimane imperfetto, anche per la leggerezza di una regia che volutamente lascia sospesi gli episodi nella loro frammentarietà. Con il coraggio, però, di portare in primo piano un tema centrale per il nostro paese, senza pietismi e accuse e mettendo invece al centro la fragilità di quello che resta. Francesca Serrazanetti
Verde “nero” rosso l’Italia vista dal Sud W L’ITALIA.IT - NOI NON SAPEVAMO, di Egidia Bruno e Marie Belotti. Con Egidia Bruno. Canti a cura di Francesca Breschi. Luci di Carlo Villa. Prod. Egidia Bruno, MILANO. IN TOURNÉE In mise tricolore, Egidia Bruno, sul palcoscenico, sotto luce naturale, in costume da brigantessa, col nero al posto del bianco tra il rosso del corpetto e il verde dei pantacollant. Nero di lutto. Indossato tipicamente dalle donne meridionali. Come lei, lucana, di scorza dura, formata e adottata dal profondo Nord, perché il Sud è una “landa desolata”. Come lo definivano i piemontesi dopo l’unificazione, scacciato il nemico Borbone e restituita l’Italia agli italiani. Ma con i Borboni si stava peggio? E cosa ha portato l’unificazione per il Sud? Il teatro, si sa, non dà risposte, non impone morali, piuttosto induce alla riflessione. Rendendo verosimile qualcosa che ci appartiene, qualcosa di reale. E nell’ora abbondante di monologo, in uno spazio scenico allestito in maniera minimale, con un telo per proiezioni sul fondale scuro, un tavolino con drappo verde italico zeppo di libri (le fonti drammaturgiche), un mobiletto ornato di merletto – presente in ogni salotto meridionale che si rispetti – e una sedia, la Bruno propone la diffusione di quello che la storia omette perché scritta dai vincitori. Da Garibaldi a Cavour, dalle teorie del Lombroso all’industrializzazione della Calabria. Un excursus ante e post risorgimenta-
le focalizzato sul Sud. Attraverso una drammaturgia vicina al linguaggio d’uso, documentaristico, frammentata dal canto. E un’interpretazione autentica, da teatro di parola, mirata a un contatto diretto, immediato con la platea. Una ricostruzione filologica e testuale animata dalla teatralità: in carrellata i mali del Sud dal latifondismo al clientelismo speculare. Emilio Nigro
alternate a L’improvvisazione di Versailles, testo poco rappresentato di Molière che tratta proprio, in modo critico, il rapporto tra vita e scena. Un omaggio ai comici dell’Arte e ai sacrifici affrontati quotidianamente dagli attori anche oggi. Albarosa Camaldo
Quelli di Grock, un Avaro da Comici dell’Arte
SOLO DI ME. Se non fossi stata Ifigenia sarei Alcesti o Medea, di Francesca Garolla. Regia di Renzo Martinelli. Luci di Mattia De Pace. Con Valentina Picello, Paola Tintinelli, Anahì Traversi. Prod. Teatro i, MILANO.
L’AVARO, da Molière. Traduzione e adattamento di Valeria Cavalli. Regia di Valeria Cavalli e Claudio Intropido. Costumi di Anna Bertolotti. Scene e luci di Claudio Intropido. Con Pietro De Pascalis, Jacopo Fracasso, Cristina Liparoto, Sabrina Marforio, Roberta Rovelli, Andrea Robbiano, Simone Severgnini, Clara Terranova. Prod. Quelli di Grock, MILANO. IN TOURNÉE La vitalità e l’entusiasmo della Compagnia Quelli di Grock irrompe in scena nella nuova produzione de L’avaro tratto da Molière. Gli attori, come guitti girovaghi, spaziano dalla clownerie alla Commedia dell’Arte, girano tra gli spettatori, li coinvolgono nella nota vicenda di Arpagone preoccupato solo di risparmiare denaro e nasconderlo e di combinare matrimoni convenienti per i propri figli e per sé. Una girandola di equivoci che, pur partendo dal testo originale di Molière, dà spazio a improvvisazioni quando, per esempio, scelgono tra il pubblico il re della serata, che dovrà giudicare lo spettacolo, o quando Arpagone cerca i suoi soldi rubati, frugando fra le borse degli spettatori in sala. Parte integrante dello spettacolo è la musica di Gipo Gurrado, eseguita dal vivo da Nema Problema Orkestar, che sottolinea i colpi di scena e crea suspance. I momenti salienti dell’azione si svolgono, infatti, dentro un teatrino riprodotto sul palcoscenico che ruota da una parte e dall’altra a seconda della necessità, così da creare un gioco di teatro nel teatro. Gli attori, guidati dall’Arpagone di Pietro De Pascalis, negli eleganti costumi, restano sempre tutti in scena come gli attori della Commedia dell’Arte. Traspare così la loro vita quotidiana: alcune scene di L’avaro infatti sono
Sacrifici al femminile tra mito e vita reale
Cosa succederebbe se Alcesti, Ifigenia e Medea si incontrassero e mettessero insieme le proprie storie e la sofferenza lasciata dai rispettivi sacrifici? Francesca Garolla, una delle anime del Teatro i di Milano, par te da questo immaginario incontro per una drammaturgia che, muovendo dal mito, guarda alla condizione della donna e si interroga su quale sia il corrispettivo, oggi, di quel sacrificio. Rimanendo in un contesto astratto e in un tempo non precisato, la scrittura attinge ampiamente (e intenzionalmente) ai luoghi comuni su cui si fonda, non di rado, l’educazione al femminile. La rinuncia per l’altro, essere qualcosa in funzione di colui al quale si sta accanto, mostrarsi infallibili nell’essere figlie, mogli e madri di eccellenza. E allora le lacrime pesanti del sacrificio meritano di essere piante. Al di là del dovere. Alcesti e Medea incarnano la doppia faccia stereotipata della femminilità. Madre che accudisce e donna di casa la prima, strega indipendente e anaffettiva la seconda, insieme addestrano la giovane e ingenua Ifigenia al suo compito di essere donna, nella gioia e nel dolore, e al suo cammino verso l’altare. Loro la propria storia l’hanno già scritta. Lei, ancora ignara del suo destino, ma invecchiata da un tempo che non si può fermare. Il lavoro sui tre personaggiarchetipo è convincente, e il merito va soprattutto alla bravura delle tre attrici: Valentina Picello e Anahì Traversi nel ruolo delle ciniche e sprezzanti Medea e Alcesti, Paola Tintinelli della silenziosa e abbacinata Ifigenia. Ma quando Ifigenia, immolata sull’altare, riprende la parola e schiude al pubblico il dubbio della speranza, ci si aspetta un allontanamento più deciso dagli stereotipi
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messi in campo fino a quel momento. E invece lo scarto non avviene. E allora la cerva, simbolo di quella speranza, rischia di essere un epilogo scontato. A Ifigenia, così come al pubblico, manca ancora qualcosa per capire quale sia la terza via, l’alternativa possibile per vivere oggi l’eredità di quel mito. Francesca Serrazanetti
Un Cechov lieve che recupera il vaudeville TRE SORELLE, di Anton Cechov. Regia di Claudio Orlandini. Scene di Anna Bertolotti. Luci di Fausto Bonvini. Musiche di Gipo Gurrado. Con Cinzia Brogliato, Carola Boschetti, Paola Casella, Michele Clementelli, Luca Chieregato, Davide del Grosso, Federico Gobbi, Chantal Masserey, Leo Mignemi, Marzio Paioni, Claudio Orlandini, Laura Rostiti, Carlo Zerulo. Prod. Comteatro, CORSICO (Mi). IN TOURNÉE Come si sa, Cechov insisteva con Stanislavskij, che stava mettendo in scena le sue Tre sorelle: cercate di non piagnucolare, siate leggeri, allegri, in fondo io ho scritto un vaudeville. Naturalmente sapeva di mentire, ma voleva togliere quel clima plumbeo con cui il regista amava rendere la sottile malinconia dei personaggi. Claudio Orlandini (alla sua seconda prova cecoviana dopo il Giardino di due stagioni fa) e il suo ottimo gruppo di attori hanno preso alla lettera l’indicazione di Cechov: il primo atto, la festa di onomastico di Irina, è un’allegra sarabanda in cui ognuno fa il suo numero, una vivacissima bolgia di invenzioni gestuali, canti, battute qualche volta sopra le righe, ma certamente piena di energia. Anche il secondo atto, l’atto notturno di attesa delle maschere (che alla fine non vengono per volere della nuova padrona di casa, l’autoritaria Nataša, moglie del fratello Andrej) ha una sua dinamica accattivante, ma convince meno del primo: in Cechov c’è un’intimità sospesa, un’inquietudine strisciante che prepara lo scoppio del terzo atto, bisognava forse lasciare più spazio al sussurro, il vaudeville non regge più. Molto riusciti il terzo e il quarto atto, anche grazie a intelligenti invenzioni scenografiche di Anna Bertolotti (le lampade dell’incendio, le porte che si spostano): la fatica di una notte
insonne, il nervoso scontra tra infelicità represse, la confusione di una casa invasa da estranei, tutto è reso con misura e sapienza scenica. E davvero bello il finale: gli attori, che durante tutto lo spettacolo sono sempre in scena, si riuniscono in un coro sommesso che toglie malinconia alla battuta finale di Olga e rende meno sconsolato il destino delle sorelle. Fausto Malcovati
Tartufo, Bucci/Sgrosso e la critica del potere TARTUFO OVVERO L’IMPOSTORE, da Molière. Drammaturgia, regia e scene di Elena Bucci e Marco Sgrosso. Luci di Cesare Agoni. Con Matteo Bertuetti, Fabrizia Boffelli, Fausto Cabra, Francesca Cecala, Monica Ceccardi, Filippo Garlanda, Alessandra Mattei, Gianmarco Pellecchia, Silvia Quarantini, Gabriele Reboni. Prod. Ctb Teatro Stabile di BRESCIA. Tartufo ovvero l’impostore di Molière è la seconda felice tappa del laboratorio per giovani attori portato avanti da Elena Bucci e Marco Sgrosso con capacità pedagogica e abilità teatrale. Se pure si ha la consapevolezza di assistere a uno spettacolo frutto di un’esperienza formativa, ciò non diminuisce il piacere per una messinscena elegante, che usa con intelligenza e acume il testo molieriano, suggerendo inaspettate derive sottotestuali. Tartufo di Molière recupera nella storia dello Stabile bresciano il discusso allestimento realizzato da Mina Mezzadri. Scene e costumi arrivano da un trovarobato segno di una tradizione che Elena Bucci e Marco Sgrosso frequentano con passione di capocomici. E allora la storia di Tartufo è finzione, gioco, un carillon che gira e mette a nudo le falsità di una famiglia borghese in balia delle convenzioni di una morale pelosa e religiosa, che ne minano la stabilità. Tartufo, falso devoto (Gabriele Reboni), induce Orgon (Fausto Cabra) a lasciargli tutti i beni e a dargli in sposa la figlia Mariane (Silvia Quarantini), mentre di nascosto gli seduce la moglie Elmire (Alessandra Mattei). Tutto ciò accade in nome di una devozione religiosa tanto assoluta quanto falsa e devastante nei suoi effetti. La storia di Tartufo si intreccia con quella di Molière che per l’ironia e sfrontatezza con cui tratteggiò la dub-
DALLA SCENA AL SET
Tutto il Polanski touch per la Venere di Sacher-Masoch VENERE IN PELLICCIA, dalla commedia Venus in Fur di David Ives e dal romanzo di Leopold von Sacher-Masoch. Sceneggiatura e regia di Roman Polanski. Scene di Jean Rabasse. Fotografia di Pawel Edelman. Montaggio di Hervé de Luze e Margot Meynier. Con Mathieu Amalric ed Emmanuelle Seigner. Prod. Roman Polanski Production e Monolith Films, PARIGI. Negli anni Novanta del secolo scorso, lo scrittore e commediografo nordamericano David Ives, frequentatore in gioventù di un seminario roman-cattolico, poi passato a Yale, venne proclamato uno dei cento smartest New Yorkers. Il collaboratore del trendissimo Spy Magazine e dell’everglam New Yorker fornisce al grande Polanski l’assist per il raddoppio del gol cineteatrale segnato precedentemente su cross di Yasmine Reza. Teatrante di suo, lo smartest director Roman, espatriato dagli Usa per sesso, onora con la moglie, la Gran Signora Seigner, un contratto sentimental movie che riporta alla ribalta quelli stipulati a suo tempo da Leopold con le sue Wandissime, dall’attrice Fanny Pistor alla ruspante Aurora Rumelin. Come una fetta perfetta di Sacher torte è questo film. Teatro nel teatro. Nessuno che aspiri a farlo, il teatro, il cinema, l’attore, il regista, può mancarlo. D’ora in poi, s/m, oltre a contrassegnare un caratteristico rapporto erotico archetipico, starà a certificare il from stage to movie doc. Il Roman touch si manifesta nel manifesto transfert di Polanski con il regista Thomas interpretato da Amalric, il Guido di questo 8 e 1/2 del Chi è di scena. Quanti minuti mancano alla fine del teatro? Pochi: il teatro sta rinascendo dal suo crepuscolo. Per ritrovare le luci della ribalta, il regista-autore, riqualificatosi come autore-regista, deve af/fidarsi alla/della sua dominattrix. La cui pelliccia, tranki, animalist brothers, trattandosi di teatro, sarà rigorosamente sintetica. Cogliamo l’occasione di questo film per consigliare la rilettura dell’opera omnia di Leo e la riduzione in graphic novel di Guido Crepax. Fabrizio Sebastian Caleffi
bia moralità di certo potere ecclesiastico si vide minacciata la carriera. I due tessuti narrativi si intrecciano con divertita e precisa esecuzione mimica, con un solido apparato musicale, con scene di suggestiva coralità. La famiglia di Orgon è in balia della tempesta, degli strattoni del potere. E nell’ondeggiare della casa, nella condanna
dell’impostore Tartufo c’è l’idea stessa di un allestimento che si offre come suggerita critica al potere costituito, ma anche bisogno umanissimo di credere e affidarsi a qualcosa o a qualcuno che dia sicurezza, che fermi il nostro naufragare che è così simile alle intemperie d’amore e di interesse che scuotono Orgon e i suoi. Nicola Arrigoni
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CRITICHE/PIEMONTE
Temeraria Braschi inghiottita da Winnie
REGIA DI BINASCO
Se il Mercante è un cabaret pop IL MERCANTE DI VENEZIA, di William Shakespeare. Regia di Valerio Binasco. Scene di Carlo de Marino. Costumi di Sandra Cardini. Luci di Pasquale Mari. Musiche di Arturo Annecchino. Con Silvio Orlando, Andrea Di Casa, Fabrizio Contri, Milvia Marigliano, Simone Luglio, Elena Gigliotti, Nicola Pannelli, Fulvio Pepe, Sergio Romano, Barbara Ronchi, Roberto Turchetta, Ivan Zerbinati. Prod. Oblomov Films, NAPOLI Fondazione del Teatro Stabile di TORINO - Estate Teatrale Veronese. IN TOURNÉE Volete che un titolo come Il mercante di Venezia non sia una garanzia per i tempi che corrono? Il soggetto lo favorisce. Money, money, money. Denaro, denaro, denaro tanto più se viene dalle tasche di un ricco e usuraio ebreo che questa volta ha il volto un po’ emaciato e cupo di Silvio Orlando tentato dal ruolo (ma fino a che punto?). L’idea centrale, sappiamo, è che il denaro domina ogni cosa. Non per niente, il Mercante è il lavoro di Shakespeare in cui si parla più di quattrini, con un’insistenza addirittura quasi morbosa. Per aspirare alla mano dell’ereditiera Porzia il giovane Bassanio deve affrontare spese superiori alle sue possibilità, e l’amico del cuore Antonio, il cui capitale è impegnato, gli presta il necessario indebitandosi a sua volta con quell’usuraio di ebreo che lo odia e quindi esige, in caso di insolvenza, una penale disumana: la arcifamosa libbra di carne. Sappiamo come andrà a finire. E lo vediamo anche questa volta, in cui al Mercante si è rivolto un regista che tante volte ha sorpreso; non in questa occasione. In cui non tradisce del tutto lo sfondo, ma astrae e cerca di trasferire l’intreccio (bastano i costumi e qualche tavolino e tovaglia) in un’epoca che s’avvicina alla nostra traducendo naturalmente con un linguaggio contemporaneo. E può andare bene, vede Shylock come il diverso, il forestiero che alligna fra noi ed è pronto al ricatto. Il fatto però è che l’operazione funziona solo in parte o meglio sbanda e non giunge a conclusione. Troppo si è schiacciato sul pedale umoristico e caricaturale, quando non si predilige addirittura il pop. Vedi come sono ridotti certi personaggi. Quasi al trash. Soprattutto quelli femminili, lassù a Belmonte, dove Nerissa, che è lasciata a una Milvia Marigliano strabordante in gag (bravissima se fosse al Derby), sembra diventare la protagonista femminile e la povera/miliardaria Porzia è ridotta a una Barbie che non sa bene come comportarsi ma poi le tocca, e qui si scivola nel grottesco, prendere le difese di Antonio. Vabbé che la compagnia, dove troviamo anche, e sono i migliori, Sergio Romano e Nicola Pannelli, benché diano la sensazione di non comprendere bene il valore dei loro ruoli (Antonio e Bassanio), porta il nome di Popular Shakespeare Company. Forse nemmeno lo ha compreso Silvio Orlando che rifiuta lo stereotipo del vecchio e bizzoso usuraio ebreo, recita asciutto, umbratile, chiuso dentro una sua imbronciata malinconia e pare domandarsi in che trappola è mai caduto.
Domenico Rigotti Il mercante di Venezia (foto: Brenzoni).
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GIORNI FELICI, di Samuel Beckett. Traduzione di Carlo Fruttero. Regia di Andrea Renzi. Scene e costumi di Lino Fiorito. Luci di Pasquale Mari. Suono di Daghi Rondanini. Con Nicoletta Braschi, Roberto De Francesco. Prod. Melampo, ROMA Teatro Stabile di TORINO.
logia definita bensì sono ipostasi di una visione del mondo modernamente tragica e desolata. Sono monadi che richiedono una personalità forte che sappia regalare loro carne e teatrale consistenza: insomma, una presenza scenica capace di conquistare loro l’interesse esclusivo degli spettatori, così da condurre questi ultimi a riflettere sul significato della propria esistenza in un mondo oramai privo di trascendenza. Laura Bevione
IN TOURNÉE Se c’è una dote che non manca a Nicoletta Braschi è sicuramente il coraggio – o, forse, l’incoscienza, che del primo è l’altra faccia – e lo dimostra affrontando un dramma diventato oramai un “classico”. Braschi, dunque, sceglie di diventare Winnie che, com’è noto, è sepolta in un cumulo di sabbia nel mezzo di un imprecisato deserto. E qui avviene uno scarto rispetto all’originale poiché, allo scopo di evidenziarne gli elementi meta teatrali, la terra è sostituita da una collinetta rocciosa su cui crescono insignificanti ciuffi di erba di plastica, che l’attrice accarezza ovvero strappa. Non solo, al posto del paesaggio desolato, il fondo del palcoscenico è occupato da un paravento multicolore: una scenografia in verità piuttosto scialba, unica invenzione rilevante in un disegno registico che Andrea Renzi tratteggia all’insegna della filologica aderenza al dettato beckettiano. Braschi-Winnie, dunque, monologa vivacemente per quasi due ore, ora rivolgendosi al marito Willie – Roberto De Francesco, una “spalla” solida e convincente – ora parlando quasi allo specchio, a un’altra da sé che ovviamente coincide con il pubblico in platea. Filogicamente – o, meglio, didascalicamente – Nicoletta Braschi intercala le sue torrenziali battute con pause quasi pinteriane, strabuzza gli occhi, incarna con convinzione il disperato ottimismo di Winnie, certa di trascorrere un giorno felice dopo l’altro. Un’interpretazione corretta e inappuntabile, quindi, eppure desolatamente inefficace e il motivo è da rintracciare proprio nella peculiare poetica di Beckett. I personaggi del drammaturgo irlandese sono figurine quasi immateriali: non hanno un passato né una psico-
L’onesto Woyzeck una vittima ideale WOYZECK, da Georg Büchner. Regia di Emiliano Bronzino. Scene di Francesco Fassone. Costumi di Chiara Donato. Luci di Mauro Panizza. Con Lorenzo Gleijeses, Maria Alberta Navello, Stefano Moretti, Fabrizio Martorelli, Diego Casalis, Alessandro Meringolo, Marcella Favilla, Riccardo De Leo. Prod. Fondazione Teatro Piemonte Europa, TORINO. IN TOURNÉE Un testo frammentario e complesso, privo di una versione univoca e definitiva, su cui Emiliano Bronzino ha compiuto un’ammirevole operazione di collazione fra le traduzioni disponibili così da ottenere un copione capace di riflettere con efficace fedeltà la desolata ma umanissima realtà inventata dall’autore tedesco. E, per amplificare la cogente pregnanza della riflessione sulla natura dell’uomo e sulle immodificate dinamiche di sopraffazione del potente sul subalterno, Bronzino concentra l’azione in un unico spazio: una sorta di arena semi-circolare ricoperta di sabbia e racchiusa da un’alta staccionata costruita con assi di legno che, al bisogno, divengono tavolo o praticabile. Un muro che è anche tribuna dall’alto della quale il Capitano e il Dottore – i persuasivi Stefano Moretti e Fabrizio Martorelli – assistono compiaciuti al compiersi del destino di Woyzeck, una “brava persona” che, proprio per la sua innocente e istintiva onestà, non può che soccombere. Il candore e l’intatta umanità del protagonista sono ben incarnate da Lorenzo Gleijeses, che sa trovare i giusti toni e movimenti, mai artata-
CRITICHE/PIEMONTE
Con Balasso e Ferrini un Godot tutto da ridere
chiave si rivela un azzardo. Che (purtroppo) offre un lavoro complessivo depurato del più. Scelta voluta, certamente. Ma opinabile. Spazio scenico vissuto con disinvoltura, la regia si muove senza grandi scarti mentre per l’albero si sceglie una palma. Il resto sono quei due atti che si sviluppano in maniera speculare, gestiti con presenza scenica e affiatamento dalla coppia Ferrini/Balasso. Sensazione evidente. Ma un poco si rimpiange quella certa severità nella gestione scenica dei diritti beckettiani, che tante volte invece ha fatto disperare. Francamente incomprensibile la scelta del brano La vita è bella di Noa sugli applausi. Forse c’è stato un fraintendimento. Diego Vincenti
Appuntamento al buio con la vendetta di Margie
ASPETTANDO GODOT, di Samuel Beckett. Traduzione di Carlo Fruttero. Regia di Jurij Ferrini. Scene di Samuel Backett. Costumi di Michela Pagano. Con Natalino Balasso, Jurij Ferrini, Angelo Tronca, Michele Schiano di Cola. Prod. Progetto Urt srl, OVADA (Al).
IL BACIO DELLA VEDOVA (The Widow’s Blind Date), di Israel Horovitz. Traduzione di Mariella Minozzi. Regia di Jurij Ferrini. Scene di Angelo Gullotta. Con Davide Lorino, Luca Cicolella, Ilenia Maccarrone. Prod. Progetto Urt srl, OVADA (Al) - Viagrande Studios, VIAGRANDE (Ct).
IN TOURNÉE
IN TOURNÉE
Godot trasformato in commedia. A tratti in semplice spunto cabarettistico. Ma neanche troppo. Che il gusto è proprio un po’ quello dell’avanspettacolo, della (falsa?) improvvisazione, del “vai avanti tu, che mi scappa da ridere”. Questa l’atmosfera del lavoro firmato da Jurij Ferrini sulla bellissima traduzione di Carlo Fruttero. Con lo stesso Ferrini protagonista insieme a Natalino Balasso. E qui si apre un altro capitolo. Ovvero le potenzialità evidenti dell’ex-comico della scuderia Zelig, che ha sì una maschera ironica e surreale che lo spinge verso il caratterista. Ma in realtà avrebbe il talento per ben altre ambizioni. Tanto da risultare subito un po’ limitante il taglio strettamente comico di questa rilettura. E da spettatori si rimane un poco spiazzati dalla forzatura. Si sa, Godot contiene in sé alcuni germogli comici, germogli di una comicità da clown disperatissimi, che può ingolosire. Ma piegare tutta l’opera a quella
Il bacio della vedova (The Widow’s Blind Date) del drammaturgo americano Israel Horovitz è un testo costruito come un campo minato, dove, una a una e poco alla volta, esplodono le mine, fino all’inattesa ecatombe finale. Merito soprattutto dei dialoghi, sferzanti duelli verbali, che svelano e nascondono, girano intorno alla verità, brutali e teneri come i loro personaggi. Una compagna di scuola, Margie, donna piena fascino e mistero, con tutta la sua carica di seduzione, ma anche con un amaro sapore di morte e lutto addosso, piomba nella vita di due uomini, virilmente spocchiosi, ma in fondo puerili, pronti a far esplodere la rabbia di un’esistenza squallida, consumata in una degradata periferia americana. È l’attrice Ilenia Maccarrone che, sotto l’attenta guida registica di Jurij Ferrini, plasma un personaggio incandescente, dalla femminilità sofisticata, che usa e subisce il proprio fascino, che si è riscattata socialmen-
te e culturalmente, ma affonda nel magma della memoria i propri artigli. All’inizio sembra solo un corteggiamento ruvido e imbarazzato, fra i ricordi di un’adolescenza che nasconde molte cose. Poi, i ricordi scanzonati di una “gioventù bruciata” cominciano a stillare veleno, fino a un lento dissotterramento di una scomoda verità. Ne viene fuori un’immagine irriverente della società americana nel ventre buio della periferia suburbana. Il linguaggio degradato (lo slang da subcultura) dei due uomini, molto bravi Davide Lorino e Luca Cicolella, con i loro sentimenti ottusamente rozzi, indica una difficoltà a gestire i sentimenti quando questi non siano sopraffazione erotica. Uno scontro tra sessi, ma anche tra civiltà e barbarie che dura secoli. Filippa Ilardo
Le dodici voci di Ribatto per Jurij il dissidente IO SONO IL PROIETTILE, radiodramma per attore solo e vocoder, di e con Edoardo Ribatto. Prod. Associazione Culturale Masca in Langa, MONASTERO BORMIDA (At). IN TOURNÉE Dice l’autore: «Una specie di “Fight Club” col colbacco. Ma invece di vedere il film, lo si sente, perché è un
radiodramma. E al posto di 12 attori ce n’è uno. Che interpreta tutti i personaggi sotto i vostri occhi». Sì, Edoardo Ribatto, con magnifica abilità, grande talento, perfetta padronanza della voce giocata in registri continuamente diversi e con l’aiuto di tre microfoni, racconta la storia a dodici voci di un uomo, nella Russia dei primi anni ’60, che viene accusato ingiustamente di essere un delatore. Il che voleva dire, allora, emarginazione dei vicini, disprezzo di amici, ostracismo di colleghi, abbandono di fidanzate. È il soggetto del racconto Espiazione di Jurij Daniel, scrittore sovietico dissidente, condannato nel 1965 a 5 anni di lager per aver pubblicato all’estero questo e altri racconti, ritenuti antisovietici. Ribatto mescola questa storia con frammenti della biografia di Daniel: l’incontro con Sinjavskij, condannato anche lui, nello stesso processo e con la stessa accusa a 7 anni di lager, i rapporti con la moglie, le sbronze, qualche accenno al processo, la persecuzione della polizia, la vita quotidiana di quegli anni in Unione Sovietica. Il testo è costruito con indubbia abilità ma per chi di quella vicenda e di quel racconto ne sa poco o nulla, non è sempre comprensibile. Lo spettacolo è tuttavia una riuscita, grazie alle 12 voci che Ribatto si inventa e che appassionano chi le ascolta. Fausto Malcovati
Aspettando Godot (foto: Massimo Battista)
mente accentuati, del barbiere trasformato suo malgrado in capro espiatorio di una società alla deriva. Una realtà in cui, alla fine, non si riconosce neppure la stessa Marie, peccatrice lucidamente consapevole delle proprie colpe, cui Maria Alberta Navello attribuisce passione e sincerità. Intorno alla coppia si muove una comunità umana composita cui Bronzino, condensando più personaggi nell’ostessa-filosofa efficacemente incarnata da Marcella Favilla, attribuisce effettiva tridimensionalità così da farne non soltanto l’allucinata proiezione della mente dell’ipersensibile Woyzeck ma altresì l’immagine riflessa di un’umanità di cui Büchner seppe riconoscere la fatica dell’essere e del vivere autenticamente. Laura Bevione
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CRITICHE/LIGURIA
SCIACCALUGA/VIGANÒ
Tra torri, alfieri e cavalli è senza Storia la guerra tra Capablanca e Alekhine IL GIOCO DEI RE, di Luca Viganò. Regia di Marco Sciaccaluga. Scene e costumi di Guido Fiorato. Luci di Sandro Sussi. Musiche di Andrea Nicolini. Con Massimo Mesciulam, Antonio Zavatteri, Aldo Ottobrino, Alice Arcuri, Alberto Giusta, Fabrizio Careddu, Cristiano Dessì. Prod. Teatro Stabile di GENOVA e Fondazione NAPOLI Teatro Festival Italia. IN TOURNÉE Con un dramma storico, Il gioco dei re, Luca Viganò ribalta l’idea che gli scacchi possano essere metafora della vita e racconta, in una drammaturgia originale, due vite vissute per la scacchiera, due figure “mitiche”: il cubano José Raúl Capablanca e il russo Alexander Alexandrovic Alekhine. Due re senza spada impegnati in una g uer ra sen z a spa rg imenti di sangue, artefici di complesse strategie, tra torri, alfieri, cavalli e regine. La loro sfida non li lega al destino di una più ampia umanità, si battono per un titolo sportivo. La Storia fa solo da sfondo. E questo è forse il punto debole della drammaturgia. Siamo nella prima metà del Novecento, in uno scenario pieno di contrasti che precipiterà nella Grande Depressione e nel Nazismo. Tutto questo resta mera traccia, evocata a parole e assente anche a livello registico. Con andamento circolare si attraversano le biografie dei due campioni. Di Capablanca conosciamo il precoce talento e l’ambiente solare che lo circonda. Di Alekhine la figura solitaria e alienata con baffi e pettinatura alla Hitler. La sua vita da dissidente e perseguitato politico sovietico è un tabù personale che rende tronche le battute, ma nulla più. Della parabola ascendente, che lo vede campione nel 1927 e nazista, emergono solo le vittorie sportive. Due profili umani profondamente distanti: il Capablanca di Antonio Zavatteri si muove nello spazio a grandi falcate e sta alla scacchiera con spavalderia, contrapponendosi all’inquietudine fisica che segna corpo e movimento dell’Alekhine di Aldo Ottobrino. Tra pareti di legno scuro che svelano aperture inaspettate ma rigorosamente geometriche, capaci di offrire occasioni sceniche interessanti (come la quasi-coreografia per la morte del padre di Capablanca), scene e costumi sono tanto duttili quanto eleganti e giocano sul bianco&nero della scacchiera. Costretti nello spazio, gli altri personaggi sostengono armoniosamente i contendenti: voce narrante e coro, Massimo Mesciulam “canta e segue” le gesta dei due campioni; le varie figure femminili sono interpretate con dinamicità da Alice Arcuri; lo storico giocatore Emanuel Lasker è definito con equilibrio da Alberto Giusta; il padre di Capablanca è giocato tutto su una forte componente emotiva da Fabrizio Careddu; e, infine, il domestico di Alekhine, Cristiano Dessì, sostiene l’aura tragica del suo padrone citando il Clov di Endgame. Non ci sono vincitori, solo vinti, la dimensione epica resta fuori. Laura Santini Il gioco dei re (foto: Elisabetta Giri/AgCubo).
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Antigone, tra Freud e la contestazione dei ’70 ANTIGONE, di Jean Anouilh. Traduzione di Andrea Rodighiero. Regia di Emanuele Conte. Scene di Emanuele Conte e Luigi Ferrando. Costumi di Bruno Cereseto. Luci di Tiziano Scali. Con Viviana Strambelli, Enrico Campanati, Pietro Fabbri, Francesca Agostini, Mauro Lamantia, Marco Lubrano. Prod. Teatro della Tosse, GENOVA. Nella riscrittura di Anouilh, il dilemma radicale dell’Antigone di Sofocle – lo scontro fra le leggi del cuore e dello Stato – muta per lo sfaldamento dei valori religiosi e sociali legati al Mito, facendo affiorare domande e motivi «moderni». L’eroina persegue una passione, umile e rigorosa, fedele alla vocazione fino alla morte, che sfiora gratuità e assurdo. Come l’autore, il regista non prende parte alle posizioni dei contendenti. Avvincente dunque lo scontro, di generazioni e di civiltà, tra la figlia di Edipo e Creonte. Attraverso una teatralità che denuncia l’illusione naturalistica, illustrando dall’inizio ruoli e destino dei personaggi, lo spettacolo punta al coinvolgimento non senza qualche cenno dimostrativo. È ambientato in un vasto interno di famiglia borghese decaduta, con mobili pronti al trasloco. Un ritratto, metà Edipo metà Freud, sovrasta il salone, alludendo alla provenienza antica dal Mito e alla presenza sensibile del padre della psicoanalisi. Antigone (Viviana Strambelli) è una ragazza anni Novecentosettanta che scrive sui muri gli slogan della contestazione e ascolta rock. Persuasiva nel compianto del fratello, è ferma, se pure un po’ monocorde, nel contrastare il potere con la forza morale della sua scelta radicale e inflessibile. Di fronte, Enrico Campanati è Creonte, che nelle intonazioni sommesse o imperiose esprime la fragilità e la solitudine, bisogni sopiti e desideri insoddisfatti, come la paternità mancata, l’impo ten te furore verso l’avversaria. Nel registro quotidiano, si svolgono i dialoghi di Ismene (Francesca Agostini), sorella vanitosa, timorosa e accorata; di Emone (Mauro Lamantia) fidanzato della condannata, che sa superare l’adolescenza dimostrando un amore fedele nel sacri-
ficio. La Nutrice è recitata da Pietro Fabbri, travestito con caricatura accentuata. La Guardia (Marco Lubrano) mima il militare di carriera con buffo zelo formale. Nel finale inserito a sorpresa, la visione dell’eroina suicida, nuda e straziata dalle corde, appare in un quadro dall’impressionismo poco congruo all’equilibrio dell’intera rappresentazione. Gianni Poli
Illusioni perdute in un giro di carte POKER, di Patrick Marber. Traduzione di Carlo Sciaccaluga. Regia di Antonio Zavatteri. Scene e costumi di Laura Benzi. Luci di Sandro Sussi. Con Massimo Brizi, Alberto Giusta, Aldo Ottobrino, Pier Luigi Pasino, Federico Vanni, Antonio Zavatteri. Prod. Compagnia Gank, GENOVA e Teatro Stabile di GENOVA. IN TOURNÉE Il testo d’esordio (1995) del drammaturgo inglese viene riproposto rinnovato dopo l’edizione 2008. Lo spettacolo in due tempi scorre veloce, ma prevedibile; attuale nel tema della dipendenza dal vizio del gioco, ma affidato a un linguaggio da post-post-arrabbiati, dove la scurrilità, fra le migliori battute comiche, diventa maniera. In un ristorante, fra cucina e sala da pranzo, emergono le nevrosi dei personaggi. Stephen è il padrone, un Federico Vanni chiuso in se stesso e reattivo soltanto al tornaconto immediato, maniaco del poker, per il quale coopta i collaboratori. Il cuoco Sweeney, assillato dalla preparazione del menu e dal bisogno d’un minimo scambio affettivo con la sua bambina, è un Alberto Giusta artificiosamente stressato. Frankie è un cameriere che Aldo Ottobrino tratteggia con velleità di giocatore di classe e frustrazioni continue, risarcibili con piccole angherie riversate sul collega Pollo, capro espiatorio, vittima dell’aggressività dei compagni. Vagheggiando un ristorante proprio, vieppiù si indebita. Lo impersona Antonio Zavatteri, quasi compiaciuto della propria nullità e presunta sagacia. Poi c’è Carl (Pier Luigi Pasino), il figlio viziato e imbelle di Stephen, perseguitato da un vero giocatore professionista, Ash, che spera di recuperare i suoi crediti. La commedia punta sulle tensioni per l’attesa
CRITICHE/VENETO - TRENTINO ALTO ADIGE
della partita. Godere dei colpi di scena al tavolo verde, fino al clou della vicenda, è per lo spettatore piuttosto complicato: le carte non si vedono e le regole del gioco risultano ermetiche. Zavatteri co-regista (con Giusta) verifica il paradosso di dirigere la recita d’una «drammaturgia – quella di Marber – che non lascia molto spazio all’invenzione, sopporta poco un’imposizione registica». Così la rappresentazione s’esaurisce nella simpatica protervia delle battute volgari, per illustrare «un piccolo mondo di maschi “scentrati”». Gianni Poli
cio di storia forse troppo velocemente dimenticato. E (soprattutto) il lentissimo percorso di una famiglia verso la giustizia. Percorso intralciato da depistaggi, menzogne, diffamazioni e quant’altro, che molto raccontano di una certa Italia che si sbaglia a considerare lontana. Lavoro onesto, capace di arrivare a un pubblico molto eterogeneo. Non una rivoluzione. Ma un’oretta di semplice (e buona) narrazione. Diego Vincenti
Citran racconta Fava, una storia di civiltà
L’OFFICINA–STORIA DI UNA FAMIGLIA, di Angela Demattè. Regia di Carmelo Rifici. Scene di Guido Buganza. Costumi di Margherita Baldoni. Luci di Giovancosimo De Vittorio. Con Andrea Castelli, Giuliano Comin, Angela Demattè, Christian La Rosa, Sandra Mangini, Olga Rossi, Nicolò Todeschini. Prod. Teatro Stabile di BOLZANO e Centro Servizi Culturali S. Chiara di TRENTO.
NEL NOME DEL PADRE, di Claudio Fava. Regia di Ninni Bruschetta. Scene di Antonio Panzuto. Con Roberto Citran. Prod. Fondazione Atlantide Teatro Stabile di VERONA. IN TOURNÉE La Storia. E il teatro. La prima è quella di Giuseppe Fava, giornalista siciliano ucciso da Cosa Nostra il 5 gennaio 1984, esempio fra i più alti di etica e coraggio applicati al mestiere (alla vita). Il teatro è invece quello classico di stampo narrativo/civile, genere che mostra la corda, troppo spesso affrontato con superficialità e furbizia. Ché le tragedie non necessariamente sono grande materiale drammaturgico. O, quantomeno, l’equazione non è affatto immediata. Per fortuna questo Nel nome del padre rimane altra cosa: non sorprende certo con effetti speciali, ma possiede in sé una dignità che non lascia indifferenti. Una sorta di purezza di cuore che pare scevra da qualsiasi malizia. E si declina in scena con una semplicità (quasi) primitiva, dove la parola e l’attore sono gli unici centri di gravità permanente del lavoro. Per il resto una sedia, due luci, un paio di filmati a dir tanto. Nessuna musica. Piace questa volontà di non far leva sull’emotività dello spettatore ma di conquistarne l’attenzione in un gioco alla pari, attraverso la misurata interpretazione di Citran e il testo tratto dall’omonimo libro di Claudio Fava, figlio del giornalista e ora parlamentare Sel. Materiale intimo, come ci si immagina. Ma che non indugia sui dettagli più dolorosi, sulla lacrima facile. Si racconta uno stral-
Una famiglia trentina attraverso il secolo breve
Suddiviso in tre parti – premodernità (1926-1961), modernità (1964-1995) e postmodernità (1996-2011) –, il testo racconta nascita, ascesa e fallimento di una piccola ditta famigliare di artigiani trentini e vi interseca il modificarsi delle relazioni umane e dei valori morali e sociali per ef fe t to dell’incontro-scontro tra diverse mentalità generazionali, in parallelo all’evoluzione della lingua, che dal dialetto passa all’italiano. La regia di Rifici segue un’impostazione cinematografica, un «film a puntate» come dichiara lo stesso e affida agli attori sempre lo stesso ruolo. La soluzione evita il rischio della confusione, perché i tre capitoli storici esprimono distinti linguaggi estetici e figurativi anche attraverso il ricorso a elementi visivi, quali scritte indicanti la data di svolgimento dello specifico episodio, la proiezione di foto e lettere. Inoltre Rifici sviluppa bene un altro snodo narrativo molto importante: quasi in chiusura della parte dedicata alla premodernità si presenta in scena il personaggio di Sonia, la figlia più piccola che poi sarà protagonista delle vicende della postmodernità, che scrive al computer quanto succede intorno a lei, per articolare una relazione sull’alienazione storica del lavoro. Così i personaggi antichi si dissolvono
REGIA DI BERNARDI
Gli eterni maneggi del giudice corrotto nella preziosa Brocca rotta di von Kleist LA BROCCA ROTTA, di Heinrich von Kleist. Traduzione di Cesare Lievi. Regia di Marco Bernardi. Scene di Gisbert Jaekel. Costumi di Roberto Banci. Luci di Lorenzo Carlucci. Con Paolo Bonacelli, Patrizia Milani, Carlo Simoni, Roberto Tesconi, Irene Villa, Riccardo Sinibaldi, Giovanna Rossi, Valentina Morini, Karoline Comarella, Riccardo Zini. Prod. Teatro Stabile di BOLZANO. IN TOURNÉE Scritta da Heinrich von Kleist quasi per scommessa con amici, su suggestione di una stampa di Le Veau che mostrava una scena di tribunale, La brocca rotta racconta con un linguaggio chiaro e sornione uno sconcertante processo intentato da una matura contadina, Marta, cui un ignoto ha rotto una preziosa brocca e attentato alla virtù della figliola, Eva, contro il fidanzato di lei. Siamo in un piccolo villaggio dei Paesi Bassi. Chi amministra la giustizia è un giudice, Adamo, ignavo e crapulone, corrotto e seduttore, ma pur nei suoi vizi simpatico. Adamo (che ha un piede equino, piccolo risvolto diabolico, e sarà questo a tradire la sua scappata notturna) sa benissimo di essere lui quell’ignoto, lo sa la sua vittima, insidiata con vile ricatto, e subito lo capisce a chiari segni anche il pubblico. Bernardi abbandona quasi del tutto il registro simbolico o il lato sulfureo di questa bizzarra ma felice commedia dove l’autore sceglie il sorriso (qua e là amaro) per narrare una svelta parabola sull’amore e sulla giustizia e punta semmai le sue carte su una sottolineatura farsesca ma anche di robusto segno realistico. Segno al quale presta e bene la sua mano lo scenografo che ha ideato uno sghembo interno fiammingo fine Settecento. Paolo Bonacelli, non nuovo al ruolo e parecchio compiaciuto, il personaggio del giudice Adamo se lo plasma addosso alla maniera del grande attore. Truccato e deformato a dovere, ne sottolinea con il suo alfabeto mimico e i suoi falsi borborigmi (sua specialità da sempre) la pavidità e untuosità o se vogliamo il suo lato luciferino. Lampi di genialità che scoppiano all’improvviso. Accanto a lui è un solido cast a cominciare da Carlo Simoni nelle vesti del gelido e impietoso (ma non imprendibile) revisore venuto dalla città a controllare come stanno le cose nella pettegola provincia. Ma a spiccare soprattutto una corposa, virulenta Patrizia Milani, vivace querelante Marta in vena di infinite digressioni sulla sua amatissima brocca e minacciosa nella sua paesana onestà. E bene, Giovanna Rossi che chiude la schiera dei parenti (la cugina Brigida), Roberto Tesconi nella figura del cancelliere in cerca di avanzamenti che alla fine avrà tutto da guadagnare dalla fuga improvvisa del giudice Adamo, Irene Villa, quale Eva, personaggio complesso, giocato tra la reticenza della donna a dire e la voglia di urlare la sua ribellione contro tutti. E così Riccardo Sinibaldi, il giovane Ruprecht, che si trova in mezzo a intrighi troppo sporchi. Domenico Rigotti
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CRITICHE/TRENTINO ALTO ADIGE - FRIULI VENEZIA GIULIA
CRISTICCHI/CALENDA
Gli italiani cacciati dall'Istria storie taciute e vite strappate MAGAZZINO 18, di Simone Cristicchi e Jan Bernas. Regia di Antonio Calenda. Scene di Paolo Giovanazzi. Musiche di Simone Cristicchi. Con Simone Cristicchi e FVG Mitteleuropa Orchestra, diretta da Valter Sivilotti. Prod. Promo Music e Il Rossetti-Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, TRIESTE. IN TOURNÉE Ci sono storie raccontate troppo spesso. E altre non raccontate mai. La storia dell’esodo dai territori dell’Istria e della Dalmazia che dal 1943 al 1954 coinvolse quasi 250mila italiani, appartiene ad entrambe le specie. Ancora dolorosamente via nella memoria (e anche negli affetti presenti) di chi la subì, è al tempo stesso ignota agli italiani nati e vissuti dopo la seconda guerra, quelli che dalla generazione dei baby boomers in poi non hanno conosciuto mai lo sradicamento territoriale che oggi siamo soliti credere sia la triste prerogativa dei migranti. Cantautore impegnato e felicemente approdato al teatro (Mio nonno è morto in guerra) Simone Cristicchi è nato nel 1977. Solo lo scorso anno è venuto a conoscenza dell’esodo istriano-dalmata, quando gli è capitato di visitare il Magazzino 18, il vasto edificio situato in un’area dismessa del Porto Vecchio di Trieste. Come i magazzini contigui, anche il 18 conteneva in deposito, da più di 60 anni, le masserizie che i “profughi” avevano portato con loro viaggiando sui piroscafi e i treni che li separavano dalle cittadine natali - Pola, Rovigno, Zara, tante altre - allora passate sotto il governo jugoslavo. Oggetti di un tempo, oggetti qualsiasi, cose senza valore, ma cariche di devozione privata. L’emozione di quel ritrovamento, lo studio delle vicende post-belliche, il desiderio di trasformare in canzoni i documenti vivi di quella perdita ha fatto nascere in Cristicchi Magazzino 18. In ambito locale, lo spettacolo prodotto dal Teatro Stabile triestino, pareva destinato a riaccendere le ceneri mai spente della virulenza politica, esito di un nazionalismo che imbeve ancora quei confini (per fortuna non è successo così). In un’altra Italia, quella che ignora l’esodo, la tournée di Magazzino 18 servirà a ripercorrere vicende su cui gli storici del ‘900 non sono ancora del tutto d’accordo, ma che testimoniano l’infinita malinconia insinuata sotto la pelle di chi, per il disegno politico dei grandi burattinai della Storia, ha dovuto abbandonare la propria casa e ha visto strappata la propria vita. Roberto Canziani
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nell’atemporalità, diventano quasi fantasmi dei suoi ricordi. Questo espediente di “teatro nel teatro”, che ritorna in altri passaggi di Officina, proietta lo spettatore nella finzione di una storia vera, annulla il rischio dello scivolone melodrammatico ed elimina o compromette il gioco dell’identificazione nel personaggio. Emergono le personalità dei protagonisti di questa epopea di fabbri, con i loro drammi, ansie, frustrazioni, ambizioni e illusioni nella sfera lavorativa e famigliare. E gli attori rispondono con una positiva prova corale, a partire da Andrea Castelli impegnato nel difficile ruolo di padre/padrone delle varie officine ad Angela Demattè, precisa e convincente, della figlia. Massimo Bertoldi
Hedda e i suoi uomini anime in divenire HEDDA GABLER, di Henrik Ibsen. Traduzione di Roberto Alonge. Regia di Antonio Calenda. Scene di Pier Paolo Bisleri. Costumi di Carla Teti. Luci di Nino Napoletano. Musiche di Germano Mazzocchetti. Con Manuela Mandracchia, Luciano Roman, Jacopo Venturiero, Simonetta Cartia, Federica Rosellini, Massimo Nicolini, Laura Piazza. Prod. Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, TRIESTE Compagnia Enfi Teatro, ROMA. IN TOURNÉE Ha ancora, Hedda Gabler, potere di attrazione sul pubblico di oggi? Lo ha rimesso alla prova con coraggio, cercando di ammodernarlo dove era possibile, Antonio Calenda con una attrice di forte temperamento drammatico come Manuela Mandracchia. Donna algida e altera Hedda Gabler, che sul lettino del dottor Freud avrebbe potuto trovare accoglienza (Calenda ne dà traccia in quei due canapè azzurri che appaiono nella astratta, ma efficace scena), è portatrice di una dolorosa esclusione dall’amore e dalla felicità. Sempre l’eterna scontenta Hedda, alla ricerca di un’identità e di un’affermazione. Gelida e altera si erge campionessa di difesa contro il maschio (ecco perché ha sposato un uomo debole, Jørgen Tesman, un pic-
colo studioso con la limitatezza dello specialista, che disistima e non ama, di cui non accetterà mai la supremazia). Una lotta continua la sua, da cui uscirà sconfitta. Il sigillo, una morte volontaria. Forse l’impresa di resuscitare questo famoso testo non è riuscita che in parte e però lo spettacolo, a giudicare dal pubblico, non manca di una sua presa. L’operazione, grazie anche alla chiara traduzione di Roberto Alonge (il maggiore studioso e sostenitore in casa nostra di Ibsen), è scrupolosa con quel suo qualcosa di didascalico e anche di grottesco. E supera la prova Manuela Mandracchia (qualcosa forse da correggere nella fonica) molto significante anche come immagine fisica. Possiede, la Mandracchia, i mezzi giusti per stabilirne l’arroventata personalità anche se in certi momenti sembra sfuggirle il tormento di questa Fedra moderna che è Hedda Gabler. A lei accanto, Jacopo Venturiero che, con bravura, schizza con tratti caricaturali il personaggio di Tesman, piuttosto al di sotto delle aspettative invece Luciano Roman (il viscido corteggiatore giudice Brack), Massimo Nicolini (nel ruolo dello scrittore Ejlert Løvborg, già antico amore che aveva affascinato la protagonista e non riesce a liberarsene), e ancora Simonetta Cartia, Federica Rosellini sicure nelle altre figure femminili. Domenico Rigotti Foto sotto: Manuela Mandracchia in Hedda Gabler (foto: Le Pera).
