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INNOCENZA
innocenza /in·no·cèn·za/ sostantivo femminile
1. Mancanza assoluta di colpa, morale o giuridica.
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2. Incapacità di commettere o di concepire il male, per lo più connessa all’ingenuità del bambino o del fanciullo.
La più grande illusione che ci possiede è quella di vedere tutto quello che ci passa sotto gli occhi e di controllare tutto quello che vediamo. Non è così che funziona. Può succedere, infatti, che pur avendo una vista ottimale in decimi e diottrie, pur vantando sanissimi recettori anatomici, cornea, congiuntiva, camera anteriore e cristallino in ottima salute, sia la nostra coscienza a soffrire per periodi lunghi o brevi di un deficit della percezione. Ecco perché, per ragioni variabilissime, per distrazione, per incuria, per paura, per vigliaccheria, o anche per amore, in momenti diversi della nostra vita, pur non avendo bisogno di occhiali, vediamo senza guardare, e guardiamo senza vedere. Siamo immersi nel buio della ragione e procediamo a tentoni, sprofondati nel nostro offuscamento sensoriale, con l’allucinazione di avere tutto sotto controllo. Succede, infatti, che di questa ridotta sorveglianza dell’Io non abbiamo la minima consapevolezza: almeno fino a quando i fatti nudi e crudi, nella loro dirompente evidenza, non si appalesano di colpo alla nostra comprensione, lasciandoci sbalorditi, sconcertati, attoniti, e increduli della nostra stessa sorpresa, a volte con conseguenze catastrofiche.
Gli esperti la chiamano negazione: è un meccanismo di difesa che determina un esame distorto della realtà, fino alla completa cancellazione dalla coscienza di un evento disturbante, conflittuale o intollerabile. L’obiettivo è quello di erigere una barriera di protezione da pericoli che possano mettere a rischio la nostra sicurezza, la solidità delle certezze che ci permettono di sentirci protetti, ed è una strategia che, almeno in teoria, la nostra mente attiva senza averne alcuna cognizione. Ma questa inconsapevolezza è del tutto priva di dolo? C’è una partecipazione silente della volontà in questo rifiuto di prendere atto? Questa assenza in presenza può davvero chiamarsi innocenza?
1.
Una faccia davanti allo specchio. Si guarda, si sorride, si tocca i capelli, si ammira. Si scruta da vicinissimo. Si sbeffeggia, con una smorfia. È una giovane donna, bella e superba come può esserlo una diciannovenne ricca e di buona famiglia, appena sveglia, in una mattina d’estate. Il sole abbaglia la sua stanza. Una stanza di ragazza, disordinata, allegra. La radio è accesa. Un rapper di successo mitraglia parole su una melodia arabeggiante. Di colpo la porta si spalanca con tale forza che si sente il vetro vibrare nel telaio. La testa riccioluta di un ragazzo alto e magro si affaccia sull’uscio e scruta nella camera.
“Giuliaaa, ci sei?”.
È Andrea, diciassette anni, detto la Cosa perché, come l’uomo di pietra dei Fantastici 4, ha il potere di rompere ogni oggetto che gli passa per le mani. Lui dice che è a causa della forza sovrumana dei suoi muscoli d’acciaio. Sua sorella Giulia sostiene che l’unica qualità di cui Andrea è superdotato è l’idiozia.
La ragazza è in piedi davanti ad una piccola toletta di epoca liberty. Si gira lentamente, guarda il fratello, gli fa cenno di abbassare la voce, sorride: “Oh? Che c’è? Non gridare. Sono qua”.
Lui ostenta impazienza, sbuffa: “L’abbassi, ’sta radio?”.
Lei allunga la mano, ruota la manopola. La voce del rapper tace di colpo. Andrea sospira: “Allora, deciso tutto?”.
Giulia siede sul letto, frizionandosi i capelli con un asciugamano.
“No, no. Aspetta un momento. Il commesso mi ha detto che la bici non ce la portano. Dobbiamo caricarla noi”.
Anche Andrea si siede, facendo traballare la vecchia sedia Thonet e lasciando precipitare di colpo il borsone da palestra sul pavimento.