CRITICHE/EMILIA ROMAGNA
PRO & CONTRO Latella smonta Goldoni: Arlecchino servitore di tutti e di nessuno IL SERVITORE DI DUE PADRONI, da Carlo Goldoni. Drammaturgia di Ken Ponzio. Regia di Antonio Latella. Scene e costumi di Annelisa Zaccheria. Luci di Robert John Resteghini. Con Marco Cacciola, Federica Fracassi, Giovanni Franzoni, Roberto Latini, Annibale Pavone, Lucia Peraza Rios, Massimiliano Speziani, Rosario Tedesco, Elisabetta Valgoi. Prod. Emilia Romagna Teatro Fondazione, MODENA - Fondazione Teatro Metastasio di PRATO Teatro Stabile del Veneto, PADOVA. IN TOURNÉE
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he la commedia di Goldoni sia un pretesto per parlare d’altro lo si capisce fin dall’inizio, quando, da un’ambigua battuta del testo, tutta la vicenda si incardina sul presunto rapporto incestuoso tra Federigo Rasponi e la sorella Beatrice (Federica Fracassi) e sul fatto che lui in realtà non sia morto in duello bensì abbia preso l’identità di Arlecchino. Una rilettura tirata per i capelli? No, se si parte dal presupposto, chiarissimo, che il testo goldoniano sia una sorta di “pasta madre”, cioè un ingrediente fondamentale, ma di per sé “neutro”, con cui cucinare manicaretti molto diversi tra loro. E in questo Antonio Latella è uno chef stellato. Dimenticate quindi il sapore, ormai un po’ muffo, dell’Arlecchino del Veneziano e lasciatevi sopraffare dalle inquietanti atmosfere dell’hotel di Brighella (Massimiliano Speziani, sorta di regista in scena), quasi un quadro di Hopper prima e, poi, smontato il tutto a vista, dal fascino del palcoscenico nudo, lavagna finalmente sgombra dalle convenzioni di una tradizione che ha ancora qualcosa da dire solo nel momento in cui viene decostruita. In principio c’è l’idea di menzogna come motore immobile dell’evoluzione-involuzione umana su cui Latella sta lavorando da tempo (A.H. e Le benevole). Nello specifico c’è un Arlecchino che questa volta non è servitore di nessuno. È semmai colui che si serve degli altri, un’entità astratta che attraversa il tempo e lo spazio “nutrendosi” dei personaggi che lo circondano in un cortocircuito di polarità opposte (i “due” del titolo) destinate ad annullarsi reciprocamente: fratello/sorella, maschio/femmina, realtà/ finzione, etero/omo, tradizione/modernità ecc. Con le identità di tutti a traballare e a confondersi senza le maschere (Arlecchino in primis) o sotto le maschere, nei costumi di epoche diverse e nei molteplici registri linguistici. Menzogne e sortilegi di cui, alla fin fine, protagonista è il teatro stesso, un abito bianco come quello del burattinesco Arlecchino di Roberto Latini, che contiene in sé tutti i colori delle antinomie tra passato e presente. Un lavoro complesso e affascinante, quello di Latella, che gli attori tutti reggono con smagliante bravura. Claudia Cannella
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asta la parola. Come nel tormentone di una vecchia pubblicità, a volte basta una parola sola per ottenere clamorosi risultati. Ma non sempre attendibili. Antonio Latella e il suo drammaturgo Ken Ponzio trovano che una frase detta da Brighella, nella prima scena della commedia, apra “spiragli ambigui” sui personaggi. Beatrice Rasponi è «una zovene de spirito, de corazo; la se vestiva da omo, l’andava a cavallo, e lu (il fratello morto, Federigo Rasponi, ndr) el giera innamorà de sta so sorella Oh! Chi l’avesse mai dito!». Da qui il passo è breve: il morto non è morto, e Arlecchino non è davvero Arlecchino. Come in un horror elisabettiano, Beatrice e Arlecchino sono fratello e sorella. E non solo: sono anche amanti, incestuosi e clandestini. Basta la parola. Antonio Latella è l’esempio vivo della complicata transizione tra la regia del secondo ’900 e quella del secolo nuovo, il nostro. Da uno dei suoi maestri, Massimo Castri, ha appreso a scassinare i testi e a smascherare gli autori. Però il Servitore di Goldoni non è Così è (se vi pare), dove l’incesto è l’inconfessabile e doloroso segreto di quella famiglia. D’altra parte, in Latella, la fascinazione del presente e del distruttivo è altrettanto forte, come ha dimostrato facendo esplodere Via col vento (in Francamente me ne infischio). Così nel Servitore ci mette l’incesto e gli uomini con le gonne, e ci aggiunge Heiner Müller perché parla della maschera (però il tedesco intendeva la morte, maschera della rivoluzione, non della Commedia dell’Arte). Di passaggio cita Rigoletto, Arvo Pärt, e una canzonetta trash di Mina, e discute di creme idratanti per uomo e cover per l’iPhone. Non mancano «ci rivedremo a Filippi», «ambarabà cicicocò» e il menù del pranzo di Babette. Tutto lecito nel nostro secolo nuovo e citazionista. Ma non tutto buono a tener su una commedia. Che dopo due ore e mezza, lascia in bocca e negli occhi l’impressione di un Arcimboldo venuto su un po’ male, costruito, più che a forza di scelte, a suon di trovate. Così pure ci sta l’appassionato monologo della servetta, cameriera d’hotel, di colore, svagata, molto brava (Lucia Peraza Rios). Sì, ma è un altro spettacolo: La locandiera. Roberto Canziani
Se il racconto no-global diventa errore teatrale SOCIAL ERROR, drammaturgia di Tamas Turai e Julia Robert. Regia di Viktor Bodò. Scene e costumi di Juli Balazs. Luci di Tomas Banyai. Con Gabor Fabian, Karoly Hajduk, Péter Jancovics, Pal Karpati, Daniel Kiraly, Lote Koblicska, Nike Kurta, Kata Peto, Nora Rainer-Micsinyei, Zoltan Szabo e 5 attori del Teatro Due. Prod. Fondazione Teatro Due, Parma - National Theatre, Budapest e altri 4 partner internazionali. Quando non si è capito il gioco scenico - quello strettamente teatrale era fin troppo evidente e storicamente datato - può essere utile andare a leggersi le “note di regia” per scoprire la siderale distanza che emerge fra le parole scritte e quanto si è visto e ascoltato nel corso di quel frenetico salire e scendere dal palcoscenico nel tentativo, poco riuscito, di coinvolgere gli spettatori. Uno spazio scenico “aperto” pronto ad accogliere parole in libertà tratte dal repertorio classico della cultura antagonista anni ’70 ma deprivate del contesto politico e sociale di quegli anni, il richiamo ad alcune parole d’ordine tratte da 1984 di George Orwell non aiutano a collocare l’azione in un contesto drammaturgico chiaro e plausibile, che rimane molto confuso e incerto soprattutto nella dinamica fra il palcoscenico e la sala. Spettacolo di denuncia e d’anarchia che assume modalità sperimentali e multimediali abbondantemente acquisite mentre su uno schermo-fondale scorrono immagini di sommosse “no-global” e repressioni prese dai telegiornali di ogni angolo della terra che tuttavia non bastano ad accendere un minimo di interesse, o di indignazione, fra il pubblico, decisamente spiazzato da un “gioco” collettivo senza capo né coda: un reality show che ha bandito dal suo interno proprio quelle regole (definizione dei “ruoli”, concetto di “situazione”, contesto dell’“evento”) che sono alla base di qualsiasi rappresentazione. Tutti gli attori si danno un gran daffare a dare corpo e movimento a un progetto “nomadico, multilinguistico e multidisciplinare”, che qui appare semplicemente come un theatral error. Giuseppe Liotta
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CRITICHE/EMILIA ROMAGNA
Shakespeare a ritmo di boogie MOLTO RUMORE PER NULLA, di William Shakespeare. Regia di Walter Le Moli. Scene di Tiziano Santi. Costumi di Gianluca Falaschi. Luci di Claudio Coloretti. Con Nanni Tormen, Paolo Bocelli, Elisabetta Pozzi, Laura Cleri, Cristina Cattellani, Paola De Crescenzo, Paolo Serra, Massimiliano Sbarsi, Luca Nucera, Michele De Marchi, Francesco Gerardi, Gianluca Parma, Gigi Dall’Aglio, Massimiliano Sozzi, Sergio Filippa, Roberto Abbati. Prod. Fondazione Teatro Due, PARMA. IN TOURNÉE Le mille luci di New York, con un avvolgente fondale tutto stelle e strisce, e un'orchestra a vista con brillanti musiche suonate dal vivo, citando Fred Astaire e Glen Miller, inondano la scena della irresistibile magia di una commedia musicale hollywoodiana in cui il boogie woogie e il “jazz bianco” prendono il sopravvento sugli intrighi amorosi che diventano continua occasione di slittamento della vicenda verso modalità più cinematografiche che teatrali. Questo a scapito della doppia vicenda amorosa che vede coinvolti, in un duplice inganno, la giovane coppia di Ero e Claudio e quella più matura di Beatrice e Benedetto, ma che va a tutto vantaggio della caratterizzazione dei singoli personaggi. Elisabetta
Brennero Crash (foto: Matthias Heyde)
Pozzi/Beatrice, con una pipa in bocca (che diventa il suo segno scenico distintivo per l’intera rappresentazione) domina la prima parte dello spettacolo nel volere essere, con un forte senso dell’ironia, una Marlene Dietrich spigolosa e distante, asessuata, fino alla resa finale. Mentre nella seconda parte uno strepitoso Gigi Dall’Aglio/Dogberry, capo delle guardie notturne, si impossessa della scena che si trasforma quasi nel suo contrario e crea una serie irresistibile di gag, falsi movimenti, situazioni capovolte, reinventando e attingendo al repertorio classico della commedia dell’arte come a quello filmico della slapstick con semplicità, intelligenza e tempi comici perfetti, sottolineati dai continui applausi a scena aperta. Walter Le Moli riesce ad amministrare al meglio le forze attoriali e musicali di cui dispone, ma, tuttavia, non riesce a liberare lo spettacolo da quell’eccesso di bizzarria, di disinvoltura recitativa, di spregiudicatezza registica che lo ispira e, comunque, sostiene. Giuseppe Liotta
È un odierno finanziere lo Shylock di Rifici SHYLOCK, di Camilla Ferro, da Il Mercante di Venezia di W. Shakespeare. Regia di Carmelo Rifici. Scene di Mario Fontanini. Costumi di Marzia Paparini. Luci di Luca Bronzo. Con Paolo Serra. Prod. Fondazione Teatro Due, PARMA.
La scena è invasa da un’elegantissima stanza/studio a due passi dalle poche file di posti, situate a ridosso dell’azione scenica e riservate agli spettatori nella sorprendente riduzione di Camilla Ferro del testo shakespeariano, tutta centrata sulla figura di Shylock. L’usuraio ebreo beffato dalla sua stessa malvagità, qui divenuto uno spregiudicato finanziere dei nostri giorni, a cui Bassanio chiede del denaro di cui si fa garante il nobile e bello Antonio: il mercante di Venezia odiato da Shylock perché presta soldi gratuitamente facendo così abbassare i tassi d’interesse. Il nuovo testo, che ha tutte le caratteristiche di un copione originale, rappresenta una vicenda sostanzialmente simmetrica al racconto shakespeariano ma ritagliata soprattutto sulle relazioni economiche e gli intrighi di potere di un affabile e carognesco esponente dell’alta finanza che trascorre la sua giornata in ufficio fra computer, calcolatrici, fax, contratti da perfezionare, dialoghi al telefono con i pochi altri personaggi della “sua” storia - avvocati, notai, giudici - come per sfuggire all’isolamento in cui la sua natura maligna lo costringe a vivere, confortato soltanto dalla fotografia della figlia Jessica sul tavolo, e dalle attenzioni verso una pianta che cura amorevolmente. Ma la conclusione della storia è già scritta: nel breve volgere di una giornata quella stessa stanza diventa alla fine per lui una trappola mortale dalla quale non riesce a sfuggire. Bravissimo Paolo Serra ad assecondare i livori e le perfidie del suo personaggio, riservando i suoi “a parte” a un piccolo registratore. La regia di Carmelo Rifici parte da un’attenta cura dei dettagli scenici e di movimento per arrivare a definire un insieme rappresentativo di efficace e tagliente modernità, molto cinematografico. Giuseppe Liotta
Il crash espressionista di Balletto Civile BRENNERO CRASH, di Alessandro Berti. Regia e coreografia di Michela Lucenti. Dramaturg Bernhard Glocksin. Musiche di Mauro Montalbetti. Luci di Luca Bronzo. Con Thorbjorn
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Bjornsson, Noga-Sarai Burckstein, Maurizio Camilli, Andrea Capaldi, Massimiliano Frascà, Panagiotis Iliopoulos, Michela Lucenti, Gianluca Pezzino, Timofey Sattarov, Emanuela Serra. Prod. Fondazione Teatro Due, PARMA - Neuköllner Oper, KÖLN - Balletto Civile, PARMA. Nel disordine innaturale delle cose basta poco perché la realtà fisica, senza perdere nulla della sua consistenza materiale, venga trascinata in un “non-luogo” immateriale e sensibile in cui il tempo, vero principio ordinatore degli eventi della vita, non esiste più, mentre si impone una cronologia dei fatti accaduti dettata essenzialmente da un accadere scenico fatto di brandelli di memorie. Una rigorosa geometria delle emozioni, civili, politiche, amorose, come se quello scontro fra le due macchine non fosse mai accaduto ed esistesse ancora la possibilità di progettare un possibile futuro a quelle “anime perse”: la coppia gay diretta a Berlino per le festività pasquali e quel trio di musicisti tedeschi multietnico (un russo, un islandese e un israeliano) che avevano anche dato un passaggio a una giovane autostoppista. Michela Lucenti è bravissima a definire e circostanziare una realtà teatrale parallela a quel tragico scontro fino a farla diventare un suo perfetto ossimoro scenico. Siamo dalle parti di un immaginario espressionista alla Wedekind declinato nelle forme di un teatro fisico, con godibili momenti di cabaret metafisico, in cui danza, parola e movimento convergono in una rappresentazione di forte intensità. L’ultima creazione di Michela Lucenti diventa così un ulteriore passo in avanti nella linea di quella ricerca che la sta portando ad accentuare quell’idea di rappresentazione “totale” in cui parola, danza, recitazione e musica appartengono, dal punto di vista del linguaggio, a una stessa partitura teatrale, che in questo spettacolo rimanda anche alla leggerezza dei film musicali di Gene Kelly, Brigadoon in particolare, e che trova nella scelta dei costumi, del disegno luci, degli oggetti di scena plurifunzionali, di quel violino/fisarmonica, come del pianoforte giocattolo, una piena e completa armonia stilistica e unità di intenti coreografici e registici. Giuseppe Liotta
CRITICHE/EMILIA ROMAGNA
Cardillo va nel panico ma è il mestiere d’attore
Dal racconto alla scena il Gogol’ di Franceschi
LA DERIVA, di Maurizio Cardillo. Regia di Elena Bucci e Maurizio Cardillo. Suono di Alessandro Saviozzi. Luci di Elena Bucci. Con Maurizio Cardillo. Prod. Arena del Sole Nuova Scena Teatro Stabile di BOLOGNA - Compagnia Cardillo e Associazione Culturale Le Belle Bandiere, BOLOGNA.
IL CAPPOTTO, di Vittorio Franceschi, dall’omonimo racconto di Gogol’. Regia di Alessandro D’Alatri. Scene di Matteo Soltanto. Costumi di Elena Dal Pozzo. Luci di Paolo Mazzi. Con Vittorio Franceschi, Umberto Bortolani, Marina Pitta, Andrea Lupo, Federica Fabiani, Matteo Alì, Giuliano Brunazzi, Alessio Genchi, Valentina Grasso. Prod. Arena del Sole Nuova Scena Teatro Stabile di BOLOGNA.
La passione teatrale secondo Maurizio Cardillo, attore fra i più schivi, colti e preparati di quella generazione di mezzo stretta fra tradizione e avanguardia, può essere qualcosa di molto vicino a uno stato di nevrosi, o di depressione costante con la quale l’attore deve spesso fare i conti nel corso del suo lavoro, e che può raggiungere momenti di autentico panico all’inizio di una recita, proprio nel momento dell’andata in scena. Parte da questa dolorosa constatazione del mestiere d’attore, senza riuscire a farci scoprire quanto di autobiografico contiene, lo straordinario testo scritto dello stesso Cardillo, che intende essere anche un omaggio a Giuseppe Berto dai cui romanzi e dalla cui biografia artistica trae più di una suggestione letteraria: il conflitto con il padre, l’amore per il teatro, l’inarrestabile flusso del pensiero che si fa racconto, il male “oscuro” e la malattia vera come situazioni ineludibili dell’esistenza. E Cardillo stesso è molto bravo a costruire un percorso di narrazione fatto di continue interferenze psicologiche, di memoria, di fatti realmente accaduti, dettati da una coscienza febbrile, inquieta, inappagata, rabbiosa e vendicativa, ma che si ferma un attimo prima di raggiungere il punto di non ritorno. Come attore riesce a dare corpo e anima a quei pensieri maledetti che lo inseguono implacabilmente, e che trovano nell’impossibile andata in scena nel ruolo di Amleto il loro più giusto inizio ed epilogo. L’esito complessivo è un drammatico monologo/soliloquio fatto di ineffabile sarcasmo, ma, in molti tratti, pieno di umorismo e di comicità, a cui il contributo registico di Elena Bucci riesce a dare, anche col sapiente movimento delle luci, una sottile aria di mistero e una resa scenica immediata dei tormenti interiori («se mi scordassi tutto!»), autentici, o teatralmente presunti, del protagonista. Giuseppe Liotta
IN TOURNÉE Non vi è «piacevole trattenimento» nella vicenda del copista di ministero Akakij Akakevic’, diligente e scrupoloso protagonista del racconto Il cappotto, bersagliato dai colleghi per questo suo eccesso di modeste doti. Non vi è «piacevole trattenimento» neppure nel sogno, divenuto l’ossessione della sua misera vita e finalmente realizzato, di farsi fare un cappotto nuovo. Vittorio Franceschi tale impoetica e feroce “normalità” ha provato a coglierla in tutto il suo tragicomico realismo nella riscrittura, agita anche in veste di eccellente interprete nel ruolo principale. Intorno a questo personaggio ha lasciato intravedere in filigrana l’azione congiunta del fato e della società, perché non avesse eccessivi desideri e non uscisse dal suo stato: un “meschino” nel senso antico del termine, cioè “schiacciato dal destino”. Rispetto al testo primigenio, ha aggiunto - con misurata densità - nuovi dialoghi, sottraendo l’elemento fantastico-grottesco dell’appendice post-mortem di Akakij Akakevic’. Egli è già in vita un «uomo invisibile». Svanisce, quindi, la presenza fantasmatica che semina terrore per le strade di San Pietroburgo (che nella suggestiva scenografia di Matteo Soltanto assurge a luogo dell’immaginazione, un dentro/fuori senza soluzione di continuità). Al suo posto prende corpo la figura di Polkàn, il poeta ubriaco (Giuliano Brunazzi), acuto osservatore del suo tempo, a ricucire quello “strappo” tra il qui e l’altrove, tra il mondo delle idee (la filosofia) e l’universo tangibile. L’estrema fluidità drammaturgica, in armonico accordo con il limpido imprinting registico e interpretativo, non lasciano, però, troppo margine di errore. E i due atti scivolano via come limpida vodka ghiacciata. Francesco Urbano
LENZ/PARMA
Se I promessi sposi illuminano il presente I PROMESSI SPOSI, drammaturgia di Francesco Pititto. Regia, installazione e costumi di Maria Federica Maestri. Luci di Gianluca Bergamini, Nicolò Fornasini. Musica di Andrea Azzali-Monophon. Con Valentina Barbarini, Franz Berzieri, Monica Bianchi, Giovanni Carnevale, Carlo Destro, Paolo Maccini, Roberto Riseri, Delfina Rivieri, Vincenzo Salemi, Elena Sorbi, Carlotta Spaggiari, Barbara Voghera. Prod. Lenz Rifrazioni, Parma. FESTIVAL NATURA DÉI TEATRI # 18, PARMA. Manzoni nostro contemporaneo? Quanti studenti riderebbero a una simile ipotesi. Eppure se ci si addentra ne I promessi sposi abbandonando idiosincrasie e noiose nozioni scolastiche, si possono riconoscere insospettate illuminazioni e riflessioni sullo stato dell’umanità del ventunesimo secolo. Un itinerario che Francesco Pititto e Federica Maestri hanno compiuto accompagnati, oltre che dagli storici performer di Lenz, da un nutrito gruppo di attori “sensibili”, ossia ex lungodegenti psichici e persone con disabilità intellettiva. Una comitiva eterogenea, dunque, ma compatta nell’interrogare un’opera e il suo autore, in una sorta di incalzante brainstorming collettivo che consente di riconoscere inediti ma lampanti parallelismi fra l’assalto ai forni di Milano e la discesa in piazza dei troppi cassaintegrati di oggi; l’addio ai luoghi natali e il minacciato sfratto da uno spazio teatrale vivo e pulsante; il candido amore fra Renzo e Lucia e il legittimo desiderio di tante coppie di vivere insieme. Meditazioni e suggestioni armoniosamente interpolate al testo del romanzo, a sua volta smontato e rimontato, con cura e ineccepibile fedeltà. Un lavoro drammaturgico in ventiquattro scene, agite all’interno di uno spazio articolato e suggestivo: sei “stanze luminose”, collegate l’una all’altra da tende semitrasparenti. Il pubblico si muove liberamente attorno a questo spazio, magari sostando di fronte al luogo in cui è in corso l’azione oppure fissando le proiezioni sugli schermi posti in alto in ognuna delle stanze. Queste, occupate da nudi materassi, rimandano certo al lazzaretto ma ribadiscono anche, con discreta ma dirompente potenza, la prospettiva scelta da Manzoni e fatta propria dalla compagnia parmense: raccontare la storia con gli occhi degli ultimi. Un’azione che, quando è compiuta senza paternalismo bensì con sincera convinzione, può portare a uno spettacolo denso di emozioni e di pensieri come questo: una generosa rivolta contro tutte le ingiustizie che le musiche, ispirate al Requiem di Verdi – composto proprio per Manzoni – amplificano con struggente impeto etico. Laura Bevione I promessi sposi (foto: Francesco Pititto).
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CRITICHE/EMILIA ROMAGNA
REGIA DI LATINI
Pinocchio danza sul mondo di Ubu uno sguardo da clown tra purezza e orrore UBU ROI, di Alfred Jarry. Adattamento e regia di Roberto Latini. Scene di Luca Baldini. Costumi di Marion D’Amburgo. Luci di Max Mugnai. Musiche e suoni di Gianluca Misiti. Con Roberto Latini, Savino Paparella, Ciro Masella, Sebastian Barbalan, Marco Jackson Vergani, Lorenzo Berti, Simone Perinelli, Fabio Bellitti. Prod. Fortebraccio Teatro, BOLOGNA - Teatro Metastasio Stabile della Toscana, PRATO. IN TOURNÉE È successo di rado negli ultimi tempi. Di trovare un’immagine teatrale forte come il Pinocchio di Roberto Latini. Una forza in grado di trasformarsi in stupore estetico e poesia, in forma e sostanza. Incarnando una sorta di purezza altra (fanciulla?) che osserva l’uomo e i suoi incubi. I bambini ci guardano. O qualcosa del genere. Perché è il dramma della condizione umana il cuore di questo splendido Ubu Roi, Jarry e le sue follie (o)sceniche sporcate da parecchi frammenti shakesperiani e citazioni a piene mani. Sovrabbondanza. Ma ottima la gestione dello spazio e teso il ritmo, ben alimentato da un cast in cui svetta Ciro Masella nei panni di Madre Ubu. Si conoscono i riferimenti di Latini, primo fra tutti quel Carmelo Bene la cui eredità pare si possa affrontare solo a piccoli morsi. E che qui (nuovamente) è voce, amplificazione, carisma. Ma nell’Ubu Roi Latini va oltre l’abitudine. E raggiunge una maturità che spiazza per la sicurezza con cui gestisce ogni aspetto di una rilettura ambiziosa e personalissima. Attraverso un ventaglio di grammatiche e toni. Dal silenzio ai “pieni” più caotici (quasi circensi), dai movimenti scenici ai tableau vivant, ai simboli, alle danze. Come l’emozionante assolo del Pinocchio Latini, un girare su sé stesso e sul mondo. Ed è pelle d’oca. O le carneficine belliche rese con un telo rosso e un fiume di immaginazione che neanche in Shining. O ancora, un monopattino che pare una coreografia, la morte resa con una poesia, l’incipit o quel potere racchiuso in un ritratto scemo, dentro una cornice vuota. E valore aggiunto sono musiche e suoni di Gianluca Misiti. C’è molto. Moltissimo. A volte troppo. Perché la sovrabbondanza si paga in un finale che perde compostezza ed equilibrio. Che improvvisamente intreccia i fili e s’indebolisce. Peccato. Ma fosse solo per la prima altissima mezz’ora, è un lavoro che va visto e che va ripreso. Mentre preoccupanti appaiono le difficoltà distributive che ne hanno ostacolato la circuitazione. Ennesima disattenzione di un sistema teatrale che troppo spesso segue altre logiche, altre urgenze. Se così si può dire. Diego Vincenti
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L’epica del naufragio la Guidi racconta Conrad
Alla scoperta di Vyrypaev dalla Siberia a Cesena
TIFONE, liberamente tratto da Joseph Conrad. Adattamento e regia di Chiara Guidi. Musiche originali di Fabrizio Ottaviucci. Con Chiara Guidi e Fabrizio Ottaviucci. Prod. Socìetas Raffaello Sanzio, Cesena. FESTIVAL MANTICA, CESENA.
CANTIERE VYRYPAEV (Genesi n.2, Illusioni, Ufo),a cura di Teodoro Bonci Del Bene. Con Nicoletta Fabbri, Dany Greggio, Tomas Leardini, Silvio Castiglioni. Prod. L’arboreto, Teatro Dimora, MONDAINO (Re) e Associazione culturale Big Action Money, RIMINI.
IN TOURNÉE Al centro della scena, in mezzo ai due interpreti, c’è una grande bilancia meccanica, a ricordare un timone, o forse una bussola: strumenti utili ad attraversare la vicenda marinara di Tifone. È la storia di MacWhirr, al comando della nave a vapore Nan-Shan. Con un carico di cinesi stipati nella stiva, con braccia e gambe all’aria, il capitano rifiuta di cambiare rotta per evitare un tifone tropicale: «Il centro del tifone dov’è?», si chiede testardo. Il lungo racconto che Joseph Conrad inizia a scrivere nel 1899 è qui adattato, trasposto sul pentagramma ed eseguito con precisa maestria da Chiara Guidi, che con la voce fa capriole, salti e variazioni da capogiro, e dal pianoforte di Fabrizio Ottaviucci, in cui echeggiano i molto amati John Cage e Giacinto Scelsi. In Tifone della Socìetas Raffaello Sanzio la tecnica vocale millimetrica, “molecolare”, è messa al servizio di un “salto sul posto”, il testo viene usato come un trampolino per rimandare al puro accadere: una complessa, multiforme architettura del qui e ora. È un po’ come se sui pentagrammi di Guidi e Ottaviucci le note e le parole apparissero un attimo prima di essere eseguite e scomparissero subito dopo, in una costruzione fragilissima, pur nella grande solidità, istantanea nella durata. Lo spettatore, mentre viene trasportato sulla scalcinata nave a vapore di MacWhirr, “si guarda guardare” il preciso presente. E sperimenta la soddisfazione antica di ascoltare una storia appassionante, avventurosa, a suo modo “epica”. Tifone è un affascinante, prezioso tentativo di recupero della pura oralità in scena: una sorta di “teatro dell’ascolto”, che starebbe molto bene trasmesso per via radiofonica, o che sarebbe interessante ascoltare bendati. Pura materia sonora, che passa e va. Michele Pascarella
Attenti a quel nome. Vyrypaev. Ivan, detto Vanja. Attore, regista, drammaturgo, sceneggiatore: un piccolo fenomeno che ha raggiunto solo di striscio il nostro pubblico, ma in Russia, sua patria d’origine, in Francia, in Inghilterra è già una celebrità. Nasce nel 1974 a Irkutsk, nella profonda Siberia, comincia come attore, ma subito è attratto dalla scrittura: i primi testi scandalizzano la sonnolenta cittadina siberiana, le istituzioni non gli danno credito, si trasferisce a Mosca, entra nel circuito del teatro underground e si fa subito una solida fama di intelligente innovatore. Cantine, minuscole sale da una cinquantina di posti, ma la critica si accorge di lui, prende premi, suscita scalpore. Con due testi, da lui scritti e interpretati, arriva al Festival di Avignone nel 2007 ed è subito un successo internazionale. Lo attira anche il cinema: nel 2006 presenta a Venezia Euforija e si prende il Leone d’oro giovani come miglior promessa. Teodoro Bonci Del Bene ha organizzato a Rimini due giorni di studio e di spettacoli dedicati a Vyrypaev: non solo ha proiettato tutti i suoi film (a tutt’oggi sono cinque) ma ha presentato due dei testi più tradotti e rappresentati all’estero, Genesi n.2, audace rilettura del testo biblico (con Nicoletta Fabbri, Dany Greggio, Tomas Leardini) e Illusioni, confessione incrociata di due coppie che si dichiarano imperituro amore ma in realtà si sono traditi allegramente tutta la vita. Il secondo giorno, in chiusura, Silvio Castiglioni ha letto, con straordinaria intensità, qualche frammento di Ufo, che raccoglie interviste, naturalmente inventate, di persone che hanno incontrato (o credono di averlo fatto) extraterrestri e ne sono stati profondamente turbati, tanto da cambiare modo di vivere, di rapportarsi agli altri. Un cantiere, quello organizzato da Bonci Del Bene, molto stimolante: intorno a Vyrypaev val davvero la pena di costruire qualcosa di più di un isolato seminario. Fausto Malcovati
CRITICHE/TOSCANA
Intercity, lente d’ingrandimento su Norvegia, Olanda e Regno Unito
Faust, da Goethe a Freddie Mercury
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Dentro quel contenitore di emergenze contemporanee che è il Festival Zoom di Scandicci, e che, in questa ottava edizione, articolava le sue motivazioni sotto l’egida del titolo tematico Chilometrozero, il lavoro di Iacopo Braca ci fa riflettere sull’affermarsi della modalità di un’area tutta generazionale della scena italiana, la quale si situa come spartiacque fra l’orizzonte delle scritture e la componente più immaginifica. Braca sembra collocarsi in quel cuneo che separa due campi d’indagine estetica e mette in risalto il paradosso del teatro come contest del tempo in cui viviamo. È il suo debutto come autoreregista con, alle spalle, una seppur breve ma corposa notorietà in quanto fondatore e protagonista, per un certo tempo, di Teatro Sotterraneo. Lo fa col coraggio del neofita e la capacità di colui che le materie le conosce e le sa “imbastire”. Lo fa ricordandosi che il comico è territorio nobile. E oggi è già in un altrove che inevitabilmente trova risacche di uno scompiglio linguistico tanto caro al gruppo d’origine fiorentino. Ma il suo Faust_Prologo denota una mano certa, per nulla indecisa nell’avventurarsi a catturare una frastagliata locuzione di senso, che sia visiva o sonora o testuale, questa ultima sorprendentemente lirica e dolorosa nelle sinapsi che vuole attivare nello spettatore. C’è Sisifo che entra col suo peso impossibile, le parole monologanti dirette allo spettatore nell’elencare le innumerevoli figure faustiane o dalla penna di Goethe derivate, la scomposizione di uno spazio scenico sempre deviante e mai cornice di un ambiente preciso, la ferocia della poesia di Pasolini, l’overdose di immagini che si susseguono in video in un mash-up in omaggio a Freddie Mercury, mimato nella hit Under pressure. Tutto serve a rimandare agli sconcerti comunicativi, alle perversioni generaliste, alla retorica populista. Paolo Ruffini
a abbandonato, ormai, il modello di un focus sulla produzione teatrale e drammaturgica di una città e di un Paese stranieri il Festival Intercity di Sesto Fiorentino, per puntare invece su un mix di proposte legate a nazioni diverse. Così l’edizione 2013 è stata dedicata a Norvegia, Gran Bretagna e Olanda, con ospitalità (poche) di gruppi e allestimenti in italiano - produzioni del Festival - di testi di nuova drammaturgia straniera. Intercity vive da tempo edizioni di pura sopravvivenza; ci si chiede che senso abbia offrire programmi e cartelloni tanto “in economia”, se non nell’ottica di una resistenza culturale. Tra gli ospiti stranieri di questo ventiseiesimo anno, di indubbio valore la presenza dei due olandesi Leon de Waal e Marije Op t’Eijnde, anche se il loro spettacolo Breaknight era davvero una piccola cosa. In cui, comunque, entrambi hanno avuto modo di mettere in mostra una personalità teatrale a suo agio sia nella leggerezza di un semplice “divertimento”, sia alle prese con intonazioni più serie ed esistenziali. Deludente, invece, lo spettacolo di teatrodanza della norvegese Jo Strømgren Company A tribute to the art of football, soprattutto in confronto con gli altri due lavori presentati in passato dalla stessa formazione a Intercity, il similare (ma più incisivo e drammaturgicamente efficace) A tribute to Ping Pong e il drammatico e vibrante The writer. Tra gli allestimenti, in italiano, invece, spicca certamente il Vilde della norvegese Tale Naess, messo in scena e interpretato - con il solo aiuto del “paesaggio sonoro” elettronico non
registrato di Alessio Riccio - da un’ottima Silvia Guidi. Pur confermando la sua predilezione oramai quasi esclusiva per testi estremi, la Guidi mostra qui ancora una volta la sua alta qualità di attrice nello sbalzare, con crudezza, con spogli quanto efficaci mezzi espressivi e con grande intensità, un ritratto assolutamente patologico di donna che dal sogno dell’incesto passa, quasi naturalmente, all’assassinio. Dall’Irlanda arrivava, invece, End of desire, di David Ireland, di cui Dimitri Milopulos - direttore artistico di Intercity - firma regia, scene, costumi e luci. Un testo la cui forte carica corrosiva e grottesca non sembra emergere appieno nell’interpretazione solo ironica e quasi tenera, a tratti, del duo Monica Bauco-Daniele Bonaiuti (manca, ci sembra, l’atmosfera di sensualità che ci si aspetterebbe alla fine di un rapporto sessuale frutto di un contatto via web). Eccesso di grottesco, al contrario, di voluta, esacerbata sgradevolezza nella messa in scena graffiante di Virginia Martini de L’eredità della norvegese Gyrid Axe Øvsteng, gioco al massacro a tre tra fratelli su sfondo edipico - è appena morta la madre - affidato agli attori Riccardo Naldini (il migliore), Antonio Bertusi e Matteo Procuranti. Interessante, poi, per un senso di disagio sempre più inquietante, il delirio metropolitano di coppia del gallese Brad Birch Anche la quiete respira piano contro un muro di mattoni, affrontato con accortezza e buon risultato da Michele Panella (anche regista) e Daniela D’Argenio. Francesco Tei Nella foto, una scena di Breaknight.
FAUST_PROLOGO, di Iacopo Braca. Drammaturgia di Filippo Paolasini e Alessio Martinoli. Regia di Iacopo Braca. Scene e costumi di Giulia Marini. Con Filippo Paolasini, Alessio Martinoli, Ilaria dalle Donne. Prod. Inteatro, Polverigi (An). ZOOM FESTIVAL, SCANDICCI (Fi).
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CRITICHE/TOSCANA
L’impresario delle Smirne (foto: Francesca Pagliai)
Tra buio e luce il Lenz di Morganti MIT LENZ, dalla novella incompiuta di Georg Büchner. Ideazione e regia di Claudio Morganti. Luci di Roberto Innocenti. Con Claudio Morganti e Antonio Perrone. Prod. Claudio Morganti - Teatro Metastasio Stabile della Toscana, Prato. CONTEMPORANEA FESTIVAL, PRATO. Al Contemporanea Festival del Metastasio di Prato Morganti presenta questo memorabile, grandioso frammento di teatro in un disastrato e buio sotterraneo dell’ex Istituto Magnolfi. Ma è solo un elemento di efficacia e di suggestione in più per uno spettacolo in cui si riassume, forse, una vita intera di creazione nel teatro, di avventure e percorsi personali. Così come in quest’ora, poco più, di teatro decisamente atipico si riassume, si può dire, tutto un mondo. Nello spettacolo, e nel capolavoro letterario di Büchner, si incontrano, infatti, tutti i temi cruciali, la vita e la morte, l’arte, la follia, la fede, l’assoluto e il Nulla. È come se nella vicenda di Lenz, il poeta pazzo e vagabondo, preda di deliri di smarrimento mentale e di misticismo, si rispecchiasse in termini cupi e ossessivi («perché Lenz è più buio che luce», dice Morganti all’inizio) tutto l’orizzonte umano nei suoi aspetti che veramente contano, tragicamente essenziali e fondanti. Il testo narrativo e la sua restituzione teatra-
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le - lettura o recitazione che diventano evocazione e soprattutto un’atmosfera scenica di s traor dinaria incisività e di emozionante presa - sono allo stesso livello di potenza visionaria e di vertiginosa profondità poetica e di pensiero. E se Morganti, nel suo personaggio, bilancia - comunque magistralmente - toni molto distanti, con parentesi ironiche improvvise che sono prese di distanza da ogni immedesimazione e partecipazione “seria”, al drammatico, patologico, doloroso destino di Lenz dà corpo, volto e presenza di forza eccezionale Antonio Perrone. Un giovane attore che è impossibile dimenticare. Francesco Tei
Smirne, il sogno esotico si infrange nella realtà L’IMPRESARIO DELLE SMIRNE, di Carlo Goldoni. Adattamento e regia di Roberto Valerio. Scene di Giorgio Gori. Costumi di Lucia Mariani. Luci di Emiliano Pona. Con Valentina Sperlì, Roberto Valerio, Antonino Iuorio, Nicola Rignanese, Massimo Grigò, Federica Bern, Alessandro Federico, Chiara Degani, Peter Weyel. Prod. Associazione Teatrale Pistoiese/Valzer srl, PISTOIA. IN TOURNÉE Pare scritta oggi L’impresario delle Smirne, con tutti i problemi di gestione di una compagnia in cui ogni attrice vuole essere la prima donna, i soldi non sono mai abbastanza e ci si affida alla speranza di una importante tour-
née in un paese esotico. Fra locandine sbiadite appese alle pareti, una compagnia di comici scalcinati mostra le difficoltà nel cercare una scrittura redditizia. L’idea del regista e attore Roberto Valerio è di ambientare la commedia in un’epoca non definibile, con costumi che alternano abiti eleganti, anche se rovinati, alla tenuta sadomaso dell’attrice giovane. Intrigante Roberto Valerio nel ruolo del capocomico che regge le sorti dei suoi attori, come se fossero burattini, e gode dei favori delle sue attrici: è solo lui, come ogni persona di potere, che, alla fine, ci guadagna quando la compagnia rimane desolata sul molo ad aspettare invano l’arrivo della nave per l’Oriente. Gli attori mostrano complicità e ironia nell’interagire fra loro, tra scaramucce e false alleanze, poco dopo interrotte dalla volontà di arricchirsi ed emergere gli uni sugli altri. Nicola Rignanese trasforma il suo impresario in una macchietta: dopo la prima apparizione sul fondo del palcoscenico, mentre si dondola sull’altalena richiamando il felliniano sceicco bianco, diviene un cialtrone pronto a tutto, parla una sua lingua non sempre comprensibile, cercando di cogliere il meglio dalle situazioni. Le tre attrici, Valentina Sperlì, Federica Bern, Chiara Degani, mostrano vivacità nelle reciproche ripicche e bravura nei provini improvvisati per conquistare l’impresario e per differenziarsi. Tuttavia, tra un sorriso e una risata, emerge anche la malinconia dei grotteschi comici pensati da Goldoni tre secoli fa, ma ancora molto attuali. Albarosa Camaldo
Uomini e lupi insieme nella favola di Pennac L’OCCHIO DEL LUPO, dal romanzo omonimo di Daniel Pennac, adattamento di Laurent Berger e Daniel Pennac. Regia di Clara Bauer. Scene, costumi e luci di Oria Puppo. Musiche di Jean-Jacques Lemetre. Con Vincent Berger e Habib Dembelè. Prod. Compagnie Mia, PARIGI - Centro Il Funaro, PISTOIA - Laila, NAPOLI. IN TOURNÉE Il romanzo di Pennac è un’occasione per evocare e portare sulla scena un mondo, un’avventura umana e morale,
una catena senza fine di personaggi, uomini e animali, e di orizzonti geografici. In due, con pochi e semplici mezzi scenici, i bravissimi Vincent Berger e Habib Dembelè riescono a rappresentare, sia pure simbolicamente, un viaggio senza confini, attraverso tanti destini e tre continenti, trasformando anche loro stessi – aspetto, voce e corpo – in personaggi sempre diversi e numerosissimi. C’è un’aria molto “alla Peter Brook” (con il quale ha lavorato a lungo Habib Dembelè), in palcoscenico, nel linguaggio teatrale essenziale, comunque abile inventato per questa fedele “traduzione” scenica. La regista Clara Bauer è riuscita nel compito di mostrare come L’occhio del lupo non sia una storia solo per ragazzi, ma che possa in tutta evidenza comunicare qualcosa di profondo ed emozionante anche allo spettatore adulto. Qualche minimo taglio non guasterebbe in uno spettacolo che la lettura dei sopratitoli rende inevitabilmente faticoso. Ma i contenuti, anche puramente teatrali, di questa creazione della Compagnia Mia sono tali da lasciare un segno. Come quando si sottolinea la differenza tra recitare ed “essere” (nel senso di restituire con maggiore autenticità e profondità una realtà vissuta, al di là di ogni capacità tecnica e attorale) e persino nei momenti in cui l’irrompere del “teatro nel teatro” interrompe il corso della vicenda. Tra spettacolo di narrazione e rappresentazione, L’occhio del lupo ci fa credere, facendocela “sentire” con il cuore, a questa parabola dai mille risvolti tutti essenziali e umanamente significativi, ai suoi personaggi e alle loro anime. Facendo capire come il mondo meriti di essere visto con gli occhi di entrambi, lupo e Africa, il suo giovane amico. Francesco Tei
Solo i cani abbaiano ai cattivi MISTERMAN, di Enda Walsh. Traduzione di Lucia Franchi. Regia di Luca Ricci. Scene di Katia Titolo. Musiche di Antonello Lanteri. Con Alessandro Roja. Prod. Litta produzioni, MILANO - Pierfrancesco Pisani-Compagnia Capotrave, SANSEPOLCRO (Ar). IN TOURNÉE
CRITICHE/TOSCANA
È un viaggio al confine tra bene e male, convinzione e ossessione. In un attimo puoi scivolare dall’altra par te e perder ti. Come accade a Thomas Magill in Misterman di Enda Walsh, che la Compagnia Capotrave mette in scena nella versione trasformata in un monologo dallo stesso autore. Il giovane “toccato” da Dio, che osserva e giudica i suoi concittadini di Innisfree, annotandone i cattivi comportamenti su un quaderno nero, vuole essere strumento di Dio, un crociato che porta purezza e amore dove c’è corruzione, anche se non ci lascia nemmeno intuire “come” intenda farlo. Basta infatti un cane che abbaia troppo insistentemente, un “no” di colei che era apparsa a Thomas come un angelo dalle ali luminose, per far scattare l’interruttore che separa la luce dalle tenebre trasformando un uomo in assassino. C’è una partitura sonora ad accompagnare l’assolo di Alessandro Roja in questo potente testo a cui Luca Ricci sottrae tutto il naturalismo possibile, per concentrare l’azione nello spazio chiuso della mente di Thomas, dove vediamo intessersi anche le sue relazioni. Gli altri personaggi vengono infatti solo evocati dalle sue imitazioni e dalla loro voce registrata su un magnetofono (e sono fra le altre le voci di Daria Deflorian, Veronica Cruciani) che ossessivamente Thomas aziona, novello Krapp. I suoni riproducono ambienti, situazioni, dialoghi che sembrano già vissuti e dei quali, forse, egli cerca un senso, nella reiterazione continua. Ma il confine tra la sua realtà mentale e quella oggettiva è labile e sempre sfumato. E lo spettacolo lascia più domande che risposte. Perché nessuno si è accorto di nulla? Qualcuno poteva fare qualcosa per lui? Alessandro Roja, formazione ed esperienze cinematografiche, si lascia guidare dal personaggio, dandogli sfumature di intensa espressività, senza nulla togliere all’ambigua miscela di pietà e orrore che è la sua verità profonda. Rinchiude gli spettatori nello spazio angusto in cui si nasconde Thomas, che facilmente si sovrappone a quello oscuro della sua mente, fino all’epilogo in cui al pubblico chiede di identificarsi con gli innocenti e colpevoli cittadini di Innisfree. Ilaria Angelone
Quando Il gabbiano è in vacanza GABBIANO, Ovvero dell’amar per noia, farsaccia tragicomicofamiliare su gente in vacanza, da Anton Cechov. Adattamento e regia di Woody Neri. Con Woody Neri, Stefania Medri, Marta Pizzigallo, Massimo Boncompagni, Loris Dogana, Gioia Salvatori, Liliana Laera, Mimmo Padrone. Prod. Compagnia Vanaclù/ Teatro di ANGHIARI (Ar). IN TOURNÉE Riscrittura? Revisone critica? Così la definisce Woody Neri, autore, oltre che regista e interprete, di questo “dis-adattamento” del Gabbiano di Cechov. Sottotitolo: farsaccia tragicomico-familiare su gente in vacanza. Infatti in scena ci sono sdraio, ombrelloni, pinne, braccioli, gli attori sono in costume da bagno, il lago, che in Cechov fa da magico sfondo al primo atto, è una piscinetta gonfiabile multicolore, dove Nina recita il suo monologo. Tutta l’azione è trasportata all’oggi, il luogo una squallida spiaggia, la Arkadina un’attrice di cinepanettoni, Trigorin un regista di serie B, il linguaggio sguaiato e rozzo con ampio uso di improperi e turpiloquio, qualche personaggio in meno (via Telegin, via Samraev), nessun nome e patronimico, «tuttavia – dice il regista-revisore – il plot cecoviano è mantenuto intatto, così come è mantenuta la dinamica relazionale tra i personaggi». In operazioni di questo genere qualche volta si scopre un’energia del testo che le messinscene tradizionali hanno offuscato: Woody Neri (che con questo spettacolo ha vinto il premio Argot Off 2013) dirige un gruppo di attori ben preparati, persuasivi che sanno trasformare l’idea abbastanza fragile della «farsaccia di gente in vacanza» in uno spettacolo intrigante. Soprat tut to nel terzo (il monologo della Arkadina) e quarto atto (la scena finale tra Nina e Treplev) ci sono momenti forti, dove si dimentica la piscinetta gonfiabile e ci si lascia prendere dall’impeto degli interpreti, intensi, autentici. E soprattutto rispunta Cechov che, anche in costume da bagno, ha una sua indistruttibile, magnifica verità umana. Fausto Malcovati
ARCA AZZURRA TEATRO
Il Pinocchio totale di Ugo Chiti tra artigianato, rigore e semplicità PINOCCHIO, di Carlo Collodi. Adattamento, regia, scene e costumi di Ugo Chiti. Con Paolo Cioni, Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali, Massimo Salvianti, Lucia Socci, Alice Bachi, Paolo Ciotti. Prod. Arca Azzurra Teatro, SAN CASCIANO VAL DI PESA (Fi) - Festival Teatrale di BORGIO VEREZZI (Sv). IN TOURNÉE Rigore, precisione, semplicità. L’artigianalità del teatro messa al servizio di un testo, classico ma dalle mille sfaccettature caleidoscopiche. I trent’anni dell’Arca Azzurra si vedono tutti nell’afflato e nella simbiosi di tempi e ritmi in questo Pinocchio dove le parole sembrano sgorgare fresche e appartenere alla storia di Ugo Chiti, che ne firma drammaturgia e regia, centenarie e giovani. È un Collodi con i segni riconoscibili e la cifra di Chiti, con sottolineature cariche come ferite. Il regista di San Casciano decide di non rinunciare ad alcun quadro. Il suo è un Pinocchio “totale”, anche eccedente in termini di durata, senza tralasciare alcun personaggio, nessun piccolo incastro, una prima parte più lenta una seconda più cupa. Nuovo slancio alla compagnia storica lo dà il più che efficace Paolo Cioni che, flessuoso e dinoccolato, dona al protagonista un corpo già di per sé burattinesco: salta, s’affloscia, corre imbizzarrito, s’inabissa, s’accartoccia benignesco. Sembra nato per ricoprire questo ruolo. Chiti non tralascia nessun particolare, nemmeno quelli più indecenti: la pedofilia latente nell’Omino di burro, un po’ Michael Jackson, viscido e a metà strada tra la caricatura di un uomo e la parodia di una donna, che porta i bambini nel Paese dei Balocchi per farli trasformare in asini, la morte della marionetta, per mano degli assassini vestiti da Ku Klux Klan, maestri d’armi orientali alla Kill Bill. Tranne Cioni, tutti gli altri attori, elettrici, scattanti, felini, convincenti, rivestono più ruoli: Andrea Costagli è Geppetto, tra spaventapasseri e spazzacamino, Massimo Salvianti è il grillo-prete, il tonno, il pappagallo, Dimitri Frosali è un Mangiafoco ruvido come un Lucignolo commovente (una delle figure meglio riuscite) tenero e fragile lontano dalla prepotenza (ha le stampelle). Le scene sono costituite da porte scorrevoli (le stesse che Chiti ha utilizzato nel suo Due fatti di cronaca in nero) con un imbuto-apertura sul fondo che rimanda a un mondo onirico di paureincubi-speranze-sogni-desideri. Una favola per bambini di tutte le età.
Tommaso Chimenti
Paolo Cioni in Pinocchio (foto: C. Andolcetti e M. Ammannati).
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CRITICHE/TOSCANA
Kafka cerca lavoro nel paese dei balocchi TU! OGNUNO È BENVENUTO, liberamente ispirato ad America di Franz Kafka. Drammaturgia di Stefano Geraci e Roberto Bacci. Regia di Roberto Bacci. Scene e luci di Stefano Franzoni. Costumi di Luisa Pasello. Musiche di Ares Tavolazzi. Con Sebastian Barbalan, Silvia Pasello, Francesco Puleo, Alessio Targioni, Tazio Torrini. Prod. Fondazione PONTEDERA Teatro (Fi). La collaborazione tra il regista Bacci e il drammaturgo Stefano Geraci si rinnova (il migliore risultato rimane Mutando riposa) nelle pieghe kafkiane ispirate ad America, pezzo che in qualche modo prediceva deportazioni di massa e Olocausto. Protagonisti un capitano-imbonitore-affabulatore da piazza, il carismatico ed energico Francesco Puleo, simile allo Zio Sam statunitense con barba cavouriana, due “reclutatori”, impegnati in un lavoro fisico e coreografico, Tazio Torrini sciolto e ben oliato e Alessio Targioni muscolare, e un angelo, Silvia Pasello efebo lunare, in un non-luogo indefinito dove campeggiano un trono-scranno del potere, con doppia valenza di sedia elettrica, e una porta da non valicare mai. L’attualità s’incastra nell’ingranaggio teatrale: da fuori molti premono per entrare, nel mondo del lavoro o in Italia, per cambiare il loro stato di precariato cercano paradossalmente le catene per sentirsi più indipendenti. È la fascinazione del capitalismo: dai il tuo tempo, avrai in cambio poche banconote. Si chiama lavoro, in molti casi si leg-
ge schiavitù, privazione, umiliazione. Quella che era vista come salvezza diventa gabbia. Il nostro Pinocchio, crocifisso come Cristo nel finale, nelle fattezze collodiane dell’attore rumeno Sebastian Barbalan, dinoccolato e smagrito, vuole entrare in questo Paese dei Balocchi, attorniato e adulato da vari Lucignoli, prima di accorgersi di essere capitato in un girone infernale, incubi da Processo kafkiano, realtà bradburyana dove i diritti sono cancellati. Precarietà, stallo lampedusano, quarantena di Ellis Island, limbo tra il fuori desertico e il dentro bestiale senza sapere se è migliore una morte naturale o procurata. Tommaso Chimenti
L’Iliade senza eroi del Teatro del Carretto ILIADE, da Omero, adattamento e regia di Maria Grazia Cipriani. Scene e costumi di Graziano Gregori. Suono di Hubert Westkemper. Con Giovanni Balzaretti, Elena Nenè Barini, Nicolò Bellitti, Andrea Jonathan Bertolai, Elsa Bossi, Fabio Pappacena, Giacomo Pecchia, Antonio Pomponio, Giacomo Vezzani. Prod. Teatro del Carretto, LUCCA. IN TOURNÉE Al centro della scena una pecora allatta il suo agnello. Improvvisa, una lancia sembra scagliata dal cielo per trafiggere l’animale che stramazza nel sangue. È l’inizio della guerra, una guerra che vede protagonisti dei ed eroi, battaglie furibonde e altrettanto furiosi corpo a corpo. La pietà si smarrisce e contano solo la rabbia e il dare la morte. Non ci sono vincitori
nell’Iliade del Teatro del Carretto, nessun cavallo entrerà a Troia, nessun incendio la distruggerà, ma il sipario si chiude su una doppia disperazione: quella di Achille per la perdita dell’amato Patroclo e quella – composta e vibrante, tratta da Euripide – di Ecuba smarrita di fronte alla spietatezza del fato. Torna, dopo venticinque anni, a celebrare il trentennale della compagnia, il suo spettacolo forse più celebre, un’Iliade che fece epoca e che incantò e stupì per lo straordinario allestimento firmato da Maria Grazia Cipriani e un artista geniale come Graziano Gregori. Un capolavoro che – mutato solo nel finale con l’innesto del breve brano da Le Troiane – si fa ammirare ancora oggi con i suoi esseri meccanici più veri del vero, le imponenti armature che modellano in maniera ipertrofica i corpi, la semplicità di una macchina delle meraviglie che muta in continuazione sotto i nostri occhi svelando la finzione della scena. Un continuo rifarsi alle pose e ai colori delle pitture vascolari con in più qualcosa di barbarico, una violenza che le stilizzazioni non riescono a sopire ma che, in qualche maniera, amplificano. E tanti momenti memorabili come l’inizio crudele o la comparsa di un Olimpo abitato da vocianti dèi bambini, insopportabili e inquietanti, la lotta tra le fiere che è specchio di quella tra i grandi eroi, la comparsa dell’enorme scudo di Ettore sulla cui superficie sembrano ammassarsi le teste dei rivali sconfitti, un teatrino di legno a misura di gigante, una scatola magica che risuona del tessuto sonoro formidabile elaborato da Hubert Westkemper. Però i tempi sono mutati e siamo mutati noi spettatori e la nostra percezione, così questa bellissima Iliade che ci aveva emozionato 25 anni fa assume tratti quasi concettuali, velandosi di freddezza. Nicola Viesti
Iliade (foto: Valentina Pierucci)
Metti Wedekind in musical
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SPRINGAWAKENING, di Duncan Sheik. Traduzione a cura di Pietro Contorno. Regia di Emanuele Gamba. Scene di Paolo Gabrielli. Costumi di Desirée Costanzo. Luci di Alessandro Ferri. Coreografie di Marcello Sindici. Con Arianna Battilana, Federico Marignetti, Flavio Giulio Andrea Gismondi, Tania Tuccinardi, Francesca
Gamba, Gianluca Ferrato e altri 7 giovani interpreti. Prod. TodoModo Music-All, LIVORNO. Nel 2006 debuttò a Broadway un musical tratto da Risveglio di primavera, dramma tardo-ottocentesco in cui Frank Wedekind lamentava le tragiche conseguenze della mancata educazione sessuale dei giovani. Il musical – con le musiche di Duncan Sheik e il libretto di Steven Sater – fu subito un inaspettato successo, a testimoniare anche dell’attualità dei temi trattati: la scoperta del proprio corpo, l’erotismo adolescenziale, l’incomunicabilità fra le generazioni, l’aborto. E proprio la volontà di affrontare argomenti tanto delicati a teatro, con un linguaggio facilmente accessibile anche al pubblico più giovane, ha spinto la compagnia livornese TodoModo ad allestire una versione italiana del musical statunitense. Mantenute in inglese le canzoni – ma la traduzione compare sulla grande lavagna che funge da qualificante elemento scenografico – e resi in italiano i dialoghi, l’azione è però posticipata dalla fine dell’Ottocento in Germania agli anni Trenta del Novecento. L’ambientazione vorrebbe rimandare ai bui anni del Fascismo ma, in realtà, tale scelta non incide in alcun modo sull’azione scenica, e, addirittura, contraddice l’obiettivo dichiarato dalla regia di sottolineare la sopravvivenza di atteggiamenti perbenisti e autoritari ancora nella nostra epoca, apparentemente libertaria. Si tratta del limite più evidente di uno spettacolo che, malgrado le buone intenzioni, non si può dire completamente riuscito: la scenografia, consistente unicamente nella lavagna, risulta piuttosto scialba e così i costumi, mentre ai giovani e pur appassionati interpreti – affiancati dagli “anziani” Francesca Gamba e Gianluca Ferrato – manca la professionalità necessaria non soltanto ad affrontare problemi squisitamente tecnici come il cattivo funzionamento dei microfoni, bensì anche a sopperire con una convincente presenza scenica la povertà della scena e la fragilità dell’impostazione registica. Una lode va, invece, ai musicisti che, diretti da Stefano Biondi, permettono di apprezzare appieno lo spartito, cui è riuscito di sposare armoniosamente il rock alla prosa di Wedekind, certo non tradizionalista e anzi anticipatrice dell’espressionismo, ma pur sempre ottocentesca. Laura Bevione
CRITICHE/UMBRIA-LAZIO
Toy boy never cry! LA SCENA, scritto e diretto da Cristina Comencini. Scene di Paola Comencini. Costumi di Cristiana Ricceri. Con Angela Finocchiaro, Maria Amelia Monti, Stefano Annoni. Prod. Michele Gentile/ Compagnia Enfi Teatro, ROMA. IN TOURNÉE
ASTI/COCTEAU
I mille volti del dolore nel dramma di una donna abbandonata LA VOCE UMANA e IL BELL’INDIFFERENTE, di Jean Cocteau. Traduzione di René de Ceccatty. Regia di Benoit Jacquot. Scene di Roberto Platé. Costumi di Nicoletta Ercole e Christian Gasc. Luci di Daniele Nannuzzi e Jacques Rouveyrollis. Con Adriana Asti e Mauro Conte. Prod. Teatro Metastasio Stabile della Toscana, PRATO - Festival dei Due Mondi, SPOLETO. IN TOURNÉE Partendo da toni neutri, non patetici, asciutti, con un crescendo – per questo molto più incisivo – di intensità emotiva Adriana Asti riesce, con la sua matura e lucidissima arte di attrice dai mezzi espressivi efficacissimi, a restituire a La voce umana tutti i suoi possibili contenuti di tensione e toccante sofferenza, di lancinante grido di un’anima scivolata irreversibilmente nella disperazione. A dispetto dell’atmosfera irreparabilmente datata che spira da un capo all’altro in questo atto unico tanto celebre quanto oramai poco proponibile, in cui Cocteau, con acutezza, affrontava una problematica “moderna” (quando il telefono era ancora un oggetto raro) collocando la storia in un contesto sociale mondano e demi-monde, in una dimensione oggi appartenente alle nebbie di un passato remoto non soltanto dal punto di vista cronologico. Ma anche i toni del monologo sembrano – irrimediabilmente – retrò: soltanto l’amore, il dolore e lo strazio dell’abbandono restano sempre attuali, ed è questo – per fortuna – che Adriana e il regista Jacquot riescono a comunicarci. Sostanzialmente drammatica, a momenti tragica con un finale aperto a un possibile suicidio, la lettura del successivo Il bell’indifferente, scritto da Cocteau per Edith Piaf. Un testo che invece potrebbe – forse – trovare una vita scenica più plausibile e appropriata se si puntasse di più sulla sua natura (o almeno apparenza) di “scherzo” e di paradosso scenico: la donna tradita e snobbata parla per tutto il tempo a un amante che non le risponde, anzi si disinteressa del tutto di lei e delle sue proteste e pure si addormenta, piantandola – alla fine – in asso sempre senza una parola. In questa messa in scena la Asti, invece, rimane a lungo più o meno sugli stessi registri de La voce umana, soltanto con qualche tocco sarcastico obbligatorio imposto dal copione: l’ironia della situazione resta solamente sullo sfondo, non passa, o quasi, nei toni della recitazione. Anche l’elemento della grande differenza d’età tra “lei” e “lui” (troppo giovane) indirizza il tutto in una direzione decisamente scontata. Francesco Tei
Per un autore, centrare il bersaglio dell’Anatra all’arancia o animare la Strana coppia senza imburattinarla è più difficile che azzeccare l’Amleto. Il teatro d’alto intrattenimento muove meccanismi inesorabili. Troppi scespireggiano in provincia, troppo pochi si misurano con lo smisurato Neil Simon. E tra quanti intingono la plume nel calamo degli inchiostri di Wilde e di Maugham, di Coward e di Marivaux molti si ritrovano con una piuma di coda di canard in mano. La scena che si apre qui su Lucia e Maria mostra una buona idea che presto si rivela però, come l’arredamento di palcoscenico, un po’ ikea. Quando poi le interpreti svelano l’intimo dei loro personaggi, ci appare decorosamente cheap: mai dire yamamay. Il match tra Lucia (Angela Finocchiaro, brava per definizione, ma a rischio di clichè modello Littizzetto meglio accessoriata e acculturata), attrice convenzionalmente problematica e Maria (-Amelia Monti), bancaria in carriera di maniera, è arbitrato da un pischello in mutande (boxer da nerd), l’Annoni Stefano. Lo scambio dei ruoli e dei caratteri tra le due signore non è ’sta gran sorpresona. I lamenti del gattino mammone sono da Edipo a Cologno, senza brividi neotestoriani. Lo sbandierato gioco del teatro nel teatro risulta vieux jeux. Insomma, taluni format televisivi alla Ivan Cotroneo risultano più efficaci e coinvolgenti. Mala tempora currunt se il teatro si ritrova in debito d’ossigeno rispetto ai tempi che corrono. La bestia nel cuore cinenarrativo di Cristina in palcoscenico si mostra come uno yorkshire di pezza che si trastulla con un toy boy duracell. I 90’ dello spettacolo trascorrono nel tran tran di un’amichevole pre-campionato: ma siamo in piena stagione. Si sciama a fine show immaginando come questo plot, riscritto in stile Sundance e con Thelma&Louise middle class in salsa Nora Ephron, potrebbe anche diventare un blockbuster. Fabrizio Sebastian Caleffi
Dal romanzo alla scena Tony Pagoda en travesti HANNO TUTTI RAGIONE, dal testo omonimo di Paolo Sorrentino. Diretto e interpretato da Iaia Forte. Scene di Katia Titolo e Marina Schindler. Luci di Paolo Meglio. Musiche di P. Catalano e P. Di Capri, eseguite da Fabrizio Romano. Prod. Pierfrancesco Pisani/Off Rome, Infinito srl, ROMA. IN TOURNÉE Già il romanzo del regista Paolo Sorrentino non era scorrevole con le continue iperboli, forzature d’aggettivi che a ogni perifrasi o capoverso sommavano e aumentavano il quadro già deprimente e grottesco. Un gioco per accrescimento di un immaginario di periferia e di provincia, condito da squallore, miseria, degrado. Tony Pagoda è uomo, macho, villano e maschilista. La scommessa di Iaia Forte, che ha lavorato ne La grande bellezza con Sorrentino, è apparsa azzardata. Sarà perché non basta essere napoletani per interpretare un cantante neomelodico sovrappeso, sospeso tra prostitute e cocaina. Sarà perché per calarsi nei panni di un cantante che si esibisce, finalmente, sogno di una vita, a New York davanti a The Voice Frank Sinatra, bisogna, almeno un po’ darci dentro d’ugola. A brani, a strappi, la Forte organizza una drammaturgia suddivisa tra parole da sgabello e musiche da piano bar, con microfono in mano. Quasi recital fumoso da night, gli occhialoni a scendere sul naso, il sarcasmo misto a cinismo, la luce rossa soffusa, la sigaretta sempre in bocca. Manca però qualcosa, un collante, quella spinta necessaria per aspettare il quadro successivo. Dietro di lei le lettere cubitali a ricordarne il nome «Tony P», che già contiene NY. Un po’ John Travolta o Bobby Solo, un accenno di Little Tony, qualche colpo di bacino alla Elvis the pelvis, accenni da Mago Silvan. Mi chiedo piuttosto che cosa sarebbe stato con Tony Servillo nei panni di Pagoda, lui che aveva interpretato una figura simile nella pellicola L’uomo in più, sempre di Sorr en tino. Ma, si sa, i sogni son desideri. Tommaso Chimenti
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CRITICHE/LAZIO
Romaeuropa interroga la Storia
The power of theatrical madness (foto: Wonge Bergmann)
Fabre, Ostermeier, Latella, Castellucci tra i molti nomi presenti al Festival romano, dove quest’anno ricorrono riflessioni molto “politiche” sull’origine del male, sulla libertà dell’arte e dell’artista e sugli spaesamenti di chi vive moderni conflitti.
THIS IS THEATRE LIKE IT WAS TO BE EXPECTED AND FORESEEN e THE POWER OF THEATRICAL MADNESS, concept, regia, scene e luci di Jan Fabre. Drammaturgia di Miet Martens e Renee Copraij. Costumi di Katarzyna Mielczarek, Pol Engels e Jan Fabre. Coreografia di Jan Fabre, Marc Vanrunxt. Musiche di Guy Drieghe e Wim Mertens. Con Maria Dafneros, Piet Defrancq, Carlijn Koppelmans, Lisa May, Giulia Perelli, Gilles Polet, Melissa Guerin, Pietro Quadrino, Kasper Vandenberghe, Nelle Hens, Sven Jakir, Georgios Kotsifakis, Dennis Makris, Merel Severs, Nicolas Simeha. Prod. Troubleyn/Jan Fabre, Antwerp (Belgio) e altri partner internazionali. ROMAEUROPA FESTIVAL 2013. Tour de force Jan Fabre al Roma europa Festival, quattro ore di fila per The Power of Theatrical Madness e otto, sempre senza interruzione o pause interne, per This is Theatre Like
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it was to be Expected and Foreseen. In linea con la volontà di diversi artisti, anche italiani, in questo momento di tornare sul proprio repertorio storico e rileggere quelle esperienze anche al limite, come nel caso di Fabre, come momenti fondativi di una inversione filosofica rispetto alle arti sceniche o l’invenzione di una nuova processualità artistica. E se in The Power of Theatrical Madness l’orizzonte al quale si riferisce diventa una sorta di omaggio-panel alla storia dell’arte moderna e al teatro, con il refrain operistico che motiva le azioni ripetute ossessivamente; in This is Theatre Like it was to be Expected and Foreseen la resistenza non è più una questione solo dello spettatore, ma gli stessi performer raggiungono un livello di esautorazione tale da se stessi da non riuscire a distinguere il loop mentale di chi guarda da quello di chi è guardato. Certo, la straordinaria capacità degli attori tutti, la loro precisione anche nelle sbavature, la prestanza fisica,
benché sottoposta al delirio delle azioni, ci raccontano di una preparazione e una concentrazione difficili da eguagliare. In The Power of Theatrical Madness assistiamo al tango fra due uomini, uno regnante l’altro suddito, entrambi nudi; si moltiplicano le immagini, assimilando figure classiche del fraseggio della danza a ostensori sacri. Riecheggia la Salomè nel procedere diacronico di sezioni sceniche e pittoriche che vanno sul fondo e che non sono mai coincidenti con quello che vediamo ma sono un’interferenza, a volte anticipano o concludono la sequenza, mentre in altri momenti sembrano trascinare il “racconto” verso un’astrazione. L’hic et nunc è basato sulle ossessioni, sull’estenuazione di un’idea o di un concetto: una corsa, un atto di resistenza portati alle loro estreme conseguenze. Si procede per tentativi di cortocircuiti di quello che vediamo: una Carmen cantata da due apparentemente innamorati ma che poi si prendono a schiaffi, in quella
tensione a creare uno sfasamento; oppure la scena in cui un’attrice cerca di salire ripetutamente sul palcoscenico dalla platea mentre l’altro la respinge brutalmente. L’abilità di Fabre sta proprio nel creare simmetrie geometriche che poi servono a dare risalto alla rottura. Quella stessa ipnosi, quel disturbo della percezione che in This is Theatre Like it was to be Expected and Foreseen ostacolano dall’interno la narratività, finanche il trasferimento maniacale da una forma a un’altra, senza però dissolverla completamente, ma travasandola semplicemente nel dopo o nell’altrove del tempo che potrebbe non avere mai fine dentro il quadro di un mattatoio, che illustra con ripetuta modularità lo stesso identico comportamento scenico. Un gioco della ripetizione del tempo che in Fabre è reversibile e qualitativo, oltre la misura. Capolavori! Paolo Ruffini DIE WOHLGESINNTEN (Le benevole), di Jonathan Littel. Adattamento di Antonio Latella e Federico Bellini. Regia di Antonio Latella. Scene e costumi di Moira Zoitl e Ralf Hoedt. Luci di Simone De Angelis. Musiche di Franco Visioli. Con Thiemo Strutzenberger, Steffen Höld, Barbara Horvath, Maurizio Rippa. Prod. Schauspielhaus Wien. ROMAEUROPA FESTIVAL 2013. Nei giorni d’ottobre, in cui Le benevole andava in scena a Roma, si era in piena bagarre su dove fare i funerali di Priebke. Un cortocircuito della Storia che rendeva di inquietante attualità l’indagine di Antonio Latella sulla menzogna e sulla nascita del male che, dopo A.H., andava ad affrontare lo stermina to e discusso romanzo di Jonathan Littel. Discusso perché rilegge le atrocità del nazismo non attraverso gli occhi delle vittime, ma attraverso quelli dei carnefici che non rinnegano quanto commesso. Con un’implicita e difficile richiesta al lettore-spettatore: quella di sospendere il giudizio e di cercare di comprendere
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contestualizzando i fatti. Ma attenzione: comprensione non è sinonimo di perdono. Anche se l’esercizio mentale ed emotivo per distinguere non è così automatico. Con tre formidabili attori della Schauspielhaus di Vienna, a cui si aggiunge il contraltista Maurizio Rippa, Latella e Bellini si concentrano sulle relazioni fra i tre protagonisti del romanzo, che hanno strette parentele con il terzetto Oreste-Pilade-Elettra di un’Orestea senza catarsi dove è necessario impazzire per diventare parte attiva dell’orrore prima e, poi, per sopravvivere a se stessi. È quanto accade a Maximilian Aue, colto e problematico ufficiale delle SS, forse omosessuale e legato alla sorella da un rapporto incestuoso, destinato a trasformarsi in spietato carnefice sprofondando in una lucida follia che gli permetterà, a guerra finita, di sfuggire ai processi per genocidio, di rifarsi una vita in Francia e di scrivere le sue memorie (è l’io narrante delle Benevole). Suoi “complici” l’amico ufficiale Thomas-Pilade e la sorella Una-Elettra. Sulla nuda scena, Latella ci immerge in un mondo allucinato dove le parole sono pietre e il male, banalità o seduzione che sia, rimane un monstrum mai completamente rappresentabile, neanche attraverso l’artificio teatrale e il suo implicito portato di menzogna. Si esce da teatro turbati, pieni di domande e con ben poche risposte. Obiettivo centrato. Claudia Cannella HEDDA GABLER, di Henrik Ibsen. Regia di Thomas Ostermeier. Drammaturgia di Marius von Mayenburg. Scene di Jan Pappelbaum. Costumi di Nina Wetzel. Luci di Erich Schneider. Con Annedore Bauer, Lars Eidinger, Jörg Hartmann, Katharina Schüttler, Kay Bartholomäus Schultze, Lore Stefanek. Prod. Schaubühne, Berlino - Romaeuropa Festival 2013 e Teatro di Roma. ROMAEUROPA FESTIVAL 2013. È uno spettacolo di algida tersura e di geometrica perfezione, dove ogni elemento sembra fondersi con eleganza linguistica e chirurgica incisività. Dal lavoro dei bravissimi attori, chiamati a scavare, dei loro personaggi, sentimenti e relazioni attraverso una recitazione sapiente di sorvegliatissima asciuttezza e di naturalezza quasi minimale, all’intervento drammaturgico di Marius von Mayenburg che restituisce al presente il dramma ibseniano con la brillantezza di un’essenzialità
agile e sciolta. Dalla regia di Thomas Ostermeier, che con millimetrica esattezza va guidando gli interpreti verso una cifra di sconvolgente modernità, alla genialità di una scenografia in cui un enorme specchio spiovente, con le sue rotazioni, si fa strumento funzionale d’indagine e quasi spietatamente insegue i personaggi negli anfratti più nascosti e oscuri. Mentre tutto appare esposto e scrutato senza possibilità di fuga, con una sorta di sguardo inflessibile che coinvolge gli spettatori. Col risultato di un allestimento in cui l’anonima raffinatezza di ampi spazi borghesi partecipa e dà vita alla narrazione, in un gioco rifrangente di vetrate trasparenti e di pareti scorrevoli che scandiscono con discrezione l’evolversi dell’azione. Restituendo questa Hedda Gabler a una contemporaneità veritiera che si innesta, senza alcuna forzatura, nel dramma originario. Dove la protagonista, qui interpretata da una magnifica Katharina Schüttler, ha l’aspetto un po’ acerbo di una ragazzina dei nostri giorni e il dire sprezzante di un’insoddisfazione altezzosa intrisa di egoistico e disincantato cinismo. Troppo ambiziosa per contentarsi della mediocrità che la circonda e, in fondo, troppo vile per risolvere i propri nodi e incline piuttosto a stigmatizzare tutto e tutti con l’alterigia di un gelido distacco. Come per un’interiore assenza di prospettive e di speranza, amorale e fredda, capace di incitare lo scrittore, suo vecchio amante, al gesto alto di un suicidio e, al tempo stesso, di distruggerne senza rimorso il computer che ne custodisce, con l’ultimo scritto, il possibile futuro di cattedratico. Mentre la sua stessa drammatica fine si incide sulla scena con fredda inevitabilità, traguardo di una solitudine che si annulla nell’indifferenza di un consesso troppo preso dalle sue ipocrisie per dar peso reale al risuonare di un colpo di pistola. Antonella Melilli Rossi
che, a fatica, riusciamo a collegare quello che si vede al suo motore creativo iniziale, al pensiero del suo autore. Ma questo non è un male. L’opera di Castellucci restituisce comunque puntualmente una bordata emotiva con la quale bisogna fare i conti, “costretti” comunque a non far finta di essere rimasti indifferenti. Della trilogia di senso di cui fa parte The Four Seasons Restaurant, sono convinto che sfiori la forma capolavoro il primo Sul concetto di volto nel Figlio di Dio, mentre gli altri due – e dunque anche questo ultimo – rimangono adagiati su di un diagramma di accompagnamento alla meraviglia dolorosa del primo. Qui continua una certa disamina sulla solitudine dell’artista, dell’individuo verrebbe da dire, quando questi esprime una non assuefazione all’omologazione morale di questo tempo sul limite della spettacolarizzazione del desiderio e delle forme. E Castellucci lo fa prendendo a pretesto il rifiuto di Mark Rothko di consegnare i dipinti commissionati al Four Season Restaurant, quasi a sottolineare la sua scelta di “tornare” al verso, declamarlo nelle parole di Hölderlin ma smorzandone l’enfasi nell’esposizione di un gruppo, che si assume l’onere di “abbassare” l’ordito retorico con un parlato amplificato o a nuda voce, alternato a un registrato fuori sincrono. Come a evidenziare l’incapacità dell’artista di poter dire oggi, o la difficoltà di essere ascoltati. Siamo, nella prima parte, in una palestra con tanto di spalliera e palloni e lì, ritratte come figurine uscite da un quadro di Grant Wood, le giovani interpreti giungono alla estrema sintesi di un movimento autofagocitante che alimenta un bozzolo di danza. Subito dopo si azzera la
visione, nel piombante nero si aprono squarci luminosi come lampi folgoranti di straordinario effetto, lasciandoci, come era già avvenuto in Il velo nero del pastore, qualche resto scenico, un cadavere di cavallo, forse reperti di una memoria che torna fugacemente ad affacciarsi e che la “mareggiata” del sipario si porta via. Paolo Ruffini PICTURES FROM GIHAN, di Chiara Caimmi, Riccardo Fazi, Claudia Sorace. Drammaturgia di Riccardo Fazi. Regia di Claudia Sorace. Costumi di Fiamma Benvignati. Con Claudia Sorace, Riccardo Fazi. Prod. Muta Imago, Roma. - Romaeuropa. ROMAEUROPA FESTIVAL 2013. Abbandonarsi all’ideologia del cosiddetto Postdrammatico a volte può produrre fraintendimenti. Laddove l’azzeramento perseguito dentro una confezione “narrante”, seppur deviata come nello spettacolo Pictures from Gihan verso la web-cronaca, rischia di far slittare quel proposito di ricerca di un confine sempre fragile fra il dentro-fuori la “parte”, e vanificare il suo “naturale” racconto di vita fra attoripersone. Muta Imago è uno dei gruppi di punta della scena attuale, che ha saputo costruire in poco tempo un suo proprio edificio estetico, una sua estensione “narrante”, appunto, nelle intersezioni della performance e dello spettacolo fisico, soprattutto immaginifico e sonoro, mantenendo una certa caratteristica artigianale che lo contraddistingue dal rischio della patina bidimensionale o plastificata della scrittura. Spostare continuamente l’ottica da un tema all’altro mantenen-
THE FOUR SEASONS RESTAURANT, regia, scene e costumi di Romeo Castellucci. Musiche di Scott Gibbons. Con Chiara Causa, Silvia Costa, Laura Dondolini, Irene Petris e altre 6 interpreti. Prod. Socìetas Raffaello Sanzio, Cesena e altri partner internazionali. ROMAEUROPA FESTIVAL 2013. Come sempre accade, ogni lavoro di Romeo Castellucci è così stratificato nei segni e irto di tensioni linguistiche
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do costante un portato del dolore nello svelare anfratti della memoria o di verità singolari, ha fatto sì che il loro lavoro non si lasciasse vivere di sola inquadratura figurativa anzi, si è mostrato col piglio dell’impegno a rintracciare questioni dell’oggi come di ieri non pacificate. Anche Pictures from Gihan torna a parlarci di uno “spaesamento” contemporaneo nel quale le ferite a morte e la paura sono dietro l’angolo. Una scena che ha per sfondo schermi che si alternano e nei quali vanno le immagini della tentata rivoluzione egiziana, gli scontri, i suoni e le urla, è l’interfaccia dei monitor dei computer da dove i due protagonisti, gli stessi Fazi e Sorace, ricevono informazioni, ma poi ancora dialogano tramite «tweet, post, sms, fotografie, video» con Gihan, blogger e testimone della primavera egiziana, che al Cairo è euforica, spaventata, determinata. Noi entriamo in questo cuneo di corrispondenza didascalica sin troppo “recitata” e macchinosa nei microspostamenti, lasciandoci sospettare che anche nel tentativo di un superamento partecipato, questo approccio così occidentale non riesce a restituirne l’intenzione. Paolo Ruffini HARAWI, testo e musica di Olivier Messiaen. Ideazione di Diana Arbib, Luca Brinchi, Dario Salvagnini, Roberta Zanardo. Con Maria Teresa Bax, Marcello Sambati, Antonello Compagnoni, Monica Galli, Matelda Viola (soprano), Lucio Perotti (pianoforte). Prod. Sagra Musicale Malatestiana, Rimini - Santasangre, Roma e altri 3 partner. ROMAEUROPA FESTIVAL 2013.
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Vuoi vedere che ci troviamo di fronte l’ennesimo cambio di rotta di alcuni artisti? Forse è solo questione di commissione! Lasciando la ruvidezza del senso e anche, magari, una certa incompiutezza formale tipici nel loro lavoro (ma straordinariamente vivaci da un punto di vista concettuale), Harawi opta per una più pacata e “pulita” confezione che riesce a mettere d’accordo il pubblico moderato e qualche letterato. D’altronde, già in Sei gradi il gruppo romano metteva in evidenza una propensione all’opera, sia in termini visivi che drammaturgici, alla partitura sonora imponente che, grazie al digitale, assemblava, riciclava e componeva un originale territorio sonoro (inizio, apice con enfasi e finale), lasciando all’ologramma una “narrazione” che faceva il suo effetto senza sferzate eccessive. Questo Harawi, invece, che di Messiaen mantiene la struttura musicale intatta, assomiglia più a quella costruzione da evento di poesia sonora o da concerto da camera con interventi visivi o di natura performativa minimale che tanto andavano negli anni Ottanta, soprattutto nei localini off. L’“arcaico astratto” del compositore, si risolve in scena con la presenza di due attori pur di spessore ma usati come corpi dialoganti nel loro attempato gioco amoroso, fino a giungere a una forma pittorica finale, senza però avere il coraggio di denudare completamente quella “provocazione”. È il Tristano e Isotta che evolve dopo il volo di un vero falcone in sala o le torsioni agli anelli di un ginnasta, per riportare un medioevo evocato nei simboli alla consunzione di un amore senile. Dunque, l’impaginazione vince sull’emozione, forse meno concettuale, stavolta, e più divulgativa. Paolo Ruffini
Omaggio a Petrolini IL PADIGLIONE DELLE MERAVIGLIE, di Ettore Petrolini. Drammaturgia di Massimo Verdastro ed Elio Pecora. Regia di Massimo Verdastro. Scene e costumi di Stefania Battaglia. Luci di Valerio Geroldi. Con Manuela Kustermann, Massimo Verdastro, Emanuele Carucci Viterbi, Gloria Liberati, Giuseppe Sangiorgi, Luigi Pisani e Chiara Lucidano. Prod. Tsi La Fabbrica dell’Attore/Teatro Vascello, ROMA. IN TOURNÉE Compie un salto temporale non da poco Massimo Verdastro, dal Satyricon preso a prestito da Petronio della passata stagione giunge con una eguale tensione surreale a Ettore Petrolini, a una scalcinata ma febbrile romanità novecentesca che si affaccia alla modernità mentre sembra raccogliere l’eredità eversiva di Federico Fellini, che a tale humus aveva attinto. Il padiglione delle meraviglie è uno spettacolo cucito sulla pelle dei suoi interpreti, un affresco preciso di una certa umanità fatta di guitti, imbonitori da circo e femme fatale. Si mantiene così, anche in questo lavoro corale, il livello d’attenzione sulla deriva del sentimento dentro lo sconquasso di un mondo in repentino capovolgimento, la società agli albori del Fascismo messa in mostra da Verdastro senza fraintendimenti e dove la sopraffazione e lo sbraco delle convenzioni governano il microcosmo di una compagnia viaggiante, ormai al suo tramonto ma sempre pronta a regalare trovate ed effetti paradossali per sbarcare il lunario. Aiutato dal poeta Elio Pecora, il regista trova la giusta dose di deragliamento verso l’avanspettacolo, in una partitura a incastro di bruta realtà e immaginario fantastico, entro cui si lasciano cadere i personaggi che già nei nomi suggeriscono l’assenza di confine tra la propria vita e la sua rappresentazione. Tiberio, Lalli, Sirena, Tigre, Amalù, Zenaide, Evelina, una congrega speciale che regge il ritmo comico per non cadere nel dramma delle singole solitudini, piccole parcellizzate porzioni di vita allo sfacelo. L’insieme ha il fiato giusto per tenere, Verdastro è ormai un Mangiafuoco che sa manipolare le materie e la Kustermann ha il coraggio di pochi per mettersi in gioco. Paolo Ruffini
Solitudine e alienazione nel Week end di Ruccello WEEK END, di Annibale Ruccello. Regia di Luca De Bei. Scene di Francesco Ghisu. Costumi di Lucia Mariani. Luci di Marco Laudando. Con Margherita Di Rauso, Brenno Placido, Giulio Forges Davanzati. Prod. I Magi srl, ROMA - Ma.Di.Ra. srl, ROMA. IN TOURNÉE Sul vasto interno di accuratezza piccolo borghese aleggia, fin dall’inizio, un respiro un po’ oppressivo, sperso nel brulichio incessante di una periferia urbana. E i gesti insieme meticolosi e svogliati della protagonista sembrano costruire essi stessi l’immutabile monotonia di una vita senza luce, mentre un senso di solitudine si fa corpo pesante, passo claudicante per la probabile stanchezza di sogni passati e di presenti frustrazioni. Un’insegnante, avvolta in panni grigi da lutto, venuta da un paesino del Sud a inseguire la propria emancipazione, che oggi si prepara alle lunghe ore del week end del titolo tra compiti da correggere, raffinati dischi francesi e pasti consumati con trascurata indifferenza. Ma che al tempo stesso sembra covare in sé un’irrequietezza che flagella con insultante indignazione l’ottusità dell’allievo a cui dà ripetizioni e sollecita, con pretenziosa autorevolezza, l’idraulico che tarda a venire. E soprattutto si rivela in quella volgarità di abito rosso con cui indugia davanti allo specchio in pose da vamp. Facendo gradualmente affiorare l’elemento surreale che si annida in questo bellissimo testo di Annibale Ruccello. E che Luca De Bei oggi affronta con una regia assai calibrata e attenta, capace di evocare, nell’apparente normalità di una annoiata rassegnazione, sfaccettature noir di insidiosa ambiguità, pronta ad aprirsi in esplosioni di istinti sfrenati e in esiti perversi di sessualità assassina e perfino in fascinazione ancestrale di antichi racconti d’orrore. Riuscendo a creare sulla scena il crinale sospeso di un’azione che forse s’inscrive soltanto nelle fantasticherie della mente. Dove tutto si mescola sul filo tesissimo di una narrazione che affonda, come un coltello impietoso, nei meandri onirici di un’insoddisfazione intrisa di segreta ribellione. Grazie soprattutto
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alla sensibilissima sapienza di Margherita Di Rauso, che con malleabile esattezza si addentra nelle pieghe di un’interiorità silente di desideri compressi e di sedimentate delusioni. Qui affiancata del resto con appropriata efficacia di rozzezza ignorante e di esuberanza popolana da Brenno Placido e Giulio Forges Davanzati, nei rispettivi ruoli dell’allievo e dell’idraulico. Antonella Melilli Rossi
Due generazioni un dialogo impossibile PRIMA DEL SILENZIO, di Giuseppe Patroni Griffi. Regia di Fabio Grossi. Scene di Luca Filaci. Luci di Umile Vainieri. Con Leo Gullotta, Eugenio Franceschini e Paola Gassman, Sergio Mascherpa e Andrea Giuliano (in video). Prod. Teatro Eliseo, ROMA - Fuxia-Contesti d’immagine Srl, ROMA. IN TOURNÉE Un palcoscenico, delimitato da un neon colorato, accoglie una scena vuota al cui centro troneggia un sofà rovesciato. Un uomo maturo e un ragazzo molto giovane fingono di andare in barca. Ridono, scherzano. L’uomo parla di poesia, morte, coraggio, viltà. Celebra poeti, icone cinematografiche e grandi attori di prosa. Il ragazzo, con accenti dissacranti e canzonatori, si schermisce. Con una prosa lucida e drammatica, Patroni Griffi così concepisce l’incipit dell’atto unico Prima del silenzio. Al centro un tema caro al drammaturgo napoletano: la mancanza di un linguaggio comune fra generazioni, foriero di un divario culturale che si consuma non solo nelle riflessioni sull’uomo e sui valori della vita, ma soprattutto nel diverso significato attribuito alla parola. Per l’uomo la parola è la più efficace tra gli strumenti creativi, capace di riscattare colpe, umiliare debolezze, costringere alle ragioni. Per il ragazzo rimane l’unico modo possibile per indicare realtà concrete, con naturalezza e pragmatismo. Due punti di vista che generano due modi differenti di esplorare l’esistenza. Per l’uomo si consuma, così, un travaglio interiore che lo induce ad accettare con fatica il senso della vita, che assume le connotazioni di un incubo affollato di ricordi e angosce. Gli fanno visita i fantasmi del suo passato, la moglie, il figlio, il ca-
meriere, che rappresentano gli obblighi, la famiglia, la casta e il dovere, cui, con l’abbandono, l’uomo si è ribellato. La regia, alquanto didascalica, di Fabio Grossi riduce i personaggi in carne e ossa da cinque a due. La Moglie, Paola Gassman, virago sprezzante e sardonica, il Figlio, Andrea Giuliano, e il Cameriere, Sergio Mascherpa, fanno la loro apparizione con immagini proiettate come icone evocate da un animo macerato. Leo Gullotta veste i panni del protagonista affiancato da Eugenio Franceschini. La dramma ticità e la solitudine del personaggio, concepito per Romolo Valli, cede il passo alla malinconia e alla disperazione di un uomo che sembra inseguire una giovinezza ormai andata. Giusi Zippo
Un gesto d’amore per l’Italia sbandata ITALIA MIA ITALIA, di Maddalena Crippa. Regia di Peter Stein. Direzione musicale di Massimiliano Gagliardi. Con Maddalena Crippa, Massimiliano Gagliardi e Bubbez Orchestra. Prod. Teatro e Società, ROMA. IN TOURNÉE All’inizio sono le parole di Giacomo Leopardi, quasi un grido accorato che si ammanta di straordinaria attualità. E quindi un lungo excursus che, con la storia recente del nostro Paese, ripercorre il mutare della sua gente, del suo modo di essere e di pensare, variamente attingendo a Battisti e Fellini, Cassano e De André, Gualtieri e Battiato, Modugno e Conte. Realizzando sulla scena una mescolanza di musica e parole che Maddalena Crippa, interprete di consueta bravura, dipana con malleabilità attenta sulla lucidità di un testo di indefettibile equilibrio, dettato in lei dall’esigenza di interrompere il pessimismo, la passività, il lamento di fronte ai guasti di un Paese ormai da anni sull’orlo del baratro. Quasi per un gesto d’amore volto a riscoprire l’orgoglio e, con le parole di Ivano Fossati, la fortuna di essere italiani in questo tempo sbandato. Diretto da Peter Stein con coerente incisività, Italia mia Italia si snoda su ritmi saldi e scorrevoli insieme, ugualmente lontani da enfatici patriottismi o retoriche oleografie, con la consapevolezza pacata di chi, amando il proprio Paese, ne riconosce i limiti e i valori. E, mentre sulle orme di Pa-
REGIA DI BELLOCCHIO
Sergio Rubini superlativo Vanja ma il resto è silenzio ZIO VANJA, di Anton Cechov. Adattamento e regia di Marco Bellocchio. Scene e luci di Giovanni Carluccio. Costumi di Daria Calvelli. Musiche di Carlo Crivelli. Con Sergio Rubini, Michele Placido, Pier Giorgio Bellocchio, Anna Della Rosa, Lidiya Liberman, Bruno Cariello, Maria Lovetti, Marco Trebian, Lucia Ragni. Prod. Federica Vincenti e Michele Placido/Goldenart Production, ROMA. IN TOURNÉE Vanja c’è. Superlativo. Cinque stelle, se possibile anche sei. Sergio Rubini è un Vanja magnifico, perfetto, arruffato, infantile, velleitario, confuso, a disagio con se stesso e con gli altri, insieme aggressivo e introverso, impacciato, insicuro, depresso, strampalato, poetico. Una prova esemplare, su cui si regge l’intero spettacolo. Chi sa, forse è così bravo perché anche lui è un po’ Vanja, ma non basta: immedesimarsi con risultati così originali non è facile. Accanto a lui Michele Placido. Avrebbe tutto per essere un Serebrjakov ideale: bella faccia, età giusta, grande vitalità, un cervello che funziona. Il suo ingresso è perfetto (anche se dalla platea, inutile artificio visto mille volte), attraversa la scena con passo deciso e dice la prima battuta di schiena, fregandosene di tutti. Ma nel secondo atto cede alla tentazione di tutti i Serebrjakov tradizionali: fa il vecchio, il malato. Il Serebrjakov di Cechov non è né vecchio né malato: è un magnifico sessantenne che piace alle donne e lo sa, che si finge malato per attirare l’attenzione e costringere tutti a far quel che vuole lui, in realtà sta benissimo, è energico, antipatico, arrogante, detta legge, si impone per la sua lucida prepotenza, non per le sue medicine. Placido a tratti è giusto, a tratti troppo indispettito, collerico. Anche Anna Della Rosa, attrice di grande talento, potrebbe essere una Sonja giustissima: giusta la rigidità, la voce aspra, l’impaccio. Ma non si inventa una Sonja di oggi, non va al di là di una corretta esecuzione. Peccato. Il meno incisivo è Piergiorgio Bellocchio: un Astrov generico, un po’ incolore, senza quell’appeal (sex o non sex, ma appeal ci vuole) che aveva reso famosa l’interpretazione di Stanislavskij e in tempi più recenti quella di Marcello Mastroianni. Lidiya Libermann è una Elena decorativa, freddina, compassata, indolente come richiedono le battute di Cechov: ma si fa un po’ fatica a capire perché tutti gli uomini abbiano tanta voglia di portarsela a letto. C’è da chiedersi quale motivazione abbia spinto Marco Bellocchio a mettere in scena Zio Vanja. Rispetto alle letture che si sono viste negli ultimi tempi, non c’è niente di nuovo. La lettura dei personaggi, tranne il Vanja di Rubini, fuori classe, è tradizionale. Sfugge a Bellocchio l’idea forte che sottende il testo cecoviano: per gli zii Vanja è ora di svegliarsi, di scuotersi di dosso la funesta polvere provinciale che li intorpidisce, li rimbambisce, e se non la smettono di piangersi addosso, qualcuno darà molto presto a loro e alle loro utopie veterocontadine un gran calcio nel sedere. Come di fatto avvenne di lì a poco. È proprio questa insofferenza del presente, questa inquietudine sotterranea che ogni tanto scoppia (e che troppi ancora oggi scambiano per indolenza, rassegnazione), a fare grandi i testi cecoviani. Testi incandescenti, a leggerli con l’occhio rivolto al pubblico del 2013. Non mi sembra che Bellocchio se ne sia accorto. Fausto Malcovati
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CRITICHE/LAZIO
HABER/BONI
Dio, Freud e il Nazismo dialogo brillante sui massimi sistemi IL VISITATORE, di Éric-Emmanuel Schmitt. Regia di Valerio Binasco. Scene di Carlo De Marino. Costumi di Sandra Cardini. Musiche di Arturo Annecchino. Con Alessandro Haber, Alessio Boni, Francesco Bonomo, Nicoletta Robello Bracciforti. Prod. Goldenart, ROMA. IN TOURNÉE Lo aveva fatto Dostoevskij con il diavolo. Un po’ guascone, lontano dai canoni della tradizione, era lui l’interlocutore di Ivan nei Fratelli Karamazov. Nel 1993, il drammaturgo francese Éric-Emmanuel Schmitt recupera il modello. Solo che al Principe delle Tenebre sostituisce nientemeno che Dio, e al più intellettuale dei Karamazov uno dei “maestri del sospetto”, qui malato di carcinoma: Sigmund Freud. Cambia, poi, il contesto: la Vienna nazista, all’indomani dell’Anschluss e prima dell’esilio del padre della psicanalisi a Londra. Ma, per il resto, è speculare l’ambizione di trattare temi grossi – il Bene e il Male, la fede, la sofferenza che è nel mondo - con l’arma dell’ironia. E, soprattutto, contraddicendo l’immagine veterotestamentaria che dei Massimi Sistemi abbiamo. Nella sua trasposizione, la seconda in Italia, dopo quella del 1995-96 di Antonio Calenda, Valerio Binasco è abile a cogliere questo dato essenziale. Non ha nulla, il Dio di Alessio Boni, del Padre-Padrone della tradizione. È, anzi, un povero barbone, un tantino goffo e pure un po’ cafone. Matto, anche, se è vero che potrebbe essere il folle scappato dal Manicomio del quartiere, che si crede Dio. Tanto più credibili appaiono, allora, le sue parole. Così sincere, sofferte, dolorosamente vere. Specie in un anno come il 1938, coi nazisti che marciano al passo dell’oca e bussano alla porta. Né meno eloquente è il contendente, il dottor Freud. Un vecchio dilaniato dal dubbio, il dolore per Anna, la figlia arrestata dalla Gestapo. Uomo, prima che intellettuale, e che Haber rende meravigliosamente, con quel passo strascicato, il corpo contratto, impotente. Senza le pretese didattiche, sempre un po’ tronfie e troppo astratte che tanto vanno di moda, stretta in una sala affatto metafisica, con in più il corollario di alcuni validi comprimari, la pièce sfugge così dai binari della lezione ex cathedra per incanalarsi in quelli, tanto più convincenti, della commedia brillante. Densa sì, ma, nel fondo, accattivante.
Roberto Rizzente Alessio Boni e Alessandro Haber in Il visitatore.
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solini riscopre i respiri segreti del suo territorio variegato, non trascura i bubboni di un tempo che costringe i suoi cervelli a cercare lontano il proprio futuro. Sottolineando, al tempo stesso, la responsabilità di ognuno verso una prospettiva di speranza che affonda le sue radici nell’anima di un popolo capace di eroismi titanici e di spontanea semplicità, di meschinità serpeggianti e di solidale generosità. Un popolo che, da quello stesso mare da cui un giorno partiva spinto dal bisogno, vede oggi arrivare ondate di disperati di razze e culture diverse. E con essi problemi nuovi e contraddittori, ma anche nuovi campi di arricchimento culturale e di impegno civile in cui tutti, uomini e donne di paesi e colori diversi, possano integrarsi nel comune orgoglio di essere italiani. Antonella Melilli Rossi
Il partigiano e il bulletto lezioni di speranza FARÀ GIORNO, di Rosa A. Menduni e Roberto De Giorgi. Regia di Piero Maccarinelli. Scene e costumi di Paola Comencini. Musiche di Antonio Di Pofi. Con Gianrico Tedeschi, Marianella Laszlo, Alberto Onofrietti. Prod. Artisti Riuniti, ROMA. IN TOURNÉE Un giovane nazifascista della periferia romana investe un anziano signore, medaglia d’oro al valore della Resis ten z a, e si t r ova a dover si prendere cura di lui, per evitare la denuncia. Dapprima riluttante, il giovane scopre poi di affezionarglisi. Due autori della nuova drammaturgia Farà giorno
si cimentano in un testo intenso che fa sorridere, ma anche commuovere e riflettere, mentre rievoca alcune pagine drammatiche della nostra storia, dall’occupazione nazista agli anni di piombo. Protagonista è un sempre eccezionale Gianrico Tedeschi che, a 93 anni, mostra forza e vitalità nell’interpretare Renato, un ex partigiano alle prese con la rieducazione politica e sociale di un giovanotto, Manuel (il convincente Alberto Onofrietti), che, da bulletto di periferia emotivamente fragile e con problemi con i genitori, diventa attento ai bisogni degli altri e si appassiona alle letture dei romanzi che Renato gli consiglia. Ciascuno imparerà qualcosa dall’altro, pur appartenendo a mondi diversi, ma accomunati dalla solitudine: Renato per la lontananza della figlia, medico in Africa, Manuel per l’assenteismo dei genitori. Toccante è l’incontro di Renato con la figlia Aurora (Marianella Laszlo) che lui aveva denunciato come brigatista rossa per salvarla da ulteriori errori. Tutta la vicenda si svolge in un interno, progettato da Paola Comencini, così da rendere gli incontri più raccolti, grazie anche al ritmo serrato della recitazione voluto dal regista Maccarinelli. Tedeschi imprime la sua grinta a tutto lo spettacolo, si infervora, spiega come la vecchiaia sia un punto di non ritorno in cui ogni speranza del futuro viene meno e cerca di scuotere Manuel che, pur essendo giovane, ha deposto anche lui ogni speranza di una vita migliore. Ed è a questo che allude il titolo Farà giorno, alla speranza che i prigionieri, come Renato, nei campi di concentramento avevano di vedere arrivare la liberazione. Albarosa Camaldo
CRITICHE/LAZIO
PRO & CONTRO Un gigolò-inseminator per tre amiche frustrate TRES, di Juan Carlos Rubio. Regia e scene di Chiara Noschese. Costumi di Silvia Morucci. Luci di Maurizio Fabretti. Con Anna Galiena, Marina Massironi, Amanda Sandrelli, Sergio Muniz. Prod. Tiesseteatro srl, ROMA.