“Noi? Ma sei pazza? E come?”.
“Boh. Devo chiedere a mamma se mi presta la macchina grande”.
“Mah... te la sbrighi tu. Io scappo, ho allenamento. E i soldi?”.
“Ce li ho. Perché me la sbrigo io e tu come al solito te ne freghi?”.
“Perché sono maschio e quindi un essere superiore. Tutti ce li hai?”.
“Stronzo. I soldi ce li ho”.
“Vabbè, allora io esco. Ma ci vai oggi?”.
“No. Se la porto oggi, dove la nascondo? Non vuoi fargli la sorpresa?”.
Andrea fa una faccia perplessa. “Siete fissate con ’sta sorpresa. La festa a sorpresa, il regalo a sorpresa... Con tutte queste sorprese, mi sa che gli piglia un colpo”.
“Boh. A cinquant’anni, che vuoi di più dalla vita?”.
“Mi raccomando”. Andrea si alza di botto, tira su il borsone e infila la porta sbattendole contro, come se la volesse abbattere.
Giulia urla: “Ehi! E fai attenzione! Sei un bisonte”. “Tutti muscoli”, le risponde lui voltandosi indietro. E sparisce.
Giulia resta da sola a frizionarsi i capelli. “Scemo”, mormora, “ho un fratello scemo”.
Andrea rotola giù dalle scale, passa come un fulmine dalla cucina, sbircia sulla tavola apparecchiata per la prima colazione, si caccia in bocca un biscotto, trangugia un sorso di caffè da una tazzina e poi, facendo ciao con la mano a Sara, sua madre, s’infila di corsa in giardino.
“Aspetta! Dove scappi? Andreaaa!”.
Lei prova a fermarlo, ma ci rinuncia immediatamente, è impossibile arginare quella furia. Alza le spalle e rituffa la testa in un libro tascabile. Con un dito, senza guardare, schiaccia il tasto del volume della radio sul credenzone di noce. Un concerto per flauto e arpa riempie la cucina e imprime un ritmo avvolgente alla lettura di un best seller pseudo-mistico molto alla moda. Sara è talmente presa da quelle pagine da non riuscire a staccare gli occhi.
Nel patio della grande villa, intanto, Andrea afferra al volo un casco bianco da un divano di vimini e corre ad aprire il cancello dove trova il suo amico Carlo, a cavallo di una moto da cross, che lo aspetta.
“Con comodo, eh?”.
“Non è tardi, sono in perfetto orario”.
“Sì, ciao”.
Andrea molla all’amico una gran pacca sul braccio, poi si accomoda alle sue spalle sul sellino, insacca il casco e la moto parte come una freccia rombando verso il lungomare.
“Com’è andata? Ce l’hai?”, chiede Andrea urlando nell’orecchio di Carlo, subito dopo la partenza.
“Chiaro”.
“Sììì! E vai! Come hai fatto?”.
“È solo una questione di soldi. Duecento euro puliti puliti”.
“Cazzo!”.
“Cazzo, sì...”.
“E li avevi?”.
“Non tutti. Cento glieli ho dati, gli altri ho promesso di portarli entro mezzogiorno”.
“Che? Ma è tra due ore”.
“Te l’ho detto che andiamo di fretta, Andrea”.
“E l’allenamento?”.
“Scordatelo, se non vuoi finire incaprettato”.
“Ma, Carlo, io non li ho, tu non li hai. Dove cazzo li prendiamo cento adesso?”.
“Non lo so”.
“E ora dove stai andando?”.
“Nell’unico posto dove possiamo trovare cento euro”.
“Non ne ho idea. Dove?”.
“Da tuo padre”. 3.
Il parco che corre verso la zona residenziale della città è come un imbuto di fronde impazzite che flettono le chiome all’indietro nel frastuono rombante della corsa in motocicletta. Poi il decoro borghese delle palazzine ottocentesche del centro e ancora più in fondo la periferia scabra e sporca dei quartieri poveri, il cimitero, la piccola farmacia, i chioschetti dei fiorai, l’Ospedale Civile. La frenata davanti all’aiuola della Cardiochirurgia, accanto a un’autoambulanza vuota con il portellone aperto.
Ora sono fermi. Carlo sulla moto. Andrea passeggia nervoso davanti a lui.
“Scusa, ma che gli racconto?”.
“Digli che hai perso alla roulette, che hai uno strozzino alle costole, che hai bisogno di spiccioli...”.
“E smettila! Aiutami, no?”.
“Inventagli che ti si è rotta la moto”.
“No. Mi direbbe di portarla dal suo meccanico, e quello lo paga lui direttamente”.
“Oppure che hai visto un giubbotto stupendo...”.
“Per queste spese mi passa un fisso mensile”.
“E dov’è il fisso mensile ora?”.
“Finito. Bruciato. Volatilizzato”.
“Sparagli una cazzata qualunque e falla finita”.
“No. Non voglio dirgli cazzate. Mio padre non è un coglione”.
“Oh, il bravo bambino non dice le bugie. Ok, allora raccontagli che hai comprato un panetto gigante di fumo da Pino il Sadico, il tuo solito fornitore, che nel quartiere tutti conoscono per i suoi gloriosi precedenti penali, perché vuoi scoparti una ragazza con i capelli rossi che se non la abbatti con una dose massiccia di pakistano non te la darà mai, poi gli spieghi che se non paghi il tuo acquisto, hai ottime probabilità di finire legato mani e piedi dentro un cassonetto e... Ah, non ti scordare di fargli notare che sei già quasi in ritardo all’appuntamento con il tuo presumibile assassino. Sono le undici meno dieci. Se è così sensibile come dici, non potrà certo risponderti di no”.
“Vaffanculo, Carlo”.
“Oh, sei tu quello ricco, no? Inventati una cosa, cazzo”.
“Basta, non me la sento. Anzi, sai che ti dico? Metti in moto, schiodiamo da qui. Se mio padre ci vede, dobbiamo pure inventarci una spiegazione...”.
“Senti, Andrea, allora non ci resta che una soluzione: andiamo da Pino e trattiamo. Gli restituiamo metà del fumo, lo preghiamo di scusarci, ammettiamo di essere dei coglioni, spieghiamo che non abbiamo trovato il resto dei soldi. Poi gli assicuriamo di non aver mai pensato che il soprannome di Sadico si riferisse in qualche modo alla sua capacità di comprensione. E vediamo che succede”.
“Escluso. Questo fumo ci serve tutto se non vogliamo passare per buffoni. Ci siamo impegnati, l’abbiamo promesso: è la tua festa, se tiriamo fuori la solita caccola del cazzo, gli amici ci prendono a calci nel culo”.
“Sai che novità! Il punto è che ti puoi scordare la bonissima tossica”.
Andrea ride di gusto: “Smettila. Non è tossica, è solo un po’... fissata”.
“Sì, certo. E allora?”.
“Idea. Vieni con me, andiamo dal Vampiro!”.
Carlo impallidisce. “No, quello no”.
“Sì. È l’unica”.
“Non se ne parla. Mi fa impressione”.
“Cazzate. Una punturina al braccio, non fare il bambino”.
“No”.
Andrea fa un ghigno da mostro feroce: “Carlo, non fare il cacasotto. Se no, te lo scordi il compleanno più allucinogeno della tua vita”.
Mancano dieci giorni alla data della festa. Programma già stabilito da mesi: aperitivo, cena esotica con piatti tipici della cucina malgascia, serata danzante e gran finale con torta di compleanno e giochi pirotecnici sul mare. Il tutto in un posto incantato, la tonnara della Belle Époque, trasformata dai proprietari ormai in bolletta in scenario di grandi eventi della buona borghesia cittadina. Mario non lo sa ancora, è una sorpresa che da due mesi Sara prepara con cura maniacale, in assoluto segreto. Una festa per i cinquant’anni di un uomo arrivato, che ama la cucina etnica, il rock dei Doors e dei Rolling Stones, i giochi pirotecnici e soprattutto va pazzo per la storica e bellissima tonnara che si specchia sul mare cristallino. Sara vuole che sia una serata perfetta.
“Tu che pensi: Mario sarà contento?”.