Fantastichini professore gay nell’Australia degli anni Settanta
IN TOURNÉE È un testo spiritoso e frizzante improbabile e proprio per questo ricco di possibilità creative questo Tres, nato dalla penna di Juan Carlos Rubio. Possibilità poco sfruttate nell’allestimento diretto da Chiara Noschese, che sembra adagiarsi pedissequamente sull’originalità della trama insolita e sorprendente e su un’ovvietà di narrazione un po’ scontata, non aliena da qualche grossolanità di sicuro effetto per un pubblico di bocca buona. Una trama che volentieri vedremmo affidata all’ironia trasgressiva di Pedro Almodovar. Le tre protagoniste in scena sono accomunate da un passato di scolare sui banchi delle Immacolatine e riunite a distanza di trent’anni in una notte brava scandita di ricordi giovanili, confronti istintivi e inevitabili rimpianti. Tre amiche, ma forse anche un po’ nemiche, a giudicare da certe frecciate che ne scandiscono l’incontro nel lusso kitsch di cui si circonda la conduttrice televisiva, qui interpretata da un’Anna Galiena di vistosa eleganza. E soprattutto tre vite, diverse ma ugualmente frustrate, che, giunte alla maturità, decidono di ricorrere ai servigi di un unico inseminator per un futuro progetto di famiglia allargata tutta al femminile. Non senza aver prima elaborato del donatore un quadro di ideale perfezione che incredibilmente s’incarna nel figlio dell’ex bidello della scuola, qui affidato a un monocorde Sergio Muniz, dietro cui si nasconde in realtà un’attività di gigolò, chiamato alla bisogna da quella che, sia pure per una sola volta, è già ricorsa alle sue costose prestazioni nel tentativo di esorcizzare il dolore per la morte del marito. Una donna di estemporanea ricorrente fragilità che nella nuova prospettiva di armonioso futuro ritrova col sorriso determinazione e intraprendenza e che, col volto e i gesti di Amanda Sandrelli, appare qui il personaggio più autentico e vitale. Mentre a Marina Massironi tocca l’ingrato compito di realizzare sulla scena i tratti nevrotici di una stereotipata prevedibile comicità. Antonella Melilli Rossi
BENIAMINO, di Steve J. Spears. Regia di Giancarlo Sepe. Scene di Fabiana Di Marco. Costumi di Giovanni Ciacci. Luci di Umile Vainieri. Musiche di Harmonia Team. Con Ennio Fantastichini. Prod. Marioletta Bideri per Bis Tremila srl, ROMA. IN TOURNÉE
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eniamino. Anno del debutto il 1976. Autore l’australiano Steve J. Spears («Carneade chi era costui?»). Tema l’omofobia. Sulla scena solo, in combutta con lunghi monologhi, un professore di eloquenza scespiriana. Fa l’ortofonista (brutta parola) insegnando come superare difetti di pronuncia, balbuzie e altri handicap ancora. Mezza età. L’età più pericolosa soprattutto se si vive in una cittaduzza di provincia pettegola e bacchettona. Vizio (vizio?) il suo celato per vivere senza troppe preoccupazioni. Unici amici personaggi immaginari, oltre l’amico Bruce con cui per telefono scarica le proprie angosce. Vizio nascosto ancora, quello di darsi al travestimento. Rimanere in guèpiere, libero di togliersi gli abiti da uomo che la società gli impone. Finché un giorno, accompagnato da mamma, arriva Beniamino, ragazzetto adolescente con il grave problema della balbuzie. Non è la sua colpa, la sua colpa è che ferisce a morte il nostro ortofonista: come il bel Tadzio colpisce lo scrittore di Morte a Venezia di Thomas Mann, così colpisce il nostro ortofonista, il bellissimo Beniamino. È amore anche se platonico. Ma Beniamino non è Tadzio. Intuisce il dramma del professore e ricatta. Finirà male per l’insegnante che ama Shakspeare e Mike Jagger. In manicomio. Tempi lontani. Ricci e Forte ci farebbero sopra una allegra risata. Una vicenda così è ancora attuale? Il fatto è che ho visto lo spettacolo a una pomeridiana. E il pubblico – molte vecchie signore – ha taciuto, ascoltato, accettato e applaudito. Sette o otto chiamate e son tante, anche perché convinte. Diapason alto. Solo per la bravura di un eccellente Ennio Fantastichini che ha saputo dare una bellissima, convincente prova d’attore? Ma ho pensato anche che le anziane signore in digestione accogliessero il testo come una novità. Che la tematica è viva. Che se sei omosessuale, sei ancora un emarginato e la società (una parte della società) ancora non accetta, non ti perdona. E il testo, anche se è un poco “vecchio regime”, agli albori dell’Aids, ha sempre qualcosa da dirti. Domenico Rigotti
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enjamin Franklin viene riportato nelle biografie come incarnazione dello spirito illuminista e del self made man. Sarà partito da qui l’autore australiano Steve Spears, deceduto pochi anni fa. Già, Beniamino, appunto Franklin di cognome, è il ragazzino-pungolo sul quale vira la tragedia umana di questo professore di teatro che cura le balbuzie ma ha nell’animo l’en travesti, anzi un’omosessualità “pericolosa” che potrebbe sconfinare nella pedofilia. Qualche tocco, come l’immagine della brughiera bruciata dal sole, da Priscilla la regina del deserto. Testo però datato (1976) perché la tesi iniziale prevede l’essere gay come malattia, come reato. Se il monologo balbetta certamente non è aiutato dal big sul palco, quell’Ennio Fantastichini che già con Ozpetek, in Saturno contro, aveva affrontato un personaggio omosessuale. La sua recitazione è tutta sopra le righe, alla ricerca del passaggio successivo, in una corsa della quale non capiamo il vero e intimo senso. Intonazione alta, forzata, eccessiva, urlante e smodata, con punte fastidiose, troppo veloce, parole mai soppesate ma lanciate e dette senza profondità, senza il giusto peso al significato, buttate sulla scena e sulla platea. Un’impostazione che impoverisce una drammaturgia già di per sé svuotata e ancient. Infiniti passi sono stati fatti nell’accettazione sociale e nell’acquisizione dei giusti diritti da parte di chi ama persone del suo stesso sesso. Ne esce una marmellata borghesuccia incolore, una pasta azzima che non convince in nessuna sua sfumatura. Se il testo faceva acqua, è oscuro il passaggio dalla prima parte alla casa manicomiale del finale, se Fantastichini forse è meglio gustarlo al cinema, la regia di Giancarlo Sepe è alquanto caotica e senza costrutto: oggetti non utilizzati e non funzionali, musiche e luci che sembrano arrivare senza una precisa idea di fondo, corse, entrate e uscite disturbanti e fuorvianti. Un senso di inadeguatezza, su e giù dal palco. Tommaso Chimenti
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CRITICHE/MARCHE-CAMPANIA
STABILE DELLE MARCHE
Cirillo e Feydeau, attrazione fatale per una commedia sulle ipocrisie borghesi LA PURGA, di Georges Feydeau. Regia di Arturo Cirillo. Scene di Dario Gessati. Costumi di Gianluca Falaschi. Luci di Badar Farok. Musiche di Francesco De Melis. Con Arturo Cirillo, Sabrina Scuccimarra, Rosario Giglio Luciano Saltarelli, Giuseppina Cervizzi. Prod. Teatro Stabile delle Marche, ANCONA. IN TOURNÉE È un “incontro pericoloso” quello tra Arturo Cirillo e Georges Feydeau con lo spettacolo La Purga, tratto da On purge bebé, atto unico del 1911. Settantacinque minuti in cui la ferocia e la crudeltà di Feydeau abbracciano il cinismo divertito di Arturo Cirillo. Il regista napoletano si ritaglia il ruolo del protagonista Fallavoine, costruttore di vasi da notte infrangibili, che tali non si riveleranno, che vorrebbe vendere all’esercito. Chouilloux è il funzionario del ministero della guerra, l’uomo con cui dovrebbe concludere l’affare. Cirillo ambienta la pièce tra gli anni Sessanta e Settanta, la scena è quella di un interno borghese dove, in omaggio a Buñuel, attorno al tavolo, al posto delle sedie, sono posti 4 water. In attesa della visita del funzionario si consuma un dramma familiare privo di senso. La signora Fallavoine è preoccupata per la costipazione del figlio di sette anni Totò, va in giro con un secchio e in vestaglia, nonostante sia già quasi ora di pranzo e non permette alla domestica di pulirle il bagno, che, invece, provvede lei stessa a mettere in ordine. I signori Fallavoine, vittime del loro figlio Totò, spietato, tiranno e insopportabilmente capriccioso, non fanno che litigare per lui. Si deve decidere quale sia la purga più idonea a risolvere la costipazione del bambino, ma finiranno per prenderla il povero Chouilloux e Fallavoine (e non Totò). Una medicina che dovrebbero assumere tutti per purificarsi dall’ipocrisia e dalla supponenza. In scena sei personaggi, due dei quali, la cameriera e la signora Chouilloux, interpretati da Giuseppina Cervizzi, si muovono in perfetto sincrono. Sabrina Scuccimarra compiuta nel suo ruolo di donna alle soglie dell’isteria il cui mondo ruota attorno al figlio viziato. Rosario Giglio, funzionario miope e impacciato. Luciano Saltarelli nel ruolo di Totò, il pestifero bambino irriverente e cattivo. Cirillo nei panni di un presuntuoso e ridicolo piccolo imprenditore regala ancora una buona prova d’attore, dirigendo con mano sapiente la sua compagnia. Giusi Zippo
La purga (foto: Marco Ghidelli).
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Dal team di Boris un apologo tutto italiano
Tra Pirandello e Cecchi l’Eduardo di Imparato
STARE MEGLIO OGGI, scritto e diretto da Giacomo Ciarrapico. Luci di Luca Barbati. Musiche di Giuliano Taviani. Con Carlo De Ruggieri. Prod. Inteatro, POLVERIGI (An).
UOMO E GALANTUOMO, di Eduardo De Filippo. Regia di Alessandro D’Alatri. Scene di Aldo Buti. Costumi di Valentina Fucci. Con Gianfelice Imparato, Eduardo Esposito, Valerio Santoro, Antonia Truppo. Prod. Ass. Cult. La Pirandelliana, ROMA - L’Incredibile srl, ROMA - Diana Oris, NAPOLI.
IN TOURNÉE Collaudato il team, ecco che dopo una serie di collaborazioni fra il registaautore Ciarrapico e l’attore De Ruggieri, una per tutte il Boris, televisivo e film, si presenta una commedia ben piantata nella polvere del palcoscenico. Stare meglio oggi è il racconto di quel malessere più o meno condiviso da tutti (a parte coloro che continuano a guardare il mondo da una “terrazza” senza subirne le conseguenz e ), e a l l ’o g g i r i m a n d a n o l e sovrapposizioni allegoriche delle quali si serve per definire una condizione, uno status e un universo di riferimento. Calato dentro un monologo che sembrerebbe introverso, l’attore interpreta una scrittura astuta e divertente, un marchingegno ben orchestrato che attira a sé lo spettatore e lo ingloba. Lo spettatore non può non tifare per un protagonista dimesso ma non arreso, impegnato ma svogliato, di sinistra ma borghese, poetico ma sfortunato in amore, insomma rimasto solo col caos di un’immobilità che male sopporta le uscite, le relazioni sociali o anche soltanto una quotidiana risposta alla vita. Sebbene l’elementare apparato scenico risenta di una tipica debolezza creativa tre aree che si illuminano a seconda dello spostamento del monologo dalla sfera intima a quella pubblica, dunque un letto e poco più e, dalla parte opposta, un mucchio di giornali e fogli sparsi come nel macero - è nel corpo dell’attore che vanno a compiersi gli eventi. Perché al suo interno convivono opposizione e governo, si alternano moti e tumulti, si liberano gli eccessi ideologici o trovano accordi bi-partisan le diverse anime che motivano l’esistenza di chi la sta raccontando con grande capacità nel tenere il fraseggio delle allusioni alle parti organiche dichiaratamente politiche, nell’affresco poco consolatorio del nostro Paese. Paolo Ruffini
IN TOURNÉE Impossibile non convenirne: è un lavoro ancora acerbo Uomo e galantuomo che Alessandro D’Alatri rilancia con Gianfelice Imparato protagonista, scritto da un Eduardo giovanissimo, a solo ventidue anni, e già ricco di spunti che ricorreranno nella sua produzione. Una farsa che è anche satira amara del perbenismo borghese contro il dramma proletario di ogni giorno vissuto da una malandata compagnia di guitti. Eccola in una località balneare, ospite di un alberguccio che male li accoglie, dove all’inizio li vediamo provare un drammone a tinte fosche di Libero Bovio, ma dove accadono anche piccole disgrazie che rendono più difficile la loro esistenza, Non certo solo il fatto che Gennaro, il capocomico, si è rovinato l’unica giacca che possiede e che gli serve per andare in scena e poi si scotta i piedi (e ne nasce un tormentone). Ma peggio è l’avventura cui va incontro l’impresario, innamorandosi di una ragazza che crede nubile e non lo è affatto. Da qui una girandola di malintesi e di corna che costringono i fedifraghi, e non solo loro, a fingersi pazzi per non andare in galera. Finale quanto mai farsesco, momento clou anche dello spettacolo che D’Alatri mette in scena con un certo garbo anche se non con una lettura sorprendente. Garbo che già si riscontra nei costumi (Valentina Fucci) e nelle stilizzate scene di Aldo Buti. La malinconia a trovare un suo spazio accanto all’insistita analisi dei meccanismi comici. Quei meccanismi che, se pur in maniera diversa, possiede la brava compagnia ma di cui dà forte esempio Gianfelice Imparato (Gennaro) lontano dall’eduardismo e forse più vicino a
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un altro suo grande maestro, Carlo Cecchi. Ma non è da meno Giovanni Esposito, caratterista d’eccezione che, soprattutto nel primo atto, diventa la spalla preziosa del protagonista, e con lui è un repertorio di gag strepitoso. Domenico Rigotti
L’imperialismo americano non si addice a Medea MEDEA, di Seneca. Traduzione e adattamento di Francesca Manieri. Regia di Pierpaolo Sepe. Scene di Francesco Ghisu. Costumi di Annapaola Brancia D’Apricena. Luci di Pasquale Mari. Con Maria Paiato, Max Malatesta, Orlando Cinque, Giulia Galiani, Diego Sepe. Prod. Fondazione SALERNO Contemporanea. IN TOURNÉE
Medea (foto: Pino Le Pera)
Per ripensare il classico sulla scena contemporanea, ogni regista ha a disposizione traduzioni, adattamenti, riscritture, attualizzazioni, persino deliberati tradimenti. Tutto ciò che serve per una “messa in vita” del testo scritto è lecito. Se alcuni interventi arrivano a riportare a galla tutta la forza e l’attualità del teatro antico, in altri casi ci si trova di fronte a operazioni di facciata, che mostrano presto la propria fragile tenuta. A questa seconda categoria appartiene la Medea interpretata da Maria Paiato e diretta da Pierpaolo Sepe, che come punto di partenza non sceglie Euripide, ma la ben più complessa e ridondante versione senecana. La scenografia e i co-
stumi forzano volutamente il contesto, evocando un cortocircuito tra l’imperialismo americano e la democrazia ateniese incapace di accettare Medea, la pericolosa straniera che destabilizza e impaurisce. Ecco che Giasone-colonialista (Max Malatesta) diventa un gringo con giacca di pelle alla Fonzie di Happy days e un ambiguo corifeo con barba alla Celestini (Diego Sepe) esibisce occhiali da sole e T-shirt. Non è la prima volta che l’impero ateniese viene accostato a quello americano e la similitudine – pur non sorprendente – non è certo ingiustificata. Ma in questo caso le decise attualizzazioni risultano poco più di un vezzo estetizzante: per il resto la messa in scena resta paludata, declamatoria e ipertradizionale. E come gestisce la regia quel noto patetismo senecano, così lontano dalla nostra sensibilità post-moderna? Non calibrando le tensioni, non marcando i chiaroscuri, ma enfatizzandone senza tregua ogni eccesso: la pur straordinaria Maria Paiato declama con enfasi ogni battuta del copione, sfidando il pubblico (moltissimi gli studenti in sala) a una tenuta emotiva a cui siamo ormai disabituati. Si arriva così al momento dell’infanticidio – realizzato attraverso il metaforico utilizzo di due disegni infantili stilizzati – estenuati dal troppo pathos e incapaci di raggiungere qualunque catarsi. Ripensare il teatro antico dalle fondamenta non significa anche interrogarsi sul cambiamento del pubblico, sul profondo mutare delle esigenze di ritmo e sui presupposti dell’empatia? Maddalena Giovannelli
GOLDONI/BEAN
Favino-Arlecchino si fa in due e diverte nella Romagna anni '30 SERVO PER DUE, di Richard Bean da Il servitore di due padroni di Goldoni. Regia di Pierfrancesco Favino e Paolo Sassanelli. Scene di Luigi Ferrigno. Costumi di Alessandro Lai. Luci di Cesare Accetta. Con Pierfrancesco Favino, Fabrizia Sacchi, Pietro Ragusa, Anna Ferzetti, Bruno Armando, Giampiero Judica, Diego Ribon, Eleonora Russo, Luciano Scarpa, Gianluca Bazzoli, Roberto Zibetti, Ugo Dighero, Marit Nissen. Prod. Gli Ipocriti, NAPOLI - Rep/Gruppo Danny Rose, ROMA Fondazione Teatro della Pergola, FIRENZE. IN TOURNÉE C’è tanto, forse anche troppo, gli ingredienti più diversi che possono concorrere alla creazione di un lavoro di puro, a tratti irresistibile intrattenimento in questo Servo per due adattato dallo stesso Pierfrancesco Favino con Paolo Sassanelli, Marit Nissen e Simonetta Solder. Ma forse non era necessario accumulare: gli echi di Goldoni sempre presentissimi nella riscrittura british di Richard Bean, il riadattamento di questa scegliendo un’ambientazione italiana anni '30, un sovrapporsi di parlate regionali e una cornice romagnola e riminese che serve, ci sembra, solo a rendere possibile la citazione felliniana dell’arrivo del Rex di Amarcord sulle musiche del film. Allo stesso modo, del resto, la collocazione negli anni '30 pare essere soltanto un pretesto per l’utilizzo di musiche e canzoni d’epoca – che “funzionano” sempre – eseguite dal simpatico, scatenato quartetto Musica da Ripostiglio, tutto humour e virtuosismi. Le musiche d’anteguerra sono “doppiate” da siparietti danzati e cantati, coreografati da Fabrizio Angelini e animati dagli interpreti, in qualche caso più bravi in queste parentesi da varietà che nella recitazione. E ancora ecco le invenzioni accattivanti dell’inarrestabile mattatore Favino, che va avanti a ruota libera. Infine, a parte i lasciti goldoniani e le trovate in stile slapstick (in cui giganteggia uno straordinario Ugo Dighero), ecco una comicità immediata, facile, senza pretese; e persino l’arrivo di una drag queen che fa Wanda Osiris. Tutto questo insieme, crediamo, non era indispensabile, ma sembra essere quello che vuole il pubblico, a giudicare dal successo davvero trionfale dello spettacolo. Un successo che non si spiega solo con l’appeal sul pubblico del divo cinetelevisivo Favino. Il quale, peraltro, supera pienamente la prova e regge bene lo spettacolo con una interpretazione davvero convincente al punto da farci chiedere perché non abbia affrontato direttamente il Servitore originale, quello di Goldoni. Francesco Tei Pierfrancesco Favino in Servo per due (foto: Fabio Lovino).
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E se una città intera votasse scheda bianca? TEMPO PESSIMO PER VOTARE, da Saggio sulla lucidità di José Saramago. Adattamento e regia di Carlo Cerciello. Scene di Michele Gigi e Marco Perrella. Musiche di Paolo Coletta. Costumi di Iole Cilento. Con Marco Rescigno e gli allievi del laboratorio teatrale permanente del Teatro Elicantropo. Prod. Anonima Romanzi Teatro Elicantropo | Prospet, NAPOLI. L’opus letterario di José Saramago consiste(va) nel fare il vuoto dentro di sé per poi formulare un’ipotesi. In Saggio sulla lucidità (seguito di Cecità) l’ipotesi è: cosa sarebbe successo se un’intera città avesse votato sche-
da bianca? Da questo, Carlo Cerciello ha tratto l’allestimento di Tempo pessimo per votare attraverso il quale spinge all’estremo nel territorio del grottesco gli ingranaggi del potere e il suo autolegittimarsi in forme violente ed eversive. I membri del governo, i cui volti sono coperti da maschere dai tratti deformati (palese rimando all’arte di George Grosz), si confrontano con una fattispecie nuova: esistere ed esercitare il potere è possibile soltanto se si è riconosciuti dai propri cittadini, anche attraverso il “rifiuto”. In questo adattamento teatrale, con un’attitudine recitativa surrealistica e marionettistica e un tessuto musicale che rende quasi gaudente il gioco scenico, la “teratologia politico-sociale” si tinge di tensioni corrosive che lasciano deflagrare didascalici indizi. La condizione di “non-voto” respinge in
Carosone...
toto la struttura della democrazia - e lo compie con uno strumento che è offerto dalla democrazia stessa. Occorre destabilizzare. Allora una bomba di Stato viene fatta esplodere nella stazione, causando decine di morti, nella speranza che i cittadini diano la colpa a fantomatici terroristi responsabili della “congiura”. L’extrema ratio si manifesta nella personalità apparentemente irregimentata di un commissario di polizia (Marco Rescigno) mandato a scoprire i cospiratori. Anche, e soprattutto, se non esistono. In un climax tragico il suo omicidio riporta al grado zero ogni possibilità di verità e il cerchio di ipocrisia si chiude. L’ennesimo notiziario ultradicente e menzognero (agito da uno schermo di orwelliana memoria) porrà la parola “fine” all’ultimo tentativo di autocoscienza collettiva. Francesco Urbano
Omaggio a Carosone l’americano di Napoli CAROSONE, L’AMERICANO DI NAPOLI, di Federico Vacalebre. Regia di Fabrizio Bancale. Scene di Massimiliano Pinto. Coreografie di Ferdinando Arenella. Con Sal Da Vinci, Giovanni Imparato, Pietro Botte, Forlenzo Massarone, Claudia Letizia, Lello Radice. Prod. Prospet, Palapartenope e Diana Oris, NAPOLI. IN TOURNÉE Perché Renato Carosone al culmine del successo decise di ritirarsi dalle scene? La ricerca della risposta da parte di un giornalista a caccia d’uno scoop che gli permetta di scrivere
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una fiction televisiva costituisce l’esile pretesto drammaturgico della commedia musicale Carosone, l’americano di Napoli. Uno spettacolo che punta essenzialmente sulle canzoni senza tempo del grande innovatore, che riuscì a costruire uno stile completamente nuovo, capace di dialogare con il mondo valorizzando senza tradire la tradizione musicale di cui era figlio. Arrangiate con grande originalità dal talentoso musicista napoletano Lorenzo Hengeller e interpretate dal bravo Sal Da Vinci, Maruzzella, Torero, ‘O sarracino, Pigliate na pastiglia, Tu vuo’ fa l’americano (per citare solamente alcuni dei cavalli di battaglia carosoniani), fanno venir voglia di cantare come a un concerto e di unirsi al corpo di ballo con i loro ritmi jazz, rock, rap. Quella che, invece, risulta estremamente debole è la parte teatrale dello spettacolo: bozzettistiche le scene, il cui elemento centrale è un grande pianoforte bianco, che con il coperchio chiuso funge da pedana, con il coperchio aperto da schermo; didascalici sia i filmati d’epoca, sia quelli con l’omaggio al Maestro di artisti quali Enzo Jannacci, Pino Daniele, Raiz, Carlo Verdone, Renzo Arbore; discontinua la qualità degli interpreti, fra i quali si distinguono il leader dei Posteggiatori Tristi, Pietro Botte, nei panni di Van Wood, Giovanni Imparato in quelli di Gegè Di Giacomo, Forlenzo Massarone in quelli di Fred Buscaglione; inconsistente il pretesto narrativo. Un’operazione riuscita a metà, in definitiva, ma comunque capace di dimostrare che, anche a distanza di mezzo secolo, la musica del grande Renato è sempre attuale e coinvolgente. Stefania Maraucci
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Il vigore e la grazia della nouvelle magie sui palcoscenici di Torinodanza
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umerosi i filoni tematici che hanno attraversato l’edizione 2013 di Torinodanza, rassegna che ha portato nei teatri torinesi alcune delle realtà, italiane e internazionali, più interessanti della danza e del circo contemporanei. L’apertura della rassegna è stata affidata al prestigioso Ballet National de Marseille, diretto dal 2004 dal coreografo belga Frédéric Flamand che ha chiamato a collaborare due colleghi assai apprezzati sulla scena internazionale: l’italiano trapiantato in Olanda Emio Greco e il francese Olivier Dubois. Il primo, con Pieter C. Scholten, ha ideato Double Points: Extremalism, una creazione tesa a esaltare il vigore e insieme la grazia del corpo dei ballerini, impegnati in coreografie energiche e nondimeno esplicitamente espressive. Sul fondo del palcoscenico trascorrono a tratti immagini in bianco e nero degli stessi danzatori a zonzo per Marsiglia, a ricordarci dei felici cambiamenti intervenuti nella città, Capitale Europea della Cultura 2013. Un’atmosfera di spensierata - e ammiccante - familiarità che scompare bruscamente nell’altra creazione realizzata per la compagnia francese, Élégie, frutto dell’immaginazione pittorica e mistericamente allusiva di Olivier Dubois. Ispirato alle Elegie del poeta tedesco Rainer M. Rilke, lo spettacolo narra l’incubo e la lotta per sfuggire alle tenebre di un uomo e poi di una donna, uniche
figure in chiaro in un ammasso oscuro costruito dai corpi degli altri danzatori, letteralmente fusi l’uno nell’altro. Le suggestioni, accresciute dalla scelta musicale, le Elegie - ovviamente - di Richard Wagner, sono numerose ed eterogenee ma non nuocciono alla stringente compattezza di un lavoro di innegabile fascino, visivo ed emozionale. La qualità delle creazioni del Ballet National de Marseille è stata uguagliata dalle tre coreografie proposte da un’altra compagnia assai apprezzata, il newyorkese Cedar Lake Contemporary Ballet. Ad aprire la serata Indigo Rose, una delle creazioni più celebrate della carriera del coreografo di origini ceche Jirí Kylián: i ballerini sono invitati a celebrare un ideale utopistico, vale a dire quello dell’eterna giovinezza e, allo stesso tempo, a incarnare la consapevolezza della sua irrealizzabilità. Uno spettacolo che incanta per la perfezione della tecnica, la stessa che percorre gli inappuntabili e poetici Ten Duets on a Theme of Rescue, opera di Crystal Pite. La coreografa canadese inventa, utilizzando come colonna sonora brani tratti dal film Solaris, dieci differenti duetti, così da costruire una sorta di composita fenomenologia del “salvataggio”, analizzato in tutte le sue molteplici manifestazioni, fisiche e psicologiche. Anche in questa creazione, insomma, l’impeccabilità della tecnica convive con una originalità compositiva, qualità
quest’ultima che risulta meno evidente nel terzo lavoro proposto dal Cedar Lake, Horizons, coreografato dal greco Andonis Foniadakis e ispirato alla frenesia che percorre una grande città. Un’assenza di nuovi stilemi che, per contrasto, permette di apprezzare l’operazione ideata dalla critica e storica della danza Marinella Guatterini che, con il progetto Ric.ci, ha proposto spettacoli cult degli anni Ottanta con medesima coreografia ma nuovi interpreti. Esemplare è Calore, creato nel 1982 da un giovanissimo Enzo Cosimi: uno spettacolo colorato e vitale, assolutamente eterodosso e gioiosamente pop che, oggi come allora, divide il pubblico e la critica e che, nondimeno, segnò un punto di non ritorno per la coreografia e per la drammaturgia italiane. Immagini, stilemi, espedienti drammaturgici escogitati da Enzo Cosimi risultano oggi quanto mai familiari perché ripresi e assorbiti da non pochi colleghi, nella danza come nel teatro cosiddetto “d’avanguardia”: la contaminazione di alto e basso e la tessitura di un filo drammaturgico non pretestuoso, la rivelazione di quale grazia nascondano i gesti quotidiani e la loro conseguente e straniante decontestualizzazione. Un’operazione, questa, per la quale mostrano una speciale propensione anche i due spettacoli di circo contemporaneo voluti dal direttore artistico Gigi Cristoforetti. Etienne Saglio è autore e interprete di Le
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soir des monstres, una sorta di sogno a occhi aperti, fra incubo e fantasie rassicuranti. In una soffitta oscura, fra svariati e multiformi oggetti, alcuni oramai inutilizzabili, si muove un uomo solitario e malinconico, intento a produrre gomitoli di spesso fil di ferro. Materiale povero e freddo dal quale si generano, però, strane e magiche creature, rasserenanti e divertenti ovvero ostili e minacciose. Uno spettacolo ascritto alla categoria di nouvelle magie ma che, in realtà, sa rinnovare quella capacità di creare mondi inediti e affascinanti propria del teatro. E, ugualmente “magica”, è la creazione di Aurélien Bory, Plan B, in cui quattro attori-danzatori-giocolieri intraprendono una sorta di corpo a corpo con un muro, ora inclinato, ora posto in verticale, così da sfidare non solo i propri limiti fisici ma altresì le aspettative e la fantasia del pubblico. Laura Bevione DOUBLE POINTS: EXTREMALISM, coreografia, scene, luci e suono di Emio Greco e Pieter C. Scholten. Costumi di Clifford Portier. ÉLÉGIE, coreografia di Olivier Dubois. Luci di Patrick Riou. Con i danzatori del Ballet National de Marseille. Prod. Ballet National de Marseille, FRANCIA. INDIGO ROSE, coreografia e scene di Jirí Kylián. Costumi di Joke Visser. Luci di Michael Simon. TEN DUETS ON A THEME OF RESCUE, coreografia di Crystal Pite. Costumi di Junghyun Georgia Lee. Musica di Cliff Martinez. HORIZONS, coreografia di Andonis Foniadakis. Costumi di Tassos Sofroniou. Luci di Clifton Taylor. Musica di Julien Tarride. Con i danzatori del Cedar Lake Contemporary Ballet. Prod. Cedar Lake Contemporary Ballet, USA. CALORE, regia, coreografia, scene e costumi di Enzo Cosimi. Luci di Stefano Pirandello. Con Francesco Marilungo, Riccardo Olivier, Francesca Penzo, Alice Raffaelli. Prod. Progetto Ric.ci, TORINO - Compagnia Enzo Cosimi, ROMA e altri 3 partner.
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LE SOIR DES MONSTRES, scrittura e ideazione magica di Etienne Saglio e Raphaël Navarro. Con Etienne Saglio. Prod. Monstre(s) e altri 10 partner, FRANCIA. PLAN B, ideazione, regia e scene di Aurélien Bory e Phil Soltanoff. Con Olivier Alenda, Aurélien Bory, Loïc Praud, Alexandre Rodoreda. Prod. Compagnie 111 - Aurélien Bory e altri 20 partner, FRANCIA.
Variazioni sul corpo femminile SEE HER CHANGE, coreografia di Yasmeen Godder. Drammaturgia di Itzik Giuli. Di e con Dalia Chaimsky, Shuli Enosh, Yasmeen Godder. Scene e video di Yochai Matos. Costumi di Tom Krasny. Luci di Andreas Harder. Prod. Montpellier Danse 2013 - Centro per la Scena Contemporanea, Bassano del Grappa (Vi). ROMAEUROPA FESTIVAL 2013. L’israeliana Godder è una delle figure più emblematiche del panorama internazionale, coreografa e danzatrice ha attraversato in questi anni diverse fasi creative mantenendo però il baricentro del proprio percorso su una traiettoria mai compromissoria, senza mai strizzare l’occhio al gusto medio e senza lasciarsi andare al sentimentalismo di una tradizione autobiografica del gesto. Con nettezza, la sua è una dura e costante rivendicazione di un lavoro politico o, come lei stessa afferma, una tensione politica del corpo. Anche questo See Her Change, visto al Romaeuropa Festival, traccia il solco di un equilibrio precario, entro cui raccontare l’universo femminile alle prese con la propria incapacità di aderire a modelli di mercato. Guardare il suo cambiamento o guardarla mentre cambia, è l’incitazione del titolo allo spettatore che vede tre straordinarie interpreti (come spesso lo sono i danzatori israeliani, i quali hanno tecnica da ven-
dere) provarsi in scena nel motivo di un andamento circolare, dove si cerca una possibile via d’uscita alla “rappresentazione” del canone. Influenzato da immaginari cinematografici, con proiezioni video nel segno da graphic novel che assorbono o danno eco agli ambienti che vanno a crearsi, lo spettacolo inizia quasi casualmente, forse in una sala prove con tanto di tavolo, specchiera e sedie, dove si alternano brani musicali dal new folk d’autore di Devendra Banhart all’elettronica di James Blake, in un susseguirsi di occasioni frastagliate di danza volutamente ruvida e paradossale. Il corpo è il centro dell’indagine, quel corpo non arreso alla impietosa logica della cartellonistica, ma è evidentemente una metafora dichiarata che gioca con le convenzioni dell’apparenza. Ecco allora manipolazioni sul corpo che lo “deturpano”, parrucche sgargianti che ne fanno pagliacci nella versione ultrapop di non ortodosse pin up, lamenti o risolini che accompagnano per tutto il tempo come litanie ebeti, sino a giungere all’assolo della stessa Godder che ha la bellezza di un lascito. Paolo Ruffini
Atomi e ombre digitali nella danza di McGregor ATOMOS, ideazione, direzione e scene di Wayne McGregor. Coreografia di Wayne McGregor, in collaborazione con i danzatori. Luci di Lucy Carter. Musica di A Winged Victory For The Sullen. Video di Ravi Deepres. Costumi di Studio Xo. SCAVENGER, ideazione, direzione, coreografia e regia di Wayne McGregor. Prod. Wayne McGregor/Random Dance, Londra e altri 5 partner internazionali. FESTIVAL APERTO, REGGIO EMILIA. È conosciuto dagli addetti ai lavori per i continui, insistiti rimandi alla tecnologia, l’altro dalla danza. Wayne McGregor ha fatto dell’ibridismo linguistico la propria cifra estetica. Non fa eccezione Atomos. Il riferimento, qui, è la fisica: nel movimento impazzito degli atomi, che scontrandosi generano la materia, egli legge l’eterno balbettio dell’esistenza, fatto di attrazione e repulsione. Sul palcoscenico del Teatro Valli (il lavoro è una commissione di Fondazione I Teatri di Reggio Emilia), i danzatori s’incontrano, si contraddicono, scomponendo il movimento per ritrovarne l’origine e ricostruire, dal poco, una frase, una partitura, un pensiero. Il tutto entro una potentissima architettura visiva, piccoli quadri – tra il figurativo e il suprematista – per decantare la meraviglia, per contemplare i quali è necessario indossare gli occhiali 3D. Potenza dell’immaginazione, si dirà, che non raggiunge, tuttavia, le vette di altre, più ispirate composizioni, preferendo adagiarsi in una sequela anche ripetitiva di mirabilie, situazioni giustapposte e in pose fin troppo plastiche, dove il video rimane estraneo, corpo morto entro una materia che non scotta, non brucia, non incide. Più coraggioso di Atomos, Scavenger esplora, con
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convinzione, le relazioni pericolose tra arte e vita. È l’ambiente, qui, a ispirare l’opera, l’architettura brutalista della Collezione Maramotti, per la quale la performance è concepita. Il metodo è quello del terzo teatro: ogni danzatore sceglie una scultura della Collezione – da Claudio Parmiggiani a Vito Acconci, fino a Mario Merz e Mark Manders – e da lì trae l’ispirazione. Al coreografo, il compito di tessere le fila. La libera improvvisazione apre, allora, le griglie della composizione: il movimento si fa organico, istintivo. Dionisiaco, quasi. Come gli animali saprofagi del titolo, gli artisti vanno in cerca della Bellezza, per appropriarsene e buttarla fuori, di rimando. Come gli alberi con l’ossigeno, i poeti con la materia dei sogni. Persi, nell’open space dell’edificio, a tu per tu con lo spettatore. È grande danza, questa, tutta tesa sul filo dell’ineffabile e sempre a un passo dall’oblio. Di cui non resta che una traccia. Un’esile filigrana, per dire io c’ero. Impressa in video, tramite il software Becoming, che dei danzatori cattura l’anima, l’energia, il movimento. Per farne una scultura digitale. L’ennesima. La più vitale. Roberto Rizzente
Sieni gioca con Hölderlin e la poesia del gesto ESERCIZI DI PRIMAVERA, coreografia di Virgilio Sieni. Costumi di Giulia Bonaldi. Luci di Fabio Sajiz. Musica eseguita dal vivo da Naomi Berrill. Con Giulia Mureddu, Sara Sguotti, Jari Boldrini, Nicola Cisternino, Paul Pui Wo Lee, Davide Valrosso. Prod. Compagnia Virgilio Sieni, FIRENZE. Lo avevamo lasciato all’Accademia sull’arte del gesto. Piccole composizioni, condotte con tatto e poesia, necessarie a Virgilio Sieni per ricostruire dal grado zero il movimento, quello delle grandi partiture, presentate un po’ ovunque. A quell’esperienza sembra ispirarsi direttamente questo Esercizi di primavera. E non per l’età o il grado di formazione degli interpreti. Quanto, proprio, per il clima di magica sospensione che qui si viene a creare. C’è, sì, l’alibi di una deriva maggiore, improntata a una qualche filosofica verità, in questo caso la tarda poesia di Hölderlin, commentata dall’Heidegger della conferenza Poeticamente abita l’uomo. Ma niente, di tutto questo, grava sullo spettacolo, piuttosto concentrato sull’incontro – meravigliosamente crepuscolare – tra sei creature ai margini. Creature umili, adolescenti quasi, eteree, evanescenti, da vicino minacciate da un’umanità alla deriva. E che per questo ci provano, a resistere, inventando – dal niente, dopo il letargo – una comunità nuova, fatta di dialogo, mutua comprensione, come in uno sforzo di auto-introspezione e comprensione reciproca. Più che alla macrostoria – la voce e le proiezioni che dall’alto fanno da contrappunto, scandendo una Passione laica in 60 tappe, che ammicca alla scomparsa delle piccole popolazioni – è in questa architettura minimale, allora, che va rintracciata l’originalità dello
spettacolo. Sieni è maestro nel far vibrare i passi, le aporie del movimento. Unire i fili invisibili che legano le diverse esperienze, calibrando le energie e inventando meraviglie, anche grazie al portato della musica. Nonostante la lunghezza, a tratti eccessiva, della partitura. Nonostante il profluvio delle composizioni, a tratti compiaciuto. Che rischia, a ogni passo, di trasformare lo stupore in abitudine, il gusto in affettazione. Roberto Rizzente
Le creature incompiute di Büchner WOYZECK, O L’INIZIO DEL CAPOGIRO, da Georg Büchner. Coreografia di Josef Nadj. Luci di Raymond Blot e Lionel Colet. Musiche di Alasdar Racz. Con Guillaume Bertrand, Istvan Bickei, Denes Debrei, Samuel Dutertre, Peter Gemza, Josef Nadj, Henrieta Varga. Prod. Théâtre National de Bretagne, Rennes - Centre Chorégraphique National d’Orléans. FESTIVAL CONTEMPORANEA, PRATO. Era il 1879 quando, per la prima volta, venne dato alle stampe Woyzeck. Molti anni sono passati, da allora. Pure, pochi sono i registi che hanno adeguatamente riflettuto sulla sua forma, così singolare. Perché il capolavoro di Büchner, prima di tutto, è un dramma incompiuto. Un convulso, straordinario cumulo di frammenti, che l’autore ha lasciato allo stadio di bozza, a causa della morte improvvisa. Merita quindi attenzione l’approccio di Josef Nadj, che quella forma ha deciso di rivisitare. Ci sono sette danzatori, nel Woyzeck proposto a Prato, due anni dopo Venezia. Sette “burattini” che si animano, gridano, si rincorrono, amano pure. Solo che non parlano. Piuttosto, si prodigano in una sequela muta, struggente e dolcissima, di sketch, certo mediati dalla lezione delle slapstick comedy. Quanto di più lontano dalla vulgata potrebbe esserci, a prima vista. E invece eccolo, lo scarto di genio. Perché quei danzatori sono come gli Schiavi di Michelangelo. Sono, cioè “necessariamente” goffi, caricaturali. Sono creature incompiute, un po’ pirandelliane se vogliamo, dei Golem imbrigliati nella materia, e per questo patetici. Sono “maschere”, costrette dal destino – la morte improvvisa del loro autore – a ripetere, ora e per sempre, quel piccolo campionario di gesti, accuse, carezze, invece di risolversi in un personaggio tout court, incanalato entro una storia. Senza citare mai espressamente Büchner, tranne che per il coltello e lo squallore domestico, questa versione è, allora, tra quelle che meglio restituiscono il clima della grande tragedia. Perché, partendo dalla “lettera” del testo – il suo essere frammento –, ne svela l’anima, il sottotesto tragico. Quel senso d’impotenza e di solitudine attanagliante che ti prende alla gola e ti paralizza, dinanzi alla finitudine delle cose. Avvertito allora, dall’umile Woyzeck, quando la crisi del fin de siècle era ancora lontana. E tanto più pressante oggi, dove sono crollati i sistemi di riferimento e si profila, dinanzi, lo spettro inconsolabile del nichilismo. Roberto Rizzente
In apertura, Indigo Rose (foto: Paula Lobo); nella pagina precedente, Atomos (foto: Ravi Deepres); in questa pagina, Esercizi di primavera, See her change (foto: Gadi Dagon) e Woyzeck.
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Tutte le sfumature di Verdi Si conclude l'anno del giubileo per il Maestro di Busseto e sui palcoscenici d'Europa le sue opere trovano mille diverse voci: l’Aida kitsch e pompier di Olivier Py a Parigi, il ritorno di una discutibile Traviata alla Scala, l'Attila dei Colla e un racconto in chiave edutainment firmato da Paolini e Brunello.
AIDA, di Giuseppe Verdi. Regia di Olivier Py. Scene e costumi di Pierre-André Weitz. Luci di Bertrand Killy. Chœurs et orchestre de l’Opéra national de Paris, direzione musicale di Philippe Jordan, maestro del coro Patrick Marie Aubert. Con Oksana Dyka, Marcelo Álvarez, Luciana D’Intino, Sergej Murzaev, Roberto Scandiuzzi, Carlo Cigni, Oleksiy Palchykov, Elodie Hache. Prod. Opéra National, PARIGI. IN TOURNÉE Bulimico protagonista delle scene francofone, Olivier Py ha aperto la nuova stagione con ben quattro produzioni di segno contrastante, da una limpida Alceste di Gluck ai Dialogues des Carmélites di Poulenc passando per l’Hamlet di Thomas a Bruxelles. Ma il vero evento è stata l’Aida, unica nuova produzione dell’Opéra di Parigi per il bicentenario verdiano, al debutto alla Bastille dopo un’assenza dal repertorio durata quarantacinque anni. Quasi mezzo secolo destinato a scomparire di fronte ai violenti scarti temporali sovrapposti, accumulati, affastellati – con gusto tra il kitsch e il pompier – dal regista francese. Nella rutilante, dorata scenografia componibile di Weitz, Py fa piazza pulita dell’esotismo fin de siècle, dell’egittomania che è cifra distintiva del dramma, per riflettere sull’imperialismo e sulla natura del potere, sulle sue relazioni strumentali con la chiesa, sulla funzione della guerra nella costruzione dell’identità nazionale italiana, all’indomani dell’unificazione. A suscitare le ire del pubblico non è tanto lo scontro tra Egizi ed Etiopi, i primi sotto le bandiere austriache e i secondi come patrioti italiani; ma un Ramfis che non è più gran sacerdote d’Iside ma vescovo in sontuosi paramenti sacri, impegnato nella consacrazione dopo aver condannato a morte Radamès con alcuni membri del Ku Klux Klan. Gli Etiopi, poi, diventano anche Ebrei della diaspora e delle persecuzioni, quindi di nuovo Etiopi di ieri e di oggi, sullo sfondo del Vittoriano, in una
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fusione d’epoche che dapprima irretisce, poi confonde e affatica. Ma è difficile dimenticare quell’autentico, poetico colpo d’ala rappresentato dalla scena del trionfo: quando tutto il palcoscenico rimane vuoto e, davanti a un arco di trionfo lustrato da lavoratrici sfruttate, una ballerina in tutù bianco svetta solitaria su cataste di cadaveri, cumuli di vittime di una società militare che produce solo desolazione e morte. E allora l’imponente crocifisso in fiamme dell’ultimo atto divampa quale lacerante grido di dolore sulle macerie del passato. Giuseppe Montemagno LA TRAVIATA, di Giuseppe Verdi. Regia e scene di Dmitri Tcherniakov. Costumi di Yelena Zaytseva. Luci di Gleb Filshtinsky. Orchestra e coro del Teatro alla Scala, direzione musicale di Daniele Gatti, maestro del coro Bruno Casoni. Con Diana Damrau/Irina Lungu, Piotr Beczala, Željko Lučić, Giuseppina Piunti, Mara Zampieri, Andrea Mastroni, Antonio Corianò, Roberto Accurso, Andrea Porta, Nicola Pamio. Prod. Teatro alla Scala, MILANO. Come la Comtesse d’Haussonville, nell’enigmatico ritratto di Ingres, anche Violetta si guarda allo specchio durante il Preludio della Traviata scaligera firmata da Tcherniakov. Si prepara per la festa imminente, forse s’interroga sul suo destino, quasi lo prefigura: perché non è sola, «in questo / popoloso deserto / che appellano Parigi», ma sempre seguita, assecondata da Annina, la sua femme de chambre ma anche l’ombra, il doppio, uno sguardo sul futuro che la attende. Chioma rosso fuoco, vistosi caffetani dalle tinte sgargianti, Annina (una commovente Mara Zampieri, lei che era stata la Lady Macbeth di Sinopoli e Ronconi) diventa l’occhio dello spettatore, il narratore di un’azione che ha luogo a Parigi, in un elegante immobile haussmaniano, quindi in una dimora di campagna in cui tutto è irreale come in una casa di bam-
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bole. La storia che il regista racconta non è più quella di una cortigiana tisica redenta dall’amore – le presta una silhouette svelta e trepidante Irina Lungu, che nella replica vista sostituiva la Damrau – ma di una donna alle prese con la paura d’amare, con un sentimento che entra prepotentemente nella sua vita e che non sarà in grado di gestire. Da qui la necessità di un confronto, silenzioso ma partecipe, in cui Violetta e Alfredo, nelle rispettive scene del primo e del secondo atto, indagano i propri sentimenti, nel corso di un dialogo alla presenza di Annina o di Giuseppe (un altro cameriere di Violetta): per porre un argine a una vita glamour di incontri mondani, per lei, o al desiderio di imporsi, per lui, che scarica i «bollenti spiriti» affettando sedani e zucchini. Intorno a loro è il trionfo della volgarità e dell’opportunismo, nel corso di feste che sembrano animate da Marthaler: colori acidi e accostamenti impossibili, acconciature cotonate, fino al trionfo del kitsch in casa di Flora, durante un ricevimento a tema sui divi di Hollywood, che sembra fluire fin sotto la finestra di Violetta, prima dell’epilogo. Quando lo specchio mostrerà una donna devastata da psicofarmaci e superalcolici, in una stanza rimasta vuota – appena un telefono muto, sul pavimento, unico retaggio di una voix humaine a lungo attesa, ma invano. E allora tutti risulteranno ospiti inopportuni, e mai tanto invadente è parso Alfredo, che ritorna con fiori e una guantiera di pastarelle, nel tentativo di smorzare l’ultimo attacco isterico («Violetta mia, deh, calmati»). Con gesto imperioso, Annina li allontanerà tutti, unica testimone della catastrofe finale: nella solitudine della sconfitta, nel silenzio del dolore. Giuseppe Montemagno ATTILA, dramma lirico di Temistocle Solera. Musiche di Giuseppe Verdi. Riduzione per marionette e regia di Eugenio Monti Colla. Costumi di Eugenio Monti Colla e Cecilia Di Marco. Luci di Franco Citterio. Con la Compagnia Marionettistica Carlo Colla & Figli. Prod. Associazione Grupporiani, MILANO. Non poteva mancare il contributo della Compagnia Marionettistica Carlo Colla & Figli al Bicentenario Verdiano. Nel loro repertorio operistico il cigno di Busseto ha sempre fatto la parte del leone (Aida, Il trovatore, La battaglia di Legnano, Nabucco) in un mix di alto artigianato, grande cultura filologica e qualche gustosa “licenza poetica”. La scelta, non scontata, è caduta su Attila, opera che Eugenio Monti Colla, nella sua pur tradizionalissima riduzione per marionette nella consueta alternanza di parti cantate e di parti recitate (tutte registrate), illumina da due prospettive inusuali. La prima è quella di evitare di avallare l’idea che tra le pieghe dell’opera, soprattutto nella guerra fra barbari e romani e nella difesa del suolo patrio, si nascondessero impeti post-risorgimentali. La seconda è mettere in evidenza la modernità, purtroppo, dello spirito che anima gran parte dei personaggi, cioè la tendenza ad aggregarsi congiurando per ottenere il potere. Tutti, intorno ad Attila, sono traditori a diverso titolo e scopo: il generale romano che vuole spodestare l’Imperatore, Odabella che vuole vendicare il padre, il fido scudiero desideroso di tornare a casa. Attila invece, che forse non a caso è una (anzi più di una) marionetta di rara bellezza d’intaglio nel volto crudele ma nobile, alla fine ne esce rivalutato: è il personaggio meno corrotto di tutti, anche nel male ha una sua dignità umana, è un eroe-vittima più che un eroe negativo. Un po’ come Macbeth. Anche perché, non dimentichiamolo, Attila era pur sempre un barbaro cresciuto alla corte di Bisanzio e politicamente un innovatore, per esempio nell’essere riuscito a unire le tribù un-
gro-finniche. Dal punto di vista dell’allestimento, Attila non è un’opera che richiede la grandeur di un’Aida, in scena ci sono infatti “solo” 150 marionette. Eppure l’incanto ancora una volta si ripete tra Unni che arrivano a cavallo trascinando schiavi, il fuoco sacro che si spegne e la visione di Papa Leone I. Verdi avrebbe sicuramente apprezzato. Claudia Cannella VERDI, NARRAR CANTANDO, di e con Marco Paolini e Mario Brunello. Drammaturgia e testi di Gerardo Guccini. Regia di Marco Paolini e César Brie. Luci di Michele Mescalchin. Con Francesca Breschi e Stefano Nanni. Prod. Jolefilm, PADOVA. IN TOURNÉE Corre sul filo di un’astuta operazione di edutainment l’ultimo monologo di Paolini: parlare di Verdi, il «signor millelire», nell’anno del bicentenario, sembra una captatio benevolentiæ del pubblico melomane. E invece la sua storia comincia da lontano, dal mitico Otello che Tommaso Salvini, nel 1871, fa conoscere al pubblico sudamericano, diventando modello insuperato nell’interpretazione del Moro: anche per Verdi, che ne trae ispirazione per l’estremo capolavoro, su versi di Arrigo Boito. Paolini ha il coraggio di declamarli, quei versi: come quelli di Solera e di Piave e di Cammarano, cui dà voce e anima ora l’arcata vibrante e appassionata di Brunello, ora - in una dimensione cameristica, pulsante - il pianoforte e l’armonium di Nanni. Tra i quattro atti del dramma shakespeariano, folgoranti cammei ripetono le storie di Nabucco e di Rigoletto, di Azucena e di Violetta, icone di una cultura nazionale e popolare forgiata su quegli amori folli e impossibili, scuola di sentimenti per mondine e gondolieri, intellettuali e patrioti. In questo contesto s’inquadrano, su registri diversi, tanto gli interventi di Breschi, addetta alle pulizie con la vocazione verdiana, pronta a dirigere il pubblico che s’improvvisa – e si diverte – in celebri pagine del repertorio; quanto il finale, il resoconto del funerale di Verdi che Filippo Tommaso Marinetti consegna alle colonne di Vogue. In un’alba «liquida» milanese, una folla di popolo sembra emergere dalle viscere della terra per tributare l’ultimo, festoso omaggio a un padre della patria: la loro, la nostra. Giuseppe Montemagno In apertura, una scena di Aida, regia di Olivier Py (foto: Elisa Haberer); in questa pagina, le marionette di Attila, della Compagnia Marionettistica Carlo Colla & Figli (foto: Corrado Bonora).