Lo chiede a Paola, sua amica storica ed ex compagna di scuola. Le due donne si avviano insieme verso la spiaggia. Sono già le undici del mattino. I cortili dell’arenile scoppiano di bagnanti: famiglie, ragazzi, bambini vocianti, c’è pure un cane sdraiato all’ombra di un terrazzino. Il sole è caldissimo, la sabbia bollente e l’acqua del mare tiepida; come dicono qui, è un brodo. Paola scoppia a ridere: “Certo, ma che domanda è?”.
“Boh, che ne so, magari quella sera ha voglia di una cenetta intima e s’infastidisce di ritrovarsi al centro di una mega-festa”.
“Chi? Mario? Ma se quello è nato per le feste”. Sara sospira: “Speriamo...”.
Paola adocchia un punto preciso sulla battigia. Un quadrato di spazio libero tra i corpi dei bagnanti stesi al sole. Si affretta a occuparlo, allungando il suo telo gigantesco sulla sabbia.
“Mettiamoci qui” dice, e si distende sull’asciugamano a due posti.
Sara siede accanto a lei e si guarda intorno. È circondata da corpi seminudi a perdita d’occhio. Corpi grassi, sformati, magri, palestrati, corpi di uomini e donne che giacciono inerti sull’enorme distesa di sabbia. Corpi senza vergogna: carne. Materia che risponde solo all’imperativo del bisogno: l’essenza pulsante dell’umanità. Un’oscena esibizione di materia: infinita imperfezione votata alla morte. Sara li fissa, affascinata. C’è qualcosa in quella sfrontata esposizione carnale che evoca la stessa anima della città: la totale assenza di pudore e di decoro che accompagna la sua dannazione morale.
“Che casino...”, mormora Paola. Sara distoglie a fatica lo sguardo dalla distesa di morti viventi che prendono la tintarella. Si volta verso l’amica. “E quindi, secondo te, questa idea della festa a sorpresa non è una cazzata?”.
“Ma no, dai, sarà bellissima. Non ci pensare”. Sara si butta giù. Chiude gli occhi. La sua mente si mette a correre, frenetica. Mario è suo marito, il suo super marito, quello che gli amici hanno ribattezzato Super Mario, come l’eroe del Gameboy: alto, brizzolato, brillante, simpatico, velista appassionato, ma soprattutto medico affermato. È il dottor Mario Martellini, primario di Cardiochirurgia all’Ospedale Civile, è l’uomo che ha salvato centinaia di vite, che vanta pubblicazioni sulle più auto- revoli riviste scientifiche della comunità internazionale. È anche il professionista sicuro di sé che ovunque, al microfono dei congressi nei più fantasmagorici hotel extralusso del pianeta, così come in sala operatoria o al timone della sua ipertecnologica barca, ma anche al centro di una pista nel bel mezzo di una festa rock e in qualsiasi salotto mondano, strappa entusiasmi e simpatie.
Ma Mario non è solo questo. È l’uomo di cui Sara si è innamorata a diciott’anni e che da allora non ha mollato un solo istante. Al punto che oggi lei percepisce quell’uomo come un pezzo di sé, un suo prolungamento, una parte del suo corpo oltre che della sua mente.
E la sua mente, ora, sotto il sole, viaggia alla velocità della luce. La festa di Mario. Non può che pensare a quello. Lui, sempre così perfetto, come medico, come padre, come marito e persino come maschio ancora atletico e piacente, è sempre stato un regalo inspiegabile per lei che invece si considera una donna banale, una moglie qualsiasi; ancor più adesso che, a passi lenti ma decisi, perde gli ultimi segni della giovinezza e si avvia inesorabilmente alla maturità.
Dice a voce alta: “Sto invecchiando”.
E Paola ride: “Da cosa te ne accorgi?”.
Da tante cose, pensa Sara. Poi si gira verso l’amica, apre gli occhi e con voce confidenziale, sussurra: “Per esempio, scopiamo di meno”.
Paola si solleva un po’ dal telo, interessata: “Veramente?”.
“Sì. Ufficialmente siamo sempre stanchi e stressati... ma forse non gli piaccio più”.
“Ma dai!”.
“Sì. Allora ho pensato: e se avesse un’amante?”.
“Chi? Mario? Non ci credo neanche se lo vedo. Come ti viene in mente?”.
“Da quando si è messo a fare politica, torna sempre tardissimo... Non ha mai tempo per niente”.
“È il tuo pregiudizio da veterocomunista che ti fa diventare sospettosa”.
“Ma che c’entra?”.
“C’entra. Semplice: lui diventa... di destra. E, di colpo, tu diventi gelosa”.
Sara scoppia a ridere: “Roba da psicanalisi...”.
“Dai, rilassati. Piuttosto, come vanno i preparativi per la festa?”.
“Ah, bene. Pensa: ho spedito duecento inviti”.
“Pure i fascisti hai invitato?”.
“Sì, che credi? Tutti. Compreso Pandoni. Lo vedi come sono diventata tollerante?”.
“Smettila. Non sei mai stata tollerante”.
“Sì, ma hai visto come sono finita? Col marito buttato a destra, coi liberisti in doppiopetto e cravattone. Che c’entro io con questi?”.
Quante domande. Sara crede ancora all’amore di Mario? Ci ha ciecamente creduto, a vent’anni. E ora? Sorride di sé a mezza bocca, poi di colpo, senza una ragione, i suoi pensieri prendono una direzione più seriosa: certo che le cose sono cambiate. Da quando ha fatto quella scelta politica, Mario pare un alieno, un estraneo. È stato in quel momento che lei ha cominciato a interrogarsi su di lui e sul loro matrimonio.
“Secondo te, perché Mario all’improvviso ha abbracciato questa svolta politica così assurda? Io la definirei proprio dissonante rispetto alla storia della mia famiglia”.
Paola si ridistende, stavolta a pancia in su. “Sai che dicono tutti? Che si è scocciato di fare il genero di De Santis”.
“Ah, dicono questo?”.
“Sì. Tuo padre è sempre stato una figura troppo importante per tutti. Per te, per lui... soprattutto per lui”.
“Ma, scusa, in che senso?”.
“Senatore. Comunista. Membro di diecimila commissioni: servizi segreti, stragi, P2, che ne so...”.
“Solo P2. Un sacco di anni fa”.
“Insomma, voglio dire: per lui è stato una specie di totem”.
“Ingombrante?”.
“Ecco”.
“E quindi credi che prendere la tessera di Italia Nuova sia stato un modo per liberarsi di mio padre?”.
“Mah, può essere”. Sara tace.
Paola la scuote: “Beh? E ora che pensi?”.
“Che questa festa di cinquant’anni è un po’ come un bilancio della nostra vita insieme: mi fa riflettere su tante cose...”.
5.
Carlo è sdraiato sulla grande poltrona in similpelle. Un infermiere gli ha appena inserito un ago nella vena e sta controllando che il tubicino di gomma, dove il sangue rosso viene pompato a piccoli scatti, riempia senza fermarsi la sacca di plastica trasparente appesa al bracciolo.
Andrea è seduto vicino a lui, in silenzio.
Carlo è pallido, non si muove, si limita ad aprire e chiudere la mano del braccio trafitto, come gli ha detto l’uomo in camice bianco.
“Cazzo, la odio ’sta cosa”, sussurra per non farsi sentire. Andrea sorride. “Dai, è solo una punturina e fra poco è finita”.
“Quelli sono arrivati?”.
“No, arrivano fra dieci minuti”.
Carlo ha un’espressione sconvolta. “Questa è l’ultima volta. A parte che mi fa impressione... quello che facciamo è proprio una porcata”.
“Lo so, lo so. Stai calmo”.
“No, guarda che non scherzo. È l’ultima volta”.
Andrea fissa l’orologio. “È già mezzogiorno. Dammi il telefonino, chiamo il Sadico e lo avverto del ritardo”.
“Sì, sì, per carità, chiamalo subito. Ci manca pure che quello ci carica di legnate. Già mi sento così debole...”.
Andrea prende il cellulare dell’amico, si allontana in corridoio, seleziona un numero dalla rubrica, parla per qualche minuto.
Carlo si guarda il braccio, la vena gonfia, il sangue pulsante che corre via nel tubicino, la sacca già quasi piena, ed è sopraffatto dalla nausea.