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J.T.B. Premio Hystrio Scritture di Scena 2013 Finalista al 52° Premio Riccione per il Teatro
di Lorenzo Garozzo
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TESTI Personaggi: Agente musicale Vecchio Fan Giornalista Madre di J.T.B. AGENTE MUSICALE - La musica è sempre stata nella mia vita. Sin da piccolo. Era la grande passione di mio padre. A casa c’erano giorni in cui il giradischi andava per ore e ore senza fermarsi e io stavo con lui nello studiolo a cantare canzoni senza sapere una parola d’inglese. Ricordo vicino alla finestra un mobile pieno di dischi. Cinquecento, seicento, non sono mai riuscito a contarli. Per mia madre erano anche mille quando faceva le pulizie. Quante volte li ha maledetti. C’erano tutti: Bob Dylan, Rolling Stones, Beatles, Jimi Hendrix, Doors, Johnny Cash e David Bowie, che era il nostro preferito. Mio padre era un rappresentante. Usciva di casa alle sei del mattino, vendeva l’ira di Dio e a mezzogiorno era già di ritorno. Mangiava, andava a letto e quando si svegliava attaccava con la musica fino a sera. Il lavoro e la musica, la musica e il lavoro. Aveva anche una chitarra. Ogni tanto la suonava e io mi mettevo a cantarci sopra. Mi ha iscritto a non so quanti concorsi di canto e anche se non ci rispondevano, lui continuava, continuava a mandare lettere di partecipazione. «Prima o poi», diceva sempre. E poi un giorno eccola arrivare la lettera tanto attesa. Mio padre è così felice che i giorni successivi li passiamo a provare alcune canzoni di David Bowie dall’album… come si chiamava… quello col titolo lungo… ah, ecco The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders From Mars. Se mi mettevo a piangere perché ero stanco e volevo smettere, usava parole come resistere, tenere duro. Tutto sarebbe andato bene, dovevo solo non mollare. Poi arriva il grande giorno e io sono seduto in cucina ad aspettarlo. Dobbiamo essere negli studi per le tre. Sono le due e lui non è ancora tornato. Io non sto più nella pelle. Gli ho fatto una sorpresa, anche con l’aiuto di mia madre mi sono vestito e truccato come Ziggy Stardust. Sono a capotavola che fisso la porta attendendo che entri mio padre. Immagino tutte le sue possibili reazioni nel vedermi, lo stupore, la sorpresa, felicità, gioia e poi un abbraccio, un bacio, una carezza. Sono il suo piccolo David Bowie. Guardo la porta, ma niente. Poi all’improvviso il telefono suona. Mia madre risponde, dice sì un po’ di volte, riattacca e poi scoppia a piangere. Io nel mio vestito da alieno non capisco, rimango fermo e la guardo. Quel pomeriggio non esiste più alcun concorso. Il perché è un camion che non rispetta una precedenza e centra in pieno l’auto di mio padre. Ho cinque anni. Da quel giorno il giradischi smette di suonare. VECCHIO - Sono le quattro e io, Caio, Bano, Sistu siamo al bar del circolo. Come ogni pomeriggio. Quando finiamo il giro ci mettiamo a un tavolo e giù di briscola e bianco. Le tessere abbiamo iniziato a controllarle alle due. Trentasette gradi all’ombra e umido. Camminare all’inferno sarebbe stato più piacevole. Tutti a dirci «bravi, bravi, controllate, controllate», ma vorrei vederli girare per un circolo di settantamila metri quadri a verificare se tutti quelli che prendono il sole, fanno il bagno, mangiano, giocano a calcio, pallavolo, basket, tennis, biliardo, ping pong, bocce, tresette siano soci. Il problema, la vera piaga, sono quelli non iscritti. Gli abusivi. No, no, fermi tutti. Noi ogni po-
meriggio giriamo e controlliamo le tessere. Il direttore è stato chiaro, pugno duro, costi quel che costi. Comunque come ogni pomeriggio sono al tavolo del bar. In mano asso di coppe, tre di denari e due di spade, briscola bastoni. Una giornata come tante, se non per la voce di quello stronzetto che continua a ronzarmi nella testa. Un’ora fa giù al campo da calcio becchiamo questi quattro. Sono sotto un albero, due tagliano la corda quando siamo ancora a una trentina di metri, gli altri restano. Lui lo inquadro subito, tatuaggi, orecchino e cresta. Ecco un altro che crede di fare il furbo. Salutiamo e chiediamo le tessere. Il tatuato rimane immobile, mentre il ciccione sembra quasi spaventato e inizia prima a cercarla nei pantaloni, poi nel portafoglio, ma niente, “non la trova”. Perché mi deve prendere in giro? Pantaloncini e poi di nuovo zaino. È questo che non sopporto, essere preso in giro. Non so quanti ragazzetti me l’hanno fatta sotto gli occhi ‘sta recita e stranamente finisce sempre così. Cercano, cercano, ma mai una volta che la… Eccola. La prendo. Ardelli Maicol. Controlliamo sul registro. Ardelli Maicol, Ardelli Maicol, sì, Ardelli Maicol socio. Nel frattempo il tatuato con la cresta non muove un muscolo. Legge una rivista e quando gli chiedo la tessera nemmeno alza lo sguardo. «L’ho lasciata a casa». Conto fino a tre e gli richiedo la tessera. «Non ce l’ho, te l’ho già detto. Non è che se me la chiedi un’altra volta salta fuori» e il ciccione si mette a ridere. «E poi vieni qua e mi chiedi la tessera, ma tu ce l’hai?». Calma, perché se abbocchi alle provocazioni te la buttano sul conflitto generazionale e queste larve umane non vedono l’ora di romperti i coglioni con i loro problemi. Il lavoro che manca, la disoccupazione, la crisi. Balle. Vadano a fare il gommista, il meccanico, il muratore, che lì il lavoro c’è sempre. Si sporchino le mani. È colpa loro se tra dieci anni sarà tutto in mano ad albanesi, rumeni e cinesi. Sono bravi solo quando c’è da protestare, cortei e manifestazioni. Poi quando qualcuno si fa male, ma male male, tocca pregare che non muoia, sennò diventa un martire e, tempo qualche anno, gli dedicano pure una piazza. Calma, respirare e non cascarci. Gli dico che anche noi staremmo volentieri all’ombra a giocare a carte, ma c’è un regolamento e noi siamo stati scelti per controllare che tutti lo rispettino, quindi nome e cognome. «E la privacy? Come la mettiamo con la privacy?» dice facendo scattare la risata di quella palla di lardo del suo amico. «Cosa c’è da ridere? Guarda che se il tuo amico non è socio c’è la sospensione e in più la multa. È una cosa che ti fa ridere? Io non ci trovo niente di divertente. Se voglio ti faccio passare un brutto pomeriggio. Hai capito? Poi vediamo chi ride». Il tatuato allora si alza e comincia a dire «va bene, va bene. Se per una tessera si deve scatenare tutto questo casino la faccio vedere così finisce qua». Ci indica il suo scooter giallo nel parcheggio, è lì che ha la tessera. Io non mi fido per niente e lui lo deve capire. «Ilgra, di cognome faccio Ilgra». «Accompagnalo» faccio a Caio e mentre s’incamminano verso l’uscita con lo sguardo non lo mollo manco un attimo. Nel frattempo cerco sul registro. Ilgra, Ilgra. Niente, con la i non si trova niente. Allora andiamo all’acca, ma
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TESTI anche lì nulla. «Come hai detto che ti chiami?» urlo. «È con la y, sono egiziano. Ylgra». Ipsilon, ipsilon, ipsilon. Niente di niente anche qua. Rialzo lo sguardo nel momento in cui vedo che si mette a correre, con Caio che non riesce a stargli dietro. Arriva allo scooter, sale, tira giù il cavalletto e mette in moto. Gira la testa verso di me e cerca i miei occhi. «Il gran coglione che sei». Da gas e se ne va. (Pausa) «Prego, ci segua in segreteria» dico al sacco di merda. «Ma non lo conosco, era solo qui con me». Non me ne frega un cazzo se lo conosci, se i vostri genitori sono amici d’infanzia, se andate a scuola assieme o se vi inculate tra di voi. Adesso andiamo in segreteria e dato che non sei manco maggiorenne, chiamiamo a casa. È la parola di un cazzo di ragazzo con più grasso che neuroni contro quella di quattro uomini di sessant’anni. E se non basta chiamo anche quel mio amico che lavora al giornale cittadino e spiffero quello che mi fa comodo spifferare. Così articolo sul giornale, sputtanamento gigante e vediamo se ti passa la voglia di fare il furbo. Ti apro il culo finché non ti metti a piangere, brutto figlio di puttana. Respirare, respirare. «Ripeto, ci segua in segreteria». Respirare, respirare. Adesso c’è il tavolo, ci sono le carte, il bianchino e venti punti in tavola. Ho l’asso di bastoni, di mazzo facciamo quarantuno. Butto la briscola, prendo, urlo sessantuno, faccio il mio show per festeggiare e tiro giù dal bicchiere. In quel momento con la coda dell’occhio vedo il ragazzo del bar accendere la televisione. Cambia canale un po’ di volte fino a quando si ferma su una macchina rossa che corre in strada. Non ci faccio molto caso, penso a un film, ma velocemente il bar si riempie. Non capisco. Allora chiedo cosa stia succedendo. Uno mi fa che sopra alla macchina c’è un cantante, un tipo importante, un certo J.T.B. È in fuga e la polizia lo sta inseguendo. Non so chi sia e mi rigiro a giocare a carte, ma poco dopo tutto il circolo è davanti alla televisione. FAN - Al rientro dalla pausa pubblicitaria il conduttore è in mezzo allo studio con il pubblico che applaude. Sorride e aspetta il silenzio. Quando non vola più una mosca fa un’espressione tutta seria, da celebrazione. Dice che è molto emozionato perché si sta parlando di un autentico numero uno. Il suo album d’esordio in pochi giorni sta ottenendo un successo incredibile in tutto il mondo. È una rockstar destinata a far parlare di sé per molto tempo e per lui è un onore essere il primo ad annunciarlo in televisione. Il pubblico non sta più nella pelle. Urla, grida, alcuni iniziano a chiamarlo. Il conduttore aspetta ancora un attimo e poi dice il nome, il nome che tutti stanno attendendo. J.T.B. Le luci si spengono, poi tornano e in mezzo al palco ci sono quattro ballerine vestite da college americano. Hanno gli abiti rovinati e sono truccate come zombie. Fanno qualche passo di danza e poi cadono per terra. Dietro si accende una luce e iniziano a strisciare in quella direzione. Quando sono vicine torna il buio. Si riaccendono e sono in piedi, in fondo al palco, vicine a dei cannoni che sparano del fuoco formando un corridoio sopra al quale da un grande monitor parte un conto alla rovescia dal dieci. Allo zero una figura entra in scena con un bastone. Indossa una tutina attillata di pelle, sopra un cappotto con un
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lunghissimo strascico e in testa ha un cappello da generale di qualche esercito. Da sotto si vede che i capelli nella parte destra sono corti e blu, mentre a sinistra lunghi e neri. Il viso è bianco pallido con degli enormi occhiali a specchio che gli coprono gran parte del volto. Le ballerine gli si avvicinano e cercano di morderlo, ma lui tira fuori una pistola e spara a tutte e quattro. Arriva davanti al microfono, fa una risata satanica, butta via il bastone, si strappa la parte superiore della tutina rimanendo a petto nudo, urla qualcosa di incomprensibile facendo partire una musica con chitarre e batteria a tutto spiano. È così che ho iniziato ad amare J.T.B. Io lo adoro J.T.B. È un punto di riferimento, un modello da seguire. «Ah si certo, ah ah... Vaffanculo figlio di puttana, ti ho visto arrivare sai, pezzo di merda, avanti, avanti su, io non mi muovo, non mi muovo dai, prova a muoverti tu, e muoviti...». Il mio motto è volere il massimo. Avere degli obiettivi, sapere dove si vuole arrivare. Per me? La televisione, finirci dentro. Essere tra quelli che entrano nella vita di quei milioni d’individui che ogni giorno hanno il telecomando in mano. Di quelli che vengono riconosciuti, che sono famosi perché tutti sanno associare il loro nome alla loro faccia. Puntare in alto. Volere il massimo. Sempre. «Non ci provare stronzo. Ma dici a me? Ma dici a me?». Come settimana scorsa al provino per il reality. Tre mesi per prepararlo, non come quei coglioncelli che credono basti una canzone e due balli per essere presi. No, io sono di un altro livello. E si vede, si vede subito che non sono uno dei tanti. Comunque quando tocca a me, arrivo davanti e mi presento. La giuria mi fa due domande e rispondo senza tirarla troppo per le lunghe. Poi dicono «prego». Prendo qualche secondo e poi attacco col monologo. «Ma dici a me? Ehi con chi stai parlando? Dici a me?». Quando ho finito rimango fermo. Ho la giacca militare aperta che sembro De Niro negli anni d’oro e infatti non mi staccano gli occhi di dosso. Mi asciugo la fronte e aspetto. Poi una tipa sui cinquanta coi capelli bianchi corti, la presidentessa perché fa un colpo di tosse e gli altri si zittiscono, attacca a parlare. «Interessante, davvero interessante. La ringraziamo. Abbiamo già i suoi contatti. Le facciamo sapere noi. Non si preoccupi. Arrivederci». Lo so, lo so che è la classica risposta che si da a quelli che sono fuori, ma calma, sangue freddo. La frase è quella, ma so, anzi io sono sicuro del mio lavoro e allora li osservo per cogliere, per leggere tra le righe perché l’ho avvertito che in realtà mi stanno dicendo altro. I loro sguardi sono tutti su di me e mi sorridono. Tutti. Tranne due. È sicuramente per colpa di questi se devono seguire la prassi, non dicendo quello che in verità vorrebbero, cioè «che per noi è sì, solo che non è professionale dirlo mentre della gente deve ancora fare il provino. Meglio seguire la procedura ed evitare casini». Ho una certa esperienza con i provini e so come vanno queste cose. Il mondo dello spettacolo ce l’ho cucito addosso. Torno nella sala d’attesa, prendo il mio zaino e vado dritto all’uscita senza dire niente. Ogni giorno sto su internet per controllare se i risultati sono usciti. Questa vita di merda sta per finire. Quelli che ridevano, che dicevano che ero un pallone gonfiato, un illuso, sarà bello sentire cosa diranno. Come i miei genitori, in ventidue anni mai una volta che abbiano creduto in me. Mai che mi abbiano detto provaci, vai fino in fondo. No, speravano fosse una fase, roba da adolescenti.
TESTI «Ma dici a me? Ehi con chi stai parlando? Dici a me?». A diciannove anni sono uscito di casa, ho cambiato città perché a restare in paese avrei fatto la fine di quelli che stanno al bar e non sanno fare altro che parlare. Parlano, e quanto gli piace raccontarsela, dare giudizi, sputare sentenze su tutto e tutti. Loro e le loro vite dietro a una scrivania con un capo che dà ordini, una moglie che non amano e figli che non sanno crescere. Il sabato al centro commerciale e poi di corsa alla ricevitoria per giocare numeri convinti come tutte le altre volte che quella sia la volta buona. No, io sono diverso. È la mia luce che è diversa. Perché quando ce la fai non ti mollano più. Prendi J.T.B. Qualsiasi cosa faccia tutti ne parlano. Un disco di successo, un disco di merda, un concerto, un’esibizione ottima, un’esibizione pessima, un nuovo look, una rissa, dei guai con la legge, non importa. Qualsiasi emittente, telegiornale, giornalista, ne parla. Anche nel male, non è un dramma. Il vero dramma è se la gente smette di farlo. Significa che di te non gliene frega più a nessuno. Sei finito e non c’è niente di peggio che finire nel dimenticatoio. «Eh, non ci sono che io qui. Di’, ma con chi credi di parlare tu? Ah si, va bene...». Devi fare come J.T.B. Stupirli. Farli restare a bocca aperta. È questo che vogliono. Se non glielo dai c’è una fila di persone pronte a farlo al posto tuo. Per questo J.T.B. è un grande. La luce della fama lampeggiava sul rosso? E lui l’ha trovata la soluzione. La sua macchina in fuga con le volanti della polizia addosso. Finisce nei libri di storia. Chi cazzo si sognerebbe una cosa del genere e soprattutto chi altro prenderebbe in ostaggio il proprio agente musicale? GIORNALISTA - Orenthal James Simpson, per tutti O.J. Simpson, l’ho conosciuto a quindici anni, nel novanta. Non sapevo fosse stato un campione di football. Per me era semplicemente il detective Nordberg nel film Una pallottola spuntata. Faceva ridere. Già alla prima scena, io stavo piegato. Praticamente c’è lui che fa irruzione nella stiva di una nave dove dei contrabbandieri stanno concludendo un affare di eroina. Gli va male e i tizi lo crivellano, ma non muore perché la pallottola spuntata fa questo: prende in giro i film polizieschi con scene demenziali. Quindi nell’ordine sbatte la testa contro il muro, si scotta la mano su una stufa, sporca la giacca di vernice su una porta, la mano scottata si chiude sotto una finestra, finisce con la faccia sopra una torta nuziale e, dopo che una trappola gli artiglia la gamba, cade in acqua e, appunto, non muore. Una scena così e ci si ricorda di O.J. Simpson. La televisione è entrata in casa mia che avevo otto anni, ma io la guardavo già a sei. Da mia nonna. Io e mia nonna stavamo in salotto a spararci qualsiasi cosa. Soap opera, telenovele, documentari, quiz, programmi di cucina, programmi con interviste a personaggi famosi, programmi senza personaggi famosi, previsioni del tempo. Di tutto. Il pezzo forte era il telegiornale e le notizie di omicidi, suicidi o stragi. Lì la nonna dava il meglio. Guardava in alto, batteva le mani, diceva «Maddio» e attaccava il comizio sul mondo a rotoli. Se poi di pomeriggio beccava un film dei suoi tempi era finita. A casa mia era diverso. Mio padre l’aveva presa e guardava il satellite, telegiornali soprattutto, ma sia lui che mamma non se la filavano molto. Ero io il consumatore numero uno e stavo attento che non se ne accorgessero. Soprattutto mio padre. Se ci stavo troppo s’innervosiva. All’inizio furono i cartoni animati. Di qualsiasi tipo, su qualsiasi canale
a qualsiasi ora. Sapevo tutto. Sigla iniziale, sigla finale, durata, se erano giapponesi, che serie era e se c’era la pubblicità. Dalle due alle sei non facevo altro che starmene lì a bere Coca Cola, mangiare schifezze e fare i compiti durante la pubblicità. Poi intorno ai dieci anni mi prese la cosa dei quiz. Li guardavo tutti, senza sosta. Concorrenti che si sfidano per arrivare a un premio finale. Forte. Anche se poi un quiz non dipende solo da questo. Sono balle che la fortuna di un quiz la fanno i concorrenti. È il conduttore la chiave di tutto. E io i conduttori me li studiavo bene. Uno soprattutto, il mio preferito. Il numero uno. A prima vista un perfetto signor nessuno, ma con il pubblico attorno, le luci, i monitor diventava un re. Il motivo è che teneva tutti per le palle. Non sapevi mai cosa aspettarti. E in tutto questo tempo ti sembrava di essere lì dentro, in quello studio, accanto a lui, che poi è il motivo per cui amo la televisione. È la vetrina con dentro il mondo. Le cose succedono lontano e tu le guardi sul divano di casa. Non ci sei, ma ci sei. Anche se tuo padre non lo capisce, è impossibile non trovarci qualcosa d’interessante. Per lui sono tutte stronzate, tempo perso, finzione. Lo studio, i libri, la scuola, niente è più importante, «mica ci vorrai deludere. Studia, studia». Per anni vado avanti con quella voce perennemente in sottofondo. Fino a quando anni e anni dopo arriva il famoso diciassette giugno. C’è la maturità, sono in taverna che ripasso italiano. Ho duemila autori del novecento da ricordare e mi scoppia la testa perché quella stronza della nostra professoressa non si ferma all’Ottocento. No, lei il Novecento lo vuole tutto. Chiudo i libri, preparo il terzo caffè della giornata e accendo la televisione. Sulla Cnn mi becco un’edizione straordinaria del telegiornale. C’è un elicottero che sta riprendendo sull’autostrada di Los Angeles una macchina bianca in fuga inseguita da un’infinita serie di auto della polizia. La scritta sotto dice che alla guida dell’auto bianca c’è O.J. Simpson. Il giornalista spiega che in mattinata si sarebbe dovuto presentare alla polizia. Il tredici giugno l’ex moglie e un suo amico sono stati trovati assassinati. O.J., l’attore della pallottola spuntata, è l’unico sospettato. Io non ne so niente per colpa della cazzo di maturità. O.J. ha con sé una pistola e ha minacciato di farla finita. Butto via il caffè e ordino una pizza. Lo sbarco sulla luna, il Superbowl, le torri gemelle, gli americani sanno come si fa. Non c’è niente di meglio che vedere gli americani occuparsi di cose così. Danno il meglio. Infatti via con le foto dell’ex moglie, del presunto amante, i particolari del ritrovamento dei cadaveri, il pavimento della stanza completamente ricoperto di sangue, le dodici coltellate, la testa di lei quasi mozzata mentre in basso a destra c’è sempre la finestrella con la macchina di O.J. La fuga va avanti per un po’ di ore e intanto passano le immagini di O.J. Interviste, spezzoni di partite, scene di film, i giudizi di suoi allenatori e registi, filmati del matrimonio, fotografie dove sorridono insieme, non viene risparmiato niente. Poi improvvisamente la macchina si ferma e non si capisce cosa voglia fare. Il tizio in studio sembra quasi raggiungere l’orgasmo. Perché lo sa, sa che sta commentando l’evento dell’anno. Tutti i giornalisti sperano di avere a che fare con una cosa così. È come per un calciatore giocare nella squadra del cuore. E può andare sempre meglio. Metti una sparatoria, un suicidio in diretta, c’è solo da guadagnarci. Così quando O.J. Simpon si consegna io la sua delusione la colgo. Lo capisco. Non capisco però quello che accade dopo. L’edizione speciale della Cnn chiude, ma non ci credo, anzi penso che, furbi come
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TESTI sono, facciano partire uno di quei talk show dove per ore commentano l’accaduto. E invece? Invece questi cazzoni fanno partire una puntata dei Robinson. Scherziamo? Io voglio una telecamera che inizi a inquadrare la macchina della polizia con dentro O.J. quando è ancora a dieci chilometri dal distretto. Due che filmino tutti gli incroci dove passa. Tre sulla folla per vedere le reazioni e una mobile per le interviste ai passanti. Almeno cinque a postazione fissa sull’ingresso del distretto. In quei precisi istanti capisco. È un momento, come un’illuminazione, un preciso momento in cui la vita mi passa davanti. La vedo. Quello che sarà lo vedo. Faccio la maturità e passo, non brillantemente, ma passo. La domenica a tavola i miei mi dicono che con un po’ più d’impegno avrei potuto fare meglio, ma io li prendo di sorpresa. «Ho deciso l’università». Non so quante volte hanno provato ad andare sull’argomento senza successo. Mi guardano stupiti, felici. «Giornalismo». In cinque anni mi laureo con la lode. I successivi tre li passo in ogni tipo di giornale lavorando anche dodici ore al giorno. Poi ecco che arriva la grande occasione. Vinco un concorso e mi prendono in una piccola rete che trasmette a livello nazionale. Un bel colpo, ma c’è un problema. I capi di redazione. Giornalismo da era paleolitica. Gli interessa solo tenersi la poltrona. Nessuno gli deve fare le scarpe. E affinché questo non avvenga mi fanno scrivere articoli su delle minchiate. L’orso che scappa dallo zoo, il cane che veglia sulla tomba del padrone morto. Cose così. Poi arriva il cinque luglio. In redazione non c’è nessuno, sono tutti alla prima udienza di un processo per uxoricidio. Da mesi non si parla d’altro. Servizi, articoli, trasmissioni, inchieste e tutta l’opinione pubblica a chiedersi colpevole o innocente? Il caso mediatico dell’anno. Il tribunale è foderato d’inviati. L’unico in ufficio, io. Sto scrivendo al computer un articolo su una rissa a un matrimonio quando l’Ansa batte una notizia: «Il noto cantante J.T.B. ha fatto irruzione nell’abitazione del suo agente musicale durante una festa. Minacciandolo con una pistola l’ha trascinato in macchina. I due sono in fuga inseguiti dalla polizia. A dar l’allarme gli invitati». Rileggo e alzo lo sguardo. Fuori il cielo è azzurro, neanche una nuvola. Io mi sento il cuore a mille come dopo una corsa. L’idea mi attraversa veloce la testa. Stampo la notizia e mi fiondo verso l’ufficio del direttore. J.T.B. è una rockstar, è famoso in tutto il mondo. Con una cosa così si fa il boom. Si sa come vanno queste cose. Uno prende la pistola per spaventare qualcuno, qualcuno ti vede, si mette a urlare, tu perdi la testa e senza nemmeno rendertene conto finisci dentro qualcosa più grande di te. Qualcosa come avere un ostaggio e la polizia che ti insegue. Arrivo davanti alla porta, busso ed entro. Il direttore mi guarda come si guarda uno che è appena sbarcato da un altro pianeta. Gli dico che nella nostra città una rockstar ha preso in ostaggio il suo agente musicale, è in fuga in macchina con la polizia che lo insegue. Io ho un’idea, ma prima devo sapere se possiamo avere un elicottero. AGENTE MUSICALE - Il video di J.T.B. l’ho visto su Youtube. È interessante internet. Prima i cantanti li cercavo solo con i provini, poi ho capito che il web è un modo per lavorare meglio. Certo, molte volte ci s’imbatte in cose improbabili, ridicole, ma se si ha pazienza e un pizzico di fortuna se ne possono trovare di
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interessanti. Il video ha milleduecento visualizzazioni, il che significa che è come se nessuno l’avesse ancora visto. La differenza tra lui e i gruppetti per i quali mi rompo la schiena per uno straccio di contratto è abissale. È una cosa seria la voce di J.T.B. Non perdo tempo e nel giro di qualche giorno ho il suo numero. Lo chiamo per fissare un provino. Lui non mi crede, pensa sia uno scherzo. Mi ci vuole un po’, ma poi lo convinco. Per prima cosa gli dico di rimuovere il video e di presentarsi in studio da me lunedì. Di quel lunedì ricordo le facce dei miei colleghi mentre canta. Tutti a bocca aperta, imbambolati come se gli fosse apparsa la Madonna, e non parlo della cantante. Si passerebbero ore intere ad ascoltare J.T.B. senza chiedere altro. È una voce la sua che arriva dal profondo, affilata e leggera. Come se la punta di un coltello ti accarezzasse il corpo e invece di provare paura ci si abbandonasse solo all’eccitazione, al brivido dell’adrenalina. La ascolti e tutto il resto sparisce. Questa è la mia, la nostra grande occasione. Organizzo subito i provini per formare una band e realizzare una demo. Quando è pronta, sfrutto i contatti che ho e inizio a proporla alle case discografiche più importanti. Dopo qualche settimana una mi contatta. All’incontro anche questa volta rimangono tutti increduli. Certo, dicono bene, bene, molto bene, come se niente fosse, ma io i discografici li conosco. Gente che piuttosto di farti un complimento s’impiccherebbe. La verità, però, è un’altra e infatti dopo un mese abbiamo un contratto, nero su bianco. Visto e rivisto per essere certo che ci tuteli nel modo migliore. Voglio la clausola per gestire la sua immagine, sennò non se ne fa niente. Trattative su trattative, bracci di ferro estenuanti, ma alla fine ottengo quello che voglio. Con le major bisogna stare attenti, non si scherza. Un piccolo particolare, una virgola fuori posto e ti fregano come se niente fosse. Per questo quando si discute la strategia di lancio, io sono attorno al tavolo con tutti i pezzi grossi. E gli butto le mie idee: prima di tutto il nome, J.T.B., Just the Best, “semplicemente il migliore”. Poi la campagna di lancio. Quello che ci serve è creare il caso, qualcosa che incuriosisca, che faccia parlare la gente. Nessuna informazione, nessuna fotografia, nessuna notizia, solo la voce. Basta. I grandi capi non sono propensi, ma io insisto. Propongono strategie, sistemi, tattiche, tutti gli scenari possibili, ma io resto fermo sulla mia posizione fino a quando si convincono che la soluzione migliore è la mia. Voce e basta. Fase due, l’album. La casa discografica ci mette a disposizione una troupe imponente. Fonici, tecnici, compositori, produttori, tutta gente coi controcoglioni che sa fare il suo lavoro. Per due mesi ci rintaniamo in uno studio di registrazione e lavoriamo senza sosta. E io sono sempre lì al suo fianco. Anche quando non ce la fa ed è lì lì per esplodere, io gli sono accanto e lo incoraggio a tenere duro. Gli dico di ricordarsi le tre d: determinazione, dedizione, disponibilità. Deve guardarsi indietro, tutta la strada che ha fatto. È solo l’inizio. Basta solo essere forti e andare avanti. Lo motivo. Gli tiro fuori l’energia giusta per darsi anima e corpo durante le registrazioni, per non risparmiarsi mai, per ascoltare e assecondare le richieste che gli vengono fatte. Quando anche l’ultima canzone è incisa, quello che abbiamo tra le mani è un lavoro ottimo. Il singolo che anticipa l’album esce ed entra direttamente in ventesima posizione nella top trenta europea. Nessuno di noi si stupisce. Le radio cominciano a passarlo a rotta di collo. La seconda settimana scala la classifica sino all’ottavo posto. Alla terza sale direttamente al
TESTI numero uno e ci resta per le successive dodici. Anche su Internet spopola, ci sono un’infinità di video che usano la sua canzone. Una famosa casa di videogiochi ci compra i diritti per il lancio di uno dei titoli più attesi. E poi in coda al supermercato, al bar, in strada, se la canzone non esce da qualche cassa, c’è sempre qualcuno che la fischietta o la canta. Volenti o no, è impossibile non sentirla almeno una volta al giorno. Polverizza ogni record di vendita diventando il singolo più venduto dell’anno. L’album registra un boom di prenotazioni ancora prima di uscire. La casa discografica è su di giri e mi chiama. Manca poco e vogliono parlare di J.T.B. e della sua immagine. Se riusciamo a trovare qualcosa di potente, qualcosa che non deluda le attese, il gioco è fatto. In riunione mi presento con un’idea ben precisa. Il concept che ho in testa è quello dell’alieno che arriva sulla terra per salvarci dall’apocalisse. Bisogna osare, lasciare tutti senza fiato. Per questo parlo di vestiti di pelle, di abiti da pseudo zombie, da dive anni Cinquanta. E poi scenografie che abbiano a che fare con i mali del nostro tempo. La guerra in Medio Oriente, gli esperimenti nucleari, Wall Street. Quelli si gasano e non ci pensano un attimo di più. Assumono uno stilista, uno scenografo, un personal trainer, un regista, un attore e per tre mesi ci spediscono in un resort sperduto tra i monti per creare il personaggio che J.T.B. dovrà essere. Ci siamo solo noi, nessun parente, amico, conoscente. Solo noi. E proviamo, proviamo perché quell’alieno gli deve entrare sotto la pelle. Ogni passo, ogni gesto, ogni movimento deve essere perfetto. L’album in confronto è stato una passeggiata. J.T.B. non capisce, si innervosisce continuamente. Gli sembra tutto stupido, ma io sono con lui. Determinazione, dedizione, disponibilità. È dura, è dura, lo so, ma non può mollare ora. Il treno più importante sta passando e lui sta solo sfiorando la maniglia. Se ci vuole salire sopra serve l’ultimo sforzo. Determinazione, dedizione, disponibilità. E così prove su prove, canzoni, passi, scenografie, timbro della voce, gestualità, cadenze, mimica facciale, portamento, gesti. Determinazione, dedizione, disponibilità. Vestiti di scena, abiti, cappelli, trucco, effetti speciali, esercizi fisici, addominali, dorsali, flessioni, ripetute, skip, fiato, corsa. Determinazione, dedizione, disponibilità. Proviamo fino allo svenimento, fino a non sapere più come ci chiamiamo. Torniamo in tempo per l’uscita dell’album che entra in testa alle classifiche di non so quanti paesi. J.T.B. è sulla bocca di tutti. Tutti ne vogliono un pezzo. Poche settimane e l’album diventa disco di platino incoronandolo come il fenomeno mediatico dell’anno. Anche la critica, persino la critica spende elogi e lo definisce nuovo messia del rock. La televisione, le riviste, i giornali, tutti gli stanno addosso. Per non parlare del tour. Penso ai sold out al Dingwalls di Londra, al Théâtre des Amandiers di Parigi, al Bimhuis di Amsterdam, al Grande Auditório di Lisbona. E poi le interviste, le presentazioni, le sessioni di autografi. Ho per le mani questo fenomeno di poco più di vent’anni che apre bocca e fa il delirio. E io me ne prendo cura perché mica voglio che si schianti. Per questo gli do le dritte su come è meglio che si comporti in pubblico, sulle interviste, su cosa è meglio dire e cosa no. Di me si può fidare, sono al suo fianco. Anche quando i suoi nervi stanno per cedere perché va tutto così veloce, c’è la mia spalla a sorreggerlo. Voglio solo che tutto vada bene. Per questo gli consiglio di tenere nascosta la storia con Lisa. Per proteggerla ovvia-
mente. Meglio che nessuno sappia della sua ragazza. Si sa come vanno queste cose. Non sei nessuno, non interessi a nessuno, diventi qualcuno e tutti vogliono sapere tutto di te. L’intimità, la vita privata sono le prime cose da difendere. Lui non ne è sicuro, ma lo convinco. Fiducia, deve avere fiducia in me. E poi c’è l’happening a casa mia, la stessa casa con piscina che mi sono comprato col suo primo contratto. Lui entra con una pistola, me la punta addosso, si avvicina, mi prende per la camicia e mi trascina fuori dalla macchina. Perché siamo arrivati a questo punto. Dove ho sbagliato? Cosa ci ha portato qui? VECCHIO - Mai visto il bar così pieno. Nemmeno per le Olimpiadi o i Mondiali. Tutti guardano quella macchina in fuga e sospirano, commentano, qualche ragazzina ha gli occhi lucidi, altre si abbracciano tra di loro. Per me è solo uno che fugge dalla polizia con un ostaggio. Punto. Un criminale, un delinquente. Ordino un altro bianchino. La musica contemporanea non la seguo. Il problema della musica di oggi è uno, fa schifo. Per non parlare dei cantanti. Io me li ricordo quelli che negli anni settanta facevano i rivoluzionari. Froci, drogati, alcolisti e infatti sono morti tutti. E anche questo J.T.B sarà uno da «pace bla, bla, l’amore, bla, bla, la pace, bla bla, vogliamoci bene» e poi ecco la fine che fa. Al figlio di puttana del ragazzo tatuato questo J.T.B. sicuramente piace e ce lo vedo nella sua stanza ad ascoltarlo a tutto volume. Comunque io il ragazzetto l’ho portato in segreteria e ho fatto chiamare a casa. E non mi sono mica fermato qui. L’ho denunciato ai carabinieri. Offese. C’è il danno morale e con Bano, Sistu e Caio come testimoni mi becco un risarcimento di due tremila euro. Ci pago una vacanza. Gliela faccio passare la voglia di ridere. Mi suona il cellulare. È la segreteria. Una ragazza mi chiede gentilmente di raggiungerla perché c’è il direttore che mi vuole parlare. «Sono al bar, il tempo di arrivare». Sono socio da quando avevo dodici anni, è stato mio padre a iscrivermi. Lui lo è stato per sessant’anni fino a quando è morto. Da piccolo mi portava qua. Ricordo i bagni, il pranzo della domenica, guardarlo mentre giocava a bocce, io e lui negli spogliatoi a cambiarci. Tanti mattoni li ha messi mio padre. Con il sudore, spaccandosi la schiena. Finita la guerra lui e altri si sono rimboccati le maniche e questo è il risultato. Il circolo per me è una seconda casa. Per questo con me non si scherza. Io sono della vecchia scuola e voglio rispetto, voglio che mi si dia del lei come si dava a mio padre, come lo davo io ai miei superiori in fabbrica. Quando arrivo la ragazza mi dice che il direttore è in ufficio che mi aspetta. Entro ed è in piedi al telefono. Mi fa un cenno per dirmi che ha quasi finito. Una serie di «va bene, va bene» e poi riattacca. «Carissimo» e mi mette una mano sulla spalla. Continua a dire che abbiamo fatto un bel lavoro, che sapeva che con noi poteva stare tranquillo. «Bravi, bravi», ma non sembra sereno. «Impeccabile, impeccabile» e mi batte ancora la mano sulla spalla. Poi a un tratto si blocca, beve un goccio d’acqua e dice «che però c’è un problema». «Che il ragazzo, il ciccione, è il figlio di uno molto vicino al nostro sindaco e visto che le elezioni sono all’orizzonte questa cosa della denuncia è fastidiosa… che sarebbe meglio ritirarla… che anzi è una fortuna che la stampa non ne sia ancora venuta a conoscenza… che lo sai no che il comune ogni anno con i soldi ci dà una mano… che metti che questi per la storia della denuncia ce la fanno pagare… che al circolo ci manca solo di avere dei
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casini col Comune… che poi sì, quello è uno stronzo e tu hai fatto bene a denunciarlo, ma per la salute e la tranquillità meglio un passo indietro… che se poi questa conversazione rimane tra noi è molto meglio… che sa che può fidarsi di me…». Io non lo ascolto, l’ho perso molto prima. Respiro. Inspiro, espiro. Inspiro, espiro. Perché è un vigliacco… perché il ragazzo ha sbagliato e non me ne frega chi cazzo sia suo padre… perché anzi la stampa dovrebbe saperlo che merde di persone esistono nella nostra città… perché il comune ci dà le briciole… perché mi prendono per un vecchio rincoglionito… perché se io fossi il direttore… Inspiro. Espiro. Inspiro. Espiro. Inspiro. Espiro. Sorrido. Mi dà un’altra pacca sulla spalla e io per tranquillizzarlo gli dico le parole che vuole sentire. «Che lo capisco benissimo… che sono d’accordo con lui… che non c’è nessun problema… che in alcuni casi un compromesso è la cosa migliore… che può stare sereno…». Poi gli do io una pacca sulla spalla e ci salutiamo. Vado in cortile e prendo il cellulare. Faccio scorrere la rubrica e poi chiamo. Non gli spiego tutto, ma se domani vuole avere la notizia da prima pagina deve raggiungermi al circolo. Subito. Riattacco e un attimo dopo sento un boato, un boato veramente grosso provenire dal bar.
FAN - Bagno delle medie, mattonelle bianche e azzurre a strisce. Ogni quattro c’è disegnato un cartone animato. Topolino, Pluto, Grande Puffo, Snoopy. Io sono a terra. I miei compagni mi picchiano e mi dicono «ciccione, sacco di merda, palla di lardo». Eta Beta, Garfield, Bugs Bunny. Tengo gli occhi chiusi, come se così provassi meno dolore. Calci, gomitate, ginocchiate, senza mai fermarsi. È da tutto l’anno che mi picchiano. «Ciccione, obeso, ippopotamo» e giù botte. Sputano e ridono. Paperino, Scooby Doo, Roger Rabbit. Io piango ma non ho la forza di strillare, ho paura che così me ne diano di più. Quando si fermano e se ne vanno, sono steso a terra. Non sento più il braccio sinistro e la schiena mi fa male dappertutto. Apro gli occhi e c’è Winnie the Pooh che mi fissa. Sorride mentre mangia il miele. È grasso e allegro mentre io piango con la saliva e il sangue che mi scendono dalla testa. Anche sulle mattonelle c’è del sangue, devono avermi aperto da qualche parte. Piango in silenzio fissando Winnie the Pooh tutto felice col suo miele in mano. Poi è inizio estate e c’è un campo di campagna, un istruttore di fitness e io che faccio gli addominali. Anche lì piango. Non ce la faccio, da un momento all’altro credo di svenire. L’istruttore dice di tener duro, che sto andando bene e che perdere tutta la mia ciccia non è una passeggiata. Mi suggerisce di pensare alle cose belle, alle ragazze, a tutti i vestiti che potrò mettere, al fatto che nessuno mi prenderà più in giro. Hanno tutti fiducia in me. Lui, gli autori del programma, il regista, i cameraman, tutti sanno che ce la posso fare. Sono con me, tifano per me e io non posso mollare, non posso deluderli. Allora tengo duro e penso a tutti i ciccioni come me là fuori. Voglio essere un esempio. Sono venti i chili che devo buttare giù. Venti chili per una vita dove nessuno ti picchia, dove non ci sono vergogna e complessi d’inferiorità, venti chili per poter andare al mare e non temere più la prova costume. Stringo i denti, non mollo. Pompo. Sono venti chili per la televisione, per il programma, per gli autori, per il regista, per il direttore di produzione, voglio che la serie parta così la rete compra i
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diritti, venti chili per andare in televisione ed essere l’ospite applaudito dal pubblico, per rispondere alle domande. Urlo per un mese, due, tre e poi l’ultimo giorno sulla bilancia ci sono ventidue chili in meno. Il programma lo fanno, ma la mia puntata non finisce in televisione, però sono felice lo stesso. Mi compro magliette, felpe, pantaloni che prima non potevo neanche guardare. Poi ci sono Isabel, Egle, Anna, Olivia (che ingoia). Gli amici, i conoscenti che mi fermano per strada e mi chiedono come ho fatto. Si complimentano, mi battono il cinque e mi dicono che sono un grande. E poi i miei genitori che litigano perché gli dico che voglio lasciare la scuola. E si rinfacciano il fatto di avermi fatto fare la trasmissione sul peso. Mio padre dice che lo sapeva che mi sarei montato la testa, che è tutta colpa di mia madre. E lei si incazza e dice che non è vero, che è un bugiardo, che l’hanno deciso insieme e così via fino a quando mio padre non ci sta più dentro ed esce di casa sbattendo la porta. Io vado da mia madre e le dico di non preoccuparsi. Questa cosa del peso mi ha fatto bene. Mi ha dato fiducia. Se sono riuscito a perdere ventidue chili posso farcela in tutto il resto. Tipo diventare un attore. Lei urla e mi dice che con la storia dell’attore la devo finire. È una storia stupida, che non accadrà mai. Stop. Salva file come audio. Confessione parte due. Cartella confessioni. E poi giù con quaranta addominali. Uno deve essere previdente, avere l’asso nella manica. Vatti a fidare del futuro. I miei file audio li salvo sul Mac e sto a posto. È roba così che ti salva il culo. Quando le cose girano male, ti metti d’accordo con qualcuno che vuole uno scoop, fai uscire roba così e ritorni a essere ovunque. Diffidate di chi parla di privacy violata, di male da celebrità. Cazzate. Venderebbero l’anima al diavolo pur di essere sempre in copertina. Ed è per questo che a me questa cosa di J.T.B. non convince. La televisione, la diretta, mi puzza. Questi sono capaci d’inventarsi di tutto. Nello show business sono le idee che contano. Prendi Ozzy col pipistrello, i Sex Pistols e l’intervista a Thames Television o i Red Hot nudi ai concerti con un calzino a coprirgli l’uccello. Se non hai idee fai la fine di quei gruppi che vengono pagati con le consumazioni al bar. La verità è che nessuno molla il colpo. Non c’è cosa più bella che la gente ti adori, sapere che per te farebbe di tutto. Anche solo per poterti sfiorare. Tipo ai concerti quando dal palco la rockstar va verso le prime e quelli davanti si ammassano per essergli il più vicino possibile. Allunga la mano e tutti vogliono toccarla. Nessuno pensa che entrambi avete un naso, una bocca e respirate allo stesso modo. No, c’è solo quella mano e il desiderio di sentirla, avvertirne la consistenza, poterla stringere per qualche secondo. Non esiste che quella pelle da toccare. Ed è questo che voglio, che sia la mia mano a incontrare le altre. Voglio che sia la mia mano a trasmettere calore, che le mie cinque dita diano energia, perché c’è dell’energia, un punto di forza per tutti quelli che hanno bisogno di sentirlo ed è qui nella mia mano. Sono io la mano da toccare. Sul sito del casting non ci sono ancora i risultati, ma io clicco. Continuo a cliccare. Clicco. Clicco. Clicco. Clicco. Clicco. Clicco. Poi la scritta a centro pagina. «Tra tre giorni pubblicazione dei risultati».
TESTI GIORNALISTA - Al primo break pubblicitario ci guardano in sei milioni. Al secondo sette. Ora che è partito il terzo, mi dicono nove. Una ragazza corre a tamponarmi la fronte. Mi mette del trucco e mi dice che vado alla grande, che una cosa così lei non l’aveva mai vista. Ha l’adrenalina a mille. La diretta streaming di tutti i siti nazionali e stranieri passa dalla nostra rete, dalla mia faccia e dalla telecamera fissa su J.T.B. in fuga. Penso ai miei capoccia in tribunale, convinti di avere tra le mani il caso dell’anno. Il regista in cabina è col pollice in su. Col servizio sulla vita di J.T.B. abbiamo toccato la perfezione. Ora stanno provando a rintracciare la madre, ma quella stronza non risponde. Gli dico di continuare a provare anche a costo di fondere il telefono. Un minuto alla diretta. Guardo fisso il monitor. Non stacco lo sguardo dalla macchina. Prego che non succeda niente durante gli spot. Mi va bene tutto, basta che non succeda durante la pubblicità dei pannolini doppio strato. La gente appena capisce che può vedere del sangue si attacca alla televisione e non si sposta nemmeno con le bombe. Fagli vedere due che scopano, due tette, due che si menano o ventidue uomini correre dietro a una palla e loro sono felici. Alla faccia dell’opinione pubblica. Quaranta secondi alla diretta. Bisogna fottersene dell’opinione pubblica. L’opinione pubblica non si deve confrontare con l’audience, lo share, i ratings. Io sì. Per avere gli indici di ascolto alle stelle servono idee nuove, gente che se ne fotte di tutti quei bigotti moralizzatori che ti puntano il dito contro se fai qualcosa di diverso. Fottersene, semplicemente fottersene. Andare avanti fottendosene. È anche un modo per vivere meglio. Trenta secondi alla diretta. Se non lo fai attaccano col discorso del mondo da cambiare, sul loro impegno, su quello che ognuno deve dare. Il lavaggio del cervello. Ma io gli chiedo, cosa hanno da dire sulle forze armate in Angola? Qual è la loro posizione sul conflitto tra gli Invisible Commandos e le Forze Repubblicane in Costa D’Avorio? Sono bravi con le frasi d’amore per la morte di Micheal Jackson o a piangere al suo funerale quando Mariah Carey gli dedica I’ll Be There. Stessa cosa per Whitney Houston, Amy Winehouse o Stay hungry, stay foolish. Ma cosa hanno da dire per i loro fratelli africani in guerra? Venti secondi alla diretta. Senza di noi cosa sarebbero gli ultimi due secoli? Lo sbarco sulla Luna, le torri gemelle, i funerali del papa, le nozze di William e Kate. La soluzione è un’altra. Non prendetevelo più il vostro bel televisore al plasma quarantasei pollici. Lasciatelo in negozio. Quello con ottocento canali, full Hd, in offerta speciale. Se lo vedete in vetrina, scostate lo sguardo. Non pensateci, tirate dritto. Quindici secondi alla diretta. La verità è che a nessuno interessa se uno della Milizia Galgala spara in fronte a un soldato dell’esercito in Puntland. Qualcuno si è mai interessato a Sialkot e alle migliaia di persone che lavorano sottopagate senza contratto diciotto ore di fila? Prendi invece Anders Breivik, quello che in Norvegia ha fatto fuori settantasette persone. Parli di lui e tutti davanti a guardare. Alla gente interessano storie così, dove un bianco di trentadue anni un giorno si traveste da poliziotto, mette una bomba al quartier generale del governo a Oslo. Poi va sull’isola di Utoya e uccide chiunque gli capiti a tiro. Bottino della giornata, settantasette persone. Queste sono le storie che funzionano.