“Fatto”, sorride Andrea tornando nella stanza.
“Che ha detto?”.
“Che ci aspetta al solito posto, tra un’ora”.
“Quanto facciamo?”.
“Cento. Quello che ci manca. Il giusto”.
“Il giusto un cazzo”.
“Oh, non ti metterai a fare il moralista, ora?”.
“Scusa, sai, se mi permetto di esprimere la mia opinione. Il sangue è tuo o mio?”.
“Tuo, ovvio. Sei tu quello che ha il gruppo perfetto”.
Carlo inavvertitamente muove il braccio con l’ago e fa una smorfia di dolore: “Che schifo, vendere il sangue è proprio la più schifosa delle cose”.
“Ssshhh! Sei pazzo? Stai zitto, mi sa pure che è illegale”.
L’infermiere si avvicina: “Stai fermo, non devi agitarti, se l’ago scappa è un guaio”.
“Mi scusi, sì, ha ragione”.
L’uomo controlla ancora la sacca: “Pochi minuti e tolgo tutto”.
Andrea si alza di scatto. Ha visto dietro la vetrata le persone che aspettava. Fa un cenno a Carlo: “Eccoli”. Poi esce dalla stanza e va loro incontro.
I due, un uomo e una donna, gli sorridono: “Buongiorno”.
Il ragazzo coi ricci indica l’amico sulla poltrona: “Ecco il donatore, come al solito”.
L’uomo prende il portafogli dalla tasca dei pantaloni.
Andrea lo ferma: “Aspetti, scusi, andiamo fuori”.
Sul vialetto del centro raccolta, sotto un sole infuocato, l’uomo consegna cento euro al ragazzo. Poi, senza sorridere, lo guarda negli occhi e mormora: “Grazie”.
“Grazie a lei, si figuri. Se ha bisogno, sa dove cercarmi”.
L’uomo si siede sulla panchina, seguito dalla donna, che stringe un fazzoletto in mano. Non parlano, lui guarda l’orologio. Aspettano che la donazione sia finita per prendere la sacca di sangue.
Andrea rientra, mentre Carlo, già in piedi, sta controllando le condizioni della propria vena bucata.
“Finito!”, dice sollevato.
Andrea gli dà una pacca sulla spalla e si avvicina all’infermiere: “Allora, la sacca gruppo 0 RH negativo è per il signor Lodetti, Valerio Lodetti, che è già arrivato ed è pronto a ritirare”. L’infermiere annuisce. “Sì, sì, l’ho già scritto”.
Poi il prelevatore sorride a Carlo e lo saluta: “Bravo, sei proprio un bravo ragazzo. Fossero tutti come te...”. Carlo, un po’ pallido, non sorride, gli stringe la mano e si infila nel corridoio in direzione dell’uscita. Si volta solo un attimo verso Andrea, poi sussurra: “Sono una merda. Siamo due merde”.
“Ma smettila. Siamo bravi ragazzi”.
I due varcano il portone del reparto, mentre i Lodetti fanno per entrare. L’uomo e Carlo si scambiano solo un cenno di saluto con la mano. La donna piange in silenzio e non lo guarda neppure.
6.
Mario Martellini si vanta di essere sempre stato una persona umile. Gli piace un sacco sgranare il rosario della sua triste storia di ragazzo di paese, di studente fuorisede, inurbato diciottenne in città, che ha dovuto lottare da solo, senza arte né parte, con le uniche doti della propria intelligenza e della propria disciplina, contro il muro di ostilità eretto dai baronati, dalle consorterie, prima universitarie, poi ospedaliere, quei protettorati invisibili che in tutti gli ambiti professionali, ma soprattutto nel campo della medicina, dappertutto in Italia, funzionano da sele- zionatori infallibili nei processi di formazione delle classi dirigenti: per garantire continuità alle consolidate dinastie professionali e per tagliare le gambe a tutti i cani sciolti, a quelli come lui, che non appartengono a nessuno e non hanno nessuno a proteggerli.
Mario, veramente, si è protetto benissimo da sé. Si è protetto bene giocando le carte delle sue innegabili abilità e in città c’è chi dice che si è protetto ancora meglio sposando Sara.