AUTOPRESENTAZIONE
La lezione di Amy Winehouse quando la celebrità genera cannibalismo L’idea, o meglio il primo stimolo utile a J.T.B., è nato nei giorni seguenti la morte di Amy Winehouse. Mi aveva sempre incuriosito il fatto che la vita della cantante fosse perennemente messa sotto la lente d’ingrandimento. Da una calza rotta a una nota sbagliata fino a presentarsi sul palco in condizioni precarie, tutto andava bene per sbattere in prima pagina i suoi problemi fatti di abusi e dipendenze. Era, o meglio, doveva essere solo una rockstar maledetta. Quando è morta sì è ribaltato tutto. In televisione c’erano programmi maratona con interviste alla Winehouse dove lei, finalmente lei, parlava. Emergeva la figura di una donna estremamente intelligente, ma sola, dotata di una straordinaria sensibilità che parlava di ciò che più la turbava, l’amore, di come il non essere ricambiata, l’avere difficoltà nelle relazioni la facesse soffrire. Oppure il dover fare i conti con la celebrità, con persone sempre pronte a osservarti per il puro piacere di farti sentire inadeguata, sbagliata. Era spaventoso come in pochi giorni tutto si fosse ribaltato, ma questo cambiamento di rotta non era dovuto a problemi di coscienza o di pentimento. Era solo marketing, il giusto marketing per sfruttare anche da morta l’immagine della cantante facendo sì che il business economico legato al suo nome potesse proseguire. Io la chiamo manipolazione o, citando Jean Baudrillard, società del simulacro, dove il destino e la condizione delle società avanzate è di degradare ogni fatto a semplice spettacolo e oggetto di consumo, a prescindere della sua veridicità o falsità. Uno degli aspetti che mi inquietava di più era vedere come questo consumo, pur essendo continuo e perpetuo, non terminasse mai, anzi, si spingeva sempre oltre ogni limite, senza etica e rispetto per una persona che non c’era più. J.T.B. è un testo che prende spunto da questo evento per poi muoversi nell’universo della celebrità, dell’apparire e delle conseguenze che possono scaturire dalla disperata e ossessiva ricerca del riconoscimento. I personaggi che ho scelto per la storia hanno una distanza differente dall’epicentro di tutto, J.T.B., ma riescono lo stesso a essere inglobati nel suo universo, consapevolmente o inconsapevolmente. Sono persone diverse, anche a livello generazionale, ma c’è un forte filo rosso che li unisce. Il desiderio forte che emerge in ognuno dei miei personaggi è di essere qualcuno, venire riconosciuti, essere famosi perché non riuscirci in tempi come questi pieni di reality, di internet, ma anche di furbizie, scambi o giochi di potere significa essere delle nullità. E niente è peggio, niente rende le persone tristi, depresse e disperate quanto la consapevolezza della loro invisibilità. Lorenzo Garozzo
Breivik è meglio di una soap opera. Dieci secondi alla diretta. E poi ci sono settantasette morti. Settantasette vite da raccontare, i parenti, il loro ricordo. Chi, sapendo che tra qualche giorno, anzi tra qualche minuto, morirà, non vorrebbe che si parlasse di lui? Preferirebbe che la sua vita finisse anonimamente per colpa di uno schizzato che decide di pianificare un omicidio di massa e lui puff, spazzato via. E io che gli do l’ultima opportunità, sono da condannare? Sono io il cattivo? Cinque secondi alla diretta. La ragazza mi dà un’altra botta di trucco. Nel monitor vedo la macchina di J.T.B. sbandare. Sudo freddo. Quattro secondi alla diretta. L’auto esce di strada, rompe una rete, prende un dosso e fini-
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TESTI sce in un campo. Rimane ferma, non si muove. Guardo il tecnico che in studio chiama il countdown. Tre. Le macchine della polizia non riescono a saltare. Si fermano. Gli sbirri escono e iniziano a correre. Due. Dall’auto di J.T.B. non si muove nulla. I poliziotti si avvicinano. La pubblicità di una bibita gassata finisce, arriva il nero sullo schermo. Uno. La portiera si apre ed esce J.T.B. con la pistola, trascina con sé il suo agente per qualche metro. I poliziotti si fermano e lo tengono nel mirino. Arretra mentre quelli gli dicono di gettare via la pistola, lasciare l’ostaggio e arrendersi. Diretta. AGENTE MUSICALE - Ho la pistola puntata contro. J.T.B guida e piange, sorride, urla. È fatto. Dice che sono un verme, che l’ho usato e che merito di morire. Io non riesco a dire niente, ho la bocca secca come se avessi inghiottito tutta la sabbia del deserto. Stringo la maniglia e mi piscio addosso. Mi torna in mente il giorno del provino e lui che arriva in giacca e cravatta assieme alla madre. Nessuno immaginerebbe che prima di essere un sex symbol immortalato sulle copertine di centinaia e centinaia di riviste, aveva i capelli a spazzola, occhiali da vista spessi come il fondo di una bottiglia, il viso completamente ricoperto di brufoli e una madre perennemente tra i piedi. Anche se lo ammetto quando ci sediamo al tavolo per parlare d’affari, lei fa un passo indietro. Ma è come se ci fosse lo stesso perché quella donna è dentro J.T.B.. Nei modi, nel fare, nel parlare. Infatti, invece di parlarmi di case discografiche, contratti da firmare, album da produrre e star system da scalare, suo figlio cosa fa? Mi racconta la sua vita, proprio tutta. Del padre morto quando era piccolo, di sua madre che l’ha tirato su da sola, l’infanzia, la vita in un paese di diecimila anime, la musica, il canto, le prime soddisfazioni. E poi Lisa, la sua ragazza che non è con noi per via dell’ultimo esame all’università. Stanno insieme dai tempi del liceo, si amano e queste cose da anime gemelle che vogliono scalare insieme la parete della vita. Ironia della sorte, è merito di Lisa se J.T.B. è finito tra le mie braccia. È lei che ha messo il video su Youtube. Per gioco. L’ha filmato un pomeriggio e ha scommesso che un sacco di persone l’avrebbero visto. Il problema delle ultime generazioni è la fiducia. Ecco perché gli uomini hanno bisogno almeno di una donna accanto. E io invece cosa ho fatto? Nel giro di un anno l’ho trasformato in un’acclamata rockstar. Invece di puntarmi contro una pistola, dovrebbe ringraziarmi. Se un uccellino cresce in una gabbia, vedrà sempre la libertà come una punizione. Un paesello di ventimila anime, la madre al fianco e una ragazza interessata ad avere figli su figli e la tavola ben apparecchiata a Natale. Questo è il punto di partenza. Di che cosa bisogna stupirsi? Ci vuole calma e io sono un tipo paziente, uno di quelli che fanno buon viso a cattivo gioco. Non di quelli che gli vomiterebbero addosso la verità, cioè che la sua è una vita triste, vuota, senza la possibilità di nessuna ambizione. E che sua madre e Lisa sono la causa di questo fallimento annunciato. No. Lavorare con finezza. Sorridergli, rassicurarlo e conquistarsi ogni giorno un centimetro della sua fiducia. Questo è il mo-
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do migliore per allontanarlo dalla morsa dei suoi affetti. Ogni giorno un passo verso di me e uno lontano da loro. Così. È il mio progetto J.T.B., la mia visione. Mia e di nessun altro. Perché se si sbaglia poi c’è il vuoto, il nulla. J.T.B., eccolo il biglietto vincente della lotteria. Quello che non ho avuto io, l’ha lui, ma sono il suo agente. Mi occupo della sua voce, della sua immagine. È come se fossi io. Che ci provino a portarmelo via. È il mio osso. E un cane per il suo osso è capace anche di sbranare e a me non me ne fotte un cazzo. Mamma, fidanzata, Gesù Cristo in persona, io non lo mollo. Lo ammetto, sì, ho fatto qualsiasi cosa perché si allontanasse da sua madre e si lasciasse con Lisa. Sì, è vero. Come la goccia che costantemente e ripetutamente scende pian piano e corrode la roccia fino a scavarci un solco dentro. Come? Anche io l’ho vissuto, anche io conosco la solitudine, quel magone che dalla gola arriva fino al cuore. Basta far leva su una cosa così per assicurarsi la fiducia di una persona. E qualcuno guardando tutti gli Emmy Awards, gli Mtv Music Awards, i dischi d’argento, d’oro e di platino può dire che l’ho danneggiato? Che ho fatto il suo male? Dovrei sentirmi in colpa? E per cosa? Per una storia d’amore che finisce? Ne ho visti a flotte giurare amore eterno alla fidanzatina e poi una volta famosi scoparsi qualsiasi essere animato gli capitasse a tiro. Si è divertito, come tutti. E sarebbe andato tutto bene se quella stronza della sua ex ragazza non si fosse tagliata le vene. Faccio di tutto per rimetterlo in sesto. E anche se i vertici della casa discografica mi fanno pressione per il nuovo album, io aspetto che la sua cazzo di crisi finisca. E quando dopo un mese si presenta nel mio ufficio ridotto uno straccio che solo a guardarlo fa schifo e mi accenna due, tre canzoni che ha scritto per il nuovo album, con sensibilità, con una cazzo di grande sensibilità, non dico che fanno cagare. No, gli do altro tempo. Faccio da intermediario con la casa discografica. Gli dico di aspettare, ma quelli pulsano perché loro manco la sanno la storia di Lisa. Brutta pubblicità la storia del suicidio. Per questo faccio in modo che non venga fuori niente. Metto a tacere tutto con un gran giro di soldi. Miei. In due mesi riesco a far entrare J.T.B. in studio di registrazione, ma è l’inizio del mio inferno. In questo lavoro devi anche mangiare un po’ di merda. E va bene. Ma io la mangio tutti i giorni. Ritardi, litigi, giorni dove si presenta in condizioni pessime e non si conclude niente se non risse con fonici, produttori o chiunque gli capiti davanti. Rossa, verde, blu, solida, liquida. Tutti i tipi di merda butto giù. Quando l’album è pronto mi sembra un miracolo. Parte anche bene, poi le vendite si bloccano. Poche settimane ed esce dalle classifiche diventando un flop gigantesco. Sembra ieri e invece ora siamo in macchina e c’è la sua pistola sulla mia testa. Lo imploro, gli dico che niente è perduto. Mi dice che sono un verme, che l’ho sempre usato. Vorrebbe non avermi mai incontrato, vorrebbe Lisa e poi mi preme la pistola sulla tempia. Mi dice che è colpa mia se Lisa è morta. Non mi è mai interessato nulla di loro, di lui, sono i soldi l’unica cosa che mi interessa e per questo morirò. Chiudo gli occhi e sento l’ano dilatarsi. Poi un balzo. J.T.B. perde il controllo della macchina. Ci schiantiamo. Riapro gli occhi e siamo fuori strada. J.T.B. mi prende per un braccio e mi trascina fuori dalla mac-
TESTI china. Iniziamo a correre fino a quando la polizia ci circonda. Ci fermiamo e mi spinge a terra. Sono in ginocchio con la sua pistola puntata alla tempia. J.T.B. mi urla di stare zitto. Davanti a tutti quegli sbirri che continuano a urlargli di arrendersi, tutto se ne sta andando per sempre. Hai la tua bella vita, una carriera, il successo, poi una donna se ne va e va tutto a puttane. Yoko Ono vaffanculo. Vaffanculo Yoko Ono. È la fine. Piango e chiudo gli occhi. Mi compare l’immagine di me ragazzino col vestito di Ziggy Stardust addosso, un microfono davanti e mio padre seduto in platea che mi applaude. (Sparo) VECCHIO - Casa mia. Finito di bere l’amaro gli altri cominciano in coro… «…discorso discorso discorso discorso discorso discorso»… Allora mi alzo da tavola, metto gli occhiali e tiro fuori il foglio. Con fare da grande cerimoniere batto il coltello sul bicchiere per avere la loro attenzione. «Cari soci, amici, cercherò di essere breve e diretto. Mai avrei voluto trovarmi qui oggi. Non essere qui significherebbe che tutto procede per il meglio, ma se sono davanti a voi è perché non è così. Il motivo è a tutti noto, da giorni riempie regolarmente la cronaca del giornale cittadino prestandosi a illazioni, pettegolezzi e, lasciatemelo dire, anche a infamanti accuse nei confronti del sottoscritto. Mi viene rinfacciato di aver innescato con le mie rivelazioni una serie di conflitti a ridosso della campagna elettorale cittadina. Di essermi accordato con il candidato sindaco che sfiderà quello attuale. Accordi, intese. Le parole usate per dipingermi come un opportunista, uno squalo assetato di potere. Un irresponsabile che agisce per il proprio vantaggio personale spostando gli equilibri delle nostre elezioni. Da quale pulpito mi verrebbe da dire. A questi signori risponderà il mio avvocato nelle sedi opportune. Ma non è di questo che voglio parlare oggi, perché queste accuse sono il modo migliore per distogliere l’attenzione dalla vera domanda: sarebbe stato meglio tacere? Far finta di niente? La risposta che do è dignità. La dignità che mi dà la forza per guardarvi oggi negli occhi consapevole del fatto che prima di qualsiasi altra cosa viene il rispetto. Rispetto per voi, per il circolo e per le sue regole. Quelle stesse regole che sono servite ai nostri padri per far nascere questo luogo. Regole che oggi sono attaccate da una macchina fatta di piaceri, favori, di gente che conta e di gente che non conta, di gente stupidamente onesta e di gente intelligentemente disonesta. Questa è la verità e questa verità è inaccettabile. I-NAC-CET-TA-BI-LE. Non sono le parole che ci servono. È tempo di agire, prendere posizione, metterci la faccia. Solo così possiamo impedire a questo degrado di avanzare. È la consapevolezza che mi porta qui. Vi chiedo di votarmi per essere il vostro nuovo direttore, per difendere quegli ideali di lealtà, di giustizia che mai come oggi vacillano pericolosamente. Quegli ideali che credevamo al sicuro e che invece scopriamo essere merce di scambio per persone che si credono più importanti di altre grazie alle cariche che ricoprono. Dobbiamo tornare a essere uniti, sinceri, onesti. Solo così possiamo preservarli. In caso contrario non stupiamoci se ci troveremo travolti. E non solo noi, ma soprattutto le generazioni a venire. Gli stessi bambini che oggi vediamo nel nostro circolo in passeggini o che stringono la mano dei loro genitori, sono loro che stiamo plagiando col nostro assenteismo morale, col nostro chiudere un occhio, con la nostra negligenza. Che
esempio possiamo dargli? Quali richieste possiamo avanzare? Con che coraggio possiamo farlo? Se permettiamo alle fondamenta di crollare per loro non ci sarà più futuro. Non credo sia una coincidenza che ciò che è accaduto, è accaduto il giorno in cui un noto cantante con la sua fuga teneva attaccati alla televisione milioni di persone. Anche io la seguivo, ma non mi preoccupavo di come sarebbe finita. No, mi chiedevo se è quello il modello, la normalità, la routine che ci attendono. Se esempi come questi emergono, è colpa nostra. I primi a dare l’esempio dobbiamo essere noi, perché è da noi che parte tutto. Bisogna cambiare, adesso. Smetterla di lamentarsi, agire. E dobbiamo partire da qui, da questo circolo e dalle nostre regole, dalla nostra educazione. Da questo piccolo mondo e impegnarci per trasmettere i modelli, gli insegnamenti che vogliamo lasciare a chi verrà dopo di noi. Non tornaconti, guadagni o vantaggi, solo una parola: responsabilità. Nessun furbo, nessuna furberia, niente favori, baratti, solo una parola: onestà. Questo ci serve per costruire un futuro solido dove ognuno possa camminare a testa alta vedendo che l’orizzonte davanti ai suoi occhi è l’orizzonte che lui stesso ha contribuito a creare. Ho finito. Vi ringrazio. Viva il circolo». Caio e Bano non smettono di urlare «direttore». Sistu versa altro limoncino nei bicchieri e le nostre mogli applaudono. Chi ha messo il discorso nero su bianco ha fatto centro. Mi avevano detto di fidarmi e avevano ragione. Con gente che gli scrive discorsi così, capisco perché tutti sono sicuri che avremo un nuovo sindaco. Non c’è niente da dire, se li sceglie bene i suoi collaboratori. Se sarà così illuminato anche nella gestione del comune, sarà un gran sindaco. Intanto il mio voto già ce l’ha. Abbraccio mia moglie e alzo la musica. Frank Sinatra, the Voice. Il cantante che ci ha fatto innamorare. La prendo e iniziamo a ballare con gli altri che battono le mani e urlano «bacio bacio bacio». La faccio volteggiare e lei mi sorride. Come quando avevamo vent’anni. Da giovane mi sorrideva sempre, era un sorriso unico. Poi ci siamo sposati, la casa, i figli e ora mi rendo conto da quanto non lo facesse. La bacio. Le sue labbra, non mi ricordo quando è stata l’ultima volta che le ho sentite. Mi è sempre stata vicino. Forse è l’unica persona che mi abbia mai capito. Anche gli altri si mettono a ballare. Vorrei fermare il tempo. Vorrei che questo pomeriggio non finisse mai, che potessimo ballare per recuperare tutte le volte che non siamo riusciti a essere felici. Dico a Bano di alzare ancora il volume. Chiudo gli occhi e la stringo forte. La musica, mia moglie, le sue braccia attorno a me, le sue risate. E io direttore. Finalmente direttore.
FAN - Sul canale uno della televisione ci sono i funerali di J.T.B.. Una distesa di persone, centinaia di migliaia. Ad Amy Winehouse deve bruciare il culo, o quello che ne resta, perché c’è molta più gente che al suo. Non sono convinto che J.T.B. sia morto e questo non è un vero funerale. Ce lo vedo uscire durante la messa con la band sul palchetto, dire che era tutta una balla e attaccare a suonare i pezzi del nuovo album. Il disco nuovo in mondovisione al proprio funerale, nella storia ci entri alla velocità della luce. E poi le facce, io le vedo le facce. Fanno finta di essere pensierosi, tristi, ma in verità aspettano solo che succeda qualcosa. Comparse, sono tutte delle comparse. Busso al muro e urlo ai vicini di abbassare lo stereo, stanno ascoltando Frank Sinatra a tutto volume. Ho bisogno di calma, silenzio. È
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TESTI da più di un’ora che aggiorno la pagina del sito per vedere se sono usciti i risultati del provino. Oggi li pubblicano. Prendo pause di cinque minuti ogni venti per fare delle sessioni di piegamenti. Niente, la pagina non cambia, sempre con la scritta «i risultati saranno esposti a breve». Vado anche sui vari siti di gossip per vedere se c’è qualche indiscrezione, ma anche lì nulla. Suona la sveglia. Mi metto a terra e pompo. Respiro forte, sforzo le braccia e veloce veloce veloce veloce veloce veloce veloce veloce. Sforzo a più non posso come se volessi farmi esplodere il cuore. Mi alzo e aggiorno aggiorno aggiorno aggiorno aggiorno fino a quando eccola la scritta, la parola, «risultati». Cerco subito il mio nome. Scorro scorro scorro scorro scorro. Eccolo. «Non ammesso». Rileggo. «Non ammesso». Ci deve essere un errore. Non è possibile. «Non ammesso». Un errore, deve essere un errore. Per forza. «Non ammesso». Faccio una serie di addominali e rifletto. «Non ammesso». Prendo il telefono e chiamo la segreteria di produzione. Sto in attesa, poi una voce mi chiede per cosa chiamo, “i provini”. Mi passa l’interno quattro e mi ritrovo in attesa con Lady Gaga che canta. Continuo ad aggiornare pagina. Una, due, tre, dieci, cinquanta volte, ma niente. «Non ammesso». Arriva l’operatore, Sara. Mi chiede come può aiutarmi. Le spiego che sul sito di fianco al mio nome c’è scritto non ammesso, ma io sono passato. Me l’hanno detto. «C’è un errore, sono tra i selezionati. Avete preso una svista». Dice «Strano» e mi chiede nome e cognome. Sento le sue dita sulla tastiera. Non risulta. Allora le faccio lo spelling. Passa qualche secondo e ancora, «non risulta». Cazzo!!! «Come faccio a essere sicuro di essere stato preso? Me l’ha comunicato la commissione. Nella persona di chi? Nella persona della commissione». Mi chiede di attendere ancora un attimo e rimette la cazzo di canzone di Lady Gaga. Ma io glielo colgo l’imbarazzo. Ha capito l’errore e sta chiedendo a quelli attorno a lei come rimediare
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perché non vuole che io capisca che hanno sbagliato, ma io lo so già. I vicini continuano con la musica alta, busso ancora. Rimango in attesa e penso a cosa dire a Sara per non farla sentire più mortificata di quanto già sia. «Lo so, può capitare… Non si preoccupi, rimane tra me e lei, non sono quel tipo di persona che urla… Lo so, lo so, lei non c’entra niente… Altri… È sempre così, paghiamo sempre gli errori di altre persone… Lo so, lo so, non si preoccupi. È stata molto gentile con me, certo che mi può dare del tu». Sara torna al telefono e mi dice che non c’è stato nessun errore, semplicemente non sono stato preso. E allora io mi incazzo perché non posso perdere tutto il pomeriggio per colpa di alcuni incompetenti. Le dico di passarmi qualcuno che conta. Mette giù. Mette giù a me. Richiamo non so quante volte, ma il telefono suona sempre a vuoto. Non capisco. Sbatto il telefono e non capisco. Non capisco. Non capisco. Non capisco. Non capisco. NON CAPISCO. (Pausa) Non c’è niente da capire. È semplice, si sa come vanno queste cose, no? Sempre allo stesso modo. La colpa è mia. Mia che mi illudo, che mi illudo sempre che sarà diverso, che basti il talento, la bravura e non avere il culo parato o una raccomandazione del cazzo. Perché è questo, il culo parato. Il figlio del Tizio, Caio o Sempronio potente di turno che arriva e frega il posto ai poveri cristi come me. Già. È questa la spiegazione, ovunque. Dalla fabbrica fino ai reality. Tutto torna. Tranne io, io non torno. Non torno per colpa loro che mi negano il futuro, la celebrità che mi merito. È colpa loro se non firmo autografi, se non vengo fermato in strada, se non sono il testimonial alle serate benefiche contro il cancro e non faccio le foto con i bambini malati, se non sono ai talk show per dire la mia sulla politica, sulla sinistra, sulla destra, sul centro, sul comunismo, sul socialismo, sul fascismo, sul nazismo, sui referendum, sul voto, sull’astensione, sul calcio, sulla squadra che tifo, sul mio calciatore preferito, sul cinema, sulla guerra, sulla pace, sulla cucina, sulla musica, sull’arte, su qualcuno che conosco, su qualcuno che non conosco, su qualcuno che non conosco ma che mi piacerebbe conoscere, sulle donne, su uno che è morto, sulla moda, sulle modelle, sulla mia eterosessualità, sui gay, sui bisessuali, sui diritti per tutti, sul papa, sulla mia fede, su come l’ho persa, su come l’ho ritrovata, su mia madre, su mio padre, sul nuovo presidente americano, sul nuovo premier italiano, su quello cipriota, armeno, islandese, sui miei ricordi, i miei sogni, le mie ambizioni, sulla chirurgia estetica, se ho fatto operazioni, se mi piacerebbe farle, se sono vegetariano, vegano, sulla verginità, su quando l’ho persa, con chi, dove e se mi è piaciuto, sulla mia ultima storia d’amore, su come è finita, se è finita, se ne ho una nuova e se sono felice, sul mio colore preferito, se sono triste, se rido, se piango, sul mio prossimo film e su tutto quello che serve per farmi aprire la mia cazzo di bocca. La bara di J.T.B. scende, continua ad andare giù e lui non esce. Va sempre più in basso. Non è morto, non può essere morto. Dai, esci. Non puoi essere morto.
TESTI Esci. Esci. Esci. Esci. Che cazzo hanno da tenere la musica alta i vicini. Cosa cazzo devono festeggiare? Non hanno mai festeggiato un cazzo e in questa giornata di merda non c’è niente da festeggiare, niente. Niente. (Pausa) Sanno di me? Della mia esclusione. Sanno e ridono. O forse no, forse stanno festeggiando perché hanno un figlio che è stato preso al mio provino. Magari loro la buona parola ce l’hanno messa. L’altro giorno c’era anche l’articolo sul giornale. Il tizio qua di fianco è il direttore di un circolo sportivo. La politica, l’articolo parlava della politica, delle elezioni per il nuovo sindaco. Ecco sì, loro devono conoscere uno di quelli che ti danno una mano, che mettono la parolina. Preso al posto mio. Per questo la musica. Loro lo sanno e festeggiano. Festeggiano e ridono di me. Ridono di me. Ridono di me. Ridono di me. GIORNALISTA - Io sono lì e ho i loro sguardi addosso. Per rompere il ghiaccio dico che per non deluderli ho pensato di suicidarmi in diretta. Rimangono tutti immobili. Silenzio. Come? Fa uno. Sorrido e dico che è solo una battuta. Piano piano tutti si mettono a ridere. È la prima riunione da quando mi hanno ingaggiato. Tiro fuori i miei lucidi e inizio a spiegargli il progetto, che poi altro non è che il motivo della riunione. Avere il mio programma in prima serata. Ho pensato a una trasmissione settimanale, un talk show che approfondisca fatti di cronaca nera. Il capo di rete, impegnato col suo Ipad, non mi guarda neppure e mi dice che c’è già. Lo so che c’è già, ma io punto a qualcosa di diverso, qualcosa che non si sia ancora visto. Prima di tutto una troupe e degli attori che assieme realizzino ricostruzioni filmate del crimine, il tutto montato e amalgamato bene con una voce narrante fuori campo. A questo integriamo le testimonianze dei veri protagonisti, quelli vivi ovviamente, e poi li portiamo in studio a raccontare il loro punto di vista. Poi gli ospiti fissi, un criminologo e uno psicologo di quelli coi coglioni. Il capo di rete mette via l’Ipad e mi interrompe. È tutto molto interessante, dice, ma non basta. Vuole qualcosa che lo colpisca. Qualcosa che non lo faccia stare più nella pelle, che gli faccia drizzare l’uccello più di Mila Kunis e Bar Refaeli che fanno il bagno nello stesso idromassaggio. Me lo aspettavo. Metto l’articolo di un giornale di qualche mese fa sotto al proiettore. «Fan di J.T.B. uccide quattro persone e poi prova a mangiarle. Nel giorno del funerale del cantante carneficina in città. Polizia allertata dalle mogli delle vittime. Il giovane trovato in stato confusionale urlava di essere Winnie the Pooh». Eccola qua la nostra prima puntata. Silenzio, nessuno fiata. Vado avanti e gli dico che questo è solo l’inizio. Non mi sto inventando nulla di nuovo, lo so, ma se vogliamo sbancare dobbiamo spostare l’asticella un po’ più in alto. L’idea per far diventare questo programma un successo ancora prima di arrivare in televisione ce l’ho. Aspetto qualche secondo per godermi lo spettacolo di questi stronzi impalati che mi fissano per saperla. Poi la sgancio. L’agente di J.T.B., l’ostaggio. È lui che voglio. L’esclusiva, essere il primo a intervistarlo. La gente non aspetta altro. I due protagonisti dell’evento dell’anno finalmente assieme. Tutti stan-
Premio Hystrio Scritture di Scena 2013 la motivazione «La Giuria del Premio Hystrio-Scritture di Scena - composta da Antonio Latella (presidente), Fabrizio Caleffi, Claudia Cannella, Renato Gabrielli, Domenico Rigotti, Roberto Rizzente e Diego Vincenti - dopo ampia e minuziosa valutazione dei 57 copioni in concorso, ha assegnato il Premio Hystrio-Scritture di Scena per l’edizione 2013 a: J.T.B. di Lorenzo Garozzo, partitura drammaturgica di grande originalità, il cui autore è riuscito nell’impresa di dare emblematico carisma a un protagonista sempre assente, sottratto alla vista degli spettatori, evocato soltanto dall’alternarsi delle voci di personaggi a lui vicini oppure lontanissimi, accomunati da un bisogno quasi compulsivo, ossessivo di parlare di lui. Questa parabola spietata, per nulla banale e tantomeno moralistica, rispecchia il disagio sociale dei nostri giorni mettendo nel mirino il culto della celebrità, che rivela e al tempo stesso esaspera il vuoto delle relazioni. Il solipsismo dei personaggi è ulteriormente rafforzato dalla coerente rinuncia allo strumento del dialogo. La narrazione procede dunque, consequenziale e avvincente, attraverso una serie di monologhi concatenati. Ma l’anti-teatralità di J.T.B. è solo apparente: all’interno di ogni lunga battuta emergono di continuo dinamismo e possibilità di conflitto, grazie a un linguaggio vario, mimetico, credibilmente radicato nella quotidianità ma non appiat tito sul naturalismo. Una sfida registica non facile, che speriamo venga raccolta quanto prima». Il testo è andato in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano, in forma di lettura scenica, il 21 giugno 2013, nell’ambito del Premio Hystrio. Gli interpreti erano Marco Cacciola, Giovanni Franzoni, Tindaro Granata, Massimiliano Loizzi e Debora Zuin, per la regia di Sabrina Sinatti.
Una scena della lettura di J.T.B. (foto: Fabio Bortot).
no aspettando di vederlo davanti a un microfono a raccontare tutto. Glielo daremo noi. E non scuciremo un soldo. Saranno gli sponsor, la pubblicità a farlo. Arriveranno a scannarsi per avere uno spazio perché quella sera saranno tutti sul nostro canale ad aspettare che si sieda, guardi in camera e parli. Un momento indimenticabile nella storia della televisione e saremo noi ad averlo fatto. Non la concorrenza, non qualche rete internazionale, noi. E poi c’è la borsa, il valore del nostro titolo sul mercato. Non voglio nemmeno pensare quanto schizzerà in alto quando daremo l’annuncio. Per non parlare del giorno prima, il giorno stesso e il giorno dopo la trasmissione. Poi il presidente, chiedergli un piccolo premio o di rivedere i nostri contratti, insomma, dopo una cosa così, credo sarebbe molto felice di farlo. Finisco e sto in apnea aspettando che qualcuno apra bocca. E vorrei sapere che cosa aspettano. Se non c’ero io col cazzo che saltava fuori
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TESTI un’idea così, erano ancora qui a farsi le seghe su quei cazzo di programmi che insegnano a cucinare. Il responsabile di rete mi applaude e nel giro di pochi secondi tutta l’intera sala fa lo stesso. Sorrido e dico grazie. «Non ve ne pentirete». Si congratulano e mi stringono la mano, anzi credono di stringermela. Ma loro la mia carne non la sentono. Nessuno sente la mia carne. Sono solo muscoli che si muovono. Anche se sono a pochi passi da loro, anche se mi fissano negli occhi e credono di sapere quello che provo, io non sono lì. In verità, in verità… In verità non passa quasi nulla dell’abisso che si nasconde dietro questa faccia. E anche se fosse, non si capirebbe quello che ho dentro e quando non si capisce qualcosa si crede sempre sia uno scherzo. Sangue, lo vedo. Per un attimo ho visto sangue, del sangue sulle loro facce. L’ho immaginato? O c’era? Forse dovrei dirlo a qualcuno. Magari è solo stress. Forse dovrei prendermi una pausa, ma non è il momento per farlo. Andare avanti, ecco cosa fare. Andare avanti come se niente fosse. Sorridere e stringergli le mani a uno a uno. Meglio lasciar perdere. Meglio l’auditel. Le percentuali. Avere un bel vestito. I denti puliti. Dire buonasera. Chiamare tutti amici. Augurare qualcosa di bello e poi salutarli. Come se fossero mia nonna. Come se gli volessi bene. Sorridere. Sorridere ancora. E poi ancora. Ancora. Ancora. Ancora. Applausi. Sigla. Balletto. Buio. AGENTE MUSICALE - Entro in studio al secondo stacco pubblicitario. I primi tre quarti d’ora se ne sono andati con la storia del ragazzetto aspirante cannibale, Winnie The Pooh, e le quattro persone che ha ucciso. Ora è il mio momento. Quando esco dalle quinte una selva di fotografi inizia coi flash. Non so quanti siano ma è come avere davanti un plotone d’esecuzione. Anche in platea sono tutti col cellulare in mano per fotografarmi e urlare quanto siano felici di vedermi. Il conduttore viene verso di me per stringermi la mano. I fotografi ci chiedono di guardarli e restare fermi. Flash su flash, senza un attimo di respiro. Io e lo stronzo che ha tenuto incollati milioni di telespettatori con la mia fuga, finalmente vicini. Se prima di uccidersi J.T.B. mi avesse sparato se la sognava una serata così. Chi avrebbe potuto chiamare, la madre di J.T.B.? Quella pazza barricata in casa a piangere il figlio suicida. Poi rimango solo al centro della scena e i fotografi non perdono un attimo per immortalarmi. «Guarda di qua, e poi di qua e poi di qua e di qua». A nessuno interessa un cazzo di Winnie The Pooh o di quelle povere quattro mogli che hanno perso i mariti, l’evento della serata sono io. Un addetto della sala informa che mancano tre minuti alla diretta e che i fotografi hanno esaurito il tempo. Mi siedo. Ho tutti i riflettori addosso. In platea non c’è un posto libero. Quando al pomeriggio siamo arrivati in macchina, fuori dai cancelli era pieno di persone ad aspettarmi. Mi vedono e tutti a correre verso di me. «Un autografo, sei grande, ho pregato per te». E poi una montagna di fiori, lettere, perizomi nel camerino. Adesso ci siamo, è il grande momento. Tutti che muoiono dalla voglia di sapere come sono andate le cose. L’ultima volta che mi hanno visto mi caricavano su un’ambulanza con J.T.B. steso a terra, morto. Dieci milioni di persone davanti a quella scena, senza contare chi poi si è rifatto con i telegiornali o internet. Nella settimana in ospedale c’e-
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ra un via vai continuo. Giornalisti a caccia dello scoop, curiosi, fan, donne, sbirri, dottori. Quando mi hanno dimesso, poi è stata la volta dei colleghi. Non per esprimermi solidarietà ovviamente, ma per convincermi a firmare per loro. Omar l’ho scelto nel giro di qualche giorno. Certo avrei potuto aspettare, tirarla per le lunghe, aumentare l’offerta, far passare meglio tutti i vari agenti, ma Omar si è presentato deciso da subito. Anche con i soldi. Ogni giorno in televisione c’era sempre qualcosa dedicato a me. Parlavano tutti, ma proprio tutti, tranne io che stavo bello muto, in silenzio. Le offerte per l’intervista in esclusiva hanno iniziato ad arrivare quasi subito e non si sono più fermate. E più aspetti più quelli ti coprono d’oro. Non c’era fretta, non era quella la cosa più importante. Prima bisognava decidere cosa raccontare, anzi cosa fosse meglio raccontare. Fai il tuo bel racconto in televisione, ma poi? No, no, bisogna avere un piano, un progetto a lungo termine. Su quello abbiamo lavorato io e Omar. E Omar è stato chiaro da subito. La parola d’ordine è prospettiva. Lavorare su qualcosa che duri, qualcosa che incuriosisca sempre. J.T.B. si è sparato. L’hanno visto tutti mentre piangeva e poi si faceva esplodere la testa. Serve altra carne da mettere al fuoco. Una bella favola, questo serve. Per Omar il segreto è quello. Una di quelle che piacciono a tutti, con il lieto fine. Questo vuole la gente. Il lieto fine. Il gelato d’estate, la neve a Natale e il lieto fine nelle favole. E più tu gliela fai incredibile, più loro ci credono. E allora racconterò che J.T.B. è entrato a casa mia, mi ha puntato una pistola contro. Dirò che in quelle ore ho visto la verità, era tutto limpido chiaro, come dopo un temporale estivo. Dirò che l’ho perdonato perché, anche se ho rischiato di morire, Dio è entrato nella mia vita. Se sono felice, se i miei occhi vedono un mondo nuovo è grazie a lui. Per questo a quel figlio di puttana, sepolto tre metri sotto terra, io gli voglio bene. Un attimo, solo un attimo. A forza di ripeterlo rischio quasi di crederci veramente. Oddio. Ecco, a posto. Lo riabiliterò J.T.B., a costo di dover far cascare il mondo. Parlando di lui e di quello che è successo avrò l’occasione per costruire il mio nuovo personaggio. E allora parlerò di quello che ho provato in quegli istanti. Di quello che provo adesso. Cosa ero prima e cosa sono adesso. La mia redenzione. In questa società di falsi e ipocriti, nessuno si stanca dei buoni. Perché senza i buoni, tutta questa merda che ci circonda ci affogherebbe. Un buono, invece, ti fa credere che ci sia speranza, che il mondo non sia così male. E io sono il nuovo, il nuovo messaggio da diffondere a tutte le anime perse e disperate. Se tutto va per il verso giusto siamo a cavallo. La verità è che questa pantomima ci serve solo per i diritti d’immagine di J.T.B., la vera miniera d’oro. Diritti d’immagine che io e solo io ho. Il nostro piano parte da loro. Omar ha subito acquistato il terreno dove J.T.B. si è fatto esplodere la testa. Già ora che non c’è niente è un luogo di culto. Ogni giorno fans, curiosi, turisti lasciano un mazzo di fiori, fanno foto ricordo e cazzate di questo tipo. Figuriamoci cosa sarà quando tireremo su un museo dedicato a lui. Poster, chitarre, dischi, autografi, vestiti, interviste, scenografie, tutto lì dentro. Tre mesi e partiamo col cantiere. Con degli agenti di marketing abbiamo fatto delle stime. Contiamo di avere una media giornaliera di quattrocento/cinquecento visitatori. Cinque bigliettoni a cranio, viene fuori una bella cifra. Di fianco al museo ci sarà la sede della fondazione dedicata alla sua memoria. Si occuperà
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di conferenze, salvaguardia del materiale artistico, oltre a organizzare un festival estivo in suo onore con cantanti e gruppi di fama internazionale. E anche lì soldi come fossero sputi. Ma non finisce qui, no, no. Le magliette, una serie di magliette celebrative con slogan di vario tipo come «J.T.B. Saved My Life, Rinato e perdonato, La luce è per sempre». Abbiamo già un pre-accordo con una multinazionale. E questo per il breve periodo, perché poi nella testa ci frullano molte altre idee. Tipo scrivere un libro per ricavarci dei diritti da vendere per una mini fiction o, meglio ancora, un film. E poi a tempo debito gli inediti, i testi di quelle canzoni di merda che voleva mettere sul disco. Il risultato di tutto questo è una serie infinita di zeri. Ripeto tra me e me quello che dirò a questo mucchio di dementi. Omar è stato chiaro, «tenerli sulle spine». Essere sicuro, ma andare piano. Giocare. Non dirgli tutto subito, tenerli per le palle. Sul monitor vicino alle telecamere il countdown dice meno due alla diretta. Tutti che mi guardano. Non mi interessa cosa pensano, i giudizi, i diti puntati. L’invidia è una malattia senza cura. Fanculo. Io resto con la mascella ben stretta e il mio osso tra i denti. E non lo mollo, neanche da morto. Un minuto alla diretta. Ogni tanto sogno quello che è accaduto. A chi non capiterebbe. Perché non mi ha sparato J.T.B.? Forse aveva avuto il suo pomeriggio di follia e, quando era tornato in sé, si era reso conto di essere finito in un bel casino. Certo, avrebbe potuto spararmi e poi farla finita. I primi giorni me lo sono chiesto, ma il motivo vero non si saprà mai e allora tanto vale non chiederselo. La verità non è Dio, destino, fato o stronzate del genere, ma un ragazzo con una pistola in mano che decide di non premere il grilletto. Il resto non conta. Sono vivo, basta questo. Trenta secondi alla diretta. Ripeto tutte le cose che io e Omar ci siamo detti. Il discorso sulla vita, il passare dal materiale all’immateriale. Sentire la differenza tra quello che ero e quello che sono adesso. Sentire, ecco, il verbo sentire è una delle chiavi del mio discorso. Devo ricordarmelo, «sentire, sentire». E tenerli sulle spine, piano piano, senza fretta. Cazzo, se credono di potermi insegnare qualcosa si sbagliano. Loro? Forse mio padre. Mio padre magari l’avrebbe avuto un buon consiglio e l’avrebbe portato fino in fondo, non gliene sarebbe fregato un cazzo di Omar, della sua fama e del fatto che lavori per l’agenzia numero uno. Testardo come era alla fine avrebbe convinto tutti. Eccomi papà, sono qui. Senza Ziggy Stardust e il vestito, ma sono qui. Ovunque sei goditi lo spettacolo.
MADRE DI J.T.B. - Paolo l’ho conosciuto a una festa universitaria. L’unica alla quale sono stata. Si è presentato offrendomi del succo alla frutta. Tutti bevevano birra o vino, noi no. L’alcol non ci ha mai fatto impazzire. Aveva dei baffi folti. Li trovavo strani, perché di solito i ragazzi non ce li hanno a quell’età. E gli occhi. Grandi da far sembrare il cielo piccolo e io che non riuscivo a non guardarli. Poi la gentilezza, i suoi modi delicati come la sua voce calma, dolce. Ed è strano, ma mentre parlavamo col nostro succo in mano mi sembrava di conoscerlo già da tempo, come se ci fossimo rincontrati dopo tanto tempo. Sembra stupido, ma era la sensazione che provavo. Due mesi dopo eravamo fidanzati. Avevamo ventidue anni, lui era il mio primo ragazzo e io la sua prima ragazza. Erano gli anni Settanta, che erano sì gli anni delle rivoluzioni, delle contestazioni giovanili, ma erano anche gli anni in cui i ragazzi chiamavano a casa e rispondevano i genitori. Studiavamo
entrambi. Io volevo fare la professoressa, lui l’architetto. Prima degli esami ripassava sempre con me. Nella sua stanza. Lui sdraiato a letto e io sulla sedia a dondolo con i libri dell’esame. Intervenivo solo se sbagliava o perdeva il filo e poi ogni tanto, sì, per baciarlo. Abbiamo preso la laurea lo stesso anno. Lo stesso anno in cui festeggiavamo i nostri primi cinque anni assieme. Ci siamo subito dati da fare per trovare un lavoro, perché volevamo realizzare il nostro sogno, sposarci. In chiesa quel giorno c’erano poche persone, circa una ventina. Abbiamo sempre amato la semplicità, ci piaceva che in un momento così fossero con noi pochi intimi, le persone veramente importanti. Era il primo giorno di primavera. Ricordo il sole, l’arrivo in chiesa, mio padre che mi accompagna all’altare e lui davanti che mi aspetta, tutta la mia emozione mentre dico sì e le lacrime quando lui lo dice a me. Poi passano due anni e c’è un letto d’ospedale e lui che mi tiene la mano stretta stretta, mentre aspettiamo che nostro figlio o figlia, nasca. Gioele per il maschietto, Anita per la femmina. Gioele, non J.T.B., ma Gioele, è venuto al mondo che erano le ventitre e un quarto. Avevo Paolo accanto e quel fagottino tra le braccia. Non sembrava vero, nemmeno trent’anni e avere già così tanto. È difficile descrivere cosa sia un figlio, soprattutto se lo tieni dentro di te per nove mesi. Come si può spiegare? Metterlo al mondo, allattarlo, prendersene cura, cambiargli i pannolini, giocare con lui, vederlo crescere giorno dopo giorno. Un figlio è tante cose. Tante emozioni. Come quella parola, quella parola che è detta con le labbra che si baciano due volte. Mamma. Ricordo che è successo mentre gli facevo il bagno. È nella vasca che gioca con un piccolo coccodrillo di gomma, quando lo allunga verso di me e mi guarda. Mi sorride, sbatte i piedi nell’acqua e poi la dice, mamma. Tutti i baci che gli ho dato e lui che non smetteva di ridere. Il suono di quelle risate lo ricordo benissimo, come se fosse successo due minuti fa. Mamma. Io, Paolo e Gioele, una famiglia. E poi c’è un giorno di novembre, il cielo grigio e io vestita di nero guardo Paolo scendere sotto terra. E non capisco. Ci hanno provato i medici dicendomi che era qualcosa di congenito, una di quelle malattie che non si posso diagnosticare, che esplodono in qualsiasi momento e che mio marito è comunque stato fortunato ad aver vissuto così tanto. «Comunque fortunato». La mano di Gioele stringe fortissimo la mia mano che invece è molle, come assente. Mi sento in colpa perché non riesco a spiegargli il perché di quello che sta succedendo, perché suo padre e mio marito non ci sono più. Chiudo gli occhi e penso che l’unica persona che può salvarmi da questo nero sia mio figlio. Ed è così, in tutti quegli anni è mio figlio che mi salva. E poi è come se li riaprissi e tutto fosse stato spazzato via. C’è mio figlio ventenne, disperato che piange e questa volta sono io che gli stringo la mano. La chiesa del nostro piccolo paese è piena e lui non smette di piangere. È la messa per Lisa che se n’è andata, suicida, ma nonostante questo ha un funerale. Era Lisa, era amata da tutti. Nessuno si è opposto. La mia testa è come attraversata da una trave che altro non è che una domanda. È colpa mia? Ho sbagliato? Nel momento più importante della vita ho forse abbandonato mio figlio al suo destino? Sono stata io? Mi giro e in ultima fila vedo il suo agente parlare al telefono. Gli ho detto di andarsene, in tutti i modi. Anche offendendolo. La sua
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presenza, il vederlo è come se liberasse del veleno dentro di me. Come se tutti gli anni in cui ho cresciuto con amore e fatica Gioele fossero stati spazzati via dal suo arrivo. Come un uragano che arriva e distrugge tutto. Forse è tutto cominciato con lui. Forse io per prima sono stata accecata dalle sue promesse e ho contribuito a trasformare mio figlio in J.T.B.. Stringo sempre più forte la mano di mio figlio. Poi c’è un pomeriggio e il mio cellulare che suona all’impazzata. Giornalisti cronisti, tutti che mi chiedono se sto guardando la fuga in televisione. Io non capisco, non riesco a capire. Allora la accendo e vedo quella macchina che corre con la polizia che la insegue. Non riesco a descrivere quella sensazione, quel senso di… no, non ce la faccio. Nemmeno quando escono dalla macchina e mio figlio punta la pistola alla testa del suo agente. Nemmeno quando ci ripensa e si spara. Io non… credo… le parole… ecco, non ci sono. E poi vado a riconoscere il corpo all’obitorio. C’è un proiettile che gli è passato da una parte all’altra della testa. Tutto il resto scompare. Tutti quei particolari del suo corpo spariscono. Il neo vicino all’indice della mano destra, la voglia sotto al mento. Niente. C’è solo quell’immagine indelebile e il freddo gelido della camera mortuaria. Ci ho pensato molto, ma se dicessi di aver avuto dei dubbi sarei falsa. È la soluzione migliore. Per questo sono dentro allo studio televisivo con una pistola nella borsetta. Quello che farò va oltre tutto. Va oltre ai miei valori, a quello in cui ho sempre creduto. E sono tranquilla, come una gradevole sensazione di pace. La pace che in tutti questi mesi non ho avuto. Cosa c’è dopo la morte di un figlio? Cos’altro una madre può desiderare, volere. La mia vita è finita, questa è solo un’agonia. Un’agonia che sta per finire. Mi sono tagliata anche i capelli per non correre il rischio di essere riconosciuta. Lo farò, tirerò fuori la mia pistola e sparerò con quella spietatezza che Gioele non ha avuto. Quella spietatezza che non ha avuto forse immaginandomi davanti alla televisione a guardare quello che stava facendo. Magari l’ultimo pensiero è stato per me, per sua madre e per quello che potevo pensare di lui. Se immagino la tristezza, la delusione che può aver provato, sento come una morsa allo stomaco. Non è lui che condanno. Condanno chiunque sia qua dentro. Sciacalli che da mesi e mesi continuano a parlare di mio figlio speculando, approfittandosene. E ogni volta che lo fanno è come
se continuassero a ucciderlo. Cosa possono sapere di Gioele. Loro sanno di J.T.B., non di Gioele, mio figlio. Mio figlio è nel mio cuore ed è solo lì che deve restare. Sono disposta a tutto purché riposi in pace. Non ho il minimo dubbio. Se qualcuno proverà a fermarmi sarà loro complice e io non avrò la minima esitazione a sparargli. Guardo il conduttore e l’agente. Sono seduti e parlano tra di loro. Le luci dello studio si abbassano. Prendo la borsetta e la apro. Metto la mano dentro e la sento. Li guardo ancora un attimo. Poi mi alzo e la tiro fuori. GIORNALISTA - Lo yogurt ai frutti di bosco non lo mangerò più. AGENTE MUSICALE - Le montagne russe, mi sarebbe piaciuto provarle almeno una volta. GIORNALISTA - Non gliel’ho mai detto a mio padre, ma avrei voluto stare più tempo con lui. Come quando da piccolo mi spingeva sull’altalena e io ridevo dicendogli più forte, più forte. AGENTE MUSICALE - Forse l’amore è l’unica cosa che non ho mai provato. Ma se ne può fare a meno. Non è l’ossigeno. MAMMA DI J.T.B. - Vedo Gioele, ha poco meno di un anno ed è nella vasca per il bagno. Gioca ed è felice. Mi sorride. GIORNALISTA - Ho sofferto per la mancanza di quei momenti. Per tutte le attenzioni che mi ha sempre negato. AGENTE MUSICALE - Non c’è amore che non possa venire sostituito da qualcos’altro. Niente è indispensabile. MAMMA DI J.T.B. - Gli accarezzo la testa. E lui ride. Quando arrivo davanti a loro, sento le lacrime scendermi. GIORNALISTA - Se si fosse interessato a me e non solo alle mie scelte, magari non sarei qui. Una carezza forse mi avrebbe salvato da tutto questo. AGENTE MUSICALE - Per questo non mi pento di niente. Anzi, forse solo di non aver capito prima che dell’amore si può fare a meno. Avrei potuto fare molto di più. MAMMA DI J.T.B. - E loro mi guardano e capiscono chi sono. In quel momento sento la sua voce. «Mamma». GIORNALISTA - Ma ormai è troppo tardi. AGENTE MUSICALE - Troppo tardi. Una serie di spari e urla.
FINE
LORENZO GAROZZO Nasce a Cremona il 14 marzo 1982. Nel 2009 vince il concorso di drammaturgia europea Tragos alla memoria di Ernesto Calindri col testo Un processo naturale (al di là del bene e del male). Nel 2010 è assistente alla regia di Fabrizio Arcuri nella tournée Spara/Trova il tesoro/Ripeti per l’Accademia degli Artefatti. Nello stesso anno consegue la laurea specialistica in “Arti, Spettacolo e Produzione multimediale, indirizzo arti performative” con la tesi Mark Ravenhill attraverso l’Accademia degli Artefatti: lo strano caso di Spara/Trova il tesoro/Ripeti. Nel 2011 è finalista del bando Urgenze promosso da Teatro Inverso e condotto da Stefano Massini. Dal 2012 è docente sia in “UpTeatro - Laboratorio sull’attore” rivolto a ragazzi tra i quindici e i venti anni, sia in “UpScrittura, laboratorio per realizzazione di testi teatrali”, progetti promossi dall’Assessorato alle politiche giovanili di Cremona. Nel 2013 viene selezionato all’interno della rassegna, realizzata e promossa dal CTB (Teatro Stabile di Brescia), “Tesi alla ribalta”, ciclo di incontri/conferenze incentrato sulla presentazione di tesi di giovani laureati. Sempre nel 2013 è vincitore della XXIII edizione del Premio Hystrio Scritture di scena col testo J.T.B. Ad agosto 2013 viene selezionato nel progetto Biennale College – Teatro 2013, promosso dalla biennale di Venezia, per il workshop a cura di Fausto Paravidino, Azione e punto di vista. Amante del cinema e della musica, è fan sfegatato degli Afterhours e del Teatro degli Orrori.
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DRAMMATURGIA
Dentro la scatola nera dell’invenzione teatrale A San Miniato Sgorbani, Guardigli, Cavosi, Scimone, Massini, Guidi e Borrelli raccontano il proprio lavoro nelle sessioni di Geografia della drammaturgia italiana, progetto triennale del Teatrino dei Fondi. di Roberto Canziani
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arà la dolcezza degli archi collinari che la circondano, o il ricordo dei pellegrini che lungo la via Francigena si recavano oltralpe, ma San Miniato, tra Pisa e Firenze, è cara al cuore di chi si occupa di teatro anche per l’attività del Teatrino dei Fondi. Sull’orizzonte delle residenze teatrali toscane, vi convergono l’attività della sala comunale Quaranthana, le giornate del festival Contemporanei Scenari e soprattutto lo sforzo editoriale che in particolare in questi ultimi anni Titivillus sta svolgendo nel campo della drammaturgia (tutto sotto la direzione unitaria di Enrico Falaschi). Sforzo da intendere anche come reazione viva dell’editoria al cessare delle pubblicazioni di Ubulibri, troncate dalla scomparsa, due anni e mezzo fa, di Franco Quadri. Libri dunque. E parola d’autore, in massima parte contemporaneo, con il quale la storia dei fatti teatrali ha stabilito da sempre rapporti alternanti. C’è stato un tempo in cui la pagina scritta ha avuto la meglio, un altro in cui l’esuberanza dei corpi, la grana delle voci, la fisica delle immagini hanno avuto invece più libera via. C’è stato un tempo di visibilità per gli autori teatrali, e un altro in cui piangersi mise-
ramente addosso. Con movimenti d’onda, gli spazi per la “scrittura scenica” si sono avvicendati a spazi di scrittura su carta (e volendo, adesso, su tablet), quelli da un po’ di tempo occupati dal dibattito sui temi del post-drammatico, confine forte ma permeabile tra il teatro di ieri e quello di domani (secondo l’intuizione del 1999 del tedesco Hans-Thies Lehmann), e zona di transiti tra ciò che pertiene al verbale e ciò che è proprio invece del performativo. Con tanti volumi pubblicati, Titivillus e il Teatrino dei Fondi provano a comporre un quadro di riferimento e il progetto Geografia della drammaturgia italiana, tre atti in tre anni (2012-2014), sta già per dare i suoi frutti. Invitati (dagli studiosi Gerardo Guccini e Attilio Scarpellini) a fare del proprio lavoro una narrazione, autori italiani di diversa provenienza hanno partecipato nel 2012 e adesso, autunno 2013, alle sessioni in cui l’origine creativa dei loro lavori diventava oggetto di anatomia, e nello stesso tempo forniva materia per forgiare qualche strumento conoscitivo nuovo. Una mappa, una griglia, magari solo un concetto che apra, come un grimaldello, ciò che fino a ora era la “scatola nera” dell’in-
venzione e spieghi come le storie, i personaggi, le voci si affacciano alla coscienza dell’autore per trasferirsi poi sulla scena. Interrogati e sollecitati a trovare il come e il perché del loro scrivere, sono stati Massimo Sgorbani (che ha appena pubblicato Innamorate dello spavento), Gianni Guardigli (autore del recente Malìa, diretto da Ida Bassignano), Roberto Cavosi (di cui si ricorda volentieri il TeatroGiornale su Radio3), Spiro Scimone (sempre più rappresentato anche all’estero), Stefano Massini (oggetto d’attenzione francese, prima ancora che italiana, per il suo fluviale montaggio I capitoli del crollo sulla vicenda bancaria Lehman Brothers), Chiara Guidi (che si è autoraccontata attraverso una Relazione sulla verità retrograda della voce) e Mimmo Borrelli (la sua ‘A sciaveca è ancora in cerca di un editore). Tra il prevalere monologico di Sgorbani, l’apertura alare degli interessi di Massini e l’intenso, meravigliosamente oscuro, dialetto flegreo di Borrelli ci sono anni-luce di distanza teatrale. Anche se, a ben guardare, non troppo divergenti sono gli esiti di scena a cui i lavori dei tre sono pervenuti. In questo caso, la proposta teorica unificante di Guccini può rendere conto dell’apparente paradosso. È già abbastanza nota la differenza tra “drammaturgie preventive” (che anticipano in maniera autonoma e spesso indipendente i prodotti spettacolari) e “drammaturgie consuntive” (che vengono invece dopo il momento spettacolare e, per così dire, lo fissano nel tempo). Sostiene ora Guccini che la parola dell’autore non è soltanto “preventiva”, e anzi, proprio il narrare che gli autori hanno fatto della propria attività di creazione lascia intuire l’esistenza di una “oralità mentale” (e perciò non parlata, ma piuttosto udita, subita, intuita, approdata alla coscienza di chi scrive dal mondo esterno della comunicazione). Starebbe poi alle singole sensibilità il compito di decantare e di portare a “consuntivo” questo mondo di voci. Ipotesi ben dimostrata se si ascoltano, come è accaduto nel 2012, Ugo Chiti, Antonio Tarantino o Vincenzo Pirrotta raccontare il proprio lavoro d’autore. Ipotesi da verificare ulteriormente negli incontri previsti nel 2014. ★ Malacrescita, di Mimmo Borrelli.
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biblioteca
Palazzo Madama? «Un frigorifero dei sentimenti» Franca Rame In fuga dal Senato Milano, Chiarelettere, 2013, pagg. 310, euro 13,90 Oltre che la straordinaria donna di teatro che abbiamo conosciuto, Franca Rame è stata anche Senatrice della Repubblica. Ventidue mesi. Dalla primavera del 2006, quando viene eletta con mezzo milione di voti di preferenza, al gennaio 2008 quando fa recapitare la lettera di dimissioni all’allora presidente Franco Marini. Franca siede per la prima volta a Palazzo Madama il 28 aprile 2006. Ai giornalisti che le si affollano intorno per raccogliere le sue sensazioni non risponde, come ci si poteva attendere: «sono emozionata». Le esce invece una frase che pare tratta da una di quelle vecchie canzoni popolari lombarde: «Sono felice come una giovane di diciott’anni che va sposa a un vecchio catarroso che non ama…». In fuga dal Senato, il libro che ha scritto poco prima di lasciarci, lo scorso maggio, raccoglie le idee e le discussioni (portate avanti anche in un blog) che hanno animato la sua presenza in Parlamento e testimonia non solo il suo lavoro nelle file dell’Italia dei Valori, ma anche i pensieri, le riflessioni, le prese di posizione, le amarezze di quei 22 mesi spesi in un «frigorifero dei sentimenti», di cui svela oltre che l’atmosfera «impregnata di potere, di scontri e trame di dominio», i retroscena, i machiavellismi, il menefreghismo, lo sporco della politica. «Avevo una mia idea sul Senato, be’, ho dovuto cambiarla: una massa di rozzi pronti a tutto». E ancora: «Qui ognuno pensa ai fatti propri». Ma non mancano, nel desolante quadro che la senatrice fa di quei rappresentanti dei cittadini, la vena di ironia e il grottesco che sono stati valori fondanti, oltre a quelli politici e civili, nella sua storia di artista. In copertina, un’immagine di Dario Fo la ritrae come la grande “comica” che è stata, in bicicletta, mentre si lascia alle spalle Palazzo Madama. Roberto Canziani
Tutti al Poli-Tecnico Paolo Poli Alfabeto Poli a cura di Luca Scarlini, Torino, Einaudi, 2013, pagg. 171, euro 18 Lectio Magistralis del Prof. Poli per tutti i teatranti: per tutti, comunque. Da parte mia, ho passato la notte con Paolo. Tornato dalla Feltrinelli, dove avevo
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a cura di Albarosa Camaldo
presentato un romanzo sperimentale e dove la gentilissima Ilaria mi aveva recapitato l’Alfabeto, già in treno ho cominciato dalla A di Aggettivi e, after dinner, non mi son più potuto fermare fino alla Z di Zeffirelli. A togliermi il sonno e a farmi sognare sono state arguzie folgoranti come questa, alla D di Dio: «Anche se non ci credete, ditegli di sì, che gli fa tanto piacere». Ma gli studenti di spettacolo mandino a memoria voci più lunghe come la T di teatro. Non c’è accademia che tenga! Ciascun imparerà dipoi il ruolo chiave dei Vigili del Foco nel teatrare d’antan. E bravo Scarlini ad aver compilato questo talmudico librino da comodino. Mettetelo sul comodino, dunque, o dove vi pare, ma mettetevelo in testa: se non conoscete Paolo e Franca (Poli&Valeri) vi perdete il meglio della Divina Commedia italiana! Il nostro baldo figlio di carabiniere disinibito e di maestra montessoriana, vi mette in contatto carnale con il corpo vivente della cultura nazionale, da Moravia a Laura Betti, da Parise a Pasolini e internazionale da Satie a Savinio (che tutto era fuorché fratello minore di De Chirico e arcitaliano). Un’ultima citazione: «Chi se ne frega della toscanità, è come la negritudine. Ho visto dei neri bellissimi e altri orrendi. E comunque si può nascere dovunque: Nureyev è nato in treno!». Questa la dedico personalmente a Renzi, soi disant “il Fico”. Fabrizio Sebastian Caleffi
A me gli occhi, Proietti allo specchio Gigi Proietti Tutto sommato, qualcosa mi ricordo Milano, Rizzoli, 2013, pagg. 243, euro 19,50 Scrivere è difficile (per tutti, tranne che per Hemingway: per lui, è stata solo una fatica immortale). Descrivere la propria vita, magnificamente impossibile. Affidare al proprio doppio biografico l’artificiosa verità dell’enigma d’ogni esistenza risulta compito assai arduo. Gigi Proietti, il nuovo Fregoli balzato letteralmente alla ribalta con A me gli occhi, please, travolgente gigionata confezionata su misura da Lerici Pére (il cui figlio dirige una sala romana e co-dirige un teatro off milanese), fa da sé e, tutto sommato, non fa né per due né per tre. Celebre caramba televisivo, il Proietti scivola spesso in questa spessa e non sempre spassosa relazione autoreferenziale nel verbale da Benemerita, castigando la chiacchierata tipica da cena dopo lo spettacolo di un primattore benemerito in una redingote semiletteraria, la cui verve evapora lost in trascription. Ci si aspettava molto, forse
troppo, sicuramente di più dall’aneddotica di Gigi lo Scatenato. Tutto sommato, meglio leggerlo comunque questo autoritratto, anche se il profilo migliore del Proietti mattatore si ritrova in cer ti cameos guest starring in cinepanettoni e cinesedie a sdraio. Tanto Tufello per nulla? Ma no, dai: dal capitolo Champagne e idrolitina in avanti la lettura comincia a spumeggiare. L’amore ai tempi dell’avanguardia risulta un po’ troppo casto. Insomma, con l’aiuto di un paio di caffè di quelli promossi dai commercial di Gigi si arriva svegli a pag. 243. Fabrizio Sebastian Caleffi
Un Elfo quarantenne tra poetica e imprenditoria Alberto Bentoglio, Alessia Rondelli, Silvia Tisano Il Teatro dell’Elfo (1973-2013). Quarant’anni di teatro d’arte contemporanea Milano, Mimesis Editore, 2013, pagg. 188, euro 19 Potrebbe apparire limitante. E in parte è così. Ma a ripercorrere gli ultimi quarant’anni dell’Elfo, un aspetto emerge prepotente ancor prima degli (indiscussi) meriti artistici: l’attitudine imprenditoriale. Concetto ancora adesso troppo spesso osservato con diffidenza, come se l’organizzazione, il vil denaro, la consapevolezza di essere azienda teatrale, inquinassero una sorta di purezza creativa. Ma se c’è una lezione da imparare da Bruni, De Capitani e Fiorenzo Grassi è questa. E se si pensa come il tutto nacque ai margini dei margini, con i due giovanissimi attori/registi in compagnia di Salvatores a muoversi nomadi fra scantinati e centri sociali, si comprende meglio la capacità di evoluzione (maturazione) del gruppo. Insomma, un multisala come l’Elfo Puccini – ora in gestione per vent’anni – non capita per caso. Storia affascinante quella descritta da Alberto Bentoglio, Alessia Rondelli e Silvia Tisano, aperta da una breve ma simbolica prefazione del sindaco Giuliano Pisapia, che la dice lunga sull’importanza dell’Elfo per la città di Milano (e viceversa). Il saggio introduttivo di Bentoglio racconta gli aspetti strettamente storici dell’avventura: la prima “casa” al Menotti nel 1979, la nascita di Teatridithalia attraverso la fondamentale fusione con il Teatro di Porta Romana, la concessione del Puccini grazie a un lungo lavoro diplomatico iniziato più di un decennio prima, la trasfor-
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mazione in impresa sociale. Ovvero, impresa privata con finalità pubbliche. Nel mezzo, i grandi classici degli Elfi, i collaboratori e i soci, i festival, i premi e i numeri. Seguono il saggio della Rondelli sulle scelte drammaturgiche e quello di Silvia Tisano sul lavoro attoriale, dai quali emergono spirito e poetica dell’Elfo: l’attenzione al pubblico; una certa attitudine fra militanza e ribellismo; l’amore per la drammaturgia anglo-americana, i classici, Fassbinder; il repertorio; il muoversi fra esperienza e ricambio generazionale; il cinema. Nel complesso ne esce un ritratto di parte ma fedele, di piacevole lettura. E arricchito da foto e schede degli spettacoli, senz’altro utili in ambito accademico. Diego Vincenti
Il teatro-carcere, una rivoluzione made in Punzo Armando Punzo È ai vinti che va il suo amore. I primi venticinque anni di auto reclusione con la Compagnia della Fortezza di Volterra Firenze, Edizioni Clichy, 2013, pagg. 338, euro 25 Mappe ristrette. Due anni di teatro carcere in Emilia Romagna a cura di Cristina Valenti, Collana Quaderni di teatro carcere, Coraz zano (Pi), Titivillus, 2013, pagg. 74, euro 10 Creare il primo Teatro Stabile al mondo in un carcere. Questo il sogno di Armando Punzo con la sua Compagnia della Fortezza. Un sogno rivelatore, che la dice lunga su quel percorso ormai lungo venticinque anni, vissuto sempre in bilico fra lucidità e follia, voli pindarici e realtà. Così d’altronde si costruiscono le storie più belle. Le piccole/grandi rivoluzioni. Ed è Punzo in prima persona a raccontare nel bel volume delle Edizioni Clichy, muovendosi attraverso i ricordi e alcuni saggi brevi. Preziosa l’introduzione firmata da Massimo Marino, che senza retorica descrive un’esperienza unica nel panorama teatrale, nata (e cresciuta) intorno alle urgenze di un sognatore, arrivato in Toscana dalla provincia napoletana per autorecludersi in un carcere. E da lì non muoversi più. Colpiscono i racconti del lavoro artistico, del Punzo regista che non assegna parti, ma attraverso il confronto e l’improvvisazione
rivoluziona testi, nobilita brandelli di vita. E le parole diventano altro, si allargano, si ramificano, il testo a ingrassare inseguendo citazioni, ispirazioni, infinite parentesi. La richiesta sempre una e una sola: andare oltre l’apparenza, oltre il limite segnato da occhi, paure, preconcetti. Mentre le difficoltà burocratiche (si pensi solo alla complessità di organizzare una tournée) vengono quotidianamente scavalcate da una passione che pare autoalimentarsi. Splendido l’apparato fotografico, ad illustrare pensieri e parole dei trenta spettacoli della Fortezza. Ma non a caso il volume si apre con i primi piani dei tanti detenuti/attori che hanno dato vita alla compagnia, motore di un’esperienza trasformatasi in grande teatro. Teatro e basta. Sulla categoria di Teatro Carcere (anche per finalità diverse) si concentra invece l’agile pubblicazione della Titivillus, primo quaderno di una collana annuale ideata e promossa dal Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna. Interviste, saggi e approfondimenti su una realtà geograficamente circoscritta ma che si apre a una riflessione più estesa, ben oltre i confini regionali. Diego Vincenti
Quando scrivere significa stare in ascolto Laura Forti Teatro. Nema problema, Odore di santità, Blu, La badante Spoleto (Pg), Editoria&Spettacolo, 2013, pagg. 256, euro 18 Tre monologhi e un dramma, scritti da Laura Forti tra il 2006 e il 2008, tutti andati in scena tra il 2008 e il 2011. Quattro testi molto diversi, accomunati dall’urgenza delle storie che raccontano e dalla natura dei personaggi. Laura Forti, autrice ben conosciuta e rappresentata all’estero, forse un po’ meno in patria, indaga fra le pieghe della storia, alla ricerca di personaggi contemporanei nella loro inadeguatezza, nel loro essere antieroi antidrammatici e racconta, attraverso essi, i malfunzionamenti della società. In Nema problema il protagonista è un ventenne che parte per “vedere coi propri occhi” la guerra Serbo-Croata del 1992, nella quale si trova coinvolto suo malgrado e dalla quale, manco a dirlo, tornerà segnato in modo indelebile. Una storia vera, che le parole dell’autrice tentano di rendere esemplare, per certi aspetti. In Odore di santità, un “prete per caso”, è travolto da una mala educacion oppressiva e repressiva, dove il corpo è spazzatura e lo spirito imprigionato in una fede falsa e deteriore. In Blu una ragazzina siciliana è prigioniera di una società violenta e maschilista. Tre “vittime” di una società tendenzialmente violenta, dove l’individuo è
spesso lasciato solo e soccombe, quando perde il contatto con la propria e l’altrui umanità. Gente ordinaria, che abita le zone periferiche della vita, non sempre sconfitti ma di sicuro marginali, spesso alla ricerca di se stessi e di una verità alla quale spesso non sono preparati. E se per Nema problema, la ricerca passa attraverso l’inaudita esperienza della guerra, per Blu la protagonista si darà un’opportunità fuggendo, mentre in Odore di santità la sconfitta sarà una disfatta personale e, forse, di un intero sistema. E in La Badante, al centro della scena sono tre donne, tre generazioni, tre classi sociali diverse, alle prese con tre modi radicalmente diversi di vivere la maternità, esperienza fra le più sconquassanti dell’esistenza. Completano il libro, oltre alla prefazione della stessa autrice, una teatrografia e una selezione essenziale della rassegna stampa. Ilaria Angelone
Fra le donne di Adolf Massimo Sgorbani Innamorate dello spavento. Blondi. Eva. Magda e lo spavento Corazzano, Titivillus 2013, pagg. 145, euro 13 Adolf e le sue femmine. O, se si vuole, le sue cagne, come intitola Roberto Canziani la prefazione a questo volumetto che raccoglie i tre testi del progetto “Innamorate dello spavento” di Sgorbani. Quasi tre tempi di un’unica pièce, tre malsani punti di vista (in) diret tamente a raccontare dell’ultimo periodo hitleriano. Fra individui e Storia. In un arco geo-temporale che muove dal rifugio alpino di Berghof nel 1942 a Rastenburg nel 1944, fino al bunker berlinese, gli Alleati già nelle strade della capitale. Con le drammaturgie a svilupparsi nelle parole del pastore tedesco femmina Blondi, flusso di coscienza animale prima d’esser cavia per il cianuro; in quelle di Eva Braun, donnina provinciale in fissa con Via col vento; nel dialogo fra il führer e la devota Magda Goebbels, forse il testo più affascinante e strutturato, grasso di riferimenti pop-filosofici (bellissima la conversazione iniziale). Un volume per avvicinare una delle scritture più crude e meno conformiste della sua generazione. In un progetto che ne testimonia l’eclettismo. E l’ampio bacino di ispirazioni. Diego Vincenti
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biblioteca SCAFFALE Sarah Zappulla Muscarà Enzo Zappulla I PIRANDELLO. LA FAMIGLIA E L’EPOCA PER IMMAGINI Catania, La Cantinella, 2013, pagg. 232, euro 45 Nell’album fotografico, con 630 illustrazioni, appaiono i componenti della difficile e tormentata famiglia Pirandello, per sonag gi t ra i più autorevoli del Novecento, le cui vicende s’intrecciano con quelle di un’epoca significativa. Un affresco costruito dai documenti che ci restituiscono il colore del tempo così da svelare aspetti e significati sempre nuovi sulla vita già studiata di Pirandello. Le bellissime foto non sono solo una memoria della sua vita, ma fanno rivivere eventi, personaggi, percorsi, indizi, mettendoci in contatto con volti, sentimenti, relazioni, pose, abiti, mobili, oggetti, luoghi, atmosfere, date. Tutti materiali dal forte valore di testimonianza diretta.
Maria Fedi L’ARCHIVIO ANDRES NEUMANN. MEMORIE DELLO SPETTACOLO CONTEMPORANEO. Corazzano (Pi), Titivillus, 2013, pagg. 240, euro 16 I “Materiali per la storia del teatro contemporaneo”, ora disponibili presso il Centro Il Funaro di Pistoia, costituiscono l’Archivio raccolto dal produt tore Andres Neumann dal 1971 al 2000. Maria Fedi guida alla valutazione dei preziosi documenti che precedono l’elaborazione estetica e la rappresentazione dello spettacolo. Esempi di reperti “materiali” per la storiografia critica del teatro del secondo ‘900. Emergono e si precisano così le vicende del Festival mondial du Théâtre di Nancy, le stagioni del Teatro Rondò di Bacco (Firenze), il laboratorio fiorentino di Tadeusz Kantor, il progetto per la rappresentazione italiana di Mahabharata di Peter Brook a Roma e a Prato (1985). Seguono la tournée italiana di Pina Bausch, con Palermo Palermo, in particolare (1990), quella di Vittorio
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Gassman (in America Latina e Europa) e di Dario Fo in USA nel 1986. Cospicuo album fotografico e numerose schede, chiavi d’accesso informatizzato al Fondo.
Carlo Fontana A TEATRO NEGLI ANNI SETTANTA. SCRITTI PER L’«AVANTI!» (1969-1976) a cura di Alberto Bentoglio Milano, Mimesis Editore, 2013, pagg. 192, euro 16 Nella Milano degli anni Settanta il poco più che ventenne Carlo Fontana diviene, su segnalazione di Paolo Grassi, titolare della rubrica di critica teatrale dello storico quotidiano socialista Avanti!. Allora Fontana era studente universitario e collaborava con il Piccolo Teatro, ma si dedica alla critica con energia e serietà. Non si limita alla “cronaca” degli spettacoli ai quali ha assistito, ma, da operatore culturale, rende le sue pagine l’occasione per discutere di cultura, società e politica. La pubblicazione degli scritti curata con passione da Alberto Bentoglio, offre ai lettori di oggi un quadro completo del panorama teatrale dell’epoca.
Aniello Arena con Maria Cristina Olati L’ARIA È OTTIMA (QUANDO RIESCE A PASSARE). IO, ATTORE, FINE-PENA-MAI Milano, Riz zoli, 2013, pagg. 220, euro 16 La biografia di Aniello Arena, camorrista con moglie e due figli, che viene condannato giovanissimo all’ergastolo ma, entrato nel carcere di Volterra inizia la seconda parte della sua vita, quella decisiva per la sua trasformazione personale, diventando, grazie agli insegnamenti di Armando Punzo, con la Compagnia della Fortezza, un attore tra i più apprezzati. Sbarcato al cinema grazie a Matteo Garrone, diviene il pluripremiato attore del film Reality. La sua vita straordinaria indirizzata ora verso il riscatto è una lettura avvincente nel racconto fatto insieme a Maria Cristina Olati in cui si descrive anche la quotidianità della vita in carcere.
Vincenzo Albano …E POI SONO MORTO. LA DRAMMATURGIA NON POSTUMA DI FRANCESCO SILVESTRI Napoli, Libreria Dante & Descartes, 2013, pagg. 188, euro 12 Vincenzo Albano colma con questo libro un vuoto “critico” su Francesco Silvestri, uno dei drammaturghi più interessanti degli ultimi vent’anni, autore di piece come Saro e la rosa e Fratellini, e che nel 2001, dopo aver ricevuto premi e riconoscimenti (Idi, Riccione, Hystrio, Fondi La Pastora) smette di scrivere. Il volume ricostruisce la sua vicenda di autore-attore napoletano, concentrandosi sulla sua poetica, sulla sua lingua non sempre facile e ricca di suggestioni colte e pop, sui suoi temi forti (il fantastico come chiave di lettura del reale), sul suo ultimo testo Piume, inedito fino a questo momento. Non con pretesa di completezza, quanto piuttosto con volontà di stimolo al proseguire del lavoro critico e della fortuna scenica di Silvestri. Completano il volume due scritti di Paolo Petroni e Antonia Lezza e un dettagliato apparato informativo con teatrografia e bibliografia critica.
Loretta Goggi IO NASCERÓ Milano, Piemme, 2013, pagg. 210, euro 16 «Dopo aver attraversato amore e dolore, sono in uno stato d’animo in cui mi sta a cuore raccontare quello che ho capito fin qui. Non sarà granché, ma c’è voluta una vita per arrivarci. Imparare a vivere intensamente la normalità credo sia una conquista, un punto d’arrivo. Perché è nella normalità, nella semplicità, che ho trovato la bellezza». Loretta Goggi intreccia la sua vita personale a tante riflessioni sull’oggi e sul futuro, sul valore della sconfitta e sulla necessità di essere tenaci, oggi più di ieri.
Alberto Oliva L’ODORE DEL LEGNO E LA FATICA DEI PASSI. RESTO IN ITALIA E FACCIO TEATRO Brescia, ATì Editore, 2013, pagg. 250, euro 18
Con sguardo ironico il regista ventottenne Oliva racconta il suo percorso artistico ripercorrendo fortune e sventure, compagni di viaggio, buoni consiglieri, cattivi maestri. Un percorso di formazione ambientato in aule universitarie, corridoi dei teatri, sale prova, studi medici e perfino la sala d’aspetto di Vittorio Sgarbi, protagonista involontario di uno degli episodi più divertenti del libro. Fra aneddoti, incontri, esperienze e letture, si sviluppa una riflessione sull’Italia, sulle opportunità che offre – e che non offre – ai giovani, le risorse che possiede e le occasioni che si possono trovare con tenacia e un pizzico di intuito. Un’analisi appassionata e crudele sul presente di chi vorrebbe fare ar te in Italia. L’introduzione è di Giorgio Galli.
Franco Perrelli BRICKS TO BUILD A TEATERLABORATORIUM. ODIN TEATRET AND CHR. LUDVIGSEN Bari, Edizioni di Pagina, 2013, pagg. 116, euro 12 Nell’edizione in inglese del volume, Perrelli evidenzia il lavoro all’Odin di un collaboratore storico, Christian Ludvigsen che ha imposto una visione culturale d’avanguardia, al di là degli spettacoli, anche sul piano legislativo. Da questo punto di vista, il rapporto f r a l ’O din Te a t r e t e Chr is tian Ludvigsen appare cruciale nella storia del gruppo di Eugenio Barba per ricostruire meglio la nozione di sperimentazione scenica e quella di teatro laboratorio.
TEATRO E PARATEATRO COME PRATICHE EDUCATIVE. VERSO UNA PEDAGOGIA DELLE ARTI. ATTI DELLA CONFERENZA INTERNAZIONALE a cura di Maria D’Ambrosio Napoli, Liguori, 2013, pagg. 176, euro 16,99 Il testo raccoglie gli Atti della Conferenza Internazionale Teatro Parateatro Arti e Cultura Attiva, Tra ricerca della conoscenza e pratiche pedagogiche promossa e organizzata dall’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli nell’ottobre del 2011,
BIBLIOTECA Pina Bausch in un’immagine tratta da L’archivio Andres Newman, Titivillus.
in occasione del decimo anno di attività teatrale e parateatrale condotta da Ewa Benesz con gli studenti del Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione. Collegare i diversi piani della ricerca artistica e teatrale con la riflessione e la pratica pedagogica è stato l’obiettivo della conferenza ed è quindi il fulcro attorno al quale ruotano i diversi contributi.
Giuseppina Benassati Roberta Cristofori IL TEATRO PER IMMAGINI. LE STAGIONI TEATRALI NELL’ARCHIVIO FOTOGRAFICO DEL TEATRO COMUNALE DI FERRARA (1964-2012) Bologna, Editore Compositori, 2013, pagg. 392, euro 40 Il racconto degli ultimi cinquant’anni di teatro italiano attraverso le fotografie degli spettacoli e dei loro interpreti, commissionate dal teatro Comunale di Ferrara. Fotografie che sono al contempo opere e documenti di storia del teatro e di storia della fotografia teatrale in un arco temporale e stilistico che va dalle fotografie di Luigi Ciminaghi per gli spettacoli di Strehler a quelle di Marco Caselli Nirmal per le produzioni del Teatro dirette da Claudio Abbado e per tutti gli spettacoli e gli eventi teatrali succedutisi dagli anni Ottanta a oggi. Un singolare momento di riflessione sul tema della memoria del teatro e dei molteplici supporti che ne consentono la trasmissione. Francesca Manno AT T O R E E M IM O D I O N I S I A C O. NIETZSCHE, WAGNER E IL TEATRO D’AVANGUARDIA FRANCESE Pisa, Ets, 2013, pagg. 346, euro 30 Il tema dell’attore in Nietzsche è stato finora poco affrontato dagli studi. A partire da frammenti, lettere e altri scritti di Nietzsche e dai suoi controversi rapporti con Richard Wagner, fra loro intrecciati e messi a confronto, il testo mostra come le teorie del filosofo e del musicista abbiano avuto un ruolo importante e spesso inaspettato nelle avanguardie teatrali francesi del Novecento, in figure centrali ed emblematiche quali Copeau, Baty e Artaud.
Freddie Rokem FILOSOFI E UOMINI DI SCENA. PENSARE LA PERFORMANCE Milano, Mimesis Editore, 2013, pagg. 257, euro 20 I rapporti tra filosofia e teatro sono un campo d’analisi sempre più frequentato a livello internazionale. Freddie Rokem affronta in modo inedito «l’antica disputa tra filosofia e poesia». L’autore analizza il fitto carteggio che occupò Nie t zsche e Strindberg, e dedica un capitolo a riflettere sulla tragedia di Amleto, personaggio la cui rovina consisterebbe nell’incapacità a militare decisamente in un campo o nell’altro, nella filosofia o nel teatro.
AA.VV. MITI ANTICHI E MODERNI. STUDI IN ONORE DI EDO BELLINGERI Roma, Universitalia, 2013, pagg. 496, euro 35 Da Oreste alla Gorgone Medusa, da Stanislavskij a Grace Ellison, passando dalla storia dell’arte medievale e moderna alla musica, dalla storia del cinema all’archeologia, dalla lingua e letteratura inglese, russa e tedesca alla letteratura teatrale italiana, dalla filosofia all’etnomusicologia alla storia del teatro, alla numismatica, alla museologia: la presente miscellanea, nata come libro di studi in onore di Edo Bellingeri, ruota intorno al tema del mito antico e moderno investigato dai diversi autori secondo il proprio ambito disciplinare. Centrale il mito moderno di Don Giovanni, personaggio particolarmente amato e studiato da Bellingeri, illustrato per questo motivo da molti degli autori.
Charles Bukowski CE L’HANNO TUTTI CON ME Milano, Guanda, 2013, pagg. 175, euro 14 Una raccolta inedita del cantore dell’altra America, quella dei disperati e degli emarginati, degli “ultimi”, operai senza volto distrutti dalla fatica, artisti falliti che non hanno mai conosciuto gloria, prostitute e alcolizzati. E vecchi, abbandonati sulle panchine dei parchi, storia ormai passata men-
tre i giovani sono pieni di energia e speranze. Proprio le cose che il vecchio e stanco poeta sente scivolare tra le dita: le ragazze, le feste, le macchine, le scommesse incominciano a diventare ricordi da affogare in una sbronza.
Jean-Paul Sartre LE MOSCHE - PORTA CHIUSA Milano, Bompiani, 2013, pagg. 483, euro 11 Le mosche e Porta chiusa sono tra i testi più significativi del teatro esistenzialista, che affrontano alcuni dei temi più cari a Sartre: la libertà, il valore delle scelte, il rapporto con gli altri e il senso dell’esistenza. Le mosche (1943), rifacimento delle Coefore di Eschilo, ha per protagonista Oreste, il matricida che prende su di sé il rimorso dell’intera città di Argo per l’assassinio di Agamennone. Porta chiusa (1944) è quasi un manifesto dell’impossibilità del rapporto interpersonale. La porta attraverso la quale vengono introdotti i tre ospiti-prigionieri in realtà non è affatto chiusa, ma la vera prigionia è stabilita dall’impossibilità di comunicare, nonostante la necessità vitale della convivenza. Nell’edizione è presente il testo francese a fronte.
QUADERNI DEL TEATRO DI ROMA Roma, ottobre, dicembre, n. 16-17, 2013 Nel numero di ottobre da non perdere il dialogo tra Katia Ippaso e Antonio Latella: per o contro Dio, il problema del male, della sua effettività, non trova risposta, sfida la rappresentazione. Inoltre i testi di due scrittori (Christian Raimo e Lorenzo Pavolini), il ricordo di Ugo Riccarelli, e una intervista a Lavia sul suo nuovo spettacolo I pilastri della società. Nel numero di novembre lo speciale Il corpo degli altri dedicato a anziani, bambini, diversamente abili, detenuti e non attori con interventi di Sergio Lo Gatto, Gianni Manzella, Graziano Graziani, e una intervista a Maurizio Lupinelli, per cercare alcune risposte o proporre altre domande, tenendo contro della riflessione di Jakob Lenz: «Bisogna amare l’umanità per penetrare nell’essenza caratteristica di ciascuno, nessuno ci deve apparire troppo meschino, nessuno troppo brutto, perché solo così potremo comprenderli. Il viso più insignificante desta un’impressione più profonda che non la pura sensazione del Bello…». Tra gli altri interventi quelli dedicati alla drammaturgia di Enzo Moscato (Ippaso), alla Rai che dedica in tv un canale tematico al teatro (Del Fra), un pezzo dedicato alla coreografia contemporanea di Torinodanza (Surianello).
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la società teatrale
a cura di Roberto Rizzente
Good Morning Fus! Le novità del 2014 di Roberto Rizzente
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l dado è tratto. La riforma del sistema di erogazione del Fondo Unico per lo Spettacolo, fermo, nei suoi parametri fondamentali, al 2007, sembra essere diventato realtà. Sono stati presentati il 4 e 5 dicembre i nuovi Decreti Ministeriali che fissano i criteri per l’assegnazione del Fus. Se ne erano avute delle avvisaglie a settembre, allorché il Senato aveva approvato il decreto Valore Cultura, proposto in agosto dal neoministro Bray. Molto criticato, specie per le mancate autonomie gestionali concesse al Piccolo e alla Scala, ma con in nuce alcune importanti novità, prime fra tutte il fondo di garanzia per gli enti lirici e una spending review meno penalizzante a carico degli Stabili e di altri soggetti. Passano i mesi. Il Ministro dichiara, a più riprese, la volontà di discutere il Decreto, anche attraverso appositi emendamenti. Fino al 19 ottobre, giorno dell’incontro con gli addetti ai lavori, alla Fondazione Cariplo di Milano nell'ambito di un'edizione straordinaria delle Buone Pratiche del Teatro, curata come di consueto da Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino. Artisti e operatori, tuttavia, non ricambiano il favore, disertando l’appuntamento. In quell’occasione, il Direttore Nastasi lascia intendere che qualcosa bolle in pentola, e che è lecito attendersi sorprese. Il settore è in fibrillazione. L’incontro di Scandicci, organizzato da C.Re.S.Co. e previsto per il 22 novembre, si risolve con un nulla di fatto, a causa di una
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convocazione straordinaria del Consiglio dei Ministri. Eppure, il seme è stato gettato. Con la fine del nuovo anno, ecco che Salvatore Nastasi cala l’asso, presentando i tanto attesi Decreti. E i colpi di scena non mancano. Vediamo quali. La prima novità è terminologica. Scompaiono le vecchie diciture, la riforma articola il Fus in due macrocategorie: Produzione (Teatri nazionali, Teatri d’interesse pubblico, Imprese di produzione teatrale e Imprese di produzione teatrale “under 30”) e Programmazione (Circuiti regionali, Organismi privati di ospitalità, Festival e Teatro di strada). A queste si affiancano le Azioni Trasversali, ovvero i progetti di promozione per il ricambio generazionale e l’inclusione sociale; le residenze, inquadrate entro una programmazione concertata degli interventi tra Stato, Regioni ed Enti Territoriali; le azioni per il raggiungimento degli scopi prefissi dal vecchio Eti; e le attività all’estero. La seconda novità riguarda l’articolazione e il funzionamento delle Commissioni. Bypassando le polemiche intorno al clientelismo delle nomine, saranno composte di 5 membri, di cui 2 scelti dalla Conferenza Unificata e 3 dal Ministro secondo requisiti oggettivi, primo fra tutti la call pubblica. Rimarranno in carica per 3 anni, ad eccezione del primo ciclo di nomine, attestato sui 4 anni, e saranno guidati dai Dirigenti dei rispettivi servizi, con funzioni
di assistenza tecnico-metodologica. Già dal 2014 saranno chiamati a valutare le istanze pervenute per il 2014, dal 2015 secondo i nuovi metodi di calcolo. La terza novità riguarda la triennalità dei finanziamenti, da sempre richiesta a gran voce, con possibilità di revisione in corso d’opera. Gli stessi termini per la presentazione delle domande saranno anticipati, dal 31 gennaio dell’anno per il quale si richiede il contributo al 30 novembre dell’anno antecedente a quello di avvio del triennio di finanziamento. La quarta novità riguarda i requisiti minimi di accesso al Fus, proporzionati alla nuova articolazione in settori e meno legati alla storicità. Per fare un esempio, i Teatri Nazionali e i Teatri d’Interesse Pubblico saranno vincolati alle 8.000 e 5.000 giornate lavorative, le 220 e 150 giornate recitative, la stabilità del nucleo artistico e dell’organico amministrativo e tecnico, la produzione di 2 o 1 opera all’anno di autori viventi, l’allestimento o l’ospitalità di 3 o 2 titoli di ricerca, l’istituzione, per i Teatri Nazionali, di una scuola di formazione e perfezionamento professionale, oltre alla revisione dello statuto, più sensibile al rinnovamento delle cariche e subordinata all’approvazione della Direzione Generale dello Spettacolo dal Vivo. La quinta e ultima novità riguarda il metodo di calcolo per l’erogazione del contributo. Da sempre oggetto di polemiche per la mancata trasparenza e la rigidità delle norme, terrà conto della quantità dei progetti (il numero delle giornate lavorative, degli oneri sociali, i titoli, le giornate recitative, gli spettacoli, le piazze, gli spettatori e gli incassi); la qualità (il numero delle coproduzioni, la capacità di reperire risorse non pubbliche, la variazione percentuale del numero di spettatori, l’impiego dei giovani artisti under 30, ecc…); e la valutazione di una Commissione, a seconda della proposta artistica, i percorsi attivati per la formazione del pubblico, la valorizzazione dei giovani, le ricadute sul territorio, l’internazionalizzazione dei progetti, la solidità gestionale e la riconoscibilità del soggetto proponente, le strategie di promozione e la partecipazione a reti artistiche e operative. Non si erano mai viste tante novità, tutte in una volta. Specie considerando che l’applicazione dei nuovi criteri per l’erogazione sarà in funzione del triennio 2015-2017. Lo stordimento rischia di ottenebrare i sensi. Per mettere i piedi per terra diciamo, allora, che il Fus 2014 ammonterà a 410 milioni di euro, circa il 5% in più rispetto al 2013. Poco, rispetto alle medie europee, per ridare fiato e progettualità al settore. Rimane, tuttavia, la soddisfazione per la volontà, effettiva, di cambiamento dimostrata dallo Stato. Magari poco sincera ed esposta al raggiro, ma presente. E se il buongiorno si vede dal mattino, ci sarà, quindi, da fregarsi le mani, in questo 2014. ★
LA SOCIETÀ TEATRALE
In memoria di Ernesto Calindri Si è tenuta a novembre presso il Chiostro Nina Vinchi, al Piccolo Teatro Grassi, la premiazione dell’undicesima edizione di Tragos, Concorso Europeo di Drammaturgia, in memoria di Ernesto Calindri. Indetto da Pro(getto)scena, il Premio è stato assegnato per la sezione drammaturgia a Il gioco di Davis Tagliaferro; e per la sezione scuole a Quintet viaggiatori nella tempesta del Polo Tre-Fano. Segnalati anche Sara Beinat per Fotocopie, Giacomo Quinti per Mein Kampf Reportage, Daniele Trovato per Il consiglio ristretto, Mario Alessandro Paolelli per Kamchatka (… e io mi difendo con tre) e il laboratorio teatrale del Liceo Majorana e il Ctp di Desio per Immersi naufraghi emersi approdi. È andato a Franca Nuti il riconoscimento speciale. Info: http://tragos.it
Nuove case per i Colla Novità in vista per la Compagnia Marionettistica Carlo Colla & Figli. In occasione della presentazione della stagione 2013/2014, il Comune di Milano ha garantito alla Compagnia uno spazio nell’ex Ansaldo di via Tortona per i loro uffici, magazzini, laboratori e per il Museo della Marionetta. Per quanto riguarda invece gli spettacoli, la Compagnia continuerà ad appoggiarsi al Piccolo e probabilmente, altra novità, al Teatro Gerolamo, sede storica della Compagnia dal 1906 al 1957, prossimo alla riapertura dopo i restauri, e a un piccolo auditorium sempre nell’ex Ansaldo. Info: www.marionettecolla.org
Una mostra per Beckett Ultimi giorni per visitare “Prigionie (in)visibili, il teatro di Samuel Beckett e il mondo contemporaneo”, ospitata fino al 26 gennaio dalla Casa dei Teatri di Roma, in collaborazione con l’Assessorato, le Biblioteche, il Teatro di Roma e Zètema Progetto Cultura. A sessant’anni dalla prima mondiale di Aspettando Godot, la mostra, curata da Yosuke Taki, ripercorre le messe in scena che hanno fatto la fortuna del teatro beckettiano, dalle versioni carcerarie alla televisione, fino ai recenti lavori di Cauteruccio, Susan Sontag e in Giappone, fuori dall’area di evacuazione della centrale nucleare di Fukushima. Info: www.casadeiteatri.culturaroma.it
Torna il Premio Teatro Nudo 3 in 1 del palestinese Yes Theatre e Lamerica dell’argentina Compagnia Proa Su sono i vincitori del Premio Internazionale Il Teatro Nudo di Teresa Pomodoro, dedicato al teatro sociale. Terzo classificato, Due
passi sono di Carullo-Minasi. Promosso dall’Associazione No’hma e dal Comune di Milano, con il patrocinio del Ministero degli Esteri, il Premio, insignito di una targa del Presidente della Repubblica, è giunto quest’anno alla quinta edizione. Di rilievo la giuria, presieduta da Livia Pomodoro e composta da Eugenio Barba, Lev Dodin, Frédéric Flammand, Jonathan Mills, Lluís Pasqual e Luca Ronconi. Info: www.nohma.it
Cutaia alla direzione del Teatro di Roma Cambio di rotta per il Teatro di Roma. Dopo le voci circolate a proposito di Gassmann e di un bando pubblico, il Comune di Roma, la Regione e il Mibac sembra vogliano affidare (la notizia è quasi certa mentre andiamo in stampa) le redini dello Stabile a due tecnici: Gianni Borgna, già assessore alla cultura del Campidoglio, come presidente e Ninni Cutaia, ex direttore dell’Eti, come direttore. Numerosi i problemi che i nuovi vertici si troveranno ad affrontare, a partire dal bilancio, vittima dei consistenti tagli al finanziamento pubblico, per proseguire con le carenze dei progetti formativi e di sperimentazione, anche a causa dei lavori in corso al Teatro India, tradizionalmente deputato alla danza e alla ricerca. Info: www.teatrodiroma.net
Fo censurato dal Vaticano? Sembra una tempesta in un bicchier d’acqua, quella scoppiata a novembre sullo spettacolo In fuga dal Senato. Fo afferma che dall’Auditorium Conciliazione (proprietà del Vaticano, ma gestito da un privato), gli hanno detto di no e grida alla censura. Dalla Santa Sede affermano di non sapere nulla della cosa, né di aver mai espresso un parere in merito al testo che «svela i meccanismi della politica italiana» e sarebbe per questo fastidioso anche per la curia. Il Teatro Sistina, comunque, si è già aggiudicato la data romana (20 gennaio), che - c’è da scommetterci - sarà sold out. Info: www.dariofo.it
altre, Napoli (27/1), Catania (29/1), Padova (1/2), Modena (15/2), Trento (10/3), Bergamo (19/3), Bologna (28/3), Milano (31/3), Mantova (11/4) e Roma (dal 15/4), in occasione della santificazione. Info: www.karolwojtylaoperamusical.com.
Alla Montanari il Duse La Giuria della ventottesima edizione del Premio Teatrale “Eleonora Duse”, presieduta da Anna Bandettini e composta da Magda Poli, Maria Grazia Gregori, Renato Palazzi e Carlo Maria Pensa, ha attribuito il prestigioso riconoscimento a Ermanna Montanari (foto sotto). La co-fondatrice del Teatro delle Albe, già vincitrice nel 2000 degli Ubu, entra così nella storia al fianco di protagoniste indiscusse come Mariangela Melato, Franca Valeri, Laura Marinoni e Maria Paiato. In occasione della cerimonia di consegna del Premio, tenutasi lo scorso ottobre al Piccolo di Milano, la Montanari ha nominato, come da tradizione, un’attrice emergente, entro una terna di finaliste: vincitrice, per il 2013, è stata Lucrezia Guidone.