Ah, ecco alla fine cosa rode a Sara. Sì, pensa, proprio lei, la ragazza qualsiasi, non la più bella, né la più seducente, ma forse la più corteggiata, ha giocato un ruolo determinante nella scalata umana e professionale di Super Mario.
È come un film che si srotola nella sua mente a velocità accelerata. Quando lo aveva conosciuto, proprio nella borgata marinara delle ville liberty, zona da ricchi, più o meno a cinquanta metri dalla spiaggia dove ora è sdraiata a occhi chiusi, era una sera d’estate. Era una festa di compleanno, quella di un compagno di Sara, un ragazzo del liceo classico meglio frequentato della città. Era il 1982, ed era luglio, lei stava per partire per Londra, aveva appena fatto gli esami di maturità e compiuto diciott’anni. Mario ne aveva venticinque ed era al primo anno della scuola di specializzazione. Lei non sapeva nulla di lui. Era una ragazza timida, scontrosa, secca e bionda, e aveva la fama di una vergine di ferro. Lui invece era bello e fascinoso, con un sacco di fanciulle pronte a offrirglisi su un piatto d’argento. Era capitato a quella festa di liceali ricchi con il suo amico Roberto per rimorchiare, ma si stava annoiando. Poi aveva adocchiato lei, la bionda solitaria seduta in salotto con un libro in mano, e aveva chiesto al suo amico chi fosse.
“Minchia, è la figlia di De Santis”.
Mario non aveva mai sentito parlare di De Santis. Lui, all’epoca troppo impegnato nella sua carriera studentesca, non aveva il tempo di seguire le cronache politiche.
“E chi è ’sto De Santis?”.
“Ma come? Il senatore comunista, quello che non ride mai. E lei è peggio del padre”.
“Cioè?”.
“Seria, tutta impegno e militanza. Una suora”.
A scuola, la timida e riservata Sara era per tutti la figlia di De Santis, ovvero del senatore Ettore De Santis, detto Stalin, autorevole esponente del partito storico della sinistra, fiero paladino dell’antimafia, un pilastro dell’opposizione parlamentare che viveva facendo la spola tra Palazzo Madama e la sua strepitosa dimora con terrazza affacciata sul mare: un enorme appartamento seicentesco, con tanto di loggia, volte a crociera e affreschi d’epoca, nel cuore del centro storico.
Roberto aveva aggiunto: “E non è tutto: quella ragazza è pure nobile”.
Il compagno De Santis, infatti, aveva sposato nel Sessanta la bellissima Carolina Lanzarotta, principessa di antico lignaggio, ultima esponente di un’aristocrazia purissima ma inesorabilmente decaduta, senza il becco di un quattrino, erede di una tipica famiglia blasonata del Sud che aveva dilapidato l’immenso patrimonio nell’arco di cinquant’anni svendendo latifondi, ma anche ville e terreni del perimetro urbano, ai palazzinari del sacco edilizio, ed era rimasta in possesso solo delle briciole: i resti fatiscenti delle antiche dimore, qualche casa padronale di campagna, ormai cadente, circondata da uliveti e giardini abbandonati. Era quel che restava dei feudi smembrati da successive lottizzazioni e vendite, testimonianza postuma di una magnificenza non più all’altezza dei tempi.
De Santis, Lanzarotta. Mario scontava la sua origine paesana. Non sapeva un tubo di quelle dinastie altolocate. La storia da rotocalco locale che circondava quella ragazza secca e timida lo aveva però incuriosito. L’aveva spiata da lontano. Qualcosa di irregolare impediva di definirla bella, ma le dava un certo magnetismo: il volto molto elegante, plastico, era unico. Mario aveva subito deciso di conoscerla.
“Tuo padre lo sa che leggi libri del genere?”, le aveva chiesto.
Sara aveva sollevato lo sguardo e lo aveva fulminato con un pensiero chiarissimo: chi è quest’idiota che si permette, senza nemmeno conoscermi, di tirare in ballo mio padre? Poi lo aveva fissato per bene e capito subito, con un’occhiata, che l’idiota era anche un poveraccio. Qualcosa di imperfetto nella camicia di lui, nei suoi pantaloni, qualcosa che non ricordava più o che aveva rimosso, denunciava la sua origine semplice, plebea, in modo così inequivocabile che lei si era vergognata come una ladra di sé e del proprio classismo. Solo per quello, invece di mandarlo a fanculo, si era sforzata di apparire gentile.
“Prego?”.
“Mishima. Lo specchio degli inganni”. “Sì?”.
“Mishima, il guerriero del Sol levante, il samurai fascista, il nazionalista nostalgico, il conservatore decadente. Lo sapevi che Moravia, il mitico Moravia, dopo averlo incontrato nella sua casa di Tokio lo ha definito così?”.
“No”.
“È un libro proibito a casa tua?”.
“Perché, scusa?”.
“Non sei la figlia di un autorevole maestro del comunismo militante?”.
“Beh, e allora?”.
“Come, allora? Questo è Mishima! Sai chi è Mishima?”.
Lei aveva girato il volume e letto dalla quarta di copertina: Yukio Mishima è uno dei più apprezzati autori giapponesi. Le sue numerosissime opere spaziano dal romanzo alle forme di teatro tradizionale giapponese Kabuki e Nō, quest’ultimo rivisitato in chiave moderna, al saggio.
Lui aveva sorriso: “E poi? Prosegui...”.
Lei aveva continuato: “Personaggio difficile e complesso, Mishima è stato spesso travisato in Europa ed etichettato genericamente come fascista. Con la sua tragica morte avvenuta nel 1970, quando aveva 45 anni, con il suicidio rituale (seppuku), durante l’occupazione simbolica di una caserma, suggellò la conclusione insieme della sua vita e della sua vicenda letteraria. Stop. Ecco qua. Sei contento ora?”.
“Praticamente un nazista. I compagni lo hanno messo al bando da tempo, compreso Moravia, che si è dovuto scapicollare a Tokio per studiarlo e poter dire la sua”.
“Sei sicuro? Quest’ultima cosa non mi risulta”.
Mario era scoppiato a ridere: “Infatti l’ho appena inventata”.
Sara si era drizzata a sedere e lo aveva guardato dritto negli occhi: “Appunto. E poi, scusa, tuo padre che lavoro fa?”.
Lui, a quel punto, era impallidito. Se c’era una cosa che Mario detestava, era parlare di sé, della sua famiglia, di suo padre e di sua madre, due esseri di cui si vergognava furiosamente.
“Niente di che. È impiegato al Banco del Credito”.
Aveva tralasciato di specificare che l’agenzia dell’istituto di credito che dava loro da vivere era quella di Castelmonte, un paesino della zona orientale, brutto, povero e incolto, il centro agricolo che aveva dato i natali a lui e a tutta la sua famiglia, che dalle più lontane origini era composta da braccianti e contadini, gli stessi che con buona probabilità avevano servito nei secoli gli avi di Sara.
Sara non aveva fatto commenti. “E tu che fai?”.
Mario aveva ripreso colore: “Studio Medicina, mi sto specializzando in Cardiochirurgia”.
“Visto?”, aveva detto lei, alzando le spalle.
Lui era rimasto a guardarla, confuso. “Visto che?”.
“Sono sicura che tu e tuo padre siete due tipi ben diversi e che... leggete cose diverse”.
Lui era scoppiato a ridere: “Sei strana, tu”.
Sara si era mostrata indifferente. “Hai citato mio padre. Lo conosci?”.
“Sì, cioè... no”. Stavolta lui era arrossito di brutto. “Di nome. Chi non lo conosce?”.
Lei aveva proseguito spietata, e anche profondamente annoiata dalla leggenda scolastica che circondava le sue origini aristo-comuniste: “Sai anche chi è mia madre?”.
“Sì, me l’hanno detto. Perché, ti dispiace?”.
“No, figurati. Ma tu che sai tutto: conosci per caso anche il mio nome di battesimo?”.
Mario a quel punto era diventato paonazzo. “Ehm... No, non ancora. Come ti chiami?”.
“Scusa, che ti importa? Sono la figlia di De Santis, no?”.