Una rete per le periferie TTT - Tre Teatri di Territorio - è un nuovo progetto che ha preso avvio lo scorso settembre dalla collaborazione tra il Teatro della Cooperativa, il Teatro Officina, Atir Teatro Ringhiera e il Comune di Milano per la condivisione e la messa in rete di progetti, risorse umane e spazi di lavoro. Trait d’union tra le compagnie coinvolte, oltre alla sperimentazione, è la divulgazione della cultura a livello sociale nelle zo-
Karol Wojtyla, il musical Karol Wojtyla - La vera storia è il titolo del musical sulla vita del compianto Papa. Gli ingredienti: Mauro Longhin (Cicuta Produzioni), Duccio Forzato il regista, Paloma Gomez Borrero consulente per la storia, Noa, Gil Dor e il Solis String Quartet per le musiche. Tre gli interpreti del Santo Padre, il piccolo Alessandro Bendinelli, Mike Introna e Massimiliano Colonna. Dopo il debutto a Livorno, la tournée toccherà, tra le
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LA SOCIETÀ TEATRALE
Fabio Morgan per l’Orologio, cui si affianca Luca Ricci. Trenta sono i gruppi ospiti per 150 giornate complessive di programmazione, equamente distribuite tra le due sedi e con un fitto corollario di laboratori oltre a un contest per illustratori. Info: http://dominiopubblicoteatro.it
Progetto AutoreVole
ne periferiche e più disagiate della città. Obiettivo del progetto è, nel futuro immediato, il riconoscimento istituzionale. Info: www.teatrodellacooperativa.it, www.teatroofficina.it, www.atirteatroringhiera.it
Ad Arezzo, Sosta Palmizi con Altre Danze È promosso da Sosta Palmizi e il Comune di Arezzo, in collaborazione con Sipario Toscana e il Liceo Coreutico P. Della Francesca, il progetto Altre Danze_Portiamo i ragazzi a teatro!. Tra gli spettacoli in programma, Bruno del Progetto Brockenhaus/Sosta Palmizi (27-28/1 foto sopra) e Ai migranti di Collettivo 320chili/Sosta Palmizi (13-15/3). Info: www.sostapalmizi.it
Milano, C.Re.S.Co. a sostegno degli artisti Si è tenuta a gennaio a Milano l’assemblea annuale di C.Re.S.Co. Tra le novità, la presentazione di SmartEu-Società Mutualistica per Artisti. Si tratta di una Cooperativa in forma di Impresa Sociale, fondata nel 1998 da Pierre Burnotte e Julek Jurowicz e oggi inserita in un network di dieci Paesi europei, con l’obiettivo di gestire le posizioni contrattuali, la formazione e la mobilità degli artisti, l’amministrazione dei progetti e l’erogazione dei compensi attraverso un Fondo di Garanzia. Obiettivo dichiarato di C.Re.S.Co. è l’apertura, per gennaio, del primo sportello italiano, SmartIt. Info: www.progettocresco.it
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Chiude il Teatro di Gioia Nella lettera pubblicata lo scorso agosto sul quotidiano Il Centro, Dacia Maraini dichiarava di trovarsi costretta a chiudere il Teatro di Gioia - da lei fondato a Gioia Dei Marsi, in provincia dell’Aquila, ben tredici anni fa e tuttora diretto - lamentando una totale latitanza da parte delle istituzioni. Nonostante l’attività fiorente del teatro e l’interessamento, fra gli altri, di C.Re.S.Co, non si è avuto, ad oggi, alcun riscontro positivo da parte dell’amministrazione locale. Info: www.teatrodigioia.it
Siae vs Valle Occupato Conflitto aperto tra la Siae e il Teatro occupato di Roma. Il Valle propone una riforma del diritto d’autore che renda più trasparenti le regole per la ripartizione dei diritti (iniziativa “Tuteliamo gli autori o la Siae?”). La Siae contrattacca accusando il teatro di non adempiere alcuno degli obblighi di legge relativi al pagamento dei diritti d’autore, dei contributi Enpals e di qualsivoglia tutela per i professionisti dello spettacolo che vi lavorano, sin dal giugno 2011. La questione resta aperta. Info: www.teatrovalleoccupato.it, www.siae.it
Argot e Orologio, insieme per il teatro Si intitola Dominio Pubblico la prima stagione congiunta tra il Teatro Argot e il Teatro dell’Orologio di Roma, con la direzione artistica di Tiziano Panici e Francesco Frangipane per l’Argot, e
Sono usciti a novembre i primi tre cofanetti in cd audio di AutoreVole, il nuovo progetto editoriale di Adriano Salani, ideato da Sergio Ferrentino e prodotto da Fonderia Mercury. Autori delle tre drammaturgie radiofoniche, già presentate la scorsa stagione al Teatro dell’Elfo, sono Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto ed Elisabetta Bucciarelli, con l’adattamento e la regia di Sergio Ferrentino. Ogni radiodramma è disponibile sul web nell’audiocatalogo di Fonderia Mercury, un book ed ebook editi da Feltrinelli e nelle App per smartphone e tablet. Info: www.fonderiamercury.it
Corte della Formica Sono stati consegnati il 28 ottobre scorso a Napoli i premi della IX edizione del Festival “La Corte della Formica”, diretta da Gianmarco Cesario. Tra i segnalati, Tre Magnifici Scapoli della compagnia Imprenditori di Sogni (miglior corto, drammaturgia e regia); Orazio Cerino e Gingy Comune (miglior attore). Una lettera di colore viola di Luca Di Tommaso si aggiudica invece il Premio Giuria Popolare. Info: www.facebook.com/lacortedellaformica
Un commissario per la lirica È l’ingegnere Pier Francesco Pinelli il nuovo commissario del governo per le Fondazioni lirico-sinfoniche. Ex manager petrolifero, è stato a lungo consulente di economia e cultura per imprese pubbliche, private e istituzioni. Lo ha nominato il ministro alle Attività
Le residenze tra passato, presente e futuro Vengono considerate un po’ la speranza del teatro italiano. La risposta dal basso a un sistema altrimenti ingessato. Le residenze sono forse la novità più interessante espressa dal teatro italiano degli ultimi anni, per questo contemperata dai nuovi Decreti Ministeriali. Tre incontri, tra ottobre e dicembre, ne hanno rivelato i retroscena. Il primo, delineando le coordinate teoriche fondamentali. Curato da Fabio Biondi ed Edoardo Donatini, in collaborazione con il Tamburo di Kattrin, “Nobiltà e Miseria. Presente e Futuro delle Residenze creative in Italia” ha dimostrato come alle residenze si possa e debba guardare per la ricostruzione culturale e civile del Paese e del sistema-teatro, in termini di innovazione della proposta, valorizzazione del territorio e formazione di un pubblico nuovo. Il secondo, presentando un caso virtuoso di residenza “guidata dall’alto”: quello dei Teatri Abitati. Ospitato a novembre a Lecce, in occasione dell’Assemblea Nazionale dell’Anct, il convegno promosso da Astragali e il Teatro Pubblico Pugliese ha descritto uno scenario contraddittorio, tutt’ora in divenire, teso tra un inquadramento giuridico per certi versi invidiabile e una proposta artistica ancora in cerca della sua identità. Il terzo, da ultimo, illustrando i risultati dell’Indagine Interna condotta per l’Associazione Etre tra dicembre 2012 e febbraio 2013 da Silvia Bovio, Francesco Grandi e Josephine Magliozzi. Programmato a novembre al Teatro Ringhiera, in occasione della festa di chiusura del Progetto Etre targato Cariplo, “Diversamente Residenze” ha delineato un quadro sostanzialmente positivo dell’esperienza, giustificato dall’eterogeneità crescente della proposta artistica, dal consolidamento delle relazioni col territorio e il pubblico, dall’incremento e dalla specializzazione del personale, dalla diversificazione delle strategie di fund raising e dall’innovazione nel sistema di produzione, organizzazione, programmazione e coprogettazione. Info: http://residenzecreative.iltamburodikattrin.com, www.teatriabitati.it, www.etreassociazione.it Roberto Rizzente
LA SOCIETÀ TEATRALE
Culturali Bray di comune intesa con il Ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni. Info: www.governo.it
A Baffi il Lente d’Oro È stato assegnato al Presidente dell’Anct - Associazione Nazionale Critici di Teatro, Giulio Baffi, il Premio Roberto Mazzucco Lente d’oro 2013, promosso dall’AssTea tro e la Siad (Società Italiana Autori Drammatici), in collaborazione con il Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea e il Comune di Roma. Tra i vincitori delle passate edizioni, Guido Davico Bonino e Gastone Geron. Info: www.assteatro.it
Opera di Roma, un bilancio da crack Sono sconcertanti i dati sul bilancio 2012 del teatro romano pubblicati di recente: 56,9 milioni i costi di produzione, 9,6 le entrate (di cui 7,3 dai biglietti e il resto da finanziamenti privati), con un disavanzo netto di 47,3. I dati hanno preoccupato il sindaco Marino (che al teatro ha destinato, nel 2012, 19,950 milioni), che ha annunciato tagli, scatenando l’insurrezione dei dipendenti e il risentimento del Sovrintendente De Martino. Info: www.operaroma.it
Trionfa Sciarroni a Rete Critica Alessandro Sciarroni è il vincitore della terza edizione di Rete Critica, il premio nato dalla sinergia tra siti, testate web e blog di teatro. A corollario delle votazioni, nel corso del convegno di Vicenza, Rete Critica ha deciso anche di dotarsi di una struttura organizzativa e di pubblicare una collana di ebook su ar tisti, eventi e novità legati al teatro. Il Premio è stato consegnato lo scorso dicembre al Piccolo, in occasione dei Premi Ubu. Info: www.ateatro.it
Una Bibliotc’Art tutta da ridere È stata inaugurata a Castelfiorentino, presso il Teatro C’Art, una biblioteca
interamente dedicata al genere comico, nei linguaggi del corpo: oltre mille pezzi tra libri, periodici, dvd e cd su teatro, danza contemporanea, circo, pedagogia e classici del cinema, con pubblicazioni dal 1960 a oggi in italiano, francese, inglese, tedesco, spagnolo e portoghese, a disposizione di comuni lettori, studiosi e pedagoghi. Mente e cuore dell’iniziativa è André Casaca, direttore anche del Teatro C’Art. Info: www.teatrocart.com/bibliotecavideoteca
Come Castri nessuno mai “Archivio in mostra. Le regie di Castri a Brescia e Torino” è il titolo della mostra che il Ctb dedica a Massimo Castri. Nel foyer e nei corridori del teatro è possibile ripercorrere la carriera del regista, recentemente scomparso, attraverso 23 fondamentali produzioni, documentate da manifesti, locandine, foto di Tito Alabiso e Maurizio Buscarino, e i bozzetti di Maurizio Balò. La curatela è di Sabrina Oriani. Fino al 30 giugno. Info: www.ctbteatrostabile.it
Piccoli prezzi per giovani spettatori Zona Teatrale è un’iniziativa del Consiglio di Zona 3 di Milano in collaborazione con Campo Teatrale e i teatri Leonardo, Martinitt e Menotti per agevolare l’accesso a teatro ai giovani delle scuole. Con 11.000 euro, il Consiglio copre parte dei costi dei biglietti per 2535 studenti della zona: i cartelloni, 8 spettacoli fino a gennaio, sono costruiti in condivisione tra teatri e scuole, coinvolgendo giovani dai 6 ai 18 anni. Info: www.comune.milano.it
Chailly arriva alla Scala Cambio al vertice del Piermarini. Con due anni di anticipo, Daniel Barenboim lascia la direzione musicale a fine 2014. Al suo posto subentrerà Riccardo Chailly, a t tualmente alla Gewandhaus di Lipsia. Fra le ragioni della scelta, la posizione del futuro sovrintendente Alexander Pereira, favorevole a un direttore italiano. Info: www.teatroallascala.org
Wilson, Ronconi e Latella tris d'assi per i Premi Ubu 2013 Il più importante Premio teatrale italiano si è svecchiato. Così, almeno, recitano i bene informati. E, scorrendo i nomi dei giurati Ubu, le new entry dell’ultima ora, c’è da giurare che qualcosa, effettivamente, nell’era convulsa del dopo-Quadri, si è mosso. Se però andiamo a spulciare la lista dei premiati della trentaseiesima edizione, scopriamo che la direzione generale è quella di sempre, troppo legata ai cavalli sicuri, quelli che hanno la piazza garantita, vuoi perché questo recitano i contratti, vuoi perché creano una moda. Trionfano, così, Il panico dell’habitué Rafael Spregelburd, diretto da Ronconi, miglior spettacolo e scenografia (Marco Rossi) e Odyssey del sempreverde Bob Wilson, miglior spettacolo straniero. A sparigliare un poco le carte giusto Francamente me ne infischio di Antonio Latella, miglior regia e interpreti femminili (Caterina Carpio, Candida Nieri, Valentina Vacca). Poche sorprese anche sul versante attori, con il solito Carlo Cecchi almeno in ex-aequo con il meno scontato Mario Perrotta (attori protagonisti), Peppe Servillo e Antonia Truppo (attori non protagonisti), i premi speciali Stefano Massini, Antonio Rezza/Flavia Mastrella, questi ultimi attivi da anni e solo ora incoronati – potenza del passaparola – dalla critica “che conta”. Qualche sorpresa in più sul versante drammaturgia con l’ottimo Jucatùre di Pau Mirò e con, facile previsione, Pantani di Marco Martinelli; l’attrice under 30 è Alice Spisa, mentre piace ritrovare, accanto a Il ratto d’Europa di Claudio Longhi, due personalità d’indiscusso valore come Chiara Guidi e Danio Manfredini. La cerimonia dello scorso 9 dicembre al Piccolo Teatro Grassi, affidata, dopo l’era Gioele Dix, a Giuseppe Battiston è stata anche il palcoscenico d’elezione per i Premi Rete Critica e Alinovi-Daolio, andati, rispettivamente, ad Alessandro Sciarroni e al più che modaiolo Maurizio Cattelan. Info: www.ubuperfq.it Roberto Rizzente
Le molteplici forme del Teatro Periferico
Pordenone: Dedica 2014 a Tahar Ben Jelloun
È arrivato alla quinta stagione il Teatro di Cassano Valcuvia, nella periferia della provincia varesina. In prog r a m m a , p e r il 2 013 - 2 014 , produzioni (Mombello. Voci dal manicomio), ospitalità (Gigi Gherzi, delleAli Teatro, Eccentrici Dadarò), letture, workshop (maschera, “raccoglitori di storie”, uso della voce), e mostre sulla memoria storica (presso il Centro Documentale Frontiera Nord Linea Cadorna) per “formare pubblico”. Info: www.teatroperiferico.it
Il grande scrittore, poeta e giornalista franco-marocchino Tahar Ben Jelloun sarà il protagonista della ventesima edizione di Dedica, che si terrà a Pordenone dall’8 al 22 marzo. Sarà proposto un percorso di conoscenza e approfondimento dell’autore, della sua opera e del suo mondo, spaziando fra libri, conferenze, teatro (Il libro del buio, regia di Serena Sinigaglia; Le fiabe di Tahar Ben Jelloun, con Chiara Carminati; Creatura di sabbia, con Maria Paiato), cinema e musica. Info: www.dedicafestival.it
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LA SOCIETÀ TEATRALE
Nuovi spazi per la Scala La Fondazione lirica milanese ristrutturerà la palazzina di sua proprietà sita accanto al Teatro, dove troveranno posto gli uffici amministrativi, la biglietteria, l’archivio fotografico (attualmente in affitto) e spazi prove per musicisti e danzatori. L’intervento, che si concluderà nel 2017, costerà 13,4 milioni di euro (fondi del Teatro e del Cipe) e consentirà significativi risparmi. Info: www.teatroallascala.org
Commedie italiane una app in tasca È stata lanciata su smartphone e tablet Apple, prossimamente su Android, l’applicazione “Commedie Italiane”. I de a t a e sv ilupp a t a da
DraculApp, consente di avere informazioni in tempo reale sul meglio della commedia brillante contemporanea italiana, prenotando gli spettacoli e scaricando trailer, interviste e speciali di approfondimento. Info: www.commedieitaliane.it
Scoperto anfiteatro nel centro di Spalato Nel corso degli scavi per la costruzione di un centro commerciale vicino al Palazzo di Diocleziano a Spalato, in Dalmazia, sono stati ritrovati a novembre i resti di un anfiteatro romano. Costruito tra il 293 e il 305 d.C. e ubicato lungo la via principale, secondo gli esperti il palazzo, adibito a dimora privata dell’Imperatore, «doveva quasi per forza avere un anfiteatro, secondo la logica urbanistica del tardo Impero».
A Lecce il Premio della Critica 2013 Sono stati consegnati a Lecce a novembre, sul palcoscenico del Teatro Paisiello, in pieno centro storico, i Premi della Critica 2013 dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro. Maestro di cerimonia Giulio Baffi, presidente dell’associazione. Questi i premiati: Circo equestre Sgueglia, regia di Alfredo Arias (foto sotto); Serata a Colono e La Classe, diretti da Mario Martone e Nanni Garella. Numerosi gli artisti segnalati: Roberto Zappalà, Pippo Delbono, Imma Villa, Fratelli Mancuso, Michele Santeramo, Daniela Ardini, Carlo Formigoni, Michalis Traitsis, Alessandro Averone, Babilonia Teatri, Compagnia le Nuvole Teatro-Napoli, oltre al progetto Teatri abitati-Teatro Pubblico Pugliese e Roberto Herlitzka, vincitore del Premio Paolo Emilio Poesio. Completano la ricca rosa Daria Deflorian, Neon Teatro e Ludovica Radif per, rispettivamente, il Premio Hystrio-Anct, CatarsiTeatri e Inscenaonline. Il Premio è stato anche l’occasione per un dibattito interno in seno all’Anct che ha rinnovato gli organi statutari e aggiornato il sito con la pubblicazione dell’albo d’oro dei premiati, nell’ambito di una tre giorni di lavoro sostenuta dal Teatro Pubblico Pugliese e Astragali Teatro. Info: www.criticiditeatro.it Emilio Nigro
Un francobollo per La Fenice Il Ministero dello Sviluppo Economico ha autorizzato per lo scorso 9 novembre l’emissione di un francobollo ordinario raffigurante l’interno del teatro La Fenice di Venezia, nel decimo anniversario della riapertura. Insieme all’emissione, del valore di 0,70 euro, è stato posto in vendita il bollettino illustrativo con un articolo a firma del sovrintendente del teatro, Cristiano Chiarot. Info: www.teatrolafenice.it
Nuovi drammaturghi all’Idra di Brescia Marianna Di Muro, Pietro Dattola, Marco Gobetti, Riccardo Goretti e Giorgio Putzolu sono i cinque selezionati per il bando Network Drammaturgia Nuova. Indetto e realizzato dalla residenza Idra, il progetto è curato da Gabriele Vacis sul tema “Tra la storia e le storie”. I testi verranno presentati il primo febbraio a Brescia per l’apertura del Wonderland Festival. Info: www.networkdrammaturgianuova.it
All’Atlantic Theater spettacoli per tutti i gusti Musica, bambini, commedia, mente: sono le categorie in cui si dividono gli spettacoli del neonato Atlantic Theater, in programma all’Hotel Atlantic Congress Centre & Spa di Borgaro Torinese, sotto la direzione artistica della Dimensione Eventi srl. L’intento è quello di colmare la mancanza di una struttura teatrale nell’area provinciale di Torino. Info: www.teatroatlantic.it
Terre Comuni a Torino Verranno presentate dall’1 al 9 aprile alla Casa del Teatro Ragazzi di Torino e nella città di Pinerolo, le quattro produzioni del Progetto Terre Comuni/Terres Communes-Giocateatro Torino 2014, realizzate da compagnie italo-francesi e presentate in anteprima tra ot tobre e dicembre in Francia. Info: www.terrecomuni.eu
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Al via le Trasparenze Sono sei gli artisti selezionati dal progetto Trasparenze per il 2013-2014: Francesca Foscarini e Sara Wiktorowicz, ErosAntEros, Teatringestazione, Lo Sicco-Civilleri, InBalìa Compagnia Instabile e Scenica Frammenti. Gli studi verranno presentati, dopo la prima di dicembre, tra gennaio e maggio al Teatro dei Segni di Modena. Info: www.trasparenzefestival.it
Milano, occupato il Derby L’effetto occupazione tocca lo storico teatro-simbolo del cabaret milanese, la sede di via Mascagni, chiusa definitivamente nel 2011. A novembre, per cinque giorni, Retestudenti e collettivo Casc hanno preso possesso dello spazio, attivando un Laboratorio Studentesco, con workshop e concerti. Info: www.facebook.com/retestudenti.milano
Catania per Danzuso Mariano Rigillo alla carriera e Alessandra Costanzo per la prosa; il mezzosoprano José Maria Lo Monaco e il violinista Vito Imperato per la musica: sono i vincitori del XII Premio Domenico Danzuso, promosso dal Lions Club Catania Host, la Società Catanese Amici della Musica e il Teatro Stabile di Catania. La cerimonia di premiazione si è svolta a dicembre al Teatro Verga. Info: www.scamct.it
Nuova stagione sui Navigli “Altri Artisti” è il titolo della prima stagione ufficiale, dopo le prove dello scorso anno, di Alta Luce Teatro, il nuovo spazio off in Alzaia Naviglio Grande 192, Milano. Tra gli ospiti in car tellone, César Brie e Fanny&Alexander. La direzione artistica è di Elizabeth Annable. Info: www.altaluceteatro.com
Il Giornale Off va sul web È online da novembre ilgiornaleoff.it, versione web della pagina domenicale de Il Giornale, dedicata alla “cultura
LA SOCIETÀ TEATRALE
fuori dal coro”. La direzione editoriale è di Edoardo Sylos Labini, mentre la sezione teatro è curata da Enrico Groppali e Angelo Mellone. Obiettivo dichiarato del progetto è la scoperta dei nuovi talenti. Info: www.ilgiornaleoff.it
Sem Benelli per l’amatoriale La stanza del delitto della compagnia Il Ramaiolo di Imperia è lo spettacolo vincitore del Premio Sem Benelli 2013 per il teatro amatoriale, promosso a Roccastrada (Gr). Stefano Ricca della Compagnia dell’Anello e Roberta Principe di Vulimm’Vulà sono invece i migliori attori della rassegna. Info: www.comune.roccastrada.gr.it
Niente teatro per Lolita Sono state annullate a ottobre all’Arena del Sole, per volontà della Direzione territoriale del Lavoro di Bologna, le due repliche di Lolita di Babilonia Teatri, previste all’interno della rassegna Gender Bender. Motivo della censura, la tutela della salute fisica e della moralità dell’interprete, una bambina di 11 anni. Info: www.babiloniateatri.it
Tutto Gaber in dvd È uscito a novembre il cofanetto Le storie del signor G, su etichetta Artist First, al prezzo di euro 24,99. Esaurito dopo la scomparsa di Gaber e ora rimasterizzato, raccoglie in quattro dvd tu t to il tea tro - canzone dell’artista milanese, registrato nel luglio del ’91 al Teatro Comunale di Pietrasanta. Info: www.giorgiogaber.it
Un bacio tutto al femminile Un bacio di due minuti tra due donne: tanto è bastato per spingere il sindaco di Padergnone (Tn) ad annullare La muffa nel cassetto di Antonella Fittipaldi, previsto in un ciclo per ragazzi. L’amministrazione si è detta tuttavia disposta a ospitare il lavoro in un diverso contesto. Info: www.comune.padergnone.tn.it
Ferrucci direttore al Giglio di Lucca Manrico Ferrucci è il nuovo direttore generale del Teatro del Giglio di Lucca. Classe 1954, Ferrucci è vicepresidente della Fondazione Piaggio di Pontedera e dipendente della Fondazione Teatro di Pisa. Accanto a lui, il direttore artistico Aldo Tarabella e il presidente del cda Paolo Scacchiotti. Info: www.teatrodelgiglio.it
Su Classica tv i talenti della Scala S’intitola Talenti! la serie di documentari, in 38 puntate da 27 minuti l’una, che il canale Classica Hd (Sky 131) dedica alle storie degli allievi dell’Accademia Teatro alla Scala di Milano. Curato da Giovanni Giommi e Francesca Pedroni va in onda ogni lunedì a partire dalle 21.10. Info: www.mondoclassica.it
Nuovo spazio a Modugno È stato inaugurato a novembre a Modugno (Ba), nell’ex mattatoio di via Piave, il nuovo laboratorio urbano per l’arte e lo spettacolo. “Nuove Fermate Altre Visioni” è il titolo della stagione artistica, diretta da Michele Bia e declinata nelle tre sezioni teatro, musica e cinema, con un focus specifico sulla nuova drammaturgia. Info: www.comune.modugno.ba.it
Palcoscenico Aperto 42 spettacoli a Napoli Al via dal 4 ottobre scorso fino a maggio, la rassegna “Piazza palcoscenico aperto” al Teatro Palcoscenico di via Gaetano Argento nel capoluogo partenopeo. Quarantadue spettacoli da tutta Italia tra musica e spettacolo. Tra gli ospiti della nuova stagione, Punta Corsara, Coffe Brecht, Delirio Creativo. Info: tel. 3339284704
Cambio della guardia a Teatro.Org L’ex capo-redattrice della redazione milanese della storica testata giornalistica teatro.org, Fabienne Agliardi, passa al timone. Succede a Gianmar-
co Cesario, direttore per dieci anni. Al suo posto, a guidare la sezione meneghina, Marianna Venturini. Info: www.teatro.org
Garella, Anima del Teatro È stato consegnato a Roma, presso la Terrazza Caffarelli in Campidoglio, il XII Premio Anima, organizzato dall’omonima associazione per il sociale nei valori d’impresa, promossa da Unindustria. Vincitore, per la sezione teatro, è Nanni Garella per La classe, coprodotto da Arena del Sole Teatro Stabile di Bologna e Associazione Arte e Salute onlus (foto sopra). Info: www.animaroma.it
Al Piccolo il Prix Italia Va alla web tv del Piccolo di Milano il Premio Speciale della LXV edizione del Prix Italia nella categoria multimediale di produzioni a contenuto culturale. La web tv è la prima televisione on-line di un teatro italiano. Il riconoscimento è stato consegnato a Torino il 26 settembre dalla presidente Rai Anna Maria Tarantola. Info: www.piccoloteatro.org
Un teatro “resistente” nel rione Sanità In uno dei quartieri più caldi della città partenopea, è in corso la prima stagione del Nuovo Teatro Sanità, intitolata “Le nuove resistenze”. Duplice lo scopo del progetto: ricordare le quattro giornate di Napoli e porre sotto i riflettori le quotidiane resistenze di chi fa teatro attualmente. Info: www.nuovoteatrosanita.it
Torna il Municipale di Casale Monferrato È stato restituito alla città, dopo i lavori di restauro durante la stagione 2012/2013 per la messa in sicurezza e il miglioramento delle procedure ignifughe, il Teatro municipale di Casale Monferrato (Al). Tre le sezioni del nuovo cartellone: Grande Prosa, Stile Libero e Fuori abbonamento. Info: www.piemontedalvivo.it .
Riapre a Genova il Teatro Altrove Dal 13 al 17 novembre scorso è stata festeggiata a Genova, in piazza Cambiaso, la riapertura di Altrove Teatro della Maddalena. Numerose le attività programmate dall’associazione culturale Narramondo, dal teatro alla musica al cinema, fino alla degustazione del cibo biologico e a km 0. Info: www.teatroaltrove.it
Luoghi Comuni a Mantova 10 compagnie in residenza, 10 spettacoli, 1 progetto fotografico, 1 convegno, 1 festa. La sesta edizione di Luoghi Comuni Festival, organizzato da Associazione Etre in collaborazione con Teatro Magro, che si svolgerà a Mantova dal 14 al 16 marzo, concentra la sua attenzione sul tema del pubblico. Animanera, Illinx, Scarlattine Teatro, Nudoecrudo Teatro, Qui e Ora, Teatro delle Moire, Idra, Teatro Periferico, Delle Ali e Atir indagheranno la mutevole relazione tra chi fa e chi guarda uno spettacolo. Info: www.luoghicomunifestival. com, www.etreassociazione.it
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LA SOCIETÀ TEATRALE
Un progetto di restauro per il Comunale all’Aquila È stato presentato a ottobre, in occasione dei festeggiamenti per i cinquant’anni del Teatro Stabile d’Abruz zo, il proget to definitivo di restauro del Teatro Comunale dell’Aquila, inagibile dopo il terremoto del 2009. Coordinato dall’architetto Elisabetta Fabbri, l’intervento verrà completato in due anni e costerà circa 10 milioni di euro. Info: www.teatrostabile.abruzzo.it
energie alternative e al contempo sull’energia intellettuale e culturale dell’Italia. Info: www.eni.com
Per una Forlì contemporanea Tornano, nel 2014, gli appuntamenti col contemporaneo al Teatro Diego Fabbri di Forlì. Segnaliamo, tra gli ospiti, Pathosformel, Cindy van Acker, Città di Ebla, Masque Teatro e Roberto Latini. La direzione artistica è di Ruggero Sintoni, Claudio Casadio, Lorenzo Bazzocchi e Claudio Angelini. Info: www.teatrodiegofabbri.it
tolica di Milano. Sono previsti, nel corso dell’incontro, workshop di approfondimento e formazione. Info: www.crteducazione.it
intitolato a Mariangela Melato, con La Commedia delle donne. Per la Braidotti si tratta della seconda vittoria dopo la prima, nel 2007, con Italia.
Nuovo teatro a Sansepolcro
Con Fuori Luogo a La Spezia
È stato rimesso a nuovo l’ex Ospedale della Misericordia di Sansepolcro. Il nuovo teatro, secondo la volontà comunale, verrà affidato alle associazioni del territorio, prime fra tutte, Labora tori Permanen ti e il gruppo promotore di Kilowatt, Capotrave. Info: www.kilowattfestival.it
Riprendono all’Auditorium Dialma Ruggiero, fino a maggio, gli appuntamenti della rassegna Fuori Luogo, organizzata a La Spezia dalla Compagnia degli Scarti. Segnaliamo, fra gli ospiti, Punta Corsara, Carrozzeria Orfeo, Virgilio Sieni e Balletto Civile. Info: http://scarti.wordpress.com
I diritti della donna in scena a Milano
I premi di Festebà
L’Eni per la cultura “Diamo all’energia un’energia nuova”: è questo il titolo della campagna di Eni, presentata a settembre al Piccolo Teatro di Milano e per la quale ha prestato la voce Toni Servillo. La campagna è volta a far acquisire al pubblico una cultura più responsabile e consapevole sulle
Educare alla teatralità Si svolgerà il 15 febbraio al Piccolo Teatro Cinema Nuovo di Abbiate Guazzone-Tradate (Va) il convegno di educazione alla teatralità “Artistica-mente”, in collaborazione con l’Università Cat-
Kilowatt tutto l'anno Dopo aver inaugurato la formula del Festival “programmato” dagli spettatori, Kilowatt espande l’idea attivando a Sansepolcro (Ar), presso l’ex Misericordia, “Il Centro della visione, per un’accademia dello spettatore”, diretto da Piergiorgio Giacché, per formare il pubblico alla visione consapevole. Il percorso completo si estende su tre annualità: “A prima vista” (la nascita della visione), “Guardando meglio” (la precisione del vedere) e “Un ultimo sguardo” (le finalità dello sguardo). La formula prevede una serie di moduli nello spazio di un weekend, in cui a lezioni frontali da parte di docenti ed esperti che faranno da tutor, si alternano visioni guidate di spettacoli in fieri e un confronto con gli artisti, disponibili a “montare” e “smontare” il proprio lavoro insieme agli spettatori/allievi. Dopo il primo appuntamento, il 13-15 dicembre, l’attività prosegue per altri 4 weekend, da gennaio a giugno, con Mario Perrotta, regista e drammaturgo, tutor Claudia Cannella, sullo spettacolo Un bés. Antonio Ligabue (46 aprile - nella foto), poi lo sceneggiatore Stefano Rulli (2-4 maggio), per concludere con il regista Pippo Delbono (18-20 luglio), durante Kilowatt Festival 2014. Il costo di ciascun weekend è di euro 60. Nel corso dell’anno, a questi weekend se ne aggiungono altri durante i quali sarà possibile incontrare artisti come Giorgio Rossi, Pathosformel, Zaches Teatro, Leonardo Diana, I Sacchi di Sabbia, Iaia Forte, Aldes/Roberto Castello, CapoTrave e molti altri. Info: www.kilowattfestival.it Ilaria Angelone
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Torna al Teatro Oscar di Milano, per il quinto anno consecutivo, il progetto DonneTeatroDiritti, ideato da Annig Raimondi. Sei le produzioni, in programma fino a maggio: tra queste, la prima de Le regine. Elisabetta vs Maria Stuarda, regia di Alberto Oliva. Info: www.donneteatrodiritti.org
Massa, dopo i lavori riapre il Guglielmi Torna a Massa, dopo i lavori di restauro, il Teatro Guglielmi. Novità della stagione, volute dall’amministrazione comunale, la cessione al pubblico del palco centrale, l’abolizione dei biglietti omaggio per i politici e le riduzioni per i più giovani. Info: www.comune.massa.ms.it
Castelfranco, inaugurato il Teatro della Compagnia È stato inaugurato a novembre a Castelfranco di Sotto (Pi) il Teatro della Compagnia. Promosso dall’Azienda Speciale del Comune, per volontà del sindaco Marvogli, ospiterà spettacoli, incontri con le scuole e i gruppi culturali locali. Info: www.castelfrancodisotto.gov.it
A Bruna Braidotti il Premio Melato L’attrice, drammaturga e regista di Pordenone Bruna Braidotti ha vinto la quattordicesima edizione del Premio di scrittura teatrale Donne e Teatro,
È andato alla compagnia Thalassia per Aspettando il vento il premio della settima edizione del festival ravennate di teatro-ragazzi Festebà. Menzione speciale anche per Piccolo Asmodeo di Teatro Gioco Vita. Info: www.festeba.it
Torna il Teatro Satiro Ha riaperto in ottobre a Verona, dopo i lavori di restauro promossi dalla Galleria Massella, il Teatro Satiro Off. Fondato negli anni Settanta nell’omonimo vicolo dalla compagnia La Barcaccia, il Teatro è diretto da Licia Massella. Info: www.galleriamassella.com
Brancaccino al via È stato inaugurato al Teatro Brancaccio di Roma il Brancaccino Ragazzi, un nuovo spazio dedicato ai musical per bambini. La stagione ha aperto in autunno con La strada che non porta in nessun posto, tratto dalla fiaba di Gianni Rodari. Info: www.teatrobrancaccio.it
Il Teatro di Villa Torlonia rinasce a Roma Ha riaperto i battenti lo scorso dicembre a Roma il Teatro di Villa Torlonia. Si tratta di uno spazio storico, risalente alla metà dell’Ottocento, con la tipica pianta del teatro di corte, che verrà utilizzato per laboratori, incontri e spettacoli. Info: www.museivillatorlonia.it
LA SOCIETÀ TEATRALE
Siae: presentati i dati del primo semestre 2013 Gaetano Blandini (direttore generale Siae) e Marina Landi (direttore divisione servizi in convenzione) hanno presentato lo scorso novembre i dati relativi alla fruizione dello spettacolo in Italia (cinema, spettacolo dal vivo, mostre e sport), durante il primo semestre 2013. Rispetto al primo semestre 2012, l’offerta di spettacoli è nel complesso cresciuta dell’1,38%, gli ingressi sono aumentati dello 0,69% e la spesa del pubblico ha fatto registrare un +5,01%. In flessione, però, la spesa al botteghino (-2,15%) e il volume d’affari (-3,08%), il che fa pensare che il decremento degli incassi non sia compensato da un sufficiente incremento degli spettatori. Il settore spettacolo dal vivo ha cioè diminuito complessivamente il prezzo medio all’ingresso (teatro -3,30%, balletto -3,09%, lirica -6,14%). L’attività teatrale (il cosiddetto “settore prosa”), in particolare, continua a mostrare segni di particolare sofferenza: a fronte di una sostanziale tenuta dell’offerta di spettacoli (+0,55%), si evidenzia la flessione degli ingressi (-4,08%), della spesa al botteghino (-7,22%), della spesa del pubblico (-3,86%) e del volume d’affari (-7,02%). Significativi i dati sulla spesa del pubblico di due regioni dove l’offerta teatrale è ampia e dove si trovano le “capitali” più popolose: in Lombardia (-10,12%) e in Lazio (-17,42%). E nulla fa prevedere che tale tendenza generale vada arrestandosi nel 2014. Info: www.siae.it/statistica.asp Ilaria Angelone
Nuovo giornale web per il teatro Si chiama Utopia, il nuovo giornale online dell’omonima associazione. Uno spazio aperto a tutto il teatro-ragazzi: news, recensioni, approfondimenti, interviste e molto di più. Info: www.utopiateatroragazzi.it
Tutti al cinema con la Royal Opera House Sono circa 70 le sale cinematografiche che, in tutta Italia, programmeranno per tutta la stagione le opere e i balletti della Royal Opera House, distribuiti da Qmi e in diretta dall’Inghilterra. Info: www.rohalcinema.it
nanziati dai Fondi Europei, si concluderanno a febbraio. Info: www.comune.marino.rm.gov.it
Ecco il Pegaso a Ostia Ha riaperto i battenti a Ostia (Rm), dopo due anni d’inattività, il Teatro Pegaso. Quindici gli appuntamenti previsti fino ad aprile, per lo più dedicati ai bambini e alla commedia. Info:www.teatropegaso.net
MONDO
Romeo and Juliet, poco cinema, please Non sono mancate le polemiche, in Inghilterra, alla proiezione di Romeo and Juliet diretto da Carlo Carlei. Motivo del contendere, il testo di Julian Fellowes, beniamino del pubblico per Downton Abbey e Gosford Park e ora inviso alla critica per l’eccessiva semplificazione della tragedia. Lo scrittore ha difeso le scelte, ritenendole necessarie per portare Shakespeare al cinema. Il film è stato presentato fuori concorso al Festival di Roma. Info: www.romacinemafest.it
dicembre con una rassegna alla Casacuocolobosetti di Vercelli. La conclusione è prevista il 13 aprile al Tea tr o Civico di Ver celli con Metamorphosis, da Kafka. Info: www.iraatheatre.com.au
Premio Fit di Lugano Bruno degli svizzeri Progetto Brockenhaus è lo spettacolo vincitore dell’ottava edizione del concorso Fringe/L’Altro Festival, nell’ambito del ventiduesimo Fit Festival Internazionale di Teatro, in programma lo scorso ottobre a Lugano. La compagnia parteciperà alla rassegna di teatro-ragazzi Senza Confini, nella stagione 2014/2015. Info: www.fitfestival.ch
Caleffi in inglese Mr.Modelmaker and the Girl from Cape Loneless è il racconto scritto in inglese da Fabrizio Caleffi da poco pubblicato da FeedAread (Random House Group). È una storia di fama, fascino, fashion e frenesia che ruota attorno a un casting milanese, a Vlad, lo stilista vampiro, a Sanguedolce, a un Olandese Volante e a Pandora Reynolds, la nuova Cenerentola a Milano. Produzioni internazionali, del SudAfrica e degli States, hanno iniziato a trattare i diritti cinematografici.
Ciao, Lupin È ricordato, soprattutto, per l’interpretazione di Arsenio Lupin nella serie televisiva degli anni Settanta. Ma George Bergè, meglio conosciuto come George Descrieres, è stato anche un valido in ter pr e te tea t rale alla Comédie-Française di Parigi, in opere come Le nozze di Figaro e Cyrano, oltre ai classici greci. Malato da tempo, l’attore è morto a ottobre, a Cannes.
Leopardi a New York In casa e nelle città con Cuocolo e Bosetti Si completerà nel 2014, con il tour extraeuropeo di The Walk a Tokyo (28-31 gennaio - foto sotto), Sydney (6-8 febbraio) e Melbourne (13-22 febbraio), il progetto La casa, Le città di Cuocolo/Bosetti, inaugurato a
Sono andate in scena a ottobre a New York, in occasione dell’Anno della Cultura Italiana negli Stati Uniti, le Operette morali di Leopardi, regia di Martone e Ippolita di Majo. La nuova versione è stata interpretata da Renato Carpentieri, Iaia Forte, Giovanni Ludeno e Franca Penone. Info: www.iicnewyork.esteri.it
Addio a Doris Lessing 1914: il Centenario È in pre-produzione il lungometraggio 1914 , film beckettiano da un soggetto originale di Fabrizio Caleffi, che interpreterà un ruolo-chiave nel metaforico e poetico cimitero d’Europa, situato nell’immaginaria Poldavia.
Villa Desideri on stage Ci sarà anche un teatro nei nuovi spazi ricavati dalla riqualificazione di Villa Desideri a Marino, Roma. I lavori, cofi-
È morta il 17 novembre scorso all’età di 94 anni la scrittrice inglese, premio Nobel 2007. Nata in Iran, vissuta in Zimbabwe, fu comunista, femminista, attivista per i diritti umani (degli Afghani, negli anni ‘80). Scrisse delle donne, dei rapporti fra bianchi e neri, dell’Africa postcoloniale, con una visione spesso critica e problematica su tutti i fronti, come traspare anche dai suoi lavori per il teatro (nel cui mondo ambientò anche alcuni romanzi, come Amare ancora): Mr Dollinger (1958), Each his own wilderness (1959), Play with a tiger (1962) e The singing door (1972).
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LA SOCIETÀ TEATRALE
Il Regio in Giappone
A Davide Carnevali il Premio Riccione
È tornato lo scorso novembre in Giappone, dopo la tournée del 2010, Il Teatro Regio di Torino. Completamente finanziata dal Giappone, la tournée è stata accompagnata dal governatore Roberto Cota e dal sindaco Piero Fassino. Info: www.teatroregio.torino.it
È Davide Carnevali (nella foto) – da molti anni collaboratore di Hystrio – il vincitore della 52a edizione del Premio Riccione, conclusosi lo scorso 3 novembre con la cerimonia di premiazione condotta da Lorenzo Pavolini. Carnevali, che vive fra Barcellona e Berlino, si è aggiudicato il prestigioso riconoscimento con il dramma Ritratto di donna araba che guarda il mare, intensa e sfaccettata cronaca dell’incontro di un uomo europeo con una donna nordafricana. Un testo di cui la giuria, presieduta da Umberto Orsini, ha apprezzato l’impasto di «freddezza e sensualità, nutrito di un sentimento tragico del reale e percorso da un linguaggio dalla elegante e tersa geometria». E legato in qualche modo alla nostra rivista è anche il vincitore del Premio Riccione intitolato a Pier Vittorio Tondelli e riservato ad autori under trenta: Emanuele Aldrovandi, infatti, si era già guadagnato una segnalazione all’edizione 2012 del Premio Hystrio-Scritture di scena. Il testo premiato a Riccione s’intitola Homicide House ed è stato definito dalla giuria una «sinistra e infantile parabola sugli incerti confini tra il vero e il falso», la discesa agli inferi di un uomo qualunque indebitatosi per problemi di lavoro. Altri riconoscimenti sono andati a Maurizio Patella per Loro (menzione alla memoria di Franco Quadri), Giuseppe Tantillo per Best Friend e Patrizia Zappa Mulas per Chiudi gli occhi (segnalazioni speciali). Segnaliamo, per chiudere, Lorenzo Garozzo: il suo J.T.B., piazzatosi tra i sei finalisti, è il vincitore dell’edizione 2013 del Premio Hystrio-Scritture di Scena. Info: www.riccioneteatro.it
PREMI Torna il Vallecorsi È indetta la 58a edizione del Premio di drammaturgia Vallecorsi, sostenuto da Ansaldobreda. I lavori dovranno pervenire entro l’1 febbraio all’indirizzo: Fondazione Premio Teatrale Nazionale Vallecorsi, via Ciliegiole 110/b, 51100 Pistoia. La giuria, composta da Franca Nuti, Nando Gazzolo, Ugo Pagliai, Carlo Maria Pensa, Antonio Calenda, Giovanni Antonucci e Andrea Bisicchia assegnerà al vincitore un montepremi di 5000 euro. Al secondo e terzo classificato andranno, invece, le opere in argento dello scultore Jorio Vivarelli, previste per il Premio Carlo D’Angelo e Giulio Fiorini-Nilo Negri. Info: www.premiovallecorsi.it
Giovani registi cercasi La regia dopo la regia è il titolo del primo annuario dei giovani registi italiani ed europei, promosso dalla casa editrice Milorked, con un’introduzione di Fabrizio Caleffi. I registi selezionati riceveranno un copione sul quale elaborare un progetto di videoregia per concorrere al premio Lamberto Puggelli. Si partecipa inviando entro gennaio il dvd di uno spettacolo realizzato all’indirizzo: Fabrizio Caleffi, via Barbara Melzi 27, 21049 Tradate (Va). La quota d’iscrizione è di 35 euro. Info: milorked@gmail.com
Una commedia in cerca d’autori Al via la seconda edizione del concorso “Una commedia in cerca di autori”, promossa dalla società di produzione La Bilancia. Si concorre con copioni te-
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Laura Bevione
atrali del genere della commedia brillante. Il materiale va inviato entro il 28 febbraio all’indirizzo: Teatro Martinitt, via Riccardo Pitteri 58, 20134 Milano. In palio, la messa in scena del testo vincitore, a cura de La Bilancia, e la successiva distribuzione a Milano e Roma. Info: www.teatromartinitt.it
In scena a Roma col Teatro Aurelio Ultimi giorni per partecipare alla sezione teatrale del Premio letterario bandito a Roma dal Teatro Aurelio e l’Associazione Il Raggio, in collaborazione con Scriviamo Insieme. Il materiale va inviato entro il 19 gennaio all’indirizzo premioletterario@teatroaurelio.it o per posta a: Teatro Aurelio, Largo S.Pio V 4, 00165 Roma. La quota di partecipazione è di 10 euro. È prevista la messa in scena del testo vincitore. Info: www.teatroaurelio.it
alla Casa dei Teatri e alla Casa delle Traduzioni dalle Biblioteche di Roma e il Cendic-Centro Nazionale Drammaturgia Italiana Contemporanea. Segnaliamo, tra gli altri, gli appuntamenti con Marco Pernich (12 febbraio, “Scrivere per essere detti e non per essere letti”) e Donatella Diamanti (19 febbraio, “Noi siamo i ggiovani. La rappresentazione degli adolescenti nel teatro ragazzi”). Info: www.biblioteche.it
Scrittura per la scena corsi online Promossi da T.U.A, Talent United Artist, in collaborazione con FabFestival e Fabfestival tv channel, iniziano con il 2014 i corsi online di scrittura per lo spettacolo e lo show reel contest collegati al talent teatrale MasterPlay. Sono previsti i gruppi “Kafka” cafè di drammaturgia e stand up comedy, intitolato a Franz, nella ricorrenza della scomparsa, avventa nel 1924; “Best in translation” per la diffusione internazionale della nuova drammaturgia; “Sunday morning”, tribu to a Lou Reed e Delamore Schwartz, per la scrittura seriale televisiva. Info: inindie@gmail.com
Raccontare Lecce
Milano, week-end con i Teatri Possibili
È promosso dai Cantieri Teatrali Koreja il concorso Extra Lecce-Raccontare la città. Possono partecipare racconti, poesie, saggi, articoli e filmati, realizzati da cittadini stranieri che abbiano risieduto per almeno tre anni a Lecce e che abbiano a tema la città pugliese. I materiali vanno inviati entro il 31 gennaio all’indirizzo: Segreteria dei Cantieri Teatrali Koreja, via Guido Dorso 70, 73100 Lecce. Sono previsti premi in denaro per i primi tre classificati. Info: www.teatrokoreja.it
Fino ad aprile 2014, Teatri Possibili organizza nei propri spazi di Milano weekend intensivi di formazione. Ogni workshop ha un tema e un maestro specifici: “Il Comico” con Alessandra Faiella (1-2 febbraio), “I colori della voce” con Mariangela La Palombara (1-2 marzo), “Pulp Tebe” con Alessandro Veronese (22-23 marzo) e “A ritroso” con Elena Ferrari (12-13 aprile). Info: www.teatripossibili.org
CORSI Roma, a scuola di drammaturgia Sono destinati prevalentemente ai giovani artisti i seminari promossi
Hanno collaborato: Ilaria Angelone, Laura Bevione, Fabr i z io Ca lef f i, Francesca Ca rosso, Giulia Miniat i, Alessio Negro, Emilio Nigro, Chiara Viviani.
Rivista trimestrale di teatro e spettacolo fondata da Ugo Ronfani editore: Hystrio-Associazione per la diffusione della Cultura Teatrale, via Olona 17, 20123 Milano. direttore responsabile: Claudia Cannella redazione: Ilaria Angelone, Albarosa Camaldo, Roberto Rizzente, Monica Giacchetto (segreteria). progetto grafico: www.studiopaola.it grafica e impaginazione: Alessia Stefanini hanno collaborato: Matteo Antonaci, Nicola Arrigoni, Giedrė Bagdžiūnaitė, Elona Bajorinienė, Ramunė Balevičiūtė, Elena Basteri, Massimo Bertoldi, Stefania Bevilacqua, Laura Bevione, Mario Bianchi, Fabrizio Sebastian Caleffi, Roberto Canziani, Laura Caretti, Francesca Carosso, Tommaso Chimenti, Georgia Galanti, Francesca Gambarini, Lorenzo Garozzo, Maddalena Giovannelli, Toma Gudelytė, Nicole Horsten, Andrius Jevsejevas, Giedrė Kabašinskienė, Filippa Ilardo, Giuseppe Liotta, Audronis Liuga, Fausto Malcovati, Stefania Maraucci, Ramunė Marcinkevičiūtė, Antonella Melilli Rossi, Giulia Miniati, Giuseppe Montemagno, Anna Maria Monteverdi, Stefano Moretti, Alessio Negro, Emilio Nigro, Michele Pascarella, Gianni Poli, Robert Quitta, Domenico Rigotti, Paolo Ruffini, Daiva Šabasevičienė, Helmutas Šabasevičius, Laura Santini, Francesca Serrazanetti, Francesco Tei, Pino Tierno, Francesco Urbano, Nicola Viesti, Diego Vincenti, Chiara Viviani, Giusi Zippo. direzione, redazione e pubblicità: via Olona 17, 20123 Milano, tel. 02 40073256, fax 02 45409483, segreteria@hystrio.it – www.hystrio.it Iscrizione al Tribunale di Milano (Ufficio Stampa), n. 106 del 23 febbraio 1990. Stampa: Arti Grafiche Alpine, via Luigi Belotti 14, 21052 Busto Arsizio (Va). Distribuzione: Joo, via Filippo Argelati 35, 20143 Milano, tel. 02 8375671 Manoscritti e fotografie originali anche se non pubblicati non si restituiscono. È vietata la riproduzione, parziale o totale, dei testi contenuti nella rivista, salvo accordi con l’editore.
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GEORGIA GALANTI Georgia Galanti, che ha realizzato la copertina e l'immagine di apertura del dossier, vive e lavora a Cattolica. Ha pubblicato con Nuages (Milano) Io e la mia nonna, Io e il mio papà, Cartoline da Mompracem e Il mio nome è Rosa. Ha esposto i suoi lavori in Italia e all’estero. I suoi progetti e laboratori prevedono materiali poveri e di scarto per indagare temi che appartengono al bambino e all’adulto. L’ultimo suo viaggio è in India presso una comunità per esplorare e disegnare con gli abitanti del luogo.
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Mestre La Feltrinelli Libri e Musica piazza XXVII Ottobre 1 Palermo tel. 041 2381311 Broadway Libreria dello Spettacolo Milano via Rosolino Pilo 18 Abook Piccolo tel. 091 6090305 Piccolo Teatro Grassi via Rovello 2 La Feltrinelli Libri tel. 02 72333504 e Musica via Cavour 133 Anteo Service tel. 091 781291 via Milazzo 9 tel. 02 6597732 Parma La Feltrinelli Libri Joo Distribuzione e Musica via Argelati 35 Strada Farini 17 tel. 02 4980167 tel. 0521 237492
Ferrara La Feltrinelli Libri Libreria Ibs e Musica piazza Trento e Trieste c.so Buenos Aires 33/35 (Palazzo San Crispino) tel. 02 2023361 tel. 0532 241604 La Feltrinelli Libri Librerie Feltrinelli e Musica via G. Garibaldi 30/A piazza Piemonte 1 tel. 0532 248163 tel. 02 433541
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